Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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ANNO 2020

 

LA CULTURA

 

ED I MEDIA

 

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Benefattori dell’Umanità.

I Nobel italiani.

Scienza ed Arte.

Il lato oscuro della Scienza.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

L’Estinzione dei Dinosauri.

Il Computer.

Il Metaverso: avatar digitale.

WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

L’E-Mail.

La Memoria: in byte.

Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

Gli Hackers.

L’Algocrazia.

Viaggio sulla Luna.

Viaggio su Marte.

Gli Ufo.

Il Triangolo delle Bermuda.

Il Corpo elettrico.

L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

I Fari marittimi.

Non dare niente per scontato.

Le Scoperte esemplari.

Elio Trenta ed il cambio automatico.

I Droni.

Dentro la Scatola Nera.

La Colt.

L’Occhio del Grande Fratello.

Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Margherita Hack.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Cervello.

L’’intelligenza artificiale.

Entrare nei meandri della Mente.

La Memoria.

Le Emozioni.

Il Rumore.

La Pazzia.

Il Cute e la Cuteness. 

Il Gaslighting.

Come capire la verità.

Sesto senso e telepatia.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Ignoranza.

La meritocrazia.

La Scuola Comunista.

Inferno Scuola.

La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

I prof da tastiera.

Università fallita.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mancinismo.

Le Superstizioni.

Geni e imperfetti.

Riso Amaro.

La Rivoluzione Sessuale.

L'Apocalisse.

Le Feste: chi non lavora, non fa l’amore.

Il Carnevale.

Il Pesce d’Aprile.

L’Uovo di Pasqua.

Ferragosto. Ferie d'agosto: Italia mia...non ti conosco.

La Parolaccia.

Parliamo del Culo.

L’altezza: mezza bellezza.

Il Linguaggio.

Il Silenzio e la Parola.

I Segreti.

La Punteggiatura.

Tradizione ed Abitudine.

La Saudade. La Nostalgia delle Origini.

L’Invidia.

Il Gossip.

La Reputazione.

Il Saluto.

La società della performance, ossia la buona impressione della prestazione.

Fortuna e spregiudicatezza dei Cattivi.

I Vigliacchi.

I “Coglioni”.

Il perdono.

Il Pianto.

L’Ipocrisia. 

L’Autocritica.

L'Individualismo.

La chiamavano Terza Età.

Gioventù del cazzo.

I Social.

L’ossessione del complotto.

Gli Amici.

Gli Influencer.

Privacy: la Privatezza.

La Nuova Ideologia.

I Radical Chic.

Wikipedia: censoria e comunista.

La Beat Generation.

La cultura è a sinistra.

Gli Ipocriti Sinistri.

"Bella ciao": l’Esproprio Comunista.

Antifascisti, siete anticomunisti?

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Nullismo e Il Nichilismo.

Il Sud «condannato» dai suoi stessi scrittori.

La Cancel Culture.

L’Utopismo.

Il Populismo.

Perché esiste il negazionismo.

L’Inglesismo.

Shock o choc?

Caduti “in” guerra o “di” guerra?

Kitsch. Ossia: Pseudo.

Che differenza c’è tra “facsimile” e “template”?

Così il web ha “ucciso” i libri classici.

Ladri di Cultura.

Falsi e Falsari.

La Bugia.

Il Film.

La Poesia.

Il Podcast.

L’UNESCO.

I Monuments Men.

L’Archeologia in bancarotta.

La Storia da conoscere.

Alle origini di Moby Dick.

Gli Intellettuali.

Narcisisti ed Egocentrici.

"Genio e Sregolatezza".

Le Stroncature.

La P2 Culturale.

Il Mestiere del Poeta e dello scrittore: sapere da terzi, conoscere in proprio e rimembrare.

"Solo i cretini non cambiano idea".

Il collezionismo.

I Tatuaggi.

La Moda.

Le Scarpe.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Achille Bonito Oliva.

Ada Negri.

Albert Camus.

Alberto Arbasino.

Alberto Moravia e Carmen Llera Moravia.

Alberto e Piero Angela.

Alessandro Barbero.

Andrea Camilleri.

Andy Warhol.

Antonio Canova.

Antonio De Curtis detto Totò.

Antonio Dikele Distefano.

Anthony Burgess.

Antonio Pennacchi.

Arnoldo Mosca Mondadori.

Attilio Bertolucci.

Aurelio Picca.

Banksy.

Barbara Alberti.

Bill Traylor.

Boris Pasternak.

Carmelo Bene.

Charles Baudelaire.

Dan Brown.

Dario Arfelli.

Dario Fo.

Dino Campana.

Durante di Alighiero degli Alighieri, detto Dante Alighieri o Alighiero.

Edmondo De Amicis.

Edoardo Albinati.

Edoardo Nesi.

Elisabetta Sgarbi.

Vittorio Sgarbi.

Emanuele Trevi.

Emmanuel Carrère.

Enrico Caruso.

Erasmo da Rotterdam.

Ernest Hemingway.

Eugenio Montale.

Ezra Pound.

Fabrizio De Andrè.

Federico Palmaroli.

Federico Sanguineti.

Federico Zeri.

Fëdor Michajlovič Dostoevskij.

Fernanda Pivano.

Filippo Severati.

Fran Lebowitz.

Francesco Grisi.

Francesco Guicciardini.

Gabriele d'Annunzio.

Galileo Galilei.

George Orwell.

Giacomo Leopardi.

Giampiero Mughini.

Giancarlo Dotto.

Giordano Bruno Guerri.

Giorgio Forattini.

Giovannino Guareschi.

Gipi.

Giorgio Strehler.

Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Grazia Deledda.

J.K. Rowling.

James Hansen.

John Le Carré.

Jorge Amado.

I fratelli Marx.

Leonardo Da Vinci.

Leonardo Sciascia.

Lisetta Carmi.

Luciano Bianciardi.

Luigi Pirandello.

Louis-Ferdinand Céline.

Luis Sepúlveda.

Marcel Proust.

Marcello Veneziani.

Mario Rigoni Stern.

Mauro Corona.

Michela Murgia.

Michelangelo Buonarotti.

Milo Manara.

Niccolò Machiavelli.

Oscar Wilde.

Osip Ėmil’evič Mandel’štam.

Pablo Picasso.

Paolo Di Paolo.

Paolo Ramundo.

Pellegrino Artusi.

Philip Roth.

Philip Kindred Dick.

Pier Paolo Pasolini.

Primo Levi.

Raffaello.

Renzo De Felice.

Richard Wagner.

Rino Barillari.

Roberto Andò.

Roberto Benigni.

Roberto Giacobbo.

Roberto Saviano.

Rosa Luxemburg, l’allieva di Marx.

Rosellina Archinto.

Sabina Guzzanti.

Salvador Dalì.

Salvatore Quasimodo.

Salvatore Taverna.

Sandro Veronesi.

Sergio Corazzini.

Sigmund Freud.

Stephen King.

Teresa Ciabatti.

Tonino Guerra.

Umberto Eco.

Victor Hugo.

Virgilio.

Vivienne Westwood.

Walter Siti.

Walter Veltroni.

William Shakespeare.

Wolfgang Amadeus Mozart.

Zelda e Francis Scott Fitzgerald.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo.

Il DDL Zan: la storia di una Ipocrisia. Cioè: “una presa per il culo”.

La corruzione delle menti.

La TV tradizionale generalista è morta.

La Pubblicità.

La Corruzione dell’Informazione.

L’Etica e l’Informazione: la Transizione MiTe.

Le Redazioni Partigiane.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Censura.

Diritto all’Oblio: ma non per tutti.

Le Fake News.

Il Nefasto Politicamente Corretto.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Satira.

Il Conformismo.

Professione: Odio.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Reporter di Guerra.

Giornalismo Investigativo.

Le Intimidazioni.

Stampa Criminale.

Il Processo Mediatico: Condanna senza Appello.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Corriere della Sera.

«L’Ora» della Sicilia.

Aldo Cazzullo.

Aldo Grasso.

Alessandra De Stefano.

Alessandro Sallusti.

Andrea Purgatori.

Andrea Scanzi.

Angelo Guglielmi.

Annalisa Chirico.

Barbara Palombelli.

Bianca Berlinguer.

Bruno Pizzul.

Bruno Vespa.

Carlo Bollino.

Carlo De Benedetti.

Carlo Rossella.

Carlo Verdelli.

Cecilia Sala.

Concita De Gregorio.

Corrado Augias.

Emilio Fede.

Enrico Mentana.

Eugenio Scalfari.

Fabio Fazio.

Federica Angeli.

Federica Sciarelli.

Federico Rampini.

Filippo Ceccarelli.

Filippo Facci.

Franca Leosini.

Francesca Baraghini.

Francesco Repice.

Franco Bragagna.

Furio Colombo.

Gad Lerner.

Giampiero Galeazzi.

Gianfranco Gramola.

Gianni Brera.

Giovanna Botteri.

Giulio Anselmi.

Hoara Borselli.

Ilaria D'Amico.

Indro Montanelli.

Jas Gawronski.

Giovanni Minoli.

Lilli Gruber.

Marco Travaglio.

Marie Colvin.

Marino Bartoletti.

Mario Giordano.

Massimo Fini.

Massimo Giletti.

Maurizio Costanzo.

Melania De Nichilo Rizzoli.

Mia Ceran.

Michele Salomone.

Michele Santoro.

Milo Infante.

Myrta Merlino.

Monica Maggioni.

Natalia Aspesi.

Paola Ferrari.

Paolo Brosio.

Paolo Crepet.

Paolo Del Debbio.

Peter Gomez.

Piero Sansonetti.

Roberta Petrelluzzi.

Roberto Alessi.

Roberto D’Agostino.

Rosaria Capacchione.

Rula Jebreal.

Selvaggia Lucarelli.

Sergio Rizzo.

Sigfrido Ranucci.

Tiziana Rosati.

Toni Capuozzo.

Valentina Caruso.

Veronica Gentili.

Vincenzo Mollica.

Vittorio Feltri.

Vittorio Messori.

 

 

 

 

 

LA CULTURA ED I MEDIA

PRIMA PARTE

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        I Benefattori dell’Umanità.

Sapete chi è Henrietta Lacks? Grazie alle sue cellule abbiamo farmaci e vaccini. Elisa Manacorda su La Repubblica il 24 ottobre 2021. La donna della Virginia, madre di cinque figli, morì nel 1951 di cancro della cervice. Le sue cellule, prelevatele a sua insaputa, avevano caratteristiche straordinarie. E sono utili ancora oggi. Fino a non molto tempo fa, per i non addetti ai lavori era solo una giovane donna nera della Virginia, madre di cinque figli e morta nel 1951 di cancro della cervice a soli 31 anni. Oggi Henrietta Lacks è celebrata ovunque come una delle persone più importanti della ricerca in biomedicina. Grazie a lei oggi abbiamo il vaccino contro la poliomielite, abbiamo strumenti molto più potenti contro il cancro della cervice e molti altri tipi di tumore, nuovi farmaci contro l'Aids, l'emofilia, il Parkinson.

Lo scienziato moriva il 3 marzo 1993. Albert Sabin, l’inventore del vaccino anti-polio che rinunciò al brevetto: “Lo dono ai bimbi del mondo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Il 3 marzo del 1993 moriva a 86 anni all’ospedale della Georgetown University di Washington Bruce Albert Sabin. È diventato famoso anche come “l’uomo della zolletta di zucchero”: era stato infatti lui a ideare il più diffuso vaccino contro la poliomielite che veniva somministrato con una zolletta imbevuta. Il suo nome viene spesso citato in questi giorni per via della pandemia da coronavirus, dell’andamento lento della campagna vaccinale, dei brevetti: chi propone di condividerli e chi dice che è impossibile. “È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse invece Sabin che visse una vita piuttosto rocambolesca, spesso drammatica. Non ha mai vinto il Premio Nobel per la Medicina ma è finito nel ritornello della canzone del film Mary Poppins con quel “poco di zucchero e la pillola va giù”. Un inno, allegro e inconsapevole, alla sconfitta di un’epidemia tragica.  Sabin era nato nel 1906 nel ghetto di Bialystok, in Polonia, una città parte dell’Impero Russo. Quando aveva 15 anni era partito con la famiglia per gli Stati Uniti. Il padre Jacob era artigiano: aveva deciso di partire per via della crescente ostilità anti-ebraica che si andava diffondendo in Europa. Bruce Albert fin dalla nascita era quasi cieco dall’occhio destro. Con l’appoggio dello zio, divenne un promettente studente di odontoiatria alla New York University. Quando però lesse il libro I cacciatori di microbi di Paul de Kruif cambiò idea: non più dentista, ma medicina. Microbiologia, per la precisione: un’epifania. L’aneddotica sulla sua vita racconta che andasse perfino raccogliendo microbi per la città, lì dove capitava: stagni, polvere, cassonetti della spazzatura e via dicendo. Sabin si laureò, divenne capo della ricerca pediatrica, assistente di William Hallock Park, celebre per gli studi sulla difterite. Approfondì quindi lo studio delle malattie infettive: la poliomielite era una piaga in quegli anni. La malattia virale aveva paralizzato tra il 1951 e il 1955 oltre 28mila bambini. Diverse migliaia le vittime. Nel solo 51 negli USA aveva colpito 21mila persone; in Italia oltre 8mila nel 1958. La poliomielite colpisce il sistema nervoso centrale e in particolare i neuroni del midollo spinale. Il contagio avviene per via oro-fecale: ingestione di acqua o cibi contaminati o tramite la saliva e le goccioline emesse con i colpi di tosse e gli starnuti da soggetti ammalati o portatori sani. La fascia più a rischio sono i bambini sotto i cinque anni di età. L’1% dei malati sviluppano paralisi, il 5-10% una meningite asettica. Un vaccino annunciato negli Stati Uniti nel 1934 si era rivelato inefficace, anzi letale. Il Presidente Franklin Delano Roosvelt il 3 gennaio del 1938, costretto su una sedia a rotelle con una diagnosi di poliomielite – che in seguito sarebbe stata contestata – scrisse un appello sui quotidiani e fondò la National Foundation for Infantile Paralysis allo scopo di raccogliere fondi per la lotta alla malattia. La campagna, alimentata anche da volti noti, fece esplodere l’attenzione sulla poliomielite. Sabin era uno scienziato rigoroso, egocentrico, intransigente. Un’esplosione di contagi a New York lo aveva spinto a studiare la polio. Lo fece dal 1931 all’University of Cincinnati, nello stato dell’Ohio. Il suo primo grande risultato fu capire che non si trattava di un virus respiratorio: ma che vive e si moltiplica nell’intestino. Aveva inaugurato l’epoca degli enterovirus. Ma allo scoppio della II Seconda Guerra Mondiale Sabin partì come ufficiale medico: sbarcò in Sicilia e poi a Okinawa, in Giappone; a Berlino aveva intanto assistito a una terribile epidemia di polio. Quando tornò in America riprese le sue ricerche armando un laboratorio con 10mila topi e 160 scimpanzé. Mise a punto così un vaccino che si basava su ceppi indeboliti e che andava somministrato per via orale. Ma Jonas Salk, ricercatore della University of Pittsburgh, aveva realizzato intanto tre vaccini, uno per ogni tipo fondamentale di polio, a partire da virus uccisi e conservati in formalina, che gli USA nel 1952 approvarono. Il farmaco di Salk tuttavia non preveniva il contagio iniziale e veniva somministrato tramite iniezione. A chiamare in causa gli sforzi di Sabin fu l’Unione Sovietica che, con altri Paesi dell’Est europeo, richiese allo scienziato di sperimentare il farmaco sulla sua popolazione. Fu un successo: il primo Paese a produrlo su scala industriale fu la Cecoslovacchia, poi la nativa Polonia, l’Urss stessa, la Repubblica Democratica Tedesca e la Jugoslavia. L’autorizzazione in Italia arrivò nel 1963, dal 1966 il vaccino divenne obbligatorio. In ritardo arrivarono anche gli Stati Uniti. Si vaccinarono milioni di bambini in tutto il mondo. L’ultimo caso negli Usa risale al 1979, in Italia al 1982. Sabin divenne molto celebre: ricevette 40 lauree honoris causa, il Premio Feltrinelli, la Medaglia Nazionale per la Scienza. Divenne anche presidente del Weizmann Institute of Science di Rehovot, in Israele, e dopo la pensione continuò a studiare i tumori, il morbillo e la leucemia. “Non dobbiamo morire in maniera troppo miserabile – diceva – La medicina deve impegnarsi perché la gente, arrivata a una certa età, possa coricarsi e morire nel sonno senza soffrire”. Se dolce come lo zucchero era il suo farmaco, altrettanto non era lui a quanto pare: dai modi spesso burberi, anche per una vita fin dall’infanzia segnata da drammatici sconvolgimenti. Che non finirono in età adulta: la sua prima moglie, madre delle figlie Amy Deborah – chiamate come le nipoti uccise dalle SS durante la guerra – si tolse la vita trangugiando barbiturici nel 1966. Eredi dello scienziato vivono in Italia, tra Milano, Biella e Bologna. “Il vaccino di Sabin – si legge sul sito dell’Istituto Superiore di Sanità – somministrato fino ad anni recenti anche in Italia, ha permesso di eradicare la poliomielite in Europa ed è raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità nella sua campagna di eradicazione della malattia a livello mondiale”. Se Sabin così spesso viene tirato in causa in questi giorni è per la sua decisione di non brevettare la sua invenzione, rinunciando allo sfruttamento commerciale dell’industria farmaceutica. “Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo”, disse e non guadagnò un dollaro dalla sua scoperta. Donò i ceppi virali all’Urss, superando le gare sull’orlo della Cortina di Ferro, tra Usa e Urss, in piena Guerra Fredda, e continuò a vivere del suo stipendio da professore. Molti lo tirano quindi in ballo per la campagna vaccinale, e la penuria di farmaci, contro il coronavirus che avanza a fatica in queste settimane, questi mesi. La questione è argomento di dibattito ormai da mesi. Oxfam ed Emergency hanno scritto un appello al governo per la liberalizzazione dei brevetti “ponendo fine al monopolio delle case farmaceutiche. A cominciare dal vaccino italiano Reithera, in dirittura d’arrivo”. Un brevetto riconosce un monopolio: un’esclusiva di produzione, uso e vendita. Vale di solito 20 anni. Questo meccanismo è considerato da molti economisti ed esperti un incentivo per investire nella ricerca. È anche vero però che molte ricerche vengono – e sono state, nel caso specifico – finanziate da ingenti investimenti pubblici. I vaccini sono anche farmaci poco redditizi rispetto a quelli che vengono assunti per una malattia cronica. I governi hanno in effetti la possibilità di sospendere momentaneamente il monopolio, da Risoluzione 58.5 dell’Assemblea Mondiale della Sanità (Ams). Una strada alternativa, come ha ricordato il Post in un lungo e approfondito articolo sulla questione, potrebbe essere una licenza su base volontaria da parte delle aziende farmaceutiche che permetta la produzione ad altre società. Il dibattito è comunque molto più complesso di così e si ramifica in tutti i brevetti che possono esserci dentro un solo vaccino, nelle norme per gli stabilimenti industriali, negli accordi e le collaborazioni tra case farmaceutiche (Sanofi e Novartis si occupano dell’imballaggio e del confezionamento dei lotti di Pfizer e BioNTech, per esempio), nelle autorizzazioni in arrivo per altri vaccini.

·        I Nobel italiani.

Giovanni Battista Grassi è il “nobel negato” che svelò il segreto della malaria. Riccardo Chiaberge su l'Inkiesta il 14 Ottobre 2021. Il medico italiano (1854-1925, lombardo ma vissuto a Roma) dimostrò che la trasmissione dell’infezione avveniva dalla zanzara anofele all’uomo, sventando la teoria dell’aria malsana come veicolo di contagio. Uno dei classici sempreverdi delle pagine culturali è il pezzo sui Nobel negati. Ogni anno in questa stagione qualcuno deve farsene carico, spesso su richiesta del direttore, soprattutto quando, come succede quasi sempre, non c’è nessun italiano tra i premiati (quest’anno, con Giorgio Parisi, è stato una felice eccezione). E allora parte la carrellata dei trombati illustri: Joyce, Tolstoj, Borges, Virginia Woolf, Philip Roth… E la geremiade sui nostri grandi ingiustamente esclusi, da Ungaretti a Moravia. Maledetti svedesi! In compenso l’hanno dato a Dario Fo, che non era degno! Ricordo un tale che negli anni Ottanta ne aveva fatto una missione, e ai primi refoli d’autunno martellava tutti i capiredattori della cultura d’Italia per patrocinare la causa del poeta Mario Luzi, a suo dire boicottato da una satanica consorteria, il cui grande burattinaio sarebbe stato chissà perché un noto ambasciatore e storico. Che poi, anche ammesso che il complotto fosse reale, non era chiaro come riuscisse a condizionare l’Accademia di Stoccolma. Sta di fatto che il povero Luzi passò a miglior vita senza vedere l’agognato (e forse meritato) alloro. Confesso di non avere mai capito questa ossessione per il Nobel della letteratura, assegnato il più delle volte sulla base di un discutibile manuale Cencelli geopolitico, o peggio dei capricci di qualche traduttore scandinavo. Ben più serie sono le esclusioni immotivate in campo scientifico, dove dovrebbe regnare un rigoroso criterio meritocratico. Uno dei casi più assurdi e scandalosi è quello di Giovanni Battista Grassi. Mai sentito? Infatti nessuno ne parla. Eppure il suo nome dovrebbe tornare alla ribalta in questi tempi di pandemia, tanto più dopo che l’Oms ha dato il via libera al primo vaccino contro la malaria. Perché della lotta alla malaria Grassi è stato uno dei pionieri, forse il più grande di tutti. Fu il medico italiano (1854-1925, lombardo di nascita, ma vissuto a Roma) a dimostrare la trasmissione dell’infezione dalla zanzara anofele all’uomo, mandando definitivamente al macero la vecchia teoria dei “miasmi”, dell’aria malsana come veicolo di contagio. Altri prima di lui, tra cui Robert Koch, il padre tedesco della batteriologia, avevano sospettato che l’insetto fosse in qualche modo coinvolto. Ma non erano mai arrivati a risultati probanti. Il francese Alphonse Laveran, nel 1880, aveva scoperto i plasmodi, microorganismi responsabili della “febbre palustre”, senza però individuare la particolare specie di zanzara che fa da vettore. Nell’ottobre del 1898 Grassi e i suoi colleghi compiono il passo decisivo: catturano un bel po’ di anofeli nel delta del Tevere e gli offrono in pasto un paziente affetto da plasmodio falciforme, quello che provoca la forma più grave di malaria. Poi mettono le zanzare così infettate nella camera di un volontario sano. Dieci giorni dopo, l’uomo sviluppa i sintomi della malattia. È la prova regina che Grassi stava cercando. Seguono, l’anno successivo, esperimenti su larga scala a Pian Capaccio, in Campania, una delle peggiori zone malariche d’Italia. Che confermano definitivamente la nuova teoria. I plasmodi della malaria non circolano liberamente nell’ambiente, in nessuno stadio della loro esistenza: vivono in un circuito chiuso tra il corpo umano e quello dell’insetto, tra l’ospite intermedio e quello finale. Una scoperta da Nobel, non vi pare? E invece no. Negli stessi anni (tra il 1895 e il ’97) in India, senza comunicare in nessun modo con Grassi, un medico britannico, Ronald Ross, fa anche lui ricerche sulla malaria. Si mette a dissezionare le zanzare del genere Culex, e trova il plasmodio nel loro stomaco. Ma è il parassita della malaria “aviaria”, quella che infetta gli uccelli. Ed è proprio lavorando sugli uccelli che Ross riesce a provare la trasmissione della malattia attraverso la puntura degli insetti. E arriva alla conclusione che, per analogia, la stessa cosa debba succedere con gli umani. Un’intuizione fondamentale, che però senza gli esperimenti di Grassi sarebbe rimasta allo stadio di ipotesi. Ma quando il comitato Nobel discuterà la questione, nel 1902, darà il premio a Ross e non allo zoologo romano. La Britannica, alla voce Ross, non menziona nemmeno il suo concorrente sconfitto. Alla voce malaria, invece, si limita a ricordare la controversia che seguì il Nobel come “una delle dispute più al vetriolo della scienza moderna”. Il povero Grassi si ritirò dalla scena, deluso e amareggiato, proprio quando il parlamento italiano approvava la campagna antimalarica basata in gran parte sul suo lavoro, e mentre la scuola romana di malariologia da lui fondata era ormai diventata la più prestigiosa d’Europa.  Gli hanno dedicato qualche ospedale e un po’ di vie qua e là, a Fiumicino, a Ostia, nei luoghi della malaria. A Milano si chiama così, guarda caso, la strada che passa davanti al Sacco. Per il resto, l’oblio è assoluto. Uno come Grassi meriterebbe come minimo un biopic o una miniserie. Ma in tv e sui social si preferisce parlare, anzi blaterare di Nobel convertiti al verbo novax come Luc Montagnier o di un Giulio Tarro che si autocandida all’insaputa degli accademici di Svezia. E i patridioti sovranisti si scaldano per l’italianità dei cetrioli di mare invece che per il genio, italianissimo e misconosciuto, della lotta alla malaria. 

Da Tag43.it il 12 ottobre 2021. No all’introduzione di quote etniche e di genere, sì al riconoscimento del merito. Göran Hansson, segretario generale dell’Accademia Reale Svedese delle Scienze, ha messo in chiaro che la selezione dei candidati al Premio Nobel non prenderà in considerazione né l’etnia né il sesso degli studiosi ma valuterà solo ed esclusivamente le abilità e i risultati dimostrati nel loro settore. Continuando a dare priorità alla competenza ed escludendo tutti quei fattori che esulano dall’analisi del profilo professionale. Dal 1901, anno dell’istituzione, sono state solo 59 (circa il 6.2 per cento del totale) le donne vincitrici. La prima è stata Marie Curie (che lo ha addirittura ricevuto per ben due volte, nel 1903 per la fisica e nel 1911 per la chimica), l’ultima, invece, la giornalista investigativa filippina Maria Ressa. Che, quest’anno, ha condiviso il Nobel per la Pace con il collega russo Dmitry Muratov, caporedattore del quotidiano Novaya Gazeta. Ressa è stata l’unica figura femminile in un parterre di 12 uomini premiati. Pur constatando il gap, in un’intervista con France-Presse, Hansson ha difeso i metodi dell’organizzazione e ha spiegato i motivi dietro al rifiuto di aggiornarli: «Non è piacevole notare così poche donne nella lista e credo che questa situazione non sia altro che lo specchio delle ingiustizie che si sono susseguite in passato nella società e che, purtroppo, continuano ad esistere. C’è ancora parecchio da fare», ha dichiarato. «Tuttavia, abbiamo deciso che non inseriremo quote rosa né etniche. Chi riceve l’onorificenza lo fa perché ha lavorato a un progetto che potrebbe avere un impatto non indifferente sull’umanità e non per la sua provenienza o perché uomo o donna. Questo era il volere di Alfred Nobel e intendiamo rispettarlo». Ovviamente, l’Accademia continuerà ad assicurarsi di dare una chance a scienziate e studiose meritevoli, incoraggiandone la candidatura e vagliandone il lavoro al pari di quello dei colleghi uomini. «Siamo consapevoli del problema e, soprattutto, dei pregiudizi inconsci che spesso influiscono sui parametri di attribuzione. Stiamo lavorando duro per arginarli e operare nel modo più imparziale possibile». Per quanto, negli ultimi tempi, il lavoro delle donne, soprattutto nelle scienze, venga tenuto più in considerazione rispetto a dieci anni fa, il trend ha un ritmo di crescita molto lento. «Oggi, tra Europa occidentale e Nord America, le docenti di scienze naturali occupano a malapena il 10 per cento delle cattedre, numero che decresce sensibilmente se ci si sposta in Asia orientale», ha sottolineato Hansson. «Il cambiamento non dipende soltanto da noi che analizziamo il portfolio e decidiamo se candidare o meno qualcuno ma dalla realtà che ci circonda, che deve aiutarci con input positivi e che guardino, su tutto, alla preparazione accademica». La questione dell’introduzione delle quote di genere nell’assegnazione del premio, che si ripresenta puntuale ogni anno nel corso delle riunioni preparatorie alla cerimonia: «Ne abbiamo parlato e abbiamo capito che non funzionerebbe. La microbiologa Emmanuelle Charpentier, la chimica Jennifer Doudna o l’economista Esther Duflo sono state premiate per i loro lodevoli sforzi e perché reputate le migliori in assoluto, non perché donne», ha aggiunto il segretario. «Continueremo sulla stessa strada di sempre. Ci assicureremo di coinvolgere chi merita, tanto nella parte organizzativa quanto tra i partecipanti. Non faremmo mai un torto alla preparazione». Non sono mancate le proteste e le critiche al vetriolo. Come quelle della fisica neozelandese Laurie Winkless che, su Twitter, ha espresso il suo disappunto senza filtri. «Dispiaciuta ma non stupita dal fatto che l’Accademia non abbia rinunciato alle sue visioni anacronistiche».

Elena Dusi per repubblica.it il 5 ottobre 2021.  Il premio Nobel per la fisica è stato assegnato stamattina per metà a Giorgio Parisi, fisico italiano che ha studiato il caos e i sistemi complessi, e per l'altra metà allo scienziato americano di origini giapponesi Syukuro Manabe, 90 anni, insieme al tedesco Klaus Hasselmann, 89 anni. Parisi, romano, 73 anni, è stato premiato per "la scoperta dell'interazione tra il disordine e le fluttuazioni nei sistemi fisici dal livello atomico alla scala planetaria". I suoi due colleghi, climatologi, hanno invece vinto per "la modellazione fisica del clima della Terra, che ne quantifica la variabilità e prevede in modo affidabile il riscaldamento globale". Parisi nella sua carriera ha studiato argomenti molto diversi, accomunati dal poter essere chiamati sistemi complessi: dal bosone di Higgs alle interazioni fra i neuroni del cervello, che lo hanno portato a occuparsi di reti neurali e intelligenza artificiale, fino al comportamento dei singoli uccelli all'interno degli stormi in virata. Oggi fa ricerca sulla struttura di materiali eterogenei come i vetri. Anche lo studio del clima è considerato parte dei sistemi complessi. Per questo il fisico italiano è stato premiato accanto a due colleghi climatologi. Nato a Roma, Parisi ha insegnato fisica teorica alla Sapienza, dove si è laureato, è stato presidente dell'Accademia Nazionale dei Lincei (ora ne è vice) ed è ricercatore dell'Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn). E' molto lontano dal lavorare in una torre d'avorio. E' sempre sceso in campo per criticare le politiche dei tagli ai fondi della ricerca e ha pubblicato varie analisi matematiche delle curve dell'epidemia di Covid. Nel 2010, alla morte del professore con cui nel 1970 si era laureato, Nicola Cabibbo, con una tesi sul bosone di Higgs, Parisi si era detto dispiaciuto perché alle ricerche del suo mentore non era mai andato il Nobel. Oggi, dentro se stesso, una parte di quel premio la dedicherà sicuramente a lui. L'ultimo italiano a vincere il premio per la fisica era stato nel 1984 Carlo Rubbia. Due anni più tardi Rita Levi Montalcini aveva vinto quello per la medicina. Intervistato dall'Accademia dei Nobel su come festeggerà, Parisi ha risposto che ancora non ha deciso e che le restrizioni del Covid probabilmente gli impediranno di organizzare grandi cerimonie. "Sono felice, non me lo aspettavo" ha detto. Ma poi ha aggiunto con sincerità: "Sapevo che avrebbero potuto esserci delle possibilità". A proposito dei suoi due colleghi di Nobel ha commentato: "E' chiaro che per la generazione futura dobbiamo agire ora in modo molto rapido contro i cambiamenti climatici". Syukuro Manabe ha dimostrato come l'aumento dei livelli di anidride carbonica nell'atmosfera porti a un aumento delle temperature sulla superficie della Terra. Negli anni '60, ha guidato lo sviluppo di modelli fisici del clima terrestre ed e' stato il primo a esplorare l'interazione tra il bilancio delle radiazioni e il trasporto verticale delle masse d'aria. Il suo lavoro ha posto le basi per lo sviluppo degli attuali modelli climatici. Circa dieci anni dopo, Klaus Hasselmann ha creato un modello che collega tempo e clima, rispondendo così alla domanda sul perchè i modelli climatici possono essere affidabili nonostante il tempo sia mutevole e caotico. Ha anche sviluppato metodi per identificare segnali specifici, impronte digitali, che sia i fenomeni naturali che le attività umane imprimono nel clima. I suoi metodi sono stati usati per dimostrare che l'aumento della temperatura nell'atmosfera è dovuto alle emissioni umane di anidride carbonica. Il presidente dell'Infn Antonio Zoccoli ha tratteggiato così la carriera di Parisi: "I contributi che Giorgio ha portato alla fisica hanno spaziato attraverso molti campi: dalla fisica delle particelle, all'inizio della sua carriera, con il suo lavoro sviluppato assieme ad Altarelli fondamentale per la comprensione della dinamica delle collisioni protone-protone negli acceleratori di particelle come Lhc, alla meccanica statistica, ai vetri di spin e la materia condensata, ai sistemi complessi, fino ai supercomputer. Il grande merito di Parisi è stato aver contribuito in modo determinante ai settori cui si è dedicato, ma soprattutto averlo fatto precorrendo i tempi. Della sua genialità fa parte la sua capacità di visione, di anticipare, di capire prima degli altri qual era la direzione da prendere, che cosa sarebbe diventato rilevante per la ricerca. E anche il suo pragmatismo". L'anno scorso il riconoscimento era andato alle scoperte sui buchi neri dell’americana Andrea Ghez, del britannico Roger Penrose e del tedesco Reinhard Genzel. I vincitori ogni anno ricevono una medaglia d’oro e si dividono il premio di 986mila euro. Ieri il Nobel per la medicina era stato assegnato agli americani David Julius e Ardem Patapoutian per i loro studi sul senso del tatto. Domani verrà assegnato il riconoscimento per la chimica, poi toccherà a letteratura, pace e - lunedì 11 ottobre - economia. A causa del Covid, neanche quest'anno si svolgerà la sfarzosa cerimonia di consegna dei premi. I vincitori li riceveranno "a domicilio" per evitare viaggi e cerimonie al chiuso, visto che la cena e i festeggiamenti avvengono tradizionalmente a Stoccolma a dicembre.

Da Fermi a Parisi, la sesta medaglia nella scia dei ragazzi di via Panisperna. Luca Fraioli su La Repubblica il 5 ottobre 2021. Tutte le strade del Nobel (per la fisica) portano a Roma. In particolare, conducono a una viuzza che sale e scende tra Santa Maria Maggiore e i Mercati di Traiano. Perché anche Giorgio Parisi è tutto sommato un nipote di quei “Ragazzi di Via Panisperna” entrati ormai nell’immaginario collettivo. La palazzina al numero civico 90a alla fine degli anni Venti ospitava l’Istituto di fisica e divenne una fucina di Nobel. Nel 1926 il 25enne Enrico Fermi vi ottenne la prima cattedra italiana di fisica teorica e si circondò di talenti ancor più giovani: Franco Rasetti, Emilio Segrè, Edoardo Amaldi, Bruno Pontecorvo, oltre al chimico Oscar D’Agostino. Non c’è dipartimento di fisica che oggi non esponga la foto in bianco e nero di quel gruppo di scienziati in maniche di camicia. Perché è lì che ha origine l’eccellenza della scuola italiana di fisica moderna, che porta fino al Nobel di Parisi.

Le scoperte di quel gruppo di geni

Fermi fu insignito del premio nel 1938, per aver scoperto, con i suoi “ragazzi”, i neutroni lenti e la fissione nucleare (compresa in realtà solo qualche mese dopo). Nel 1959 fu la volta di Emilio Segrè per la scoperta dell’antiprotone. E c’è chi è convinto un Nobel lo avrebbe vinto anche un altro dei ragazzi di Via Panisperna, se solo non si fosse estraniato da quel gruppo, da quella foto e dal mondo intero: Ettore Majorana, scomparso in circostanze misteriose nel marzo del 1938.

La diaspora e la nascita dell'Istituto nazionale

C’è, tra quei giovani fisici, chi non vince il Nobel né sparisce: anzi, decide di rimanere in Italia, anche quando le leggi razziali e la Seconda guerra mondiale portano il gruppo alla diaspora: Fermi e Segrè negli Usa, Rasetti in Canada, Pontecorvo in Russia. Amaldi resta in Italia e ricostruisce sulle macerie la fisica nazionale. Una delle sue creature, l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) ha appena celebrato il settantesimo compleanno: Amaldi lo immagina come il centro di ricerca che deve proseguire gli studi dei ragazzi di Via Panisperna. Negli anni sarebbero così stati costruiti i primi acceleratori di particelle, nei laboratori Infn di Frascati, e i Laboratori nazionali del Gran Sasso, scavati nel cuore della montagna abruzzese. Ma c’è il tocco decisivo di Amaldi anche nella nascita del più grande laboratorio di alte energie del mondo: il Cern di Ginevra.

Dal tunnel del Cern il riconoscimento di Rubbia

È proprio dai tunnel sotterranei scavati al confine tra Svizzera e Francia che nel 1984 arriva un nuovo Nobel alla fisica italiana: lo vince Carlo Rubbia per aver scoperto due particelle portartici della forza elettrodebole, una delle quattro interazioni fondamentali della natura, insieme a gravitazione, elettromagnetismo e forza nucleare forte. Ancora il Cern fa da scenario per un Nobel “indirettamente” italiano. Nel 2012 due esperimenti paralleli rivelano il passaggio del bosone di Higgs: a guidare i due team sono Guido Tonelli e Fabiola Gianotti. L’anno successivo il Nobel andrà ai fisici teorici che negli anni Sessanta avevano ipotizzato l’esistenza della particella fantasma: Peter Higgs e François Englert. La Gianotti diventa la prima donna a essere nominata direttore generale del Cern e la prima persona a essere riconfermata per un secondo mandato. Prima di lei, alla guida del laboratorio europeo lo stesso Amaldi, Rubbia e Luciano Maiani: 5 mandati su 16, a conferma di quanto la fisica italiana sia apprezzata a livello internazionale. Eccellenza di cui uno dei massimi esponenti è stato Nicola Cabibbo, maestro di Parisi e presidente dell’Infn dal 1985 al 1993.

Le onde gravitazionali

Ma può essere ricondotta ad Amaldi anche l’ultima grande scoperta da Nobel cui hanno dato un contributo fondamentale i fisici italiani: le onde gravitazionali. Fu grazie a lui che, a partire dagli anni Settanta, una piccola pattuglia di ricercatori dell’Infn si specializzò nella caccia alle vibrazioni dello spazio-tempo previste da Einstein: decenni dopo, nelle campagne di Siena sarebbe sorto Virgo, l’interferometro laser che raccoglie dati in simbiosi con i due laboratori americani Virgo. Per questo decine di fisici italiani hanno firmato le pubblicazioni che nel 2017 sono valse il Nobel a Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss. Ora è la volta di Giorgio Parisi: Via Panisperna ha portato a Stoccolma anche lui.

Nobel a Giorgio Parisi, il signore dell’ordine nell’universo del caos. Il premio per la Fisica assegnato allo scienziato romano per le sue ricerche sulle interazioni nei sistemi complessi e agli studiosi del clima Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann.  Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 ottobre 2021. Con un po’ di frivolezza si potrebbe dire che il premio Nobel al fisico romano Giorgio Parisi chiuda il cerchio magico della “rinascita italiana” che, dalla musica allo sport, ha segnato una stagione di successi irripetibili. Si tratta infatti di un riconoscimento importantissimo che al nostro paese mancava dal 1984 quando l’Assemblea dei Nobel al Karolinska Institutet di Stoccolma lo assegnò a Carlo Rubbia. E non a caso ieri mattina all’Università La Sapienza c’era un clima da stadio con canti, cori e striscioni a celebrare una giornata indimenticabile per il nostro mondo accademico. Dopo due anni di Nobel “astrofisici” (i cosmologi James Peebles, Michel Mayor e Didier Queloz nel 2019 e Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez nel 2020 ) si torna dunque sul pianeta Terra. Assieme a Parisi sono stati premiati dagli accademici svedesi il giapponese Soyokuro Manabe e il tedesco Klaus Hasselmann per i loro lavori sui modelli probabilistici applicati ai cambiamenti climatici, in particolare al global warming. La capacità di prevedere sequenze di eventi all’interno di sistemi apparentemente caotici accomuna infatti il lavoro dei tre fisici, anche se il campo di ricerca di Parisi appare ancora più ambizioso perché connette eventi subatomici con fenomeni attinenti ad altre discipline, come ad esempio le neuroscienze, le fluttuazioni della finanza globale e altri addirittura osservabili ad occhio nudo come il movimento degli stormi di uccelli nel cielo o la disposizione dei passeggeri all’interno di un vagone della metropolitana. «Abbiamo premiato la scoperta dell’interazione tra il disordine e le fluttuazioni nei sistemi fisici dal livello atomico alla scala planetaria», si legge nel comunicato ufficiale dell’Accademia. Tecnicamente il campo della fisica di cui si occupa si chiama con un nome che potrebbe scoraggiaere i profani: “cromodinamica quantistica”; il suo oggetto sono i cosiddetti “sistemi complessi”, laddove per complesso non si intende “complicato”, ossia divisibile nelle sue componenti primarie, ma “intrecciato” e quindi osservabile unicamente nel suo insieme, come una matassa inestricabile. A un primo “sguardo” questi sistemi sembra che rispondano a schemi aleatori e imprevedibili, ma in realtà seguono un ordine nascosto, non necessariamente analogo alla nostra idea di ordine su scala planetaria o sensibile. Ad esempio la descrizione e il funzionamento dei neuroni possono essere compresi solo considerando l’insieme del sistema nervoso e, allo stesso tempo, possono servire da modello per la comprensione di altri sistemi complessi come, per esempio quelli informatici. «Scovare l’ordine all’interno del caos è un’opera affascinante», spiega Parisi, tradendo l’ispirazione profondamente filosofica della sua scienza. Da ragazzo ha cominciato a studiare la fisica lavorando sui quark, inafferrabili particelle subatomiche. Nel mondo della microfisica (o meccanica quantistica) gli eventi accadono infatti con una rapidità inconcepibile in una scala dimensionale che supera i limiti della nostra immaginazione il che aveva portato lo stesso Einstein ad arricciare il naso di fronte a questa nuova fisica affermando che «Dio non gioca a dadi con l’universo». In effetti è impossibile stabilire contemporaneamente la velocità e la posizione di una particella (principio di indeterminazione di Heisenberg), ma grazie al calcolo probabilistico possiamo è prevederne il comportamento. Il campo di applicazione su cui Parisi ha lavorato per anni è quello dei materiali amorfi. Se nei solidi cristallini (metalli, rocce) gli atomi sono disposti in un reticolo geometrico, nei solidi amorfi (vetri e polimeri) la disposizione atomica si presenta al contrario in maniera casuale, o “disordinata”. Per comprendere questi sistemi Parisi si è concentrato nello studio degli “spin glass” o vetri di spin i cui atomi accumulando calore si comportano come nei magneti, raggiungendo una fase detta “metastabile” per poi abbandonarla successivamente. In questo modo è possibile prevedere le disposizioni atomiche anche in materiali amorfi. La cosa straordinaria è che il comportamento degli atomi somiglia moltissimo a quello delle nostre cellule nervose.

Giorgio Parisi, la laurea in Fisica nel 1970. Professore emerito di Sapienza Università degli Studi di Roma, presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei dal 2018 al 2021, Giorgio Parisi si è laureato in Fisica all’Università La Sapienza di Roma nel 1970 con una tesi sul bosone di Higgs, sotto la guida del professore Nicola Cabibbo che ieri ha omaggiato spiegando che il Nobel «l’avrebbe meritato lui».

La carriera da ricercatore è iniziata al Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) per poi proseguire presso i Laboratori Nazionali di Frascati dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN). Forte anche il suo contributo fuori dall’Italia con collaborazioni presso la Columbia University, l’Institut des Hautes Ètudes Scientifiques e l’Ecole Normale Superieure de Paris.

Le sue attività di ricerca sono state in particolare nel campo della fisica statistica, della teoria dei campi, della fisica delle particelle, della meccanica statistica e della materia condensata. La lista dei successi, dei risultati e dei premi durante la sua carriera è davvero lunga, tra cui la Medaglia Boltzmann nel 1992, la Medaglia Dirac nel 1999, il premio Galileo nel 2006, la Medaglia Max Planck nel 2010, il Premio Wolf per la Fisica nel 2021 ed oggi il Premio Nobel per la Fisica.

Paolo Travisi per “il Messaggero” il 6 ottobre 2021.

Professor Parisi, quando ha visto il suo nome cosa ha provato? Un fisico si commuove?

«Commozione diciamo che sono rimasto molto contento del premio. Felicissimo». 

Qual è stata la prima reazione alla telefonata?

«Quando ho visto che la chiamata proveniva da un paese con un prefisso che non conoscevo, ho capito che si trattava di Stoccolma. Hanno cominciato a parlare, ma c'è stato un istante in cui ho pensato, speriamo che non mi stiano facendo uno scherzo». 

Cosa significa far parte della storia?

«Sono cose a cui ci si deve abituare pian piano. Questa mattina quando guardavo i sottotitoli e vedevo il mio nome passare, mi suonava strano». 

 A chi dedica il Nobel?

«Lo dedico a Nicola Cabibbo, è stato il mio maestro ed avrebbe dovuto vincere il Nobel nel 2008, ma per qualche sfortunata combinazione non l'ha vinto». 

Veniamo alle motivazioni con cui l'Accademia ha deciso di assegnarle il premio.

«Io ho inventato e costruito una serie di equazioni che servono per gestire i sistemi complessi; equazioni a loro volta talmente complesse che non capivo cosa volessero dire. Poi lavorando con altri scienziati, ne abbiamo compreso il significato. Direi che è una grande soddisfazione perché è stato un lavoro molto creativo».

Nel corso del suo intervento all'Accademia ha fatto un appello sul clima. Crede che l'urgenza del cambiamento climatico sia realmente compresa?

«Gli scienziati che lavorano sui modelli climatici hanno capito benissimo, ma il problema è che spesso i governi e la popolazione mondiale non se ne rendono conto. Si capisce cosa significhi cambiamento climatico solo quando accadono disastri, inondazioni, ondate di calore; invece è importante che le misure per arginare portino ad un ripensamento del modello dei consumi, perché non si può combattere il clima a costo zero, ma è la politica che deve decidere chi lo deve pagare». 

Anche per questo bisogna aumentare i fondi per la ricerca?

«In Italia abbiamo già visto un cambiamento e spero sinceramente che nella Finanziaria ci sia un aumento di 1,2 miliardi per la ricerca».

 Quando entrò come studente a La Sapienza, immaginava tutto questo?

«Direi di no, ma a 18 anni un giovane non riesce a immaginare realmente come sarà la vita futura». 

A chi deve ciò che ha imparato e portato nel mondo?

«Il mio principale maestro è stato Nicola Cabibbo. Con lui ho imparato molto, tante cose tecniche, ma anche l'attitudine giusta verso la ricerca, ovvero studiare argomenti e materie che fossero divertenti».

Tanti sacrifici ripagati da questo riconoscimento?

«Non mi sono proprio accorto di aver fatto questo sacrificio per lo studio (ride, ndr). Io ho sempre fatto quello che mi interessava approfondire senza mai sentirmi sacrificato». 

È stato un divertimento?

«Sì, anche perché se non mi divertivo più, passavo ad altro. La scienza è come un grosso puzzle, solo che una volta che hai messo al loro posto tutti i pezzi che lo compongono, non si è solo soddisfatti per averlo risolto, ma perché hai risolto qualcosa su cui altri potranno costruire». 

La fisica serve a risolvere problemi complessi. Esiste una ricetta per aiutare la Capitale ad essere una città migliore?

«Ci sono tante cose che si possono immaginare per migliorare. A partire da studi scientifici sul traffico, di cui credo non ci sia nulla. E poi ci sono alcune soluzioni molto banali, per le quali non serve l'impegno di uno scienziato, ma investimenti. Per esempio costruire dei mega parcheggi di scambio sul Grande Raccordo Anulare, in modo che le persone ed i pendolari non entrino dentro Roma». 

Come festeggerà?

«Non sono ancora riuscito a pensarci. Pensi che non sono riuscito a leggere neanche le 17 pagine di motivazioni per il Nobel». 

Giorgio Parisi: «Un database europeo multidisciplinare per studiare il Covid». Dall'archivio/ripubblichiamo un'intervista del 31 ottobre 2020 al premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi. Che all'epoca lanciava un appello alle istituzioni per chiedere misure drastiche contro l'avanzare della pandemia.  Valentina Stella su Il Dubbio il 5 ottobre 2021. Dall’archivio/ripubblichiamo un’intervista del 31 ottobre 2020 al premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi

Il Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, il fisico di fama internazionale Giorgio Parisi, la scorsa settimana ha lanciato un allarme dalle pagine dell’Huffington Post chiedendo misure drastiche per fermare l’avanzamento dell’epidemia di covid 19. La politica sembra averlo ascoltato. Ne abbiamo discusso proprio con lui in questa lunga intervista in cui rivendica l’importanza della fisica e della matematica per capire il coronavirus e chiede meno litigi in tv tra i virologi. Per chi ne volesse sapere di più, sulla homepage dell’Accademia trova una sezione dedicata alla pandemia in cui sono raccolti i contributi delle commissioni lincee e dei soci sul tema Covid- 19, insieme a documenti di altre Accademie e Istituzioni internazionali.

Presidente Parisi, il suo allarme è stato raccolto.

Penso che il governo avrebbe preso questa decisione anche senza il mio articolo e l’appello successivo di cento tra scienziati e giuristi. Certo, abbiamo contribuito a creare delle condizioni favorevoli per una giusta presa di posizione: il governo non solo deve prendere delle decisioni giuste ma deve avere anche un clima di consenso intorno, senza il quale diventa difficile farle rispettare. E noi abbiamo contribuito a crearlo.

Come è possibile bilanciare in questo momento il diritto alla salute e la necessità di non fermare una parte del nostro sistema produttivo?

I sacrifici devono essere distribuiti: i profitti di industrie come Amazon sono alle stelle mentre i commercianti al dettaglio vanno verso il disastro. Se si vuole ottenere un consenso anche dalle categorie più colpite bisogna prevedere delle reti di sicurezza. Poi non siamo stati aiutati a causa di una certa narrazione: qualcuno, come Zangrillo e Tarro, hanno detto che il Covid era sparito… Per non parlare della Gismondo che lo ha declassato a banale influenza. Alcuni politici hanno poi soffiato sul fuoco, c’è chi ha parlato di ‘ dittatura sanitaria’. Tutto questo non ha di certo aiutato a dialogare con i settori economici.

Lei ha richiamato la necessità di un database per fronteggiare meglio la pandemia. Cosa non funziona nell’attuale raccolta di informazioni e cosa invece si dovrebbe fare in tal senso?

Faccio subito un esempio: a me piacerebbe sapere per tutti coloro che hanno contratto il Covid che lavoro svolgono, con quali mezzi raggiungono il posto di lavoro, se frequentano le palestre, quante volte al mese vanno al ristorante, se hanno figli che vanno a scuola, qual è il tenore di vita. Si parla spesso di big data, ma non li stiamo usando: se conoscessimo tutte le informazioni relative alle abitudini di vita di quelle persone potremmo ad esempio valutare se l’aumento dei contagi avviene soprattutto tra coloro che prendono i mezzi pubblici e agire di conseguenza. Poi esiste il problema del tracciamento. In Germania la Merkel ha dichiarato chiaramente che il tracciamento non funziona, fatta eccezione per il 23% dei casi in cui sappiamo in che occasione è avvenuto il contagio. Se il contagio avviene in autobus o in qualunque spazio aperto al pubblico è quasi impossibile ricostruire il luogo. Non credo che in Italia stiamo meglio, considerato che i tedeschi sono tradizionalmente meglio organizzati di noi. Quindi occorre assolutamente prendere un’altra direzione.

Quale?

Due giorni fa ho avuto una discussione con alcuni colleghi tedeschi e anche loro sono d’accordo nel voler creare un database non solo nazionale ma addirittura europeo. Al momento ci troviamo in una babele incomprensibile. Ogni medico in Italia classifica in maniera diversa lo stato del paziente. Non esiste una normativa che dica, come avviene in Cina, che se il paziente ha questo grado di saturazione dell’ossigeno allora è grave, se ha quest’altro allora è critico, se ha questi sintomi è lieve. Ognuno fa la diagnosi a modo suo e i confronti tra le regioni, ad esempio, diventano estremamente difficili.

Lei parla di big data. Ed infatti la pandemia da Covid- 19 è sotto la lente di ingrandimento di varie discipline. L’impressione è che qualcuna snobbi le altre. Di qualche giorno fa è la lettera degli studenti della Sapienza che rivendicano il ruolo della fisica nella conoscenza del fenomeno pandemico.

La multidisciplinarietà è certamente importante: l’epidemiologia, se vogliamo, è la vera disciplina che si occupa dello studio della curva epidemica, ed è intrinsecamente multidisciplinare perché ha bisogno di avere dei dati e di poterli analizzare su larga scala, e questo è un compito svolto spesso dai fisici e dai matematici che elaborano equazioni che descrivono lo sviluppo dell’epidemia, grazie all’apporto fornito dai clinici e dai virologi. Per essere pratici, il numero dei casi che vengono registrati quotidianamente in Italia dipende da due fattori: il numero totale dei contagiati e la capacità del Sistema sanitario nazionale e della Protezione civile di identificare gli ammalati. Ad esempio a Varese si erano illusi che la situazione stesse migliorando, ma poi il giorno dopo è arrivato il numero esatto dei contagiati che non era arrivato il giorno prima, a causa di un intoppo nella comunicazione dei dati. L’analista deve tener conto anche di queste circostanze. Poi le voglio raccontare una cosa che mi ha innervosito molto.

Prego.

In Cina, credo a metà marzo, hanno deciso di fare una riclassificazione dei dati: nonostante le radiografie e le tac evidenziassero in molti pazienti le tipiche lesioni da Covid, questi non furono inseriti nelle statistiche dei contagiati perché non c’erano abbastanza test molecolari per confermarlo. Poi è arrivata una disposizione del Governo in cui si chiedeva di inserire nelle statistiche anche quei pazienti. E così fu fatto, aggiungendo anche coloro che erano morti con un forte sospetto diagnostico senza aver fatto il tampone. Il risultato fu che tutti i giornali italiani titolarono con toni molti allarmistici dicendo che in Cina in un giorno i morti erano raddoppiati o addirittura quintuplicati. Poi il giorno successivo, titoli piccoli che dicevano che in realtà non era così. Questo non capita solo ai giornalisti, ma anche a tutti quelli che fanno analisi dei dati senza conoscere il contesto e l’origine di quei dati. Nel mondo, secondo le statistiche, di domenica muoiono meno persone di Covid: è evidente che non è un virus settimanale, ma semplicemente il sistema di tracciamento non lavora a regime come gli altri giorni. L’unico modo quindi per avere un approccio più realistico è quello di fare le medie settimanali.

A proposito di stampa, secondo lei ha ragione chi sostiene che la sovraesposizione mediatica di alcuni scienziati non abbia fatto bene alla immagine della scienza?

In generale, la sovraesposizione mediatica non fa mai bene. Il problema è che normalmente nella scienza quando c’è un fenomeno nuovo servono anni, decenni di assestamento per poterlo capire e assorbirlo. La scienza procede per comunicazioni scritte su cui la comunità scientifica può riflettere. È chiaro che siamo in una situazione emergenziale in cui si sente il bisogno di dare delle risposte veloci però questo non può significare dare informazioni sbagliate in nome dello share. Il mondo della comunicazione è interessato agli ascolti e un litigio tra virologi in televisione aiuta lo scopo. Invece, a parer mio ad esempio, due virologi che stanno per intervenire in una trasmissione dovrebbero prima incontrarsi fuori dai riflettori per un’ora per capirsi e per portare poi al pubblico un messaggio pacato, pur nella divergenza delle opinioni.

Forse se qualcuno degli esperti qualche volta avesse detto “non lo so” sarebbe stato meglio.

Sì certo. Infatti la differenza che c’è tra un esperto e uno pseudo esperto è che il primo sa quello che non sa, il secondo pensa di sapere tutto. Ci sono quelli che dicono “i contagi aumentano per il calo della temperatura”, altri “è colpa della riapertura delle scuole”, io posso limitarmi a dire “probabilmente”: ci sono degli elementi più indiziati, altri meno. In una situazione in cui molto non è sotto controllo bisogna avere l’onestà di dire “non so”. Se unodeve attraversare una foresta e si trova davanti due sentieri e ha paura del leone, valuta gli indizi disponibili e sceglie il sentiero che gli pare più sicuro senza avere nessuna certezza. Sappiamo bene che quando un processo è indiziario, le circostanze possono essere valutate in maniera differente. La prova nella scienza non si raggiunge subito ma tramite un lungo e serrato confronto tra gli scienziati.

A tal proposito, il 19 settembre la rivista The Lancet ha pubblicato un articolo dal titolo “COVID- 19: a stress test for trust in science”. Tra l’altro leggiamo che  “la revisione tra pari rimane essenziale per il processo di pubblicazione scientifica. Lega autori, editori, recensori e lettori insieme, e aiuta a costruire la fiducia tra di loro”. Qual è il suo parere su questo?

Le riviste mediche hanno pubblicato molte volte delle grandi schifezze. L’impressione che ho è che per la fretta di pubblicare, sia da parte degli autori sia da parte delle riviste, si sia aperta qualche falla nel sistema. Se una rivista pubblica, faccio un esempio, un articolo sui millepiedi anche se c’è qualcosa di sbagliato se ne accorgono in pochi; ma se invece si pubblica un lavoro sulle cure di una malattia di moda questo rimbalza ovunque, la gente lo legge, si modificano anche i comportamenti, e la rivista è costretta a ritirarlo dopo che 50 scienziati hanno inviato una lettera di protesta. Ed ecco che la falla viene a galla sotto gli occhi di tutti.

Nel 1890 il re Umberto I firmava la nomina a senatore del Regno di Giulio Bizzozero, professore di patologia all’Università di Torino. Guardando i nomi degli scienziati che nell’Italia liberale furono membri del Senato, si rimane sorpresi dal fatto che nei 25 anni dopo la nomina di Bizzozero furono nominati senatori a vita premi nobel come Golgi e Marconi, la medaglia Darwin della Royal Society Grassi, i matematici Beltrami e Volterra, il fisico Pacinotti, etc. Al contrario nei quasi 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, i senatori a vita provenienti dal mondo della scienza sono stati solo 4: Castelnuovo, Montalcini, Cattaneo, Rubbia. Qual è il suo parere in merito? E secondo lei lo scienziato può ambire a posizioni politiche o deve fermarsi alla consulenza?

Per quanto riguarda i senatori a vita fortunatamente l’ex Presidente della Repubblica Napolitano ha invertito la tendenza che c’era prima. Ciò che è accaduto a partire dagli anni ‘ 50 non ha riguardato solo gli scienziati ma tutto il mondo della cultura. Il posto di senatore a vita era diventato una specie di cimitero degli elefanti della politica. Poi con Napolitano è cambiato tutto: non ha nominato politici come senatori a vita, ma due scienziati – Rubbia e Cattaneo -, oltre al professor Monti, al maestro Claudio Abbado e all’architetto Renzo Piano. È stato un cambiamento molto importante: basti pensare al lavoro che ha fatto in questi anni la senatrice Cattaneo contro il metodo Stamina. Uno scienziato può portare nel mondo politico non solo la competenza ma anche uno sguardo diverso. Gli scienziati tutti i giorni hanno a che fare con dati ed esperimenti: li vagliano, ne fanno la sintesi, capiscono quali sono quelli più affidabili. Questo porta a prendere decisioni consapevoli e a non fidarsi dell’apparenza.

Giorgio Parisi: «Il mio Nobel per la Fisica a sostegno dell’intelligenza artificiale e del pianeta». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021.

Lei che ha vinto già tanti premi illustri e che ha diretto l’Accademia dei…, si aspettava ? 

«No, però mentre stavano per proclamarlo sono stato con il telefono vicino».

L’anno scorso non lo aveva fatto? 

«L’anno scorso non ero stato messo nella lista del Wolf Prize. Che non è detto che poi ti venga dato il premio Nobel, ma è possibile».

Ha qualcuno da ringraziare per questo premio? 

«Prima di tutto il mio maestro Nicola Cabibbo. E poi tanti altri fisici con i quali ho collaborato, è stato un lavoro di tanti».

Ci può spiegare per che cosa ha vinto questo premio? 

«Veramente devo ancora capirlo anche io».

Che vuole dire? 

«Che non ha avuto il tempo di leggere le motivazioni, sono 17 pagine. A dire il vero non ho avuto nemmeno il tempo per scaricarle. Comunque la motivazione breve che ho visto è quella che riguarda i miei studi sui sistemi complessi».

Sono studi recenti? 

«No, risalgono a più di quarant’anni fa. Ho cominciato a lavorarci durante le vacanze di Natale del 1978. Però che fossero sistemi complessi l’ho capito soltanto nell’83 quando con colleghi di Parigi abbiamo realizzato quale fosse il significato delle equazioni che stavamo studiando».

Può farlo capire anche a noi, in maniera semplice? Che cos’è un sistema complesso? 

«Per capire cominciamo con il definire un sistema semplice: un bicchiere d’acqua. Quello che si può fare è soltanto misurare la temperatura, il volume, la pressione. Le molecole dell’acqua, poi, sono tutte uguali, ecco perché è semplice».

E il sistema complesso? 

«Un altro esempio: un cane. È un sistema estremamente complesso. Lo si può descrivere guardandolo fisicamente da fuori. Poi ci sono tutti gli ormoni e tutte le cellule, internamente. E ancora: c’è la complessità che riguarda la descrizione affettiva del rapporto con il padrone».

I sistemi fisici complessi che lei ha studiato trovano applicazione nella nostra realtà quotidiana? «Certamente. Molti lavori, come ho detto, sono stati fatti nel passato remoto, ma hanno ancora valore attuale».

Quale, per esempio? 

«L’intelligenza artificiale. Gli studi sono connessi a quelli fatti negli anni Ottanta. Molte cose sono già state utilizzate, ma molte altre possono essere ancora sfruttate. Ora vorrei io stesso riprendere in mano l’intelligenza artificiale per rimetterla in moto».

A che cosa serve l’intelligenza artificiale? 

«A parte per giocare a scacchi molto meglio di come giochiamo noi? Oppure a riconoscere le facce su Facebook?»

Si, si certo...

«Parlando di cose importanti diciamo che i campi di applicazione sono tantissimi, molto pratici. Come per esempio, la possibilità di trovare nuovi medicinali».

Oppure? Cos’altro? 

«La guida automatica dell’automobile. È un campo dove si sta andando avanti molto lentamente, ma penso che fra dieci anni ci si arriverà, così si ridurranno gli incidenti automobilistici. L’intelligenza artificiale ha la capacità di informarsi sul mondo esterno molto meglio dell’uomo. Però bisogna stare attenti, ci sono anche risvolti pericolosi dell’intelligenza artificiale».

Quali? 

«Il sistema di armi letali non può essere lasciato in mano alle macchine. Non possono essere loro a decidere chi uccidere o meno. Parlo dei droni, non possono avere la capacità autonoma per decidere, chi colpire mortalmente, dietro ci deve sempre essere l’intervento umano».

Come si può evitare questo pericolo? 

«È stata fatta una convention sulle armi chimiche, bisognerebbe farne una anche su questo».

Nei suoi studi ci sono altri risvolti importanti? Come quelli utili per risolvere i problemi dei cambiamenti climatici? 

«Si gli studi di quarant’anni fa hanno avuto rilevanza nel sistema planetario e molti sono serviti per la comprensione standard dei cambiamenti climatici».

Cosa farà domani oltre che leggere le 17 pagine di motivazione del suo premio? «Cercherò di rispondere ai messaggi che ho ricevuto oggi. Poi ho sentito dire che Draghi vuole vedermi».

Anche il presidente della Repubblica, no? 

«Intanto con Sergio Mattarella ho già parlato al telefono».

Caos calmo. Chi è Giorgio Parisi, il fisico (ballerino) che ha riportato il Nobel a Roma. Dario Ronzoni su L’Inkiesta il 6 ottobre 2021. Il premio riconosce il lavoro di uno studioso che ha apportato contributi e idee in più ambiti, ma è anche il simbolo dell’eccellenza universitaria di Roma. Nel privato si diverte con il forrò, danza di coppia brasiliana. Le celebrazioni sono già cominciate, lo striscione “It’s coming Rome” è già stato appeso dal balcone dell’Istituto di Fisica della Sapienza, con la precisazione «Congratulazioni Giorgio!». Stavolta non si tratta di sport, ma di scienza. Giorgio Parisi, 73 anni, ha vinto (insieme al giapponese Syukuri Manabe e Klaus Hasselmann) il premio Nobel per la Fisica «per la scoperta dell’interazione tra disordine e fluttuazioni nei sistemi fisici da scala atomica a scala planetaria». La formula riassume, nel modo migliore possibile, l’ampiezza della ricerca di Parisi, che ha saputo con il suo studio del caos, teoria di cui è indiscusso maestro, toccare più campi e ambiti. È un modello che si può applicare più o meno a ogni realtà: «Dalla cera di una candela», come ha ricordato qui, fino al mondo degli investimenti. «Quando si scioglie, sembra che scenda in modo regolare verso il basso. Ma se guardiamo al microscopio quel movimento si vede una serie di terremoti che sono sempre meno frequenti e meno intensi fino a quando non diventa solida. Lo stesso modello matematico regola la volatilità sui mercati finanziari». Regola molte cose, in realtà. E proprio dallo studio del disordine e della complessità Parisi ha apportato contributi in più ambiti. Anche questo – forse soprattutto questo – è stato all’origine del Nobel (che condivide con il giapponese Syukuri Manabe e il tedesco Klaus Hasselmann). I suoi studi hanno toccato campi come la meccanica statistica, la teoria dei campi, la fisica della materia condensata, con i vetri di spin, fino alla fisica delle particelle. Ma passando per la biologia, la medicina, le neuroscienze, l’apprendimento automatico. Tutto questo, come ha dichiarato al Corriere Antonio Zoccoli, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, «precorrendo i tempi».

Ha insegnato alla Columbia University e all’École Normale Supérieure di Parigi, ma è sempre tornato a Roma. Qui ha fatto le superiori (in un liceo privato, il “San Gabriele”, ora chiuso e trasformato in residence), l’Università alla Sapienza verso la fine degli anni ’60 (qui ha partecipato alle occupazioni e ha assistito agli scontri) e le sue prime esperienze di ricerca, proprio all’Istituto nazionale di fisica nucleare a Frascati. Ci andò su consiglio del suo mentore, il professor Nicola Cabibbo: «Il Nobel della fisica doveva vincerlo anche lui», ha ricordato lo stesso Parisi in collegamento per la premiazione, quasi vendicando lo studioso, cui il Nobel fu scippato (così pensano i colleghi) nel 2008. Risarcimento postumo a uno dei suoi allievi più brillanti? Può essere. Parisi fu tra i primi a lavorare a Tor Vergata all’inizio degli anni ’80, che descrive come un ambiente familiare e stimolante ma con un problema grave: era irraggiungibile («Una volta ci ho messo tre ore per arrivare»). Meglio allora tornare, da professore, alla Sapienza, dieci anni dopo. Qui ha tenuto diversi insegnamenti (fisica teorica, teorie quantistiche, fisica statistica, probabilità), mentre pochi anni prima, nel 1988, era già diventato socio dell’Accademia dei Lincei (diventerà presidente a 30 anni di distanza). La lunga lista dei premi e dei riconoscimenti ottenuti comprende il Premio Lagrange nel 2009, la Medaglia Max Planck nel 2010, ma anche il premio Wolf per la Fisica nel 2021, che ha preceduto di poco il riconoscimento più ambito: il Nobel. Sono tanti i ricercatori italiani, ha aggiunto sempre Parisi, «che lo meriterebbero». Da questo punto di vista il Paese funziona, anche se i giovani sempre molto preparati dopo la laurea «scelgono di andare all’estero per il dottorato». Morale: c’è poco spazio per loro. Forse dopo questo riconoscimento qualcosa cambierà? Chi può dirlo. Parisi intanto festeggia, forse ballando: è la sua seconda passione. Dopo aver studiato i passi latinoamericani, è diventato un esperto («Diciamo che me la cavo», ha detto a Repubblica) di quelli greci. A questi ha aggiunto di recente il forrò, danza di coppia brasiliana. È un altro modo, forse più divertente, per cercare di mettere ordine al caos della realtà.

La complessità di capire i sistemi sociali. Il mondo va come se l’uomo non esistesse. Il premio Nobel Parisi ha rilanciato un tema che da sempre affascina gli studiosi. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 17/10/2021. Il premio Nobel per la Fisica 2021 recentemente assegnato all’italiano Giorgio Parisi riporta all’attenzione uno dei temi più affascinanti per moltissimi studiosi di ogni disciplina, quello della complessità. E se nel caso degli studi di Parisi il tema è stato declinato in particolare per “la scoperta dell’interazione tra disordini e fluttuazioni nei sistemi fisici” – come recita la motivazione ufficiale – il tema dell’individuazione e della soluzione di complessità affascina da un po’ di tempo scienziati di numerose discipline. Come spesso accade, le cose che riguardano l’interazione e le relazioni all’interno di sistemi che comprendono non solo elementi fisici ma anche persone, collettività dalle quali emergono emozioni, valori e culture differenti e spesso antagoniste fra loro, sovente sono ancora più difficili da comprendere e “governare”. C’è urgenza di ripensare a un modello di sviluppo. E serve usare una visione sistemica. Quante volte abbiamo sentito ripetere queste affermazioni nei discorsi sul futuro negli ultimi anni? La realtà è che la nostra attuale società, complessa al punto giusto, apre orizzonti di senso teoricamente illimitati, ai quali corrispondono un numero altrettanto illimitato di possibili scelte. Non esiste nulla che non possa essere rivisto: per dirla con Niklas Luhmann, ogni cosa che è o che facciamo è sempre possibile anche altrimenti. Oggi le cose stanno in un modo, ma domani potrebbero anche stare diversamente; è il trionfo della contingenza, una sorta di festival del cosiddetto “pensiero debole”. Da un certo punto di vista, la ricchezza dell’approccio alla complessità del sociale sta proprio nella consapevolezza  che il nostro vissuto,  le nostre emozioni, insomma la nostra vita sono elementi assolutamente centrali nella costituzione di quella che definiamo complessità; che proprio per queste ragioni non può essere completamente gestita, misurata, controllata, né indirizzata. In fondo, lo aveva inteso molto bene anche Herbert Simon, economista, psicologo e informatico statunitense, premio Nobel per le scienze economiche nel 1978: è suo il concetto importantissimo di razionalità limitata, a caratterizzare le peculiarità che noi umani abbiamo dal punto di vista proprio delle capacità di analisi,  elaborazione,  sistematicità,  individuazione delle correlazioni tra i fenomeni. Una capacità intrisa di limiti dovuti a una serie di fattori diversi, relativi alle informazioni che possediamo, ai limiti cognitivi della nostra mente, alla quantità finita di tempo di cui disponiamo per prendere una decisione. Tutto ciò fa sì che la complessità sociale sia una complessità che non è esprimibile nella sua totalità, nella sua completezza; con le ovvie conseguenze che questa consapevolezza presuppone. Questa questione assume un rilievo particolare nell’attuale società della prestazione, una società che corre investita da quella che gli specialisti della comunicazione chiamano “infodemia”. La condizione di razionalità limitata,  così come elaborata da  Simon, diventa oggi una questione fondamentale, particolarmente significativa e per certi versi dirompente, prepotente. Il convincimento di poter contare su una straordinaria disponibilità di dati e di informazioni   ci mette in una condizione per certi versi illusoria di poter prendere fino in fondo delle decisioni, di operare delle scelte, di definire delle strategie; che dovrebbero essere appunto del tutto razionali, cioè basate sul presupposto che si possano operare scelte sulla base della disponibilità delle informazioni. Saremmo cioè teoricamente in grado di effettuare valutazioni dei rapporti costo- benefici più o meno attenti e rigorosi. Nella realtà, invece, assistiamo ad un fenomeno esattamente opposto, in una sorta di paradossale eterogenesi dei fini. Da un lato infatti, in accezione di per sé non negativa, aumentano continuamente per gli individui le possibilità di scegliere percorsi personalizzati in ogni campo d’azione; di converso, quello che sembra essere un vero e proprio trionfo della differenza, di fatto produce un indebolimento della stessa. Se tutto è possibile anche altrimenti, allora anche la differenza diventa indifferente. Per questo, quindi, i vari sistemi sociali – dalla scienza alla politica, dai mass media all’economia – nei quali tante speranze di liberazione erano state riposte, funzionano non a caso come se l’uomo non esistesse. Viviamo cioè il paradosso di essere sempre più in balia di esigenze sociali a volte inderogabili che paiono tuttavia essere inconciliabili con le esigenze umane. E allora il crescente scollamento tra individuo e società, tra sistema sociale e logiche che presiedono l’equilibrio psichico dei singoli, la conseguente distanza aumentata fra egocentrismo e senso di comunità, più che senso di libertà sembra generare disordine, mancanza di radici, incapacità di gestire un rapporto soddisfacente con gli altri e il mondo intero. Il problema, insomma, non è semplice; ma come uscire da quello che sembra un vicolo cieco? C’è urgenza di ripensare a un modello di sviluppo. E serve usare una visione sistemica. Così abbiamo affermato in apertura di queste considerazioni. Ora lo ribadiamo. Ma con qualche ulteriore precisazione, indispensabile. Il vicolo resterà cieco fintanto che la società sarà considerata un sottosistema dell’economia, in una visione intrisa di determinismo e soluzioni di natura tecnologica che si traducono inderogabilmente in comportamenti di natura tecnocratica. Un corretto approccio alla complessità del problema ha invece bisogno di una visione sistemica, che abbandoni completamente l’idea di onniscienza che alberga invece nelle prospettive – erronee – di molti tentativi interpretativi (e corporativi). Serve usare  una visione sistemica, appunto. Il che significa che vanno ripensate completamente non solo le nostre istituzioni educative e formative ma anche le culture organizzative nel senso più largo del termine: proprio quelle che continuano invece a essere incardinate e  strutturate su logiche di separazione di potere e di controllo. Viviamo oggi in un mondo nel quale le importantissime scoperte scientifiche e  le grandi innovazioni tecnologiche  cambiano evidentemente molti dei ritmi della nostra vita, e fra le altre cose anche il modo stesso di concepire ciò che è vita e ciò che non è vita. Cambiano i confini tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, tra reale e virtuale; sono sempre più, oramai, confini sfumati. Ma uno degli errori più grossolani che si possano commettere in una situazione come questa è che   la tecnologia sia ipotizzata, considerata e presentata  come qualcosa di esterno e di neutrale. Spesso negli ultimi anni è stato utilizzato il convincimento che la tecnologia vada a una certa velocità,  e la cultura non riesca a starle dietro. Ma qui sta il vero problema: Il  grande equivoco è proprio l’idea che a questa civiltà ipertecnologica servano soltanto tecnici, o comunque  figure iperspecializzate.  Su questa strada si continua ad alimentare una dicotomia pericolosissima come quella che prevede rigide logiche di separazione tra formazione scientifica e  formazione umanistica. Per risolvere problemi complessi occorre una visione d’insieme, che solo una riunificazione dei saperi può fornire. Alcune indicazioni che arrivano anche dai Nobel, infatti, riconoscono esattamente il valore della transdisciplinarietà nell’affrontare problemi complessi come quelli che caratterizzano la nostra epoca. Altrimenti, come risolvere la complessità della composizione del vetro guardando anche il volo degli uccelli?

Scienziatology. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 5 ottobre 2021. Nel giorno in cui un suo collega di Fisica ha vinto il Nobel, sia pure in comproprietà (come Tamberi nel salto in alto), il professor Galli è stato indagato con altri ventitré luminari meno televisivi di lui per una storia di truccati. Immaginando la gioia sfrenata di No e Boh Vax — per i quali Galli rappresenta la versione meno timida di Nosferatu — sono andato a leggermi le loro reazioni. I social servono a mappare il pensiero umano, che sragiona allo stesso modo da millenni, ma mai prima d’ora aveva lasciato tracce scritte così minuziose dei suoi movimenti. Ebbene, con una certa sorpresa ho notato che il grosso dei commenti era del seguente tenore: «Galli aveva dubbi sull’utilità della terza dose, per questo lo hanno seccato». «Appena ha detto che i guariti non andavano vaccinati, il sistema lo ha scaricato». Nessuno entrava nel merito delle accuse, considerate ininfluenti: per loro, evidentemente, quando «il sistema» decide di farti fuori, estrae dall’armadio il primo scheletro che gli capita. Grazie ai social, adesso sappiamo con certezza che alcune persone non riescono a godere nemmeno delle disgrazie dei propri nemici. Nel momento in cui un nemico scivola, significa che non era il vero nemico, ma solo l’anello sacrificabile della catena. Forse i complottisti hanno bisogno di credere nell’esistenza di un manovratore supremo perché non reggerebbero la scoperta che ci troviamo tutti - anche loro, anche Galli - su un treno che corre incontro all’alba senza pilota.

Da Giosuè Carducci a Giorgio Parisi: ecco i venti italiani che hanno vinto il premio Nobel. Federico Tafuni su La Repubblica il 5 Ottobre 2021. Da Giosuè Carducci, vincitore del Nobel per la letteratura nel 1906, fino all'ultima vittoria di Giorgio Parisi, che si è aggiudicato il premio per la fisica. Sono venti gli italiani che hanno ricevuto l'ambita onorificenza, assegnata ogni anno a Stoccolma. Nomi più o meno noti, che hanno lasciato il segno nella letteratura, nella medicina, nella fisica e nell'economia.

Tutti i Nobel italiani nella storia. Quotidiano Nazionale Pubblicato il 5 ottobre 2021. I profili dei magnifici venti che hanno ricevuto il premio dall'Accademia svedese, prima del professore della Sapienza. Sono medici, fisici, letterati. E tra loro c'è anche un chimico e un pacifista. Sono le eccellenze italiane che hanno ricevuto il Nobel, onorificenza conferita dall'Accademia svedese. In più di cento anni di storia, 20 italiani hanno ricevuto il premio, distinguendosi per le loro ricerche, studi e iniziative. Anticipando il Nobel per la fisica 2021 di Giorgio Parisi. Di seguito, le biografie degli illustri premiati, da Camillo Golgi (1906) a Mario Capecchi (2007).

Camillo Golgi (1906)

Giosuè Carducci (1906)

Ernesto Teodoro Moneta (1907)

Guglielmo Marconi (1909)

Grazia Deledda (1926)

Luigi Pirandello (1934)

Enrico Fermi (1938)

Daniel Bovet (1957)

Salvatore Quasimodo (1959)

Emilio Gino Segrè (1959)

Giulio Natta (1963)

Salvatore Edoardo Luria (1969)

Eugenio Montale (1975)

Renato Dulbecco (1975)

Carlo Rubbia (1984)

Rita Levi-Montalcini (1986)

Franco Modigliani (1985)

Dario Fo (1997)

Riccardo Giacconi (2002)

Mario Capecchi (2007) 

Camillo Golgi (1906)

Il primo italiano a ricevere il Nobel nel 1906. Gli fu conferito il premio per la medicina "in riconoscimento del lavoro svolto sulla struttura del sistema nervoso" per la messa a punto della reazione nera, una tecnica che permetteva di vedere chiaramente al microscopio le cellule del tessuto nervoso, attraverso l’introduzione di tre reagenti dalla colorazione scura (acido osmico, bicromato di potassio, nitrato di argento) sul neurone e sui suoi organuli. Golgi nacque nel 1843 a Corteno, una cittadina bresciana del regno Lombardo-Veneto,  figlio di un medico. Laureato in medicina a Pavia nel 1865, nel 1872 diventò primario nella Pia Casa degli incurabili di Abbiategrasso. Nel piccolo laboratorio della struttura ospedaliera iniziò i primi studi sul sistema nervoso. Morì a Pavia nel 1926.

Giosuè Carducci (1906)

Il poeta e professore universitario fu il primo italiano a ricevere il Nobel per la letteratura nel 1906. "Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all'energia creativa, alla purezza dello stile e alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica", recita la motivazione dell'onorificenza svedese. Fautore di un classicismo vitale ed energico, fervente ateo (suo l'Inno a Satana), le sue raccolte di versi più note sono Rime nuove (1887) e Odi barbare (1877). Nato a Valdicastello, frazione di Pietrasanta (Lucca) nel 1835, morì a Bologna nel 1907, città dove insegnò come docente di letteratura italiana all'università. 

Ernesto Teodoro Moneta (1907)

Milanese, l'unico Nobel per la pace italiano ebbe una gioventù agguerrita. Combattè sulle barricate durante le Cinque giornate di Milano, partecipò alle battaglie del Risorgimento in ruolo antiaustriaco e fu garibaldino. A seguito della sconfitta italiana a Custoza (1866), Moneta si dedicò al giornalismo. Negli anni Novanta del 1800 iniziò il suo impegno per la pace. Fondò nel 1887 l'Unione lombarda per la pace e la Società per la pace e la giustizia internazionale e nel 1890 il quindicinale di propaganda La Vita Internazionale, dove i suoi interventi pacifisti posero le basi per il Nobel, ricevuto nel 1907. Morì nella sua città nel 1918. 

Guglielmo Marconi (1909)

L'inventore del radiotelegrafo ricevette il premio svedese per la fisica nel 1909 insieme a Carl Ferdinand Braun "in riconoscimento dei loro contributi allo sviluppo della telegrafia senza fili". Alla fine degli anni Ottanta del 1800 fu scoperto un tipo di radiazione allora sconosciuto: le onde radio. Si è scoperto che aveva la stessa natura della luce ma con una lunghezza d'onda maggiore. Nel 1895, Marconi riuscì a mandare un segnale a due chilometri di distanza all'interno della sua villa utilizzando le onde radio. Il suo contributo fu fondamentale per gettare le basi della telegrafia senza fili e della radio. Nato a Bologna nel 1874, morì a Roma nel 1937.

Grazia Deledda (1926)

La prima e l'unica donna italiana Nobel per la letteratura, onorificenza conseguita nel 1926. Nata a Nuoro nel 1871, portò l'immaginario mitico e pastorale della Sardegna a Roma, dove morì nel 1936. Nella capitale scrisse 350 novelle, 35 romanzi e poesie. I romanzi Elias Portolu e Canne al vento sono i suoi capolavori più celebri, opere che le valsero il Nobel per "per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi". 

Luigi Pirandello (1934)

Drammaturgo e romanziere, è il terzo Nobel italiano per la letteratura. Lo ricevette nel 1934 "per il suo coraggio e l'ingegnosa ripresentazione dell'arte drammatica e teatrale", riporta la motivazione del premio. L'autore dei romanzi Il fu Mattia Pascal e Uno, nessuno e centomila, la sua rappresentazione teatrale più celebre è Sei personaggi in cerca d'autore. La sua poetica si basava sulle menzogne che l'uomo si costruisce nel suo rapporto con l'altro. Nacque ad Agrigento nel 1867, studiò lettere a Palermo, Roma e Bonn. Morì a Roma nel 1936.

Enrico Fermi (1938)

Ottenne il Nobel per la fisica per le sue "dimostrazioni dell'esistenza di nuovi elementi radioattivi prodotti dall'irradiazione di neutroni e per la relativa scoperta di reazioni nucleari provocate da neutroni lenti".  Era il 1938 e il regime fascista aveva emanato le leggi razziali, che costrinsero il fisico a emigrare negli Stati Uniti in compagnia di sua moglie Laura, di religione ebraica. Nel 1934, Fermi e i suoi colleghi scoprirono che quando i neutroni vengono rallentati, per esempio mediante schermatura in paraffina, la velocità di interazione con i nuclei aumenta. Questa rivelazione ha portato alla scoperta di molti isotopi radioattivi finora sconosciuti. Nato a Roma nel 1901, morì a Chicago nel 1954. 

Daniel Bovet (1957)

Biochimico svizzero naturalizzato in Italia, gli fu conferito il Nobel per la medicina "per le sue scoperte relative a composti sintetici che inibiscono l'azione di alcune sostanze corporee, e soprattutto la loro azione sul sistema vascolare e sui muscoli scheletrici". All'epoca del premio (conferitogli nel 1957), svolgeva la sua attività nell'Istituto superiore di sanità a Roma. Il suo contributo fu fondamentale per la farmacologia, trovando nel 1937 il primo antistaminico, somministrato per alleviare le allergie. In seguito i suoi studi arrivarono ad altre formulazioni di antistaminici e ai composti curarici di sintesi (usati in anestesia). Morì a Roma nel 1992.

Salvatore Quasimodo (1959)

Poeta e docente di letteratura italiana al conservatorio "Giuseppe Verdi" di Milano, vinse il Nobel per la letteratura nel 1959 "per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi". Lasciati gli studi di ingegneria a causa di problemi economici, pubblicò la sua prima raccolta di poesie Acque e terre nel 1930. Dal 1938 si dedicò interamente alla scrittura. Indimenticabili i versi di Ed è subito sera. Nato a Modica nel 1901, morì a Napoli nel 1968.

Emilio Gino Segrè (1959) 

Uno dei ragazzi di via Panisperna, gruppo di giovani fisici che collaborava con Enrico Fermi all'Istituto di fisica della Sapienza di Roma. Anche lui, come Fermi, dovette abbandonare l'Italia nel 1938 a causa delle leggi razziali. Andò in California, dove intraprese gli studi sul nucleare. Partecipò insieme a Fermi al progetto Manhattan, che portò alla realizzazione della bomba atomica. Servendosi di un potente acceleratore di particelle, Emilio Segrè e Owen Chamberlain confermarono nel 1955 l'esistenza dell'antiparticella del protone, l'antiprotone. Entrambi vinsero il Nobel nel 1959 per questa scoperta. Nato a Tivoli nel 1905, morì a Lafayette in California nel 1989.

Giulio Natta (1963)

Lo studioso della plastica ricevette nel 1963 il Nobel per la chimica "per le sue scoperte nel campo della chimica e della tecnologia degli alti polimeri". La plastica è un materiale costituito da molecole molto grandi composte da lunghe catene di molecole più piccole. Natta è noto per aver perfezionato gli studi di Karl Ziegler sui catalizzatori, sostanze che accelerano il processo chimico utili alla creazione delle catene di molecole. Nel 1955 scoprì un catalizzatore che formava catene molecolari con le loro parti orientate in determinate direzioni: ciò ha permesso di produrre materiali gommosi e simili al tessuto. Natta nacque a Porto Maurizio (Imperia) nel 1903, si laureò in Ingegneria chimica al Politecnico di Milano. Sempre a Milano, nel 1939 divenne il direttore dell'Istituto di Chimica industriale dove effettuò le ricerche che lo portarono al Nobel. Morì a Bergamo nel 1979.

Salvatore Edoardo Luria (1969)

Medico e biologo italiano naturalizzato statunitense, nel 1969 fu premio Nobel per la medicina insieme ai colleghi Max Delbrück e Alfred Hershey per "le loro scoperte riguardanti il ​​meccanismo di replicazione e la struttura genetica dei virus". Fondamentale il contributo sui batteriofagi, virus che infettano i batteri, svuotando il loro materiale genetico. Nel 1943 Luria e Delbrück dimostrarono che i batteri, come gli organismi più complessi, si sviluppano attraverso mutazioni. Nato a Torino nel 1912, morì a Lexington (Massachusetts, Stati Uniti) nel 1991.

Eugenio Montale (1975)

Ossi di seppia (1925) e Occasioni (1939) sono le raccolte più note del poeta nato a Genova nel 1896. "Per la sua peculiare poesia che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani nel segno di una visione della vita senza illusioni" è la motivazione del suo premio Nobel per la letteratura nel 1975. In Spesso il male di vivere ho incontrato è racchiusa la sua malinconica poetica. Morì a Milano nel 1981.

Renato Dulbecco (1975)

Biologo e medico, ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1975 "per le sue scoperte riguardanti l'interazione tra i virus tumorali e il materiale genetico della cellula". Le sue ricerche rivoluzionarono la lotta contro il cancro e fra i suoi meriti, c'è la produzione di un vaccino contro la Poliomelite. È conosciuto per essere stato uno dei primi studiosi ad aver mappato e sequenziato il genoma umano, ciò che costituisce il patrimonio genetico dell'uomo. Nato a Catanzaro nel 1914, è morto nella località turistica di La Jolla a San Diego (California) nel 2012. Le ricerche di Dulbecco hanno riguardato maggiormente i virus tumorali con Dna come materiale genetico, si sono rivelate fondamentali anche per gli studi sui virus con Rna come materiale genetico.

Carlo Rubbia (1984)

Fisico e senatore a vita dal 2013, gli fu conferito il Nobel per la fisica nel 1984 insieme a Simon van der Meer "per i loro contributi decisivi al grande progetto, che ha portato alla scoperta delle particelle di campo W e Z, comunicatori di interazione debole". Secondo la fisica moderna, in natura operano quattro forze fondamentali. L'interazione debole è una di queste. In teoria, queste forze sono trasmesse dalle particelle, attraverso l'interazione debole delle particelle "W" e "Z". Nel 1983, Rubbia verificò l'esistenza di queste ultime attraverso esperimenti. Nato a Gorizia nel 1934, Rubbia si è laureato alla Normale di Pisa nel 1956 e ha svolto un dottorato di ricerca alla Columbia University di New York nel 1958. Nel 1960 ha lavorato alla Sapienza di Roma. È stato ricercatore al Cern di Ginevra dal 1961, poi direttore generale dal 1990 al 1993. Ha insegnato Fisica all'Università di Harvard dal 1971 al 1988.

Rita Levi-Montalcini (1986) 

Neurologa, accademica e senatrice a vita, Rita Levi Montalcini ha vinto nel 1986 il Nobel per la medicina grazie alle sue "scoperte sulla proteina legata ai fattori di crescita", ovvero i "nerve growth factor". Nata a Torino nel 1909 da una ricca famiglia di religione ebraica, padre ingegnere e matematico e madre artista, inizialmente considerò una carriera da scrittrice, ispirata dall'autrice svedese Selma Lagerlöf. Finì invece per studiare medicina all'università di Torino. Nel 1946 iniziò a lavorare alla Washington University di St. Louis (Usa) e ci rimase per 30 anni prima di tornare in Italia e stabilirsi a Roma. Specializzandosi in neurologia, Rita Levi-Montalcini si concentrò sul processo di divisione cellulare e la conseguente distribuzione delle funzioni. Nel 1952, durante uno studio, isolò a partire da alcuni topi in laboratorio una sostanza che provoca la crescita del sistema nervoso negli embrioni dei polli: sono le proteine note come fattori di crescita. Con questa scoperta è stato possibile approfondire enormemente la conoscenza di problemi quali la deformità, la demenza senile e le stesse malattie tumorali. Non contenta, Rita Levi-Montalcini era anche attivissima in politica: è morta a 103 anni a Roma nel 2012, diventato il premio nobel più longevo. 

Franco Modigliani (1985)

Franco Modigliani ricevette il Nobel per l'economia nel 1985. Nacque a Roma nel 1918 e dal 1939 si trasferì a New York, dove fu allievo dell'economista russo Jacob Marschak. Dal 1962 iniziò a insegnare economia e finanza al Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston. Il premio gli fu conferito "per le pionieristiche analisi sul risparmio delle famiglie e sui mercati finanziari". Modigliani, assieme a Merton Miller, formulò il cosiddetto Teorema di Modigliani-Miller della finanza aziendale, e fu l'ideatore dell'ipotesi del ciclo vitale, che spiega come il risparmio ed il consumo cambino nell'arco di vita di un individuo. È morto a Cambridge (Stati Uniti) nel 2002. 

Dario Fo (1997)

Dario Fo vinse il Nobel per la letteratura nel 1997. Nato a Sangiano, vicino al Lago Maggiore, nel 1926, fece il suo debutto come attore nel 1952. Il suo lavoro era basato sulla farsa medievale e sulla buffoneria della commedia dell'arte. Con l'opera Mistero Buffo (1969) si fece conoscere con la sua satira sociale e politica. L'assegnazione del premio da parte dell'Accademia fu motivata così: "perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi". È morto a Milano nel 2016.

Riccardo Giacconi (2002)

L'astrofisico genovese Riccardo Giacconi ha vinto il Nobel per la fisica nel 2002 insieme a Raynond Davis e Masatoshi Koshiba per il loro contributo all'astrofisica e per aver dato apporto alla scoperta delle sorgenti cosmiche a raggi X. Genovese, nato nel 1931, Giacconi negli anni '60 ebbe un ruolo importante nello sviluppo di telescopi satellitari in grado di studiare le radiazioni spaziali. Fu insignito del premio per "contributi pionieristici all'astrofisica, che hanno portato alla scoperta delle sorgenti dei raggi X". È morto a San Diego (Usa) nel 2018.

Mario Capecchi (2007)

Mario Capecchi ha ricevuto il Nobel per la medicina nel 2007, assieme a Oliver Smithies e Martin Evans. Nato a Verona nel 1937, successivamente ha studiato e lavorato negli Stati Uniti. Negli anni '80, Capecchi scoprì che alcune sezioni di Dna inserite nei nuclei cellulari dei mammiferi potevano essere incorporate nel genoma delle cellule. L'Accademia gli conferì il premio "per le sue scoperte di principi per introdurre specifiche modifiche genetiche nei topi mediante l'uso di cellule staminali embrionali". 

·        Scienza ed Arte.

Da Leonardo all'iPhone: cos'è la scienza senza l'arte? Tiziano Bernard il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. La scienza è una disciplina rigorosa, oggettiva, basata su fatti, osservazioni ed una solida struttura matematica. L'arte invece è una disciplina espressiva, spesso soggettiva, dove la mente umana può esplorare le sue profondità. Scienza ed arte sono quindi poli opposti? Oppure due parti che compongono l'essere "umano"? Scienza e arte vengono spesso considerate opposte. Dobbiamo infatti spesso scegliere tra una verità scientifica o un pensiero umanistico. Fin dal liceo ci si comincia ad identificare con l’una o con l’altra disciplina. “Io faccio il classico”, “io faccio il scientifico”, “io faccio l’artistico”, sono le autodefinizioni che si danno i ragazzi da ormai generazioni. Certo, non è una caratteristica strettamente italiana. Anche altri percorsi accademici permettono agli alunni di scegliere le materie principali, studiandole ad alto livello, e quelle secondarie, studiandole ad un livello base. Bè, in effetti per prepararsi ad una carriera è sempre meglio iniziare a specializzarsi il prima possibile. All’università questo viene enfatizzato ancora di più. Chi studia ingegneria, o elettronica, tenderà a seguire corsi strettamente scientifici. C’è chi pensa che questo sia però la rotta sbagliata, destinata a limitare l'innovazione, la creatività e la simbiosi tra l’uomo e la tecnologia. Nell’ambito internazionale, le materie scientifiche vengono abbreviate con l’acronimo “Stem”: science (scienze), technology (tecnologia), engineering (ingegneria) e mathematics (matematica). Le discipline Stem sono un punto focale di sviluppo di governi come gli Stati Uniti, che cercano con borse di studio, premi, ed incoraggiamenti a produrre più scienziati. Tra gli accademici Stem c’è anche qualche rivoluzionario, scienziati che spingono per trasformare Stem in “Steam”, aggiungendo “l’arte” alle materie scientifiche. Con l’avvento di tecnologie sempre più focalizzate sull’integrazione umana (basti pensare agli smartphone), c’è una grande necessità di reintrodurre le arti nelle scienze, proprio come ai tempi di Leonardo. Le discipline UX/UI (user experience/user interface design), cioè quelle specializzate nel design di tecnologie che richiedono un’interazione umana, sono le prime ad averne bisogno. Per quanto si studia per diventare un designer tecnologico, ci vuole di più. Non basta conoscere i segreti dei touch screen o del riconoscimento facciale. Bisogna avere un tocco artistico per capire le proporzioni, l’eleganza di un menu che non richieda l’uso di un manuale: la perfetta ergonomia. Gli ingegneri di Apple (come tante altre aziende), con titoli di studio scientifici, hanno questa caratteristica. Sono artisti e scienziati allo stesso tempo. Pensiamo anche ad un ingegnere navale. Per rendere una barca veloce ma bellissima allo stesso tempo bisogna avere una conoscenza di idrodinamica ed un occhio per il design. Non si intende avere una laurea in storia dell’arte, ma però sviluppare un senso del bello. Questo non è certo facile o possibile per un ingegnere dedicato alla progettazione di un circuito elettronico. Avere potenzialità artistiche non è strettamente necessario (o forse si?). Certamente si può essere d'accordo sul fatto che la creatività sia una dote applicabile a qualsiasi professione. Qualsiasi lavoro che richieda la risoluzione di problemi potrà beneficiare da una persona creativa. Ideare un nuovo modo di organizzare un archivio, riparare un motore senza tutti gli strumenti necessari, oppure atterrare un aereo durante un'emergenza in un prato sono alcuni esempi che mi vengono in mente... La creatività è una qualità necessaria. Nella cultura generale lo studio delle arti può comunque giovare. Che sia lo studio della musica, filosofia, arte, letteratura… può complementare una formazione scientifica. Per esempio, molti studi dimostrano come lo studio della musica aiuti la mente a comprendere la matematica. Le note su un pentagramma possono avere molte complessità di natura matematica. Comprenderle ed eseguirle permette quindi anche lo sviluppo della logica (necessaria in matematica) che senza dubbio stimola e matura il pensiero. Il desiderio di esercitare il proprio pensiero porta spesso alla filosofia ed altre forme di espressione come la scultura, la pittura, e molto altro. Si riesce quindi ad apprezzare il mondo che ci circonda in maniera più profonda. Forse, chissà, in maniera più umana. È tutto collegato. Come disse Albert Einstein (1879-1955), “La cosa più lontana dalla nostra esperienza è ciò che è misterioso. È l'emozione fondamentale accanto alla culla della vera arte e della vera scienza. Chi non lo conosce e non è più in grado di meravigliarsi, e non prova più stupore, è come morto, una candela spenta da un soffio.” L’emozione che riesce a generare la più grande arte, come la più grande scienza, può avere la stessa origine. E Einstein non fu l’unico a parlarne. Jules Poincarè (1854-1912) disse che “uno scienziato degno del suo nome, al di sopra di tutto un matematico, sente nel suo lavoro la stessa impressione di un artista; il suo piacere è ugualmente grande e della stessa natura." Possiamo quindi dire che è necessario per uno scienziato avere anche una semplice conoscenza umanistica, oppure le strette conoscenze tecniche sono sufficienti a svolgere una professione? Sono domande difficili, è come tanti pensieri di natura filosofica devono essere studiati, digeriti, rigurgitati, ed infine distillati con un attento pensiero critico. Sappiamo che certe professioni lo richiedono. È difficile per un ingegnere UX/UI completare un lavoro senza avere un tocco creativo ed artistico (parlo per esperienza professionale). Una mente artistica, o almeno con un contatto artistico, potrà vedere le cose in modo nuovo, innovativo e geniale. In inglese si dice "think out of the box": "pensare al di fuori della scatola". L'innovazione richiede senza dubbio una mentalità aperta con la capacità di guardare "avanti". Può l'arte aiutare in questo? Ma se abbandoniamo questo pensiero concreto e ci dedichiamo ad un livello più astratto (e forse più importante), cosa troviamo? Può l’uomo vivere, prendere decisioni, guardare il mondo, con un’osservazione puramente oggettiva e “scientifica”? Ahimè, forse non più. La società attuale nel mondo sembra aver bisogno di più pensiero critico, studio, riflessione e meno “urla e proteste” dove spesso nessuno ne conosce o capisce il motivo reale. Certamente, nel progettare veicoli che possono portare un “civile qualsiasi” nello spazio, Virgin Galactic e SpaceX studiano sicuramente anche gli aspetti “umanistici”. Non deve un medico studiare l’etica per poter esercitare la professione? Juan Trippe, il fondatore di Pan American World Airways (spesso riferita con il suo abbreviativo “Pan Am”), disse che un aereo pieno di turisti entusiasti avrebbe avuto più influenze sul destino dell’uomo che la bomba atomica. È un pensiero profondamente filosofico ed umanistico. Bè, quel pensiero è stata la linea guida della compagnia aerea per decenni, la stessa compagnia che ha portato il famoso Boeing 747 nei nostri cieli e che ci ha permesso di attraversare l’oceano per visitare nuovi luoghi e nuove culture. Il pensiero umanistico ha guidato lo sviluppo tecnologico. Davvero bellissimo. L’arte e la scienza sono due discipline diverse e separate. Non per questo non possono complementarsi. L’arte può allenare il pensiero e guidare la ricerca scientifica. C’è una frase che si sente spesso in giro: “la scienza ti dice come costruire una bomba atomica, ma solo le arti ti possono dire se devi”. Non è una frase facile ed il concetto è forse in qualche modo esagerato. Ma pensiamo a qualcosa di altrettanto potente e molto meno fatale: i social media. Sono uno strumento straordinario, ma permettono anche la condivisione di pensieri. Non che questo per se sia un problema. Il problema è che formare un pensiero maturo è cosa molto complicata. Va ponderato, esaminato e auto-criticato per poi diventare un’opinione solida. È quindi necessario per chi legge un pensiero altrui (che potrebbe essere un pensiero poco sviluppato) di essere ben preparato sia dal lato oggettivo, cioè conoscerne il tema, che quello umanistico, per raccogliere dal pensiero altrui un “distillato”, appunto, che potrà poi arricchire la propria persona.

Tiziano Bernard. Sono nato a Trieste, una città giuliana sul Mare Adriatico nel 1992. Da mia madre pianista ho ereditato il lato artistico studiando violino al conservatorio Tartini di Trieste e da mio padre biologo ho assorbito la mentalità razionale e scientifica che mi ha portato a diventare ingegnere aerospaziale e pilota. Dopo un’istruzione all’International School of Trieste, mi sono trasferito in Florida dove ho conseguito una laurea in ingegneria aerospaziale a 22 anni, un master in prove di volo (flight test) a 23, ed un dottorato di ricerca in ingegneria cognitiva (human-centered design) a 26 presso il Florida Institute of Technology. Finiti gli studi, nel 2019 ho lasciato il mondo accademico per dedicarmi all’industria aeronautica. Ho progettato cabine di pilotaggio per Garmin fino al 2021 ed ora mi occupo di prove di volo su jet privati con un grande costruttore negli Stati Uniti. Non sono riuscito a lasciare completamente il mondo accademico. Infatti, continuo a pubblicare trattati scientifici e a parlare e tenere lezioni in aerospazio e performance umana presso congressi ed atenei quando posso. Nel 2017 ho ricevuto la medaglia bronzea dal Comune di Trieste per i miei impegni in ambito aerospaziale e nel 2019 sono stato eletto da Forbes Italia alla lista “under 30” per le scienze. Appartengo all’Ordine al Merito della Real Casa di Savoia e all’Ordine di S. Giovanni. Collaboro con ilGiornale.it - con grande piacere ed orgoglio - dal 2018.

·        Il lato oscuro della Scienza.

Dagotraduzione dalla Reuters il 12 ottobre 2021. L’ex direttore dell’ufficio del Pentagono dedicato all’Intelligenza Artificiale ha detto al Financial Times che sul software la Cina ha vinto la guerra con gli Stati Uniti. Secondo le valutazioni dell’intelligence occidentale, entro un decennio la Cina, la seconda economia più grande del mondo, probabilmente dominerà molte delle principali tecnologie emergenti, in particolare l'intelligenza artificiale, la biologia sintetica e la genetica entro un decennio circa. Nicolas Chaillan, il primo chief software officer del Pentagono che si è dimesso per protestare contro il lento ritmo della trasformazione tecnologica nell'esercito americano, ha affermato che la mancata risposta sta mettendo a rischio gli Stati Uniti. «Tra 15, 20 anni non avremo alcuna possibilità di combattere contro la Cina. In questo momento, il danno è già stato fatto; secondo me la battaglia è già finita», ha detto al giornale. La Cina è destinata a dominare il futuro del mondo, controllando tutto, dalle narrazioni dei media alla geopolitica, ha detto Chaillan. Secondo l’ex direttore, l'innovazione lenta, la riluttanza delle aziende statunitensi come Google a lavorare con lo Stato sull'intelligenza artificiale e gli ampi dibattiti etici sulla tecnologia sono alla base del fallimento. Le aziende cinesi, ha detto Chaillan, sono state obbligate a lavorare con il loro governo e a fare "investimenti massicci" nell'intelligenza artificiale senza riguardo all'etica. Ha detto che le difese informatiche statunitensi in alcuni dipartimenti governativi sono a «livello di scuola materna». Chaillan ha annunciato le sue dimissioni all'inizio di settembre, affermando che i funzionari militari sono stati ripetutamente incaricati di iniziative informatiche per le quali non avevano esperienza. Un portavoce del dipartimento dell'aeronautica ha affermato che Frank Kendall, segretario dell'aeronautica americana, ha discusso con Chaillan le sue raccomandazioni per il futuro sviluppo del software del dipartimento dopo le sue dimissioni e lo ha ringraziato per i suoi contributi, ha detto il FT.

Dagotraduzione da Express.co.uk l'1 giugno 2021. La collaborazione internazionale tra diversi scienziati ha dato vita allo sguardo più ampio e dettagliato mai visto sulla sostanza più sfuggente dell'universo. La materia oscura rappresenta circa l'80% di tutto nel cosmo, ma la misteriosa sostanza finora è sfuggita al nostro sguardo - da qui il termine "oscuro". La Dark Energy Collaboration (DES) ha tracciato la distribuzione della materia oscura nell'universo, rivelando come la sostanza si diffonde e dove si concentra. Anche se non possiamo vederla o interagire con essa, gli scienziati possono vedere gli effetti gravitazionali che la materia oscura ha sulla luce, sulle galassie e sulle nubi di gas stellare. I ricercatori ora sanno che la materia oscura è diffusa in tutto l'universo più lontano e in modo più uniforme di quanto si pensasse in precedenza. La scoperta inaspettata solleva interrogativi sulla relatività generale di Albert Einstein, una pietra miliare della fisica del XX secolo e il nostro miglior modello di gravità fino ad oggi. Anche se i risultati non smentiscono ancora del tutto i modelli di Einstein, non vi corrispondono perfettamente. Secondo il dottor Niall Jeffrey, dell'École Normale Supérieure di Parigi, i risultati potrebbero essere un "vero problema" per i fisici. La teoria della relatività generale, o semplicemente la relatività generale, descrive la gravità come una curvatura del tempo e dello spazio, e non come una forza che attrae gli oggetti l'uno all'altro. Einstein propose il modello rivoluzionario nel 1915, prevedendo fenomeni astronomici come le onde gravitazionali. Sulla base dei modelli di Einstein, gli astronomi del DES si sarebbero aspettati di osservare concentrazioni più confuse di materia oscura, ma non è stato così. Il dottor Jeffrey ha dichiarato alla BBC News: «Se questa disparità è vera, forse Einstein si sbagliava. Si potrebbe pensare che sia una cosa brutta, che forse la fisica è sbagliata. Ma per un fisico, è estremamente eccitante. Significa che possiamo scoprire qualcosa di nuovo sul modo in cui l'Universo è fatto realmente». Il professor Carlos Frenk della Durham University ha convenuto che gli scienziati potrebbero essere sul punto di scoprire una nuova fisica. Ha detto alla BBC che il sondaggio DES potrebbe portare a un «dominio completamente sconosciuto» e che il pensiero gli fa «rabbrividire lo stomaco».

Quando la scienza trascina il mondo nel suo lato oscuro. Scoperte, errori, feticci ed effetti inattesi: l'aspetto meno celebrato del mito moderno. Eleonora Barbieri - Sab, 20/02/2021 - su Il Giornale. La divinità estende le sue braccia, lunghe e molteplici, sul pianeta intero. Arriva ovunque, perfino nelle nostre menti. La divinità è inarrestabile, resistere al suo potere e al suo fascino è impossibile e, dall'illuminismo in poi, (quasi) nessuno osa mettere in dubbio che la divinità sia sacra, che la sua autorità sia assoluta. Eppure, la dea fa paura. La dea, la scienza, fa paura tanto quanto è indispensabile alle nostre vite; e fa paura perché, come la divinità dalle molteplici braccia, non porta soltanto al bene. A volte la scienza, le sue scoperte, l'utilizzo che ne viene fatto, trascinano verso il male, assoluto anche lui. Al cuore della dea c'è il buio, una oscurità che non è soltanto una suggestione, o un timore da umanisti romantici, o una resistenza da bigotti: è l'altro lato della nostra luna luminosa, che gli stessi scienziati hanno intravisto e, quando è successo, qualcosa è cambiato. Lo raccontano, in modi molto diversi, Benjamin Labatut e Naomi Oreskes: il primo è uno scrittore olandese che vive in Cile, la seconda è una professoressa di Harvard, dove insegna Storia della scienza e Scienze della Terra. Perché fidarsi della scienza? (Bollati Boringhieri, pagg. 194, euro 20) di Oreskes è un saggio, che si muove sul terreno della filosofia della scienza e dell'epistemologia e che nonostante, o forse proprio per via dei dubbi che semina, dà una risposta alla domanda del titolo; e la risposta è basata su una visione consensuale e collettiva della scienza, il che forse può sembrare poco, ma in realtà è moltissimo, se si pensa che la studiosa fa a pezzi il feticcio del metodo scientifico, mette in discussione l'autorità della scienza e l'ideale della sua purezza e neutralità e mostra una serie di errori compiuti, più o meno in buona fede, negli ultimi secoli, che sono la prova che anche l'esattezza può essere sbagliata (però, cosa importantissima, ce ne siamo accorti, o meglio, altri scienziati se ne sono accorti). Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, pagg. 180, euro 18) di Labatut è un romanzo, una «non fiction novel» dicono gli anglosassoni, in cui il lato oscuro è scandagliato a livello intimo, umano, e l'umanità di cui parla Labatut sono gli scienziati stessi. Si parte da un colore, il blu di Prussia: una tonalità magnifica, così magica da ricordare il misterioso hsbd iryt, il blu del cielo dei dipinti egizi, la cui formula andò perduta. All'inizio del Settecento, uno svizzero di nome Diesbach inventa nel suo laboratorio il blu di Prussia (anche se in realtà sta cercando il carminio), poi si fa fregare il business dal suo finanziatore, l'entomologo Frisch (le cui idee sulla coltivazione dei gelsi saranno riprese dai nazisti), ma ciò che è più importante è l'apporto del suo assistente, un certo Dippel, alchimista, proprietario del castello di Frankenstein a Darmstad, noto per la sua crudeltà e perversione nel sezionare e sperimentare su animali vivi e morti. Nella leggenda nera di Dippel emerge quell'oscurità che avvolge la scienza nel suo profondo: il suo «elisir di lunga vita» sarà versato dai nazisti nei pozzi d'acqua del Nordafrica per fermare gli inglesi; il suo meraviglioso blu comparirà nella Notte stellata di Van Gogh e nella Grande onda di Kanagawa di Hokusai, «ma anche nell'uniforme della fanteria dell'esercito prussiano, come se la struttura chimica del colore portasse in eredità la violenza, l'ombra, la macchia originaria degli esperimenti dell'alchimista che faceva a pezzi animali vivi». Questi mostri ispirarono a Mary Shelley il suo Frankenstein, in cui «mise in guardia contro il progresso cieco della scienza, la più pericolosa di tutte le arti umane». Questo è soltanto un assaggio di Labatut e degli intrecci in cui travolge il lettore. Dall'inquietante Dippel si passa al chimico Carl Scheele, scopritore di sostanze e colori, che inventò un favoloso verde smeraldo grazie all'arsenico (e avvelenò così sé stesso, molti bambini e probabilmente anche Napoleone, che adorava la tinta) e scoprì il cianuro, unendo... il blu di Prussia e l'acido solforico. Che dire del cianuro? Morti illustri, da Turing ai vertici del Terzo Reich, al «resistente» Rasputin; fino alla sua combinazione mostruosa con una serie di altre sostanze che portò a un potentissimo pesticida, lo «Zyklon», ovvero il «ciclone». Così potente da avere sterminato milioni di ebrei nelle camere a gas. Solo che ad inventarlo era stato un ebreo (ignaro dell'uso che ne avrebbe fatto il governo del suo adorato Paese), Fritz Haber, la mente che concepì il primo attacco col gas durante la Grande guerra, il che spinse la moglie Clara, chimica anche lei, al suicidio («lo accusò di aver corrotto la scienza al fine di creare un metodo di sterminio di massa...»); lo stesso Haber che vinse il Nobel per la chimica, perché aveva scoperto come estrarre azoto dall'aria e, in pratica, aveva risolto per sempre il problema dei fertilizzanti. Haber, lo sterminatore, è anche l'uomo che ha liberato mezzo mondo dalla fame e consentito il boom demografico, insomma è l'uomo che ha portato al mondo di oggi. Tutto questo dimostra, come scrive Oreskes, che «non possiamo eliminare il ruolo della fiducia nella scienza, ma gli scienziati non dovrebbero aspettarsi che il pubblico accetti le loro dichiarazioni soltanto in virtù di essa». Gli scienziati non sono soltanto fallibili, sono persone con i loro valori (per fortuna, anche: chi si fiderebbe di qualcuno «senza valori»?), anche se faticano a dichiararli, e sono sì «esperti», ma soltanto di quella che Oreskes chiama la «relazione con il mondo». Insomma, se parlano d'altro, non sono più esperti, anzi... «Il punto è che la nostra fiducia non va agli scienziati - per quanto saggi o retti possano essere - ma alla scienza in quanto processo sociale, che sottopone le proprie affermazioni a rigoroso scrutinio». Questo perché «il metodo scientifico» è un miraggio, una «formula magica» che non esiste se non nell'immaginario, superata dall'«immagine della scienza come attività comunitaria di esperti, che impiegano metodi diversi per raccogliere evidenza empirica e passano al vaglio le conclusioni che ne traggono». In questo senso, la diversità di valori e opinioni fra scienziati è una garanzia ulteriore di controllo; l'«attività neutrale è un mito», perché «l'utile» è da sempre parte della ragion d'essere della scienza; e, «se la storia della scienza ci insegna qualcosa, è l'umiltà». Oddio, l'umiltà a volte abbandona i personaggi di Labatut, eppure è proprio nelle nebbie di Helgoland, quando Heisenberg si immerge nel mondo quantistico, o sul fronte russo, quando Schwarzschild è impegnato con le truppe tedesche e a risolvere le equazioni della relatività di Einstein, è lì, quando la mente arriva alle sue vette, a un passo da una rivoluzione, che il passo successivo conduce nell'abisso: l'inconoscibilità al cuore del piccolissimo, il caos e l'indeterminazione delle particelle subatomiche; l'inconoscibilità del mostruosamente grande, di quei buchi neri (di cui Schwarzschild per primo intuì l'esistenza), in cui ogni razionalità che per noi governa la realtà salta, e non vi è più nulla di intelligibile, non vi è più nemmeno la luce, e c'è solo una immensa, paurosa oscurità. Nella più perfetta delle teorie, nulla ha più senso. Tutto funziona, grazie a questa teoria: internet, i treni, i cellulari, eppure «non c'è una sola anima, viva o morta, che la capisca veramente». E il mondo è «un meraviglioso inferno».

·        "Il sapere è indispensabile ma non onnipotente".

Nella mente di un No-Vax. Luc Ferry su La Repubblica il 28 agosto 2021. Ecco perché conta di più capire la struttura che sorregge il suo pensiero piuttosto che coprirlo d’insulti o di grandi discorsi. Nel fronteggiare il complottismo che aleggia sulla pandemia, chi si sforza di argomentare, di esporre fatti, viene preso per agente segreto del complotto stesso. A buon diritto Emmanuel Macron, anzi lui e tutti i democratici, sono impensieriti dall'escalation di movimenti complottisti che invitano alla disobbedienza civile. Detto questo, se si ha intenzione di convincere qualcuno, conta di più capire la struttura psicologica che sorregge il suo pensiero, anziché coprirlo d'insulti o di grandi discorsi. 

Nella mente di un no vax. Intervista all'esperto. De Agostini l'11/01/2021. Qual è il confine tra la libertà di espressione e la libertà di insulto, di spinta e fiera asineria, di mistificazione aggressiva? Perché davanti a un'idea o convinzione, giusta o sbagliata che sia, molte persone non riescono - complice lo schermo dei social - a rinunciare alla cieca e sorda invettiva? E soprattutto qual è il segreto di chi, nel chiasso e nella complessità dei nostri giorni, riesce ad avere e ad esprimere tutte queste granitiche certezze? Me lo sono chiesta con insistenza, di recente, leggendo decine e decine di infuriati commenti sul vaccino di tanti utenti del web. Tantissime persone apparentemente molto diverse tra loro eppure, pare, tutte accomunate da uno stesso denominatore: una laurea all’Università della Vita, curriculum Social Network, con esame bonus in “Laboratorio di ricerca video ke nessuno ti farà vedere”. La sicurezza delle loro affermazioni sul 5G infettivo, sui microchip infilati nelle vene, sul tentativo di farci morire tutti e/o trasformarci in automi, servi di un grande dittatore che ci osserva seduto su un trono d’oro posizionato al centro della terra (piatta), mi ha inquietata e destabilizzata al punto di dovermi rivolgere a un esperto. Dove nasce tutto questo livore? A chi credere e perché? Come resistere all'incertezza, alla solitudine, alla nostra stessa sfibrante ignoranza, quindi alla paranoia?  A chiarirmi le idee è Il Dott. Armando De Vincentiis, psicologo e direttore scientifico della collana Scientia et Causa di C1V Edizioni, che riunisce i contributi di autori esperti del mondo accademico, professionisti specializzati in medicina e ricerca, professionisti della comunicazione; curatore e tra gli autori del libro Vaccini, complotti e pseudoscienza.

Dottore, mi spieghi per cortesia il motivo per cui dovrei fidarmi di lei e dei suoi colleghi, e non di altri esperti, anche medici, che invece dicono esattamente il contrario di ciò che lei sostiene, e lo fanno con la sua stessa convinzione.

Perché davanti a un dibattito scientifico il concetto di opinione o di autorità non ha senso. Dietro alle affermazioni di uno scienziato c'è un lungo e articolato lavoro di ricerca: se per esempio io dico che i vaccini sono utili e necessari mi sto basando sulla letteratura scientifica sull'argomento, ovvero su lavori che sono stati pubblicati su riviste scientifiche sottoposte a revisione paritaria. 

Cioè?

Le ricerche di uno scienziato o di un team di scienziati vengono valutate da altri colleghi che hanno le stesse competenze, se c'è qualcosa che non va il lavoro viene rispedito al mittente, che lo rivede e lo rinvia; se c'è altro che non va viene ulteriormente revisionato e così via: ciò che viene pubblicato è controllato e ricontrollato e si basa dunque su dati di fatto. In più, una volta avvenuta la pubblicazione, altri ricercatori indipendenti lavoreranno su quella "ricetta": se giungono a risultati diversi evidentemente c'è un problema, una contraddizione, c'è bisogno di un'ulteriore revisione. Se invece altri ricercatori indipendenti ottengono gli stessi risultati è evidente che, fino a prova contraria, quel lavoro è corretto.

Ma se io le porto una ricerca firmata da scienziati che sostengono di aver riscontrato in alcuni vaccini la presenza di "contaminanti inorganici tossici", lei che mi risponde?

Rispondo che voglio vedere le fonti. Che voglio vedere su quali basi queste ricerche sono state effettuate. Possono avere anche la firma di cento medici, ma questo non è garanzia di correttezza scientifica. Chiedo: mi fa vedere le pubblicazioni a revisione paritaria sulle quali sono state pubblicate queste cose? E quali sono le pubblicazioni che dimostrano che queste cose fanno male alla salute? 

E se a parlare è un premio Nobel?

Se sono un premio Nobel e dico che il coronavirus è stato fatto in laboratorio, chi mi ascolta riceve le mie parole basandosi su quello che viene chiamato principio di autorità. Ma anche il Premio Nobel deve dimostrare attraverso fonti, ricerche e prove quello che dice. Se le fonti sono scorrette e le prove non ci sono anche il Premio Nobel ha detto una sciocchezza. In ambito scientifico il principio di autorità non esiste. Qualsiasi scienziato può essere paragonato a un uomo di strada quando esprime qualcosa che non è suffragato da prove. 

Che motivo avrebbe un medico - ce ne sono tanti - di veicolare messaggi non corretti?

Ci sono due elementi e valgono sia per le persone comuni che per i medici. Essere complottista ti dà una sorta di status, che fa risuonare il tuo nome. Io posso essere un medico qualsiasi, tra tanti. A un certo punto in un contesto caotico emergo dicendo che ci stanno prendendo in giro: chi è confuso, impaurito, non competente, è pronto ad ascoltarmi, quasi a divinizzarmi. Chi non ha strumenti culturali e tecnici per difendersi, crede e diffonde le mie notizie trasformandomi in un punto di riferimento "alternativo". Altre volte anche il medico può avere un'ideologia, può essere condizionato da un orientamento mentale più filosofico che scientifico, può essere spinto da principi ideologici che nulla hanno a che fare con la scienza.

In alcune circostanze, come per il vaccino antinfluenzale del 1976, pare ci sia stata una correlazione con gravi problemi di salute. 

Bisogna capire la differenza tra correlazione e rapporto causa effetto, perché c'è una correlazione anche tra alcune malattie e il consumo di pasta asciutta: se cerchi qualcosa che possa accomunare la malattia e la pasta asciutta la trovi. Esiste uno studio che dimostra la correlazione tra l'osservazione di film di Nicholas Cage e l'aumento di morti annegati in piscina. Questo è un esempio di correlazione, nella quale però non c'è rapporto causa-effetto. A meno che non pensiamo che guardare Cage ci faccia morire annegati in piscina. Pur essendo a volte una correlazione suggestiva di un fatto, spesso è soltanto un andamento di tendenze che tra loro non hanno alcun legame effettivo.

Così per vaccino e autismo? Mi spiega quella storia, oggi ancora molto citata dagli antivaccinisti?

Un medico britannico, Wakefield, a un certo punto fece una pubblicazione "dimostrando" che un numero molto ristretto di bambini vaccinati aveva avuto reazioni di tipo autistico. Attraverso un'indagine successiva venne fuori che si trattò di una frode. In seguito anche la rivista che aveva pubblicato lo studio dovette ritrattare incondizionatamente l'articolo. 

Perché allora si continua a sostenere questo legame?

Perché, come spesso accade, la smentita ebbe meno risonanza del polverone alzato da quella pubblicazione, e molti continuano a sostenerla, pur essendoci moltissimi studi che ne confermano e riconfermano l'infondatezza. Se fai un giro su internet trovi un sacco di grafici che mostrano una correlazione tra la somministrazione del vaccino sui bambini e un aumento di casi di autismo. Correlazione, come già detto, fuorviante: tra milioni di vaccinati è normale che ci siano anche casi di autismo, di bambini che si sarebbero ammalati anche senza vaccino. Esattamente come milioni di persone mangiano la pasta asciutta e poi si ammalano di cuore. Fino a prova contraria, la pasta asciutta non è causa di infarto.

Fatto sta che molti genitori sostengono che i loro bambini si siano ammalati dopo il vaccino. Trovare un colpevole davanti alle cose che non possiamo o riusciamo a controllare ci fa sentire meglio?

Sì. Trovare un colpevole mi dà l'illusione di poter fare qualcosa. Se un problema è dato - ad esempio - da questioni genetiche, io non posso fare nulla, devo accettarlo così come è. Se  invece ho la convinzione che sia colpa di qualcuno, innanzitutto so con chi prendermela, e poi mi sento in grado di aiutare gli altri, di fare qualcosa, di agire su qualcosa. Una sorta di deresponsabilizzazione. Pensare che l'autismo possa avere a che fare con la genetica può essere erroneamente percepito da alcuni genitori come una "colpa". Se si trova il capro espiatorio si fugge anche da questo tipo di sofferenza.

Cosa avviene nella mente di chi, sul web, infervorato, urla al complotto senza sentire altre ragioni?

Scattano una serie di meccanismi psicologici, tra questi, il principio di negazione. Una difesa contro la paura. Negando il problema allontano il timore. Se qualcuno mi dice che ci sono morti, ricoveri, infezioni e io insisto nel dire che è un imbroglio, mi sto difedendo dalla paura che non mi consentirà di essere libero, di uscire, di incontrare gente.

Quali sono le fonti dei novax?

I negazionisti trovano le informazioni nella loro bolla, non oltre, tra altri complottisti e negazionisti. È circolo chiuso, si informano tra loro. Se qualcuno cerca di entrare in quella bolla, viene etichettato come colui che sta mettendo in atto un complotto, perché avrebbe degli interessi. Interessi spesso fantascientifici, come quello del controllo: facendo impoverire le persone, uccidendole, non è certo il controllo che si ottiene. Aumenta semmai il disagio, aumentano le rappresaglie, le proteste.

Ci sono novax anche tra, ad esempio, docenti universitari. 

Su certi temi l'opinione del plurilaureato non ha né più né meno valore di quella di una persona poco o per nulla formata. In entrambi i casi non si hanno gli elementi culturali e tecnici per comprendere e quindi esprimere pareri scientifici. Al di là dei complottisti e delle degenerazioni di cui sopra, esiste una larga fetta di popolazione che teme il vaccino. Molti genitori attenti e tutt'altro che irrazionali, ad esempio, hanno paura di vaccinare i propri bambini. Che sia condivisibile o meno, sembra una scelta comprensibile, vista la confusione sul tema.  Sì, e in questo caso non è colpa loro ma dell'informazione: sono bombardati da informazioni conflittuali, e la reazione tipica alle informazioni contradditorie è la paranoia. Avviene anche in famiglia. Se a un adolescente il padre dice una cosa e la madre ne dice un'altra la reazione è paranoica: "Qui qualcuno sta mentendo". Quindi reagisce con sospetto e il sospetto congela, non fa compiere azioni. Si preferisce restar fermi piuttosto che agire, senza pensare, nel caso del vaccino, che magari restar fermi può esporre il proprio bambino a rischi importanti.

In conclusione, come parlare con un novax "estremista"?

Nel momento in cui una persona aderisce completamente a un'ideologia complottista è davvero difficile farle cambiare idea, perché diventa una sorta di processo delirante e ogni cosa che tu dici a un delirante viene inquadrata all'interno del suo delirio. Se io dico a un complottista che deve fare riferimento alle persone competenti e alle fonti, il complottista dice che i medici sono pagati dalle case farmaceutiche e che le fonti sono manipolate per poterti prendere in giro. Una logica, seppur delirante, schiacciante. Bisogna accettare l'idea che in certe occasioni non c'è molto da fare. Alcune persone non cambieranno mai opinione perché sono entrate all'interno di una determinata logica da cui non si può uscire. 

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 26 luglio 2021. «Scienza» è diventata un termine politico. «Credo nella scienza», ha twittato Joe Biden sei giorni prima di essere eletto presidente. «Donald Trump no. È così semplice, gente». Ma cosa significa credere nella scienza? Lo scrittore scientifico britannico Matt Ridley traccia una netta distinzione tra «scienza come filosofia» e «scienza come istituzione». La prima nasce dall'Illuminismo, che Ridley definisce come «il primato del ragionamento razionale e oggettivo». Quest'ultimo, come tutte le istituzioni umane, è erratico, incline a non rispettare i suoi principi dichiarati. Ridley afferma che la pandemia di Covid ha «messo in netto rilievo la disconnessione tra la scienza come filosofia e la scienza come istituzione». Ridley, 63 anni, si descrive come un «critico scientifico, che è una professione che in realtà non esiste». Paragona la sua vocazione a quella di un critico d'arte e liquida la maggior parte degli altri scrittori scientifici come «cheerleader». Un atteggiamento sofisticato adatto a un pari inglese ereditario. Come quinto visconte Ridley, è un membro della Camera dei Lord britannica e zooma con me dalla sua sede ancestrale nel Northumberland, appena a sud della Scozia, tra una sessione e l’altra del Parlamento (a cui partecipa sempre tramite Zoom). Con la biologa molecolare canadese Alina Chan, sta finendo un libro intitolato «Viral: The Search for the Origin of Covid-19», che sarà pubblicato a novembre. Probabilmente, dopo l’uscita del volume, i suoi autori non saranno graditi in Cina. Mentre lavorava al libro, dice, gli è diventato «orribilmente chiaro» che gli scienziati cinesi «non sono liberi di spiegare e rivelare tutto ciò che hanno fatto con i virus dei pipistrelli». Queste informazioni devono essere «rimosse» per gli estranei come lui e la signora Chan. Le autorità cinesi, dice, hanno ordinato a tutti gli scienziati di inviare i risultati relativi al virus al governo perché li approvi prima che altri scienziati o agenzie internazionali possano esaminarli: «Questo è scioccante all'indomani di una pandemia letale che ha ucciso milioni di persone e devastato il mondo». Ridley osserva che la questione dell'origine di Covid è stata «affrontata principalmente da persone al di fuori dell'establishment scientifico tradizionale». Chi è stato coinvolto ha cercato di chiudere l'inchiesta «per proteggere la reputazione della scienza come istituzione». La ragione più ovvia di questa resistenza? Se il Covid è trapelato da un laboratorio, e soprattutto se si è sviluppato lì, «la scienza si trova sul banco degli imputati». Sono entrati in gioco anche altri fattori. Gli scienziati sono sensibili quanto le altre élite alle accuse di razzismo, che il Partito comunista ha usato per eludere domande su pratiche specificamente cinesi «come il commercio di animali selvatici per cibo o esperimenti di laboratorio sui coronavirus dei pipistrelli nella città di Wuhan». Gli scienziati sono una gilda globale e la comunità scientifica occidentale è «arrivata ad avere uno stretto rapporto e persino una dipendenza dalla Cina». Le riviste scientifiche traggono notevoli «entrate e input» dalla Cina e le università occidentali si affidano a studenti e ricercatori cinesi per le tasse scolastiche e la manodopera. Tutto ciò, secondo Ridley, «potrebbe dover cambiare sulla scia della pandemia». Ridley ha anche constato come tra gli scienziati inglesi ci sia «una tendenza ad ammirare la Cina autoritaria che ha sorpreso alcune persone». Non ha sorpreso Ridley. «Ho notato da anni», dice, «che gli scienziati hanno una visione un po' dall'alto del mondo politico, il che è strano se si pensa a quanto meravigliosa sia la visione evolutiva del mondo naturale dal basso». E chiede: «Se pensi che la complessità biologica possa derivare da un'emergenza non pianificata e non abbia bisogno di un progettista intelligente, allora perché pensi che la società umana abbia bisogno di un 'governo intelligente'?». La scienza come istituzione ha «un'ingenua convinzione che se solo gli scienziati fossero al comando, gestirebbero bene il mondo». Forse è questo che intendono i politici quando dichiarano di «credere nella scienza». Come abbiamo visto durante la pandemia, la scienza può essere una fonte di potere. Ma c'è una «tensione tra gli scienziati che vogliono presentare una voce unificata e autorevole», da un lato, e la scienza come filosofia, che è obbligata a «rimanere di mentalità aperta ed essere pronta a cambiare idea». Ridley teme «che la pandemia abbia, per la prima volta, un'epidemiologia seriamente politicizzata». È in parte «colpa di commentatori esterni» che spingono gli scienziati in direzioni politiche. «Penso che sia anche colpa degli stessi epidemiologi, che pubblicano deliberatamente cose che si adattano ai loro pregiudizi politici o ignorano cose che non lo fanno». Gli epidemiologi sono divisi tra coloro che vogliono più blocchi e coloro che pensano che l'approccio non sia stato efficace e potrebbe essere controproducente. Ridley si schiera con quest'ultimo approccio, ed è sprezzante nei confronti della modellazione allarmistica che ha portato alle restrizioni. «Il modello di dove potrebbe andare la pandemia», dice, «si presenta come un progetto del tutto apolitico. Ma ci sono stati troppi casi di epidemiologi che hanno presentato modelli basati su presupposti piuttosto estremi». Una motivazione: il pessimismo vende. «Non vieni accusato di essere troppo pessimista, ma ricevi attenzione. È come la scienza del clima. È molto più probabile che le previsioni modellate di un futuro spaventoso ti portino in televisione». Ridley invoca Michael Crichton, il defunto romanziere di fantascienza, che odiava la tendenza a descrivere i risultati dei modelli con parole che li definiscano come "risultati" di un esperimento, perché inquadra la speculazione come fosse una prova. La scienza del clima è già molto avanti sulla strada della politicizzazione. «Venti o 30 anni fa», dice Ridley, «potevi studiare come avvenivano le ere glaciali e discutere teorie in competizione senza essere affatto politico al riguardo». Ora è molto difficile avere una conversazione sull'argomento «senza che le persone cerchino di interpretarlo attraverso una lente politica». Ridley si descrive come "tiepido" sui cambiamenti climatici. Conviene che gli esseri umani abbiano reso il clima più caldo, ma non aderisce a nessuna delle visioni catastrofiche che richiedono cambiamenti radicali nel comportamento e nei consumi umani. La sua posizione sfumata non lo ha protetto dagli attacchi, ovviamente, e la sinistra britannica è incline a diffamarlo come un «negazionista». Anche la scienza del clima è stata «infettata dal relativismo culturale e dal postmodernismo», afferma Ridley. Cita un articolo che era critico nei confronti della glaciologia, lo studio dei ghiacciai, «perché non era sufficientemente femminista». Mi chiedo se stia scherzando, ma Google conferma che non lo è. Nel 2016 Progress in Human Geography ha pubblicato "Ghiacciai, genere e scienza: un quadro glaciologico femminista per la ricerca sul cambiamento ambientale globale". La politicizzazione della scienza porta a una perdita di fiducia nella scienza come istituzione. La sfiducia può essere giustificata, ma lascia un vuoto, spesso riempito da un «approccio alla conoscenza molto più superstizioso». A tale superstizione Ridley attribuisce la resistenza del pubblico a tecnologie come il cibo geneticamente modificato, l'energia nucleare e i vaccini. Davanti al rifiuto della vaccinazione, Ridley dice che «sosterrebbe con fervore» che è «il minore di due rischi, almeno per gli adulti». Abbiamo «ampi dati per dimostrarlo, per questo vaccino e per altri, risalenti a secoli fa». Definisce la vaccinazione «probabilmente il beneficio più massiccio e incredibile della conoscenza scientifica». Eppure è «controintuitivo e difficile da capire», il che potrebbe spiegare perché i suoi sostenitori sono stati messi alla gogna nel corso dei secoli. Cita l'esempio di Mary Wortley Montagu, un'aristocratica britannica, che spinse per l'inoculazione del vaiolo in Gran Bretagna dopo aver assistito alla sua gestione nella Turchia ottomana all'inizio del XVIII secolo. È stata brutalmente svergognata, dice, così come Zabdiel Boylston, un famoso medico di Boston che ha vaccinato i residenti contro il vaiolo durante un'epidemia nel 1721. I vaccini sono stati al centro della questione della «disinformazione» e della campagna di pressione della Casa Bianca contro i social media per censurarla. Ridley è preoccupato per il problema opposto: che i social media «sono complici nel far rispettare il conformismo». Lo fanno «attraverso il "controllo dei fatti", i picchi di audience e la censura diretta, ora esplicitamente per volere dell'amministrazione Biden». Sottolinea che Facebook e Wikipedia hanno da tempo vietato qualsiasi menzione della possibilità che il virus sia trapelato da un laboratorio di Wuhan. «La conformità», afferma Ridley, «è nemica del progresso scientifico, che dipende dal disaccordo e dalla sfida. La scienza è la fede nell'ignoranza degli esperti, come ha detto il fisico Richard Feynman». Ridley rivolge le sue critiche più schiette alla «scienza come professione», che secondo lui è diventata «piuttosto scoraggiante, arrogante e politica, permeata da ragionamenti motivati e pregiudizi di conferma». Un numero crescente di scienziati «sembra essere preda del pensiero di gruppo, e il processo di peer-review e pubblicazione consente al custode dogmatico di intralciare nuove idee e sfide di mentalità aperta». L'Organizzazione Mondiale della Sanità è un trasgressore particolare: «Abbiamo avuto una dozzina di scienziati occidentali che sono andati in Cina a febbraio e hanno collaborato con una dozzina di scienziati cinesi sotto gli auspici dell'OMS». In una successiva conferenza stampa hanno dichiarato la teoria della perdita di laboratorio «estremamente improbabile». L'organizzazione ha anche ignorato le richieste di aiuto di Taiwan per il Covid-19 nel gennaio 2020. «I taiwanesi hanno affermato: “Stiamo rilevando segnali che si tratta di una trasmissione da uomo a uomo che minaccia una grave epidemia. Per favore, indagherai?” E l'OMS ha sostanzialmente detto: “Sei di Taiwan. Non ci è permesso parlare con te”». Nota che il compito principale dell'OMS è prevenire le pandemie. Eppure nel 2015 «ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che la più grande minaccia per la salute umana nel 21° secolo è il cambiamento climatico. Ora questo, per me, suggerisce un'organizzazione non focalizzata sul lavoro quotidiano». Secondo Ridley, l'establishment scientifico ha sempre avuto la tendenza a «trasformarsi in una chiesa, imponendo l'obbedienza all'ultimo dogma ed espellendo eretici e bestemmiatori». Questa tendenza era precedentemente tenuta a freno dalla natura frammentata dell'impresa scientifica: il Prof. A in un'università ha costruito la sua carriera dicendo che le idee del Prof. B altrove erano sbagliate. Nell'era dei social media, tuttavia, «lo spazio per l'eterodossia sta evaporando». Quindi coloro che credono nella scienza come filosofia sono sempre più estraniati dalla scienza come istituzione. Sarà sicuramente un divorzio costoso.

Massimo Cacciari per "la Stampa" il 2 agosto 2021. Sotto la pressione della pandemia e l'ansia comprensibile per superarla al più presto viviamo un periodo di profonde trasformazioni giuridiche, istituzionali e politiche senza chiara consapevolezza, in modo informe e casuale. Qui sta il vero pericolo. Tendenze in atto da tempo, almeno dalla grande crisi che inaugurò il millennio con le Torri Gemelle, che sono andate via via "volatilizzando" i poteri delle assemblee elettive, trasformando da noi l'attività legislativa sostanzialmente in convalida della decretazione d'urgenza, e ciò sempre, si dice, per rispondere con tempestività ed efficacia a un bisogno di sicurezza e protezione invocato dall'opinione pubblica, vanno ormai stabilizzandosi: lo stato di emergenza sta diventando la norma, ormai con la benedizione anche di ex-garantisti e ex-giustizialisti. Che questo non interessi i virologi può starci. Che non interessi politici e giuristi forse meno. Una volta si parlava della "forma" delle leggi. Qual è la "forma" del Decreto Legge che proroga lo stato di emergenza, per la quinta volta (se non conto male) dal 31 gennaio 2020? Esiste nel nostro ordinamento qualche norma che consenta in via generale di proclamare lo stato di emergenza? L'art.7 del Codice di Protezione Civile? Non sembra - poiché lì è fatto esplicito riferimento soltanto a calamità naturali, quali sismi, eventi metereologici eccezionali, ecc. Esiste comunque la possibilità di incardinare nella nostra Costituzione l'idea di "stato di emergenza"? Meno che meno. Come spiegava la professoressa Cartabia, nella sua veste "scientifica, i nostri Padri non vollero che si ripetessero le condizioni che portarono nella Repubblica di Weimar al continuo ricorso all'istituto (previsto in quella Costituzione) dello "stato di eccezione", con le ben note conseguenze. Il ricorso alla formula dello "stato di emergenza" sembra perciò, ben più che frutto di totale improvvisazione, l'autofondazione di una nuova norma, e cioè una, per quanto informe, innovazione di sistema. Anche per la fondamentale ragione che nulla si dice nel DL del 23 luglio sulla possibilità di ulteriori proroghe. L'art.24 del Codice di Protezione Civile recita che lo stato di emergenza nazionale non può superare i 12 mesi ed è prorogabile per non più di ulteriori 12. Questo art. non è richiamato nel Decreto, e pour cause, poiché in generale il Codice non poteva esserlo, non prevedendo, come si è detto, altro che calamità naturali (che è espressione tecnica, e non può venir manipolata ad libitum). Né vengono in alcun modo indicati i criteri in base ai quali lo stato di emergenza potrebbe finire. Tutti vaccinati dagli 0 ai 100 anni? Nessun contagio più? Su quali indici, su quali dati si intenderà procedere? Si pensa esista un termine ultimo decorso il quale ogni ulteriore proroga diviene impossibile? Semplici, socratiche domande È palese che nella nostra Costituzione non può trovare radicamento l'idea di "stato di emergenza". Forse però qualcosa di analogo. La mia modesta competenza in materia mi suggerisce che il "caso" può risolversi soltanto attraverso la lettura combinata degli artt. 13, 16 e 32. "La libertà personale è inviolabile"(art.13) e solo in casi «indicati tassativamente dalla legge» l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori da comunicarsi entro 48 ore all'autorità giudiziaria, ecc. È del tutto evidente che qui si tratta di reati che nulla hanno a che fare col nostro caso. L'art.16, invece, prevede la possibilità di limitazioni in via generale «per motivi di sanità e di sicurezza» al diritto di libera circolazione e soggiorno in qualsiasi parte del territorio nazionale, e l'art.32 stabilisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ora è chiaro che qui dovrebbe intervenire una legge che stabilisca in modo formale quali siano questi motivi che consentono di derogare alla solenne dichiarazione d'apertura dell'art.13. E altrettanto chiaro, mi pare, che comunque tutte le restrizioni coattive dovrebbero seguire la via giurisdizionale che in esso si indica. In assenza di simili garanzie, un domani per «motivi di sicurezza» si potrà procedere a limitare la libertà della persona invocando la tutela di qualsiasi altro "valore". Difficile da immaginare? Niente affatto. Credo già viviamo all'interno di questa deriva: dal terrorismo alla immigrazione, oggi la pandemia, domani probabilmente sarà la "difesa dell'ambiente". Tutte emergenze realissime, nulla di inventato. Il problema è come le si affronta, occasionalmente, senza memoria storica, incapaci di dar forma di legge agli interventi magari necessari, privi di qualsiasi strategia di riforma del sistema democratico. Alcune Autorità sovra-nazionali hanno tuttavia ben compreso, e da anni, il formidabile pericolo che questa tendenza comporta. Ma la loro voce neppure è citata dal Governo. L'art.4 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York 1966), il quale, in base all'art.10 della Costituzione, prevale sulla normativa ordinaria (come ha ritenuto la stessa Corte costituzionale) così detta: «In caso di pericolo pubblico eccezionale che minacci l'esistenza della Nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati possono prendere misure le quali deroghino, ecc.ecc.». Sussistono forse oggi, luglio-agosto 2021, i presupposti minimi per dichiarare che l'esistenza della nostra Nazione è minacciata? Infine, lo ricordo per l'ennesima volta, la Risoluzione 2361 del Consiglio d'Europa dice: «I governi devono assicurare che i cittadini siano informati that vaccination is not mandatory e che nessuno sia politicamente, socialmente o con altri mezzi costretto ad assumere il vaccino if they do not wish to do so themselves». Aggiungiamo la disposizione del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno: «È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medicio perché non hanno ancora avuto la possibilità di farlo o perché hanno scelto di non essere vaccinate». Parole di qualche scemo no-vax? Parole che incitano al suicidio? No, parole al vento, così pare. Stiamo preparandoci a un regime, a una "intesa mondiale per la sicurezza"(diceva un grande filosofo, Deleuze, anni fa), per la gestione di una "pace" fondata sulle paure, le angosce, le frustrazioni di tutti noi, individui ansiosi di soffocare ogni dubbio, ogni interrogazione, ogni pensiero critico? 

Giorgio Agamben per "la Stampa" il 30 luglio 2021. Quello che più colpisce nelle discussioni sul green pass e sul vaccino è che, come avviene quando un paese scivola senza accorgersene nella paura e nell'intolleranza - e indubbiamente questo sta avvenendo oggi in Italia - è che le ragioni percepite come contrarie non solo non sono in alcun modo prese seriamente in esame, ma vengono rifiutate sbrigativamente, quando non diventano puramente e semplicemente oggetto di sarcasmi e di insulti. Si direbbe che il vaccino sia diventato un simbolo religioso, che, come ogni credo, funge da spartiacque fra gli amici e i nemici, i salvati e i dannati. Come può pretendersi scientifica e non religiosa una tesi che rinuncia allo scrutinio delle tesi divergenti? Per questo è importante innanzitutto chiarire che il problema per me non è il vaccino, così come nei miei precedenti interventi in questione non era la pandemia, ma l'uso politico che ne viene fatto, cioè il modo in cui fin dall'inizio essi sono stati governati. Ai timori che si affacciavano nel documento che ho firmato con Massimo Cacciari, qualcuno ha incautamente obiettato che non c'era da preoccuparsi, «perché siamo in una democrazia». Com' è possibile che non ci si renda conto che un paese che è ormai da quasi due anni in stato di eccezione e in cui decisioni che comprimono gravemente le libertà individuali vengono prese per decreto (è significativo che i media parlino addirittura di «decreto di Draghi», come se emanasse da un singolo uomo) non è più di fatto una democrazia? Com' è possibile che la concentrazione esclusiva sui contagi e sulla salute impedisca di percepire la Grande Trasformazione che si sta compiendo nella sfera politica, nella quale, com' è avvenuto col fascismo, un cambiamento radicale può prodursi di fatto senza bisogno di alterare il testo della Costituzione? E non dovrebbe dare da pensare il fatto che ai provvedimenti eccezionali e alle misure di volta in volta introdotte non viene assegnata una scadenza definitiva, ma che essi vengono incessantemente rinnovati, quasi a confermare che, come i governi non si stancano di ripetere, nulla sarà più come prima e che certe libertà e certe strutture basilari della vita sociale a cui eravamo abituati sono annullate sine die? Se è certamente vero che questa trasformazione - e la crescente depoliticizzazione della società che ne risulta - erano già in corso da tempo, non sarà per questo tanto più urgente soffermarsi a valutarne finché siamo in tempo gli esiti estremi? È stato osservato che il modello che ci governa non è più la società di disciplina, ma la società di controllo -ma fino a che punto possiamo accettare che questo controllo si spinga? È in questo contesto che si deve porre il problema politico del green pass, senza confonderlo col problema medico del vaccino, a cui non è necessariamente collegato (abbiamo fatto in passato vaccini di ogni tipo, senza che mai questo discriminasse due categorie di cittadini). Il problema non è, infatti, soltanto quello, pure gravissimo, della discriminazione di una classe di cittadini di serie B: è anche quello, che sta certamente più a cuore dell'altro ai governi, del controllo capillare e illimitato che esso permette sui titolari stoltamente fieri della loro "tessera verde". Com' è possibile -chiediamo ancora una volta- che essi non si rendano conto che, obbligati a mostrare il loro passaporto persino quando vanno al cinema o al ristorante, saranno controllati in ogni loro movimento? Nel nostro documento avevamo evocato l'analogia con la "propiska", cioè col passaporto che i cittadini dell'Unione sovietica dovevano esibire per spostarsi da una località all'altra. È questa l'occasione di precisare, visto che purtroppo sembra necessario, che cos' è un'analogia giuridico-politica. Ci è stato senza alcun motivo rimproverato di istituire un paragone fra la discriminazione risultante dal green pass e la persecuzione degli ebrei. È bene precisare una volta per tutte che solo uno stolto potrebbe equiparare i due fenomeni, che sono ovviamente diversissimi. Non meno stolto sarebbe però chi rifiutasse di esaminare l'analogia puramente giuridica - io sono giurista di formazione - fra due normative, quali sono quella fascista sugli ebrei e quella sull'istituzione del green pass. Forse non è inutile rilevare che entrambe le disposizioni sono state prese per decreto legge e che entrambe, per chi non abbia una concezione meramente positivistica del diritto, risultano inaccettabili, perché - indipendentemente dalle ragioni addotte - producono necessariamente quella discriminazione di una categoria di esseri umani, a cui proprio un ebreo dovrebbe essere particolarmente sensibile. Ancora una volta tutte queste misure per chi abbia un minimo di immaginazione politica vanno situate nel contesto della Grande Trasformazione che i governi delle società sembrano avere in mente - ammesso che non si tratti invece, come pure è possibile, del procedere cieco di una macchina tecnologica ormai sfuggita a ogni controllo. Molti anni fa una commissione del governo francese mi convocò per dare il mio parere sull'istituzione di un nuovo documento europeo di identità, che conteneva un chip con tutti i dati biologici della persona e ogni altra possibile informazione sul suo conto. Mi sembra evidente che la tessera verde è il primo passo verso questo documento la cui introduzione è stata per qualche ragione rimandata. Su un’ultima cosa vorrei richiamare l'attenzione di chi ha voglia di dialogare senza insultare. Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi - almeno nella parte dell'umanità più ricca e tecnologizzata - venute meno e gli uomini si trovano forse per la prima volta di fronte alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di instaurare un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte. Così come non ha senso sacrificare la libertà in nome della libertà, così non è possibile rinunciare, in nome della nuda vita, a ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

"Silete Theologi in munere alieno". Quei filosofi (un po’ provinciali) che vogliono insegnare medicina…Michele Prospero su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Se proprio si vuole assaporare qualcosa di sovietico nella questione dei vaccini, non è certo nei foglietti verdi richiesti per circolare che essa si rintraccia. Dell’impero dell’est, quello che sta tornando in vita è semmai il vecchio, malandato Diamat, che oggi si propone a media unificati secondo una versione biopolitica coltivata nel cuore teorico del nord-est. Infatti solo a una qualche variante italica (e quindi con una venatura provinciale) della filosofia poteva venire in mente di ingaggiare con gli scienziati una disputa per indicare loro il Vero. E i medici, che rispondono punto per punto a degli spaesati scolari di un Hegel redivivo che si sono convinti di possedere una enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (insomma: la Krisis finalmente riassorbita dalla Totalità del pensiero positivo bio-teologico), avrebbero fatto molto meglio a risolvere la disputa limitandosi a riformulare il celebre monito di Alberico Gentili recuperato anche da Schmitt: “Silete Theologi in munere alieno”. (tacete, teologi, sugli argomenti che non vi riguardano, traduzione del redattore). In termini esortativi analoghi si espresse anche Copernico che intimava appunto il silenzio della metascienza della teologia in nome dell’autonomia della scienza che parla solo il linguaggio tecnico della matematica. I virologi avrebbero dovuto semplicemente invitare i bioteologi odierni a tacere attorno a questioni che non sono di loro competenza. La forma del talk dà di volta alle menti e, saltellando da un divano all’altro, è facile per chi diviene l’icona della legge televisiva arrivare a persuadersi di tenere in tasca l’intero scibile. Nessuno statuto scientifico speciale più esiste, Gruber o Berlinguer sono le post-moderne accademie delle scienze che autorizzano a svolazzare su tutti i misteri del creato. Questo è il vero nichilismo contemporaneo. E’ la dittatura del relativismo della chiacchiera, altro che biopotere che comprime le libertà in nome dello stato di eccezione. La questione del rapporto tra tecnica e politica l’affrontò in maniera del tutto trasparente già Marsilio da Padova e c’è poco da aggiungere alle sue parole. “Il medico offre un parere tecnico sulla salute fisica degli uomini senza detenere nei loro confronti alcun potere coattivo”. Il comitato scientifico consiglia, il potere politico decide con minore o maggiore efficacia. Nulla di nuovo è accaduto e nessun simbolo autoritario e repressivo si rintraccia nel governo democratico della situazione di emergenza sanitaria. Bene ha fatto il presidente Mattarella, con il suo implicito “No Max”, a impartire una vera e propria lezione di filosofia del diritto. Non esiste, entro una convivenza politicamente organizzata, la libertà di violare il corpo altrui. Rivendicare la (sia pure ipotetica) libertà di contagiare gli altri, e di determinare una infinita situazione di pandemia, non è propriamente un diritto. Sarebbe un diritto folle quello di minare la salute pubblica (e dunque l’economia, la scuola, il divertimento, lo sport), e già Rousseau spiegava che la follia non costituisce mai diritto. Dai tempi di Hobbes la modernità politica stabilisce un nesso ineludibile e fondativo tra il sovrano e la vita. Costituisce infatti la ragione istitutiva dell’artificio politico lo sforzo pattizio per costruire con il diritto sanzionabile il rimedio alla paura, alla minaccia che grava sul corpo e rende vulnerabile la sua sicurezza immediata. Il grande conservatore della vita, che è lo Stato legale-razionale, verrebbe meno alla sua stessa ragion d’essere primaria se consentisse, entro un territorio ricoperto con lo scudo del sovrano, di morire di morte procurata da un altro corpo che rifiuta la reciprocità dell’immunizzazione in nome di una aporetica sovranità privata di gestire il rischio che ricade non solo sull’Ego ma anche sull’Alter. Neanche l’Unico di Stirner rivendicherebbe mai sensatamente la assurda libertà di poter nuocere alla esistenza corporale altrui senza l’assunzione del dovere di limiti ragionevoli per cui le licenze individuali si arrestano nella sfera esterna quando possono distruggere le condizioni basilari del vivere in comune. Nemmeno può essere invocata la tolleranza di altri soggetti che consentono al portatore potenziale di minaccia virale di frequentare fabbriche, uffici, luoghi pubblici, studi televisivi. E’ infatti in gioco una questione pubblica, e nessun accordo tra privati può negoziare limitazioni e deroghe speciali. I cultori della “Italian Theory” rivendicano una originaria estraneità al problema della sovranità che li conduce pericolosamente verso la condivisione di argomenti che risuonano nelle piazze della ribellione selvaggia. Michele Prospero

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 agosto 2021. Caro Dago, due cose piccole piccole. La prima. Non ho mai avuto il piacere di conoscere Giorgio Agamben e me ne dolgo di avere letto soltanto due o tre dei suoi tanti libri, tutti marchiati da un’originalità stilistica e intellettuale. Gli invidio molto il libro che parte al suo tavolo da lavoro e da quel che ci sta intorno. Come tanti ero però rimasto stupito dalla supponenza con cui lui e un altro personaggio autorevole della nostra scena culturale, il veneziano Massimo Cacciari, avevano firmato un testo in cui proclamavano il loro timore che l’eventuale obbligatorietà del green pass potesse costituire una pericolosa limitazione delle libertà personali di ciascuno di noi. Al che in molti, da Renato Brunetta a Davide D’Alessandro sull’Huffington Post, hanno replicato con argomenti lapalissiani. Vedo adesso che Agamben firma un testo di controreplica a dire che non è affatto vero che la scienza abbia sempre ragione, quella scienza che oggi ci dice che il vaccino (e la conseguente disponibilità di un green pass) sia il muro migliore contro questo virus cangiante e diabolico. Agamben allega il caso dei dieci scienziati italiani (dieci sporcaccioni intellettuali) che nel 1938 firmarono un loro documento di sostegno alle leggi razziali col sostenere che c’era un fondamento scientifico alla classificazione degli uomini per razze. Ora la sola idea di trovare una qualche attinenza tra quella ignobile manifestazione di sudditanza del pensiero intellettuale alla dittatura politica e gli attuali inviti alla cautela di scienziati ed epidemiologi è da far accapponare la pelle. Che questa attinenza la scorga colui che passa come uno dei maggiori filosofi italiani contemporanei mi lascia a dir poco di stucco. Non ci sono parole. Seconda cosa piccola piccola. Mi telefona il mio commercialista e amico Andrea Mazzetti e mi dice che stando alle legge e siccome a seguito del lockdown e dei suoi annessi e connessi il mio reddito professionale da un anno all’altro è andato giù del 30 per cento, io sarei autorizzato a chiedere allo Stato italiano un sussidio di oltre 4000 euro. Di chiedere dunque ai miei concittadini un bel po’ di soldi, e mentre sono vicini ai 130mila gli italiani uccisi da questo dannato morbo, altro che un calo del reddito del 30 per cento. Ho detto ad Andrea di non fare alcuna richiesta. Me ne sarei vergognato a vita.

 Il dibattito dopo le parole di Cacciari. Liberare la scienza dalla politica, è questa l’urgenza. Astolfo Di Amato su Il Riformista l'1 Agosto 2021. Agamben e Cacciari. Due filosofi, che certamente non possono essere qualificati come pericolosi estremisti di sinistra o, meno ancora, di destra. Sul prestigioso sito dell’Istituto degli studi filosofici di Napoli hanno pubblicato un lungo articolo dal titolo “A proposito del decreto sul green pass”. L’articolo è estremamente critico in ordine alla possibile discriminazione tra i cittadini, derivante dalla introduzione del green pass. Ecco alcuni passaggi particolarmente significativi: «La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosiddetto green pass, con inconsapevole leggerezza…Paradossalmente, quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi. Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire». Per giustificare la loro posizione i due filosofi ricordano anche che «le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità e di cancerogenicità». Questa presa di posizione da parte di due pensatori, tra i più autorevoli del nostro tempo, i cui scritti danno conto di una militanza sinceramente democratica, che ha animato tutto il loro percorso di studiosi, non può non costringere ad una riflessione, che deve andare anche al di là del tema contingente della pandemia da Covid 19. La prima questione che viene in evidenza è se sia legittima ed utile la politicizzazione della scienza, che ha caratterizzato il dibattito su questo tema, con ricadute che hanno del grottesco. Basti pensare che l’ipotesi che il virus sia sfuggito dal laboratorio di Wuhan era una bestemmia quando la pronunciava Trump ed è diventata una questione meritevole di una seria indagine quando ha cominciato a formularla Biden. Al tempo stesso, se si guarda al dibattito nazionale, si deve constatare che il discrimine tra le tesi in campo non è affatto costituito dalla serietà o no degli argomenti scientifici, ma dall’adesione ai partiti di destra o di sinistra. È assolutamente prevedibile su un argomento quale quello della vaccinazione, che in quanto scientifico non dovrebbe essere condizionato dalla ideologia, la posizione di un qualsiasi esponente della Lega o del Partito Democratico. In questo, anche la posizione dei cd. scienziati non aiuta, in quanto si avverte fortissima l’incidenza sul loro pensiero della appartenenza. Del resto, non è priva di rilievo la circostanza che abbiano un ruolo di primo piano gli epidemiologi, per i quali è sempre forte la tentazione di far combaciare i numeri con le proprie ideologie. Chi non ricorda la statistica del pollo di Trilussa? La prima questione, allora, che il tempo presente porta alla attenzione di tutti è la necessità e l’urgenza di liberare la scienza dalla politica. La scienza, come ha insegnato Popper, trova nella falsificabilità il criterio che la distingue dalla stregoneria. La sostanza della falsificabilità sta nel dubbio e nella conseguente esigenza di una costante verifica sperimentale. Tutto il contrario, perciò, delle certezze dispensate dalla politica, pretesamente basate sulla scienza. La vaccinazione contro il Covid 19 pone, in questa prospettiva, un problema di fondo. Essa riguarda gli eventi avversi, per i quali occorre fare una distinzione. Da un lato vi sono gli eventi avversi che hanno fatto seguito pressoché immediato alla inoculazione del vaccino e dall’altro gli eventi avversi, che potrebbero manifestarsi dopo molto tempo. Il rischio dei primi è misurabile, alla stregua dei risultati delle campagne vaccinali svoltesi nei vari paesi, e dunque, rispetto ad essi vi sono tutti gli elementi di giudizio occorrenti per valutare l’opportunità di introdurre una differenza di trattamento tra chi è vaccinato e chi no o, addirittura, un obbligo di vaccinazione. Il rischio dei secondi è, viceversa, non calcolabile. La storia umana è piena di esempi di pratiche o di sostanze utilizzate ritenendo che fossero senza rischi e che si sono poi rivelate letali. Si pensi all’amianto, oggi bandito da qualsiasi uso, ma che a lungo è stato ritenuto un materiale miracoloso, di cui il progresso imponeva un uso sempre più diffuso. Nella prospettiva indicata da ultimo, e cioè quella delle conseguenze non immediate, il tema delle discriminazioni fondate sull’avvenuta vaccinazione o addirittura dell’introduzione di un obbligo vaccinale non può beneficiare di alcuna certezza. E sta proprio qui l’errore di quella politica che, viceversa, ritiene di poter dare messaggi semplificati invocando certezze scientifiche che non esistono. Con la conseguenza che non solo la politica, ma anche la scienza perde credibilità agli occhi dei cittadini, che si trovano a dover prendere posizione su pretese certezze che, siccome contrapposte, si smentiscono a vicenda. Molto più opportuno, e democratico, sarebbe partire dalle poche certezze effettivamente esistenti dando ai dubbi lo spazio, che hanno nella realtà. Una certezza, tristissima, sono certamente le molte migliaia di morti cagionati dalla pandemia. Da essa deriva l’ulteriore certezza che, senza strumenti di difesa, la mortalità continuerebbe a colpire inesorabilmente moltissime persone. Di fronte a questo rischio vale la pena affidarsi a vaccini, di cui sono ignoti gli effetti a lungo termine? Probabilmente si, attesa l’enormità del rischio attuale. Ma è con questa chiarezza e con questa assunzione di responsabilità che la soluzione deve essere prospettata ai cittadini, e non con la “leggerezza” che giustamente mettono in evidenza Agamben e Cacciari. Proprio perché cittadini e non sudditi. E solo se vi è questa chiarezza, la soluzione è accompagnata dagli anticorpi idonei a combattere quel bisogno di discriminare, che, come denunciano Cacciari e Agamben, è antico come la società. La consapevolezza della assoluta straordinarietà della situazione e della soluzione è indispensabile affinché non si generi assuefazione alla discriminazione. Astolfo Di Amato

Dagli economisti ai virologi: viaggio nella crisi dei “competenti”. Andrea Muratore su Inside Over il 19 giugno 2021. Su una scala ancora più ampia rispetto al recente passato, l’anno della pandemia di Covid-19 ha imposto una mediatizzazione e un’enorme concentrazione di attenzione su precise categorie tecnico-professionali, in questo caso quelle dell’ambito medico e in particolare delle discipline legate alla virologia. In ogni Paese virologi e medici di simile professionalizzazione sono diventati centrali nel dibattito pubblico, i loro volti un’abitudine per i lettori dei giornali e i telespettatori dei talk show e delle tribune, le loro dichiarazioni un tema di discussione politico. Tanto che in Italia non è mancata l’antica e a tratti stucchevole tendenza a dividerne il campo in termini di appartenenza partigiana tra virologi “di sinistra”, partigiani delle chiusure più dure e soprattutto della linea adottata dall’ex governo Conte II (per i loro critici, interpreti di un presunto metodo “comunista”) e virologi “di destra” che perorano una strategia di contenimento del Covid in grado di conciliare libertà individuali e prevenzione sanitaria (accusati di “antiscientismo” da un fallace dibattito mediatico). Non è la prima volta che succede negli anni della globalizzazione, che nell’ultimo trentennio si è caratterizzata come un continuo accumularsi di emergenze per i Paesi occidentali, i quali hanno avuto nella pandemia il loro definitivo big bang. L’emergenza economica, l’emergenza immigrazione, l’emergenza terrorismo e l’emergenza sociale hanno assunto, in diversi periodi, un ruolo chiave su scala nazionale o globale, portando di conseguenza gli esperti ad assumere visibilità e centralità nel dibattito pubblico. Prima del Covid-19, l’apoteosi di questo fenomeno si ebbe in occasione degli anni della Grande Recessione e della crisi economica globale che, a più riprese, dal 2007-2008 allo scoppio del terremoto europeo sui debiti sovrani (2010-2012) perturbò le economie avanzate provocando smottamenti sistemici che in diversi Paesi, come ad esempio l’Italia, mai tornata ai livelli di Pil pre-crisi, si sono fatti sentire duramente. Allora furono chiamati in causa gli economisti, che si moltiplicarono nei salotti televisivi, sui giornali, in libreria, arrivando a ricoprire cariche apicali in diversi esecutivi e, in Italia, addirittura la carica di premier con Mario Monti. L’accentuazione della visibilità degli economisti, come quella dei virologi di oggi, portò con se sul medio-lungo periodo un fenomeno tipico dei nostri tempi che è quello della crisi della competenza. Se oggi il dibattito tra medici non fa altro che aumentare, troppo spesso, la confusione sul tema Covid, le opinioni contrastanti tra loro si rincorrono in un tourbillon confuso e si giunge a conclusioni affrettate con troppa superficialità, presentando come oggettive prove non peer-reviewed. Negli scorsi anni, gli economisti che non erano riusciti a prevedere i palesi venti di crisi che soffiavano sull’Occidente, non mancavano di presentare come soluzione quelle ricette (tagli alla spesa pubblica, austerità, disciplina di bilancio) che la crisi l’avevano favorita, ma la cui difesa aveva garantito loro un’ascesa sociale, professionale, politica. Dimostrandosi tanto impreparati nel leggere i segni dei tempi in passato quanto spiazzati dall’accelerare delle tempeste economiche durante il loro sdoganamento.

La crisi della competenza. La crisi della competenza, intendiamoci, non va associata nella stragrande maggioranza dei casi a un’impreparazione o a un’esplicita malafede da parte degli esperti chiamati in causa. O, nei casi limite, non solo. Ad andare in crisi è il costrutto sociale che vede le emergenze affidate, volta per volta, al consiglio e all’ausilio di categorie professionali “tecniche” ritenute oggettivamente in grado di padroneggiare le discipline. Nella speranza che questo procuri, a cascata, un rafforzamento delle capacità del sistema sociale e politico di affrontare le emergenze. Questo processo si è tuttavia più volte dimostrato fallace per un’ampia serie di motivi. In primo luogo, ai “competenti” viene affidata un’aura salvifica che pare deresponsabilizzare completamente il peso dei decisori esterni al loro ambito senza una corrispondenza tra visibilità e autorità effettiva. Spesso i tecnici sono accademici o ex professori universitari, editorialisti o professionisti, ma non ricoprono cariche formali e il loro ruolo può e in certi casi deve fermarsi a quello del consigliere. In secondo luogo, la società contemporanea è abituata a chiedere risposte, ma non a porsi le domande giuste. E in questo ha giocato un ruolo anche l’èlite culturale e accademica che ha voluto isolarsi in una torre d’avorio pretendendo, in larga misura, di distanziarsi dalla società reale, dalle comunità di riferimento creando un meccanismo entro cui  si pretende che il sapere tecnico, scientifico o professionale sia patrimonio di pochi eletti, che solo l’aver stabilizzato una determinata competenza in un preciso ambito consenta di dichiararsi chiamato in causa per parlare di tale tema. Livellando così nel dibattito pubblico la capacità di analisti, studiosi e opinione socialmente attiva di interrogarsi per poter vedere i propri dubbi risolti e, soprattutto, scrutinare effettivamente il ruolo dei tecnici. Terzo punto, somma degli altri due e causa principale, è il fatto che ad aver incentivato questi meccanismi sia stata la politica in una fase in cui i partiti hanno abdicato, in Italia e nel resto d’Europa, alla loro volontà di costruire classi dirigenti all’altezza delle sfide del presente e in grado di coniugare sapere pratico e visione politica. Da un lato questo ha portato i politici e i governanti a cercare nei tecnici dapprima i salvatori e in seguito i responsabili di possibili fallimenti; dall’altro, nella politica stessa e nel dibattito pubblico si è creato un mito che vorrebbe come necessario il possesso di determinati requisiti o competenze per l’assunzione di cariche politiche. Richiesta tanto vaga quanto fallace: siamo certi che affidando, ex lege, il ministero degli Esteri a un diplomatico di carriera, la Sanità a un medico e la Giustizia a un magistrato la capacità di produzione di azioni e iniziative e la tenuta politica di questi dicasteri, del resto già stracolmi di tecnici nelle loro burocrazie strategiche, si valorizzerebbero? Evidentemente no. Un leader non deve essere “competente”: deve avere una solida cultura, idee precise e certamente padronanza delle dinamiche oggetto dei suoi campi d’interesse, ma è la capacità politica la prima necessità, non una data “expertise”, per usare un gergo comune nel campo dei “competenti”.

Il dialogo tra politica e competenza. Giulio Andreotti fu sette anni ministro della Difesa (1959-1966) senza venire dai ranghi militari e, anzi, fu scartato alla visita di leva per allievi ufficiali; ricoprì la carica di ministeri economici di peso, l’Industria e le Finanze, senza aver avuto un pesante background accademico in materia. Anzi, come amava ironizzare, all’università odiava studiare “la scienza delle finanze dove ho preso il mio l’unico 18. Un voto che però non mi ha impedito di diventare proprio ministro delle finanze. Per questo, forse, non sono portato al pessimismo”. Dulcis in fundo, il sette volte presidente del Consiglio ebbe anche un incarico di sei anni alla Farnesina (1983-1989). In tutte queste esperienze nessuno mise mai in dubbio il fatto che Andreotti avrebbe potuto costruire il giusto mix tra conoscenze politiche ed esperienza personale e sostegno di apparati e ministeri. In Regno Unito nientemeno che Winston Churchill seppe capire l’importanza di questa alchimia dopo che alcuni errori personali legati a intuizioni sbagliate (l’attacco di Gallipoli nel 1915 e il fallimento della difesa del gold standard dopo la Grande Guerra) avevano rischiato di troncarne la carriera politica. Churchill seppe guidare con tenacia lo sforzo bellico di Londra dal 1940 al 1945 costruendo una squadra che avrebbe saputo coniugare alla perfezione sapere politico e competenze tecniche. La scelta del dinamico Lord Beaverbook, ex giornalista dalla mente poliedrica e uomo di grande ingegno, come ministro della produzione aeronautica nel 1940 contribuì a accelerare la difesa dalla Luftwaffe nella Battaglia d’Inghilterra; sul finire della guerra, la consulenza data a Churchill e al suo governo da John Maynard Keynes, che del premier fu forte avversario negli anni precedenti la crisi del 1929, seppe contribuire a costruire l’agenda economica che il Regno Unito, assieme agli Usa, avrebbe proposto per l’ordine post-bellico. La tecnica, in un certo senso, è sempre politica. Ed è sbagliato ritenere le due sfere separate o illudersi che in uno dei due campi possa nascondersi una supposta oggettività. Le grandi innovazioni e progressi della storia e le grandi fasi della vita dei popoli e delle nazioni non sono mai state dovute solo all’una o all’altra fattispecie. La competenza come fattore di governo della vita pubblica è pia illusione senza un progetto politico alle spalle; la politica senza l’ausilio di un mix di conoscenze e esperienze è di fatto cieca. L’era della globalizzazione culminata nella pandemia ha portato governi e opinioni pubbliche a pensare che separare i due campi potesse essere la soluzione per risolvere le varie crisi settoriali mano a mano che esse si presentavano. La pandemia, crisi al tempo stesso sanitaria, economica, sociale, politica, ci ha insegnato che così non è. E che forse la vera emergenza è la stessa globalizzazione per come è stata strutturata: competitiva, anarchica, atomizzante. E la risposta a dilemmi del genere non può che passare per la riscoperta della politica.

«Solo la scienza impara dai propri errori, per questo ci conviene fidarci di lei». Parola di Andrea Ghez, rivoluzionaria studiosa dei buchi neri. Contro i sospetti, gli allarmi, le paure che stanno minando la lotta contro la pandemia, la Premio Nobel ammonisce: “Il metodo scientifico è il miglior modo per aprire vie al sapere”. Carlo Crosato su L'Espresso il 12 aprile 2021. Quattro donne nella storia sono state finora insignite del premio Nobel per la fisica. La prima è stata Marie Curie, nel 1903, seguita da Maria Goeppert Mayer e Donna Strickland. Lo scorso ottobre il premio è stato assegnato all’astronoma statunitense Andrea Ghez, per le sue ricerche sui buchi neri. L’impresa di Ghez ha sfidato alcune delle più importanti intuizioni di Einstein, frugando in luoghi dell’universo in cui le leggi della fisica sono stravolte e «l’attrazione della gravità è così intensa che nulla può sfuggirvi, nemmeno la luce». Proprio questo rende un buco nero così misterioso, ma anche pressoché inavvicinabile. Sono serviti tutto l’ingegno e la perseveranza di Andrea Ghez per convincere la comunità scientifica a piegare gli strumenti di osservazione a usi per i quali non erano stati progettati. Alla guida del gruppo di ricerca galattica dell’Università di Los Angeles, Ghez ha diretto per 25 anni i suoi telescopi verso il centro della nostra galassia, «una regione estrema in ogni senso», tenendo d’occhio più di 3000 stelle. Nel 2019 ha così potuto pubblicare due articoli rivoluzionari, in cui descriveva un oggetto gigantesco e vorace di gas e polvere interstellare proprio al centro della nostra galassia: un buco nero. Abbiamo parlato con lei di scienza, e della fiducia che dobbiamo riservare alle scienziate e agli scienziati, specie se giovani.

Professoressa, pare dunque che la nostra galassia giri attorno a un buco nero. Cosa ne sappiamo?

«Si tratta di un buco nero supermassiccio grande quattro milioni di volte la massa del Sole. I buchi neri sono oggetti molto difficili da studiare. Non disponiamo della fisica per spiegarli completamente e questo li rende davvero interessanti. Se si desidera espandere la propria conoscenza, ci si deve muovere in direzioni in cui la nostra comprensione attuale è ancora inadeguata. E i buchi neri sono proprio questo! Ma non la chiamerei una sfida alle idee di Einstein, quanto piuttosto la consapevolezza che non sappiamo ancora come integrare le intuizioni di Einstein e la meccanica quantistica. Come scienziati si è sempre alla ricerca dell’ambito entro cui poter fare grandi progressi, ma non si tratta di audacia: i buchi neri sono chiaramente un campo importante ed eccitante, e questo li rende non solo una priorità per l’astrofisica, ma anche un ambito avvincente per il grande pubblico».

Lei ha ideato una tecnologia innovativa rivoluzionando l’osservazione dell’universo. Perché la scienza progredisca, è necessaria la determinazione di donne come lei. Ed è necessario il sostegno e la fiducia della società e delle istituzioni.

«Sono molto fortunata a lavorare in un’università di ricerca, in cui la missione fondamentale è quella di creare nuova conoscenza e quella di condividere il sapere formando studenti. Gli studenti sono sempre curiosi, spesso le loro semplici domande ci aiutano a chiarire meglio come facciamo a sapere ciò che sappiamo. L’ambiente universitario favorisce davvero la creatività. La parte didattica del mio lavoro è molto strutturata. Per la restante parte mi viene data la licenza di far ricerca in aree che ritengo interessanti. Non ci sono limiti, oltre quelli economici. Se riesco a raccogliere sufficienti finanziamenti, ho la libertà di perseguire le questioni che mi stanno più a cuore, e tutto ciò che mi viene richiesto è che produca conoscenza e dimostri progressi. È una carriera interessante, perché si deve essere ben motivati per progredire in un ambiente così libero!».

A proposito del suo rapporto con i giovani scienziati, lei qualche anno fa ha scritto un libro dal titolo “Tu puoi essere un’astronoma”. Quanto sono importanti i modelli come lei per incoraggiare le giovani donne in un ambiente ancora così dominato dagli uomini?

«Mi appassiona l’idea di rappresentare un esempio, perché penso che sia fondamentale per convincere le ragazze a intraprendere il percorso della scienza. Quando ero giovane, ho letto le biografie di Marie Curie e di un gran numero di altre donne pioniere nella scienza e in altri campi, e ho trovato queste storie fonte di ispirazione. Questa è stata una componente importante nella mia convinzione che fosse una strada possibile. Sono stata molto fortunata a crescere in una famiglia che mi sosteneva e promuoveva la mia passione, ho avuto la fortuna di frequentare scuole dal contesto incoraggiante, e mi rendo conto che oggi non tutti siano altrettanto fortunati. Penso che sia importante che ci siano buoni modelli, che siano visibili e possano aiutare. Ma in fin dei conti mi considero fondamentalmente una scienziata, ed è quello che voglio continuare a essere e fare».

Parliamo allora della scienza. Sulla Terra l’umanità affronta un’entità microscopica. Nell’universo siamo impegnati nell’osservazione di oggetti di dimensioni inimmaginabili. Con uno scopo immediato o come ricerca pura, la scienza rimane la migliore espressione dell’intelligenza umana.

«La scienza non è altro che il tentativo di capire come funzionano le cose, di spiegare l’universo fisico in cui viviamo. La funzione della scienza è in fin dei conti quella di promuovere la conoscenza, di approfondire la nostra relazione con le cose, e questo è uno sforzo essenzialmente umano: capire, essere curiosi, padroneggiare la comprensione del nostro mondo, della realtà di cui siamo parte. Ed è davvero notevole che, data la natura finita dell’esistenza umana, abbiamo avuto la capacità di comprendere qualcosa che è così tanto più grande di noi, sia in termini di spazio che di tempo. Circa cento anni fa pensavamo alla nostra galassia come all’intero universo esistente, mentre oggi abbiamo una comprensione molto maggiore degli aspetti finora incredibili dell’universo che ci ospita».

Tuttavia c’è un’idea molto strana della scienza. Alcuni sono sospettosi, alcuni pensano che la scienza sia uno spreco di risorse. Sembra ci sia quasi paura della scienza.

«È interessante pensare che ci siano persone spaventate dalla scienza e che rifiutano di accettarne i risultati. Io vivo in una comunità in cui la scienza è ovviamente accolta, ma penso che in generale la scienza sia di fatto accettata: viviamo in una società guidata dalla tecnologia, e tutto questo è possibile grazie alla ricerca di base, per la quale, inizialmente, le applicazioni ultime sono pressoché ignote. La costruzione di una comprensione profonda della realtà e la ricerca di soluzioni avanzate – per esempio, per sviluppare un vaccino così rapidamente – si fondano su anni di scienza di base capace di aprire nuove vie per il sapere».

Quindi non si tratta di paura, ma di capire come funziona la scienza.

«Penso che tutti noi nasciamo come “scienziati” estremamente curiosi del mondo. Il modo in cui maturiamo come esseri umani è del tutto simile al processo scientifico. I bambini piccoli fanno esperimenti tutto il tempo: fanno cadere il cucchiaio e si chiedono “chi me lo raccoglierà?”. Questo è il loro metodo di apprendimento del mondo. Da adolescenti sperimentiamo fino a che punto possiamo spingere i nostri genitori – e lo dico come madre di teenager. Siamo tutti scienziati naturali: vogliamo capire, siamo curiosi per natura. E questo è un vero e proprio strumento di sopravvivenza, perché se non si è curiosi, non si può capire il mondo che ci circonda. Ripeto, la scienza è comprendere come accadono le cose, dalla vita quotidiana dei bambini ai buchi neri supermassicci».

Però ora che si tratta di vaccini, ci sono molte persone diffidenti. Siamo naturalmente curiosi, ma anche molto sospettosi.

«È naturale e giusto essere critici riguardo alle nuove conoscenze che impariamo: è parte del progresso del nostro sapere comune! Tuttavia dobbiamo anche aver fiducia nel processo scientifico. Non possiamo saperne di ogni cosa in ogni campo, e per questo dobbiamo affidarci a degli esperti. Il processo scientifico è molto rigoroso, si basa su dati e su anni di ricerca e convalida, e sul continuo scambio tra studiosi. Questo metodo ci offre la migliore possibilità di comprendere e risolvere i problemi, come per esempio per produrre vaccini sicuri per superare una pandemia».

Vorrei tornare su un punto che abbiamo già sfiorato. Lei è la quarta donna a vincere il premio Nobel per la fisica. La nostra società non è così aperta al contributo delle donne. Pensa che questo cambierà mai?

«Credo di sì, di fatto abbiamo già compiuto importanti passi avanti. Lo scenario entro cui fare scienza è già molto diverso rispetto a una generazione fa. Personalmente non ho mai messo in dubbio la mia capacità di essere una scienziata. L’ho sempre visto come qualcosa in cui ero brava, qualcosa che mi piaceva, quindi perché non avrei dovuto perseguire questo progetto? Anche crescendo mi sono sentita totalmente legittimata a perseguire la scienza. Solo più tardi ho capito che la faccenda era un po’ più complicata, ma, di nuovo, mi sento molto fortunata a lavorare in un’istituzione che mi ha completamente sostenuta come professoressa, come scienziata, e che mi ha appoggiata nel perseguire le domande che ritenevo interessanti. Penso che sempre più istituzioni e sempre più Paesi stiano abbracciando l’idea che la scienza ha molte forme».

Non mancano certo le donne nella scienza, ma raramente ricevono il giusto riconoscimento. E, quando si affermano, vengono osservate come qualcosa di esotico, una notizia di colore. Quando il suo premio è stato ufficializzato, i titoli giornalistici hanno parlato di “una donna”, dimenticando di ricordare le sue ricerche e, perfino, omettendo il suo nome.

«Non mi vedo come una scienziata-donna. Mi vedo come una scienziata. Sono felice di essere parte di questa lunga storia e che le donne possano lavorare in questo campo. Sono entusiasta della scienza a cui stiamo lavorando. È questo che mi fa andare avanti, questo è ciò che mi eccita quando mi alzo la mattina. E spero che questo mio entusiasmo, il dialogo su come funziona la scienza e la possibilità di vedere persone che ci assomigliano in queste posizioni possano aiutare a produrre il cambiamento».

Il caso AstraZeneca e la fiducia cieca in una scienza che non è esatta. La scienza ha compiuto un miracolo, ma è stato un miracolo troppo veloce. La scienza ha bisogno di dati e statistiche – ma gli uni e le altre significano tempo. E noi tempo non ne avevamo. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 giugno 2021. Camilla Canepa, diciott’anni, aveva ricevuto il vaccino il 25 maggio nel corso di un Open Day a Genova. Il 3 giugno era andata una prima volta in pronto soccorso con cefalea e fotofobia: era stata sottoposta a Tac e esame neurologico, entrambi negativi, ed era stata dimessa con raccomandazione di ripetere gli esami del sangue dopo 15 giorni. Il 5 giugno, però, è tornata in pronto soccorso con deficit motori. Sottoposta a Tac cerebrale “con esito emorragico” era stata trasferita nel reparto di Neurochirurgia. Il 6 giugno Camilla era stata operata dapprima per la rimozione del trombo e poi per ridurre la pressione intracranica. Nei giorni successivi la situazione in rianimazione era però rimasta tragicamente stabile. Ieri è morta. Alle 19.18 le agenzie di stampa battevano la notizia della morte di Camilla. Alle 20.21, sempre sulle agenzie, giungeva la notizia della circolare dell’Assessorato regionale alla Salute della Regione siciliana con cui si disponeva l’immediata sospensione in via cautelativa del vaccino Astrazeneca per i pazienti sotto i 60 anni. Le Regioni che avevano puntato su Astrazeneca per organizzare gli open day aperti ai giovani vanno nel caos: un previsto open day con AZ viene revocato a Napoli; sospensione “precauzionale” anche in Umbria; l’Usl della Valle d’Aosta decide allo stesso modo; anche il Lazio sospende l’open week agli over 18 con AZ; in Emilia-Romagna gli Open Day già programmati si faranno solo con la somministrazione di Pfizer e Moderna. Il ministro della Salute Roberto Speranza, rispondendo al question time al Senato, ricordava come oltre due mesi fa, lo scorso 7 aprile il ministero, con una circolare, avesse «già raccomandato l’uso preferenziale del vaccino AZ agli over-60 e Aifa (l’Agenzia del farmaco) ha ribadito che il profilo beneficio-rischio è più favorevole all’aumento dell’età». Il presidente della Liguria Giovanni Toti dichiara: «La possibilità di utilizzare AstraZeneca per tutti su base volontaria non è un’invenzione delle Regioni o di qualche dottor Stranamore; è suggerimento che arriva dai massimi organi tecnico-scientifici per aumentare le vaccinazioni, e quindi evitare più morti». E pubblica sulla pagina istituzionale Facebook la lettera inviata il 12 maggio dal Comitato tecnico-scientifico alle Regioni: «Il Cts non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate dalle differenti realtà regionali iniziative, quali i vaccination day, mirate a offrire, in seguito ad adesione/richiesta volontaria, i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni». Oggi sappiamo che Camilla soffriva di piastrinopenia autoimmune familiare e assumeva una doppia terapia ormonale. Ma l’8 giugno a Genova era emerso il caso di un’altra giovane, una donna di 34 anni di Alassio vaccinata lo scorso 27 maggio con la prima dose di AstraZeneca e ricoverata presso l’Ospedale Policlinico San Martino di Genova con un livello basso di piastrine nel sangue: si era recata all’ospedale per il forte mal di testa. E il 4 aprile scorso era morta, sempre a Genova, una giovane insegnante genovese di 32 anni, che era stata vaccinata con AstraZeneca il 22 marzo nel corso della campagna vaccinale per i docenti e l’autopsia aveva confermato un quadro “trombotico ed emorragico cerebrale” come causa del decesso. In Liguria, viene sospeso in via cautelativa il lotto ABX1506 di AstraZeneca. Il Comitato tecnico-scientifico opta per una raccomandazione «rafforzata» di utilizzare il vaccino di Astrazeneca per i soggetti con più di 60 anni. Gli esperti pensano a una riorganizzazione complessiva della campagna vaccinale, quindi anche della somministrazione delle diverse tipologie di vaccino a seconda delle età, alla luce del mutato quadro epidemiologico. Improvvisamente, siamo gettati di nuovo nello smarrimento, e ritorna la diffidenza. L’accelerazione che si era imposta nella vaccinazione di massa che “saltava” ormai la progressione dell’età (a Torino, un Open night hub con tanto di dj set e mille giovani in fila tra musica disco e fiale di vaccino) improvvisamente si blocca. Dobbiamo tornare a ripensare tutto. La scienza ha compiuto un miracolo, ma è stato un miracolo troppo veloce. La ricerca ha bisogno di tempo, ha bisogno di sperimentazione, ha bisogno di ripetere più e più volte nelle stesse condizioni un esperimento e verificare che i risultati siano sempre i medesimi, ha bisogno di cogliere gli effetti collaterali, provare a ridurli, e solo allora può fare un calcolo rischi-benefici. La scienza ha bisogno di dati e statistiche – ma gli uni e le altre significano tempo. E noi tempo non ne avevamo. Noi avevamo capito presto quello che sapevamo da sempre: nell’irrompere del contagio, l’unica cosa che può fermarlo è il confinamento. Chiudere tutto. Era successo nella Grande peste, nelle ricorrenti infezioni da colera, nella Spagnola: sprangare, limitare ogni movimento. Se non c’è mobilità, se non c’è socialità, i focolai rimangono isolati e il contagio non si diffonde. Dal Medio evo a oggi – questa era l’unica consapevolezza “scientifica”. Una misura politica cioè. Qualcosa che rispondeva istintivamente al nostro terrore. Sapevamo però pure che sarebbe stato impossibile “chiudere il mondo” per un tempo indefinito e l’unica risposta scientifica che avevamo era il vaccino. Il vaccino ci avrebbe permesso di tornare alla normalità, alle fabbriche, agli uffici, agli amici, al ristorante, alla vita quotidiana. Il vaccino avrebbe fatto il miracolo. Così, appena si è scoperto un vaccino ci abbiamo dato dentro – il “modello cinese” che tutti guardavamo con ammirazione, cioè la capacità di “confinare” intere aree geografiche senza che neanche uno spillo ne uscisse, lasciava il posto al “modello inglese” e al “modello israeliano”: quelli sì, che vaccinavano come treni. Progressivamente, anche i più riottosi se ne andavano convincendo, magari con qualche incentivo: negli Stati uniti si festeggiava la prima vincita di un milione di dollari alla “lotteria dei vaccinati”, Vax-a-Million, con un’impennata di vaccinazioni del 94 percento tra i 16 e 17 anni, del 46 percento tra i 18 e 19 anni; in Israele ti davano una pizza gratis se ti facevi vaccinare; sempre negli Stati uniti addirittura si davano spinelli: “Joints for jabs”, la campagna di successo, Ohio, New York, Maryland, Oregon e Colorado. Alla fine, anche le diffidenze più ostili, le diffidenze più ideologiche, sembravano vacillare sotto i colpi degli “incentivi”, dei premi. Tornava l’obbedienza: vuoi andare all’estero, hai prenotato per la Spagna, le Seychelles? Vaccinati. Un’intera ultima classe di un Istituto superiore di Treviso si vaccinava tutta insieme perché aveva deciso di trascorrere tutta insieme le vacanze dopo l’esame di stato a Mykonos. Improvvisamente, la vaccinazione tra i giovani diventa compulsiva. Qualcuno si fa prendere la mano: vacciniamo i bambini dagli otto ai dodici anni, così torneranno a scuola tranquilli. Gli “esperti” ovviamente, si dividono subito, tra chi è largamente favorevole, tra chi è ostinatamente contrario, tra chi cambia idea a seconda del talk-show in cui si presenta e viene consultato. Se ci sono ancora fasce di over 60 e addirittura 0ver 80 che non sono stati raggiunti dalla campagna di vaccinazione – e i numeri dei decessi benché tendano a diminuire sono ancora lì – perché correre a inseguire i più piccoli con la siringa in mano? A tutt’oggi, del vaccino non sappiamo propriamente tutto: “l’elastico” dei giorni di copertura e di attesa tra una dose e l’altra e se un vaccino vale l’altro è una di queste cose. Siamo in piena “rolling review”, una revisione continua – cioè facciamo la valutazione scientifica del funzionamento del vaccino proprio mentre pratichiamo la vaccinazione di massa. Forse non avevamo altra strada. Ma saperlo dovrebbe farci sempre prudenti.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente". Guido Tonelli è uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern, dove lavora ed è portavoce dell'esperimento Cms. Vive fra Ginevra e l'Italia, dove insegna Fisica a Pisa, anche se da ottobre è "bloccato" in Svizzera. Eleonora Barbieri, Domenica 17/01/2021 su Il Giornale. Guido Tonelli è uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern, dove lavora ed è portavoce dell'esperimento Cms. Vive fra Ginevra e l'Italia, dove insegna Fisica a Pisa, anche se da ottobre è «bloccato» in Svizzera. Autore di due saggi bellissimi, La nascita imperfetta delle cose (Bur) e Genesi (Feltrinelli), Tonelli parla di «Scienza» per il ciclo «Le parole del Vieusseux», organizzato per i 200 anni del Gabinetto (conferenza sul sito di «Più Compagnia» fino al 23 gennaio; poi sulla pagina YouTube del Vieusseux). E ne parla anche con noi.

Professor Tonelli, di fronte alla pandemia molti si chiedono: la scienza ha fallito?

«Questo è l'indicatore di un senso di onnipotenza che l'umanità ha ricavato dall'esperienza degli ultimi decenni. La vita dei nostri nonni era completamente diversa, si poteva morire per cause sconosciute e a qualunque età; negli ultimi settant'anni abbiamo sempre più avuto la sensazione che niente potesse minacciare la nostra salute e il nostro benessere e che, per qualsiasi malattia, ci fosse una medicina».

E invece...

«Invece è un pregiudizio, una specie di illusione. La scienza non ha mai promesso miracoli, anzi, la scienza ci dice di fare attenzione e ci ha ammonito che, se non teniamo conto degli equilibri naturali, i pericoli possono aumentare. È grazie alla scienza che, in pochi mesi, abbiamo capito che cosa sia questa malattia e da dove venga; grazie ai microscopi elettronici abbiamo individuato il patogeno e abbiamo visto come è fatto; infine, con computer potentissimi ne abbiamo simulato la composizione e scovato i punti deboli e così, in poco tempo, sono stati sviluppati dei vaccini».

La scienza non ci ha tradito?

«È vero che il fatto che sia scoppiata la pandemia può essere visto come una crisi di questa concezione di una scienza onnipotente, ma la scienza è una produzione umana con i suoi limiti, guai a considerarla onnipotente. E, quando c'è stata la crisi, è dagli scienziati che è arrivata la risposta, e questa è la prova di quanto la scienza sia importante per l'umanità. Nessuno avrebbe potuto tirarci fuori da questa situazione, se non gli scienziati, che hanno lavorato giorno e notte».

Si è vista anche un'arroganza della scienza?

«Questo è sicuramente avvenuto, ed è un discorso importante, al di là dei casi singoli. Nel momento in cui la pandemia ha mostrato questa importanza del ruolo della scienza per tutti, tanto che milioni di persone pendono dalle labbra degli scienziati e ogni loro dichiarazione viene soppesata, sorge una responsabilità nuova, enormemente superiore. Però emergono anche le debolezze umane...».

Un po' di voglia di protagonismo?

«Se viene a un nostro congresso, nota che le discussioni sono accanite, questo fa parte del carattere della scienza; ma, quando si parla in pubblico mentre milioni di persone soffrono e muoiono, serve un senso di responsabilità più elevato».

E come si fa?

«Le racconto un caso accaduto qui al Cern, quando, alla partenza di Lhc nel 2008-2009, molte persone si chiedevano se l'acceleratore avrebbe creato un buco nero e provocato la fine del mondo: ogni giorno c'erano la Bbc, la Cnn, la Reuters che ci interpellavano. Normalmente avremmo riso di quelle accuse, ma milioni di persone erano preoccupate, quindi non potevamo fare battute o essere superficiali. Abbiamo preso sul serio le argomentazioni, cercando di non irritarci».

C'è anche chi dubita della scienza a prescindere.

«La prima tentazione sarebbe di essere aggressivo: muoiono diecimila persone al giorno e dici che è una finta. Ma anche questo sarebbe un errore: l'unica soluzione è la pazienza, raccontare, aprire gli armadi della scienza e far vedere quello che c'è dentro».

Il dubbio però serve?

«Il dubbio rimane, ed è un elemento di salute: la scienza procede attraverso i dubbi. Il dubbio non è paralizzante, è prudenza, ma è la prudenza che ha fatto fare alla scienza i progressi che ha fatto».

La scienza è indispensabile?

«La scienza e la conoscenza sono la nostra visione del mondo. Tutto il nostro mondo, dai cellulari ai treni, dal web alla medicina, è basato sulla relatività generale e sulla meccanica quantistica. La scienza è indispensabile e lo sarà sempre di più in futuro, ed è per questo che le nazioni emergenti, in particolare la Cina, investono così tanto nell'innovazione: nel XXI secolo chi guida l'umanità nella caccia alle nuove conoscenze guida l'umanità tout court, è il padrone del mondo».

E l'Italia?

«Per giocare un ruolo, il nostro Paese deve spingere su innovazione e conoscenza, e ci sono le condizioni per farlo: un sistema educativo eccellente, nonostante le difficoltà, e dei giovani che hanno una marcia in più; ma serve un sistema politico che spinga in questa direzione, per i prossimi 25 anni».

La scienza porta al progresso in cui viviamo, ma il progresso porta allo spillover e alla pandemia. Come si trova un equilibrio?

«La scienza non può risolvere da sola tutti i problemi, questo è un punto fondamentale. Da un lato c'è la potenza del metodo scientifico, di una disciplina che cerca continuamente una prova degli errori delle proprie teorie, ed è questo che la rende forte: cerchi le grane, gli angoli sporchi nella casa pulita, perché negli angoli sporchi, forse, puoi trovare una verità più avanzata».

Però?

«Però noi scienziati siamo bravi con sistemi semplici e riproducibili, come i pianeti, le stelle e la materia. Gli individui non sono tutti uguali, e le società ancora meno. Gli strumenti con cui si organizza una società non possono essere decisi da scienziati: la scienza potrà essere una colonna della società, ma non può stabilire quali siano il sistema sociale migliore, le leggi del diritto, l'etica, l'estetica... Ci sono enormi campi in cui la scienza non ha niente da dire, per principio».

Lei si occupa di una scienza grandiosa.

«Gli americani la chiamano Big Science, perché ha dimensioni grandi: qui ci sono 3000 scienziati e infrastrutture gigantesche. Ma sono ancora più grandi le visioni e le teorie che essa sviluppa, come dopo la scoperta del bosone: vedere nel mondo il reticolo che lo sostiene è qualcosa che fa venire i brividi».

Nel suo libro, Genesi, questa scienza ci porta addirittura alle origini del mondo.

«Nei momenti di difficoltà, conoscere le proprie origini e il lungo racconto delle ere lontane di cui siamo eredi ci dà la forza per affrontare il presente con lucidità e serenità. Oggi che l'umanità vacilla e si chiede se sopravvivrà, vedere il nostro essere eredi di una storia lunghissima, anche materiale, che arriva fino al Big Bang, ci fa sentire meno soli e ci sorregge, è come un lungo filo di cui siamo l'estremità, e che passeremo ai nostri figli».

Non possiamo stare senza la scienza?

«Negli ultimi 30 anni tutti i governi hanno tagliato gli investimenti nella ricerca, negli ospedali e nella salute, ma credo che questa lezione terribile insegni alla politica che non bisogna considerare la ricerca come un lusso, e investire».

Per esempio?

«Si potrebbero costruire grandi centri di ricerca mondiali, tipo Cern, per la produzione di farmaci, per i vaccini e per la prevenzione da pandemie future: non sarebbe un investimento conveniente, anziché pagare il prezzo, e i danni, di una pandemia?».

·        L’Estinzione dei Dinosauri.

Dagotraduzione di DailyMail il 7 giugno 2021. I paleontologi cinesi hanno scoperto uno scheletro di dinosauro giurassico straordinariamente completo. Il fossile, trovato a Lufeng, nel sud-ovest della Cina, è intatto per circa il 70% e appartiene a un dinosauro che si ritiene fosse lungo quasi otto metri. È stato scoperto durante uno scavo a fine maggio in un terreno datato a circa 180 milioni di anni, al periodo giurassico. Il capo del Centro di ricerca e conservazione dei fossili di dinosauro della città di Lufeng Wang Tao ha dichiarato: «Un fossile di dinosauro così completo è una scoperta rara in tutto il mondo». Ha descritto il fossile come un «tesoro nazionale» e ha detto che la sua squadra ora sperava di scavare nel cranio del dinosauro. «Sulla base del fossile che è stato scoperto nel corso degli anni, sulla coda e sulle ossa della coscia, crediamo che si tratti di un tipo di Lufengosaurus gigante, vissuto durante il primo periodo del Giurassico», ha aggiunto. Il centro sta pianificando uno scavo di emergenza per salvare lo scheletro perché è stato trovato in un luogo a rischio di erosione del suolo. Trovare fossili completi come questo a Lufeng è un evento molto raro in paleontologia. Questa specie ha fatto notizia a livello internazionale nel 2017, quando è stata scoperta la proteina del collagene conservata nella costola di un fossile di Lufengosaurus. La proteina era di 100 milioni di anni più vecchia di qualsiasi altra scoperta in precedenza, secondo quanto riportato dalla BBC all'epoca. Gli scienziati hanno anche trovato tracce di un minerale che secondo loro sarebbe stato nel sangue dell'animale. Si pensa che i Lufengosaurus fossero erbivori a quattro zampe e sono stati chiamati colloquialmente come "Lucertole Lufeng". All'inizio del 2021, lo scheletro appartenente a un giovane dinosauro dello stesso periodo è stato scoperto a Lufeng. Il fossile è stato un'altra scoperta entusiasmante da parte dei paleontologi della regione in quanto non corrisponde a nessun'altra specie conosciuta di dinosauro.

Dagotraduzione dal Mailonline il 16 aprile 2021. Si chiama "Tirannosauro Rex", ovvero, "Re lucertola tiranno", e tiranno lo era veramente. E in numerosa compagnia. Secondo gli esperti della California, nel corso dei 2,5 milioni di anni in cui hanno popolato il Nord America, nel tardo Cretaceo, hanno vagato per il pianeta 2,5 miliardi di tirannosauri. Estinti, insieme agli altri dinosauri, circa 66 milioni di anni fa in seguito a una devastante pioggia di asteroidi. «Il progetto è iniziato da lontano», ha spiegato Charles Marshall, autore della ricerca e paleontologo dell'Università della California. «Tenevo in mano i fossili e mi chiedevo quante probabilità ci fossero che le ossa di questa bestia, che ha milioni di anni, arrivassero fino a me». Mi sono reso conto che forse potevamo stimare quanti esemplari erano vivi». L'idea di poter stimare in modo affidabile la popolazione di specie estinte da tempo è stata a lungo bollata come impossibile, per via della natura incompleta del materiale fossile. «In effetti è molto difficile fare stime quantitative con quello che abbiamo sui fossili», ha ammesso il professor Marshall. «Ma abbiamo calcolato che in un determinato momento c'erano circa 20.000 T-Rex adulti». I calcoli del team sollevano alcune domande: come mai, se la specie era così numerosa, sono stati trovati meno di 100 T-Rex? «Oggi nei musei pubblici ci sono circa 32 T-Rex adulti relativamente ben conservati». ha spiegato il professor Marshall. «Vuol dire che ne abbiamo trovato uno ogni 80 milioni». Erano meno? Erano di più? La forbice individuata dallo studio comprende il numero tra i 140 milioni e i 42 miliardi di esemplari. Senza alcune informazioni sull'esatta natura dell'animale - per esempio quanto caldo fosse il suo sangue - è difficile avere certezze. I calcoli si sono basati sui dati pubblicati dall'ecologo John Damuth dell'Università della California di Santa Barbara, che mette in relazione la massa corporea con la densità di popolazione degli animali vivi, una relazione chiamata "Legge di Damuth". Sebbene la relazione sia forte, ha spiegato il professor Marshall, differenze nell'ecosistema possono provocare grandi variazioni nella densità della popolazione di animali simili. Per esempio, iene e giaguari hanno all'incirca le stesse dimensioni, ma questi ultimi hanno una densità di popolazione circa 50 volte maggiore rispetto a quella dei grandi felini. «I nostri calcoli dipendono dalla relazione tra la massa corporea degli animali e la loro densità di popolazione. Sorprendentemente l'incertezza nelle nostre stime è determinata dalla variabilità ecologica e non dall'incertezza dei dati paleontologici che abbiamo utilizzato». Per lo studio, il team ha scelto di considerare il T-Rex come un predatore con un fabbisogno energetico a metà strada tra quello di un leone e quello di un drago di Komodo, la più grande lucertola vivente sulla Terra. Il gruppo di ricercatori ha anche scelto di escludere dallo studio i giovani T-Rex, perché sottorappresentati. Recenti ricerche hanno suggerito che potrebbero aver vissuto in un luogo separato dagli adulti e cacciato prede diverse, come una specie diversa di predatori. Gli scienziati hanno reso disponibile ai colleghi il codice del computer utilizzato per stimare i numeri del T-Rex. «Con questi numeri possiamo iniziare a stimare quante specie mancano all'appello nella nostra documentazione», ha detto il professor Marshall. I risultati completi dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Science.

Giovanni Caprara per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2021. Due scienziati hanno trovato il preciso colpevole dell' annientamento dei dinosauri 66 milioni di anni fa. Grazie ad una minuziosa indagine hanno stabilito con ragionevole certezza che sia stata la caduta di una cometa e non di un asteroide come da decenni si discuteva. Il corpo celeste aveva un diametro intorno ai 14 chilometri e cadendo sulla Terra, provocò un immane disastro alterando l' ambiente sino a causare l'estinzione dei grandi dominatori. Le conseguenze segnarono in modo radicale lo sviluppo della vita sul nostro pianeta. Ma come era arrivato e da dove, l' imponente bolide cosmico ? La domanda sul devastante l' impatto, la cui tesi ha preso il sopravvento rispetto all' altra idea che vedeva la fine dei giganti per un' atmosfera sconvolta da eruzioni vulcaniche, se la sono posta due ricercatori del Center for Astrophysics Harvard-Smithsonian (Usa) definendo i dettagli di una storia particolarmente attraente. La prima prova del tremendo evento era stata l' individuazione nei primi anni Novanta dei resti del grande cratere Chicxulub del diametro di 150 chilometri scavato dalla cometa e scoperto sotto la penisola dello Yucatan, nell' attuale Messico. Il devastante risultato fu un' improvvisa estinzione di massa che portò alla scomparsa non solo dei dinosauri ma addirittura di tre quarti delle specie vegetali e animali viventi sulla Terra. Le tonnellate di materiale scagliato nell' aria e distribuito intorno al globo resero l' ambiente quasi impossibile. Nello studio pubblicato sui Scientific Reports della rivista scientifica Nature i due scienziati Amir Siraj e Avi Loeb elaborano una nuova teoria che ricostruisce il drammatico evento puntando il dito contro Giove, il più massiccio pianeta del sistema solare. Attraverso simulazioni numeriche hanno stabilito come molte comete disturbate dalla forte azione gravitazionale di Giove vengano strappate dalla nube di Oort, cioè dal serbatoio di relitti della formazione dei pianeti che avvolge l' intero corteo planetario. «Il sistema solare agisce come una sorta di flipper - spiega Siraj - e così gli astri con la coda arrivano in prossimità del Sole». Nel loro viaggio il destino è talvolta infelice come era accaduto nel luglio 1994 quando la cometa Shoemaker-Levy si è sbriciolata proprio in prossimità di Giove precipitando come una collana di perle brutalmente rotta nel gorgo dell' atmosfera gioviana. Secondo Siraj e Loeb il 20 per cento delle comete finiscono in questo modo, precipitando sui pianeti, e una parte, nel corso di milioni di anni, ha la probabilità di cadere sulla Terra. Le loro indagini inoltre sono coincidenti con l' età dell' impatto di Chicxulub portando alla seconda prova dell' accaduto. I reperti individuati nel cratere sono formati da condrite carboniosa e ciò contrasterebbe con la teoria che fosse stato un asteroide proveniente dalla fascia asteroidale tra Marte e Giove a colpire la penisola dello Yucatan. «Le condriti carboniose - concludono gli studiosi - sono rare tra gli asteroidi della fascia principale, ma diffuse sulle comete provenienti dalla nube di Oort e ciò costituisce un elemento a favore di questo tipo di impatto».

·        Il Computer.

Da leggo.it il 29 ottobre 2021. Da sempre considerato come l’esperto di tecnologia per eccellenza, ora, Salvatore Aranzulla, il re degli how to tecnologici, si dedica anche alla cura del suo corpo. Sul suo profilo Instagram, due giorni fa, il problem solver dei software ha postato una foto davanti allo specchio in cui mostra il fisico da bodybuilder con pettorali e addominali scolpiti. Pioggia di like per Aranzulla che ha stupito tutti, ribaltando l'immagine stereotipata del perfetto nerd, tutto casa e computer. Ora, oltre ai tutorial sulla tecnologia, Aranzulla insegna anche come prendersi cura del proprio corpo. Mens sana in corpore sano: non solo cervello, ma anche muscoli. Se, quindi, finora tutti si aspettavano da lui risposte utili unicamente sulle diavolerie tecnologiche, come pc, stampanti e software, adesso Aranzulla fornisce anche informazioni per avere un fisico perfetto. Da qualche anno, il 31enne ha scelto di applicare la sua intelligenza all’allenamento in palestra. «Appena mi sono trasferito a Milano dalla Sicilia - ha raccontato alla Gazzetta dello Sport -, nel 2008, non sapevo cucinare, mangiavo sempre da asporto e così misi peso. Cominciai ad allenarmi ma dovetti interrompere a causa della colite ulcerosa. Poi ho ripreso ma ero discontinuo, l’ultima volta sono finito in ospedale per un blocco della digestione: avevo fatto colazione mezz’ora prima di allenarmi». «Qualche anno fa - continua Aranzulla - ho cambiato casa, ho scoperto che nel palazzo c’era una palestra condominiale: ho deciso di approfittarne. Studiando una serie di meta-analisi scientifiche ho capito che dovevo prendere in considerazione i fondamentali dell’allenamento, il volume degli esercizi etc.».

Cep, 60 anni fa il primo super-computer italiano. L’inventore: «Lasciammo Gronchi senza parole». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 16 novembre 2021. Il racconto di Giuseppe Cecchini, 96 anni, che nel novembre 1961 a Pisa tenne a battesimo il calcolatore. «Non pensavamo che potesse cambiare il mondo». Il primo vagito della Cep se lo ricorda ancora l’ingegner Giuseppe Cecchini, 96 anni, uno dei padri dell’informatica italiana. Non fu un pianto, ma la risposta vocale in italiano, a una domanda inviata via tastiera. «Fu grande l’emozione che mi commossi profondamente», ricorda Cecchini. E già perché la Cep, la Calcolatrice elettronica pisana, non era per l’ingegnere soltanto il primo super computer italiano, ma anche un figlio che aveva creato insieme a un team di scienziati, tecnici, programmatori, seguendo un progetto nato grazie anche a un interessamento di Enrico Fermi. Una macchina potente per il tempo (siamo nel 1961) non solo nei calcoli scientifici ma anche per il carisma che emanava. E che spinse un altro super ingegnere, uno dei padri del computer Olivetti M24, Luigi Pistelli, allora uno studente pisano poco più che ventenne, a precipitarsi nel quartier generale del progetto, non lontano dalla Scuola Normale, per chiedere di parteciparvi. «Mi stavo laureando e accelerai come un matto gli studi — ricorda Pistelli —. Mi laureai con 110 e lode in Ingegneria e poi corsi dal professor Giovan Battista Gerace e da Giuseppe Cecchini. Mi assunsero dandomi piena fiducia e soprattutto un’autonomia straordinaria». Anni formidabili, quelli pisani. E non solo per il boom economico italiano, ma per quel salto di paradigma nella ricerca capace di guardare al futuro con uno spirito diverso. Dove non mancavano l’allegria e la leggerezza. Come ricordato nel convegno «1961, l’anno che cambiò l’informatica italiana», organizzato dal professor Fabio Gadducci, che si è appena concluso nella città della Torre pendente. «Si costruiva un computer scientifico tra i più potenti d’Europa – ricorda Cecchini – e allo stesso tempo si faceva squadra, come grandi amici. Nelle poche ore di riposo andavamo insieme al mare al bagno Lido di Marina di Pisa, oppure a Viareggio ad ammirare le belle straniere». Tecnici, operatori, docenti universitari, capi e non, fianco a fianco, con in volto lo stesso entusiasmo, lo sguardo profetico di chi osserva uno spicchio di futuro, ancora oscuro. «Nessuno di noi sapeva che cosa sarebbe accaduto quando la Cep avrebbe iniziato a funzionare — continua Cecchini —. La si vedeva come un’enorme macchina per il calcolo ma non avevamo percezione che il computer sarebbe diventato un centro di comunicazione capace di rivoluzionare il mondo». La Calcolatrice elettronica pisana occupava un intero salone. Nel suo ventre custodiva più di 3000 valvole, 2000 transistor, 12.000 diodi al germanio. Calcolava in pochi minuti un sistema di 100 equazioni lineari in 100 incognite ma aveva una memoria e una potenza paragonabile a quella di un pc da gioco di molti anni fa. Fu inaugurata il 13 novembre del 1961 dall’allora Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi. «Un altro giorno straordinario — ricorda l’ingegnere Cecchini —. Riuscimmo a far suonare alla Cep l’Inno di Mameli e Gronchi rimase esterrefatto da quello che allora sembrava un prodigio». Il Presidente (anche lui pisano di Pontedera) premiò i progettisti, Cecchini compreso, augurò loro nuove imprese e la Cep finì su tutti i giornali, stranieri compresi. E soprattutto lanciò Pisa come la patria dell’informatica italiana, proiettandola verso il futuro. Che Giuseppe Cecchini aveva già intuito qualche anno prima. Rifiutando un lavoro molto ben retribuito all’Olivetti come progettista delle telescriventi. «Non hanno futuro queste macchine», rispose profetico l’ingegnere. A Ivrea si meravigliarono molto per quel «no». Ma poi, dopo qualche mese, gli fecero un’altra offerta di lavoro. Stavolta al posto delle obsolete telescriventi c’erano i computer.

“La macchina zero”, la storia incredibile di Mario Tchou. Antonio Dini su La Repubblica il 9 novembre 2021. Nel 60esimo anniversario della scomparsa del padre dell'informatica italiana, una graphic novel racconta la storia sua e quella di un'Italia digitale che avrebbe potuto essere. La mattina del 9 novembre 1961, Mario Tchou, ingegnere e dirigente di Olivetti, è morto assieme al suo autista Francesco Frinzi in un incidente d'auto all'altezza di Santhià sulla Milano-Torino: aveva 37 anni e nella sua vita era stato e aveva fatto molte cose. Figlio di un diplomatico della Cina nazionalista, era nato a Roma il 24 giugno 1924.

La mattina del 9 novembre 1961, Mario Tchou, ingegnere e dirigente di Olivetti, è morto assieme al suo autista Francesco Frinzi in un incidente d’auto all’altezza di Santhià sulla Milano-Torino: aveva 37 anni e nella sua vita era stato e aveva fatto molte cose.

Figlio di un diplomatico della Cina nazionalista, era nato a Roma il 24 giugno 1924. Dall’Italia aveva visto la fine della Repubblica cinese e la nascita delle due Cine: quella nazionalista di Chiang Kai-shek (cui la sua famiglia restò fedele) e quella comunista di Mao Zedong), il fascismo in Italia, la guerra e l’armistizio.

Il primo mainframe a transistor al mondo

Trasferitosi a New York a studiare Ingegneria elettronica e poi a insegnarla guidando il Marcellus Hartley Laboratory, considerato uno degli allievi più brillanti della sua generazione, Mario Tchou venne reclutato su suggerimento di Enrico Fermi da Adriano Olivetti prima per guidare il gruppo di Barbaricina, a Pisa: una pattuglia di ingegneri e tecnici della Olivetti che aiutarono l’Università di Pisa per costruire la Calcolatrice Elettronica Pisana, il primo computer progettato e realizzato interamente in Italia. Siamo a metà degli anni Cinquanta, e per l’Università di Pisa era un passo avanti fondamentale nella ricerca scientifica (suggerito sempre da quel deus ex machina che era Fermi) e per Olivetti era il modo per imparare a fare computer e aprire un nuovo fronte per l’azienda, che sino a quel momento si occupava solo di macchine per scrivere e calcolatrici meccaniche. Olivetti voleva in pratica diventare quella che un giorno sarebbe stata Apple, e Mario Tchou era l’uomo giusto per dare gambe a questo sogno. Con una pattuglia di ingegneri costruì il primo computer mainframe (chiamato così perché di grandi dimensioni) a transistor del mondo, l’Elea 9003. Con una serie di strutture metalliche progettate dal designer Ettore Sottsass, che per questa realizzazione vinse il suo primo compasso d’oro, l’Elea 9003 del 1959 si affermò rapidamente come un successo per la novità e lungimiranza delle soluzioni di design, cui avrebbero dovuto fare seguito altri computer di grandi e piccole dimensioni per cercare di conquistare un mercato che ancora non c’era, quello dell’informatica aziendale. L’improvvisa morte di Olivetti nel febbraio 1960 e quella di Tchou l’anno dopo misero la parola fine a questa traiettoria industriale per lungo tempo: la ripartenza di Olivetti nel settore dell’elettronica avvenne due decenni dopo in condizioni completamente diverse sia per l’azienda sia per il mercato internazionale.

L’omaggio in un fumetto

La storia di Mario Tchou è stata raccontata, oltre che da noi giornalisti, anche da pochi libri carbonari a metà fra il saggio universitario e il memoir dei tempi che furono. Quello che mancava era un’opera divulgativa capace di cogliere con precisione da documentario e leggerezza nella prosa la storia di questo incredibile italo-cinese attorno al quale per pochi anni sono ruotati i destini dell’informatica mondiale. Ciaj Rocchi e Matteo Demonte, coppia creativa e nella vita, hanno colmato questa lacuna raccontando la storia di Tchou nella graphic novel La macchina zero (Solferino, 192 pagine, 19 euro). 

Demonte è l’autore dei disegni, e porta avanti con successo la sua ricerca artistica di tipo grafico-documentale. Il suo stile è fatto con un collage creativo di elementi reali e fittizi ridisegnati e mescolati utilizzando il computer: con una tecnica di mash-up grafico sempre più raffinata è riuscito ad ammorbidire sempre di più figure e strutture sino a imporre una dinamicità visiva molto spinta; l’uso di campiture generose con sfondi di colori che si alternano sottolineando la dimensione psicologica e narrativa delle singole parti del lavoro aggiunge drammaticità e intensità.

Il lavoro di Demonte però è in funzione della ricerca storiografica e iconografica, fatta di documenti, oggetti, immagini e storie orali raccolte nel corso di due anni con Rocchi, che è la sceneggiatrice della storia: in un esercizio riuscito di creative non-fiction, Rocchi riesce a restituire l’atmosfera del fascismo e della ricostruzione, ma anche la dimensione tecnologica fatta della conquista da parte di Tchou e dei suoi colleghi delle fondamenta della nascente informatica. L’opera, che si legge come un romanzo, è tuttavia un lavoro di divulgazione storica e scientifica che riporta con correttezza la dimensione tecnica oltre che quella storiografica.

A sessant’anni dalla morte di Mario Tchou, che oggi avrebbe 97 anni, il racconto delle sue vicende è quello avvincente di un’Italia che avrebbe potuto essere. Ma che per un incidente della storia non è stata.

Sessant’anni a Pisa fa nasceva il primo computer italiano. Orlando Sacchelli su L'Arno su Il Giornale il 10 novembre. Si chiamava Calcolatrice Elettronica Pisana (Cep) e vide la luce il 13 novembre 1961. Oggi, dopo sessant’anni, viene considerata la pietra miliare dell’informatica italiana. Il primo computer costruito nel nostro Paese venne inaugurato in pompa magna alla presenza del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Occupava una stanza intera, con più di tremila valvole e duemila transistor. La sua capacità di calcolo era notevole per i tempi: Cep era in grado di risolvere, in pochi minuti, un sistema di 100 equazioni lineari con 100 incognite. Oggi, con le prestazioni raggiunte dai microprocessori moderni, un dato del genere può far sorridere. Per ricordare la nascita del computer italiano sabato prossimo 13 novembre, a Pisa, si svolgerà il convegno “1961: l’anno che cambiò l’informatica italiana”, organizzato dall’Università di Pisa in collaborazione con l’Istituto di Informatica e Telematica (Cnr-Iit), l’Istituto di Scienza e Tecnologie dell’Informazione “A. Faedo” (Cnr-Iti) e l’Istituto per le Applicazioni del Calcolo “M. Picone” (Cnr-Iac) del Consiglio Nazionale delle Ricerche. L’iniziativa rientra nell’ambito degli appuntamenti di Internet Festival 2021. L’evento si terrà al Polo Congressuale Le Benedettine (Piazza San Paolo a Ripa d’Arno, 16) a partire dalle ore 10.15 e sarà trasmesso in streaming sui canali social di Università di Pisa e di Internet Festival.

QUEI PIONIERI DELL’INFORMATICA

La Cep nacque grazie agli scienziati, indubbiamente, ma anche grazie allo sforzo visionario di alcuni politici, imprenditori e ricercatori che seppero immaginare il futuro e comprendere l’enorme portata che l’innovazione informatica avrebbe potuto avere. Alla nascita del super calcolatore, infatti, contribuirono oltre a Università e Olivetti, anche le Province e i Comuni di Pisa, Livorno e Lucca, che investirono nel progetto 120 milioni di lire (oggi sarebbero circa due milioni di euro), dando linfa alla ricerca.

Storicamente l’esperimento nacque grazie anche all’interessamento di Enrico Fermi e di Adriano Olivetti, che all’ombra della torre pendente avrebbe aperto un laboratorio di ricerche avanzate nel campo dell’elettronica.

Nel convegno verrà ricordato anche l’ingegnere italo-cinese Mario Tchou, artefice dei calcolatori Elea della Olivetti, scomparso in un incidente pochi giorni prima dell’inaugurazione della Cep. Il convegno si articolerà in due parti. La mattina saranno approfonditi la figura di Tchou e la storia della Cep, con l’intervento di Walter Veltroni, la presentazione del graphic novel di Ciaj Rocchi e Matteo Demonte ”La macchina zero”, e l’anteprima del progetto ”Pionieri dell’informatica. Uomini e donne all’alba della rivoluzione digitale” promosso dal Museo degli Strumenti per il Calcolo (parte del Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Pisa) e realizzato da Nanof e Acquario della Memoria, con preziose testimonianze audio e video di molti protagonisti dell’epoca. A seguire, nel pomeriggio, gli interventi di diversi studiosi che ripercorreranno gli avvenimenti e i personaggi dei primi anni dell’informatica italiana.

La Cep oggi è conservata nel Museo degli Strumenti per il Calcolo (Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Pisa).

Orlando Sacchelli

Camillo Olivetti fonda a Ivrea una fabbrica di sogni che diventeranno realtà. Riccardo Luna su La Repubblica il 29 ottobre 2021. Il 29 ottobre 1908 l’ingegnere Samuel David Camillo Olivetti, detto solo Camillo Olivetti, nato 40 anni prima a Ivrea, titolare di una fabbrica di apparecchiature elettriche, la Cgs (Centimetro Grammo Secondo) con sede a Milano, ispirato, pare, anche da quello che aveva imparato durante un anno trascorso in California, a Palo Alto, il cuore di quella che moltissimi anni dopo sarebbe diventata la Silicon Valley, costituisce nella sua città natale la società in accomandita semplice Ing. C. Olivetti & C, ovvero “la prima fabbrica nazionale di macchine da scrivere”, come si leggeva sull’insegna dell’officina di Ivrea, 500 metri quadri di mattoni rossi, 20 dipendenti e una produzione di partenza di 20 macchine a settimana. Dice la Treccani: “A quell’epoca, le macchine per la dattilografia negli uffici venivano prodotte dalle statunitensi Remington e Underwood e, in Europa, quasi solo da aziende tedesche. Quando, vent’anni dopo, ormai affermato industriale del settore, Camillo renderà pubblico omaggio all’avvocato novarese Giuseppe Ravizza (1811-1885), inventore nel 1855 del cembalo scrivano (così detto per la sua forma), un apparato che precorreva persino la prima macchina per scrivere al mondo, quella brevettata nel 1867 negli Stati Uniti da Christopher L. Scholes, indicherà come causa di fondo della mancata fortuna di Ravizza il limite, storicamente italiano, che non può un’invenzione maturare e dare i frutti di cui è capace, se non è integrata da un sano e adeguato organismo industriale". Certo, il 29 ottobre è anche l’anniversario, celebratissimo, del primo collegamento di una rete che poi diventerà Internet, nel 1969. Ma quel che accadde quel giorno del 1908 a Ivrea resta una pietra miliare per l’innovazione non solo italiana, l’inizio di una storia gloriosa e bellissima, finita male, questo è vero, ma ci sono film da Oscar senza lieto fine che non smetteresti di rivedere. E la saga della Olivetti è una storia da Oscar. Riguardatela nella serie tv che sta su RaiPlay, leggete i libri romanzati appassionati di Maurizio Gazzarri su alcune delle favolose macchine inventate a Ivrea, non dimenticate il libricino P101 di Piergiorgio Perotto sull'invenzione (trascurata) del primo personal computer della storia; e se dopo tutto ciò vi resterà la domanda di come e perché l’Italia ha potuto mandare in malora un tale patrimonio, tuffatevi nella ricostruzione del "caso Olivetti” fatta da Merlyle Secrest. Insomma, il 29 ottobre 1908 iniziò una storia che non dobbiamo dimenticare per capire le potenzialità dell’innovazione italiana e perché a volte riusciamo a non accorgercene.

Steve Jobs, il "ragazzo ribelle" che nessuno voleva accanto. Vittorio Vaccaro il 21 Dicembre 2021 su Il Giornale. Prima della Apple, Steve Jobs è stato un "ragazzo ribelle", forse dislessico e abbandonato dai genitori alla nascita: nessuno voleva quello "scemo del villaggio". Solo quelli che sono abbastanza folli da pensare di cambiare il mondo lo cambiano davvero. Questa frase è stata estrapolata dalla popolare pubblicità di un noto marchio che è stato in grado di modificare l’approccio umano alla tecnologia, fondato da uno degli uomini più visionari mai esistiti. Chi? Non può che essere Steve Jobs. Un vero innovatore. Oggi la realtà Apple - iPhone, iPod, iPad - è divenuta necessaria per una comunicazione globale basata principalmente sull’utilizzo di mezzi tecnologici, che mettono in rete individui di tutto il pianeta. Eppure, anche se si fa fatica a crederlo, Steve non è sempre stato fortunato nella vita, anzi ha avuto un’infanzia difficile.

Nasce il 24 febbraio 1955 a San Francisco, ma i genitori lo danno subito in adozione a una famiglia californiana, Paul e Clara Jobs, un meccanico e una contabile. È un bambino difficile, non ama studiare e ha qualche problema nella scrittura. Viene marchiato come "ragazzo ribelle" sempre pronto a contestare gli insegnanti. Riesce a diplomarsi nel 1972 e non fa nemmeno in tempo a iniziare il college che abbandona gli studi: Steve non riesce a seguire le regole. Si pensa che abbia sofferto di una forma di dislessia e di sindrome di Asperger.

È vero che il ragazzo non appare dotato e che non è un modello di perfezione, eppure un paio di anni dopo, nel 1974, viene assunto in un’azienda di videogiochi, Atari. Solo dopo ventiquattro mesi fonda la Apple Computer assieme a un suo amico, Steve Wozniak. I due mettono assieme i loro pochi soldi ricavati attraverso una vendita, Jobs del suo pulmino Volkswagen e il socio di una calcolatrice, e sviluppano così il loro primo computer, Apple 1. Il loro primo laboratorio è il garage dei genitori Jobs. Nel 1980 inizia la scalata al successo: Apple viene quotata in borsa arrivando a un valore di 1,79 miliardi di dollari. Da quel momento la tecnologia della “Mela” arriva dappertutto nel mondo.

Steve diventa uno degli uomini più potenti al mondo e nel 2005, all'Università di Stanford, tiene un discorso agli studenti che passerà alla storia.

Il vostro tempo è limitato, perciò non sprecatelo vivendo la vita di qualcun altro. Non rimanete intrappolati nei dogmi, che vi porteranno a vivere secondo il pensiero di altre persone. Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui zittisca la vostra voce interiore. Abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione: loro vi guideranno in qualche modo nel conoscere cosa veramente vorrete diventare.

Nel 2011 a soli cinquantasei anni muore dopo aver combattuto una lunga battaglia contro un tumore. Anche questa volta abbiamo visto come lo “scemo del villaggio” sia diventato “genio del mondo”. Vittorio Vaccaro

Storia. 10 anni fa moriva Steve Jobs, il signore della Mela. Roberto Graziosi il 5 ottobre 2021 su Focus. Il 5 ottobre 2011, all'età di 66 anni, scompare Steve Jobs: ecco una mini biografia dell'uomo che ha messo la tecnologia nelle mani di tutti. Se oggi sono il computer e lo smartphone - e non più il cane - a essere "migliori amici" dell'uomo, se è cambiato il modo in cui ascoltiamo la musica, se il cellulare è diventato un apparecchio tuttofare, molto del merito è suo. Di un californiano geniale e irascibile che si è ispirato a Bob Dylan e a Picasso: è Steve Jobs, l'inventore della Apple, nato il 24 febbraio 1955. Alcuni aspetti della sua vita sono rimasti a lungo avvolti dal mistero, a partire dalla nascita: di certo si è sempre saputo che avvenne il 24 febbraio 1955. Dove? Fino a qualche anno fa alcune fonti riportavano che Jobs fosse nato nel Wisconsin, secondo altre era venuto al mondo a San Francisco (California). Successivamente la biografia ufficiale di Jobs svelò l'arcano: era nato a San Francisco. Il padre era uno studente siriano, Abdulfattah "John" Jandali, che sarebbe diventato in seguito un professore di scienze politiche.

LA PROMESSA. La madre biologica era una studentessa universitaria che, temendo di non potergli garantire un futuro dignitoso, lo diede in adozione. «Voleva che fossi affidato a una coppia di laureati» raccontò Jobs in un discorso. «Quando scoprì che la mia madre adottiva non aveva finito il college, e il marito neppure il liceo, si rifiutò di firmare le carte. Finché non le garantirono che sarei andato all'università». Come stabilito molti anni prima, nel 1972 Steve Jobs si iscrisse all'università, al Reed College, in Oregon. Ben presto capì che quei corsi non erano poi tanto interessanti e che la vita del college era troppo costosa per le casse di famiglia. Così iniziò ad affidarsi a due consigliere che non lo avrebbero più abbandonato: la curiosità e l'intuizione. Decise di mollare i corsi ufficiali e di seguire solo quelli che gli interessavano. Come quello di calligrafia, dove imparò tutto su scrittura, lettere e caratteri: queste conoscenze sarebbero state alla base, molti anni dopo, delle capacità tipografiche del Macintosh, il primo computer "per tutti" e non solo per smanettoni da laboratorio.

LA CURA DI MELE. Per risparmiare lasciò la camera del dormitorio e si fece ospitare da amici; iniziò a raccogliere bottiglie di Coca-Cola vuote, per restituirle ai venditori e avere in cambio cinque centesimi di cauzione; arrivò perfino a farsi 10 km a piedi per raggiungere il tempio Hare Krishna dove, la domenica, si mangiava gratis. Secondo Leander Kahney (autore della biografia non autorizzata Nella testa di Steve Jobs, Sperling & Kupfer) provò pure una dieta di sole mele, nella speranza che ciò (chissà perché) gli permettesse di non lavarsi. Non funzionò, ma forse quelle mele gli portarono fortuna...Tornato in California, Steve rispolverò la passione per l'elettronica (gliel'aveva trasmessa un vicino di casa che si divertiva a giocare con amplificatori, tv e ricetrasmittenti): iniziò a lavorare per Atari, uno dei primi produttori di videogame, poi, con il suo amico e collega Steve Wozniak, decise di mettersi in proprio e nel 1976 fondò la Apple Computer. Sede della società: il garage di casa Jobs; logo: la mitica mela morsicata che, anni dopo, sarebbe diventata un'icona dell'high-tech; capitale sociale: poco, al punto che per finanziarsi Jobs decise di vendere il suo furgone Volkswagen, mentre Wozniak fu costretto a dare via la calcolatrice scientifica per mettere insieme qualche dollaro.

LO STILE PUÒ ATTENDERE. La loro prima creazione, Apple I, era un computer formato da pochi componenti, dunque abbastanza economico. Aveva alcune caratteristiche innovative per l'epoca: innanzitutto poteva essere collegato a una tv, in più aveva un sistema di memorie (rom) che ne semplificava l'accensione, una fase critica per i computer di allora. Estetica e design, invece, sarebbero arrivati in futuro: Apple I in pratica era un semplice circuito elettronico con attorno... il nulla. Chi lo comprava, se lo sistemava come gli pareva: molti, per esempio, lo montarono in un mobiletto di legno. Ne furono venduti 200: non male come inizio. Sulla scia del primi successi, le azioni di Steve Jobs presero quota. L'azienda inziò a crescere e lui a dare un'impronta sempre più forte ai suoi prodotti. Arrivò Apple II, il primo computer fatto e finito (fin da allora Jobs sosteneva che, una volta tirato fuori dalla scatola, un computer doveva essere pronto da usare, senza parti da montare), seguito da Apple III che, con i suoi problemi di surriscaldamento, risultò un flop. Il motivo? Nel progetto non era stata prevista la ventola di raffreddamento perché Jobs, pare, la riteneva poco elegante.

L'IDEA DEL MOUSE. Nel dicembre 1979 fece un incontro importante: visitò un centro ricerche dell'azienda informatica Xerox, dove stavano studiando un sistema che avrebbe permesso di comandare i computer attraverso semplici menu a icone. Fu la svolta: è grazie a questa idea (copiata pure dai concorrenti) che Jobs e il suo team riuscirono nell'impresa di trasformare il computer in un elettrodomestico alla portata anche degli utenti meno esperti. La metamorfosi si completò nel 1984 con il lancio del Macintosh, il primo computer controllato, oltre che con la tastiera, con un nuovo e curioso apparecchio che fu ribattezzato mouse. Le quotazioni di Steve Jobs (e della stessa Apple) schizzarono alle stelle. Nel frattempo inziò una guerra di religione tra i fan della Mela e quelli che utilizzavano computer di altre marche: in azienda nacque la figura del Mac evangelista, un "tecnomistico" con la missione di convincere amici e parenti della superiorità del Macintosh. Jobs presenta il Macintosh. Per il lancio del primo computer alla portata di tutti, Apple acquista tutta la pubblicità su un numero di Newsweek. E le donne? Che ruolo hanno avuto nella vita di mr. iPod? Si dice che a vent'anni fosse fidanzato con Joan Baez, icona della musica folk americana e già compagna di Bob Dylan, uno dei suoi miti. Secondo Alan Deutschman, autore di un'altra biografia non autorizzata (I su e giù di Steve Jobs), la storia sarebbe finita perché, per Jobs, la Baez sarebbe stata troppo vecchia per avere un bambino. Un rapporto complicato, quello con la paternità: quando (nel 1978) la sua prima ragazza Chris Ann gli comunicò di essere incinta, lui non fece una piega e reagì come se la cosa non lo riguardasse. La figlia Lisa nacque così in una comune. Nel 1991, durante un rito buddhista, Jobs sposò Laurene Powell con cui avrebbe poi messo al mondo tre figli.

LICENZIATO! Nel frattempo era il rapporto con Apple ad essersi incrinato: dopo continui contrasti con l'amministratore dell'epoca, nel 1985, Jobs fu costretto a fare le valigie. Proprio lui che quella realtà l'aveva creata in garage e resa una compagnia da 2 miliardi di dollari e 4 mila dipendenti, veniva messo alla porta, perché ritenuto improduttivo e fuori controllo. «Essere licenziato da Apple» raccontò in seguito, «fu la cosa migliore che potesse capitarmi. [...] Mi liberò dagli impedimenti permettendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita». Di sicuro non se ne rese conto subito. Nei panni (di nuovo) del debuttante, Jobs fondò prima un'azienda (NeXT) con l'idea di produrre computer all'avanguardia; per 10 milioni di dollari ne rilevò un'altra, da George Lucas (il regista di Guerre Stellari), che stentava ad affermarsi nel campo della grafica computerizzata. La NeXT non decollò, vendendo appena 50 mila computer in 8 anni, mentre la Pixar (così fu ribattezzata l'altra società) si manteneva a galla a fatica (e soprattutto grazie ai 60 milioni di dollari che Jobs ci rimise di tasca sua). Ma proprio quando il fondatore della Mela stava per affondare e pure la Apple, a causa di scelte sbagliate, non se la passava tanto bene, a metà degli anni Novanta i loro destini si incrociarono: Jobs convinse i "rivali" di Apple a scegliere un rivoluzionario programma sviluppato da NeXT come base per i nuovi computer, gli iMac. Non solo: Apple acquistò la NeXT stessa e nel 1996 Steve Jobs tornò a casa da numero uno.

UN'ANIMA DIGITALE. Insomma, la fortuna era tornata a sorridergli e pure dalla Pixar gli arrivavano conferme: nel 1995 nelle sale cinematografiche americane debuttò Toy Story - il mondo dei giocattoli, il primo film realizzato completamente con sistemi di animazione digitale. Un successo incredibile, il primo di quello che sarebbe diventato ben presto il più importante studio di animazione di Hollywood. Tornato al timone della Apple, Jobs si trovò ad affrontare una profonda crisi finanziaria. Lo fece ricorrendo anche ai licenziamenti di massa. Sempre secondo una delle biografie "non allineate", sembra che Jobs bloccasse i dipendenti negli ascensori, interrogandoli sul loro ruolo in azienda. Se la risposta non gli piaceva, ai malcapitati poteva succedere di essere licenziati su due piedi. Una procedura, questa, che divenne famosa con l'espressione "essere stevizzati". Già, perché se Jobs è famoso per le sue intuizioni folgoranti, è pur vero che ha un carattere a dir poco difficile: pignolo ed egocentrico.

L'ERA DELL'IPOD. Proprio queste qualità,secondo i suoi fan, sono il segreto delle sue vittorie: in effetti dal suo ritorno il signor Apple non sbaglia un colpo o quasi. A ottobre 2001 ha presentato l'iPod, il lettore portatile di musica che è diventato oggetto di culto tra giovani e meno giovani, tra persone comuni e celebrità. Un paio di anni più tardi ecco iTunes, il negozio virtuale dove si possono comprare i dischi: le canzoni si "scaricano" (legalmente e a pagamento) dal web con il computer. Poi si copiano nell'iPod e si ascoltano... dovunque, in tram o durante il jogging. Un fenomeno planetario che Apple ha celebrato nel 2010 dopo aver tagliato il traguardo dei 10 miliardi di canzoni scaricate. Una mattina del 2004, l'imprevisto: mr. iPod scoprì di avere un tumore al pancreas. «I dottori mi dissero di mettere ordine nei miei affari» raccontò a una classe di studenti, «e questo significa prepararsi a dire ai figli in pochi mesi ciò che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Significa dire addio». Quando i medici analizzarono le cellule del suo pancreas scoprirono che si trattava di un cancro rarissimo, ma curabile con un'operazione. «Quella è stata la volta in cui sono stato più vicino alla morte e spero sia anche l'unica per qualche decennio», confessò in seguito. Scampato il pericolo, Jobs si rituffò negli affari: mentre le vendite degli iPod (di cui lanciava ogni anno nuove versioni) andavano alla grande, decise di rilanciare. Convinse i suoi che un iPod capace anche di telefonare avrebbe fatto il botto.

Protagonista suo malgrado, in una puntata dei Simpsons. Quanto ne sai dei Simpson? Scoprilo in un quiz.

RIVOLUZIONE AL TELEFONO. Nel 2007, svelò al pubblico l'iPhone: un cellulare dal design minimalista (senza tastiera, con schermo sensibile al tocco), con capacità musicali e in grado di navigare nel Web come il computer di casa. Erano veri e propri eventi di culto, quelle presentazioni: in parte per il suo linguaggio e la sua mimica, in parte per il suo look finto-casual, tutto studiato a tavolino. Fioccano pure le parodie, come quella che, in una puntata dei Simpsons del 2008 vede protagonista un tale mr. Mobs, egocentrico e irascibile padrone di un colosso dell'elettronica chiamato Mapple...Siccome ciò che pensa Jobs poi si trasforma in oro, pure l'iPhone è diventato un cult: il giorno in cui venne lanciato ne furono venduti 500 mila; l'ultimo nato in casa Apple, l'iPad, ha creato un nuovo mercato. Prima che la malattia si riaffacciasse, Jobs conduceva una vita tranquilla, da buddista e vegetariano. C'è chi giura di averlo visto qualche volta uscire dalla sua casa di Palo Alto a piedi nudi per fare la spesa in un negozio di cibi biologici. Si era dato uno stipendio di appena un dollaro all'anno, ma possedeva molte azioni Apple e poteva contare su benefit come un jet da 90 milioni di dollari. Anche se qualche mese prima della morte – resosi conto di non avere più energie per guidare l'azienda – aveva passato il testimone a Tim Cook. COME EINSTEIN. Stanco di smentire le biografie "cattive" (una di queste, iCon Steve Jobs, lo fece infuriare al punto che volle far sparire tutti i libri dell'editore dai negozi Apple) prima di morire aveva autorizzato una pubblicazione ufficiale sulla sua vita: tanto per volare basso, l'ha scritta Walter Isaacson, lo stesso autore della biografia di Einstein, che passò diversi mesi insieme a Jobs per raccogliere i suoi ricordi. Roberto Graziosi

Steve Jobs, tutti i volti di un visionario. La biografia in edicola con il «Corriere». Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 3 Ottobre 2021. A 10 anni dalla morte ripubblichiamo il volume firmato da Walter Isaacson con la prefazione di Massimo Sideri. «Ora il tema è capire la sua eredità». Secondo un antico mito, a Gordio, nel potente regno tra Lidia e Babilonia dell’VIII secolo a.C., esisteva un nodo che sarebbe stato sciolto solo dal nuovo re dell’Asia. Una versione ante litteram della spada nella roccia. Giunse Alessandro Magno, sguainò la spada e tagliò il nodo. Di fatto il grande conquistatore non rispettò le regole: il nodo andava sciolto, non reciso. Ma allo stesso tempo Alessandro divenne il dominatore dell’Asia. I miti sono crudeli, ma efficaci: ancora oggi sopravvive l’espressione «nodo gordiano», sinonimo di problema indistricabile. E questo mito si presta perfettamente a descrivere la vita di Steve Jobs a dieci anni dalla sua scomparsa: Jobs recise di netto il nodo gordiano della tecnologia — di ciò che si riteneva potesse essere fatto e di ciò che non fosse possibile fare — senza guardare in faccia a nessuno, maltrattando, giudicando e schiacciando chi, secondo lui, non era all’altezza del suo sogno (anche gli amici). E divenne re. Ma questo è ormai noto. L’agiografia non ha mai protetto il co-fondatore della Apple. Anzi: tutti conoscono i suoi lati deboli, il suo distacco emotivo dalle persone, le sue intemperanze oltre il limite del civile, come l’abitudine di occupare i parcheggi per i disabili. Oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, la domanda più interessante è non chi fosse Steve Magno, ma quale sia la sua eredità per la società moderna. Ed è questa la sorpresa maggiore che si ha rileggendo, a dieci anni dalla sua pubblicazione, la biografia scritta da Walter Isaacson intitolata semplicemente Steve Jobs: come se avesse sviluppato degli anticorpi contro l’invecchiamento, questo libro mostra di contenere già l’occhio indagatore e distaccato dello storico accanto a quello del cronista. Steve Jobs è una di quelle opere definitive, destinato a rimanere «la biografia», non una delle tante. Per chi lo ha letto è arrivato il momento di rileggerlo: resterà sorpreso. Per chi non lo ha letto è arrivato il momento di farlo: resterà soddisfatto. La storia di questa biografia e del suo autore spiegano la metamorfosi della carta stampata, quasi si trattasse di un testo digitale che ha subito modifiche, arricchimenti, nuovi link. Isaacson, un giornalista di rango che è stato caporedattore di «Time», ma anche amministratore delegato e presidente della Cnn, è partito da numerosi colloqui con molti dei protagonisti citati, tra cui lo stesso Jobs. È l’unica biografia «autorizzata», ma non nel senso di essere stata «approvata», anche se fu lo stesso Jobs, fin dal 2004, a contattare Isaacson per chiedergli di lavorarci. (Come disse Jobs a Isaacson: «Non voglio nemmeno leggerlo, questo è il suo libro».) Il progetto partì solo nel 2009. E dunque Isaacson ebbe due anni per lavorarci. Ma la qualità della biografia non si ferma a questo. Il libro è un manuale per rifuggire dal determinismo che si sviluppa negli adulti (dunque va consigliato ai ragazzi, ma ancor di più a tutti noi che vi cadiamo con l’età). Testimonia che tutto è possibile: a patto di essere la persona giusta, nel momento giusto e nel luogo giusto. È la cronaca — per certi versi irripetibile per altri personaggi che hanno fatto la storia ma che non hanno avuto un Isaacson accanto — dell’algoritmo stesso di una rivoluzione. Con lungimiranza non indugia sui miti inutili, anzi li distrugge, come quello secondo cui Jobs avrebbe scelto il logo pensando al padre dell’Intelligenza artificiale Alan Turing che si era suicidato avvelenando una mela prima di morderla: «Mi piacerebbe averlo pensato» disse Jobs a Isaacson. La verità è che le mele erano quelle delle diete radicali di Jobs e dei frutteti della comune che frequentava fin da giovane. E anche il termine Macintosh è una variante del nome delle mele McIntosh, anche se non fu pensato da Jobs ma da Jef Raskin, l’uomo che nel 1981 voleva costruire un computer che si potesse chiudere come una valigetta: al secolo il portatile. La vita di Steve Jobs sembra precedere l’era dell’illusione di sapere tutto online. Un’era in cui conservare una rivista come il «Whole Earth Catalog» o memorizzare un titolo (stay hungry, stay foolish), poteva cambiare la vita. Forse per questo, a chi ha gli anni per ricordarsene, la lettura lascia un curioso senso di malinconia per un mondo vicinissimo e lontano. Lo stesso testo oggi appare meno focalizzato sull’era Apple e più sulla cronaca giornalistica di quel momento storico irripetibile che ha cambiato non il mondo digitale, ma la nostra vita. Un piccolo mondo antico della tecnologia quando la Silicon Valley poteva ancora avere un volto umano. Può avere uno strano effetto catartico immergersi nel testo: abbiamo fatto parte di una rivoluzione culturale magari senza esserne consapevoli fino in fondo. Rileggendo la sua vita con il distacco che solo gli anni possono fornire, diventa chiaro come Jobs avesse lasciato una grande lezione con il suo famoso discorso ai laureati della Stanford University nel 2005: i puntini che ci portano a essere quello che siamo non possono essere collegati guardando davanti a noi, al futuro, ma solo rivolgendoci al passato. Nel libro sono presenti i diversi Steve Jobs che avrebbero potuto essere e che non avremmo mai conosciuto (la proiezione futura dell’hippy in viaggio per l’India, come il laureato al Reed College, un percorso che non concluse mai). Queste vite alternative compaiono e scompaiono nella lettura, lasciando il posto al Jobs che tutti conosciamo, il padre della tecnologia bianca, l’unica capace di contrapporsi al dominio del nero Sony. Jobs, dieci anni dopo, diventa la metafora della modernità tecnologica: come nel Visconte dimezzato di Italo Calvino — dove il protagonista parte per la guerra contro i turchi, viene colpito da una cannonata che ne separa la metà buona da quella cattiva, ma solo dopo il fortunoso ricongiungimento riesce a tornare una persona completa con tutte le sue contraddizioni ma anche i lati positivi —, così la metà Jobs visionaria e intelligente non avrebbe potuto realizzare nulla senza la metà Jobs isterica e crudele con chi gli stava accanto. La verità è che Jobs è stato come l’innovazione che cancella, schiaccia e rigenera in un solo atto. Una reincarnazione della creatura schumpeteriana: la distruzione-creatrice. Isaacson non dimentica l’influenza che diversi italiani hanno avuto sulla vita di Jobs. Uno per tutti è il designer e architetto Mario Bellini, che aveva disegnato il primo «personal computer», l’Olivetti P101. Jobs gli fece la corte a lungo. Come mi raccontò lo stesso Bellini sul «Corriere della Sera»: «Jobs venne a trovarmi per ben due volte. Avevo lo studio in corso Venezia e lui venne per tentare di convincermi in tutti i modi a lasciarmi portare via per disegnare i prodotti Apple». Bellini non accettò. Il Mac avrebbe potuto essere «designed in California», come si legge sotto tutti i prodotti Apple, e firmato Mario Bellini. Ma un altro italiano va ricordato, a integrare questa biografia così documentata. Il libro descrive come nel 1971 dalla Intel uscì il rivoluzionario microprocessore 4004, la prima Cpu in un unico chip. Su quel primo microchip, che cambiò anche la storia della Apple, si legge F.F.: Federico Faggin. Non facciamogli fare la fine di Antonio Meucci. Dieci anni fa, il 5 ottobre 2011, moriva a 56 anni Steve Jobs. In questa occasione il «Corriere della Sera» manda in edicola, in collaborazione con Mondadori, la celebre biografia del co-fondatore della Apple firmata da Walter Isaacson, già caporedattore di «Time», amministratore delegato e presidente della Cnn. Il volume Steve Jobs — tradotto da Paolo Canton, Laura Serra e Luca Vanni, con una nuova prefazione di Massimo Sideri, che qui presentiamo in un estratto — esce il 5 ottobre e resta in edicola per un mese al prezzo di 12,90 euro, in aggiunta al costo del quotidiano. Attraverso più di quaranta colloqui con Steve Jobs, realizzati nel corso di due anni, e più di cento interviste a famigliari, amici, rivali e colleghi, Isaacson offre un ritratto a tutto tondo. Il risultato «è un libro sulla vita segnata da alti e bassi e sulla personalità tormentosamente carismatica di un imprenditore creativo, la cui passione per la perfezione e il cui carisma feroce hanno rivoluzionato sei settori di attività: personal computer, cinema di animazione, musica, telefonia, tablet Pc e editoria elettronica», scrive Isaacson nell’introduzione al libro, uscito per la prima volta nel 2011. Nonostante abbia collaborato in prima persona alla stesura della biografia, Jobs non ha imposto alcun vincolo al testo né ha preteso di leggerlo prima della pubblicazione. «Jobs non è stato né un capo né un uomo modello; non è stato la persona ideale da emulare — continua Isaacson —. [...] La sua storia ha quindi un valore sia istruttivo sia ammonitorio, è gravida di lezioni sull’innovazione, il carattere, la leadership e i principi».

Steve Jobs e il (falso) mito "foolish". Marco Lombardo il 5 Ottobre 2021 su Il Giornale. La frase più famosa del fondatore di Apple? L'ha presa a un hippie. La frase più famosa di Steve Jobs non è di Steve Jobs. Il fatto sembra surreale, ma la cosa più incredibile è che lui lo aveva detto a tutti. Lo aveva detto nel famoso discorso all'Università di Stanford in cui ricordava appunto qualcosa che lo aveva colpito quando era giovane: «Stay hungry, stay foolish: è questo che vi auguro». Da dieci anni, da quando morì il 5 ottobre 2011, «siate affamati, siate folli» campeggia dappertutto vicino al suo volto. E funziona come grimaldello per accedere ai sogni di grandezza. In fondo l'ha detto Steve Jobs. Non è vero. O meglio non del tutto. Il Jobs prima di Jobs (che fu il punto di riferimento per il fondatore di Apple) si chiama Steward Brand, ed era un hippie. Di quelli che hanno fatto la fortuna della Silicon Valley e della tecnologia. Era il padre di tutti gli ambientalisti di oggi, e già all'università girava con al collo un cartello che recitava «cara Nasa, perché non si è ancora vista una foto della Terra tutta intera?», sospettando chissà quale complotto planetario. L'ente spaziale americano gli rispose programmando la missione sulla Luna, ma lui intanto aveva cominciato a capire che un giorno si sarebbe andati oltre: nel Cyberspazio. Brand è stato l'uomo che ha coniato il termine personal computer, ma soprattutto quello che ha creato la pubblicazione che tutti i nerd di allora consideravano una Bibbia: The Whole Earth Catalog. Il futuro creatore dell'iPhone l'aveva definita il Google prima di Google: era, nelle intenzioni del suo ideatore, un'enciclopedia di tutto quanto ci fosse sul pianeta di utile. Una specie di agglomerato globale di strumenti, idee e concetti che avrebbero cambiato il futuro. Si andava dalle semplici istruzioni per l'uso, ai mulini dell'Alaska per fare il legname, fino a prodotti sempre più strani che per Brand rappresentavano l'essenza del suo mondo. Il tutto doveva seguire solo queste regole: essere appunto di utilità, rilevante per un'educazione indipendente, di alta qualità o di costo basso, non ancora conosciuto, facilmente acquistabile via posta. Anche se poi non si capisce bene in quale norma ricadesse la guida alla masturbazione femminile. Di sicuro, insomma, Stewart era un tipo geniale e un po' strano, che aveva familiarità con l'LSD, la droga sulla quale sono poi nate le grandi intuizioni tecnologiche (per esempio: lo sapete che le finestre di Windows sono state immaginate sotto il suo effetto?). Jobs era ovviamente un appassionato del Catalog, che uscì per la prima volta nel 1968 ed ebbe l'ultima nel 1974, almeno nelle intenzioni del suo creatore. In realtà ci sono state altre edizioni, ma è in quella ultima pagina della quarta di copertina che Brand salutò così il suo pubblico: «Stay hungry, stay foolish». Frase che il capo di Apple ha fatto rinascere 31 anni dopo a Stanford. «Sapevo che per lui era importante - disse un giorno Brand -: mi mandò la sua copia del catalogo per un autografo. Non sono mai riuscito a chiedergli perché, ma forse ha trovato in quelle parole il modo di difendersi dal successo». Di sicuro, in quel toccante discorso del 2005, Steve Jobs perfezionò il suo genio nel fare business: prendere qualcosa che già esiste e renderlo immortale. Tipo poi l'iPhone, appunto.

Marco Lombardo. Caporedattore del “Giornale”, autore, moderatore, formatore e - soprattutto - dinosauro digitale. Ama lo sport e la tecnologia e si occupa di tecnologia un po' per sport. Raccontato sempre TraMe&Tech.

Marco Lombardo per “il Giornale” il 5 ottobre 2021. «Chi vorrebbe mai un pennino digitale?». Quando fecero a vedere a Steve Jobs un palmare sul quale si poteva anche scrivere, lui fece una faccia un po' schifata. Aveva in mente il suo futuro iPhone, sul quale si sarebbe fatto tutto usando le dita.  Perché mai allora progettare una cosa inutile? Se fosse ancora in vita oggi, vedrebbe tablet della sua azienda su cui si scrive e si disegna con un matitone elettronico, con una sembianza davvero significativa rispetto a quei primi computer con lo schermo touch che lui giudicava un'eresia: «Nessuno potrebbe mai volere un Pc in cui deve toccare il display». E invece... Insomma, in tutti questi anni, da quel 5 ottobre 2011, i fan della Mela hanno fatto a gara per raccontare che non sarebbe andata così, che quell'azienda che lui aveva fondato e che poi aveva portato nella Storia dopo averla ripresa in mano qualche anno dopo il suo licenziamento, con Steve in vita avrebbe fatto ancora «wow». Probabilmente, diciamolo, producendo tablet sempre più computer e matitoni digitali, che però sarebbero diventate cose di cui non potevi fare a meno. Ma non perché adesso non lo siano, ma perché te lo diceva lui. Il suo credo era proprio questo, creare un desiderio da vendere prima ancora di un oggetto che poi davvero ti cambia la vita: «Non puoi semplicemente chiedere alle persone cosa vogliono e poi provare a darglielo - affermava a chi gli chiedesse conto del miracolo Apple -. Nel tempo in cui riesci a costruirlo, loro già vorranno qualcosa di nuovo».  E quindi: chi era Steve Jobs? E cos' è davvero diventata Apple? A dieci anni dalla sua morte, prevista ma arrivata come una fucilata tramite le breaking news della Tv, la cosa di cui si continua più a discutere del fondatore è quanto al sua assenza abbia cambiato il nostro destino. Un gioco forse per nostalgici, se non fosse che è impossibile dimenticare quanto il genio non segua una linea retta. E che in tecnologia cambiare idea o vederne fallire una è praticamente un vanto: «La tecnologia è nulla: quello che è davvero importante è avere fede nelle persone». Lui ce l'aveva, soprattutto in se stesso. Non c'è prova di cosa sarebbe successo se non fosse stato rapito così presto - aveva solo 56 anni quando il tumore l'uccise -, ma a mondo di sicuro manca il suo genio. Un genio del male, sostiene qualcuno: irascibile, cattivo, egocentrico. Però poi la verità forse è che Steve era semplicemente un uomo, con i suoi pregi e i suoi difetti. Capace (dice la leggenda) di licenziare qualcuno in ascensore solo perché l'aveva salutato nel modo sbagliato, irrefrenabile (questo si sa) con le sue sfuriate nelle riunioni a cui nessuno avrebbe mai voluto partecipare. Succede dappertutto, in realtà, negli uffici del mondo, ma nessuno ha fatto la stessa rivoluzione. Non era un filantropo, faceva business, anche spregiudicato. Ma alla fine era Steve, un uomo con la sindrome della realtà distorta, che pensava che il mondo vero fosse quello nella sua testa. Non è una malattia, anzi, e la magia è stata far diventare quel mondo reale per tutti. Come quando, la sera precedente all'inaugurazione del primo Apple Store di Cupertino, fece cambiare tutti i tavoli perché non gli piacevano. «Non è possibile», gli dissero. «È possibile» rispose lui. Fu possibile. Apple segue ancora oggi quell'obbiettivo, seppur usando come chiave del successo mezzi diversi: gli iPhone, gli iPad, i Mac, ci sono ancora, ma ciò che ti fa fare «wow» è quello che c'è dentro. Quei servizi che - certo - macinano miliardi e miliardi di dollari, ma a noi permettono di avere la vita in tasca. E di poterla comandare semplicemente con un tocco di dito. Chi dice che questa non è più la Apple di Jobs, non ha capito insomma che mettere Tim Cook al suo posto è stata la sua ultima grande invenzione. Che era questo, in fondo, il suo vero segreto: andare oltre l'impossibile, perché «l'innovazione è quello che distingue un leader di follower». E oggi, forse aveva previsto anche questo, di followers in giro ce ne sono sempre troppi: anzi, sempre di più. Travestiti da leader. 

LE MIGLIORI FRASI DI STEVE JOBS. Da it.wikiquote.org il 5 ottobre 2021.

Meglio essere un pirata che arruolarsi in marina. 

Non è compito dei consumatori sapere quello che vogliono. 

Prendere l'LSD è stata un'esperienza profonda, tra le cose più importanti della mia vita. Mi ha mostrato che c'è un'altra faccia della medaglia: quando l'effetto finisce magari non ricordi più com'è esattamente, ma sai che c'è. Ha rinforzato il mio senso di cosa fosse importante – creare cose significative invece di far soldi, cercare di mettere più cose importanti possibili nel flusso della storia e della conoscenza umana. 

Semplice può essere più difficile di complesso: devi lavorare sodo per rendere le cose semplici. 

Sfortunatamente, la gente non si sta ribellando contro Microsoft. Non conoscono niente di meglio. (da Rolling Stone magazine, n. 684, 1994)

Valevo oltre un milione di dollari quando avevo 23 anni e oltre 10 milioni di dollari quando avevo 24 anni, e più di 100 milioni di dollari quando ne avevo 25. Ma sai, non era poi così importante, perché non l'ho mai fatto per soldi. Essere l'uomo più ricco al cimitero non mi interessa. Andare a letto la sera dicendosi che si è fatto qualcosa di meraviglioso, questo è quello che conta per me. (da Wall Street Journal, 1993) [Parlando di Bill Gates e della Microsoft]

[...] negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato. 

[...] la morte con tutta probabilità è la più grande invenzione della vita. [...] Spazza via il vecchio per far spazio al nuovo. 

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

E l'unico modo di fare un gran bel lavoro è amare quello che fate. Se non avete ancora trovato ciò che fa per voi, continuate a cercare, non fermatevi, come capita per le faccende di cuore, saprete di averlo trovato non appena ce l'avrete davanti. E, come le grandi storie d'amore, diventerà sempre meglio col passare degli anni. Quindi continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi. [...] Rimanete affamati. Rimanete sciocchi.

Il pensiero di Steve Jobs in 10 frasi celebri. In occasione del decimo anniversario della morte di Steve Jobs, abbiamo raccolto 10 delle sue frasi più celebri: aforismi, passaggi di interviste o di discorsi pubblici che riassumono il pensiero del co-fondatore di Apple. Andrea Nepori su La Repubblica il 5 ottobre 2021.  

“Penso che se fai qualcosa e ti viene particolarmente bene, allora devi fare qualcos’altro di fantastico, e non compiacertene troppo a lungo”. Questa frase, estrapolata da un’intervista a MsNbc del 2006, riassume bene uno dei principi che Jobs ha saputo inscrivere nel Dna di Apple e il motivo per cui l’azienda non celebra o esalta i successi del proprio passato.

"Se sei un falegname che costruisce una bella cassettiera, non userai un pezzo di compensato per il retro, anche se è rivolto verso il muro e nessuno lo vedrà. Saprai che è lì, quindi userai un bel pezzo di legno sul retro. Se vuoi dormire bene la notte, la qualità e l’estetica devono essere portate fino in fondo". Un’altra frase estrapolata da un’intervista che inquadra perfettamente il senso di Jobs per la ricerca della qualità. I prodotti di Apple non erano e non sono perfetti e devono inevitabilmente rispondere a compromessi costruttivi, ma la ricerca della qualità nel dettaglio è ancora uno dei principi fondanti dell’azienda, e la si può ritrovare in questo frammento del Jobs-pensiero. 

“Design is not just what it looks like and feels like. Design is how it works”, ovvero “Il design non è come qualcosa appare o sembra. Il design è come qualcosa funziona”. Steve Jobs parlava spesso dell’importanza, del significato e del ruolo del design: questa citazione, una delle sue più famose, è anche una delle più difficili da tradurre conservando l’efficacia linguistica dell’aforisma originale. Il senso però è chiaro anche in italiano: fare combaciare il design con l’estetica, dimenticando il ruolo fondamentale della funzione, è un errore.

“È sempre stato uno dei miei mantra: concentrazione e semplicità. La semplicità può essere più difficile della complessità: devi lavorare sodo per pensare in maniera pulita e creare qualcosa di semplice. Ma ne vale la pena, perché quando ci riesci puoi spostare le montagne”. L’ossessione di Steve Jobs per la riduzione iterativa della complessità è un altro contributo fondamentale del co-fondatore alla filosofia di design che Apple segue (più o meno) ancora oggi. 

“Non puoi chiedere ai clienti cosa vogliono e poi provare a darglielo. Da che lo realizzi, vorranno già qualcos’altro”. Questa citazione riassume la scarsa fiducia che Jobs nutriva nei focus group e nelle opinioni degli utenti. Una posizione comprensibile per un visionario come lui, ma che molti emuli nel settore tecnologico hanno spesso finito per declinare in forme più o meno disastrose di presunzione.

“Sono orgoglioso di molte cose che abbiamo fatto e di molte cose che non abbiamo fatto. Innovazione significa dire no a migliaia di cose”. Un’altra celebre citazione di Jobs che riassume uno dei principi cardine di Apple,  la cui storia industriale è costellata di prototipi che non hanno mai visto la luce.  Per dirla con il titolo di un famoso best seller di psicologia, i no che aiutano a crescere. 

“Non puoi connettere i puntini guardando in avanti: li puoi connettere soltanto guardando indietro. Devi fidarti che i puntini in qualche modo si connetteranno nel tuo futuro. Devi fidarti di qualcosa, la tua pancia, la vita, il karma, qualsiasi cosa”. Jobs non si tratteneva dal dispensare spesso consigli di natura ispirazionale: in questo aderiva a suo modo a un certo spiritualismo progressista in stile Silicon Valley che accomuna molti imprenditori e personaggi chiave della storia dell’informatica della sua generazione.

“A volte quando fai innovazione fai degli errori. È meglio ammetterli subito, e continuare a migliorare le tue altre innovazioni”. Una citazione importante sul significato dell’errore e sull’importanza di saper sbagliare: nonostante esprimesse sempre opinioni forti e giudizi tranchant, Jobs sapeva anche tornare sui suoi passi e cambiare idea. 

“We’re here to put a dent in the universe. Otherwise why else even be here?”, cioè “Siamo qui per fare un’ammaccatura all’universo. Altrimenti per quale altro motivo saremmo qui?”. Un’altra delle citazioni più note di Jobs: anche in questo caso, l’originale è linguisticamente più efficace, per via di quella metafora molto americana sull’ammaccare la carrozzeria dell’universo. 

“Stay Hungry, Stay Foolish”, cioè “Siate affamati, siate folli”. La frase forse più famosa di Steve Jobs, finita su milioni di poster e magliette nei 10 anni dalla sua scomparsa. Con un solo problema: non è sua, ma di Stewart Brand. Jobs la pronunciò nel 2005 nel passaggio finale del discorso alle matricole di Stanford, spiegando che l’aveva trovata sul retro di copertina dell’ultimo numero del “Whole Earth Catalog”, rivista cult della controcultura californiana pubblicata da Brand fra il 1968 e il 1972.

Piergiorgio Odifreddi per “La Stampa” il 18 agosto 2021. Tra le grandi svolte che hanno segnato la storia dell'umanità, alcune sono state scientifiche, altre tecnologiche, altre ancora culturali. Ma forse nessuna è riuscita a unire tutte insieme le tre caratteristiche, quanto il computer. Sicuramente molti pensano che il computer sia stato inventato da Bill Gates e da Steve Jobs negli anni '80, e non sanno che i due americani non sono stati altro che i loro venditori. Ci vuole un informatico per sapere che in realtà il computer è nato in Inghilterra, e non negli Stati Uniti, anche se sicuramente molti informatici pensano che il computer l'abbia inventato Alan Turing negli anni '30, e non sanno che quasi un secolo prima l'aveva già inventato un altro inglese, di nome Charles Babbage. Ovviamente nell'800 non c'era ancora la tecnologia del '900, e Babbage pensava a un «computer a vapore», che però aveva esattamente la stessa potenza di calcolo dei computer moderni, e la massima potenza che un qualsiasi computer potrà mai avere. Era infatti una versione di quella che viene giustamente chiamata «macchina universale», perché è in grado di effettuare tutti e soli i calcoli per i quali è possibile scrivere istruzioni in un programma del tipo di quelli che usiamo oggi. I torinesi dovrebbero però conoscere bene questa storia, perché nel 1840 Babbage venne a raccontarla all'Accademia delle Scienze. Lo racconta lui stesso nella sua autobiografia del 1862, intitolata Passaggi della vita di un filosofo, in cui ricorda di aver ricevuto da re Carlo Alberto in persona l'onorificenza di Commendatore dell'Ordine Italiano di San Maurizio e San Lazzaro per meriti scientifici. La gratitudine di esser stato apprezzato all'estero, quand'era invece misconosciuto in patria, lo spinse a dedicare il suo libro a Vittorio Emanuele II, «per un atto di giustizia nei confronti del vostro illustre padre».  L'invito a Babbage non l'aveva ovviamente fatto il re, che di queste cose non poteva saperne molto, ma l'astronomo Giovanni Plana, al quale è ancor oggi dedicata una via di Torino, che sfocia in piazza Vittorio Veneto. Babbage venne, e fece una conferenza nella quale descrisse il funzionamento della sua macchina e ne mostrò i disegni, alcuni dei quali furono dimenticati a Torino: vennero di nuovo alla luce solo qualche anno fa, dietro ad alcuni impolverati volumi dell'Accademia delle Scienza. In particolare, Babbage spiegò che i programmi della macchina venivano scritti su schede perforate, che erano un adattamento di quelle usate nei telai Jacquard per tessere tele con disegni colorati: i buchi servivano per far alzare e scendere al momento opportuno gli aghi con i fili colorati. Gli appunti della conferenza furono presi dall'ingegner Federico Menabrea, e anche a lui ancor oggi è dedicata una via di Torino, la prima parallela a corso Bramante: bei tempi, quelli, in cui le vie venivano intitolate agli scienziati, invece che ai politici! Anche se per Menabrea forse il motivo era il secondo, visto che poi fece carriera, diventando addirittura primo ministro del Regno d'Italia negli anni 60. In ogni caso, il suo Schizzo del motore analitico inventato da Charles Babbage, scritto in francese, costituì la prima descrizione tecnica di un computer, e piacque talmente al suo inventore, che egli volle che fosse tradotto in inglese. L'incarico fu assegnato alla signora Ada Lovelace, figlia del poeta Byron, che ci aggiunse di suo varie appendici, una delle quali viene considerata il primo programma informatico mai scritto nella storia. Per questo, oggi un linguaggio di programmazione si chiama ADA: un onore planetario, molto meglio della dedica di una via cittadina! Il computer di Babbage fu dimenticato, e Turing lo riscoprì dopo la nascita della moderna logica matematica: una nascita che ebbe la sua gestazione a Torino, visto che fu Giuseppe Peano (di origini cuneesi) a inventare i primi linguaggi formali e simbolici, e a farli conoscere a Bertrand Russell, che fu l'alfiere della nuova logica. Quest' ultimo, che in seguito vinse addirittura il premio Nobel per la letteratura nel 1950, racconta nella sua Autobiografia di aver incontrato Peano al Congresso Internazionale di Filosofia del 1900, e di essere stato colpito dalla precisione e dall'acutezza dei suoi interventi. Come tutti i profeti, Peano non ebbe in patria lo stesso apprezzamento. Anzi, veniva considerato un po' pazzerello, come spesso succede a chi pensa chiaramente, e dice chiaramente cosa pensa. Oggi a lui è dedicato il nome dell'Aritmetica di Peano, di cui lui stesso isolò i famosi assiomi, sperando di aver isolato tutti quelli necessari e sufficienti per dimostrare tutte le verità aritmetiche. Non era così, ma la colpa non era sua: nel 1931 Kurt Gödel dimostrò un famoso teorema, secondo cui non è possibile elencare tutti gli assiomi dell'aritmetica. La dimostrazione di Gödel conteneva non soltanto il segreto dell'informatica, come mostrò poi nel 1936 Turing, ma anche il segreto della vita, come mostrò invece nel 1948 John von Neumann, architetto del primo computer americano Edvac. Gli inglesi invece, dopo essersi lasciati sfuggire l'occasione di diventare la prima potenza informatica della storia con Babbage, se la lasciarono sfuggire di nuovo con Turing. Naturalmente ce la lasciammo sfuggire anche noi piemontesi, per ben due volte. La prima fu quando l'Olivetti costruì negli anni 50 i primi computer industriali della serie Elea, ma la trasformazione dell'azienda da meccanica a elettronica fu bruscamente interrotta da due morti: nel 1960 dell'illuminato Adriano Olivetti stesso, per malattia, e nel 1961 del visionario ingegnere cino-italiano Mario Tchou, per incidente. Su entrambe le morti aleggiarono i sospetti di un intervento dei servizi segreti americani, per favorire l'Ibm ed eliminare la concorrenza nella nascente industria informatica. L'ultima occasione Torino la perse nel 1979, come ha raccontato l'ingegner Carlo De Benedetti. Dopo aver appena aperto a Cupertino una succursale dell'Olivetti, egli visitò un garage a due isolati di distanza, dove due ragazzi squattrinati avevano aperto una startup. Gli proposero di finanziarla per pochi dollari, in cambio del 50% delle azioni, ma luì rifiutò, e perse l'occasione della sua vita: i due erano Jobs e Wozniak, e gli avevano appena offerto metà della futura Apple.

·        Il Metaverso: avatar digitale.

Che cos’è il metaverso, spiegato facile. Andrea Daniele Signorelli su La Repubblica l’8 Ottobre 2021. Lo sprawl di Los Angeles, usato spesso come sinonimo della pervasività della Rete. Facebook, Epic Games, Microsoft e il mondo legato alla blockchain scommettono tutti sull’universo digitale in cui trascorreremo gran parte delle nostre vite. Forse. In origine fu Second Life, il mondo virtuale e online dove le persone, rappresentate da un avatar digitale, potevano (e possono ancora) esplorare vari ambienti e territori, partecipare a giochi di ruolo, fare shopping nei negozi, andare in discoteca, socializzare e dedicarsi, in definitiva, a una seconda vita digitale. Creato nel 2003 da Linden Lab, società di San Francisco, Second Life ha avuto il suo apice tra il 2007 e il 2013, periodo in cui era regolarmente frequentato da oltre un milione di iscritti. Sempre in quella fase, le potenzialità di questo mondo virtuale attirarono, restando solo all’Italia, politici come Antonio Di Pietro (che tenne una conferenza sull’isola digitale da lui acquistata), cantanti (Irene Grandi e Paola e Chiara ambientarono qui alcuni video musicali), festival internazionali di cinema come Visionaria e anche editori, che inaugurarono riviste pubblicate direttamente all’interno di Second Life. Il superamento dell’effetto novità e l’esplosione dei social network (che consentivano una vita digitale meno immersiva, ma molto più semplice e immediata) causarono il declino di Second Life. Se ne parla ormai talmente poco che potreste pensare che la creazione del programmatore Philip Rosedale sia andata a popolare il cimitero di Internet assieme a MySpace, Netlog e la miriade di altri ex fenomeni della Rete. E invece, ancora oggi, Second Life è abitato da una platea di affezionati: circa mezzo milione di persone che costruiscono nuovi ambienti, personalizzano il loro look prima di passeggiare per le piazze virtuali, si perdono nell’esplorazione dei mondi, danno sfogo a feticismi che altrimenti sarebbe molto più complesso soddisfare (ma non pensate a nulla di criminale). Soprattutto, socializzano tra loro.

Le origini del metaverso

Da questo punto di vista, Second Life ha rappresentato (e ancora rappresenta) l’incarnazione più concreta di un termine che ha recentemente iniziato a circolare con insistenza: il metaverso, un mondo virtuale connesso a Internet dove la nostra persona è rappresentata in 3 dimensioni tramite un avatar digitale personalizzato. Eppure non è Second Life ad aver immaginato per primo questo ambiente digitale interattivo, che venne descritto per la prima volta da Neal Stephenson nel romanzo Snow Crash, classico del genere cyberpunk, pubblicato nel 1992. Quasi trent’anni fa, Stephenson aveva immaginato il metaverso come la naturale evoluzione di un’Internet che all’epoca aveva appena iniziato a diffondersi. Un’evoluzione che oggi, superando l’esperienza di Second Life, i colossi digitali del gaming, dei social network e della tecnologia stanno cercando di realizzare definitivamente, progettando mondi digitali all’interno dei quali vivremo però una vera e propria First Life, trasferendo qui una parte consistente della quotidianità e conservando, almeno in parte, la nostra reale identità. Se i social network hanno contribuito al declino di Second Life, oggi il multiverso promette invece di superare proprio i limiti dei social: “Se la protagonista della scorsa generazione è stata la condivisione, per la prossima generazione sarà la partecipazione”, ha spiegato Sima Sistani, fondatore di Houseparty, app di videochat, con elementi social e immersivi, acquistata da Epic Games nel 2019. Le interazioni, in questa visione, non saranno più sotto forma di like, commenti e condivisioni, ma vere e proprie esperienze condivise, vissute in una modalità il più possibile simile al mondo reale, con l’aggiunta delle potenzialità del digitale. Invece di osservare Internet tramite uno schermo, dello smartphone o del computer, vivremo direttamente al suo interno, sfruttando i visori per la realtà virtuale e utilizzando braccialetti dotati di sensori (come quelli che sta sviluppando Facebook) per interagire fisicamente con l’ambiente virtuale e gli oggetti che si trovano al suo interno. Proprio Facebook, d’altra parte, è una delle principali società che sta puntando sul metaverso del futuro, investendo in questo progetto 50 milioni di dollari nei prossimi due anni e puntando così (anche grazie alla leadership nel mondo della realtà virtuale garantita da Oculus) a superare quelli che lo stesso Zuckerberg considera i limiti dei social network.

I protagonisti del metaverso

“La maggior parte del tempo siamo impegnati a mediare le nostre vite e le nostre comunicazioni attraverso questi piccoli rettangoli luccicanti”, ha raccontato il co-fondatore di Facebook a The Verge, facendo riferimento agli smartphone: “Non penso che sia così che le persone dovrebbero interagire. In molte delle riunioni che abbiamo oggi, passiamo il tempo osservando una griglia di volti. Nel metaverso potremo fare esperienza di un senso della presenza che renderà le nostre interazioni molto più naturali e ricche”. Per smentire l’idea che il metaverso sarà circoscritto al (comunque gigantesco) mondo del gaming, uno dei primi prodotti presentati da Facebook (chiaramente pensati per essere in futuro integrati nel metaverso) è Horizon Workrooms, un software di realtà virtuale per partecipare a riunioni come se fossimo in presenza, ma senza essere fisicamente nella stessa stanza. Facebook non è però l’unica realtà a puntare sull’idea (spesso ancora vaga e variabile) di metaverso: il Ceo di Microsoft, Satya Nadella, è stato forse il primo a riferirsi alla società che guida come a una “impresa del metaverso”. In Cina è invece Tencent a puntare a un’evoluzione della sua super-app WeChat tale da renderla l’ideale controparte di Facebook nell’altra metà del mondo tecnologico. E poi ci sono le realtà del gaming, che, in maniera quasi spontanea stanno prendendo quella direzione: la Blizzard Entertainment di World of Warcraft, i Mojang Studios (acquistati nel 2014 da Microsoft) di Minecraft, per certi versi anche Nintendo con Animal Crossing. Era inevitabile, considerando come i concetti stessi alla base di questi videogame (giochi di ruolo multiplayer basati su mondi virtuali liberamente esplorabili) si sposano alla perfezione con l’idea di metaverso che si sta sviluppando. Tra tutti questi, però, l’attore che più di ogni altro sembra essere in vantaggio nella costruzione del metaverso è Epic Games, la società dietro allo straordinario successo di Fortnite, videogioco da 350 milioni di utenti registrati. Il termine “videogioco” rischia di essere riduttivo, visto che da tempo Fortnite è molto più di uno sparatutto in terza persona, ma l’ambiente in cui, per fare un esempio, la versione digitale della rapstar Travis Scott ha tenuto un concerto seguito da 12 milioni di persone tramite il loro avatar, partecipando quindi in presenza digitale all’evento (ma con le armi disattivate per evitare che qualcuno ne approfittasse per eliminare gli avversari).

È solo un esempio dell’evoluzione che sta affrontando Fortnite, che nei primi mesi del 2021 ha visto comparire nei suoi ambienti anche una Ferrari 296 Gtb, che poteva essere provata dai giocatori che incappavano in essa (dando anche un esempio di quale forma potrebbe prendere la pubblicità). C'è chi invece ha dato vita a sfilate di moda (durante le quali gli avatar hanno indossato le loro creazioni migliori sottoponendole a una giuria) e c’è il recente caso di Balenciaga, marca di streetwear di lusso che ha siglato un accordo per creare appositamente per Fortnite vestiti, armi, borse, zaini, scarpe e altro, che potranno essere acquistati anche in appositi negozi all’interno dell’ambiente digitale. Qualora le partnership commerciali non dovessero bastare, Epic ha raccolto da vari investitori un miliardo di dollari per finanziare la sua visione di lungo termine del metaverso.

Un metaverso decentralizzato

Uno dei primi problemi che le varie società dovranno affrontare riguarda l’impossibilità di creare il metaverso, al posto del quale potrebbe esserci tanti metaversi di proprietà di aziende concorrenti. Oltre alle aziende già citate, ci sono infatti i mondi virtuali di Core (Manticore Games), Roblox (dell’omonima società), Mesh di Microsoft e chissà quante startup intenzionate ad approfittare di questa grande prateria digitale ancora tutta da conquistare. Il rischio, in questo modo, è di ricreare le dinamiche chiuse dei social network, ma con un impatto ancora superiore: se oggi possiamo essere presenti su Facebook, Twitter e Instagram contemporaneamente, il metaverso che sceglieremo si integrerà a tal punto con la nostra vita quotidiana da rendere praticamente impossibile frequentarne più di uno contemporaneamente. Vorremo davvero trascorrere la nostra quotidianità in un limitato walled garden, un giardino recintato da cui sono tagliate fuori tutte le esperienze che non sono state appositamente sviluppate? È un potenziale ostacolo di cui tutti sembrano essere consapevoli. Ne ha parlato lo stesso Zuckerberg, segnalando come sarà indispensabile creare un unico metaverso all’interno del quale tutte le società che vogliono farne parte possono operare; un po’ come nessuno è proprietario del Web, ma i vari browser concorrenti sono in grado di navigare ovunque. Che cosa spingerà tutte queste aziende rivali ad accordarsi tra loro per rendere i mondi virtuali interoperabili e decentralizzati? “Penso che la forza che trasformerà il metaverso in un’unica piattaforma aperta sarà la volontà di partecipazione di tutti i marchi”, ha spiegato al Washington Post il Ceo di Epic Games, Tim Sweeney. Altri immaginano invece che, più semplicemente, sarà possibile saltare da un metaverso all’altro mantenendo lo stesso avatar. Quando si parla di decentralizzazione, però, il pensiero salta subito alla blockchain: la tecnologia alla base dei bitcoin che proprio su questo concetto basa se stessa. Se l’obiettivo è creare multiversi interoperabili anche a livello commerciale, la blockchain è probabilmente la tecnologia più adatta, perché permette, per esempio, di custodire su un registro decentralizzato le caratteristiche del nostro avatar e i nostri beni digitali (automobili, vestiti, proprietà immobiliari, opere d’arte digitali), utilizzandoli in qualunque mondo virtuale decidiamo di frequentare. Oltre alle criptovalute, in un metaverso basato su blockchain (di cui esistono già esempi come Decentraland e The Sandbox) potrebbero trovare spazio anche gli ormai noti Nft: il certificato salvato su blockchain che attesta la proprietà di un’opera digitale unica. Grazie a questa applicazione del registro distribuito sarà possibile trasportare nel mondo virtuale le opere digitali certificate che abbiamo acquistato e dare vita, per esempio, a una galleria d’arte. Sempre grazie agli Nft sarà possibile acquistare capi unici o avatar rarissimi e impossibili da contraffare, creando un mercato dalle enormi potenzialità. Per avere un’idea, basti pensare che nel solo mese di settembre 2021 il mercato dell’arte basato sugli Nft ha avuto un giro d’affari superiore ai 700 milioni di dollari e che la compravendita di skin (gli elementi con cui si possono caratterizzare gli avatar che ci impersonano nei mondi virtuali) vale circa 40 miliardi di dollari l’anno (su un totale di 170 miliardi del mercato dei videogiochi).

I limiti del metaverso

Ma se le potenzialità di questo mondo virtuale sono tali da attirare tutti i più grandi colossi di internet e del gaming, non sono da poco nemmeno gli ostacoli che queste stesse realtà dovranno superare per convincerci a trascorrere una parte crescente del tempo in un ambiente in realtà virtuale, rendendo la nostra vita sempre più simile a quella di Ready Player One, romanzo del 2011 (trasformato poi in film da Steven Spielberg) dove i protagonisti trascorrono le giornate in un mondo virtuale noto come Oasis per sfuggire a una realtà fatta di povertà e squallore. E noi per quale motivo dovremmo trasferire parte della vita in un mondo digitale immersivo, in cui partecipiamo a riunioni, giochiamo, socializziamo, andiamo a concerti, visitiamo negozi e quant’altro, ma sempre chiusi in casa con indosso un elmetto per la realtà virtuale? Fatta eccezione per gli scenari peggiori e che tutti speriamo di evitare (ulteriori lockdown causati dalla pandemia o un mondo reso invivibile dalla crisi climatica), è difficile immaginare che il metaverso possa davvero prendere piede in questa versione radicale, tanto che lo stesso Zuckerberg (sempre nell’intervista concessa a Casey Newton) si è premurato di specificare come la sua concezione di metaverso non si svilupperà interamente in realtà virtuale, ma sarà accessibile anche da computer, console e smartphone, rendendolo un ambiente di cui si può fare esperienza anche senza immergersi al suo interno. Tutto questo, pur ammettendo che la realtà virtuale “giocherà un ruolo di primo piano”. E se invece il metaverso fosse destinato a rimanere un ambiente dedicato al gaming e a pochi grandi eventi, e avessero ragione le società (tra cui anche la stessa Facebook) che stanno puntando sulla realtà aumentata? In questo caso, non vivremmo immersi in un ambiente digitale: sarà invece il mondo fisico a popolarsi di elementi digitali personalizzati, con cui potremo interagire tramite visori dalle dimensioni sempre più simili a un normale paio di occhiali, e quindi utilizzabili senza difficoltà lungo tutto l’arco della giornata. Sono due visioni del futuro per molti versi opposte e che potrebbero quindi escludersi a vicenda. La maggiore adattabilità al mondo fisico potrebbe forse favorire la realtà aumentata, ma è ancora troppo presto per azzardare previsioni. Al momento, i dispositivi in realtà virtuale venduti nel mondo intero (esclusi quelli basilari da utilizzare con lo smartphone) ammontano a poco più di 16 milioni. Sebbene si preveda il raddoppio di questa cifra nei prossimi 3 anni, il mondo della realtà virtuale sembra destinato a restare la passione di una piccola nicchia, la cui definitiva esplosione è sempre prevista, ma non ancora in vista. Ancora più indietro è il mercato della realtà aumentata, che finora ha registrato prima il flop dei Google Glass (rilanciati in seguito come strumento professionale) e poi quello, più recente, di Magic Leap e del suo ingombrante visore. Nonostante i fallimenti, colossi del calibro di Facebook, Apple, Amazon e Snapchat continuano a scommettere su questo mercato e stanno anche iniziando a introdurre i primi esempi di occhiali smart, le cui funzionalità non faranno che aumentare col tempo. Le previsioni, di conseguenza, sono ottimistiche: secondo alcune ricerche, il mercato complessivo di realtà aumentata e virtuale decuplicherà da qui al 2024, raggiungendo quota 300 miliardi di dollari. Il metaverso, quindi, è al momento un’idea che possiamo già osservare in stadio embrionale grazie ai mondi virtuali di Fornite e gli altri, ma che per svilupparsi davvero deve prima affrontare numerose incognite, ostacoli e visioni concorrenti. L’unica certezza è che la futura incarnazione di Internet, che ci farà superare il Web 2.0 basato sui social network, sarà caratterizzata da interazioni sempre più complesse con l’ambiente digitale e con le persone che lo popolano. E forse farà diventare realtà quanto immaginato da Neal Stephenson quasi 30 anni fa.

·        WWW: navighi tu! Internet e Web. Browser e Motore di Ricerca.

World Wide Web. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Il World Wide Web (termine in lingua inglese traducibile in italiano come "rete di ampiezza mondiale", o "rete mondiale", dove "rete" viene richiamato da Web - "tela", l'intreccio composto da ordito e trama), abbreviato Web, sigla WWW o W3, è uno dei principali servizi di Internet, che permette di navigare e usufruire di un insieme molto vasto di contenuti amatoriali e professionali (multimediali e non) collegati tra loro attraverso collegamenti (link), e di ulteriori servizi accessibili a tutti o ad una parte selezionata degli utenti di Internet; questa facile reperibilità di informazioni è resa possibile, oltre che dai protocolli di rete, anche dalla presenza, diffusione, facilità d'uso ed efficienza dei motori di ricerca e dei web browser in un modello di architettura di rete definito client-server.

Storia. L'ideazione e la nascita. La prima proposta di un sistema ipertestuale si può far risalire agli studi di Vannevar Bush, poi pubblicati nell'articolo As We May Think (in italiano "Come potremmo pensare") del 1945. Il concetto di ipertesto fu introdotto nel 1965 da Ted Nelson. La data di nascita del World Wide Web viene comunemente indicata nel 6 agosto 1991, giorno in cui l'informatico inglese Tim Berners-Lee pubblicò il primo sito web. Occorsero 17 giorni perché la pagina venisse visitata: il primo utente esterno al centro di ricerca la raggiunse il 23 agosto successivo. L'idea del World Wide Web era nata due anni prima, nel 1989, presso il CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire) di Ginevra, il più importante laboratorio di fisica europeo. Il ricercatore inglese fu colpito da come alcuni colleghi italiani usavano trasmettere informazioni tramite linea telefonica da un piano all'altro dell'istituto visualizzando informazioni tramite video. Il 12 marzo 1989 Tim Berners-Lee presentò infatti al proprio supervisore il documento Information Management: a Proposal, una cui copia è esposta presso il CERN, che fu valutato «vago ma interessante». Alla sua base vi era il progetto dello stesso Berners-Lee e di un suo collega, il belga Robert Cailliau, volto ad elaborare un software per la condivisione di documentazione scientifica in formato elettronico indipendentemente dalla piattaforma informatica utilizzata, con il fine di migliorare la comunicazione, e quindi la cooperazione, tra i ricercatori dell'istituto. A lato della creazione del software iniziò anche la definizione di standard e protocolli per scambiare documenti su reti di calcolatori: il linguaggio HTML e il protocollo di rete HTTP. Nel mese di dicembre 1990 furono completate le prime versioni dei software per il server. Berners-Lee realizzò anche il primo browser. Il giorno 20 apparve il primo sito, che descriveva lo stesso progetto WWW[4]. Il sito era visibile solo ai dipendenti e collaboratori del CERN. A partire dal 6 agosto 1991, invece, Berners-Lee cominciò ad annunciare pubblicamente su diversi newsgroup l'esistenza del progetto WWW e la disponibilità del software. Occorsero 17 giorni perché la pagina venisse visitata: il primo utente esterno al centro di ricerca la raggiunse il 23 agosto successivo. Dopo due anni in cui era stato usato solo dalla comunità scientifica, il 30 aprile 1993 il CERN decise di mettere il WWW a disposizione di tutti rilasciandone il codice sorgente in pubblico dominio. Negli anni successivi la nuova tecnologia conobbe un veloce e ampio successo, in virtù della possibilità offerta a chiunque di creare pagine web, dell'efficienza del servizio e, non ultima, della sua semplicità. Con il successo del Web ha inizio la notevole crescita e diffusione di Internet degli anni 2000-2010, nonché la cosiddetta "era del Web". Il primo sito web italiano messo on line fu quello del «Centro di ricerca, sviluppo e studi superiori in Sardegna» (CRS4). Il sito, crs4.it, fu pubblicato nella primavera del 1993 ed è tuttora online (ovviamente nella versione storica).

Dal Web statico ai Web service. Schema di funzionamento di un sito web dinamico. Gli standard e i protocolli che facevano funzionare il Web supportavano inizialmente la sola gestione di pagine HTML "statiche", vale a dire file ipertestuali (preparati precedentemente) visualizzabili e, soprattutto, navigabili utilizzando opportune applicazioni (browser web). Per superare le limitazioni del progetto iniziale, furono subito definiti strumenti capaci di generare pagine HTML dinamiche (ad es. utilizzando dati estratti da un database). La prima soluzione di questo tipo furono le CGI (Common Gateway Interface). Attraverso una CGI è possibile richiedere ad un web server di invocare un'applicazione esterna e presentare il risultato come una qualsiasi pagina HTML. Questa soluzione, sebbene molto semplice da realizzare, presenta numerose limitazioni di progetto (l'applicativo esterno viene eseguito ad ogni richiesta utente e non è prevista alcuna ottimizzazione, non vi è alcuna gestione dello stato della sessione). Per dare al web una maggiore interattività e dinamicità sono state perseguite due strade. Da un lato sono state aumentate le funzionalità dei browser attraverso un'evoluzione del linguaggio HTML e la possibilità d'interpretazione di linguaggi di scripting (come il JavaScript). Dall'altro, si è migliorata la qualità di elaborazione dei server attraverso una nuova generazione di linguaggi integrati con il web server (come JSP, PHP, ASP, etc.), trasformando pertanto i web server negli attuali application server. La diffusione di queste soluzioni ha consentito di avviare l'utilizzo del web come piattaforma applicativa che oggi trova la sua massima espressione nei Web service, alla cui realizzazione e diffusione sta lavorando l'intera industria mondiale del software per la gestione d'azienda, dai grandi nomi commerciali (come SAP e Oracle) fino alle comunità Open Source. L'utilizzo dei web-service all'interno dell'architettura di integrazione SOA permetterà anche alle piccole imprese di gestire senza grandi sforzi i propri processi aziendali. Scopo dei Web service è di limitare il più possibile le attività di implementazione, consentendo di accedere a servizi software resi disponibili in rete, assemblarli secondo le proprie necessità e pagarli soltanto per il loro utilizzo effettivo, metodologia individuata nella terminologia anglosassone come pay per use, on demand software, just in time software, on tap software, etc. I web-service e il loro successo hanno quindi un legame strutturale e intrinseco con i processi aziendali che dovranno supportare nell'ambito di una nuova organizzazione basata sui processi.

Dal web statico al web semantico. HTML 5. Nonostante tutte queste evoluzioni, il web rimane, ancora e soprattutto, una gigantesca biblioteca di pagine HTML statiche on-line. Però, se da un lato lo standard HTML con la sua semplicità ha contribuito all'affermazione del web, dall'altro ha la grossa limitazione di occuparsi solo della formattazione dei documenti, tralasciando la struttura e il significato del contenuto. Questo pone notevoli difficoltà nel reperimento e riutilizzo delle informazioni. Per rendersi conto di questo è sufficiente eseguire una ricerca utilizzando uno dei molti motori disponibili in rete e ci si accorgerà che, delle migliaia di documenti risultanti dalla query, spesso solo una piccola percentuale è d'interesse per la ricerca che s'intendeva fare. Ad esempio, per un qualsiasi motore di ricerca, non esiste alcuna differenza fra il termine Rossi nel contesto Il Sig. Rossi ed il termine rossi nel contesto capelli rossi, rendendo la ricerca molto difficile. La risposta a questo problema è venuta, ancora una volta, dal fisico inglese Tim Berners-Lee, che, abbandonato il CERN, ha fondato il consorzio W3C che ha assunto il ruolo di governo nello sviluppo di standard e protocolli legati al web. Egli nel 1998 ha definito lo standard XML (eXtensible Markup Language), un metalinguaggio derivante dall'SGML, che consente la creazione di nuovi linguaggi di marcatura (ad es. lo stesso HTML è stato ridefinito in XML come XHTML). Sua caratteristica innovativa è la possibilità di aggiungere informazioni semantiche sui contenuti attraverso la definizione di opportuni tag. I principali obiettivi di XML, dichiarati nella prima specifica ufficiale (ottobre 1998), sono pochi ed espliciti: utilizzo del linguaggio su Internet, facilità di creazione dei documenti, supporto di più applicazioni, chiarezza e comprensibilità. Con queste semplici caratteristiche l'XML fornisce un modo comune di rappresentare i dati, cosicché i programmi software siano in grado di eseguire meglio ricerche, visualizzare e manipolare informazioni nascoste nell'oscurità contestuale. È per questo che, nonostante la sua giovane età, l'XML è alla base di tutte le nuove specifiche tecnologiche distribuite dal W3C ed è stato adottato come standard di rappresentazione dati da tutta l'industria informatica (dai file di configurazione delle applicazioni alla definizione di formati di interscambio dei dati). Le specifiche XML hanno però una lacuna molto importante: non definiscono alcun meccanismo univoco e condiviso per specificare relazioni tra informazioni espresse sul web per una loro elaborazione automatica (ad es. più documenti che parlano dello stesso argomento, persona, organizzazione, oggetto), rendendo molto difficile la condivisione delle informazioni. Anche in questo caso la soluzione al problema è venuta dal W3C di Berners-Lee, attraverso la formalizzazione del web semantico. Il W3C considera l'ideale evoluzione del web dal machine-representable al machine-understandable. L'idea è di generare documenti che possano non solo essere letti e apprezzati da esseri umani, ma anche accessibili e interpretabili da agenti automatici per la ricerca di contenuti. A tale scopo sono stati definiti alcuni linguaggi, quali Resource Description Framework (RDF) e Web Ontology Language (OWL), entrambi basati su XML, che consentono di esprimere le relazioni tra le informazioni rifacendosi alla logica dei predicati mutuata dall'intelligenza artificiale. Questi standard sono già disponibili, ma continuano ad essere ulteriormente sviluppati insieme a formalismi e strumenti per dotare il web di capacità di inferenza. Quello appena esposto è un processo solo apparentemente tecnico, ma ben visibile nella sua portata, che ha come obiettivo l'approdo all'intelligenza condivisa del web che promette, a breve, l'uso più efficiente dei siti internet e, a più lungo termine, un'autentica trasformazione nella natura del software e dei servizi. Tanto interesse per queste tecnologie è da ravvisare nel fatto che tutti (utenti, produttori di software e di servizi piccoli e grandi) hanno da avvantaggiarsi dalla diffusione piena di questi standard[senza fonte]. La formazione nel corpo del web di una vasta rete "semantica" è, infatti, la condizione chiave per il decollo di un nuovo modo di intendere ed usare il web.

Descrizione[modifica. Caratteristica principale della rete Web è che i nodi che la compongono sono tra loro collegati tramite i cosiddetti link (collegamenti ipertestuali), formando un enorme ipertesto, e i suoi servizi possono essere resi disponibili dagli stessi utenti di Internet. Per quanto riguarda i contenuti, quindi, il Web possiede la straordinaria peculiarità di offrire a chiunque la possibilità di diventare editore e, con una spesa esigua, di raggiungere un pubblico potenzialmente vastissimo distribuito in tutto il mondo: gli utenti di Internet nel 2008 hanno superato il miliardo e cinquecento milioni, quasi un quarto della popolazione mondiale. Il Web è stato inizialmente implementato da Tim Berners-Lee mentre era ricercatore al CERN, sulla base di sue idee e di un suo collega, Robert Cailliau, e gli standard su cui è basato, in continua evoluzione, sono mantenuti dal World Wide Web Consortium. Il Web è uno spazio elettronico e digitale di Internet destinato alla pubblicazione di contenuti multimediali (testi, immagini, audio, video, ipertesti, ipermedia, ecc.) nonché uno strumento per implementare particolari servizi come ad esempio il download di software (programmi, dati, applicazioni, videogiochi, ecc.). Tale spazio elettronico e tali servizi sono resi disponibili attraverso particolari computer di Internet chiamati server web. Chiunque disponga di un computer, di un accesso ad Internet, degli opportuni programmi e del cosiddetto spazio web, porzione di memoria di un server web destinata alla memorizzazione di contenuti web e all'implementazione di servizi web, può, nel rispetto delle leggi vigenti nel Paese in cui risiede il server, pubblicare contenuti multimediali od offrire particolari servizi. I contenuti del Web sono infatti costantemente on-line, quindi costantemente fruibili da chiunque disponga di un computer, di un accesso a Internet, e degli opportuni programmi di "navigazione", in particolare del cosiddetto browser web, che consente, appunto, di fruire dei contenuti e dei servizi pubblicati sul Web. I più popolari Internet service provider offrono la possibilità di pubblicare sul Web contenuti non troppo complessi senza la necessità di conoscere il linguaggio di markup del Web. Lo stesso vale anche per i blog: molti sono infatti i siti web che offrono gratuitamente la possibilità di creare un blog in modo semplice e immediato senza la necessità di avere particolari conoscenze tecniche. In caso invece di contenuti più complessi è necessario dotarsi anche di un editor web WYSIWYG se si vuole evitare, o almeno semplificare, l'apprendimento del linguaggio di markup del Web. Non tutti i contenuti e i servizi del Web sono però disponibili a chiunque, in quanto il proprietario dello spazio web, o chi ne ha delega di utilizzo, può renderli disponibili solo a determinati utenti, gratuitamente o a pagamento, utilizzando il sistema degli account.

Contenuti e l'organizzazione. I contenuti principali del Web sono costituiti da testo e grafica, il cui formato è codificati da un insieme ristretto di standard definito dal W3C. Tali contenuti sono quelli che tutti i browser web devono essere in grado di interpretare e rappresentare autonomamente, cioè senza software aggiuntivo. I contenuti pubblicati sul Web possono essere però di qualunque tipo e in qualunque standard. Alcuni di questi contenuti sono pubblicati per essere fruiti attraverso il browser web e, non essendo in uno degli standard appartenenti all'insieme definito dal W3C, il browser web deve essere esteso nelle sue funzionalità al fine di poterli rappresentare. A tale scopo, il browser deve essere provvisto di opportuni plug-in, cioè estensioni del software base che ne aumentano le funzionalità, e che sono normalmente disponibili nel web. I contenuti che non sono direttamente fruibili dal browser web, devono essere utilizzati con programmi esterni al browser stesso. Ad esempio si può trattare di un file eseguibile per il sistema operativo che si sta utilizzando, o di un foglio elettronico in formato Microsoft Excel. I contenuti del Web sono organizzati nei siti web a loro volta strutturati nelle pagine web le quali si presentano come composizioni di testo e/o grafica visualizzate sullo schermo del computer dal browser web. Le pagine web, anche appartenenti a siti diversi, sono collegate fra loro in modo non sequenziale attraverso i link (anche chiamati collegamenti), parti di testo e/o grafica di una pagina web che permettono di accedere ad un'altra pagina web, di scaricare particolari contenuti, o di accedere a particolari funzionalità, cliccandoci sopra con il mouse, creando così un ipertesto. Tutti i sito web sono identificati dal indirizzo web, una sequenza di caratteri univoca chiamata in termini tecnici URL che ne permette la rintracciabilità nel Web. Non è previsto un indice aggiornato in tempo reale dei contenuti del Web, quindi nel corso degli anni sono nati ed hanno riscosso notevole successo i cosiddetti motori di ricerca, siti web da cui è possibile ricercare contenuti nel Web in modo automatico sulla base di parole chiave inserite dall'utente, e i cosiddetti portali web, siti web da cui è possibile accedere ad ampie quantità di contenuti del Web selezionati dai redattori del portale web attraverso l'utilizzo di motori di ricerca o su segnalazione dei redattori dei siti web.

I servizi. Di seguito quindi sono elencati solo quelli contraddistinti da una denominazione generica:

download: la distribuzione di software;

web mail: la gestione della casella di posta elettronica attraverso il Web;

web chat: la comunicazione testuale in tempo reale tra più utenti di Internet, tramite applicazioni di instant messaging;

streaming: la distribuzione di audio/video in tempo reale;

web radio: la radio fruita attraverso il Web;

web TV: la televisione fruita attraverso il Web;

Implementazione. L'accesso alla navigazione in rete sul Web. Il Web è implementato attraverso un insieme di standard, i principali dei quali sono i seguenti:

HTML (e suoi derivati): il linguaggio di markup con cui sono scritte e descritte le pagine web;

HTTP: il protocollo di rete appartenente al livello di applicazione del modello ISO/OSI su cui è basato il Web;

URL: lo schema di identificazione, e quindi di rintracciabilità, dei contenuti e dei servizi del Web.

La peculiarità dei contenuti del Web è quella di non essere memorizzati su un unico computer ma di essere distribuiti su più computer, caratteristica da cui discende efficienza in quanto non vincolati ad una particolare localizzazione fisica. Tale peculiarità è realizzata dal protocollo di rete HTTP il quale permette di vedere i contenuti del Web come un unico insieme di contenuti anche se fisicamente risiedono su una moltitudine di computer di Internet sparsi per il pianeta.

Funzionamento. La visione di una pagina web inizia digitandone l'URL nell'apposito campo del browser web oppure cliccando su un collegamento ipertestuale presente in una pagina web precedentemente visualizzata o in altra risorsa come ad esempio un'e-mail. Il browser web a quel punto dietro le quinte inizia una serie di messaggi di comunicazione con il web server che ospita quella pagina con lo scopo di visualizzarla sul terminale utente. Per prima cosa la porzione di server-name dell'URL è risolta in un indirizzo IP usando il database globale e distribuito conosciuto come Domain Name System (in sigla DNS). Questo indirizzo IP è necessario per inviare e ricevere pacchetti dal server web. A questo punto il browser richiede le informazioni inviando una richiesta a quell'indirizzo. In caso di una tipica pagina web, il testo HTML di una pagina è richiesto per primo ed immediatamente interpretato dal browser web che, successivamente, richiede eventuali immagini o file che serviranno per formare la pagina definitiva. Una volta ricevuti i file richiesti dal web server, il browser formatta la pagina sullo schermo seguendo le specifiche HTML, CSS, o di altri linguaggi web. Ogni immagine e le altre risorse sono incorporate per produrre la pagina web che l'utente vedrà.

Internet e Web.

La differenza tra internet e web di Andrea Minini. Spesso si parla di internet e web come se fossero la stessa cosa. In realtà, non è così. C'è una differenza notevole tra i due concetti.

1. La rete internet è l'infrastruttura tecnologica dove viaggiano i dati. Può essere immaginata come una specie di ferrovia digitale, con i propri binari ( canali ), stazioni ( server ) e regole ( protocolli ).

2. Il web è uno dei servizi internet che permette il trasferimento e la visualizzazione dei dati, sotto forma di ipertesto. Tutto ciò che normalmente vediamo sul nostro browser. Oltre al web esistono altri servizi internet come la posta elettronica, i newsgroups, i trasferimenti FTP, ecc.

Esempio. Quando visualizzo una pagina web sul browser sto utilizzando il Web. Quando scarico la posta elettronica sul mio computer, invece, non utilizzo il web. In entrambi i casi uso la rete internet per trasferire i dati ma i protocolli sono differenti.

Il web e internet hanno anche storie differenti. Sono nati in epoche diverse. Per conoscere tutte le differenze occorre rispolverare un po' di storia.

La nascita di internet. La rete internet nacque all'inizio degli anni '70. In origine si chiamava Arpanet ed era un progetto militare per mettere in comunicazione gli elaboratori elettronici degli enti governativi e militari. Successivamente, nel corso degli anni '80, la rete Internet uscì dagli ambiti militari e iniziò a essere utilizzata nelle università. Alla rete Internet si collegarono altre reti locali anche al di fuori del territorio americano. Per questa ragioni internet è anche conosciuta come Rete delle reti. In questi anni nacquero e si diffusero alcuni protocolli come quelli per gestire la posta elettronica ( email ) e i newsgroup. Per leggere le informazioni su un server o per scaricare un file si utilizzava la riga comandi e alcuni software di visualizzazione testuale come Telnet.

La nascita del web. Il web nacque nel 1991, circa venti anni dopo la nascita della rete Internet. Il termine Web è l'abbreviazione di World Wide Web ( WWW ). Si tratta di un sistema di comunicazione basato sul protocollo di comunicazione HTTP ( Hyper Text Transfer Protocol ) che consente agli utenti di navigare in modo ipertestuale tra i contenuti presenti sulla rete internet. Scompare la riga comandi. Per spostarsi da una pagina all'altra gli utenti possono cliccare sui collegamenti ipertestuali tramite un apposito software client detto browser.

Esempio. Se Internet fosse visto come una rete ferroviaria, il web dovrebbe essere immaginato come un treno moderno, comodo e ad alta velocità.

In conclusione Per riassumere il web non è internet ma soltanto uno dei servizi che lo compongono, al pari della posta elettronica o del trasferimento file via FTP. Il termine Web è spesso associato erroneamente a Internet, talvolta usato come sinonimo, soltanto perché è uno dei servizi più utilizzati dagli utenti. 

Browser e Motore di Ricerca.

Da leggimigratis.it.

Il browser è un programma client con un’interfaccia grafica che serve a connettersi al WorldWideWeb consentendo di richiedere e visualizzare i contenuti forniti da un server attraverso la digitazione di un indirizzo web logico detto URL.

Il primo browser della storia si chiamava WorldWideWeb e venne creato da Tim Berner- Lee. I più celebri sono Microsoft Explorer, Firefox, e Chrome, che ora è il browser più usato.

Il motore di ricerca è un servizio offerto da diverse aziende sul web che si occupa di indicizzare quante più pagine web possibili, di categorizzarle e di organizzarle per renderle disponibili agli utenti che fanno una ricerca. Il primo motore di ricerca mai esistito e riconosciuto è stato Yahoo!, nato nel 1994 da due studenti (Yang e Filo). Oggi il motore di ricerca più usato in assoluto è Google.

DIFFERENZA TRA BROWSER E MOTORE DI RICERCA. Da digitalzero.it il 9 febbraio 2016. Quante volte, almeno agli inizi, è capitato anche a noi di fare confusione tra nuove terminologie informatiche! D’altronde, è anche vero che negli ultimi anni siamo stati letteralmente inondati da fiumi di nuovi vocaboli tecnologici, per cui tenere il passo non è sempre facile, e a volte può capitare di sbagliarsi, ma è più che normale. Due termini di una certa importanza sui quali, a volte, capita di inciampare sono Browser e Motore di ricerca. Cerchiamo di vedere in modo semplice e chiaro i rispettivi significati e di capire, così, la differenza tra i due concetti. La parola Browser indica, semplicemente, un programma (installato su un qualsiasi computer) che consente di accedere agli infiniti siti e pagine web che si trovano su Internet, praticamente quello che avete aperto voi per visualizzare questo post. Quando si clicca sull’icona di un browser, si apre una schermata dove, nella parte superiore, appare un rettangolo orizzontale in forma di striscia stretta e allungata: questo rettangolo si chiama "barra degli indirizzi url". Quando si apre il browser di Google Chrome, ad esempio, sulla barra degli indirizzi si nota, all’estremità sinistra, l’immagine di un piccolo lucchetto che stà a significare una connessione codificata e sicura tra voi ed il server di Google, a seguire il prefisso sempre uguale dell’indirizzo costituito da due punti, doppia barra obliqua (doppio slash), e l’indirizzo vero e proprio di Google Italia (google.it). Andando con il cursore del mouse sulla barra degli indirizzi e premendo una volta il tasto sinistro, si ottiene il risultato di evidenziare in azzurro tutti questi caratteri, compreso l’indirizzo di Google. Ora la barra è pronta per essere utilizzata: basta digitare l’indirizzo Internet del sito che ci interessa visitare, premere enter e in un istante il browser ci mostrerà le pagine desiderate. Il browser, quindi, si può definire anche come un interfaccia, una pagina che svolge il ruolo di ‘intermediario’ tra noi e  un determinato sito web che vogliamo visitare, e al quale possiamo avere accesso solo ed esclusivamente digitandone il corretto indirizzo Internet sulla barra degli indirizzi del browser che stiamo utilizzando. Quindi, in definitiva, un browser è uno strumento che ci consente di interagire con Internet e di visualizzare e perciò fruire di tutti i suoi contenuti, ovvero: testi, immagini e filmati. I browser di oggi comprendono funzionalità sconosciute a quelli di ieri: ad esempio, grazie ai feed rss, consentono di ricevere in automatico aggiornamenti da specifici siti web scelti dall’utente. Inoltre permettono di visualizzare filmati e ascoltare files audio senza prima eseguire il download, oppure rendono la navigazione più tranquilla e sicura grazie ad appositi programmi che avvisano chi sta accedendo a siti potenzialmente a rischio. Esistono anche browser che comprendono servizi di posta elettronica o di scambio files. Tra i browser più noti e universalmente usati bisogna citarne almeno tre: Google Chrome, Windows Explorer o Edge da W10 e Firefox. Ma naturalmente ne esistono molti altri, di norma gratuiti e costantemente aggiornati. Passiamo ora alla seconda domanda: che cos’è un motore di ricerca? Si può rispondere che anche un motore di ricerca (come un browser) è un software ovvero un programma che però, a differenza del browser, non serve per entrare in siti web di cui si possiede l’indirizzo preciso, ma viene comunemente utilizzato per cercare parole o intere frasi su Internet, ovvero sulla rete web mondiale. Similmente al browser, il motore di ricerca viene visualizzato tramite una pagina dotata di un astriscia rettangolare allungata (la ‘barra della ricerca’), entro la quale l’utente digita il termine o la frase sui quali desidera ricevere informazioni. Una volta inseriti i termini-chiave della propria indagine e premuto il tasto enter, il motore  fornisce un elenco di risultati (a volte centinaia di migliaia o milioni!) contenenti la parola o frase inserita. Certamente oggi il motore di ricerca più usato è Google, ma ve ne sono molti altri come ad esempio Yahoo, Bing,  Baidu, Yandex, ecc. Sarà utile specificare, infine, che ormai  la funzione di reperimento di informazioni è svolta, oltre che dai normali motori di ricerca,  anche dalla barra degli indirizzi di un normale browser.

Roberto Cocciolo per punto-informatico.it il 12 luglio 2021. Google Chrome è indubbiamente il Browser Web più utilizzato al mondo e per questo motivo l'azienda di Mountain View introduce di volta in volta tantissime impostazioni diverse. In questo modo, tutti gli utenti potranno in qualche modo personalizzare la loro esperienza, rendendone l'utilizzo ancora più fluido e funzionale. In questa guida andremo quindi a consigliare alcune impostazioni di Google Chrome da considerare prima di altre, in quanto abbastanza determinanti per quanto riguarda l'utilizzo quotidiano della piattaforma.

Pannello impostazioni di Chrome. Tutte le impostazioni che vedremo saranno incluse all'interno di un solo pannello, con il quale Chrome potrà tranquillamente essere perfezionato. Per questo motivo, vi invitiamo a raggiungerlo immediatamente, poiché tutta la guida si baserà su questo elenco di opzioni. Per farlo, non servirà altro che cliccare sull'icona con tre puntini in alto a destra e subito dopo continuare con “Impostazioni”. A questo punto si avvierà una nuova schermata ricca di possibilità, con la quale chiunque potrà interagire. Ora, vediamo quelle che, secondo la nostra opinione, andranno immediatamente modificate.

Disattivare le notifiche dei siti. Ogni volta che si visita un sito Web capace di offrire delle notifiche, appare un pop-up di richiesta per consentire proprio i suddetti avvisi da parte del sito, chi non apprezzasse tale servizio può farne a meno entrando nelle impostazioni già raggiunte nel precedente paragrafo, dove sarà possibile disattivare qualsiasi richiesta di questo tipo, da tutti i siti che la offrono. Tutto ciò che servirà fare sarà premere sulla voce “Privacy e sicurezza”, continuare con “Impostazioni sito”, poi con “Notifiche” e infine scegliere l'opzione preferita: consentire o bloccare tutte le notifiche da tutti i siti che le supportano, bloccare solo un sito cliccando su “Aggiungi” accanto a “Blocca” in alto e digitando l'URL del sito interessato, consentire solo un sito cliccando su “Consenti” e digitando l'URL del sito interessato, oppure consentire solo i messaggi più discreti in modo da non avere avvisi a cascata.

Evita il blocco degli annunci. Google Chrome dispone di serie di una funzione capace di bloccare determinati annunci che non rispettano alcune linee guida imposte dalla stessa azienda. Tuttavia, in determinati casi, tale blocco potrebbe rendere meno fluida e godibile l'esperienza di navigazione e lasciare che il browser controlli gli annunci basati sulle proprie preferenze e cookie. Per questo motivo sarà comunque possibile rimuoverlo e lasciare che gli annunci facciano il loro lavoro. Per farlo, bisognerà raggiungere la solita schermata di impostazioni, scendere in basso e cliccare su “Avanzate”, raggiungere la sezione “Privacy e sicurezza”, scegliere la voce “Impostazioni contenuto” e poi “Ads”. Adesso non servirà altro che attivare il toggle alla destra di “Consenti” in modo da attivare correttamente la visualizzazione degli annunci e rimuovere il blocco.

Caratteri e dimensioni. Non poteva ovviamente mancare anche un paragrafo dedicato alla gestione dei caratteri e delle dimensioni di visualizzazione dei vari elementi presenti su Chrome. Ancora una volta quindi, prima di proseguire, vi invitiamo a raggiungere le impostazioni generali come visto nel primo paragrafo della guida. Una volta fatto, non servirà altro che raggiungere la sezione “Aspetto” e cliccare su “Dimensioni carattere”. Di default sarà presente la dimensione “Medie”, ma ovviamente l'utente potrà scegliere manualmente quale utilizzare. All'interno del menu a comparsa saranno infatti presenti altre quattro possibilità: Grandi, Molto grandi, Piccole e Molto piccole. Il suddetto menu apparirà nel caso in cui si deciderà di agire esclusivamente su “Personalizza caratteri”, ovvero quell'opzione che aumenterà esclusivamente la dimensione del font. Nel caso in cui invece si preferisse aumentare o diminuire l'intera visualizzazione dei siti, sarà necessario modificare il valore alla destra di “Zoom”, cliccando su “+” o “-“ in base alle proprie preferenze.

Rivedi le tue password. Ormai quasi la totalità dei Browser Web dispone di un gestore avanzato di password, con il quale risulta essere possibile conservare tutte quelle più utilizzate in maniera sicura e utilizzarle rapidamente quando necessario per l'accesso ai profili privati. Tale pannello può essere raggiunto dalle solite impostazioni di Chrome, ma dispone anche di un sito dedicato, il quale supporta anche altri Browser. Tutto ciò che servirà fare sarà infatti cliccare su questo link e accedere con il proprio account Google. Qui sarà presente prima di tutto un comodissimo tool di “Controllo password”, con il quale si potrà verificare l'effettiva sicurezza delle proprie chiavi di accesso, oltre a ricevere consigli utili per modificare eventualmente quelle meno sicure. Inoltre, Chrome avviserà l'utente quando un particolare sito Web sarà colpito da una fuga di dati, invitandolo quindi a modificare i dati di accesso. Subito in basso poi, non mancherà la lista di siti web dei quali si dispongono nome utente e password. Ciò tornerà molto utile quando bisognerà accedervi, così da evitare di volta in volta di aggiungere manualmente i dati. Tutto avverrà in completa sicurezza e velocità. Per salvare una nuova password basterà avviare il sito Web interessato, completare il primo accesso e cliccare su “Salva password” nell'avviso che apparirà in alto a destra. Infine, cliccando sull'icona delle impostazioni in alto a destra (sempre sul sito di gestione password), si potranno modificare alcuni parametri, come: evitare la richiesta di salvataggio password quando si accede ad un sito, rimuovere l'accesso automatico, annullare gli avvisi di sicurezza per le password e esportare o importare le password salvate.

Personalizza le tue pagine di avvio. La pagina di avvio di Chrome è il primo approccio che si ha con il Browser, per questo motivo, potrebbe essere un'ottima idea quella di impostarla in maniera adeguata e funzionale. Esistono tre diverse modalità tra cui scegliere: aprire una “Nuova scheda” (con i preferiti e la ricerca Google in primo piano), riprendere dall'ultimo sito aperto prima della chiusura, oppure avviare una pagina o un insieme di pagine pre-impostate. Tutte queste opzioni possono essere raggiunte attraverso il solito pannello delle impostazioni e, in particolare, concentrando l'attenzione sulla sezione “All'avvio”. Qui sarà infatti possibile scegliere “Apri la pagina Nuova scheda”, “Continua dal punto in cui avevi interrotto” o “Apri una pagina o un insieme di pagine specifiche”, scegliendo poi manualmente i siti da avviare con il pulsante “Aggiungi una nuova pagina”. Una volta scelte, potranno anche essere modificate tramite la voce “Modifica” (o “Aggiungi”).

Invia una richiesta di non tracciamento. Per garantire una maggior privacy all'utente, Google ha introdotto sul suo Chrome l'attivazione della funzione “Non tenere traccia”, con la quale ai siti web verrà impedito di raccogliere i dati e profilare gli utenti. In questo modo i propri dati saranno al sicuro, ma i consigli, gli annunci e i servizi non potranno più essere in linea con le proprie preferenze. Ovviamente, una volta attivata tale opzione, si potrà comunque tornare indietro e disattivarla. Per farlo, tutto ciò che servirà sarà: raggiungere il pannello delle impostazioni come visto nel primo paragrafo, scendere in basso fino alla sezione “Privacy e sicurezza”, cliccare sulla voce “Cookie e altri dati dei siti” e attivare (o disattivare) l'opzione relativa a “Invia una richiesta “Non tenere traccia” con il tuo traffico di navigazione”. In questo modo quindi, ogni volta che si visiterà una pagina Web, Chrome invierà una richiesta di non tracciamento che potrà essere accettata dal sito in questione (il tutto avviene in pochissimi istanti ovviamente). Purtroppo Google non chiarisce quali siti supportano questa funzione, perciò in alcuni casi potrebbe non funzionare.

Accesso a microfono e fotocamera Camera. Ogni volta che si visita un sito Web che richiede l'utilizzo del microfono o della fotocamera (o di entrambi), Google Chrome invia una notifica all'utente, la quale conterrà due possibili scelte: consentire l'accesso ai due elementi, oppure negarlo bloccando il sito interrompendo anche future richieste. Una volta fatta la scelta però, si potrà comunque fare un passo indietro e modificare l'opzione selezionata. Tutto ciò potrà essere fatto dal pannello delle impostazioni. Una volta raggiunto, bisognerà cliccare sulla voce “Impostazioni sito”, proprio sotto la sezione “Privacy e sicurezza”. A questo punto, dopo aver premuto sul pulsante relativo a “Videocamera” o “Microfono”, sarà possibile scegliere fra varie opzioni: attivare o disattivare “Chiedi prima di accedere”, ovvero la richiesta di accedere o meno alle periferiche, controllare e modificare i siti bloccati e consentiti, eliminare una scelta fatta in precedenza attraverso l'icona del cestino a destra, oppure cliccare sul nome di un sito presente nella sezione “Bloccati” e modificare la scelta in “Consenti”, così da permettergli di utilizzare la fotocamera o il microfono (o entrambi).

Invia segnalazioni a Google. In qualsiasi istante è possibile inviare delle segnalazioni di errori su Chrome a Google. In questo modo, tutti gli utenti contribuiranno al miglioramento del suddetto Browser, così da consentire all'azienda di Mountain View di ottimizzare ulteriormente i propri servizi e causare meno problemi a chi li utilizza. Ovviamente Google cercherà di analizzare tutti gli errori ricevuti e di verificare se effettivamente si verificano per poi risolverli e rendere disponibili nuovi aggiornamenti. Per inviare un nuovo feedback relativo a Chrome bisognerà cliccare sull'icona con i tre puntini in alto, continuare con “Guida” e poi premere sulla voce “Segnala un problema”. A questo punto si avvierà una finestra all'interno della quale aggiungere più dettali possibili sul problema, così come anche screenshot, immagini, indirizzi email oppure siti Web. Una volta conclusa la scrittura della segnalazione, non servirà altro che confermare l'invio con “Invia”.

Ripristino di Chrome alle impostazioni predefinite. Infine, qualora si volesse ritornare a tutte le impostazioni predefinite di Chrome, basterà utilizzare l'opzione relativa al ripristino. Per raggiungerla non servirà altro che avviare la solita schermata delle impostazioni, premere sulla voce “Avanzate” in basso e, nel caso in cui si utilizzasse Windows, scegliere “Ripristina impostazioni” e poi ancora “Ripristina impostazioni” nella sezione “Reimpostazione e pulizia”. Per gli utenti Linux, Mac e Chromebook invece, sarà necessario raggiungere la sezione “Ripristino delle impostazioni”, continuare con “Ripristina le impostazioni predefinite originali” e concludere con “Ripristina impostazioni”. Il ripristino interesserà diverse sezioni del Browser, tra cui: il motore di ricerca predefinito, la home page e le schede, la pagina “Nuova scheda”, le schede bloccate, le impostazioni dei contenuti (autorizzazione di microfono, videocamera e altre impostazioni di questo tipo), i cookie e dati anche le impostazioni e i temi selezionati.

·        L’E-Mail.

Carlo Nordio per “Il Messaggero” il 4 gennaio 2021. L'anno che inizia, durante il quale l'epidemia si protrarrà fino all'auspicabile epilogo, costituirà - secondo gli esperti l'apogeo dell'informazione a distanza in tempo reale. Vale dunque la pena di ricordare che nel 2021 ricorre il cinquantenario dell'invenzione che ha rivoluzionato il nostro modo di comunicare, e che, per quanto riguarda i rapporti interpersonali, può esser paragonata solo al telefono. Si tratta della posta elettronica, inventata nel 1971 da Ray Tomlinson, un programmatore assunto dal Pentagono per facilitare le trasmissioni delle forze armate. Come molte altre benefiche innovazioni, mediche, industriali e tecnologiche, anche questa è nata con l'occhio alla guerra. Che, come insegnavano i romani, è l'unico modo per mantenere la pace.

LE ORIGINI. La storia del servizio postale è vecchia quanto l'uomo, e anch'essa ha avuto origini essenzialmente militari. Cinesi, Caldei, Egiziani avevano già sviluppato metodi abbastanza rapidi per inviare e ricevere messaggi tra governo e periferia. I tempi erano scanditi sul galoppo dei cavalli, e questo sistema è stato mantenuto, e perfezionato, dai romani, dagli inglesi e dal Pony Express di Buffalo Bill, fino all'avvento del treno e del telegrafo. Intanto l'ingegno umano escogitava sempre nuovi espedienti. Uno di questi era la trasmissione visiva, di cui ancora oggi si vedono le tracce nella disposizione dei castelli del Reno, tra le anse cantate da Heine e da mille altri poeti. Nella rocca dove Lorelei attirava i nocchieri sorgeva una delle tante fortezze, ciascuna visibile dall'altra, dove con le fiaccole si segnalavano le urgenze dei prìncipi. Gli inconvenienti erano costituiti dai frequenti errori degli addetti, dalla nebbia e dall'impossibilità di ricevere risposte corrette, esaurienti e immediate.

DOMANDE E RISPOSTE. Un originalissimo metodo per assemblare domande e risposte, proprio come accade oggi con le e-mail, fu inventato dai monaci nel Medioevo, con l’introduzione del rotularius. Il messaggio, redatto su una pergamena da un armarius, poteva contenere notizie di cronaca, o considerazioni di ordine religioso. Il destinatario scriveva le sue osservazioni e le incollava all'originale, che inviava a un altro convento, e così via, finché il rotulus, arricchito dei nuovi interventi, assumeva dimensioni gigantesche, talvolta fino a venti metri. Quello che annunciava la morte dell'abate Saint-Vital fu spedito il 16 settembre 1122 e fu recapitato al mittente dieci anni dopo, con 206 risposte corrispondenti ad altrettante tappe. L'unica differenza rispetto a oggi era dunque il tempo. Ma di quello c'era disponibilità: i monaci erano pazienti e ritenevano, come Sant' Agostino, che si trattasse di una dimensione puramente relativa: tempus est distensio animi. Un ulteriore passo fu l'introduzione della macchina per scrivere. Quando essa sostituì, negli uffici pubblici, la calligrafia, sembrò venir meno un mondo di puntigliosa perfezione formale. Tutti ricordiamo Renato Rascel nei panni di Policarpo, ufficiale di scrittura, costretto a sottoporsi a un esame dattilografico per mantenere il posto di lavoro. Una prova peraltro superata dal piccoletto con energico umorismo. Questa prima meccanizzazione rese più facile la lettura - con la sola eccezione delle ricette mediche - di documenti importanti, e ne facilitò la conservazione attraverso la possibilità di compilarne varie copie con una pluralità di destinatari. L'introduzione della testina rotante accelerò e perfezionò il processo di battitura e, rendendo più difficile l'individuazione della macchina con la sostituzione della testina, facilitò la stesura dei proclami terroristici: le Brigate rosse li scrissero tutti con questo sistema.

GLI INCONVENIENTI. Tuttavia si trattò sempre di migliorie parziali e relativamente modeste, che mantenevano il principio, come s' è visto assai antico, del recapito manuale. C'erano naturalmente, il telegrafo il telefono e la televisione. Ma la trasmissione di testi lunghi, di dispacci riservati, di allegati sostanziosi, consigliavano, e spesso imponevano, l'uso del corriere. E ancora oggi la stragrande maggioranza delle comunicazioni giudiziarie avviene per posta attraverso la famigerata cartolina verde, che spesso si perde o viene respinta al mittente. Un inconveniente che da solo determina il rinvio di numerosissimi processi, e contribuisce a paralizzare la nostra sgangherata giustizia.

GLI ALLEGATI. Per la nostra generazione, nata nell'immediato dopoguerra, l'inizio degli anni 80 sembrava aver raggiunto con i fax l'apice della rivoluzione tecnologica, e tutto lasciava supporre che vi sarebbe stato un momento di pausa. Ed invece, una volta introdotta l'invenzione di Tomlison, è cambiato tutto. Domande e risposte, unitamente alle comunicazioni dal contenuto più vario, vengono inviate a ricevute da interi gruppi in tempo reale. La possibilità di inserire gli allegati ha azzerato l'utilizzo di tutti gli altri strumenti recenti, dalle telescriventi ai fax alle fotocopiatrici. Ovviamente vi sono degli inciampi e degli abusi, dai furti di identità alle fake news agli spam. Quest' ultima parola ha un’origine strana. Era la marca di una carne in scatola americana, particolarmente piccante (spiced ham, prosciutto speziato) diffusa soprattutto, anche qui, tra i militari. Il produttore ossessionava i telespettatori con una pubblicità ripetitiva e fastidiosa, sì da provocare la reazione satirica dei comici come poco dopo avrebbe fatto il geniale Totò nel suo ossessionante Vota Antonio. E da lì derivò il significato di messaggio indesiderato e intrusivo.

L'ASSUEFAZIONE. Ma al di là di questi inconvenienti antipatici, l'invenzione di Tomlison era davvero destinata a capovolgere un sistema di comunicazioni ultramillenario. Naturalmente non ce ne siamo accorti subito. Le nostre capacità di adattamento graduale alle novità ci impediscono spesso di percepirne immediatamente la portata. Salvo i casi di rivelazioni improvvise, - come l'esplosione della bomba atomica o il lancio dello Sputnik - l'evoluzione tecnologica necessita di verifiche sperimentali lunghe e oscillanti, e quando diventa prodotto fruibile ce ne siamo già assuefatti. La scoperta degli antibiotici risale alla fine degli anni Venti, la loro applicazione a dieci anni dopo e l'arrivo in Italia solo nel dopoguerra, e malgrado la sua straordinaria efficacia non ebbe il clamore dell'evento improvviso. Così è stato per la posta elettronica. Introdottasi poco a poco, tra mille difficoltà e resistenze tra le persone meno giovani e le burocrazie più arrugginite, quasi nessuno ne ha colto subito la portata rivoluzionaria. C'è voluto il Covid per farci capire che - con tutti i suoi limiti - questa forma di comunicazione può rimediare in parte al nostro isolamento forzato.

·        La Memoria: in byte.

Memoria a breve termine. Report Rai PUNTATA DEL 12/11/2018 di Cecilia Andrea Bacci. Produciamo dati a una velocità così elevata da poterli quantificare addirittura in zettabyte: vale a dire, milioni di miliardi di gigabyte. La nostra fame di byte cresce così tanto da renderci ciechi di fronte all'evidenza: potremmo alzarci, nel 2100, e non essere più capaci di leggere quella sequenza di 0 e 1 che avevamo diligentemente salvato in un hard disk venti anni prima. Potremmo addirittura ritrovarci a guardare al ventunesimo secolo come un nuovo Medioevo: un’epoca in cui si è prodotto troppo per poi non riuscire a conservare niente. Ma dove vengono salvati i nostri dati, a quale costo? E soprattutto, c’è spazio sufficiente per tutti e per tutto? 

MEMORIA A BREVE TERMINE di Cecilia Andrea Bacci

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Inviamo 269 miliardi di e-mail ogni giorno. Twittiamo 6 mila volte al secondo producendo, quotidianamente, 5 mila petabyte. Sono 4 miliardi le persone che hanno accesso a internet e che commentano e caricano contenuti sempre più spesso tanto da innalzare, entro il 2020, la produzione mondiale di dati a quasi 44 zettabyte l’anno. Ci sarà spazio per salvare tutti i dati e per sempre?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Peta, esa, zettabyte. Significano un milione di miliardi di giga. Ecco, questi sono i parametri con cui dovremo cominciare a fare i conti. Buonasera, anteprima dedicata a una questione di democrazia digitale. Negli anni ottanta, per conservare 250 megabyte era sufficiente, era necessaria una grande stanza, oggi è più che sufficiente una piccola chiavetta USB. Ma siccome generiamo più dati, più velocemente di quant’è la nostra capacità di conservarli, potremmo trovarci presto di fronte a un bivio, a una scelta: continuiamo a divorare spazio, a divorare anche energia. Guardare un film in streaming di un’ora e mezza potrebbe significare consumare anche fino a mille litri di acqua. I data center, le casseforti che conservano i nostri dati, sono spesso in paesi diversi da quelli che i dati li generano. E se dovessero essere pieni, un giorno? E se non ci fosse più spazio per conservare i dati? Chi è che deciderà cosa buttare e cosa tenere? Non è solamente una questione di numeri, di digitale, ma è anche una questione di fare spazio buttando la nostra memoria, la nostra identità. Chi sceglierà, in base a quali criteri lo farà? I governi sono attrezzati ad affrontare questo problema? La ciambella di salvataggio potrebbe arrivare dal contenuto di una provetta. La nostra Cecilia Bacci.

VINTON CERF - CHIEF INTERNET EVANGELIST - GOOGLE Immaginate di essere nel 22esimo secolo e di voler spiegare la vita del secolo precedente attraverso e-mail, tweet. Anche se i bit sono stati salvati su qualche supporto, il software che era in grado di leggerli potrebbe non esistere più. Se non facciamo qualcosa, rischiamo di diventare una generazione dimenticata.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Per uno dei padri di internet, Vinton Cerf, l’unica soluzione per conservare la memoria è stamparla su carta. I nostri ricordi, la nostra memoria sopravvivranno all’aggiornamento dei sistemi operativi e software? Domanda legittima se distanza di soli vent’anni, risulta difficile leggere un floppy disk.

CECILIA BACCI Una volta archiviati, i dati durano per sempre?

GOFFREDO HAUS - PROFESSORE DI INFORMATICA - UNIVERSITÀ DI MILANO No, nulla dura per sempre. Può modificarsi, può deteriorarsi di più o di meno, l’importante è che se anche si deteriora sia ancora decodificabile.

CECILIA BACCI FUORICAMPO Il concetto chiave della conservazione dei dati è la migrazione: cambiare supporto, dispositivo di lettura, software, formato dei dati. Cambiare prima di perderli irrimediabilmente.

GOFFREDO HAUS - PROFESSORE DI INFORMATICA - UNIVERSITÀ DI MILANO Non c’è una data di scadenza tipo “da consumare entro il”. È da consumare “preferibilmente entro il”.

CECILIA BACCI FUORICAMPO Ma dove finiscono tutti quei dati che non conserviamo nei nostri hard disk?

BORA RISTIC - RICERCATORE POLITICHE AMBIENTALI - IMPERIAL COLLEGE LONDRA Quando invii una mail, dal tuo telefono, dal tuo pc, invii e ricevi informazioni dai data center. Edifici che ospitano un elevato numero di server e computer. È lo scheletro che regge tutta la rete. Ma questo scheletro consuma energia.

STEFANO CECCONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ARUBA I data center non hanno emissioni, non producono fumo, non producono rumore. Non sono visibili come azienda energivora.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Di energia però ne mangiano eccome. Ma quanto costa, in termini di impatto ambientale, mantenere la nostra memoria? I data center, con l’intero sistema ICT, consumano il 7% dell’energia prodotta a livello mondiale e potrebbero raggiungere il 20%.

BORA RISTIC - RICERCATORE POLITICHE AMBIENTALI - IMPERIAL COLLEGE LONDRA Muovere un gigabyte di dati sulla rete può richiedere un consumo di circa 200 litri d’acqua.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Equivale al consumo di una doccia di 10 minuti. E guardare un’ora di film HD in streaming può consumarne 3 di gigabyte. Un gruppo di ricercatori di Greenpeace ha studiato l’impatto ambientale delle piattaforme di streaming, Netflix compresa. Risultato? Quasi tutte bocciate con voti pessimi in “trasparenza energetica”.

BORA RISTIC - RICERCATORE POLITICHE AMBIENTALI - IMPERIAL COLLEGE LONDRA Sono i manager con le loro politiche, investendo in ricerca e innovazione, oppure scegliendo i posti adatti dove collocare il data center, che possono determinare l’impatto ambientale più basso.

CECILIA FUORI CAMPO Questo data center - non è un caso - nasce sulle rive del fiume Brembo ed è uno dei più grandi d’Italia.

STEFANO CECCONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ARUBA Un edificio come questo ha più o meno il consumo di una città da circa 100mila abitanti. Tutto il campus, quando arriverà a regime, quindi con tutti gli edifici pieni a massimo consumo, saranno equivalenti a circa mezzo milione di persone come consumi residenziali.

CECILIA FUORI CAMPO Consumi di energia non solo per alimentare, ma anche per raffreddare le macchine. Processi in cui l’acqua fa la sua parte. Ecco perché alcuni colossi del tech - come Microsoft - non si sono accontentati della vicinanza e hanno preferito buttarsi direttamente in mare.

ELIZABETH JARDIM - GREENPEACE USA Facebook, dal 2012, si è impegna a utilizzare energia pulita al 100%. Ora le compagnie che seguono il buon esempio sono tante, in testa Apple, Facebook e Google.

CECILIA FUORI CAMPO Il data center di Bergamo ha puntato tutto su una centrale idroelettrica e su 1.454 pannelli fotovoltaici. Viene prodotta così il 50% dell’energia necessaria ad alimentare un’azienda che non dorme mai.

STEFANO CECCONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ARUBA Tutto quello che manca lo preleviamo dalla rete, ma lo acquistiamo con una certificazione di origine, la certificazione GO, che ci garantisce che tutta l’energia acquistata proviene da fonti rinnovabili a sua volta.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Fonti che scarseggiano in Asia Orientale, dove portali come Alibaba vengono prevalentemente alimentati da centrali a carbone. Gli spazi, che ospitano i nostri dati nel nostro immaginario sono infiniti, ma non è così. In un futuro prossimo potrebbero esaurirsi. All’Istituto Charles Sardon di Strasburgo stanno studiando un modo per aumentare lo spazio.

JEAN-FRANÇOIS LUTZ - DIRETTORE DI RICERCA CNRS - STRASBURGO Quando parliamo di un disco rigido, ragioniamo in termini di nanometri. In 40/50 anni di ricerca le dimensioni sono notevolmente diminuite. Ora siamo arrivati quasi al limite fisico. Ridurle ancora è difficilissimo. Noi lavoriamo su tutt’altra scala, quella molecolare.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Che è dalle 10 alle 100 volte più piccola rispetto ai supporti che usiamo adesso.

JEAN-FRANÇOIS LUTZ - DIRETTORE DI RICERCA CNRS - STRASBURGO Questo è un esempio di polimero sintetico.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Ovvero una versione sintetica del DNA, che contiene il patrimonio genetico umano. Da questa provetta potrebbe partire la rivoluzione per la conservazione dei dati. Nel frattempo però, c’è chi ha messo su una Biblioteca d’Alessandria digitale. È lo scopo di Internet Archive, organizzazione no profit con sede a San Francisco, che raccoglie e mette on line la conoscenza digitale di tutto il mondo.

BREWSTER KAHLE - FONDATORE INTERNET ARCHIVE Le luci, attaccate agli hard drive, indicano quando qualcuno carica o scarica qualcosa dal nostro archivio.

CECILIA BACCI FUORI CAMPO Ma a Washington, c’è già chi si è posto dei limiti. La Biblioteca del Congresso conservava tutti i tweet pubblici, ma ha da poco iniziato ad archiviare soltanto quelli su eventi particolari e argomenti di interesse nazionale, come le elezioni.

CECILIA BACCI Chi è che decide cosa rimarrà di noi per esempio nel 2100, tra un secolo?

DINO PEDRESCHI - PROFESSORE DI INFORMATICA - UNIVERSITÀ DI PISA Saremo molto presto in una situazione in cui non potremo registrare tutto quello che produciamo. Chi deciderà cosa dimenticare e cosa conservare avrà molta parte del potere. Lasciare questa scelta a finalità commerciali è estremamente pericoloso.

CECILIA BACCI Chi è che si dovrebbe mettere di mezzo e dire “Ci penso io a conservare e analizzare i dati”?

DINO PEDRASCHI - PROFESSORE DI INFORMATICA UNIVERSITÀ DI PISA Io credo che debbano essere i cittadini, a cominciare a porre consapevolmente questa domanda. Credo che questo debba diventare uno dei temi dell’agenda delle democrazie del mondo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma i governi sono attrezzati per affrontare questo scenario? Perché presto potremmo trovarci davanti a un problema di dittatura digitale. Ecco, le informazioni hanno un valore sempre più alto nella nostra società e servono per determinare il destino di una persona, una singola persona, o addirittura quello di un paese. E c’è invece chi usa le informazioni per tener viva la memoria e dunque migliorare il futuro, o semplicemente per ricattare. Ma anche per questo ha bisogno di tanta energia.

·        Il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica.

La storia di Tesler, colui che inventò il "Taglia, copia, incolla" dell'informatica. Sono i comandi del “Cut Up” che troviamo segnati sulle tastiere di tutti i computer del mondo e che ogni santo giorno pestiamo. Mauro Francesco Minervino su Il Quotidiano del Sud il 28 febbraio 2021. Qualche giorno fa, quasi un anno fa, smetteva di premere il tasto che permette di fare quella copia di copie che è la realtà, un certo Larry Tesler. Lawrence “Larry” Gordon Tesler (New York, 24 aprile 1945 – Portola Valley, 17 febbraio 2020) è stato un informatico statunitense. Da giovane informatico di Silicon Valley lavorava ai computer quando ancora erano macchine con cui si poteva inventare qualcosa che prima non c’era. Insieme a un altro giovane pioniere, il collega Timothy Mott, nel 1973 Tesler ideò un sistema per trasferire parti di testo nei programmi per computer, eliminando così la necessità di riscrivere il testo ogni volta da capo. Questo era in origine l’intento del primo “copia e incolla” della storia. E fu così che un giorno Tesler lavorandoci sulla possibilità di estrarre e rimontare a piacimento una parte di testo, inventò e perfezionò i comandi del “Cut Up” che troviamo segnati, e che ogni santo giorno pestiamo, sulle tastiere di tutti i computer del mondo (perché tutti un po’, almeno un poco, lo facciamo). I tasti “taglia”, “copia” e “incolla” (“Ctrl+C” “Ctrl+V”) sono il sesamo che apre e chiude le nostre ansie di travet della cultura massificata e di utenti dei new media, rendendo disponibile il tesoro senza fine accumulato sin qui, e senza nostro merito, dalla cultura del genere umano e dal lascito di tutte le intelligenze analogiche che ci hanno ampiamente preceduto lasciando un segno su questo pianeta; tutto quel pozzo di conoscenze a cui attingono ogni giorno per dare una parvenza di senso le nostre (nostre?) spesso misere, stinte e replicanti esistenze digitali, passa da lì, da quella sequenza di tasti. Il giorno in cui è morto Tesler il suo primo datore di lavoro, per ricordarlo degnamente ha scritto: “La vostra giornata lavorativa è più facile grazie alle sue idee rivoluzionarie”. Il tweet è della Xerox, la società in cui l’informatico americano iniziò la sua carriera, proseguita poi con successo crescente in Apple, Amazon e Yahoo. Tesler nasceva nel 1945 nel Bronx, a New York, studiando poi alla Stanford University in California. Dopo essersi laureato, si specializza tra i primi nella progettazione di sistemi informatici più intuitivi e nell’interazione uomo-computer. Grazie a lui il computer fu una macchina molto più semplice da usare, e molto più redditizia, aggiungiamo. Per tutti quelli a cui la cosa non fa granché specie fu più semplice copiare e far finta che quello che scrivi importando qualunque cosa già scritta o pensata da qualcun altro sul tuo foglio di Word senza citare, è davvero farina del tuo sacco. La sua fatidica invenzione gli fece fare la carriera che meritava. Tesler ha poi infatti lavorato per centri di ricerca prestigiosi e per diverse importanti aziende tecnologiche: dalla Xerox Palo Alto Research Center Parc, fino alla Apple, di cui è stato uno degli uomini e dei cervelli più importanti per quasi 20 anni. Sebbene poco conosciuto al grande pubblico, Tesler può essere considerato quindi tra i pionieri e gli innovatori dell’informatica moderna. Il padre del copia e incolla partecipò anche all’ideazione di uno dei primi programmi con interfaccia grafica per scrivere testi, fu il primo a usare un computer portatile su un aeroplano e a dimostrare al guru digitale Steve Jobs l’efficacia di un sistema grafico di simboli e icone che avrebbe poi cambiato per sempre le sorti dell’informatica di consumo. Fu proprio alla Apple che i comandi “cut up” che Tesler aveva inventato furono portati definitivamente su una tastiera standard. I tasti di Tesler furono resi infatti universalmente popolari dall’azienda informatica di Cupertino, la quale nel 1983 li adottò montandoli per la prima volta sul computer Lisa, e nel 1984 sulla tastiera della prima macchina della fortunata serie Macintosh. Larry Tesler, l’nventore del “Copia e Incolla”, ha fatto meritoriamente la sua onorata carriera di cervello dell’informatica grazie alla sua geniale invenzione, ma non avrebbe mai immaginato quanto quella sequenza di semplici tasti su un computer avrebbero fatto per la fortuna e la carriera di certa gente, che da allora campa mettendo insieme le parole e i pensieri; preferibilmente quelli degli altri. E quanta della loro imponderabile e non propriamente faticata fortuna, devono a lui e proprio a quei piccoli segni che identificano i tasti del “copia e incolla”, schiere di geni di vari rami dello scibile e scrittori di capolavori di seconda mano, che grazie alla sua invenzione intascano royalties e successi esorbitanti, senza aver mai pagato dazio ai legittimi predecessori di pensieri e parole importate e fatte proprie grazie a quel meraviglioso e in fondo banale comando. Tra i tanti beneficiati gli devono tutto anche molti docenti saliti in cattedra a forza di scopiazzature e montaggi digitali, e oggi soprattutto le moltitudini di saccenti e citatori serial-killer della cultura che riempiono Facebook di roba – ottima – di seconda mano, spacciandola per il sudore della loro spaziosissima fronte. Grazie in eterno Mr. Tesler, and Cut&Up Unlimited.

·        Gli Hackers.

2021, un anno in trincea: l’Italia nel mirino delle offensive cyber. Andrea Muratore su Inside Over il 30 ottobre 2021. Il 2021 è stato segnato da una crescita delle offensive cybernetiche verso organizzazioni industriali, server di amministrazioni pubbliche e strutture istituzionali italiane, e il recente attacco al sistema dati della Siae, che ha suscitato un forte clamore mediatico, è solo l’ultimo di una serie di casi a dir poco eclatanti. In primo luogo le statistiche legate al Covid-19 segnalano che da diversi mesi il cybercrime continua ad abbattersi sull’Italia, e che diversi fattori di vulnerabilità siano stati amplificati dalla pandemia, primo fra tutti l’estensione delle linee da presidiare connessa alla diffusione dello smart working. Il report “Attacks from all angles: 2021 Midyear cybersecurity report” curato da Trend Micro Research segnala che con 131.197 attacchi legati a infiltrazioni di malware, casi di spam, ransomware e siti pirata nella prima metà del 2021 il nostro Paese si classificava quarto al mondo dopo Stati Uniti (1.584.337), Germania (832.750) e Colombia (462.005) per minacce informatiche correlate al Covid-19. In secondo luogo, il danno economico è rilevante. Nel 2020 l’incremento degli attacchi cyber a livello globale è stato pari al 12% rispetto all’anno precedente, e per l’Italia i costi stimati sono calcolati in 7 miliardi di euro l’anno tra spese extra per le imprese, danni alle produzioni, perdite di informazioni strategiche. Inoltre, Corriere Comunicazioni ha sottolineato che il rapporto annuale del “Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica (Cnosp), pubblicato ad agosto, ha svelato che in Italia gli attacchi hacker si sono decuplicati in un anno passando dai 460 registrati tra il 1° agosto 2019 e 31 luglio 2020 ai 4.938 certificati al 1° agosto 2021″, con un’attenzione crescente al fronte della sanità. Il mondo sanitario è infatti oggetto di crescenti attenzioni da parte dei cybercriminali, che si lanciano sia sulla base dati degli utenti sia su server che, per ammissione dello stesso Ministro per la Transizione Digitale Vittorio Colao, sono ancora in larga parte poco presidiati. Secondo uno studio della società Sham in collaborazione con l’Università di Torino il 24% delle strutture del nostro Paese ha subito attacchi informatici dall’inizio della pandemia. Predominano malware e ransomware che possono bloccare notevolmente l’operatività di un sistema, arrivando a bloccare l’attività critica di ali strategiche di un ospedale come un reparto di terapia intensiva fino al pagamento di un riscatto. Il caso dell’attacco hacker alla Regione Lazio ha segnato un vero e proprio campanello d’allarme per il nostro Paese. Un campanello d’allarme connesso in primo luogo alla mancanza di una vera e propria cultura della sicurezza per il cyber nazionale. ’Lavanzamento prodotto negli ultimi anni con l’istituzione del perimetro nazionale, il recepimento di direttive europee come la celebre Nis, la definizione di protocolli condivisi di sicurezza tra imprese e istituzioni non cancella i limiti politici, economici e culturali che fino a qualche anno fa caratterizzavano il sistema-Paese nel mondo cybernetico, e che con l’istituzione dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale il governo Draghi ha provato sanare con forza. Del resto,  nel contesto del suo passaggi estivo al Copasir e della susseguente audizione anche l’autorità delegata Franco Gabrielli aveva dichiarato che a suo avviso è necessario consolidare un perimetro di sicurezza cybernetica eccessivamente a macchia di leopardo grazie alla divisione delle competenze tra settore pubblico e privato. A fare molti danni è stato, in quest’ottica, in particolar modo il ramsomware “Conti”, tecnicamente un criptolocker che blocca l’accesso degli utenti ai Pc e poi impone il pagamento di un riscatto. Esso, avrebbe come rivelato per primo dall’Agi, avuto un ruolo nell’offensiva contro i dati del leader italiano della produzione di snack, il gruppo San Carlo, e avrebbe attaccato il gruppo italiano Maggioli — che fornisce numerosi servizi a pubbliche amministrazioni, professionisti e aziende — lo scorso 25 settembre, come riportato da Cybersecurity360. Soprattutto, conferma i problemi securitari per la somiglianza con l’azione che ha inibito nei giorni scorsi la Siae. Il caso dell’attacco a Siae, secondo il generale della Guardia di Finanza Umberto Rapetto, direttore di InfoSec, mostra l’esistenza di forti limiti culturali per il Paese. Per Rapetto, secondo quanto scritto in un’analisi per StartMag, “a rigore i malfattori” che si sono lanciati nel furto informatico che ha coinvolto diversi volti noti della musica italiana “non hanno rubato i dati della Siae, ma i dati degli iscritti che l’Ente aveva l’ineludibile dovere di tutelare impiegando tutte le risorse necessarie per la salvaguardia della riservatezza di quelle informazioni”, secondo un approccio security-by-design. “La mancata adozione di cautele e precauzioni idonee allo scopo” in ambito “tecnologico, organizzativo, regolamentare e naturalmente quelle di tipo educativo del proprio bacino di utenza” per Rapetto ha fatto sì che non si possa parlare di “sistema protetto da misure di sicurezza” nel quadro della base dati Siae. Ciò “costituisce una delle condicio sine qua non per configurare qualunque reato informatico”: è come se la Siae avesse mandato allo sbaraglio i suoi utenti, e questo mostra la gravità della questione sottolineata nei mesi scorsi da Colao sull’assenza di sicurezza dei server italiani. Con l’Acn e le evoluzioni degli ultimi mesi Roma ha provato a colmare un gap operativo; ma se da un lato negli apparati militari e di intelligence l’evoluzione culturale è ben assimilata, dall’altro questa deve ancora passare a livello generale. E sarà proprio questa la sfida per il futuro: ricordare alla popolazione che la cybersicurezza sarà sempre più un bene primario per il sistema Paese, la cui tutela sarà di vitale importanza per la sicurezza nazionale.

Dagotraduzione da Usa Today il 13 ottobre 2021. Mentre tutti noi stiamo ancora imparando che cos’è un attacco ramsonware e come difenderci dagli hacker, il massimo funzionario della sicurezza americana è preoccupato per un pericolo anche più terribile: il killerware, ovvero l’attacco informatico che può ucciderti. Per il segretario alla sicurezza interna Alejandro Mayorkas, l’attacco ramsonware alla Colonial Pipeline di aprile ha mostrato agli americani le complicazioni che può comportare, tra cui le lunghe code alle stazioni di servizio. Ma «c’è stato un incidente informatico che fortunatamente non ha avuto successo» ha aggiunto. «Un tentativo di hackerare un impianto di trattamento delle acque, in Florida. Quell’attacco non era stato sferrato per fini economici, ma solo per fare del male». Lo scopo era distribuire acqua contaminata ai residenti di Olsdmar, «e questo avrebbe dovuto attanagliare l’intero paese» ha raccontato Mayorkas. Secondo gli esperti di sicurezza il tentativo di sabotare il sistema idrico mostra che gli hacker stanno prendendo di mira un numero sempre maggiore di settori critici delle infrastrutture, dagli ospedali, alla rete idrica, ai dipartimenti di polizia e dei trasporti, a volte mettendo a rischio la vita delle persone. Come Mayorkas, gli esperti di sicurezza informatica del settore privato avvertono che i cosiddetti incidenti di sicurezza cyber-fisica che coinvolgono un'ampia gamma di obiettivi infrastrutturali nazionali critici potrebbero portare alla morte. Tra gli obiettivi sensibili ci sono la produzione di petrolio e gas e altri elementi del settore energetico, nonché sistemi idrici e chimici, trasporti, aviazione e dighe. L'ascesa di prodotti di consumo come termostati intelligenti e veicoli autonomi significa che gli americani vivono in un «mondo onnipresente di sistemi cyber-fisici» che è diventato un potenziale campo minato di minacce, ha affermato Wam Voster, direttore di ricerca senior presso la società di sicurezza Gartner. In un rapporto del 21 luglio, Gartner ha affermato che ci sono prove sufficienti di attacchi sempre più debilitanti e pericolosi ed è normale aspettarsi che entro il 2025 «gli aggressori informatici avranno ambienti tecnologici operativi armati per danneggiare o uccidere con successo le persone». «L'attacco all'impianto di trattamento delle acque di Oldsmar mostra che gli attacchi alla sicurezza sulla tecnologia operativa non sono più solo invenzioni di Hollywood», ha scritto Voster in un articolo che accompagnava il rapporto. Un altro esempio, ha scritto Voster, è stato il malware Triton, identificato per la prima volta nel dicembre 2017 sui sistemi tecnologici operativi di un impianto petrolchimico. È stato progettato per disabilitare i sistemi di sicurezza posti in essere per spegnere l'impianto in caso di evento pericoloso. «Se il malware fosse stato efficace, la perdita di vite umane sarebbe stata altamente probabile», ha scritto Voster. «Non è irragionevole presumere che questo fosse un risultato voluto. Quindi il 'malware' è ora entrato nel regno dei 'killware'». Gli esperti di sicurezza informatica avvertono i leader del governo e delle aziende che potrebbero essere ritenuti responsabili finanziariamente o legalmente se si scopre che le violazioni dei sistemi informatici che supervisionano hanno avuto un impatto umano. «Negli Stati Uniti, l'FBI, la NSA e la Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) hanno già aumentato la frequenza e i dettagli forniti sulle minacce ai sistemi critici relativi alle infrastrutture, la maggior parte dei quali sono di proprietà dell'industria privata», ha detto Katell Thielemann, vice ricercatrice presidente di Gartner, in un rapporto nel settembre 2020. «Presto, i CEO non saranno più in grado di invocare l'ignoranza o ritirarsi dietro le polizze assicurative». L'azienda ha stimato che l'impatto finanziario degli attacchi alla sicurezza cyber-fisica con conseguenti vittime supererà i 50 miliardi di dollari entro pochi anni. «Anche senza prendere in considerazione il valore effettivo di una vita umana», ha concluso Gartner, «i costi per le organizzazioni in termini di risarcimento, contenzioso, assicurazione, sanzioni normative e perdita di reputazione saranno significativi».

Alessandro Vinci per corriere.it il 2 ottobre 2021. Lente di ingrandimento sulle app che richiedono di accedere al microfono per essere installate. Dietro tale precondizione, che a volte può sembrare immotivata rispetto alle effettive finalità dei servizi, potrebbe infatti nascondersi la volontà di sottrarre agli utenti dati personali ascoltandone di nascosto le conversazioni. È l’allarme lanciato mercoledì dal Garante della privacy, che ha rivelato di aver avviato un’indagine proprio su una serie di «app “rubadati”» sospettate di essere dedite alla pratica (naturalmente fraudolenta) allo scopo di vendere le informazioni acquisite a società attive nel mondo della pubblicità online. Essendo l’istruttoria in corso, per il momento non sono stati resi noti ulteriori dettagli. Qualora tuttavia dovesse essere accertata la responsabilità di specifiche piattaforme, l’Autorità presieduta da Pasquale Stanzione non esiterà a comunicarlo pubblicamente. 

Tutte coincidenze?

All’origine della volontà del Garante di fare luce sul fenomeno, «un servizio televisivo e diversi utenti» che «hanno segnalato come basterebbe pronunciare alcune parole sui loro gusti, progetti, viaggi o semplici desideri per vedersi arrivare sul cellulare la pubblicità di un’auto, di un’agenzia turistica, di un prodotto cosmetico». Semplici coincidenze o c’è qualcosa di più? Lo si capirà anche grazie al Nucleo speciale privacy e frodi tecnologiche della Guardia di Finanza, che collaborerà all’esame «di una serie di app tra le più scaricate» e alla verifica «che l’informativa resa agli utenti sia chiara e trasparente e che sia stato correttamente acquisito il loro consenso».

«Fenomeno sempre più diffuso»

Al contrario di quanto sostenuto nel 2018 da un gruppo di ricercatori della Northeastern University di Boston, secondo il Garante la sottrazione di informazioni tramite i microfoni degli smartphone sarebbe un «fenomeno sempre più diffuso». Nonché particolarmente insidioso: «Una volta che si accetta senza pensarci troppo e senza informarsi sull’uso che verrà fatto dei propri dati — recita infatti il comunicato a proposito del via libera all’impiego del microfono —, il gioco è fatto». Come già dimostrato da diverse ricerche sugli elettrodomestici «intelligenti», quello dell’ascolto indebito a scopo pubblicitario non sarebbe comunque un inedito nel mondo tech. A breve se ne saprà di più.

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 29 agosto 2021. L'artista serbo Milos Rajkovic è rimasto basito il mese scorso quando i suoi fan sui social media hanno iniziato a promuovere una vendita online dei suoi ritratti digitali animati come NFT o token non fungibili. Rajkovic, che si fa chiamare Sholim, aveva visto gli NFT conquistare il mondo dell'arte, ma non aveva ancora deciso di entrare nel nuovo florido mercato dei certificati digitali. Inorridito, ha aperto la piattaforma OpenSea e ha trovato un impostore che cercava di vendere 122 delle sue opere come NFT per un 50.000 dollari. «La gente viene derubata», ha detto Rajkovic. La pagina fasulla è scomparsa a un certo punto, ma da allora è apparsa un'altra versione. «Mi sento responsabile, perché amano il mio lavoro e qualcuno mi sta usando per derubarli. È così frustrante». Gli NFT stanno sovraccaricando il mercato dell'arte, ma gli utenti avvertono che hanno un lato oscuro. Secondo gli esperti di sicurezza informatica, i truffatori e gli hacker stanno sfruttando sempre più le lacune di sicurezza nel mercato in rapida espansione e gli artisti e i collezionisti che non sono cripto-alfabetizzati si stanno rivelando bersagli facili. Secondo la società di analisi digitale DappRadar, nel secondo trimestre sono stati scambiati circa 2,4 miliardi di dollari di NFT, leggermente in aumento rispetto ai 2,3 miliardi di dollari venduti durante la frenesia artistica NFT iniziale del primo trimestre. Le principali case d'asta e gallerie ora vendono arte NFT – l’NFT da 69 milioni di dollari di Beeple detiene ancora il record - e stanno spuntando dozzine di piattaforme di vendita d'arte online che cercano artisti e collezionisti per unirsi alla mania dell'arte NFT. Gli NFT sono voucher digitali di autenticità che possono essere allegati alle immagini sugli schermi, consentendo di scambiare e tracciare JPEG a tempo indeterminato sulla blockchain. Le frodi più comuni sono la creazione di false opere d'arte NFT e il furto di informazioni riservate, come quelle sulla carta di credito, ad opera di false piattaforme di scambio. Esistono anche schemi di phishing e virus che possono prosciugare i portafogli digitali degli utenti o account online che possono memorizzare i dettagli finanziari delle persone e i loro fondi in criptovalute. La portata e l'ampiezza di questi attacchi sono difficili da definire perché il decentramento, un aspetto che definisce questo mercato alimentato dalle criptovalute, rende più difficile il conteggio o il monitoraggio delle frodi. Ironia della sorte, parte del fascino degli NFT è che questi token sono progettati per semplificare la registrazione e il monitoraggio dei dettagli di proprietà e delle vendite sul registro digitale noto come blockchain. «Gli hacker stanno gioendo perché molte persone che non sono esperte di tecnologia stanno improvvisamente coniando e scambiando NFT ora», afferma Max Heinemeyer, direttore presso Darktrace, una società di difesa informatica con sede a Cambridge, in Inghilterra. «A differenza di un museo, non ci sono guardie in piedi intorno al tuo laptop». All'inizio di quest'anno, un impostore che si spacciava per l'artista di strada Banksy ha venduto opere d'arte NFT per un valore di 900.000 dollari, sempre sulla piattaforma OpenSea, prima che il vero Banksy venisse a conoscenza dello stratagemma. L'artista si è fatto avanti per dire che non era affatto coinvolto nella vendita (La piattaforma ha bloccato il venditore dal suo sito, ma il truffatore ha trattenuto i soldi). Nate Chastain, capo del prodotto per OpenSea, ha rifiutato di discutere la situazione con Banksy e Mr. Rajkovic, ma ha detto in una e-mail che la piattaforma sta adottando misure per frenare le frodi. «Prendiamo molto seriamente le frodi in OpenSea e ci impegniamo per rimuovere questo contenuto dalla piattaforma non appena ne veniamo a conoscenza», ha detto. Chastain ha detto che la piattaforma sta pianificando di implementare un sistema di rilevamento delle immagini duplicate, che potrebbe identificare quando i truffatori cercano di vendere copie di opere già online altrove. A giugno, un importante artista NFT che si fa chiamare Fvckrender ha dichiarato di aver perso l'equivalente di 4 milioni di dollari in criptovalute dopo aver aperto un file inviatogli sui social media che conteneva un virus. In pochi minuti, ha quasi svuotato il suo portafoglio online mentre si affrettava a spostare i fondi rimanenti su un altro account sicuro. «Sono un idiota», ha twittato in seguito. Anche Mike Winkelmann, l'artista meglio conosciuto come Beeple, è stato preso di mira. Dopo che il suo NFT "Everydays: The First 5000 Days" è stato venduto da Christie's per 69 milioni di dollari a marzo, un artista digitale noto come Monsieur Personne ha affermato di aver creato copie corrispondenti del record NFT di Beeple e indotto diverse piattaforme NFT a pensare che i pezzi provenissero da Beeple. Alcuni siti hanno messo in vendita queste imitazioni prima che lo stratagemma diventasse noto e le offerte per acquistare i falsi fossero bloccate dai siti. Monsieur Personne ha poi scritto sul blog che il suo exploit aveva lo scopo di avvertire gli amanti dell'arte delle falle di sicurezza all'interno del sistema NFT. «Ci sono enormi frodi in corso», ha aggiunto in un'e-mail martedì. I problemi si estendono oltre i tipici problemi di crescita e malfunzionamento di una nuova arena dell'arte, in parte perché le vittime dicono di trovare così poco spazio per ricorrere. I collezionisti che acquistano inavvertitamente opere d'arte false o rubate nel mondo reale possono spesso chiedere rimborsi o rivolgersi a vie legali, ma le probabilità di successo possono essere ridotte nel regno opaco della criptovaluta. (Se una truffa riguarda acquisti fraudolenti effettuati con una carta di credito rubata, il proprietario della carta può comunque segnalare la frode alla società della carta di credito e il denaro può essere generalmente rimborsato). Benny Taveras, un investitore canadese di 39 anni, ha affermato di aver speso circa 700 dollari nella criptovaluta nota come Etherum acquistando sette NFT video in loop che pensava fossero stati venduti da Rajkovic. Il signor Taveras in seguito ha contattato l'artista sui social media e gli è stato detto che la vendita era una truffa. «Ero devastato», ha detto in un'intervista. «Non solo ho perso una vendita, ma è stato scoraggiante». Mr. Taveras, che ha detto di aver speso più di 120.000 dollari accumulando arte tokenizzata negli ultimi tre mesi, ha affermato che ora invia e-mail agli artisti per controllare le loro offerte NFT prima di effettuare qualsiasi acquisto. E non apre più alcun link che gli viene inviato tramite i social media. «Basta un clic"» ha detto. Esperti come Mr. Heinemeyer di Darktrace suggeriscono agli utenti di memorizzare le loro password, chiamate seedphrase, e di spostare la loro ricchezza in criptovalute in portafogli digitali che possono essere archiviati su chiavette personalizzate o permettere un'autenticazione a due fattori. DeviantArt, un noto sito in cui gli artisti digitali hanno a lungo condiviso esempi del loro lavoro (spesso gratuitamente), ha dichiarato di aver iniziato a scandagliare il web in cerca di truffe dopo essersi resa conto che molte delle opere ospitate sul suo sito venivano rivendute illegalmente come NFT. La scorsa settimana ha iniziato a utilizzare software di intelligenza artificiale per setacciare blockchain pubbliche e piattaforme NFT in cerca di esemplari identici alle opere dei suoi artisti così da avvisarli. Un portavoce di DeviantArt ha affermato che nei due besi di fase beta, l'86% delle partite scoperte dalla tecnologia AI riguardava potenzionali violazioni su piattaforme NFT. Alcuni importanti artisti stanno adottando ulteriori misure per proteggere e autenticare le loro opere offerte in vendita online. Hannes Koch, co-fondatore dello studio artistico Random International, ha detto che lui e i suoi collaboratori hanno recentemente assunto un fornitore di certificazione blockchain, Verisart, per rilasciare un certificato di autenticità ai loro NFT. Hanno anche iniziato ad allegare certificati retroattivi a tutte le loro opere fisiche. Robert Norton, amministratore delegato di Verisart, ha affermato che gli artisti stanno scoprendo che solo alcune delle due dozzine di piattaforme NFT controllano in anticipo l'identità dei loro venditori, rendendo così molto facile per i criminali copiare e incollare e scambiare opere d'arte che non hanno creato. Ma i certificati di Verisart sono dotati di firme aggiuntive e dettagli che un truffatore non può facilmente falsificare. «Ai vecchi tempi, i ragazzi avrebbero dovuto falsificare l'arte, ma ora devono solo essere in grado di hackerare il file immagine», ha detto Norton. Altri artisti, tra cui Daniel Arsham e Jen Stark, stanno aggiungendo marcatori di autenticità e sicurezza nel momento in cui coniano le loro opere come NFT. Entrambi gli artisti usano CXIP, un nuovo tipo di software di conio che nasce da un'idea dell'avvocato Jeff Gluck. CXIP ancòra i suoi pezzi all'artista originale e migliora i dettagli del contratto per garantire che le future royalties di rivendita siano irrevocabili, indipendentemente da dove l'opera viene successivamente rivenduta. Il signor Rajkovic ha detto di aver recentemente contattato anche il signor Gluck per chiedere aiuto. Il signor Taveras, che ha acquistato le opere fasulle di Sholim, ha affermato di non aver mai ricevuto indietro i suoi soldi dal suo truffatore, sebbene la tecnologia blockchain renda più facile seguire le spese del suo hacker dopo il fatto. «Se volessi, potrei guardarlo spendere i miei soldi», ha detto, «ma non posso hackerarlo e recuperarli». 

Dagotraduzione dalla Nbc il 16 agosto 2021. A giugno, l'FBI ha ottenuto un mandato per dare la caccia agli account Google di Abedemi Rufai, un funzionario del governo statale nigeriano. In una dichiarazione giurata, l’Fbi ha raccontato quello che ha scoperto, cioè una massiccia frode informatica al governo degli Stati Uniti: dopo aver rubato le informazioni fiscali e bancarie degli americani, Rufai ha infatti inviato dozzine di false richieste di disoccupazione in sette stati, ricevendone in cambio 350 mila dollari. Secondo gli atti del tribunale, Rufai è stato arrestato a maggio all'aeroporto internazionale John F. Kennedy di New York mentre si preparava a tornare in Nigeria. È detenuto senza cauzione nello stato di Washington, dove si è dichiarato non colpevole di cinque capi di imputazione per frode telematica. Il caso di Rufai offre una piccola finestra su quella che secondo le forze dell'ordine e gli esperti privati è la più grande frode mai perpetrata contro gli Stati Uniti, e una parte significativa è stata condotta da stranieri. Funzionari ed esperti sostengono che mafiosi russi, hacker cinesi e truffatori nigeriani hanno usato identità rubate per depredare decine di miliardi di dollari in benefici Covid, trasferendoli poi nei loro paesi. E sta ancora accadendo. Tra gli obiettivi ci sono i programmi di disoccupazione. Il governo federale non può dire con certezza quanto degli oltre 900 miliardi di dollari di sussidi di disoccupazione legati alla pandemia siano stati rubati, ma stime credibili vanno dagli 87 milioni ai 400 miliardi di dollari, almeno la metà dei quali è andata a criminali stranieri, affermano le forze dell'ordine. «Questo è forse la più grande frode mai organizzata», ha detto il ricercatore di sicurezza Armen Najarian della ditta RSA, che ha rintracciato un giro di nigeriani che presumibilmente hanno sottratto milioni di dollari a più di una dozzina di stati. Jeremy Sheridan, che dirige l'ufficio investigativo dei servizi segreti, lo ha definito «il più grande schema di frode che abbia mai incontrato». «A causa del volume e del ritmo con cui questi fondi sono stati resi disponibili e molti dei requisiti che sono stati revocati per rilasciarli, i criminali hanno colto questa opportunità e hanno avuto molto, molto successo - e continuano ad avere successo», ha detto. Mentre l'enorme portata delle frodi contro il Covid è stata chiara da tempo, scarsa attenzione è stata prestata al ruolo dei gruppi criminali stranieri organizzati, che spostano il denaro dei contribuenti all'estero attraverso schemi di riciclaggio che coinvolgono app di pagamento e "money muli". «È come lasciare che la gente entri a Fort Knox e prenda l'oro, e nessuno ti ha nemmeno fatto qualche domanda», ha detto Blake Hall, CEO di ID.me, che ha contratti con 27 stati per verificare le identità. Funzionari e analisti affermano che sia i truffatori nazionali che quelli stranieri hanno approfittato di un sistema già debole di verifica della disoccupazione mantenuto dagli stati, che è stato segnalato per anni dai federali. In aggiunta alla vulnerabilità, gli stati hanno reso più facile richiedere i benefici di Covid online durante la pandemia e i funzionari hanno sentito la pressione e hanno accelerato l'elaborazione. Il governo federale ha anche lanciato nuovi bonus per gli appaltatori e i lavoratori autonomi, senza che ci fosse la verifica del datore di lavoro. In quell'ambiente, i truffatori erano facilmente in grado di impersonare americani disoccupati usando le informazioni raccolte e vendute sul dark web. I dati - date di nascita, numeri di previdenza sociale, indirizzi e altre informazioni private - si sono accumulati online per anni attraverso enormi violazioni dei dati, inclusi hack di Yahoo, LinkedIn, Facebook, Marriott ed Experian. A casa, i detenuti e le bande della droga sono entrati in azione. Ma gli esperti dicono che gli sforzi meglio organizzati sono venuti dall'estero, con criminali provenienti da quasi tutti i paesi che si sono lanciati per rubare su scala industriale. «Lo chiamano letteralmente soldi facili», ha detto Ronnie Tokazowski, un ricercatore senior che ha monitorato le comunicazioni del dark web con le le bande fraudolente dell'Africa occidentale. In alcuni casi, i gruppi criminali organizzati all'estero hanno inondato i sistemi di disoccupazione statali con false affermazioni, travolgendo i software per computer antiquati con attacchi che hanno sottratto milioni di dollari. In diverse occasioni, gli stati hanno dovuto sospendere i pagamenti dei sussidi mentre cercavano di capire cosa fosse reale e cosa no. «Si tratta sicuramente di un attacco economico agli Stati Uniti», ha affermato il vicedirettore dell'FBI Jay Greenberg, che sta indagando sui casi come parte della task force sulle frodi Covid del Dipartimento di Giustizia. «Mancheranno decine di miliardi di dollari. ... È una quantità significativa di denaro che è andata all'estero». Nell'ambito del programma Pandemic Unemployment Assistance per lavoratori autonomi e appaltatori, le persone possono richiedere un ristoro retroattivo, rivendicando mesi di disoccupazione senza alcuna verifica sul datore di lavoro. Hall ha spiegato che in alcuni casi sono stati emessi assegni o carte di debito del valore di 20mila dollari. «La criminalità organizzata non ha mai avuto l'opportunità di convertire l'identità di un americano in 20.000 dollari, e questo è diventato il loro Super Bowl», ha detto. «Questi stati non erano attrezzati per fare la verifica dell'identità, certamente non la verifica dell'identità a distanza. E nei primi mesi e ancora oggi, la criminalità organizzata ha appena fatto di questi stati un obiettivo». Sheridan, la cui competenza al Secret Service include crimini finanziari, ha sottolineato che le somme rubate superano di gran lunga il costo annuale del ransomware, che si stimi costi all'economia 20 miliardi di dollari l'anno, e che ha attirato l'attenzione dei media. «Questi gruppi che traggono così tanto profitto da questo tipo di schemi, si impegnano in una serie di altri crimini», ha detto. «Traffico di droga, crimini contro i bambini, frodi informatiche più sofisticate. E questo denaro è fondamentalmente un investimento per condurre operazioni criminali più estese ... alcune delle quali includono crimini che comprometteranno la sicurezza nazionale». Quando gli stati si sono accorti della criminalità, il rubinetto del denaro sgorgava da mesi. «Nessuno ha davvero capito quanto fosse grande il problema fino a quando non si è manifestato», ha affermato Najarian, il ricercatore di sicurezza RSA. «Abbiamo tutti accettato che ci fossero frodi in atto, frodi organizzate e frodi locali. Ma quello di cui non ci rendevamo conto... era che la frode organizzata era molto aggressiva e molto efficiente e spostava somme di denaro molto, molto grandi all'estero». Il sito di giornalismo investigativo ProPublica ha calcolato il mese scorso che da marzo a dicembre 2020 il numero di richieste di sussidio di disoccupazione ha raggiunto circa i due terzi della forza lavoro del paese, ma il tasso di disoccupazione effettivo era del 23%. Sebbene alcune persone perdano il lavoro più di una volta in un dato anno, questo da solo non spiega l'enorme differenza tra i due numeri. Il furto continua. Il Maryland, ad esempio, a giugno ha rilevato più di mezzo milione di richieste di disoccupazione potenzialmente fraudolente solo negli ultimi due mesi. La maggior parte dei tentativi è stata bloccata, ma gli esperti affermano che a livello nazionale molti attacchi stanno ancora andando avanti. L'amministrazione Biden ha riconosciuto il problema e ne ha dato la colpa all'amministrazione Trump. «Forse non esiste alcun problema di supervisione ereditato dalla mia amministrazione che sia grave quanto lo sfruttamento dei programmi di soccorso da parte di organizzazioni criminali che utilizzano identità rubate per sottrarre benefici al governo», ha dichiarato il presidente Usa in a maggio, quando il governo ha annunciato che il Dipartimento di Giustizia avrebbe dedicate forze solo a questo. Insieme alle enormi perdite inflitte al Tesoro degli Stati Uniti, i criminali hanno ferito anche decine di migliaia di persone, molte delle quali hanno subito ritardi nell'ottenere benefici tanto necessari.

Zingaretti, è attacco terroristico. (ANSA il 2 agosto 2021) "Stiamo difendendo in queste ore la nostra comunità da questi attacchi di stampo terroristico. Il Lazio è vittima di un'offensiva criminosa, la più grave mai avvenuta sul nostro territorio nazionale". Lo ha detto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. "Non conosciamo la matrice dell'attacco e tutte le ipotesi sulla matrice sono al vaglio degli investigatori", ha poi precisato Zingaretti. Ha poi aggiunto che "la definizione (dell'attacco, ndr) non è dato saperla".

Attacco hacker: fonti, escluso accesso a storia sanitaria. (ANSA il 2 agosto 2021) Gli hacker che hanno attaccato il Ced della Regione Lazio non avrebbero avuto accesso alla storia sanitaria dei milioni di cittadini che sono inseriti nel database del sistema sanitario regionale. Lo si apprende da qualificate fonti della sicurezza secondo le quali l'attacco, per quanto riguarda la parte sanitaria, ha colpito il sistema prenotazioni Cup e a quello delle prenotazioni vaccinali. Non ci sarebbe stato un travaso di dati sanitari, anche se i pirati sarebbero comunque entrati in possesso di diversi dati anagrafici. Non sarebbe stata toccata l'infrastruttura informatica che riguarda il bilancio e la protezione civile. Quanto al riscatto, sottolineano sempre le fonti, i pirati informartici non avrebbero al momento quantificato la loro richiesta in maniera esplicita anche se, in casi analoghi avvenuti in altri paesi, le richieste sarebbero passate da poche centinaia di migliaia di euro fino a 10 milioni. Per entrare nei sistemi, gli hacker avrebbero utilizzato le credenziali di un amministrativo sul quale sarebbero già stati svolti accertamenti che avrebbero escluso ogni sua responsabilità. 

Attacco hacker: non formalizzata richiesta riscatto. (ANSA il 2 agosto 2021) "Non è stata formalizzata alcuna richiesta di riscatto rispetto a quanto è avvenuto". Così il presidente del Lazio, Nicola Zingaretti, in merito all'attacco hacker al Ced della Regione e alle notizie che erano emerse nelle ultime ore riguardo ad una richiesta di riscatto da parte dei pirati informatici. (ANSA).

Regione, indagini per capire modalità furto password. (ANSA il 2 agosto 2021) "Tutti i protocolli di sicurezza da parte delle figure professionali e dei sistemisti sono stati rispettati. Non c'è stato nessun tipo di alleggerimento. Come gli hacker siano entrati in possesso di credenziali per avere privilegi è motivo di indagini". Così i tecnici della Regione Lazio in merito alla modalità con cui gli hacker si sono infiltrati nel sistema per sferrare un attacco informatico al Ced della Regione.

Attacco hacker: esperto, in blitz così anche ipotesi talpa. (ANSA il 2 agosto 2021) "L'idea che ci siamo fatti al Clusit è che l'attacco hacker contro la Regione Lazio si configuri esclusivamente come attività criminale, non legata ad aspetti di tipo ideologico. Niente no vax ma cybercrime puro, finalizzato ad ottenere un riscatto in forma di bitcoin. Non ci sono evidenze di attività di social engineer e phishing, quindi dietro tutta la storia potrebbe esservi una persona che conosce bene i sistemi della Regione, con una consapevolezza tecnica ben specifica. Non sorprenderebbe l'esistenza di una talpa, anche esterna. Visto l'interesse sui vaccini, ulteriori attacchi sono attesi un po' ovunque, dentro e fuori dal Paese". Lo dice all'ANSA Gabriele Faggioli, presidente del Clusit, l'Associazione italiana per la sicurezza informatica. "Il fatto di cronaca rende ancora più importante l'ipotesi di un cloud nazionale - aggiunge l'esperto - con l'opportunità di accentrare le infrastrutture e le applicazioni critiche. In questo modo si potrà creare un network difensivo aggiornato e pronto a rispondere agli attacchi, prevenendoli. Anche perché gli aggressori hanno strumenti informatici più avanzati di chi si difende ed è la collaborazione che può fare la differenza. Non è un caso se si sia preso di mira un sito oggi fondamentale per una parte di popolazione italiana, dove la necessità di tornare preso operativi è la priorità. Pagando per un riscatto si alimenta quel circolo vizioso che tiene in piedi l'economia dei ransomware. Sin da marzo 2020, il mondo sanitario è stato messo pesantemente sotto attacco. Ai criminali non interessa fermare questo o quel vaccino, ma solo recuperare quanti più soldi possibili. Lo scenario legato alla pandemia è quello che porta maggiori vantaggi ed è lì che continueranno a rivolgersi nel prossimo futuro", conclude Faggioli.

Da Ansa.it il 2 agosto 2021. «Stiamo difendendo in queste ore la nostra comunità da questi attacchi di stampo terroristico. Il Lazio è vittima di un'offensiva criminosa, la più grave mai avvenuta sul nostro territorio nazionale». Lo ha detto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. «Gli attacchi sono ancora in corso. La situazione molto è seria e molto grave». Lo ha detto il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, spiegando che nella notte c'è stato un altro attacco ma è stato respinto sena ulteriori danni.

Hacker Regione Lazio, nessun dato rubato. Zingaretti: “Peggior cyber attacco di sempre in Italia”. Redazione su Il Riformista il 2 Agosto 2021. “Stiamo difendendo in queste ore la nostra comunità da attacchi di stampo terroristico. Il Lazio è vittima di un’offensiva criminosa, la più grave mai avvenuta sul nostro territorio nazionale” spiega il governatore. La campagna vaccinale va avanti ma sono sospese le prenotazioni anche se gli “attacchi ancora in corso e la situazione è grave”. Nella notte c’è stato un secondo episodio ma è stato respinto e ad ora, spiegano Alessio D’Amato, assessore regionale alla salute “possiamo assicurare che nessun dato sanitario è andato rubato, ma sono stati bloccati quasi tutti i file del Ced” (Centro di Elaborazione Dati ndr). La Polizia postale è al lavoro per individuare i responsabili del malware che ha paralizzato non solo la campagna vaccinale, anche se D’Amato fa sapere che il ritardo nell’inserimento dei dati per il Green Pass è di sole 12 ore, ma anche le attività degli appalti pubblici e perfino il sito istituzionale. Un attacco che, secondo gli esperti al lavoro in queste ore, sembra sia certo essere arrivato dall’estero, e causato da un virus ransomware infiltrato nel Centro elaborazione dati della sede principale in via Cristoforo Colombo. “Sono totalmente infondate le notizie di una richiesta di riscatto” ha proseguito il presidente della Regione, “Intanto la Regione ha avviato la migrazione su cloud esterni dei servizi essenziali sanitari, così da renderli disponibili quanto prima”. “Mi permetto da presidente di questa istituzione di fare un appello – dice Zingaretti – ora ancora con più determinazione dobbiamo andare avanti e non rallentare. Come sapete da ieri il 70% della popolazione adulta è vaccinata e il nostro obbiettivo è quello di concludere la campagna vaccinale nella nostra regione”. I dati finanziari e i dati del bilancio non sono stati toccati. Appena tutto sarà ripristinato, dice Zingaretti, “intendiamo dare priorità assoluta a servizi nel campo della salute, 112 e Ares 118 sono attivi e non sono mai stati interrotti così come i numeri della sala operativa della protezione civile”.

Dagonews il 2 agosto 2021. Lo ha detto Zingaretti. La situazione è molto seria e grave. Pirati informatici hanno attaccato la Regione Lazio, prendendo in ostaggio i dati di tutti i cittadini, tra cui quelli delle più alte cariche dello Stato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Mario Draghi, che si sono vaccinati a Roma, e di molti rappresentanti della classe dirigente. Nelle loro mani gli hacker hanno così i dati sulle vaccinazioni, ma non solo. Ormai da quasi 48 ore i nostri servizi di intelligence, aiutati da quelli di altri paesi, stanno lavorando per risolvere il problema. L’indagine è seguita sia dagli specialisti del Centro nazionale anticrimine informatico per la protezione delle infrastrutture critiche sia dagli 007 del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza della Repubblica. Anche se non è stato un attacco sofisticato, potrebbe avere effetti devastanti. Per ripartire serviranno giorni, forse settimane, e infatti il sito della Regione è ancora irraggiungibile. L’attacco non è la mossa di uno Stato straniero, anche se potrebbe essere partito dalla Germania (non è esclusa una triangolazione per depistare le indagini). Più che per rubare i dati è stato lanciato per arrecare danno e sabotare la rete. Per questo una delle piste è quella dei no vax. Il timore però è che i dati sanitari della classe dirigente italiana possano essere venduti sul mercato nero. Gli hacker si sono introdotti nel sistema informatico della Regione non attraverso una mail, ma da una postazione lasciata aperta sul portale Lazio Crea. Una dimenticanza oppure una finestra lasciata appositamente aperta? Si indaga. Da lì gli hacker hanno inserito un malware comune, artigianale, e che si trova a poche centinaia di euro. Siccome il nostro sistema di protezione è debole, il malware è riuscito ad arrivare fino al Ced, il Centro di elaborazioni dati della Regione. Per bloccare il virus i tecnici hanno dovuto spegnere il Ced. Questa notte all’1.30 è stato fatto un tentativo di riaccendere i server, ma è arrivato subito un nuovo attacco malware. Il timore è che una volta fatto ripartire, i dati possano essere cancellati o resi inutilizzabili. Anche perché i criminali hanno reso inutilizzabili anche i dati presenti nel backup effettuato in automatico al momento dell’attacco, tanto che non si esclude che il virus si trovi proprio all’interno delle coppie di sicurezza del sistema. Quello che rende la situazione ancora peggiore è il fatto che l’intera attività della Regione Lazio è interessata dal malware, che ha in pratica raggiunto ogni settore, compresso quello degli appalti pubblici. Gli hacker hanno chiesto un riscatto, lasciando un indirizzo mail a cui pagare, ma senza indicare l’importo. Gli hacker potrebbero anche mettere la propria chiave d’accesso all’asta in una dark room, cioè vendere l’ostaggio (i nostri dati) a una banda di sequestratori più cattivi per chiedere un riscatto ancora più alto. Oppure i criminali potrebbero essere pronti a incenerire i dati.

Rosalba Castelletti per "la Repubblica" il 3 agosto 2021. I pirati informatici responsabili degli attacchi con richieste di riscatto da milioni di dollari che stanno mettendo in crisi aziende e governi in tutto il mondo hanno un'isola felice. E si chiama Russia. Non solo operano in un ecosistema russofono, ma godrebbero del tacito benestare delle autorità moscovite che li proteggerebbero da ogni persecuzione giudiziaria fin tanto che non colpiscano obiettivi nella Federazione o nei Paesi alleati. Così sostengono gli esperti di sicurezza informatica, a dispetto delle scrollate di spalle del presidente Vladimir Putin che, interpellato dal suo omologo statunitense Joe Biden nel corso del vertice a Ginevra, aveva liquidato le accuse come «ridicole» e «assurde». E, a ulteriore scudo dei corsari, la Costituzione russa vieta l'estradizione dei suoi cittadini verso altri Paesi. I primi bucanieri informatici a farsi notare erano stati gli hacker di Nobelium (nome ispirato all'elemento chimico No della tavola periodica) quando, l'anno scorso, avevano sfruttato le vulnerabilità del software Orion di SolarWinds per compromettere un centinaio di compagnie statunitensi, incluse Microsoft, Intel e Cisco. Allora Washington accusò apertamente la Russia di aver orchestrato l'assalto informatico e approvò sanzioni puntando il dito contro i Servizi di intelligence internazionale (Svr). Gli stessi a cui farebbe capo Cozy Bear, o Apt29 (dove Apt sta per Advanced persistent threat, minaccia avanzata persistente), responsabile in passato di attacchi contro ministeri di Paesi Ue. A muoversi più di recente sono invece vere e proprie gang di cyberfilibustieri che infettano le reti col solo scopo di chiedere riscatti a sei zeri. Almeno 45 milioni di dollari sinora nel 2021, stando alle stime di Atlas Vpn. Di questi, almeno 13 sarebbero stati estorti dal solo gruppo Wizard Spider, il Ragno Stregone, dietro alle minacce Trickbot, Conti e Ryuk. La banda DarkSide, Lato Oscuro, lo scorso maggio avrebbe ricevuto ben 9 milioni per "liberare" Colonial Pipeline, uno dei principali sistemi Usa di oleodotti, prima di dichiarare la fine delle sue operazioni. Mentre tre settimane dopo la brasiliana Jbs, la più grande azienda di lavorazione delle carni, avrebbe sborsato 11 milioni al gruppo REvil, Diavolo dei Ransomware, legato anche all'attacco a Kaseya che serve oltre 40mila clienti negli Usa e nel mondo. Non ci sono prove che i pirati del Ragno Stregone e del Lato Oscuro o che i Diavoli del Ransomware facciano capo al Cremlino. Quel che è certo è che sono localizzati all'interno dei confini Russi e che i loro codici escludono dai loro obiettivi computer con lingua predefinita in cirillico. A testimonianza di un patto implicito con le autorità che danno loro protezione in cambio di immunità dagli attacchi. O di mazzette o lavoretti sporchi gratis. Perciò il New York Times domenica insisteva in un editoriale: «La chiave è costringere Putin ad agire». Quando il sito di REvil è misteriosamente scomparso, non è parso un caso che pochi giorni prima Biden avesse chiesto a Putin d'intervenire. Anche se esperti sostengono che ora operi insieme ai fuggiaschi di DarkSide sotto il nome, BlackMatter, Materia Nera, mentre altri ipotizzano che a sbarazzarsene siano stati gli stessi Usa. Il problema è che Putin difficilmente rinuncerà a quella che, complice o meno che sia, è diventata una preziosa leva di negoziazione. Più grande è il danno, più - pensa - Washington alzerà la posta pur di garantirsi la sua cooperazione. E «seppure la Russia diventasse un territorio ostile - avverte Brett Callow, analista di Emsisoft, e con lui diversi esperti di cybersicurezza - cominceremmo a vedere operatori in Brasile, Nord Corea o altrove». I pirati informatici troveranno sempre una loro isola felice.

Da tgcom24.mediaset.it il 3 agosto 2021. "Il grave attacco cibernetico al sito della Regione Lazio e, in particolare, l'attività della polizia postale nell'opera di contrasto dell'attività criminale, le modalità di attacco e i suoi principali obbiettivi" sono stati al centro dell'audizione al Copasir del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese. Il ministro ha anche illustrato la "recrudescenza del fenomeno, che negli ultimi mesi ha colpito sia attività pubbliche sia private".

(ANSA il 3 agosto 2021) - "Entro 72 ore verranno ripristinate le funzionalità per le nuove prenotazioni di vaccino, con le medesime modalità di prima. È in corso una trasmigrazione e la deadline è quella delle 72 ore". Lo ha detto a Sky TG24 Alessio D'Amato, assessore alla Sanita della Regione Lazio, parlando degli effetti dell'attacco hacker che ha colpito la Regione. "Le somministrazioni in questi giorni non si sono mai interrotte - ha aggiunto -, secondo le prenotazioni precedenti che erano state prese, per cui non c'è mai stata l'interruzione della campagna vaccinale".

(ANSA il 3 agosto 2021) - Saranno anche i pm dell'antiterrorismo ad indagare sul violento attacco hacker alla Regione Lazio. In procura a Roma ieri pomeriggio è arrivata una prima informativa della Postale. Il procuratore Michele Prestipino ha affidato gli accertamenti anche ai magistrati che si occupano dei reati informatici coordinati dal sostituto Angeloantonio Racanelli. Nel fascicolo si procedere contro ignoti. Contestati vari reati tra cui accesso abusivo a sistema informatico e tentata estorsione. Il procedimento coinvolge i due pool di pm alla luce del fatto che l'attacco, ancora in corso, ha colpito un sistema informatico complesso come quello del Lazio anche dal punto di vista del profilo dei dati sensibili e personalità dello Stato a cominciare dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e del premier Mario Draghi.

(AGI il 3 agosto 2021) - L'attacco hacker al portale della Regione  Lazio e le aggressioni subite dalle forze dell'ordine che  presidiano i cantieri della Tav. Sono questi i temi, tra gli  altri, che il Copasir intende affrontare e approfondire tra oggi  e domani. Si comincia alle 13 con l'audizione del ministro dell'Interno, il prefetto Luciana Lamorgese e si prosegue domani  alle 14 con quella del direttore del Dis, l'ambasciatore Elisabetta Belloni. 

(ANSA il 3 agosto 2021)  "Questa notte i sistemi informativi della Regione Lazio hanno subito e respinto l'ennesimo attacco, resta massima l'attenzione e la collaborazione con le autorità competenti per ripristinare la sicurezza". Lo comunica in una nota la Regione Lazio. (ANSA). 

(ANSA il 3 agosto 2021) Nel fascicolo avviato dalla Procura di Roma, in relazione all'attacco hacker alla Regione Lazio, viene contestata anche l'aggravante delle finalità di terrorismo. Tra le fattispecie ipotizzate dai pm, coordinati dal procuratore Michele Prestipino, anche danneggiamento a sistema informatici. In base a quanto accertato al momento dagli inquirenti, l'attacco sarebbe partito dall'estero con rimbalzo in Germania. Chi indaga vuole accettare anche la matrice del blitz informatico. (ANSA).

(ANSA il 3 agosto 2021) "Entro 72 ore verranno ripristinate le funzionalità per le nuove prenotazioni di vaccino, con le medesime modalità di prima. È in corso una trasmigrazione e la deadline è quella delle 72 ore". Lo ha detto a Sky TG24 Alessio D'Amato, assessore alla Sanita della Regione Lazio, parlando degli effetti dell'attacco hacker che ha colpito la Regione. "Le somministrazioni in questi giorni non si sono mai interrotte - ha aggiunto -, secondo le prenotazioni precedenti che erano state prese, per cui non c'è mai stata l'interruzione della campagna vaccinale". (ANSA).

Jaime D'Alessandro per "la Repubblica" il 3 agosto 2021. 

Come viene organizzato un attacco?

L'operazione contro la Regione Lazio è stata studiata fin nei minimi dettagli. Se così non fosse, significherebbe una fragilità informatica imperdonabile per una struttura simile. Chi organizza attacchi di questa portata in genere ha ben chiaro quali sono le risorse della vittima: dai computer ai server, dai sistemi di sicurezza alle terze parti che collaborano a stretto contatto e che sono spesso l'anello più debole. 

Come scatta la trappola?

Nella stragrande maggioranza dei casi, concorre un errore umano. Un dipendente riceve una mail con un link o un documento allegato in apparenza innocuo o proveniente da una fonte nota, un fornitore ad esempio che a sua volta è stato hackerato. Aperto il documento, il virus prende possesso prima della macchina e poi della rete aziendale. Non sempre si tratta di attacchi che mirano a richiedere un riscatto, possono "limitarsi" a copiare informazioni. Nel 2020, gli attacchi cyber messi a segno globalmente erano prevalentemente malware (42%), virus, tra i quali spiccano i cosiddetti ransomware (29%) come quello usato contro la Regione Lazio.

Cos'è un ransomware?

È una tipologia di virus che limita o impedisce l'accesso ai dati contenuti sul dispositivo infettato. In pratica tutte le informazioni di un'azienda e a volte la copia delle stesse contenute nei server, vengono criptate e diventano illeggibili. Quello usato contro la Regione Lazio è della tipologia Lockbit 2.0, molto veloce a criptare le informazioni. Gli attaccanti a quel punto chiedono un riscatto offrendo in cambio di riportare i file allo stato originale.

Perché l'attacco scatta di notte?

Il virus in genere viene inoculato prima. L'attacco parte di notte perché il personale si potrebbe accorgere di anomalie di giorno. 

Se si paga, si ha la garanzia di avere indietro le informazioni?

No. Alcuni gruppi hacker si fanno un vanto della loro "correttezza" una volta che hanno ricevuto quel che volevano. Eppure Secondo il State of Ransomware Report 2021 di Sophos, solo l'8% delle vittime ottiene poi il ripristino totale delle informazioni criptate. In genere si arriva al massimo al 65% di quel che esisteva prima dell'attacco.

A quanto ammonta di media il riscatto chiesto?

Dipende dalla stazza e dall'importanza della vittima. La media nel 2021 è stata di 90mila euro. Le cifre chieste più di frequente non superano i 10mila euro, ma in certi casi si possono raggiungere diversi milioni o decine di milioni di euro. 

Quali altri danni produce un attacco importante?

Il danno medio era di 594mila euro nel 2020, diventati poi 1,5 milioni nel 2021. Questo include il tempo delle persone coinvolte per risolvere il problema, il ripristino delle infrastrutture, le perdite finanziarie. 

Perché il riscatto viene chiesto in bitcoin?

Essendo una moneta virtuale, un codice alfanumerico che qualsiasi agenzia di cambio di criptovalute può convertire in denaro, è molto difficile da tracciare. Specie poi se il conto dove versare la cifra richiesta è in qualche paradiso fiscale, dal quale poi viene subito spostata su altri conti fino a sparire senza lasciare tracce. 

Adesso indaga anche l'antiterrorismo. Attacco hacker Regione Lazio, al vaglio un pc di un dipendente in smartworking. Serena Console su Il Riformista il 3 Agosto 2021. L’attacco informatico al Ced (Centro elaborazione dati) della Regione Lazio sarebbe riuscito grazie alla “violazione di un’utenza di un dipendente in smartworking“. Non ha dubbi l’assessore alla Sanità del Lazio, Alessio D’Amato che, intervistato da Italian Tech, ha affermato come il sistema sia stato colpito in un momento di smartworking, quando il livello di allerta si abbassa. Ma l’elemento che preoccupa di più le autorità è che “è stato criptato anche il backup dei dati. I dati non sono stati violati ma sono stati immobilizzati”, ha confermato D’Amato a Italian Tech. A preoccupare le autorità è la banca dati degli oltre 5,8 milioni di cittadini residenti nella regione Lazio. Sul caso la Procura di Roma ha aperto un fascicolo. Si procede per diversi reati tra cui l’accesso abusivo a sistema informatico e la tentata estorsione, con l’aggravante delle finalità di terrorismo. Tra le fattispecie ipotizzate dai pm, coordinati dal procuratore Michele Prestipino, anche danneggiamento a sistema informatici.

Attacco hacker alla Regione Lazio, il sito per le vaccinazioni è k.o. Il sito della Regione Lazio è ancora sotto la morsa dell’attacco dei pirati del web, che hanno preso di mira il Centro elaborazione dati regionale, provocando il blocco del portale Salute, con il sistema di prenotazioni Cup, e della rete vaccinale. Un’operazione iniziata nella notte tra sabato e domenica, quando i pirati informatici sono riusciti a inserire nel sistema un ransomware, che cripta i dati, ossia li rende illeggibili.

Audizione al Copasir. L’attacco probabilmente arriva dall’estero, rimbalzando in Germania, ma è ancora troppo presto per conoscere il punto da cui è stata lanciata l’azione. Il potente attacco ha messo in allarme i reparti della Difesa. Per questo, c’è attesa per l’audizione di oggi al Copasir della ministra dell’Interno Lucia Lamorgese, mentre domani ci sarà l’intervento di Elisabetta Belloni, a capo del Dipartimento per le informazioni della sicurezza.

Per il timore che i dati sensibili finiscano nelle mani dei pirati informatici, il Consiglio regionale del Lazio ha sospeso i sistemi informatici collegati a tutti i servizi sanitari. Stop quindi alle prenotazioni di vaccini ma anche di tutte le visite ospedaliere attraverso i sistemi Cup e Recup, stop agli screening programmati e alla fatturazione elettronica. Bisognerà attendere anche per scegliere e revocare il proprio medico di base. Per il rilascio del green pass, a pochi giorni dalla sua entrata in vigore, l’assessore alla Sanità Alessio D’Amato ha dovuto ammettere che ci saranno rallentamenti “rispetto alle modalità usuali” a causa dell’attacco hacker.  Mentre si lavora per ripristinare il ced regionale, D’Amato ha rassicurato i cittadini affermando che nessun dato sanitario è stato trafugato. Probabile il ripristino del servizio entro 72 ore, quando i cittadini potranno nuovamente prenotare per ricevere il vaccino anti Covid. Lo ha affermato questa mattina D’Amato a Sky Tg24, che ha però puntualizzato: “Restano sospese le prenotazioni per le visite specialistiche ambulatoriali e pagamento ticket, che entro la settimana dovrebbero riprendere – ha spiegato l’assessore – Mentre è regolarmente funzionate tutto quello riguarda la rete di emergenza e urgenza”.

“Atto terroristico”. Conferme sul tema arrivano anche dal Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti che, intervenuto questa mattina ad Agorà Estate su Rai 3, ha sottolineato che “Nessun dato sanitario o finanziario è stato trafugato. Tutti i dati sono in sicurezza ora vanno trasferiti su altre piattaforme”. L’attacco hacker al Ced del Lazio è, secondo il presidente della Regione Zingaretti, “un atto terroristico” di enorme gravità. Quanto accaduto desta la preoccupazione dei vertici della Regione che, però, guardano all’obiettivo della campagna vaccinale, che va avanti. Zingaretti ha lanciato un appello a chi ha già la prenotazione di presentarsi all’hub per ricevere la prima o seconda dose del siero. “Stiamo lavorando giorno e notte: contiamo nei prossimi giorni di far partire il portale delle prenotazioni”, ha detto Zingaretti in merito ai tempi di ripristino dei portali della Regione Lazio. Perché anche questa notte sono proseguiti gli attacchi informatici che, però, sono stati tutti respinti. Resta massima l’allerta. La Regione Lazio, in una nota, rassicura sulla messa in sicurezza dei dati. “Allo stesso tempo sono stati isolati e messi in sicurezza in appositi cloud tutti i dati dei servizi che non sono stati attaccati, come i dati sanitari – si legge nella nota -. Attualmente, si ricorda ancora una volta, che sono attivi i servizi della protezione civile, del 118, del 112 e del centro trasfusionale. I dati del bilancio regionale sono in sicurezza ed entro la fine di agosto saranno riattivati anche i sistemi di pagamento regionale. Questa notte i sistemi informativi della Regione Lazio hanno subito e respinto l’ennesimo attacco, resta massima l’attenzione e la collaborazione con le autorità competenti per ripristinare la sicurezza”. Dallo staff del presidente escludono la possibilità di pagare un riscatto. Al momento non è stata avanzata alcuna richiesta, ma resta un’ipotesi al vaglio degli investigatori perché, ha precisato il presidente del Lazio ad Agorà Estate, “questo genere di cyber attacchi prelude appunto a una richiesta di riscatto o alla vendita all’asta dei codici sulle dark room”. L’attacco però apre un dibattito sulla lenta corsa alla digitalizzazione che il nostro Paese ha fatto negli ultimi anni. “Quanto accaduto dimostra che l’Italia è in ritardo sul digitale, dobbiamo correre sulla cybersecurity”, ha affermato Zingaretti.

“La pandemia ha alimentato il fenomeno dei cyber attacchi”. “Il crimine digitale non ha le classiche delimitazioni. La Rete ha travolto i confini, tanto più che gli attacchi vengono commessi in una realtà transnazionale, con la sovrapposizione di diversi sistemi legislativi e differenti norme sul trattamento dei dati. Fondamentale è la collaborazione internazionale”. A spiegarlo, in un’intervista al quotidiano ‘La Stampa’, è Nunzia Ciardi, direttore della polizia postale e delle comunicazioni che, interpellata sull’attacco ai sistemi informatici della Regione Lazio, ha sottolineato come al momento sia “prematuro affermare con certezza la provenienza geografica di un attacco, perché esso può partire da un Paese per poi passare a un altro prima di arrivare a destinazione”. Una valutazione che è frutto dell’analisi fatta nel corso di questi anni, con l’aumento degli attacchi cyber che si è registrato soprattutto durante la pandemia di Covid-19. Secondo Ciardi, “La pandemia ha infatti impresso un’accelerazione a un settore che era già in salita. Tra smart working, didattica a distanza, spesa online è aumentato a dismisura il numero delle operazioni nel web e questo ci ha reso più esposti e più vulnerabili. Anche perché navighiamo con connessioni non sicure”. Quindi spiega: “Dal 2019 al 2020 gli attacchi alle infrastrutture del nostro Paese sono lievitati del 246 per cento. E non va bene neanche per pedopornografia e adescamenti online, con crescite del 130 per cento”. Serena Console

Zingaretti: "Il più grave attacco nella storia della Repubblica". Perché gli hacker hanno attaccato il sito della Regione Lazio e che riscatto chiedono. Claudia Fusani su Il Riformista il 3 Agosto 2021. «L’attacco è ancora in corso», il sistema è «spento per evitare danni più gravi», siamo alle prese con «il più grave attacco nella storia della Repubblica», la matrice «è sconosciuta», è un attacco «terroristico» ma «non riuscirà a fermare la campagna vaccinale e l’erogazione del green pass» che al momento è «solo rallentata di qualche ora». Le parole del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti riecheggiano alle tre del pomeriggio di un infuocato agosto. Sono parole che rassicurano ma anche terrorizzano. E improvvisamente nella prima domenica d’agosto anche l’Italia tocca con mano il significato del vaticinio di molti esperti di settore: «La prossima sarà un pandemia informatica con effetti economici più gravi di quella del covid». Il vero rischio per il mondo non sono i virus come il coronavirus ma quelli che attaccano i sistemi informatici cui sempre di più abbiamo affidato le nostre vite. Gli attacchi informatici sono purtroppo sempre più diffusi – non solo in Italia – l’Europa sta facendo il possibile per proteggersi, il Recovery fund destina una parte importante di risorse per questo e anche l’Italia, pur con un colpevole ritardo di tre anni, ha dato il via all’Acn, l’agenzia nazionale per la cybersicurezza (votata alla Camera, avrà il via libero definitivo in settimana dal Senato). Ma l’attacco plurimo al Ced della Regione Lazio, al di là della stretta cronaca criminale, assume una valenza politica e sociale speciale: gruppi no vax e no pass sono, al di là dei numeri assoluti, particolarmente aggressivi e non c’è dubbio che l’attacco abbia provocato un danno alla campagna vaccinale visto che è stato disattivato il Portale della Salute Lazio e il sistema delle rete vaccinale su cui viaggiano le prenotazioni e l’erogazione del Green pass. Ora, nulla mette insieme l’attacco cyber al Ced della regione Lazio con le piazze no vax e con la marcia squadrista che una settimana fa è andata sotto casa del sindaco di Pesaro Matteo Ricci. Ed è sicuramente una coincidenza il fatto che Zingaretti e Ricci siano politici targati Pd. Enrico Borghi, deputato dem e membro del Copasir, parla però di «fatto estremamente grave perché è stata attaccata una delle istituzioni simbolo dell’efficienza della campagna vaccinale nel nostro Paese e una delle istituzioni che nelle sue banche dati possiede dati sensibili e personali delle più alte cariche dello Stato». Motivo per cui domani il Copasir sentirà in audizione la dottoressa Belloni, direttore del Dis e il prefetto Franco Gabrielli, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega all’intelligence che insieme al ministro Colao ha scritto la legge istitutiva di Acn.

Attacco hacker alla Regione Lazio, il sito per le vaccinazioni è k.o. La polizia postale, guidata dalla dottoressa Nunzia Ciardi, e il cyber zar Roberto Baldoni che guida il dipartimento cybersicurezza del Dis (uno dei due sarà nominato a breve direttore della Acn), stanno in queste ore incrociando dati per capire l’origine del cyberattacco. Oltre che per ristabilire il servizio mettendolo in sicurezza. Le evidenze al momento sono poche ma preziose. Il malware (il software cattivo) o il virus arriva dalla Germania, informazione che non esclude triangolazioni visto che il luogo sorgente dell’attacco non sempre corrisponde a quello che pianifica l’attacco e che può essere ovunque. Nel mirino ci sono i paesi dove la produzione di malware e ransomware è pane quotidiano, Russia e Cina ad esempio. Un secondo elemento è che nonostante sui monitor del Ced Lazio siano apparse alcune indicazioni, non si tratta di un furto di dati con estorsione, cioè con richiesta di riscatto (ransomware). Lo ha escluso “categoricamente” Nicola Zingaretti in conferenza stampa. Pur avendo colpito il Centro Cup e quello per i vaccini, «non sono state sottratte storie sanitarie» e quindi informazioni anagrafiche sui cittadini, e neppure dati bancari. Gli hacker non sono quindi in possesso di merce da scambiare e su cui chiedere riscatti. Hanno però creato sicuramente un danno. Non è la prima volta nell’ultimo anno, né in Italia né in Europa. La sequenza di attacchi segue tempistiche precise che coincidono per i passaggi più difficili di questa pandemia. Da marzo 2020 sono stati attaccati in sequenza l’ospedale San Raffaele a Milano (marzo 2020) e lo Spallanzani a Roma (aprile 2020), due centri sanitari cruciali nell’analisi dei dati sul Covid. Con l’estate gli attacchi sono cessati. Per poi riprendere in Germania (settembre 2020) alla clinica sanitaria di Dusseldorf e a dicembre, il più clamoroso, quando è stata attaccata la banca dati dell’Ema in Olanda. Furono sottratti i dati relativi al processo di approvazione di Pfizer. Eravamo tutti in attesa che Ema desse il via libera al vaccino (24 dicembre). Questi tipi di attacchi possono avere due diversi attori: entità statuali, cioè Stati che vogliono rubare dati preziosi; hacktivisti come il gruppo Lulzsec che rivendicò l’attacco al San Raffaele. Le indagini della polizia postale in queste ore stanno cercando di capire se ci sono link tra i gruppi che nel deep web in queste settimane stanno organizzando le piazze no vax e no pass in Italia. Le stesse che poi hanno ordinato di andare in missione sotto casa del sindaco Ricci a Pesaro.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Arturo Di Corino Bruno Ruffilli per "la Stampa" il 3 agosto 2021. L'attacco ransomware ai sistemi informativi della Regione Lazio non è il primo e non sarà l'ultimo nel nostro Paese. Cominciato nella notte tra sabato e domenica, è stato così grave da bloccare le prenotazioni per la vaccinazione anti-Covid di una delle regioni che procedono più velocemente e questo ha fatto subito gridare al complotto. Criptovalute per riavere i dati Lo strumento usato è un ransomware, un software malevolo che blocca l'uso dei dati e dei sistemi compromessi fino al pagamento di un riscatto (ransom, da cui il nome). Il ransomware può funzionare come un lucchetto che impedisce l'accesso a tutti dati, o cifrarne solo alcuni e renderli inutilizzabili, dopo che gli attaccanti li hanno copiati o distrutti. I criminali quindi contattano le vittime e assicurano che dopo il versamento del riscatto tutto tornerà alla normalità. Il riscatto è di solito commisurato alle possibilità economiche dell'azienda e viene richiesto in criptovalute, monete digitali più difficili da tracciare di quelle comuni. Di norma i criminali tendono a mantenere la loro parola, costruendosi una sorta di buona reputazione che permette loro di mantenere vivo il business. Tuttavia il pagamento non costituisce mai una garanzia di riavere i dati: può succedere che le vittime non ricevano i codici per sbloccare file e sistemi oppure finiscano in liste di pagatori scambiate nei forum del Deep Web, trasformandosi così in prede abituali. E non c'è alcuna garanzia che i dati ottenuti illegalmente non siano comunque utilizzati. Il software in affitto Negli ultimi mesi molte realtà italiane sono state oggetto di questi attacchi: il settore tessile, manifatturiero, della meccanica di precisione, della motoristica e dell'alimentare, aziende legali e assicurative. Le aree geografiche più colpite sono state il Nord-Ovest, la motor valley e la food valley nella Pianura padana. L'anno scorso erano stati presi di mira campioni dell'industria nazionale come Enel, Carraro, Campari Group. I cybercriminali hanno nomi singolari che trasferiscono ai loro strumenti e viceversa: Avaddon, Conti, Egregor, Maze, DoppelPaymer, REvil, Darkside eccetera. Gli ultimi due sono saliti alla ribalta per aver bloccato l'erogazione di energia in Texas e la distribuzione delle carni della multinazionale JBS. Il ransomware è tra gli strumenti di cybercrimine più diffusi e più dannosi. Secondo l'ultimo rapporto Ibm, per le aziende italiane il costo medio di un attacco è passato da 3,19 a 3,61 milioni di dollari, un aumento del 13,5%. Ma il record spetta agli Usa, con oltre 9 milioni di dollari. Così i sindaci di decine di comuni americani hanno stretto un patto contro i ransomware per decidere di non pagare riscatti ed evitare di incentivare queste aggressioni. Forse l'aiuto di una talpa Il ransomware che ha obbligato le autorità laziali a spegnere tutti i sistemi informatici sembrerebbe il Lockbit 2.0, un malware progettato per esfiltrare, cioè rubare, le informazioni sensibili immagazzinate in un dispositivo infetto, che sia un computer o un server. In genere viene attivato quando si cliccano documenti sbagliati o link nelle email, soprattutto quelle che arrivano da mittenti di cui ci fidiamo. E potrebbe aver colpito il cuore della sanità laziale passando attraverso l'account di un fornitore, forse - ma siamo nel terreno delle ipotesi - anche con il contributo di una talpa. La nuova versione di Lockbit, aggiornata poche settimane fa, è uno strumento criminale tra i più efficienti. Al pari di altri ransomware simili, viene distribuito come software as a service, cioè come «software a consumo», o in affitto: realizzarlo è difficile, ma può usarlo chiunque abbia un minimo di competenza informatica. Il software è ingegnerizzato per non colpire i Paesi dell'Est Europa, e le gang che finora lo hanno impiegato per colpire l'Italia sono spesso di origine russa. Anche un precedente attacco di Lockbit, risalente al 22 giugno nei confronti dell'azienda energetica Erg, ci conduce a un indirizzo russo. Ma le preoccupazioni per questo attacco non finiscono qui. Mentre fino a qualche tempo fa le gang del ransomware avevano dichiarato che non avrebbero colpito aziende e servizi sanitari, l'episodio della Regione Lazio apre uno scenario nuovo e pericoloso. Rubare i dati vaccinali di una popolazione, infatti, potrebbe avere un valore non solo monetario.

Attacco hacker in Lazio, ultimatum di 72 ore: attivata trattativa per il riscatto. Debora Faravelli il 05/08/2021 su Notizie.it. La Regione Lazio ha 72 ore di tempo per decidere come comportarsi dopo l'attacco hacker: nella richiesta di riscatto è contenuto anche un ultimatum. Gli hacker che hanno perpetrato un attacco al sistema informatico della Regione Lazio hanno lanciato un ultimatum di 72 ore, passato il quale non è chiaro cosa potrebbe accadere: il conto alla rovescia era contenuto nella richiesta di riscatto inviata dai pirati della rete. Gli esperti non escludono che ad attivare la richiesta di riscatto sia stato il meccanismo interno al malware, che in mancanza di una risposta da parte delle vittime ha fatto partire l’ultimatum per costringerle a prendere una decisione in un tempo prestabilito. Il timore è comunque che si possano perdere definitivamente tutti i dati cifrati dagli incursori, compresi quelli dell’unico backup di rete fatto dalla Regione Lazio che si è trovata senza copie dell’enorme database violato. La Postale sta intanto continuando le indagini per chiarire questo aspetto. A lasciare perplessi è anche il contenuto del messaggio fatto trovare nel virus che comincia con un amichevole “Hello Lazio!”, che potrebbe dimostrare una scarsa conoscenza dell’obiettivo colpito. Nel testo, tutto in inglese, si legge che i file sono criptati: “Non provate a modificare o rinominare nessuno di essi perché potrebbe subentrare una perdita di dati piuttosto seria”. 

Giuseppe Bottero per "la Stampa" il 4 agosto 2021. «È successo una domenica. C'era un flusso anomalo di dati dai server italiani verso Zurigo: nel giro di un'ora e mezza abbiamo spento tutto. Per un mese non abbiamo avuto modo di usare i processi informativi in azienda». È una mattina di novembre quando Bob Kunze-Concewitz, l'uomo che ha portato Campari nel futuro, si trova catapultato negli Anni Sessanta. Niente reti, comunicazioni scritte a mano, ordini che si bloccano, fatture da recuperare. Gli hacker hanno colpito, ed è uno choc. Lo stesso che, più o meno in quel periodo, vive una serie infinita di aziende italiane. Dal cibo di Eataly - che si è vista paralizzare l'e-commerce, ma è riuscita a tenere aperti i negozi - all'energia dell'Enel, i cyberpirati fanno pochissimi prigionieri. «Qualcuno, a un certo punto, ha messo nel mirino la nostra rete per ottenere un riscatto. Siamo riusciti a bloccarlo in tempo» racconta Alberto Soresina, l'uomo a cui Unieuro, il gruppo leader nella distribuzione di elettronica di consumo ed elettrodomestici ha affidato la costruzione di uno scudo digitale. «Abbiamo isolato gli asset principali - spiega - ma l'attacco può arrivare in qualunque momento. Ormai nessuno si può più collegare ai nostri sistemi prima di essere identificato». Il Coronavirus che ha sconvolto tutto ha alzato un velo sulla debolezza informatica del Paese. «L'Italia è sul podio degli Stati che subiscono più offensive. Questo è dovuto alla scarsa consapevolezza delle piccole e medie imprese - ragiona Valerio Rosano, Country Manager Zyxel, multinazionale nata Taiwan specializzata in wireless e sicurezza che ha la sede italiana principale a San Mauro Torinese -. Mentre si è ormai consolidata la coscienza dell'importanza degli strumenti digitali, la cybersecurity è ancora vista come una spesa e non come una necessità». Il prezzo da pagare è altissimo: 7 miliardi l'anno, dice la società specializzata Innovery. «Spesso nella pubblica amministrazione e nelle grandi aziende non si rispettano le misure base della sicurezza e c'è un diffuso analfabetismo informatico - conferma l'esperta Fabiana Lanotte -. Anche dove esiste un portale super sicuro, solo per fare un esempio, il rischio diventa altissimo se non vengono custodite bene le password». Chi ha affrontato un attacco, come i dipendenti della multiutility Iren, racconta di archivi dei clienti impossibili da raggiungere, di una centrale del pronto intervento scollegata dalla rete, della difficoltà di spedire e ricevere messaggi di posta elettronica. Un blackout. E l'obiettivo è sempre quello: il riscatto. «Abbiamo resistito a una doppia pandemia» ragionava a metà luglio Kunze-Concewitz, che dopo la paura ha «investito tanto» e trasferito «tutto in cloud con sistemi di autenticazione per la sicurezza ancora più potenti». Nei giorni della grande offensiva si può incappare in blocchi anche senza essere i bersagli. Alla Miroglio di Alba, nel Cuneese, hanno pagato i contraccolpi di un fornitore di software, finito sotto scacco. Un imprenditore che lavora con gli Stati Uniti racconta come un cliente del Michigan, all'improvviso, abbia congelato tutti i lavori commissionati. «Ci hanno spiegato che non potevano accendere neanche la luce. Tutto era partito da un file excel ricevuto via mail, che aveva fermato il sistema della centrale di co-generazione, capace di produrre sia riscaldamento sia energia elettrica». Il costo per uscire dall'incubo: più di centomila dollari. «L'ultimo attacco rischiava di paralizzarci», dice Andrea Maspero, a capo del gruppo che, in questi mesi, è impegnato nel restyling degli ascensori della sede dell'Onu a Ginevra. Dopo lo spavento, prosegue, «abbiamo digitalizzato e automatizzato tutti i processi che consentono anche le operazioni di manutenzione da remoto. Abbiamo cercato di cogliere l'occasione per riorganizzare l'azienda». Già, serve un approccio completamente diverso. Ma è complesso, specie in un Paese alle prese con diseguaglianze croniche. «Il 75% dei 3850 Comuni montani italiani ha ancora il server sotto la scrivania - riflette Marco Bussone, presidente dell'Uncem-. Solo il 25 per cento dei Comuni montani è andato in cloud. E solo il 5 per cento ha scelto la fibra appena posata collegando i municipi. Siamo molto preoccupati». Di fronte c'è un nemico di difficile da fermare. «L'anno passato, con gli attacchi agli ospedali, ha reso ancora più evidente che i criminali non hanno alcuna remora, nessuna etica - commenta Gabriele Faggioli, legale e amministratore delegato di Partners4innovation oltre che presidente del Clusit -. Tutto quello che può essere fatto per ottenere denaro sarà fatto. Con buona pace dell'impatto degli attacchi sulla vita delle persone».

Valentina Errante Cristiana Mangani per "il Messaggero" il 4 agosto 2021. Se fosse stata un'azione terroristica con fini politici o ideologici, la rivendicazione potrebbe arrivare sabato 7 agosto, a una settimana dalla diffusione del virus che ha mandato ko il Centro elaborazione dati della Regione Lazio, criptando i riferimenti personali di milioni di cittadini, paralizzandone le attività e, con molta probabilità, copiando tutte le informazioni in memoria (non soltanto quelle relative alla Sanità). Come usano fare i criminali informatici. Ma è molto più probabile che i pirati del web abbiano agito a scopo estorsivo. E allora, calcolano gli investigatori sulla base di esperienze pregresse, per una simile mole di dati, potrebbero chiedere un riscatto di 5 milioni di euro in bitcoin. Sono questi i due scenari sullo sfondo dell'attacco hacker contro i server virtuali della Regione. Almeno secondo le modalità con cui agisce chi si serve di Ransom.EXX, una famiglia di virus che entra nei sistemi informatici, li infetta e, mentre cripta i dati trasformandoli in stringhe di numeri e sillabe, li copia. Per poi venderli. Come accaduto con i 2 gigabyte di documenti del Consiglio nazionale del Notariato, hackerato pochi mesi fa. Intanto l'assessore Alessio D'Amato annuncia che venerdì riprenderanno le prenotazioni per i vaccini.

VENDITA DEI DATI Lo stesso potentissimo virus è già stati utilizzato contro altre istituzioni italiane. E, nel caso in cui le vittime non abbiano avviato la trattativa per ottenere la chiave di decriptazione con il pagamento del riscatto, le informazioni carpite sono state vendute sul dark web. A marzo, il Consiglio nazionale del Notariato ha subito un attacco informatico, la richiesta di criptovaluta è rimasta senza seguito e sulla rete sono finiti tutti i dati. Anche l'Ateneo di Tor Vergata ha dovuto fare i conti con un'aggressione, costata ai vertici dell'università, la diffusione delle informazioni personali del Rettorato. Ieri, la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese è stata ascoltata dai componenti del Copasir. Ci vorranno «anni» per recuperare i dati, ha chiarito. La gravità dell'hackeraggio ai server della Regione è «senza precedenti», perché è stato reso inutilizzabile, il backup. Lamorgese ha sottolineato che il fenomeno dei cyber-attacchi continua a crescere e quindi, c'è la «necessità di agire con urgenza per elevare il livello di sicurezza». La stessa urgenza che ha dato lo sprint in Senato al provvedimento che istituisce l'Agenzia per la cybersicurezza nazionale. Il testo approvato sarà al prossimo Cdm, per permettere al premier Mario Draghi di nominarne i vertici, che la legge mette alle sue dirette dipendenze. La necessità di un Sistema articolato si è resa quantomai necessaria, anche perché, negli ultimi mesi, molte realtà italiane hanno dovuto fare i conti con attacchi hacker, soprattutto nel Nord Ovest del Paese. E l'allarme continua a essere molto elevato: attraverso le password di accesso del dipendente di LazioCrea, che era in smart working, i cyber criminali potrebbero assestare altri colpi nei confronti di enti e istituzioni. Nei mesi scorsi hanno già sabotato i sistemi di importanti società dell'energia, della farmaceutica e di fornitori di servizi e-mail. Le credenziali di accesso dell'amministratore di Frosinone sono, infatti, collegate, a una grande società specializzata in servizi di sviluppo software, che offre consulenza a molte istituzioni, e che sarebbe stata all'origine dell'attacco.

ASL E OSPEDALI Dal Cnaipic (Centro nazionale anticrimine informatico) avvertono: «Ci sono grossi rischi per le società di gestione di Asl e ospedali». Sistemi che - a giudicare dalla scarsa barriera di difesa della Regione Lazio - hanno mostrato tutta la loro debolezza. In questo momento, poi, secondo gli investigatori, ad agire sarebbero due attori differenti, e questo spiegherebbe perché i vari attacchi siano avvenuti da software leggermente diversi tra loro. Il virus Lockbit 2.0 per le aziende e un Ransom.EXX per la Regione. Il primo ha una sua precisa caratterizzazione, perché è confezionato da cyber criminali e poi rivenduto in cambio di una quota dei riscatti ottenuti. Non si può escludere, infatti, che il soggetto originario abbia forzato l'accesso al sistema per poi rivendere la chiave ad altri e diversi attori. Ed è per questo che la procura di Roma che sta indagando sui diversi episodi, ha deciso di schierare anche il pool di magistrati dell'Antiterrorismo, ipotizzando, oltre alla tentata estorsione, l'aggravante della finalità terroristica. 

La "falla" in Engineering. Lazio scarica su Leonardo. Stefano Vladovich il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. La Pisana difende LazioCrea e accusa la società che smentisce. Il buco nei sistemi di protezione. Tutto ruota attorno ai file di log. Ovvero alle tracce lasciate dai pirati informatici che sabato notte hanno «sfondato» le porte della sanità regionale del Lazio gabbando i sistemi di sicurezza. A tre giorni dall'hackeraggio del portale pubblico con i dati di tutti i residenti della Regione, gli inquirenti, polizia postale e Digos, lavorano giorno e notte per ricostruire, a ritroso, il percorso effettuato per entrare nel pc lasciato acceso da un funzionario della Asl di Frosinone. Poche certezze, fra queste: il dirigente non era in smart working e il terminale era al suo posto, ovvero in ufficio. L'uomo non stava navigando e nessuno è entrato direttamente nel sistema di accesso al pc. Dalla presidenza del consiglio regionale precisano che non si tratta di una sbadataggine, il computer può anche restare acceso ma senza le credenziali non si accede a nulla. Insomma, nessuno si è introdotto fisicamente nella struttura stessa. «Il pc è come una finestra lasciata aperta ma con le sbarre davanti. I pirati hanno divelto quelle da remoto» aggiungono. Le indagini, coordinate dalla Procura di Roma, puntano soprattutto a stabilire se si sia trattato o meno di un atto estorsivo. Nessuna richiesta di riscatto, come temuto nelle prime ore della violazione. A rischio, però, i dati di tutta la popolazione, comprese personalità da «allerta uno», come il presidente della Repubblica. Il trojan utilizzato per schiavardare il sistema di LazioCrea, un malware detto ransomware cryptolocker, sarebbe passato attraverso la società che si occupa proprio della sicurezza di tutto il portale regionale con il data base di milioni di assistiti, la Engineering. Ma su questo gli investigatori non parlano. Tutto top secret, anche se da ieri a supportare la polizia sarebbero arrivati nella capitale esperti informatici dell'Europol e dell'Fbi. Obiettivo: trovare gli autori, o l'autore, del cyberattacco prima che i dati criptati possano finire nelle mani sbagliate. La Pisana, dal canto suo, assicura che nulla è andato perso e il Ced, nonostante sia spento, conserva ogni singolo dato. Per altri giorni, almeno fino alla fine della prossima settimana chiarisce l'assessorato alla Sanità, non sarà possibile scaricare on line cartelle cliniche, accedere a prenotazioni di visite e vaccini, ottenere il green pass vaccinale. Soprattutto collegarsi con il Centro di Prenotazione Unica. «Gli utenti potranno farlo - spiega l'assessorato - recandosi di persona ai Cup di ospedali e poliambulatori». Da oggi per i residenti della Asl 1 sarà operativo il sistema di prenotazione telefonica temporaneo per visite ed esami con classe di priorità U e B. Una decisione, quella di chiudere ogni accesso web, che riporta indietro negli anni ma necessaria per far lavorare la polizia e mettere al sicuro dati sensibili che, probabilmente, gli hacker non hanno fatto in tempo a rubare. Braccio di ferro sulla responsabilità dei sistemi di sicurezza. La Regione difende LazioCrea e spiega che era «affidata a Leonardo tramite convenzione Consip». La società smentisce: «Non abbiamo mai avuto la gestione operativa dei servizi di monitoraggio e di protezione cyber di LazioCrea. Finora abbiamo erogato esclusivamente servizi di governance per la progettazione di un Security operation center (Soc) per definire processi e procedure nonché supporto per quanto riguarda la normativa sulla protezione dei dati personali». Stefano Vladovich

Antonella Aldrighetti per "il Giornale" il 4 agosto 2021. «Saranno ripristinati i servizi per la prenotazione dei vaccini e l'anagrafe vaccinale entro 72 ore». Così LazioCrea, l'azienda in house della Regione Lazio deputata alla gestione informatica e digitale del portale dell'ente territoriale informa, con un messaggio postato ieri pomeriggio su Facebook, i cittadini laziali dopo il blackout dell'intera rete internet. Senza troppi preamboli o dettagli, e senza neppure le scuse. Già, il blasone ne avrebbe risentito considerando che i dipendenti sono tutti assunti a chiamata diretta e indicati dalla politica. Una struttura elefantiaca che da quanto si evince dal bilancio regionale è costata all'erario, già lo scorso anno, 83 milioni di euro, così l'anno in corso e in previsione anche il prossimo. Da sommare, almeno per quest' anno altri 5,5 milioni di promozioni culturali. All'attivo vanta almeno 1.500 persone che si dovrebbero occupare meticolosamente di attività tecnico-amministrative, informatiche e di strategia digitale ma che potrebbero anche non avere le competenze adatte visto che un seppur sofisticato malware, ha mandato in tilt l'intera piattaforma senza che alcun sistema di difesa l'abbia protetto: un attacco partito dal pc di un dipendente di Frosinone in smart working. Ai vertici societari troviamo l'avvocato Luigi Pomponio sia in qualità di presidente del Cda che come ad: per la prima carica percepisce 20mila euro, per la seconda 110mila. È lui l'uomo di punta di LazioCrea cui, lo scorso anno, la regione ha chiesto di creare una piattaforma per gestire le prenotazioni dei vaccini: il sistema ha funzionato fino a 4 giorni fa. Ma ora per colpa di chi avrebbe dovuto allestire una schermatura idonea a tenere fuori malaware e cryptolocker la rete è stata violata. Infatti non si è trattato di un attacco al server sanitario come inizialmente qualcuno in Regione avrebbe voluto far credere, non solo. Tutta la rete a essere messa in ginocchio, compresa la posta elettronica e i fax collegati via internet. Tra consiglio regionale, presidenza e giunta per comunicare con l'esterno ciascuno usa il proprio smartphone e la propria rete internet. Tutto il resto è saltato. «Dal 2014, anno della fondazione di LazioCrea, per far funzionare l'azienda sono state impegnate decine di migliaia di euro allo scopo di semplificare i processi interni. Si potrebbe giustificare un blocco della piattaforma di 1 o al massimo 2 ore e non di giorni e giorni tira dritto Davide Barillari, consigliere regionale del Gruppo Misto - Bisogna fare chiarezza sul contratto di servizio con LazioCrea e verificare se ci sono delle penali quando si mettono a rischio dati sensibili di cittadini e altrettanto dati di importanza nazionale riferiti alla Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio». Sulla stessa lunghezza d'onda anche il sindacato Fials, che esprime preoccupazione sulla varietà di dati sensibili che in questo momento potrebbero andare persi: «Chi utilizza la rete per il proprio fascicolo sanitario, chi per gli esami clinici e i medici di famiglia che si collegano alla piattaforma regionale, tutti devono essere tutelati». Tuttavia a oggi ancora non è chiaro cosa sia successo all'intero server. «Manca solo l'ipotesi di un attacco da Marte perché da quando è accaduto il blocco della piattaforma Zingaretti ha messo sul tavolo tutte le ipotesi più surreali», chiosa il deputato della Lega Massimiliano Capitanio. E tra gli interrogativi rimane anche quello di come è stato gestito negli anni un ipotetico backup dei dati.

A. V. per "Libero quotidiano" il 6 agosto 2021. Milioni di mascherine acquistate da una ditta specializzata in lampadine, forniture di camici pagati e mai arrivati a destinazione mentre il personale medico e infermieristico del Lazio doveva fronteggiare i mesi durissimi della pandemia, e ora anche lo scandalo degli hacker che avrebbero violato un sistema informatico costato circa 25 milioni di euro. Ci sono molti interrogativi ai quali la Regione Lazio di Nicola Zingaretti dovrebbe rispondere, l'ultimo dei quali riguarda Laziocrea, la società ora al centro della vicenda dei pirati informatici su cui starebbe indagando l'Antiterrorismo, la polizia postale e perfino l'Fbi. Ma che cos' è esattamente Laziocrea? In teoria si tratta di una società, interamente partecipata dalla Regione Lazio, che l'affianca nelle attività tecnico-amministrative, informatiche e di strategia digitale, per gli addetti lavori, una newco frutto della fusione tra le società regionali LAit spa, specializzata in innovazione tecnologica, e Lazio Service spa, società di servizi ad alto valore aggiunto. In realtà ora si scopre che deve occuparsi anche di promozione delle bellezze del territorio del Lazio, di sagre paesane, serate dal vivo con mercatini e di spettacoli sul litorale laziale. Secondo quanto scrive l'edizione romana del quotidiano La Repubblica, a Laziocrea sarebbe arrivata un'iniezione di liquidità pari a 3.5 milioni di euro. Fondi che, da statuto, andrebbero spesi per la famigerata cybersicurezza e che invece potrebbero essere finiti in attività di tutt'altro tenore. A lanciare il sospetto sono, soprattutto, i consiglieri di Fratelli d'Italia che, carte alla mano, hanno tirato fuori un emendamento che prova lo stanziamento dei 3,5 milioni per la promozione culturale del Lazio. «Ma non sarebbe stato meglio investire questi soldi per rafforzare i sistemi di sicurezza?», ha chiesto la consigliera regionale di Fdi, Chiara Colosimo. «Qualcuno alla fine dovrà dirci la verità su questa vicenda», ha dichiarato. E nel mirino dei meloniani è finito Daniele Leodori, vicepresidente della Regione nonché firmatario del discusso emendamento nel quale, si ribadisce, non si fa cenno di cybersicurezza. Alla Pisana, sede del consiglio regionale del Lazio, è scoppiata, dunque, la polemica con il centrodestra ad attaccare sulla gestione opaca dei soldi e il Partito democratico a tentare una difesa imbarazzata. Alla fine lo stesso Leodori ha dovuto ammettere che sì, il finanziamento di 3,5 milioni di euro, contenuto nel collegato approvato dal Consiglio c'è, ed è stato pensato per la valorizzazione del patrimonio regionale e prevede quindi anche l'intervento sui sistemi informatici. Ma di tale intervento, per ora, non c'è traccia. Da registrare inoltre che Laziocrea è presieduta da Luigi Pomponio, nel Cda dal 2020, premiato proprio pochi giorni fa, a fine luglio, da Zingaretti e dall'assessore D'Amato insieme agli altri dipendenti della società «per il grande impegno nella lotta contro il Covid-19». Al personale di Laziocrea sono andati attestati di riconoscimento e varie benemerenze. Neanche una settimana dopo, lo scandalo degli hacker penetrati da un pc di un dipendente.

Valentina Errante per "il Messaggero" il 6 agosto 2021. Sono circa le 14 quando avviene il miracolo: il back up dei dati criptati dall'attacco informatico al Centro elaborazione dati della Regione Lazio è salvo. L'assortita squadra fatta dagli uomini dell'Fbi e di Europol, dai tecnici della polizia postale, dagli esperti di Leonardo ha raggiunto il risultato insperato. Aggirare il ransomware, il virus (che include anche una richiesta di riscatto) che aveva criptato tutti i dati del sistema. Il governatore Nicola Zingaretti lo annuncia poco dopo. Ripartono le prenotazioni dei vaccini (che in poche ore sono già tremila) e adesso la Regione Lazio tenterà di tornare alla normalità. La situazione resta complessa, ma i segnali sono incoraggianti. Gli esperti avrebbero recuperato tutti i dati memorizzati al 30 luglio, cioè 24 ore prima dell'attacco dei cyber criminali. Sullo sfondo resta il giallo della trattativa e del riscatto, per ottenere la chiave di decriptazione, dal link attivato mercoledì sera, con un countdown che sarebbe scaduto domani alle 23. Quando i dati sottratti all'amministrazione potrebbero essere diffusi nel dark web. Mentre emerge che l'attacco degli hacker è avvenuto in due fasi e non ha riguardato solo l'account di un dipendente regionale di Frosinone in smartworking, ma anche quello di un amministrativo.

IL BACKUP Secondo quanto riferito, dopo cinque giorni di lavoro ininterrotto, gli esperti sarebbero riusciti ad estrarre dai server infettati le copie di backup aggirando il virus e raggiungendo i dati del backup bloccati dal sistema infettato. «Stiamo verificando analizzando la consistenza dei dati per ripristinare nel più breve tempo possibile i servizi amministrativi e per i cittadini». I tecnici sarebbero riusciti a creare un sistema identico a quello compromesso che prima gestiva le informazioni, nel quale hanno riversato il backup salvato in una macchina Vtl (virtual tape library) di ultima generazione. Sullo sfondo di una soluzione inattesa per tutti, restano alcuni nodi da sciogliere. Dall'attivazione del link dei pirati informatici, ai dati sottratti. Dagli accertamenti è emerso che gli hacker, che hanno infettato il Ced della Regione Lazio, sono entrati nel sistema alle 20,42 del 31 luglio, attraverso il computer di un dipendente in smartworking a Frosinone. Ma, alle 22.40 dello stesso giorno, ci sarebbe stato un altro attacco, attraverso un account di tipo amministrativo, che avrebbe dato ai cyber criminali il potere di effettuare operazioni privilegiate, infettando il Ced. Gli hacker avrebbero continuato agire per l'intera notte, fino alle 7,21 del 1 agosto. Le indagini sono ancora in corso, ma è emerso che il file trojan Enotet è penetrato almeno in 135 macchine, quelle rese inservibili, però, alla fine, sono state almeno 3000. Il nodo, però, riguarda i dati rubati: non si sa quali siano le informazioni sottratte, che possano ancora essere diffuse sul dark web in cambio di criptovaluta o utilizzate dagli hacker. Si tratta del secondo step dell'attacco informatico, che, di prassi, viene messo in atto una settimana dopo l'aggressione come prima rivendicazione. Nella tempistica dell'attacco alla Regione Lazio la deadline è il 7 agosto.

IL CONTATTO Di fatto, nella pagina di rivendicazione, chi ha infettato il sistema con il ransom, come accade sempre, ha dato anche indicazioni per la mediazione, ossia per pagare un riscatto e ottenere la chiave di decriptazione dei dati. Un responsabile di Lazio Crea avrebbe dovuto collegarsi al link suggerito, lasciando un contatto email, attraverso un provider svizzero che cripta i messaggi, sulla rete Tor. Un network decentralizzato costituito da alcune migliaia di server sparsi in tutto il mondo. Quel link si sarebbe reso attivo mercoledì sera. Non è chiaro se da solo o per mano di qualcuno, a meno di 24 ore dal recupero dei dati. I tecnici avrebbero trovato da soli la chiave, nonostante le loro stesse previsioni, e non avrebbero pagato un riscatto che, in base a un'analisi approssimativa, eseguita sulla mole di dati a rischio, ammontava a circa 5milioni di euro in bitcoin. La scadenza dell'ultimatum è domani. Bisognerà attendere. I pirati del web potrebbero ancora utilizzare i dati. Intanto, alla Regione è vietato usare il wifi. 

Valentina Errante e Aldo Simoni per “Il Messaggero”  il 7 agosto 2021. Il countdown è scaduto ieri sera alle 23. E per tutta la notte i tecnici della postale hanno sorvegliato il dark web, per verificare se i dati sottratti alla Regione durante l'aggressione siano in vendita o disponili. L'ultimatum dei cyber criminali, generato in automatico dal ransomware, il virus che chiede anche il riscatto, era chiaro: non chiamate la polizia e non tentate di intervenire sul sistema, i file potrebbero essere cancellati. L'orologio a margine della schermata segnava il tempo rimasto, contando anche i secondi. Fino alle 23 del 6 agosto. Ieri, intanto, Nicola B., il dipendente di 61 anni della Regione Lazio, che attraverso il suo account ha aperto le porte del Ced del Lazio agli hacker, è stato sentito dagli uomini della postale e del Cnaipic (La centrale contro il crimine informatico) per tre ore. Ha negato di essersi collegato con siti pericolosi e anche che altri familiari avessero accesso al computer. E' apparso tranquillo, ma, poi, quando è stato chiamato dal suo capo ufficio, ha iniziato a sentire il cuore che andava all'impazzata: «Sono in un tritacarne», ha detto, mentre avvertiva un dolore acuto al petto. Adesso è ricoverato all'ospedale di Frosinone. Il suo pc, in queste ore, viene passato ai raggi x. Si va indietro, si cercano tracce. A ritroso, attraverso i link, i siti e gli indirizzi Ip che si sono collegati al computer.

L'INTERROGATORIO L'impiegato, che lavora nell'Area Enti Locali, ha ripercorso davanti alla polizia, minuto per minuto, il lavoro svolto al computer tra sabato e domenica. «Stando a casa - ha detto - mi capita spesso di lavorare anche di notte, tra le 2 e le 3. Magari mi sveglio e comincio a smaltire le pratiche o ad anticipare il lavoro. La notte tra sabato e domenica ero a casa da solo con mia moglie. Mio figlio era al mare e, tra l'altro, non conosce nemmeno la mia password. Il computer era spento e avevo spento anche la ciabatta. Domenica, primo agosto, ho usato il pc, poi, intorno alle 19.30, ho chiuso tutto».

LA RIVENDICAZIONE Adesso ci si aspetta una mossa dagli hacker, che avevano invitato l'amministratore dell'azienda a contattarli: «Nel caso tu non abbia il diritto di parlare a nome di questa azienda, non provare a contattarci. Qualsiasi contatto non autorizzato aumenterà l'importo del riscatto», si legge nella schermata comparsa dopo la prima comunicazione con la quale i cyber criminali avevano annunciato l'attacco e la criptazione del file. Il messaggio continuava: «Possiamo condividere queste informazioni solo con la persona autorizzata. Queste misure sono necessarie per mantenere la piena riservatezza del nostro accordo». E ancora: «Puoi consultarti con qualcuno del tuo ufficio informatico, questo ci aiuterà ad evitare ogni futuro fraintendimento. I tuoi file sono stati criptati con la crittografia più recente. Ricorda che qualsiasi tentativo di modifica e tentativo di rinominare i file crittografati causerà un grave danno ai documenti». La trattativa prevedeva una prova: «Inviaci il tuo indirizzo email e carica uno dei file crittografati, quando il file verrà caricato, la cartella di caricamento sarà eliminata. Questo file verrà decifrato come prova, per dimostrarti la capacità di decriptare gli altri file. Non ti daremo un'altra possibilità di decifrare un file e lasciare email».

IL RISCATTO Il messaggio generato automaticamente dal virus continua: «Non provare nemmeno a imbrogliarci, ti contatteremo quando ci invierai un file prova. Dopo il pagamento, tutti tuoi dati verranno decriptati. Devi risponderci in un giorno altrimenti l'importo del riscatto verrà aumentato, ma avrai un'altra opportunità per caricare il file di test. Ti preghiamo di non contattarci tramite Gmail, Yahoo, Hotmail, Live, parliamo solo in inglese. La scelta migliore è Protonmail: i tuoi server di posta possono bloccare i nostri messaggi». Infine, l'invito a non chiamare la polizia: «Attenzione non chiamare la polizia, perché bloccherà tutti i tuoi conti bancari per impedire il pagamento. E poiché tu non sarai nelle condizioni di pagare, tutti i tuoi messaggi crittografati andranno perduti. Tieni presente che hai un tempo limitato per prendere una decisione Quindi, hai una possibilità adesso. Se vuoi ripristinare i tuoi dati contattaci ora». Nessuno sarebbe stato contattato, i dati sono stati recuperati. E così, questa notte, gli hacker potrebbero davvero avere diffuso le informazioni rubate. La polizia postale è in allerta.

Lazio, è scaduto l'ultimatum. Ricoverato l'uomo del pc bucato. Stefano Vladovich l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. I Servizi al lavoro sul caso: giallo sul riscatto in criptovaluta. Sentito il dipendente di LazioCrea: malore davanti ai pm. Roma. Una settimana dall'attacco hacker alla Regione Lazio. Si contano i danni, a cominciare dalla banca dati nelle mani dei cyber-estorsori, per continuare con la paralisi delle prenotazioni online per il vaccino Covid-19. Nuovi interrogatori, in Procura, alla ricerca di una talpa, di un responsabile suo malgrado, «colpevole» di aver spalancato le porte del Ced regionale ai pirati informatici che sabato 31 luglio si sono introdotti nel sistema facendolo crashare, non prima di aver immesso un virus, un ransomware, e copiato dati di sei milioni e mezzo di italiani. È stato ricoverato all'ospedale di Sora, dopo un malore, il dipendente della Regione, non della Asl di Frosinone, interrogato in questura dagli agenti del Cnaipic, Centro nazionale anticrimine informatico. L'uomo lavora nella sede distaccata della Ciociaria, in via Francesco Veccia. Qui, due giorni prima dell'attacco finale, gli hacker sarebbero entrati nel suo pc, forse con una e-mail contenente un trojan. Il ransomware avrebbe poi lavorato sotto traccia fino a sabato notte, quando ha aperto agli hacker l'accesso al portale regionale per copiare il back-up lasciato in rete, prima di criptarlo. Gli inquirenti, che indagano per accesso abusivo al sistema informatico, tentata estorsione e danneggiamento al sistema informatico con finalità di terrorismo, lo avrebbero incalzato con mille domande. Il pc era acceso? A chi avrebbe fornito le credenziali per accedere alla postazione? Sul portatile la schermata nera inviata dai pirati con le prime «istruzioni» da seguire per riavere i dati in chiaro. «Se chiamate la polizia vi bloccheranno i conti e metteremo in rete gli account», si leggeva. L'uomo, Nicola B., 61 anni, nega tutto. «L'ho spento come sempre e scollegato persino alla rete elettrica», avrebbe assicurato agli agenti. «Le mie credenziali? Non le ho mai date a nessuno, neanche mio figlio le conosce», ha fatto mettere a verbale. Il caldo torrido, il terrore che possa aver dato lui, inconsapevolmente, il via libera ai criminali fanno il resto. Entrato in auto diretto al paese vicino, ha sentito il cuore battere a mille. Una corsa al pronto soccorso per un attacco di tachicardia e il ricovero per accertamenti. Su di lui il peso di un sistema di sicurezza pieno di falle. A cominciare dall'archivio che qualcuno ha lasciato collegato a internet. Non lo fa mai nessuno, tranne la Regione Lazio. Fra i mille dubbi di una storia paradossale, il più grave attacco a un'istituzione pubblica in Italia, restano troppi punti oscuri. Intanto: i servizi hanno sborsato, in criptovaluta ovviamente, la somma chiesta dai pirati? Una prassi oramai consolidata per molte aziende private costrette a pagare per tornare in possesso di dati preziosi. È accaduto, fra gli altri, agli americani dell'oleodotto di Colonial attaccato da DarkSide, ai giapponesi della Toshiba, al creatore di Facebook. Ne esce indenne solo chi appronta un protocollo «salvagente» in caso di attacco. La Regione Lazio non lo ha fatto, nonostante abbia recuperato i dati «inchiavardati», estraendoli da un secondo back-up parallelo, se li è visti scippare da un'organizzazione criminale probabilmente russa o bulgara. E i responsabili della cybersecurity della Pisana? Ancora non è chiaro chi siano, probabilmente vari partner che hanno lavorato scollegati per creare l'intero sistema. La società Leonardo si è già dichiarata estranea proprio sul fronte della sicurezza. LazioCrea avrebbe partecipato ad alcuni progetti ma ancora non se ne conoscono i dettagli. Engineering infine, tirata in ballo dalla stessa presidenza del consiglio regionale, nega ogni coinvolgimento sulla questione. «Engineering non fornisce servizi di infrastruttura o di sicurezza alla Regione Lazio, che si appoggia per questo ad altri operatori», ribadisce l'azienda. Stefano Vladovich

Giuseppe Scarpa per “Il Messaggero” l'8 agosto 2021. Per ora i dati sensibili di 5,8 milioni di residenti nel Lazio non sono stati messi in vendita nel dark-web. Ad oggi non ci sarebbe stata alcuna conseguenza dopo l'ultimatum dei pirati informatici scaduto venerdì sera alle 23.00. Nel frattempo, però, la pagina con il link dove gli hacker fornivano istruzioni sull'aggressione cyber e il pagamento del riscatto è stata rimossa dagli stessi attaccanti. Hacker che avrebbero agito, probabilmente, dall'est Europa. Gli scenari a questo punto sono differenti. Prima di tutto occorre capire quale fine faranno i dati, ammesso che siano stati esfiltrati. Potrebbero essere cancellati, in tal caso non ci sarebbe nessun problema e, se sono stati effettivamente salvati, come ha fatto sapere la Regione Lazio, il sito potrebbe presto funzionare a pieno regime. Nella peggiore delle ipotesi le informazioni potrebbero essere riversate nel dark web e piazzate al miglior offerente, i ramswonware d'altro canto funzionano proprio in questo modo. In questo caso i dati di quasi sei milioni di persone, comprese le massime cariche istituzionali, potrebbero essere oggetto di compravendita. In tal caso aver eseguito il back up da parte della Regione risolverebbe solo la metà dei problemi. Ovvero il possesso dei dati ma non la questione di un'eventuale divulgazione. 

Stefano Vladovich per "Il Giornale" l'8 agosto 2021. Una settimana dall'attacco hacker alla Regione Lazio. Si contano i danni, a cominciare dalla banca dati nelle mani dei cyber-estorsori, per continuare con la paralisi delle prenotazioni online per il vaccino Covid-19. Nuovi interrogatori, in Procura, alla ricerca di una talpa, di un responsabile suo malgrado, «colpevole» di aver spalancato le porte del Ced regionale ai pirati informatici che sabato 31 luglio si sono introdotti nel sistema facendolo crashare, non prima di aver immesso un virus, un ransomware, e copiato dati di sei milioni e mezzo di italiani. È stato ricoverato all'ospedale di Sora, dopo un malore, il dipendente della Regione, non della Asl di Frosinone, interrogato in questura dagli agenti del Cnaipic, Centro nazionale anticrimine informatico. L'uomo lavora nella sede distaccata della Ciociaria, in via Francesco Veccia. Qui, due giorni prima dell'attacco finale, gli hacker sarebbero entrati nel suo pc, forse con una e-mail contenente un trojan. Il ransomware avrebbe poi lavorato sotto traccia fino a sabato notte, quando ha aperto agli hacker l'accesso al portale regionale per copiare il back-up lasciato in rete, prima di criptarlo. Gli inquirenti, che indagano per accesso abusivo al sistema informatico, tentata estorsione e danneggiamento al sistema informatico con finalità di terrorismo, lo avrebbero incalzato con mille domande. Il pc era acceso? A chi avrebbe fornito le credenziali per accedere alla postazione? Sul portatile la schermata nera inviata dai pirati con le prime «istruzioni» da seguire per riavere i dati in chiaro. «Se chiamate la polizia vi bloccheranno i conti e metteremo in rete gli account», si leggeva. L'uomo, Nicola B., 61 anni, nega tutto. «L'ho spento come sempre e scollegato persino alla rete elettrica», avrebbe assicurato agli agenti. «Le mie credenziali? Non le ho mai date a nessuno, neanche mio figlio le conosce», ha fatto mettere a verbale. Il caldo torrido, il terrore che possa aver dato lui, inconsapevolmente, il via libera ai criminali fanno il resto. Entrato in auto diretto al paese vicino, ha sentito il cuore battere a mille. Una corsa al pronto soccorso per un attacco di tachicardia e il ricovero per accertamenti. Su di lui il peso di un sistema di sicurezza pieno di falle. A cominciare dall'archivio che qualcuno ha lasciato collegato a internet. Non lo fa mai nessuno, tranne la Regione Lazio. Fra i mille dubbi di una storia paradossale, il più grave attacco a un'istituzione pubblica in Italia, restano troppi punti oscuri. Intanto: i servizi hanno sborsato, in criptovaluta ovviamente, la somma chiesta dai pirati? Una prassi oramai consolidata per molte aziende private costrette a pagare per tornare in possesso di dati preziosi. È accaduto, fra gli altri, agli americani dell'oleodotto di Colonial attaccato da DarkSide, ai giapponesi della Toshiba, al creatore di Facebook. Ne esce indenne solo chi appronta un protocollo «salvagente» in caso di attacco. La Regione Lazio non lo ha fatto, nonostante abbia recuperato i dati «inchiavardati», estraendoli da un secondo back-up parallelo, se li è visti scippare da un'organizzazione criminale probabilmente russa o bulgara. E i responsabili della cybersecurity della Pisana? Ancora non è chiaro chi siano, probabilmente vari partner che hanno lavorato scollegati per creare l'intero sistema. La società Leonardo si è già dichiarata estranea proprio sul fronte della sicurezza. LazioCrea avrebbe partecipato ad alcuni progetti ma ancora non se ne conoscono i dettagli. Engineering infine, tirata in ballo dalla stessa presidenza del consiglio regionale, nega ogni coinvolgimento sulla questione. «Engineering non fornisce servizi di infrastruttura o di sicurezza alla Regione Lazio, che si appoggia per questo ad altri operatori», ribadisce l'azienda.

REGIONE LAZIO, IL SITO DI NUOVO IRRAGGIUNGIBILE E ZINGARETTI TACE…Il Corriere del Giorno il 10 Agosto 2021. Nel dark web web dove si trovano annunci di ogni tipo, ed informazioni in vendita anche a mille euro, gli investigatori al lavoro sull’assalto ai server della Regione Lazio stanno monitorando la situazione, sospettando che prima o poi i dati del Lazio, che non sono ancora in circolazione, verranno messi in vendita. Altro che riparazione e ripristino dei servizi entro poche ore… il sito della Regione Lazio è di nuovo ko e il governatore Nicola Zingaretti è completamente in confusione. O vi è stato un nuovo un attacco hacker e non viene raccontato oppure il sistema informatico tanto “strombazzato” da Zingaretti è una vera e propria schifezza. Al momento non funzionano i servizi digitali e persino le mail. In Regione si naviga letteralmente a vista ed è praticamente impossibile collegarsi con la Regione Lazio che è il “cuore” politico della Nazione. Da parte dell’ente regionale laziale, nel numeroso staff del presidente Zingaretti nessuno parla, tutto tace, non vi è alcuna traccia di informazioni, e si trovano solo e soltanto persone che si lavano le mani ben attenti a tenere le bocche cucite. Tutto ciò mentre ci sono servizi che vanno erogati, bandi di prossima scadenza, e domande da porre. Zingaretti ha sinora sparato ad alzo zero cercando qualcuno su cui scaricare colpe politiche e gestionali della Regione Lazio. prima contro gli hackers spacciati come terrorismo, per poi passare nei giorni successivi a dichiarazioni trionfali “tutto a posto, siamo fortissimi, ricominciamo a lavorare”. In realtà i fatti non stanno esattamente come Zingaretti vorrebbe lasciare intendere, mentre invece sarebbe necessario comunicare e possibilmente con la dovuta serietà necessaria quanto sta accadendo per davvero alla Regione Lazio. Anche perchè quel sito della Regione Lazio lo pagano anche i contribuenti…Inoltre oltre al danno, vi sarebbe anche una vera e propria beffa. L’indagine avviata dal Garante della privacy sull’attacco al sistema informatico della Regione Lazio potrebbe portare con una maxi-multa, in quanto come ben noto il trattamento e la protezione dei dati personali sono una materia molto delicata. La pandemia sembra aver dato ancora più voglia di rischiare agli hacker, che hanno effettuato una serie interminabile di attacchi informatici. Nei forum frequentati dagli hackers è partita la caccia alle informazioni conservate nei database della Regione Lazio. per i quali esiste già una lunga fila di acquirenti, pronti a pagare per avere una copia dei file trafugati. Su Raidforums.com, alla voce “trading”, c’è una discussione aperta sul Lazio. Quattro utenti si dicono già da ora disponibili a pagare per avere “Covid informations” e “medical data” ma per fortuna sinora, le risposte però non sono fortunatamente soddisfacenti. Altri hanno offerto per giorni nomi e cognomi di 7,2 milioni di vaccinati italiani, con tanto di mail, codice fiscale e Asl di appartenenza, salvo poi scomparire dalla circolazione. Al momento i dati sul Lazio, probabilmente utili per essere poi rivenduti a case farmaceutiche, non sono ancora saltati fuori. Negli ultimi due anni, soltanto a Roma, sono finiti nel mirino oltre alla Regione Lazio, l’Università di Tor Vergata, il Consiglio Nazionale Forense e la Sittel, una società specializzata in telecomunicazioni con sede a Roma. I loro dati sono ormai pubblici, diffusi e disponibili nel dark web (cioè il web occulto, regno delle illegalità). Nel dark web web dove si trovano annunci di ogni tipo, ed informazioni in vendita anche a mille euro, gli investigatori al lavoro sull’assalto ai server della Regione Lazio stanno monitorando la situazione, sospettando che prima o poi i dati del Lazio, che non sono ancora in circolazione, verranno messi in vendita.

SIAMO SICURI CHE SIANO HACKER RUSSI?  Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 10 agosto 2021. I pirati informatici, dopo aver bucato l'account del dipendente di Frosinone della Regione Lazio, hanno infettato i pc di un centinaio di altri colleghi. Tra cui quello di un amministratore di rete. Essenziale per portare a compimento e con successo l'attacco. Così gli hacker sono riusciti a impadronirsi del sito, acquisire le informazioni e dare il via al ricatto. Inoltre i cybercriminali avrebbero portato a compimento la loro missione - ricostruiscono inquirenti e investigatori - appoggiandosi anche ad un server negli Stati Uniti. Per questo motivo i magistrati Gianfederica Dito e Luigi Fede hanno inoltrato una rogatoria agli Usa. I pm hanno aperto un fascicolo per accesso abusivo, danneggiamento di sistemi informatici di pubblica utilità e tentata estorsione.

L'INDAGINE Andando a ritroso la Polizia Postale vorrebbe scoprire da dove tutto è partito. Un compito per niente facile dal momento che la rete Tor, quella su cui lavorano gli hacker, è in grado di rimbalzare tra più server mascherando l'Ip. L'Ip è una sorta di targa di riconoscimento e in assenza dell'Internet Protocol address diventa davvero complicato dare un nome e un cognome ai pirati informatici. Ad ogni modo il Cnaipic sta lavorando senza sosta per cercare di venire a capo di un'aggressione, portata a termine il primo agosto, che in Italia non ha precedenti. Nel frattempo Engineering Ingegneria Informatica, la società che fornisce servizi di sicurezza informatica - tra i suoi clienti c'è anche la Regione Lazio - ha presentato una denuncia in procura per accesso abusivo al sistema informatico. Di fatto la stessa società aveva spiegato in una nota che il 5 agosto (pochi giorni dopo l'attacco alla Regione Lazio) era stata rilevata «una possibile compromissione di credenziali di accesso ad alcune VPN di clienti, subito avvertiti individualmente». 

I DATI Per ora i dati sensibili di 5,8 milioni di residenti nel Lazio non sono stati messi in vendita nel dark-web. Ad oggi non ci sarebbe stata alcuna conseguenza dopo l'ultimatum dei pirati informatici scaduto venerdì sera alle 23.00. Sabato la pagina con il link dove gli hacker fornivano istruzioni sull'aggressione cyber e il pagamento del riscatto è stata rimossa dagli stessi attaccanti. Hacker che avrebbero agito, probabilmente, dall'Est Europa. Gli scenari a questo punto sono differenti. Prima di tutto occorre capire quale fine faranno i dati, ammesso che siano stati esfiltrati. Potrebbero essere cancellati, in tal caso non ci sarebbe nessun problema e, se sono stati effettivamente salvati, come ha fatto sapere la Regione Lazio, il sito potrebbe presto funzionare a pieno regime. Nella peggiore delle ipotesi le informazioni potrebbero essere riversate nel dark web e piazzate al miglior offerente, i ramswonware d'altro canto funzionano proprio in questo modo. In questo caso i dati di quasi sei milioni di persone, comprese le massime cariche istituzionali, potrebbero essere oggetto di compravendita. In tal caso aver eseguito il back up da parte della Regione risolverebbe solo la metà dei problemi. Ovvero il possesso dei dati ma non la questione di un'eventuale divulgazione.

IL DARK WEB La polizia postale continua a svolgere accertamenti e controlli nella rete oscura. Non è escluso che ci possa essere un collegamento tra chi ha colpito il sito della Regione il primo agosto e chi ha provato, nei giorni scorsi, a mettere sotto attacco il brand di moda Ermenegildo Zegna. In una nota di sabato il gruppo ha confermato di essere stato oggetto di un «accesso non autorizzato ai propri sistemi informatici» annunciando di avere informato le autorità. «Non appena la società ha appreso l'accaduto ha messo in atto le azioni necessarie a garantire la sicurezza della propria rete». Gli inquirenti stanno analizzando una serie di dati mettendo a confronto i vari blitz di questo tipo avvenuti in Italia nelle ultime settimane. La metodologia utilizzata dall'organizzazione criminale potrebbe rappresentare, infatti, una sorta di «firma». Attacchi simili, con la stessa tecnica e modalità, sarebbero stati messi a segno anche a livello mondiale, gli esperti indicano quello che ha colpito le reti governative brasiliane, il Dipartimento dei trasporti del Texas (TxDOT), Konica Minolta, IPG Photonics e CNT dell'Ecuador.

Alessio Lana e Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2021. Maze, una sigla semplice. Una sigla che per almeno due anni è stata l'incubo delle aziende pubbliche e private, dei governi, di multinazionali come Canon, Lg, Xerox. Un gruppo di hacker in grado di bloccare sistemi, rubare dati, ricattare società e privati. Un gruppo pericoloso che per primo ha utilizzato la strategia del «name & shame», letteralmente nominare e svergognare. Il primo novembre 2020 ha dichiarato «chiuso il progetto» in grande stile, con un comunicato stampa pubblicato online in cui sottolineava che non ci sarebbero stati successori. Ma non è scomparso. Anzi. Già qualche mese prima della resa, un'altra banda, addirittura più capace e potente, era comparsa sulla scena: Egregor. In un anno ha sferrato oltre 200 attacchi e gli analisti ritengono possa essere lo schermo per gli affiliati di Maze. E poi ce ne sono tanti altri perché questa Ransom Mafia , come è stata definita, ricalca il mondo criminale «analogico»: individui che si riuniscono in gang, formano e sciolgono alleanze, si raggruppano in cartelli. A raccontare la guerra ormai diventata globale è un rapporto riservato dell'intelligence italiana che ricostruisce le strategie di questi cybercriminali, i loro obiettivi, le loro origini. Contiene nomi e date di una battaglia di cui l'Italia ha visto gli effetti più evidenti con l'assalto contro la Regione Lazio. Ma riporta soprattutto un dato che fa ben comprendere quale sia la posta in gioco: nel 2019 sono stati pagati 9,7 miliardi di euro per impedire ai criminali di bloccare i sistemi aziendali e diffondere le informazioni riservate, nel primo quadrimestre del 2021 questa cifra ha già raggiunto i 17 miliardi di euro. Un attacco ransomware utilizza questi virus telematici per «limitare l'accesso al sistema informativo degli utenti e crittografare il disco rigido». I file diventano illeggibili dal legittimo proprietario che per sbloccarli ha bisogno di una specifica chiave crittografica. Ed è a questo punto che scatta il ricatto. Generalmente sullo schermo dei computer attaccati compare un avviso che invita ad aprire una pagina dove si trovano le istruzioni per il pagamento, nella maggior parte in criptovalute. Per i meno esperti c'è anche un'assistenza clienti multilingue. Ma già dalla fine del 2020 la strategia si è evoluta, diventando ancor più subdola. Generalmente «l'operazione prevede che prima di procedere con la cifratura dei dati presenti nel sistema possa essere effettuata un'esfiltrazione di tutte le informazioni - spiegano gli analisti -. Fino allo scorso anno gli attacchi ransomware prevedevano quasi esclusivamente la crittografia dei dati che venivano resi indisponibili a tempo indeterminato. Nell'ultimo anno si è aggiunta la divulgazione dei dati nel dark web». È questa la «rivoluzione» di Maze, la «double extortion» (doppia estorsione): se non paghi per avere la chiave crittografica o tenti di aggirare il riscatto mettiamo i tuoi dati online. Dai brevetti alle informazioni dei clienti o degli utenti, tante informazioni sensibili rischiano di diventare pubbliche. Così si stima che tra il 50 e il 70 per cento delle vittime, alla fine, pagano. Finora gli attacchi ransomware hanno colpito gestori delle reti energetiche e telefoniche, scuole e ospedali ma anche società quotate in Borsa. Hanno ricattato aziende di piccolo e medio livello che la pubblicazione dei dati avrebbe annientato e colossi industriali disponibili a pagare pur di mettere al sicuro le informazioni riservate. Ma soprattutto hanno trattato direttamente con i governi, proprio come avviene quando le formazioni terroristiche catturano gli ostaggi. Secondo l'ultimo rapporto The State of Ransomware 2021 di Sophos, la maggior parte degli attacchi arriva da Russia, Cina e Corea del Nord ma ci sono altri focolai in Vietnam, Ucraina, India. I più clamorosi sono stati sferrati dal gruppo Revil nel 2021. In marzo hanno chiesto al colosso taiwanese Acer 42 milioni di euro. In aprile la medesima cifra a un partner di Apple per non diffondere segreti industriali. Subito dopo hanno preso di mira JBS Foods, che ha subito una richiesta per 9,3 milioni di euro, e in luglio, tramite il fornitore Kaseya, sono penetrati nei sistemi di numerose aziende chiedendo un totale di 59,5 milioni di euro. Alcune imprese hanno pubblicamente ammesso gli assalti. Nel maggio scorso la Colonial Pipeline, oleodotto che rifornisce la costa orientale degli Stati Uniti, ha pagato 3,7 milioni di euro al gruppo DarkSide per recuperare i propri dati e con l'intervento dell'Fbi ne ha poi recuperati 1,9. In Italia, il 6 agosto, il Gruppo Zegna ha rivelato di «non aver ceduto al ricatto». In realtà la lista di chi, nel nostro Paese, è stato colpito e ha pagato oppure è riuscito a fermare il ransomware è lungo, ma gli investigatori raccomandano di non diffonderla proprio per non dare vantaggi ai criminali e soprattutto enfatizzare la loro attività illecita. Qualche settimana fa Pay2Key, che ha matrice iraniana, ha pubblicato un post con l'elenco delle ditte colpite in Israele: Portnox, Israel Aerospace Industries, Habana, InterElectric, Mt, InfiApps e gli analisti ritengono si tratti «di un attacco con immediata finalità economica ma soprattutto una minaccia per gli interessi geopolitici di Stati attraverso le loro infrastrutture critiche». Da una parte le gang hanno un peso anche nelle relazioni internazionali. Come riportato dal New York Times , l'improvvisa scomparsa dei russi Revil in luglio, proprio dopo aver messo a ferro e fuoco gli Stati Uniti, è da attribuire a un accordo mirato tra Joe Biden e Vladimir Putin. Dall'altra si muovono anche come vere e proprie aziende. Premiano l'innovazione e lavorano per tenere alta la reputazione: se qualcuno riesce a riottenere i dati senza pagare è un problema, si diventa poco credibili. Sono organizzazioni ben strutturate, con decine di sviluppatori e macchinari e così, per ammortizzare i costi, hanno ideato il Ransomware as a service (Raas), «una variazione dei modelli di business rispetto a chi vende software legali», come spiegano gli analisti. Gli autori offrono il loro ransomware su licenza permettendo agli acquirenti di aggiungerlo ai propri attacchi. Esattamente come un software aziendale. In cambio chiedono una provvigione «tra il 20 e il 30 per cento dei riscatti pagati», possono rivendicare più vittime e quindi accrescere la fama della propria opera. E più il ransomware funziona più criminali lo vogliono. Come un qualsiasi prodotto di successo.

Bruno Ruffili per "la Stampa" il 6 agosto 2021. «No, dall'Italia non ci è arrivata ancora nessuna richiesta di aiuto», spiega Jo De Muynck, responsabile Operational Coordination Unit dell'Enisa, European Union Agency for Cybersecurity. Parla dell'attacco informatico alla Regione Lazio che dalla scorsa domenica ha bloccato la campagna vaccinale. «Per ora è un caso nazionale, e di solito ci occupiamo di attacchi su larga scala, che coinvolgono più Paesi. C'è stata qualche comunicazione, comunque, e siamo pronti a dare una mano». Su 18 persone del suo team, 4 vengono dall'Italia: «Il nostro lavoro - spiega - è coordinare le attività dei vari Stati, degli organi e delle agenzie dell'Unione Europea quando si tratta di affrontare incidenti informatici».

Come funziona l'Enisa? 

«La struttura di cyber sicurezza dell'Unione Europea ha tre livelli. Uno è quello tecnico, ovvero la rete dei vari CSIRT (Computer Security and incidents Response Teams) nazionali, cui spetta il compito di affrontare casi come quello del Lazio. Per incidenti di grandi dimensioni e impatto maggiore esiste una rete chiamata CyCLONE (Cyber Crisis Liaison Organization Network), che cerca di mitigarne l'impatto il più rapidamente possibile. Poi c'è il livello politico e strategico. Noi facciamo in modo che le informazioni raccolte siano accessibili a tutti i Paesi della Ue». 

Esistono linee guida europee che prevedono specifiche misure di sicurezza informatica?

«Sì, la normativa NIS, cui presto farà seguito la NIS 2, chiede di predisporre misure di cybersecurity per i servizi essenziali, ma spetta a ciascuno Stato definire il livello di sicurezza minimo e quali i servizi essenziali». 

Ad esempio quelli sanitari, che all'inizio sembravano esclusi dagli attacchi di criminali informatici, per una sorta di etica. Qualcosa sta cambiando?

«Il Covid e la pandemia sono stati un fattore scatenante, per i criminali informatici era un'occasione quasi troppa bella per essere vera. Stanno diventando più opportunisti, non c'è più spazio per i buoni principi. L'ultimo attacco su vasta scala al settore sanitario c'è stato in Irlanda, ma i criminali alla fine hanno fornito loro stessi la chiave per liberare i file compromessi, rinunciando al riscatto. Probabilmente perché hanno ricevuto molta attenzione da parte della stampa, e agli occhi dell'opinione pubblica quell'attacco appariva come particolarmente odioso». 

Il ransomware sta diventando sempre più comune ultimamente. È un business?

«Il software si può affittare, quindi non è indispensabile essere grandi esperti per poterne disporre. Ne nasce un'economia sommersa e molto organizzata, dove diverse bande si dividono il mercato. È vero che questi attacchi stanno crescendo, ma stanno anche diventando molto più mirate le richieste di riscatto». 

È il caso di pagare?

«Consigliamo sempre di non farlo perché sono organizzazioni criminali e non c'è nessuna garanzia che pagando la situazione si risolva. E anche se si risolvesse, non è detto che non possa arrivare un nuovo attacco. Ma il consiglio più utile è di prepararsi ad eventualità del genere, ad esempio con un backup offline. Ci sono misure semplici da adottare per evitare che questi attacchi possano accadere». 

E dal suo osservatorio può dire da dove arrivano?

«Non sempre. Gli incidenti informatici, in generale, provengono di frequente dalle stesse regioni, ma è molto difficile individuare esattamente da dove. L'attribuzione è qualcosa di molto delicato e molto difficile. Anche quando tutti i segnali potrebbero portare verso la Russia, ad esempio, dietro potrebbe esserci un altro Stato che ha interesse ad addossare la colpa alla Russia». 

A muovere i criminali informatici è il denaro o l'ideologia?

«Un incidente di sicurezza informatica significa per definizione che dietro c'è qualcosa di malevolo, quindi una o più persone o uno Stato. Quasi sempre la ragione è economica, ma a volte abbiamo le prove che c'è la mano di una nazione, e si tratta di cyberterrorismo». 

Col Covid-19 è cresciuto il lavoro a distanza: ha reso le organizzazioni più vulnerabili agli attacchi informatici?

«Non so se sono aumentate le vulnerabilità, ma penso che ci sia uno spostamento degli attacchi verso verso i sistemi usati per il lavoro remoto, come le Vpn e altre piattaforma di collaborazione online».

Ma se una grande azienda è colpita ha l'obbligo di rendere pubblico l'attacco, quando ne va della sicurezza di altre organizzazioni? 

«La direttiva NIS obbliga gli operatori dei servizi essenziali a segnalare incidenti significativi. Ma a parte l'obbligo, penso che sia sempre meglio per un'azienda essere trasparente su ciò che accade in termini di fughe di dati o incidenti, perché aiuta anche i clienti a far fronte a eventuali conseguenze. Se c'è stato un incidente si verrà a sapere prima o poi». 

Quale paese europeo sta facendo di più per la sicurezza informatica?

«È difficile da dire. Se si guarda all'Ue in generale, ora abbiamo strutture e meccanismi che non avevamo in passato, stiamo lavorando per cercare di raggiungere una migliore sicurezza informatica in tutta la Comunità e combattere insieme il crimine informatico. Ogni Paese sta progredendo col proprio ritmo, ma finalmente andiamo nella giusta direzione». 

Floriana Bulfon per "la Repubblica - Edizione Roma" il 4 agosto 2021. Zero coordinamento, investimenti insignificanti in sicurezza, prodotti inadeguati alle esigenze, mancanza di controllo. Come se gli acquisti di computer, software, assistenza e connessioni avvenissero a caso, senza una regia: lo scenario perfetto per presentarsi senza difese davanti ai pirati del web. Una settimana fa, la Corte dei Conte ha pubblicato una relazione sulle spese informatiche della sanità della Regione Lazio. Un dossier dettagliato che descrive le modalità di gestione dei sistemi di Asl, ospedali, policlinici universitari, 118 e certifica le fondamenta scricchiolanti su cui è stato realizzato l'attacco che ha paralizzato i server della sanità laziale. Nel biennio 2018-2019 i magistrati mettono nero su bianco «l'acquisto di moduli che risultano mal programmati e scoordinati » , forniture non integrate con «pluralità di differenti applicativi e di diverse ditte fornitrici dei software, dell'assistenza e della manutenzione, pur trattandosi di enti aventi medesime caratteristiche e simili necessità » , ritardi su « progetti da diversi anni in cantiere» mentre aumentano i costi per integrare, implementare e tentar di risolvere quel che non si è coordinato. La protezione non sembra una priorità. In tutto il mondo già si correva a blindare i server e anche in Italia il dibattito sulla minaccia cyber era intenso, ma negli uffici della Regione Lazio sembrano prendersela comoda: stando al rapporto, solo nel secondo semestre 2019 compare la voce di spesa « avvio attività attinenti la sicurezza». Entrando nei singoli uffici, si scopre che la Asl Roma 1 è l'unica a fare un investimento consistente: spende tre milioni in due anni per ottenere una sorveglianza. Poche altre la imitano, badando a risparmiare: la Roma 5 si limita a 300mila euro; l'ospedale San Giovanni ne stanzia 115 mila mentre lo Spallanzani si muove già nel 2018. Ma le risorse destinate complessivamente sono irrisorie se paragonate agli oltre 190 milioni in acquisti che la Corte dei Conti definisce « ridondanti » e « poco consoni alle esigenze». I magistrati chiamano in causa LazioCrea, la società in-house della Regione nata proprio per coordinare la progettazione e la gestione dei sistemi informatici. A dirigerla dal maggio 2019 c'è Luigi Pomponio. Laurea in giurisprudenza, specializzazione in diritto dell'economia dell'impresa alla Luiss. Una carriera tutta romana: nel 2001 inizia organizzando il concorso ippico di Piazza di Siena e da lì salta a ricoprire il ruolo di coordinatore della segreteria dell'onorevole Antonio Maccanico fino al 2013. Per quasi vent' anni ha lavorato anche come dirigente dell'Opera laboratori fiorentini ed è stato nel CdA di Civita Fandango e Incoming Liguria, società di servizi nel settore turistico. La parte tecnica invece è sotto il controllo di Maurizio Stumbo. Laurea in ingegneria a Cosenza, poi per qualche anno consulente di Accenture, viene assunto in Regione dove scala ogni posizione. LazioCrea è stata protagonista della corsa per lanciare una piattaforma autonoma per la prenotazione dei vaccini in tempi record: «In Poste erano indietro e noi volevamo partire al più presto, abbiamo preferito fare da soli » spiegava a Repubblica l'assessore alla sanità del Lazio Alessio d'Amato. Ora però i giorni di paralisi causata dall'attacco e l'assenza di un valido backup - ossia una copia dei dati - mostrano tutti i limiti del sistema adottato. Secondo i giudici contabili, la Regione si è mossa tardi e male nel costruire una difesa dagli attacchi. "Sprechi e spese ridondanti". 

Attacco hacker? Nel Lazio si aumentano le pensioni. Francesca Galici il 6 Agosto 2021 su Il Giornale. Nel pieno dell'attacco che ha colpito la Regione il consiglio regionale ha votato l'aumento delle pensioni per chi in passato è stato europarlamentare. Gli occhi del Paese sono sulla Regione Lazio, che nei giorni scorsi ha subito un gravissimo attacco hacker ai suoi sistemi. Mentre le altre Regioni e la Pubblica amministrazione si interrogano su quali siano i reali rischi per i sistemi del Paese e mentre gli investigatori cercano di capire come sia potuto accadere, la giunta di Nicola Zingaretti ha approvato l'aumento delle pensioni per i consiglieri regionali. La maggioranza del Consiglio regionale laziale, formata da esponenti del Partito democratico e del Movimento 5 stelle, ha approvato un provvedimento che incrementa i privilegi dei consiglieri con un passato nell'Europarlamento. L'emendamento è stato portato in Aula lo scorso martedì a firma di Daniele Leodori, vice di Nicola Zingaretti. Fonti della Regione, come riferisce il quotidiano Domani, spiegano che la votazione è stata effettuata quasi al termine dei lavori, durati 8 ore. Inoltre, l'emendamento non era stato preventivamente discusso nelle commissioni e, nel pieno di un attacco informatico, per i consiglieri non è nemmeno stato possibile farsi un'idea sulla proposta. Una situazione anomala, al di fuori di ogni ratio logica, che ha destato qualche dubbio anche tra gli stessi consiglieri. "Per chi non conosceva questa materia, è stato come votare un emendamento al buio. Con il sito della Regione fuori uso, chi voleva non aveva modo di informarsi. Si potrebbe pensare a una mossa in malafede", dice qualcuno a Domani con la garanzia dell'anonimato. Nonostante il suo partito sia nella maggioranza, chi si espone senza maschere è Francesca De Vito, consigliere regionale in quota M5s: "Ritengo scandaloso che alle 19.27 la giunta tiri fuori un emendamento economico del genere, specialmente quest' anno con la crisi economica dovuta all'epidemia, e specialmente con questo attacco informatico drammatico che abbiamo subito". La votazione dell'emendamento D17/3 agisce sulla legge regionale che nel 2019 ha approvato all'unanimità il taglio del 35% dei vitalizi per 250 consiglieri per un totale di quasi 7 milioni di euro risparmiati per le casse della Regione. L'aumento porterà qualche centinaio di euro in più nelle pensioni dei consiglieri. L'emendamento di Leodori non ha ottenuto l'unanimità dei votanti e, com'era prevedibile, l'opposizione ha dato il suo voto contrario con grande sdegno. A parlare è stata Chiara Colosimo, consigliere regionale eletta tra le fila di Fratelli d'Italia: "Ci sono due pure coincidenze: il silenzio assoluto e il voto favorevole dei grillini. Ma a voler essere cattivi ne troviamo anche una terza dalle parti del presidente". Ma dal M5s spiegano che questo emendamento non porterà aumenti tangibili negli emolumenti dei consiglieri "che hanno anche un altro trattamento pensionistico, ma verrà tassata al 40 per cento solo la parte eccedente ai 516 euro della seconda pensione: in caso contrario, i consiglieri con doppio vitalizio stati penalizzati e portati a rinunciare a uno dei due". Così ha spiegato a Domani Devid Porrello, consigliere M5s.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Fabrizio Caccia per il "Corriere della Sera" il 6 agosto 2021. «Sono io quello che cercate, sono io la porta da cui sono entrati gli hacker della Regione Lazio. Pensavo di averla chiusa bene a chiave e invece... Prego, accomodatevi». Stanza numero 10, piano terra della sede di Frosinone della Regione Lazio, area Enti locali. Alle tre del pomeriggio il palazzo è semivuoto, Nicola B. 61 anni è uno dei pochi impiegati rimasti ancora in ufficio, è di turno, questo è l'unico giorno della settimana, il giovedì, in cui non lavora da casa in smart working.

Lei, signor Nicola, si chiama come Zingaretti, il presidente della Regione.

Coincidenza curiosa, non trova?

«Volete sapere se Zingaretti mi ha chiamato dopo che è scoppiata la bomba? No, non l'ha fatto. Ma neanche il mio capo ufficio. Gelo totale. Da una settimana mi sento come isolato, emarginato, solo due-tre colleghi si sono avvicinati per farmi coraggio, per chiedermi come sto. E sì che sto male, sono preoccupato, sono spaventato». 

Subito è scattato l'allarme terrorismo, anche l'Fbi pare collaborerà alle indagini...

«Sì, in queste ore ho letto davvero di tutto: hacker russi, cinesi. Boh! Ma a me finora non è venuta a interrogarmi nemmeno la polizia postale. Un tecnico del Ced lunedì è entrato, ha smontato il computer e l'ha portato via. Da quel momento il buio. E io non riesco ancora a capire come sia potuto succedere. E perché proprio a me».

Lo sa che girano le voci più assurde e inquietanti?

«Eccome no, lo so bene, ogni giorno mi ronzano intorno colleghi affamati di gossip». 

Gli hacker sarebbero entrati perché lei, o suo figlio, stavate visitando di notte un sito porno. E ancora: i pirati avevano le password...

«Siti porno? È pazzesco, mio figlio poi la notte dell'intrusione, tra sabato e domenica se ho capito bene, era addirittura al mare, perciò figuratevi. E poi lui non conosce le mie password. Sapete? Malgrado tutto io resto tranquillo, perché penso che la polizia postale comunque ha preso i computer e potrà vedere da sola tutti i movimenti che ho fatto. Troverà anche qualche foto, ma niente di compromettente: cene con amici, immagini di mia moglie. Quante chiacchiere inutili: vendermi le password? Nemmeno per un milione di bitcoin e sì che ci sistemerei la famiglia! Ma io sono uno che non ha mai preso una multa in vita sua: ricordo che quando lavoravo ancora alla Provincia di Frosinone chiesi ai tecnici se potevano abilitarmi per leggere il sito Dagospia, perché è un sito che mi diverte molto, ma poi mi sentii quasi in colpa all'idea di navigare durante l'orario di lavoro e lasciai perdere». 

Ma allora perché hanno bucato proprio lei?

«Non lo so, forse perché a casa lavoro in orari strani, mi sveglio alle 3 di notte e comincio a smaltire le pratiche più diverse: bolli auto, rimborsi elettorali ai Comuni, invio email ai colleghi per anticipare il lavoro del mattino dopo. Lo smart working però è vulnerabile, la rete di casa è più fragile di quella aziendale. In azienda, faccio un esempio, ci sono 50 computer che come 50 barchini viaggiano tutti lungo lo stesso fiume e arrivano al mare. In smart working invece succede che i 50 barchini seguano ciascuno il proprio corso ognuno con il suo Ip e magari un corso è più accidentato dell'altro, può esserci una deviazione improvvisa, una secca. Ed ecco che per un hacker diventa facile entrare, se ha già puntato l'obiettivo. In questo caso, la Regione Lazio. Magari era già entrato da qualche altra parte e aspettava solo la porta giusta. La mia. Ricordo che accadde pure alla Provincia di Frosinone, mi pare nel 2012: un attacco hacker di Anonymous, in quel caso però dopo due giorni l'allarme rientrò, i file per fortuna erano stati salvati sui server». 

E se invece l'intrusione fosse avvenuta in ufficio?

«Mah, noi in ufficio abbiamo un promemoria. C'è scritto così: Prima di uscire controllare sempre la presa della ciabatta, controllare la presa della macchina del caffè, la presa del frigorifero, togliere le chiavi dall'armadio (perché qualche volta è sparito anche qualcosa) e infine spegnere le luci. Insomma la sera spegniamo tutto, non solo i computer. L'unica distrazione che mi concedo è cercare ogni tanto su YouTube le canzoni di Franco Califano o di Pino Daniele e poi mettermi a lavorare con loro in sottofondo. Saranno entrati così? Boh, io sto sempre molto attento alle mail farlocche, chessò quelle che ti dicono che ti si è svuotato il conto, anzi non le apro nemmeno, le cestino direttamente. Sto pensando alle mie debolezze: consulto, per esempio, un tutorial sempre su YouTube che ti spiega come lavorare con i fogli di Excel, che poi sono la mia vera passione. Di sicuro sabato 31 luglio di notte dormivo e domenica primo agosto ho lavorato da casa nel pomeriggio e ricordo che non avevo neppure il computer in carica, poi intorno alle 19.30 ho chiuso tutte le piattaforme e ho spento. Poi, il lunedì, mi hanno chiamato dalla Regione: hanno bucato il suo account, spenga subito il computer. Così è iniziato l'incubo».

Umberto Rapetto per “infosec.news” il 7 agosto 2021. Siamo in bilico tra l’abuso della credulità pubblica e il procurato allarme. Comunque la si voglia rigirare, la patetica storia degli hacker alla Regione Lazio ondeggia pericolosamente tra l’entusiastico “abbiano recuperato tutto” e il rassicurante “dai, non è successo nulla”. Probabilmente la cabina di regia della comunicazione dell’ente pubblico ritiene di aver dinanzi una platea di rintronati o, peggio, di “boccaloni” pronti a bersi le stravaganti e contraddittorie versioni dell’accaduto che si susseguono in rapida sequenza nella sbigottita incredulità di chi davvero ne sa qualcosa e nella insofferenza di chi – dotato di normale buon senso – è semplicemente stufo di vedersi rifilare un racconto differente ogni mezza giornata. Non si spara – mai come in questo caso – sulle ambulanze. Si potrebbe cannoneggiare ad alzo zero contro la Regione Lazio, ma la Convenzione di Ginevra vieta barbare manifestazioni di sopruso su chi non è in condizione di difendersi. Considerato che Zingaretti e i suoi, al netto degli aspetti drammatici della vicenda, hanno alimentato la cornucopia di “meme” che sono piovuti sui social e su WhatsApp nel più simpatico nubifragio umoristico degli ultimi tempi, ho pensato che meritino clemenza o – quanto meno – la diluizione di un immaginario processo “in piccole rate”, ciascuna incentrata su un singolo addebito. Questo benevolente pensiero induce ad affrontare – anche per la chiarezza che si deve agli attoniti lettori già sufficientemente disorientati – un tema per volta e ad attribuire l’assoluta priorità alla misteriosa questione del “backup”. 

Le fantomatiche copie di salvataggio. Quando si è constatato il naufragio informatico, i comuni mortali hanno immaginato scialuppe virtuali di salvataggio, ovvero il fatidico (anche se scontato) ricorso alle copie di “backup”, ovvero al duplicato degli archivi elettronici realizzato con serrata periodicità per fronteggiare qualsivoglia emergenza determinata da un guasto tecnico o da un’azione dolosa. Chi sferra un attacco ransomware somiglia a chi piazza una bomba ad orologeria e sa bene quando far scoppiare un ordigno. A differenza di chi costituisce il bersaglio, il bandito non procede in maniera dilettantesca anche quando non fa parte di una vera e propria organizzazione criminale. Persino il più babbeo dei malfattori sa di dover provocare l’esplosione digitale nel momento in cui il suo “target” avvia le operazioni di copia: in questo modo il malandrino procede alla cifratura indebita del patrimonio informativo preso di mira e fa in modo che la copia di salvataggio sia estratta da un originale già danneggiato. Chi è davvero del mestiere, oltre a conoscere perfettamente queste dinamiche e correre ai ripari con procedure di sicurezza in grado di evitare questo genere di dramma, esegue ripetutamente copie di salvataggio e ne conserva i relativi esemplari “offline”, ovvero non collegati a Internet. A farla semplice (perché semplice lo è davvero) un previdente amministratore di sistema – in casi del genere – avrebbe potuto contare sulla disponibilità di più copie di salvataggio, quella del giorno precedente, di due giorni prima, di tre e così a seguire. Quei dischi – irraggiungibili dai malvagi pirati informatici perché riposti in cassaforte – avrebbero consentito la pressoché immediata “ripartenza” nel giro di poche ore, giusto il tempo per verificare l’integrità del backup più recente possibile.

Diciamo che la sicurezza non era la priorità. Una settimana di blackout dovrebbe indurre chi gestisce il sistema informatico  a dare una coraggiosa prova di autocoscienza. Se il team (in cui si intrecciano “interni” alla Regione, fornitori e subappaltatori) avesse un briciolo di dignità procederebbe ad un harakiri collettivo in diretta streaming. Dopo le dichiarazioni dei politici dell’ente pubblico che hanno ammesso l’avvenuta criptazione dei dati e anche della copia di backup, la Regione ha resuscitato John Belushi e ha ritenuto di giocare la carta delle “cavallette”. Per chi non ha visto (cosa gravissima) “The Blues Brothers”, parliamo della più bizzarra elencazione di scuse per giustificare una riprovevole mancanza. Dopo tutti questi giorni salta fuori – nello stupore della popolazione sorpresa dal miracolo – che il backup non era stato cifrato, ma solo cancellato e che grazie ad un software provvidenziale è riemerso dalle sue ceneri, pardon, dal cestino… L’incredibilità del rinvenimento è talmente palese che persino Ignazio Marino, rimpianto sindaco della Capitale, ha ritenuto di dover twittare “Spero di sbagliarmi ma questo back-up che si materializza dopo sei giorni dall’incursione degli hackers e il salvataggio con software USA somiglia molto al pagamento di quasi 5 milioni di dollari in bitcoins per recuperare il controllo dell’oleodotto Colonial negli USA…”. Se il contribuente interessa sapere, e sapere davvero, se è stato pagato un riscatto cui fortunatamente ha fatto seguito la ricezione delle chiavi per sbloccare tutto (i criminali potevano anche intascare la cospicua somma e non spedire l’ “antidoto”), a me (e non solo a me) interessa capire come ci siano voluti sei giorni (e non sei minuti) per capacitarsi che il backup non era criptato, ma cancellato così come ha dichiarato un noto consulente (probabilmente al servizio anche di LazioCrea, visto che specifica di parlare con puntuale autorizzazione della Regione).

“Vi prego, lapidatemi…”. Un tweet memorabile, infatti, sfidando le pernacchie di tanti utenti del social cinguettante, avrebbe dato la notizia con il tono da biglietto di partecipazione nuziale o da fiocco azzurro o rosa: “Confermo con gioia che la Regione Lazio ha recuperato i dati senza pagamento di riscatto. Non decifrando i dati ma recuperando i backup che non erano stati cifrati ma solo cancellati. Ma lavorando a basso livello i tecnici di LazioCrea hanno recuperato tutto.”

Erano le 19 e 26 del 5 agosto. Le reazioni sono immediate. Si va dal “A me, me pare na strun**ta ?” di Maox17 al “Quindi sono bastate le Norton Utilities?” di WineRoland. Luca Corsini scrive “In attesa di un post-mortem (spero pubblico) questa mi sa tanto di supercazzola” e Alessandro Wilcke aggiunge “Caspita, avremmo potuto esportare i nostri tecnici negli USA per evitare loro di pagare il riscatto per l’oleodotto criptato di qualche settimana fa”. I commenti caustici non si sprecano e a questi si aggiungono subito gli ancor più divertenti tweet di chi si complimenta per l’ardimentosa opera dei tecnici. Quello di Wilcke è uno spunto interessante. Eh già, se quelli di LazioCrea sono così bravi perché non trasformano questa prodigiosa capacità di recuperare tutto in un business? Potrebbero avere un mercato che li attende…  

Edoardo Izzo per "la Stampa" il 5 agosto 2021. La cyber-emergenza scatenata dall'attacco hacker al Ced della Regione Lazio dilaga ben oltre i confini nazionali e riscoperchia una triste realtà: nessun sistema è protetto al cento per cento rispetto alla pirateria informatica, e trovare il cerotto utile a mettere in sicurezza le reti informatiche mondiali sarà molto difficile. Così da ieri ci sono anche gli agenti dell'Fbi statunitense e quelli dell'Europol, centro europeo per la criminalità informatica, a collaborare con la Polizia Postale nell'inchiesta coordinata dal procuratore di Roma Michele Prestipino e dal procuratore aggiunto Angelantonio Racanelli per i reati di accesso abusivo a sistema informatico, tentata estorsione e danneggiamento ai sistemi informatici. Tutti aggravati dalla finalità di terrorismo. La richiesta di riscatto, che in questi casi può raggiungere cifre a sei zeri, è arrivata sui pc dell'Ente con una schermata nera e un beffardo «Hello Lazio» con cui esordisce il messaggio. Il virus cripta le informazioni e contestualmente le copia. Per sbloccare la situazione i pirati telematici indicano un link che una volta cliccato apre la trattativa per il pagamento. La situazione resta, quindi, «complessa e soggetta ad evoluzione», assicurano fonti qualificate. Nel mirino di chi indaga, anche la ricerca di eventuali analogie con altre intrusioni informatiche con ransomware cryptolocker avvenute in Italia e anche all'estero. Un'allerta esplicita per fenomeni già ampiamente evidenziati a livello mondiale e in particolare in Europa: il cybercrime è cresciuto in modo esponenziale soprattutto durante la pandemia, sia in quantità che in grado di sofisticazione; secondo gli ultimi dati raccolti dalla commissione Ue - che ha in cantiere due proposte legislative tese ad affrontare i rischi attuali e futuri online e offline - gli attacchi hacker nel 2020 sarebbero aumentati del 75%, avendo sotto tiro soprattutto ospedali e strutture sanitarie. Sul versante interno l'ansia resta condivisa: «Fronteggiare a 360° il rischio cybernetico oggi rappresenta una delle priorità per la sicurezza nazionale e locale», ha affermato ieri Massimiliano Fedriga, presidente della Conferenza delle Regioni, chiedendo uno sforzo congiunto governo-Regioni e investimenti appropriati da inserire anche nel Pnrr. Sulla vicenda ha mantenuto i riflettori accesi anche il Copasir, Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, che dopo aver ascoltato martedì il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese ieri ha sentito in audizione il direttore generale del Dis (Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), l'ambasciatrice Elisabetta Belloni, e il vicedirettore, Roberto Baldoni. «Ci è stata fornita una ricostruzione ampia e circostanziata dell'evento, chiarendone le dinamiche, l'impatto, le possibili conseguenze, e prospettando le misure di contrasto più efficaci da adottare», ha reso noto il presidente del Copasir, Adolfo Urso (FdI). Contenuti vincolati al segreto ma «possiamo dire che anche l'intelligence si è mossa subito per capire come contrastare meglio e nel contempo l'amministrazione sta agendo per ripristinare in efficienza il sistema». A testimoniare lo sforzo gigantesco che il Lazio sta affrontando per recuperare la funzionalità del sistema è l'assessore regionale alla Sanità, Alessio D'Amato, in prima linea in questa bufera: «Entro 3 giorni riprenderanno le prenotazioni dei vaccini e Anagrafe Vaccinale Regionale; a seguire Asur-Anagrafe Sanitaria Unica Regionale, cuore dell'Anagrafe Sanitaria condivisa con le anagrafi locali e aziendali; poi Fse-Fascicolo Sanitario Elettronico; e infine entro metà mese il nuovo sistema Cup per la gestione delle prenotazioni di esami e visite», ha spiegato. Garantendo anche che «l'attacco informatico non ha avuto alcuna ripercussione su tutta la rete ospedaliera e dell'emergenza-urgenza e nessun dato sanitario è stato sottratto». Bonifica e ripristino - secondo una nota della Regione - sono al momento affidati al Next Generation Soc del Gruppo Leonardo, ingaggiato da Laziocrea sin dalle prime battute dell'attacco hacker attraverso il Cyber Crisis Management Team (Ccmt) per identificare le modalità di compromissione, eradicare la minaccia e seguire il ripristino dei sistemi. La Regione cerca di correre ai ripari, mentre proprio ieri qualche 5 Stelle ha pensato bene di rispolverare un dossier della Corte dei Conti su falle e carenze regionali sul fronte informatico, segnalando risorse inadeguate, scarsi investimenti e assenza di regia.

Valentina Errante per "il Messaggero" il 5 agosto 2021. Mancava la doppia password di autenticazione e con molta probabilità la chiave, per quell'unico livello di accesso e riconoscimento previsto dal sistema, era memorizzata. Al momento, un solo dato è certo: la porta di ingresso dei criminali informatici al cuore virtuale della Regione Lazio, è stato il pc di un funzionario, in smart working dalla sua casa di Frosinone. Il dipendente di Lazio Crea, società in house della Regione, non è ancora stato interrogato dalla polizia postale, impegnata da giorni nell'impresa titanica di decriptare i codici di numeri e sillabe che hanno sostituito con numeri e sillabe tutte le informazioni contenute nel Centro elaborazione dati dell'amministrazione. Operazione alla quale stanno collaborando anche la nostra intelligence, Fbi ed Europool. Al momento non sembra esserci soluzione alla decifrazione dei dati. I criminali informatici hanno invitato il Lazio a una trattativa attraverso un link. L'intenzione manifesta è di non cedere a una richiesta di riscatto. Ma ieri, dalla pagina con la quale gli hacker invitavano alla trattativa su un riscatto in cambio della chiave di decriptazione, si sarebbe attivato un countdown di 72 ore. Dopo le quali, se non fosse dato seguito alla mediazione, non si sa cosa accadrà e se tutti i dati dell'amministrazione, che sono criptati, saranno cancellati o venduti sul dark web.

LA CHIAVE DI ACCESSO Quando domenica gli esperti della polizia postale hanno individuato la porta d'ingresso di Ransom Exx, il virus che ha criptato tutte le informazioni, probabilmente copiando i dati, l'uomo, che è uno degli amministratore della rete, ha detto ai colleghi di avere sempre rispettato tutti i protocolli previsti. Ma probabilmente è in quei protocolli la falla. Non si sa ancora se il virus sia arrivato attraverso un sito sul quale il dipendente di Lazio Crea è andato a finire navigando in rete, mentre era collegato con il Vpn, ossia la rete virtuale riservata e privata attraverso il quale un computer è connesso a un sistema chiuso. O se alla postazione, nella notte tra il 3 luglio e il primo agosto, ci fosse suo figlio o un familiare. Di certo la porta della Regione era aperta, forse la password era memorizzata e, come ha rilevato la Postale, per il Vpn non erano previsti due passaggi di identificazione. Misura prevista dalle basilari norme di sicurezza. Il virus sembra possa arrivare dalla Russia, ma sono solo ipotesi: l'Ip può rimbalzare su server che si trovano in altri paesi rispetto alla reale posizione degli hacker.

ALTRI ATTACCHI Non trova al momento conferma, invece, l'ipotesi che l'attacco degli hacker sia collegato a quello, molto meno pesante, subito da Engineriing spa, il colosso specializzato nello sviluppo di Software con il quale Lazio Crea ha un contratto. Le cui credenziali sarebbero state vendute sul web per 30mila euro in bitcoin la notte del 30 luglio, poco più di 24 ore prima dell'attacco al Ced del Lazio, e che avrebbe consentito anche l'ingresso al sistema del colosso del petrolio Erg, che in effetti ha subito un'aggressione informatica, anche se contenuta, e a quello di una grossa spa delle costruzioni. Secondo le informazioni della rete, i dati sottratti a Erg potrebbero essere diffusi dai pirati informatici il prossimo 14 agosto. Ma i virus che hanno aggredito le altre società sono diversi rispetto a quello che ha infettato il sistema della Regione.

LA POLEMICA Mentre gli esperti di Fbi, Europol e polizia postale tentano di trovare la chiave di decriptazione, sfruttando l'esperienza di altri attacchi avvenuti con ransomware cryptolocker, alla Regione è entrata in azione il Cyber Crisis management team, del quale fanno parte anche i tecnici di Leonardo. Sullo sfondo una sottile polemica dopo le dichiarazioni dell'assessore alla Sanità del Lazio Alessio D'Amato che, nel primo pomeriggio ha messo in risalto l'intervento degli esperti della società, che fa capo anche al ministero dell'Ecomomia, sottolineando come da due anni Leonardo fosse supervisore per la cyber di Lazio Crea. Un'affermazione alla quale il colosso dell'aerospazio ha replicato a stretto giro: «Leonardo non ha mai avuto la gestione operativa dei servizi di monitoraggio e di protezione cyber di Laziocrea». Intanto il consiglio del Notariato che ha subito un furto di dati la scorsa primavera precisa che non si è trattato di un attacco di hacker. 

Dal Corriere.it il 5 agosto 2021. Qualcuno ha attivato nella giornata di mercoledì il conto alla rovescia nella richiesta di riscatto inviata dagli hacker che domenica notte hanno paralizzato tutte le attività della Regione Lazio gestite dal sistema informatico con un ransomware. È quanto è emerso nel corso del pomeriggio, rimbalzato dall’edizione del Tg1 delle 20. Nella comunicazione informatica contenuta nello stesso malware che ha creato danni enormi non alla rete sanitaria regionale, e di conseguenza alla campagna vaccinale, sarebbe contenuto anche un ultimatum di 72 ore, quindi entro la giornata di sabato prossimo, passato il quale non è chiaro cosa potrebbe accadere. Si teme che in questo modo si possano perdere definitivamente tutti i dati cifrati dagli incursori, anche quelli dell’unico backup di rete fatto dalla Regione Lazio che si è trovata in pratica senza copie dell’enorme database violato dopo aver clonato le credenziali di un amministratore di sistema residente a Frosinone che stava utilizzando il pc aziendale in smart working per scopi privati. Non si esclude tuttavia che ad attivare la richiesta di riscatto sia stato proprio il meccanismo interno al malware, che in mancanza di una risposta da parte delle vittime, fa partire il conto alla rovescia per costringerle a prendere una decisione in un tempo prestabilito. Le indagini della Postale proseguono intanto a tutto campo per chiarire anche questo aspetto dell’intricata vicenda cominciata domenica notte con il blitz degli hacker nel sistema Ced della Regione, nella palazzina C della sede in via Cristoforo Colombo. Ma a lasciare perplessi è il contenuto del messaggio fatto trovare nel virus che comincia con un amichevole «Hello Lazio!», che potrebbe dimostrare una scarsa conoscenza dell’obiettivo colpito - e anche la portata di quello che è stato colpito - visto che si tratta della Regione e non di un’azienda privata. In più il messaggio è tutto in inglese: «I vostri file sono criptati, non provate a modificare o rinominare nessuno di essi perché potrebbe subentrare una perdita di dati piuttosto seria. Qui sotto c’è il vostro link riservato con tutte le informazioni su questo evento (usate la piattaforma Tor) - quella che immette nel torbido mondo del dark web - e non divulgare questo link per mantenere riservato quello che sta accadendo».

Carlo Pizzati per “La Stampa” il 6 agosto 2021. Una rete di disinformazione e di propaganda a favore della Cina è riuscita a infiltrarsi nei social network di tutto il mondo grazie all’intelligenza artificiale, al furto di profili in Bangladesh e in Turchia e alle tecniche più avanzate di comunicazione digitale. Ma a causa anche di grossolani errori grammaticali in inglese, tipici del traduttore automatico online e di chi non ha dimestichezza con la lingua utilizzata negli attacchi, la squadra di propagandisti è stata smascherata dal «Centre for Information Resilience» britannico. Erano più di 350 i falsi profili il cui obiettivo era gettare discredito su oppositori e critici del governo cinese e disseminare un ingannevole messaggio di largo sostegno online per le politiche di Pechino. L’obiettivo era delegittimare sui social americani le politiche occidentali e promuovere immagine e influenza cinesi in America e in Europa. Nei loro post, gli anonimi agenti della propaganda difendevano la politica cinese nello Xinjiang, negando le evidenze sulla persecuzione dei musulmani uiguri e cercando di spostare l’attenzione sul fatto che gli Stati Uniti hanno avuto la schiavitù e che in America continuano ad esserci violazioni di diritti umani, come nel caso dell’afroamericano George Floyd, soffocato durante l’arresto da un poliziotto poi condannato per l’omicidio. Il network faceva circolare anche vignette un po’ datate e grottesche del tycoon cinese in esilio Guo Wengui, critico del regime cinese, della denunciatrice anticorruzione Li-Meng Yan, oltre che dell’ex consulente di Donald Trump, Steve Bannon. La rete clandestina operava su Twitter, Facebook, Instagram e YouTube con una tecnica già conosciuta chiamata «astroturfing», cioè una campagna fittizia di opinione di massa che funziona così: un falso profilo lancia una presunta notizia o una denuncia sociale, poi altri profili falsi ritwittano, ri-postano o rilanciano il contenuto, dando così l’impressione che quel tema abbia un seguito reale e voluminoso sia di «mi piace» che di commenti, mentre invece è solo una manovra di comunicazione. È così che si crea un’influenza sui temi, cercando di scalare le tendenze del giorno utilizzando sempre gli stessi hashtag. Ed è questo uno dei modi per manipolare, o tentare di manipolare, l’opinione online. È proprio grazie all’impiego di queste tecniche che gli esperti del Cir sono riusciti ad individuare una ricorrenza sistematica negli hashtag, scovando a uno a uno i falsi profili, denunciati poi ai gestori dei network che hanno sospeso gli account. Anche perché c’era un altro dettaglio a denunciarli. Difatti chi intesseva questo piano di propaganda ha utilizzato anche false foto-profilo generate con l’intelligenza artificiale grazie al nuovo framework SytleGAN. Le foto di fantasmi mai esistiti, creati con un collage dal software, servivano a eludere il procedimento di identificazione. Gli account aperti da veri utenti (molti in Bangladesh e in Turchia), poi ceduti, o rubati individuando la password, erano invece più facilmente smascherabili poiché si poteva risalire all’identità e capire che il profilo non era più gestito dal vero proprietario, anche perché d’improvviso cambiava la lingua utilizzata nei post. Invece con le foto generate dall’intelligenza artificiale si pone un ostacolo ulteriore allo smascheramento. Ma i programmi, per quanto avanzati, hanno dei punti deboli. Il più ovvio è che gli occhi dei finti proprietari generati dall’AI sono sempre alla stessa altezza, nell’inquadratura della foto-profilo. Tirando una riga dritta tra le foto dei profili sospetti all’altezza degli occhi è stato facile individuare subito che erano dei falsi. E mettere fine a questo network di spammers di propaganda politica pro-Pechino.

La Terza guerra mondiale? Di certo è qualcosa di grosso. Il futuro è incerto, come nel 1938…Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Agosto 2021. La guerra di Troia non si farà, proclamava dalle scene teatrali Jean Giraudoux. E quando la guerra arrivò la chiamarono la drole de guerre, la funny war o la buffa guerra. Tutti si erano dichiarati guerra, Hitler se ne andava a zonzo con le sue armate colpendo qualsiasi luogo da cui sprizzasse petrolio, ma in fondo la vera guerra non c’era ancora e quando arrivò quasi nessuno ci voleva credere: morire per Danzica era davvero una stupida idea, ma vedrai che gli inglesi faranno la pace coi tedeschi che sono anche cugini, figurati poi gli americani che producono solo film western. E invece finì come finì. Quella fu una guerra poco annunciata, molto realistica, e più che una guerra fu la più grande tragedia che l’umanità ricordi. Quando ero bambino o anche adolescente quando si parlava della guerra, la gente intendeva la Prima guerra mondiale, quella chiara, combattuta da una parte dall’altra e poi vinta. La Seconda guerra mondiale era solo un incubo. E come sarà la terza? Ce ne sarà una terza? Per la prima volta il mondo delle grandi potenze ha conosciuto settantacinque anni di pace, salvo le guerre intermedie che non sono mai cessate. Ma dovunque ci fosse il rischio della bomba atomica, la guerra si è fermata. Ma oggi? Quando vediamo gli hackers che attaccano la Regione Lazio e pensiamo che si tratti di odiosi sprovveduti no-vax, veniamo smentiti dai servizi segreti perché in realtà si tratta di attacchi militari condotti con mezzi militari su obiettivi militari quali sono l’organizzazione di uno Stato, i suoi servizi, i suoi ascensori, aeroplani banche bancomat autostrade ponti treni scuole ospedali reti stradali. Tutto sta avvenendo nel mare del Sud della Cina, ma noi specialmente in Italia facciamo finta che quella zona del mondo non esista. Eppure, persino la Merkel, una signora così restia a mandare persino dei vigili urbani a fare le esercitazioni della Nato in Polonia, ha spedito una nave da guerra nel mare della Cina del Sud per recapitare il seguente avvertimento: la Germania non tollera che la Cina si appropri del mare del Sud della Cina, perché non è della Cina ma è di tutta la comunità internazionale. Anche gli inglesi hanno mandato la loro super potente porta aerei Queen Elizabeth The Second. Emmanuel Macron ha mandato le navi francesi dopo averle mandate anche nell’Egeo a schierarsi con la Grecia contro la Turchia. La Francia non perde mai d’occhio gli scenari internazionali. Quanto al Giappone, tre giorni fa ha rilasciato una strabiliante dichiarazione con cui si avverte la Cina che Tokyo considera Taiwan un’isola protetta per i propri interessi e che qualsiasi limitazione della sua sovranità sarà considerata dal governo giapponese come un atto di guerra. Il Vietnam? Il glorioso Vietnam comunista si schiera anch’esso dalla parte degli americani con l’Indonesia e le Filippine, l’Australia e il Borneo. Secondo George Friedman che è il miglior forecaster, quello delle previsioni del tempo che nel corso dei decenni si è trasformato nel massimo previsore degli eventi della storia, la Cina ha ormai eguagliato gli Stati Uniti con una potenza navale pari a quella americana per qualità e quantità. Ciò vuol dire che Cina e Stati Uniti sono due avversari di pari forza? No, questo non si può dire, perché nessuno è in grado di valutare l’efficacia e l’efficienza delle forze armate cinesi dal momento che non hanno una storia pregressa né di sconfitte né di vittorie navali. A Pechino si sono fabbricati un giocattolo all’altezza delle loro aspirazioni, ma hanno un handicap. L’handicap sta nel fatto che gli Usa potrebbero, se lo volessero (e per ora non ne hanno intenzione) bloccare tutti i porti cinesi sul Mar della Cina e impedire l’uscita e l’arrivo di qualsiasi nave. Questo i cinesi lo sanno e purtroppo per loro non hanno una contromossa altrettanto efficace. Altra grande novità: in queste ore si stanno svolgendo modernissime esercitazioni comuni tra russi e cinesi di aria, mare, terra e spazio. Bisogna sempre ricordare che la prossima guerra si combatterà sui computer e sulla Luna, tra satelliti come Guerre Stellari. Cinesi e russi sembrano uniti in un’unica forza militare che però non è una alleanza. L’altro campo di battaglia che coinvolge queste potenze è l’Afghanistan dove talebani stanno riconquistando le posizioni abbandonate e la Cina ha già fatto sapere di essere per la prima volta interessata a quel grande snodo su cui nell’ottocento andavano a morire i piccoli soldati cantati da Kipling nel poemetto The little British Soldier: «se sei ferito e sperduto nelle pianure dell’Afghanistan e già vedi le donne che arrivano con i loro coltelli per fare a pezzi quel che rimane di te, allungati fino al tuo fucile e fatti saltare le cervella e vai dal tuo Dio come un soldato». Si chiamava allora “Il grande gioco” tra Russia, impero inglese, poi tedeschi, americani. Questi attori sono in parte scomparsi ma arrivano i cinesi che, d’altra parte sono ovunque in Africa dove costruiscono ponti, strade, scuole, ospedali, servizi di polizia e sanitari e indebitano ogni paese perché sono di manica larga nel vendere aiuti, ma sono esattori implacabili dei loro creditori. L’Africa sta diventando una colonia cinese ma non è un mercato sufficiente per assorbire quanto ai cinesi serve per avere ciò che loro occorre. Ciò che a loro occorre è certamente una pace con gli Stati Uniti, ma nuove condizioni. Tuttavia, e questo è un elemento attuale di guerra reale, i cinesi hanno fatto qualcosa che mai prima d’ora fin dai tempi di Tucidide un paese bellicoso aveva fatto: hanno indicato qual è il loro primo obiettivo militare. Il primo obiettivo militare della Repubblica popolare cinese è Taiwan. Taiwan formalmente è un’isola che appartiene alla Cina continentale, dunque alla Repubblica popolare, ma non lo è mai stata fin dai tempi dell’occupazione giapponese negli anni Trenta. E non ha alcuna intenzione di diventarlo. Taiwan in questi giorni ha accolto esperti americani andati a insegnare come installare ed usare i missili Patriot, cosa che ha mandato ulteriormente in bestia Pechino. Fin dagli anni Cinquanta Pechino rilascia comunicati alla radio da cui si apprende che la cosiddetta Taiwan è una provincia continentale cinese. Prendere Taiwan non è un’impresa logisticamente facile: 200 km di mare devono essere assaltati con mezzi anfibi e una volta sbarcati dopo l’accanita resistenza taiwanese devono poter installare delle teste di ponte e far funzionare un rifornimento continuo di uomini e mezzi dalla Cina continentale. Questi rifornimenti sono vulnerabili e se gli Stati Uniti decidessero di intervenire colpirebbero nei rifornimenti più che nelle basi su Taiwan. L’isola è diventata importantissima perché è l’unica produttrice di alcuni tipi di microchip con cui sono fatti i nostri telefonini e la maggior parte delle attrezzature elettroniche militari. Solo a Taiwan hanno i metalli adatti e la tecnologia per farli. Molte di queste aziende sono dislocate negli Stati Uniti ed altre in Giappone punto ma il grosso sta lì e Pechino lo vuole. Tuttavia è stranissimo che Pechino abbia annunciato quale sarebbe la prima mossa a sorpresa- attaccare Taiwan- che però non sarebbe una mossa a sorpresa. E tutti sono ormai d’accordo a non lasciar correre. Ma se le cose restano come sono oggi, la Cina perde la faccia e il regime perderebbe la fiducia dei suoi cittadini che, per quanto coatti militarizzati, sembrano concedergliela. Ma la Cina anche due altri gravi problemi: il primo è che manca una popolazione maschile sufficiente per garantire la nascita di nuove generazioni. La sciagurata politica di Mao di un figlio solo ha condotto all’affogamento ai piedi del letto di tutte le neonate femmine per mezzo secolo sicché non esistono bambine e poi non esistono donne, quindi, non esistono mogli e madri in Cina, e non nascono i figli che dovrebbero nascere. Inoltre, la popolazione cinese come anche quella africana e asiatica in generale dà segni di contrazione spontanea nelle nascite. La seconda è la crescita esponenziale di uno spirito nazionalista di conquista che si esprime non soltanto nella vocazione militare, ma anche nella voglia revanscista di supremazia persino nelle arti, che spinge il governo cinese e i suoi funzionari ad esplorare il resto del pianeta e considerarlo una sua possibile provincia da cui imparare ogni tecnica per poi riprodurla sulla madre patria, ma con un sostanziale di disprezzo nei confronti degli altri. Una larga parte della Cina si sente americana perché ha studiato in America, parla inglese e vive addirittura in città cinesi dal nome americano, con negozi e ristoranti americani, ma al tempo stesso è totalmente cinese: sono quei milioni di americani cinesi nati e vissuti in America che poi hanno scelto la Cina. I cinesi sono i migliori hacker del mondo insieme ai russi. Nessuno può batterli e insieme sono scatenati in una serie di miglioramenti ed esercitazioni delle loro capacità di penetrazione nei sistemi di cui quello della Regione Lazio che abbiamo visto in questi giorni potrebbe, anche se non ne abbiamo assolutamente le prove per ora, essere un esempio tipico. Come disarticolare un sistema sanitario programmato, come creare il terrorismo attraverso la mancanza di sanità, facendo saltare gli appuntamenti medici di qualsiasi genere, come far crollare la fiducia nei servizi, nei trasporti, nelle scuole, negli ospedali nelle strade nei mercati che distribuiscono cibo. Ultimo elemento: la Cina sta affrontando una nuova ondata di Covid partendo proprio dalla zona di Wuhan dove l’epidemia è nata e ha ripreso azioni drastiche di cui si ignora l’entità, essendo sicuro che le informazioni che finora la Cina ha dato sono totalmente non controllate e probabilmente non vere. Gli Stati Uniti non sono sicuri della migliore posizione da prendere e così l’Europa. Oggi come nel 1938 il mondo si trova di fronte a un futuro incerto, in cui prevale negli animi quello che allora si chiamava l’appeasement: l’appeasement, la certezza che alla fine la pace prevarrà e quello fu lo spirito di Monaco quando l’inglese Chamberlain e il francese Daladier, ospitati da Mussolini a Monaco, firmarono carte false pur di salvare la pace guadagnandosi disprezzo e scherno di Churchill che sibilò: «Avete sacrificato l’onore per la pace ed avrete entrambe le cose: il disonore e la guerra!». Oggi i tempi non sono quelli, la storia non si ripete mai nemmeno sotto forma di farsa, ma certamente siamo alla vigilia di qualcosa. Nessuno sa dire che cosa, anche se le previsioni sono tutte sotto i nostri occhi. Ma non abbiamo esperienza e strumenti per prevedere. Sappiamo solo che qualcosa di troppo grosso sta accadendo da tempo e che va sempre peggio. Non abbiamo idea di che cosa hanno in mente i giocatori. Intanto da un giorno all’altro possono venir meno i servizi essenziali e tutto quello che sappiamo dire è che ci sono dei cattivi hacker in giro, un po’ come gli acari tra le lenzuola o nei tappeti per i quali occorrerebbe ogni tanto una buona passata di aspirapolvere. Ma l’aspirapolvere come metafora è una pessima scelta perché l’ultima volta fu a Hiroshima e da allora si è preferito evitare. Ma oggi? Non solo non abbiamo strumenti per decifrare, ma ci lesinano anche le notizie, il che aggiunge allarme ad allarme.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Lorenzo De Cicco per "Il Messaggero" il 5 agosto 2021. Non sono ragazzini in felpa; né smanettoni ideologizzati ispirati da Anonymous. Qui l'ideologia c'entra poco. C'entrano i soldi. Vagonate di soldi. L'organizzazione dei nuovi hacker - ma forse sarebbe meglio chiamarli col loro nome, cybercriminali - ricalca quella delle cosche: c'è una gerarchia, colonnelli, truppe, compiti ripartiti. Un reparto progetta i bacilli digitali che infettano le reti, mentre altri, come un braccio armato, mettono in pratica l'attacco. A volte sono soggetti diversi: c'è chi progetta solo i virus e chi, attraverso un intermediario, li compra per attaccare in proprio un bersaglio definito. Ma spesso i due piani si mischiano. È un unico soggetto, con più articolazioni, a seguire da cima a fondo l'operazione: le «gang», nel linguaggio degli hacker. Chi è riuscito a penetrare nei server della Regione Lazio? Nella ransom note, la richiesta di riscatto, non c'è una firma. «Hello Lazio!», scrivono i cybercriminali, avvertendo che i file sono stati criptati e che per non danneggiarli bisogna seguire una procedura. La indicherebbe un link, che gli esperti di LazioCrea, la società informatica della Pisana, non hanno voluto cliccare. Ma alcuni siti specializzati internazionali l'hanno analizzato. Il portale statunitense BleepingComputer, attraverso l'«onion Url» - per farla molto semplice: l'indirizzo nel dark web - ha ricondotto l'operazione alla «RansomExx gang», che ha sviluppato il virus RansomExx, uno dei più famosi ransomware in circolazione, cioè i virus con richiesta di riscatto. La RansomExx gang, riporta sempre il sito americano specializzato in sicurezza informatica, ha già colpito in altri continenti, soprattutto negli Usa e in Sudamerica. Nel mirino sono finite «le reti governative del Brasile, il dipartimento dei Trasporti del Texas, la Cnt (Corporación Nacional de Telecomunicación) dell'Ecuador».

E ancora: una multinazionale giapponese che si occupa di sistemi di intelligenza artificiale, un altro colosso della manifattura della fibra laser che opera tra Stati Uniti, Germania, Italia e Russia. Il contesto in cui è partito l'attacco che ha messo kappaò i sistemi informatici della Regione della Capitale sembra essere quello delle reti criminali sovrannazionali. «RansomExx è sia il nome di un prodotto, un virus che chiede il riscatto, che un gruppo criminale», spiega Roberto Setola, direttore del Master in Homeland Security al Campus Biomedico di Roma. Al di là della ricostruzione di BleepingComputer, sposata ieri anche da altri portali specializzati, è ancora presto per stabilire se in questo caso la gang abbia pianificato l'attacco «o abbia solo venduto il prodotto-virus a terzi», dice Setola. Quel che è certo è che ci troviamo difronte a «strutture internazionali, ramificate, ampie», è convinto Corrado Giustozzi, esperto di sicurezza cibernetica, ex consulente dell'Agenzia per l'Italia Digitale e membro, dal 2010 al 2020, dell'Advisory Group dell'Agenzia dell'Unione Europea per la Cybersecurity. «Sono reti organizzate, funzionano in modo simile alle cosche, a volte collaborano tra loro, a volte sono in competizione. Vivono riciclando i riscatti milionari. Spesso in partnership con la criminalità organizzata comune, di cui possono anche essere costole di diretta emanazione. Pensiamo alla mafia russa, che ha un proprio battaglione di hacker». Alcuni di questi gruppi hanno sede in ex hangar militari in Asia, capannoni dove lavorano 40-50 persone per le reti di medie dimensioni. Mentre per quelle più grandi possono essere anche il doppio. Riccardo Meggiato, consulente in cyber-security, è convinto, per le modalità con cui è stato messo in atto, che l'attacco sferrato al Lazio abbia avuto origine «in Russia o in Cina, comunque in Asia. Ho letto di un collegamento con la Germania, ma lì al più può essere rimbalzato il segnale». Anche se si tratta di malware sofisticati, può bastare poco perché s'infiltrino nelle reti protette: «Nell'80% dei casi - riprende Setola dell'università Campus - il virus penetra per l'imprudenza di un dipendente». 

Attacco hacker, chi sono i terroristi e cosa vogliono davvero: il virus più pericoloso, perché l'Italia rischia di capitolare. Renato Farina su Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. L'Italia è sotto attacco. Il luogo dell'operazione è una delle strutture più delicate dal punto di vista della sicurezza nazionale: la Regione Lazio. Il commando di terroristi (questa è la parola usata da Nicola Zingaretti) ha perforato il sistema informatico e si è impadronito, bloccandolo, del piano di vaccinazione contro il Covid. È come se una mano nemica e guantata avesse afferrato il cuore pulsante da cui dipende la salute di cinque milioni di persone e lo strizzasse a piacere. Quel che è accaduto e sta accadendo non è un affare che riguardi le alte sfere, come siamo sempre indotti a pensare quando si parla di aggressioni informatiche, da analfabeti digitali come sono gran parte degli italiani di una certa età. Non è come quando salta la corrente, dopo di che tutto si aggiusta grazie a un bravo tecnico. È un atto di guerra del nuovo tipo. Due domande. Perché l'Italia? Siamo pronti a difenderci? 1. Una banda armata di competenze tecnologiche elevatissime ha puntato il nostro Paese, ha individuato il ventre molle, ha compreso che poteva manomettere il comparto avanzato da cui dipende la fiducia della nazione e la crescita economica (la lotta alla pandemia), nonché impadronirsi di dati delicatissimi (le cartelle sanitarie dei nostri vertici politici, ma anche elementi generali sulla salute di una porzione significativa degli italiani).

DATI SENSIBILI

Abbiamo assistito nei mesi e nelle settimane scorse alle violente bordate tirate dal presidente degli Stati Uniti d'America contro la Russia e la Cina, sospettate di condurre direttamente i bombardamenti cyber o di lasciare mano libera a entità specializzate nel minare i nodi strategici dell'energia e del vettovagliamento alimentare (ricavandone milionari riscatti e seminando sfiducia), nonché condizionare con invasioni di false notizie l'opinione pubblica per indebolire le istituzioni. Per la prima volta a essere in totale balìa di queste forze criminali non è una multinazionale privata, ma di fatto un'istituzione nevralgica di uno Stato sovrano. L'Italia dà fastidio. Non c'è dubbio. Siamo cresciuti in maniera esagerata quanto a prestigio sulla scena politica, ma non è tanto merito di un uomo solo, e cioè Draghi, quanto per la dimostrazione complessiva di questo nostro popolo così vituperato di tirarsi su, riprendendo con risorse interiori che parevano perdute, un ruolo di leadership europea. Si dice che gli attacchi possano provenire dalla Germania, ma è una ipotesi, e a sua volta questa aggressione potrebbe essere semplicemente transitata da lì. Di certo, per una volta Zingaretti ha ragione e sa quel che dice quando la definisce "azione terroristica". Dunque non è malavita che ha fatto i master, ma c'è un disegno. Il terrorismo ha per scopo la destabilizzazione. 2. Questo attacco ci trova impreparati. Non abbiamo nessuno scudo predisposto contro questi proiettili perforanti. La colpa è anzitutto culturale. Diciamocelo. Sembra ai profani (quanti? L'80% degli italiani?) qualcosa di impalpabile, dunque in fondo marginale, questo attacco cibernetico all'Italia in corso da due giorni. Magari se ce lo chiede un intervistatore diremmo che sì, sappiamo che è grave. Ma mentiamo, in fondo non ci crediamo. Non vediamo scorrere il sangue, il sequestro non riguarda persone in carne e ossa, ma informazioni, archivi, dati organizzativi. Per questo non riusciamo ad allarmarci nel profondo. Questo è capitato alla nostra classe politica e governativa salvo pochi illuminati che si sono però presto arresi. Nel 2014 Matteo Renzi prese l'iniziativa di istituire un'agenzia e investimenti per qualche centinaio di milioni onde approntare un'armatura difensiva. Una inezia. Gli Usa negli stessi giorni investivano cento volte tanto. Ma fu bloccato lo stesso, per le solite beghe su chi avrebbe dovuto controllare quell'ambito. E dire che dieci anni fa si erano già contati un centinaio di imboscate dei pirati informatici. Adesso con il governo Draghi si è cominciato a mettere su un'agenzia di cyber sicurezza. I fondi sono adeguati. Il sottosegretario con la delega in questo settore delicatissimo e urgente, Franco Gabrielli, ha dato un paio di interviste, prima al Riformista e poi ieri a Repubblica, in cui prospetta grandi cose. «Con questo decreto noi vogliamo mettere in sicurezza le strutture esistenti e quelle che nasceranno. Per far ripartire l'Italia è necessario anche metterla in sicurezza sotto il profilo del cyber». 

SIAMO IN RITARDO

Dal dire al fare c'è di mezzo un vuoto che durerà anni. Non basta assumere bravi muratori. Ci vuole un progetto e del tempo per tirare su questa barriera. E nel frattempo? In piena confusione istituzionale, il Copasir, l'organismo parlamentare che si occupa di servizi segreti, convoca per informarsi la neo-direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), Elisabetta Belloni, per rispondere sulla materia incandescente. Peccato che nel frattempo Franco Gabrielli abbia portato via al Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza) quell'agenzia in fieri. Intanto converrà rafforzare le nostre alleanze nel settore: con gli alleati occidentali, please. Fino a poco tempo fa strizzavamo l'occhio alla Cina.

Mondo sull'orlo delle cyber-guerre. Le armi micidiali dei nemici invisibili. Gli hacker che hanno attaccato la Regione Lazio, anziché dei pirati più o meno solidali con i no vax, sono forse agenti di spionaggio e di sabotaggio legati a potenze straniere? Paolo Guzzanti su Il Quotidiano del Sud il 4 agosto 2021. Gli hacker che hanno attaccato la Regione Lazio anziché essere come si poteva pensare in un primo momento dei sabotatori piu o meno solidali con i no vax, sono molto più probabilmente agenti di spionaggio e di sabotaggio internazionale legati a potenze straniere. Sembra un’enormità, detta così e in fondo lo è. Ma l’enormità sta nel fatto che l’ipotesi è assolutamente realistica. Quale potrebbe essere la potenza straniera interessata a sabotare la sanità della Regione Lazio e a far saltare gli appuntamenti per le vaccinazioni e anche le normali visite di controllo?

Per poter rispondere questa domanda dovremmo immaginarci su una macchina del tempo che ci consentisse di guardare il pianeta terra così com’è abitato oggi nell’agosto 2021 ma con occhi diversi probabilmente provenienti dal futuro. Cosa scopriremmo? Scopriremmo che l’intero mondo e sull’orlo di non una ma almeno cinque possibili scenari di guerra in Estremo oriente, Medio Oriente, Mediterraneo, Ucraina, Bielorussia e persino Polonia ciascuna delle quali potrebbe scoppiare così come potrebbe essere dimenticata. Secondo il grande storico greco Tucidide, le guerre scoppiano quando tutti ne parlano e dicono che sta per scoppiare una guerra. Questo sarebbe secondo l’antico filosofo della storia il trigger ovvero l’innesco delle guerre reali: tutti hanno paura, tutti si armano, tutti vedono nemici, tutti sono pronti alla zuffa e alla rappresaglia di quale le guerre scoppiano.

Ma quale guerra sta per scoppiare oggi? Naturalmente non abbiamo la più pallida idea, se davvero gli hacker hanno attaccato la Regione Lazio seguitano ad attaccarla sono o non sono agenti di guerra: per ora si sa che non ci sono comportati come gli hacker che si impossessano di documenti sensibili e poi si fanno pagare il riscatto attraverso bitcoins ed altre monete virtuali. Per ora quelli che hanno attaccato la sanità laziale non hanno chiesto nulla e seguitano ad agire. Non si sono impossessati dei dati sensibili riguardante la sanità, la situazione sanitaria delle personalità che vivono nel Lazio, compreso il presidente della Repubblica, il presidente del consiglio, ministri e grandi e funzionali dello Stato civili e militari. Per ora non risulta. I nostri servizi segreti sono partiti all’attacco un po’ alla cieca e il Parlamento si accinge a votare per l’istituzione di una specifica branca del controspionaggio che si occupi soltanto degli attacchi cyber. Ma inutile negare che si sta brancolando nel buio. Siamo attaccati, non sappiamo da chi ma peggio ancora non sappiamo perché. Chi potrebbe essere? Guardiamo un mappamondo qual è la zona più calda?

Certamente il mare del Sud della Cina dove la Repubblica popolare cinese dichiara sempre più fermamente la sua intenzione di impossessarsi dell’isola di Taiwan che formalmente fa parte della Cina continentale ma politicamente non lo è fin dagli anni ‘30 quando fu occupata dai giapponesi. Quell’isola è oggi uno dei più grandi produttori di microchip per i telefoni cellulari e per tutti gli armamenti del mondo, è un una spina nel fianco nella Repubblica popolare cinese perché ha instaurato un regime ultrademocratico pacifista e leggermente libertario, così da trarre consensi da ogni parte del mondo mentre la Cina accumula i mezzi necessari per un attacco anfibio che per poter riuscire dovrebbe costituire una mazzata militare di proporzioni sconosciuta delle guerre precedenti. Nel frattempo, il Giappone si è proclamato protettore dell’isola di Taiwan ha dichiarato per bocca del suo governo che considererà un atto di guerra qualsiasi attacco alla antica colonia di Formosa. L’Indonesia sul piede di guerra, il Vietnam comunista è un fermo alleato degli americani contro la Cina, Le Filippine sono ai ferri corti con Pechino e l’Australia sta riesaminando tutte le sue difese contraeree. Direte voi: ma che c’entra tutto questo con l’hackeraggio alla Regione Lazio?

Non lo sappiamo e bareremmo se dicessimo di saperlo. Ma sta di fatto che stanno accadendo nel mondo cose molto gravi molto minacciose di cui non troviamo molte tracce sui nostri giornali e telegiornali, sicché di fatto non ne sappiamo quasi nulla. Ma sono queste le situazioni che potrebbero farci trovare da un giorno all’altro coinvolti in una guerra mondiale combattuta con sistemi del tutto ignoti alle nostre capacità cognitive e alla memoria, di cui l’arma cibernetica che consiste nel disarticolare un intero stato sabotando i suoi computer.

Gli hacker di Stato, ben più potenti di quelli anarchici, hanno la possibilità di non far atterrare gli aerei, non far partire i treni, bloccare gli ospedali, bloccare gli stipendi, le banche, i bancomat e le carte di credito, bloccare le stazioni di servizio, le metropolitane gli ascensori con le persone dentro, ed ogni cosa che elettrica od elettronica. Un bombardamento cibernetico ha una potenza di fuoco infinitamente superiore a quella di un bombardamento fatto con l’uso degli esplosivi e anche delle piccole armi nucleari.

Un eventuale caos inflitto con armi cibernetiche porterebbe automaticamente a centinaia di migliaia di morti e forse a milioni, per l’impossibilità raggiungere persone in pericolo, curare i feriti, semplicemente andare nei luoghi. E di questo che si tratta? Ripeto lo possiamo soltanto sospettare e di fatto è sospettabile. Che cosa vediamo? Alcune novità: la prima è che la Federazione russa di Vladimir Putin ha stretto un nuovo accordo militare con la Cina popolare e in questo momento mentre leggete si stanno svolgendo numerose esercitazioni militari, sia navali che terrestri ed aeree; Naturalmente, cibernetiche. I russi sono formidabili in questo tipo di attacchi. Ma i cinesi non gli sono da meno. Non sono i Paesi che hanno creato internet, ma sono quelli che lo sanno sabotare in maniera più efficiente e con maggior competenza e determinazione. C’è poi la situazione della Bielorussia, per la quale Putin si dice pronto alla guerra pur di non perdere il buffer state, lo stato cuscinetto che se parla Russia dell’Europa occidentale, per non dire dell’Ucraina che chiede a gran voce di entrare formalmente nella Nato altro evento che il Cremlino considererebbe un casus belli. L’attuale amministrazione di Washington è molto più spericolata della precedente repubblicana del detestato Donald Trump e anche molto più imprudente. Le iniziative americane contro la Cina sono notevoli e quelle contro la Russia sono ancora più aggressive. Recentemente il presidente degli Stati Uniti ha chiamato il presidente della Federazione russa un killer. Non era mai accaduta una cosa del genere nella storia delle relazioni diplomatiche. Ma non è successo nulla. Putin, intervistato in televisione, disse che aveva trovato la cosa piuttosto divertente dal momento che la parola killer in russo è molto popolare perché è tratta dal linguaggio di Hollywood e quindi se qualcuno dà del killer a qualcun altro in genere lo fa per scherzare come se avesse una Colt 45 e un cappello texano in testa. La realtà non c’è nulla da scherzare. Le sanzioni applicate alla Russia hanno provocato una crisi economica gigantesca in quel paese, in cui non si produce di fatto null’altro che energia da vendere a prezzi di mercato, i quali variano secondo la situazione del Medio Oriente per cui da oltre settanta anni il prezzo del petrolio sale o scende avvantaggio o a svantaggio della Russia secondo lo stato politico militare del Medio Oriente. Oggi la situazione del Medio Oriente è molto compromessa. La situazione del Mediterraneo è estremamente conflittuale perché il turco Erdogan e decisissimo a prelevare petrolio dalle acque dell’egeo greco e a mantenere la sua presenza in Libia insieme ai russi. L’Iran è fortemente scosso dalle sue dimostrazioni interne e dunque il governo di Teheran e incline a rifugiarsi nel dramma della politica estera per contenere la crisi interna ciò che significa che la le possibilità di una guerra aumentano anziché decrescere. Possono essere questi i retroscena degli attacchi al Lazio? Vorremmo poter assicurare che no, sono tutte sciocchezze, ma invece possiamo e anzi dobbiamo dire che è perfettamente possibile, anzi probabile.

Francesco Malfetano per "Il Messaggero" il 4 agosto 2021. Hanno nomi che sembrano usciti direttamente da un poliziesco mal riuscito (REvil, DarkSide, Wizard Spider, Astro); non si ha idea di chi le componga o quale sia l'identità celata dietro strani nickname; hanno il loro quartier generale in Paesi poco collaborativi con le indagini internazionali e, soprattutto, non hanno alcuno scrupolo. Sono le ransomware gang e stanno mettendo a ferro e fuoco i sistemi informatici di mezzo mondo. Attaccano senza remore multinazionali, piccole aziende, comuni, compagnie assicurative, aeroporti, università, istituzioni e ospedali paralizzandone computer, server, backup e tutto ciò che è connesso ad internet. Come? Si introducono nella rete delle aziende scoprendone una falla, sfruttando i canali preferenziali ceduti dalle stesse a dei fornitori o acquistando delle credenziali rubate in precedenza sul dark web. A quel punto prendono in ostaggio tutti i dati, crittografandoli e rendendoli illeggibili. Perché? L'unico ed esclusivo obiettivo è far soldi chiedendo un riscatto in cryptovalute per la chiave che permette di decodificare le informazioni bloccate. Il caso della Regione Lazio, che pure smentisce qualunque richiesta economica, in pratica è solo la punta dell'iceberg. L'operatività di queste bande di cyber criminali è esplosa dall'inizio della pandemia. Al punto che per i ricercatori dell'azienda di sicurezza Blackfog, i danni causati da questo genere di attacchi raggiungerà entro fine anno il valore di 6 trilioni di dollari. Cioè 6 miliardi di miliardi, l'equivalente del Recovery plan degli Stati Uniti. E sono proprio gli Usa il Paese più colpito da questi hacker specializzati. A giugno, il produttore di carne JBS, che alleva e macella oltre un quinto di tutta la carne bovina consumata dagli statunitensi, ha pagato un riscatto di circa 9 milioni di euro. Nello stesso mese il più grande gasdotto del Paese, il Colonial Pipeline, ha pagato 3,6 milioni di euro per riottenere il possesso dei sistemi dell'azienda dopo che per giorni l'intera costa orientale a stelle e strisce era rimasta paralizzata dalla carenza di carburante. Qualunque azienda connessa è vulnerabile, anche se punti deboli sono considerate le imprese di medie dimensioni perché hanno entrate sufficienti per renderle un obiettivo redditizio ma non abbastanza grandi da avere team dedicati alla sicurezza informatica. Dietro questi attacchi ci sono professionisti, non sempre affiliati, che si coordinano per identificare gli obiettivi, infiltrarsi nelle reti ed estorcere informazioni preziose. Ma al centro di tutto ci sono le ransomaware gang appunto, che costruiscono e gestiscono il software malevolo che rende possibili gli attacchi. Alcuni usano questo malware per estorcere le vittime, mentre altri offrono ransomware-as-a-service (RaaS), aiutando altri criminali a prendere di mira organizzazioni specifiche. La Russia è considerato il quartier generale più importante, ma negli anni attacchi di questo tipo sono stati identificati come riconducibili a cyber criminali di base in Cina, Iran, Est Europa e Corea del Nord. Le tracce più consistenti portano a San Pietroburgo e Mosca. Non a caso il cirillico, l'alfabeto russo, è comunemente usato nei forum in cui i ransomware si trovano in vendita o anche nei codici sorgente che strutturano il software (alcuni dei quali codificati proprio per non attaccare in Russia). Anzi, secondo diversi esperti, questi attacchi sono tollerate dal governo russo. Non può essere solo un caso se a fine luglio i due gruppi più importanti protagonisti degli attacchi negli Usa, REvil e DarkSide, sono scomparsi. Addirittura hanno abbandonato al loro destino aziende con cui stavano trattando richieste di riscatto. E lo hanno fatto pochi giorni dopo il 9 luglio, cioè quando il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, in un colloquio telefonico durato un'ora con Vladimir Putin ha alzato la voce: «Prenderemo tutte le misure necessarie per difendere da questa continua minaccia il popolo americano». Dieci giorni e dei due gruppi, pure molto sfacciati nel pubblicizzarsi, non c'è più traccia. O meglio, per qualcuno gli ex membri sarebbero già operativi, riuniti sotto una nuova bandiera apparsa sul Dark Web negli ultimi giorni di luglio: Black Matter. Un gruppo da cui gli esperti si aspettavano un primo imponente attacco.

Alessio Lana per il "Corriere della Sera" il 2 agosto 2021. I ransomware sono il nuovo Eldorado del cybercrimine, dei finissimi sistemi di attacco di cui il Lazio è solo l'ultima vittima. Secondo le stime sono in piena crescita, rappresentano il 67% degli attacchi informatici, al ritmo di uno ogni 11 secondi. Un crimine redditizio, con le richieste di riscatto passate da una media di 115mila dollari nel 2019 ai 312mila dell'anno successivo per un totale, nel solo 2020, di 20 miliardi.

1 Cos'è un ransomware?

È una minaccia informatica che infetta un sistema e poi richiede il pagamento di un riscatto (ransom) per poter tornare a utilizzarlo, spiega Riccardo Meggiato, esperto di sicurezza informatica e consulente forense. Tutti i file all'interno del sistema, che può essere un computer o un'intera rete di una o più aziende, vengono crittografati così da essere illeggibili dal legittimo proprietario e il codice di sblocco viene dato solo previo pagamento.

2 E il CryptoLocker che ha colpito la Regione Lazio?

È una varietà di ransomware. Ideato nel 2013, nel tempo si è evoluto diventando una vera e propria «famiglia». 

3 Perché viene definito «attacco silenzioso»?

Perché non ci si accorge di essere stati infettati finché non si arriva alla richiesta di riscatto. Il ransomware cripta i dati partendo dai meno utilizzati così l'utente può continuare a usare il computer. Poi, quando ne mancano pochi, riavvia la macchina, finisce di crittografare, e quando questo si riaccende, non compare più il sistema operativo ma la richiesta di riscatto. Ci possono volere da una decina di minuti a delle ore.

4 Come si paga?

La schermata che compare alla fine del processo contiene istruzioni dettagliate per il pagamento. La valuta utilizzata è il bitcoin e spesso ci sono anche «servizi clienti» che aiutano nella transazione. 

5 Cosa succede se non si paga? Le aziende spesso hanno dei sistemi di backup che gli permettono di recuperare i dati bloccati e aggirare il ransomware. I criminali però minacciano di diffondere quei dati che spesso contengono informazioni sensibili come per esempio dei brevetti. 

6 Come si diffonde?

Tramite un link o un allegato in una mail che vanno cliccati. Sono di ottima fattura, difficile accorgersi della truffa. 

7 Quanto è il riscatto?

Dipende dall'obiettivo. Chi crea ransomware studia anche per settimane la sua vittima, ne conosce il fatturato e a chi guadagna di più chiede di più. Il record finora è di 70 milioni di dollari. 

8 Chi li crea?

Sono prodotti soprattutto in Cina, Taiwan, Vietnam, Ucraina e Russia da vere e proprie aziende che possono avere anche un'ottantina di sviluppatori.

9 Quanto costa?

I vecchi ransomware sono disponibili gratuitamente ma sono poco efficaci. Quelli professionali hanno un costo di sviluppo intorno a centomila euro e il prezzo di vendita varia in base al riscatto che si può chiedere. Il produttore crea un pacchetto ransomware più riscatto che viene venduto ad altri criminali in esclusiva o tramite licenze per più usi. 

10 Come difendersi?

I ransomware sono così variegati che al momento non c'è un protocollo di difesa univoco. Il metodo migliore è addestrare il personale delle aziende a riconoscere le minacce sul nascere. Ci sono poi dei software che riconoscono se ci sono dei processi crittografici in corso ma devono evolvere continuamente per stare al passo con i ransomware.

Ann Brenoff per huffingtonpost.it l'11 luglio 2021. Stephanie Carruthers è una hacker buona, una white hat conosciuta come Snow, che annovera tra i suoi clienti aziende e startup di successo. Nel 2014, ha vinto la gara Social Engineering Capture the Flag, in occasione del DEF CON, uno dei congressi sull'hacking più famosi e importanti al mondo. Conduce spesso convention sul mondo dell'hackeraggio e condivide la sua esperienza con le aziende che desiderano potenziare la loro sicurezza online. Tramite Twitter abbiamo fatto a Snow alcune domande sul lavoro che svolge e sulle dritte da seguire per essere più sicuri in rete.

Chi è un hacker "white hat" di preciso?

Un hacker white hat è un hacker etico. Nello specifico, sono un ingegnere sociale, ovvero una sorta di hacker delle persone. Una delle spiegazioni più semplici per chiarire ciò che faccio è "Mento e mi introduco nei sistemi." Conduco diversi tipi di valutazioni, come quelle sulle campagne di phishing e le stime sulla sicurezza fisica. Svolgo il mio lavoro con l'obiettivo di mostrare ai miei clienti dove si trovano le loro vulnerabilità così che possano porvi rimedio prima che un aggressore vero e proprio le trovi. 

Come sei arrivata a farlo?

L'ingegneria sociale è diventata una passione mentre partecipavo alla competizione Social Engineering Capture the Flag al DEF CON, e sono stata così fortunata da continuare a crescere in questa carriera. 

Quanto ti senti sicura personalmente online?

Non mi definirei mai "non-hackerabile". Le violazioni dei dati sono ormai all'ordine del giorno, sembra quasi la norma, e per questo motivo non credo che mi sentirò mai del tutto sicura online. Di conseguenza, prendo precauzioni per proteggere me stessa il più possibile.

Potresti svelarci le cose più stupide che hai visto postare dalla gente online?

Cerco di non etichettarle come stupide, ma come poco informate. Voglio sperare che se una persona comprendesse a pieno il rischio del contenuto che sta postando online, ci penserebbe due volte. 

Detto questo, ecco alcune delle cose viste online che tradiscono una mancata consapevolezza del rischio: 

Neo-patentati: ragazzi entusiasti (o anche genitori) che scattano foto ravvicinate alla patente appena conquistata con tutte le informazioni personali, compreso l'indirizzo di casa.

Nuovi proprietari di casa che scattano foto celebrative alle chiavi della nuova dimora e geotaggano la casa senza rendersi conto che è facile duplicare una chiave da una foto. 

Impiegati: impiegati e dipendenti d'azienda spesso si scattano selfie senza curarsi di ciò che compare sullo sfondo o in primo piano, incluse password/informazioni sensibili sulle lavagnette, monitor di computer accesi, password della segreteria attaccate ai telefoni, eccetera. Inoltre, per ragioni incomprensibili, c'è chi posta addirittura le foto della busta paga. Per alcuni saranno anche post innocui, ma gli aggressori sanno come approfittarsi di immagini del genere. 

C'è qualcosa che non dovremmo mai fare su social? 

Postare senza pensare. Punto. Prima di condividere qualcosa, bisogna porsi delle domande: che tipo di informazione sto mettendo online? Cosa c'è sullo sfondo della mia immagine? Se volessi vendicarmi, in che modo userei questa informazione contro di me? 

Dal tuo punto di vista qual è il social che mette più a nudo la nostra vulnerabilità? 

Credo che Facebook riveli più informazioni in assoluto – soprattutto perché mette in correlazione una quantità enorme di dati, come i tuoi amici, i colleghi, la famiglia, il lavoro, gli hobby, i figli e via dicendo. Molte risposte alle domande di sicurezza [usate per transazioni bancarie e modifiche di password possono essere dedotte semplicemente osservando il profilo Facebook di un utente. Come se non bastasse, Facebook per sua scelta non dedica grandi sforzi alla protezione della privacy – i social non funzionano bene se sono tutti reticenti e riservati. Per molti utenti non è intuitivo aggiungere impostazioni alla privacy che, invece, dovrebbero avere – sempre che prendano in considerazione la cosa. 

Il riconoscimento facciale potrebbe impedire ai truffatori di creare profili falsi?

Il riconoscimento facciale potrebbe contribuire alla diminuzione dei profili truffaldini, ma non alla loro scomparsa. Gli hacker sono molto astuti e si divertono a scovare modi nuovi per aggirare ostacoli di questo tipo. È come il gatto col topo. D'altra parte, per conferire maggiori responsabilità a Facebook, dovremmo fornire anche più informazioni personali. Conosco persone che considerano la loro privacy talmente importante da usare nomi falsi e foto "non umane" suo social. Per evitare un profilo falso, dovrebbero fornire a Facebook nome e volto reali. È simile all'idea di Facebook di combattere la cosiddetta pornografia vendicativa chiedendoti foto di nudo. Entrandone in possesso, per loro è più facile "cercare e distruggere", sotto il profilo dell'automazione. Tuttavia, qui ritorniamo al problema della fiducia e a quale sia il male minore. 

Password e domande di sicurezza: perché tutte queste violazioni?

Le violazioni dei dati si verificano per diversi motivi, come attacchi di ingegneria sociale, vulnerabilità delle applicazioni, server senza patch, mancanza di controlli sulla sicurezza fisica, credenziali deboli o rubate, eccetera. Se queste vulnerabilità non cesseranno di esistere, allora continueranno anche le violazioni di dati. 

Una misura di cui possono beneficiare tutti è adottare abitudini sane con le password. Le password sono un mix tra responsabilità individuale e aziendale. Ecco cosa si può fare per proteggersi: 

Non riciclare le password, cambiarle spesso, e usare un password manager. Si dovrebbe disporre di una password forte e unica per ciascun login.

Mentire quando si risponde alle domande di sicurezza generale. Non c'è bisogno d'inserire correttamente il cognome di vostra madre da nubile. Utilizzate qualcosa che sia difficile da indovinare, come "nutella" o "Disneyland". 

Usate l'autenticazione a due fattori. Quasi tutti i siti prevedono impostazioni di sicurezza extra tra le opzioni. 

Chi sono tutti questi truffatori/hacker che vogliono le nostre informazioni?

I truffatori sono mossi dall'opportunità. Come in tutte le attività illegali, gravitano intorno alle situazioni in cui la ricompensa supera il rischio, e questo perché le leggi locali non comportano grandi rischi contro l'attività. Alla fine della fiera, non conta chi sono gli aggressori e dove si trovano, ma il fatto che ci sono informazioni di cui vogliono impossessarsi, con mezzi e capacità per riuscirci – a condizione che ne valga la pena. In molti casi hanno fortuna perché, in tanti negozi online, è solo un terno al lotto. Dispongono di un call center pieno di truffatori, molto simile alle campagne di telemarketing. Ricorrono a operazioni di lead-generation, adottano testi di dialogo, escalation interna, formazione e persino quote di vendita. 

Qual è la cosa più importante che gli utenti di internet devono tenere a mente?

Ricordarsi semplicemente che i problemi di sicurezza non saranno risolti tanto presto. Inoltre, è impossibile diventare i più inattaccabili al mondo. Tuttavia, possiamo renderci più sicuri degli altri – e, se tutto va bene, gli aggressori desisteranno e passeranno a qualcun altro. Come ha detto qualcuno: "Non devi correre più veloce dell'orso per salvarti la pelle. Ti basta correre più veloce del tizio accanto a te."

Il testo dell’audizione parlamentare tenuta l’1 luglio da Umberto Rapetto, sul dl Cybersicurezza, pubblicato da infosec.news  e startmag.it l'1 luglio 2021. Non è facile condensare in 7 minuti il contributo di chi ha cominciato ad occuparsi di computer crime nel 1987 e di cyberdefense nel 1995. L’unico disperato tentativo è quello di leggere un testo dopo averne cronometrato la durata. La norma, forse per ridotta conoscenza dello scenario, è stata redatta senza tener conto del vero obiettivo da perseguire. La creazione di un burosauro è destinata a produrre conflitti tra le articolazioni già esistenti che non riesce necessariamente ad armonizzare, innesca ingessate dinamiche amministrative, genera un pericoloso senso di falsa sicurezza. Questo approccio all’emergenza cibernetica confligge con il buon senso e dimentica le esperienze straniere dove i Governi hanno preferito un cyber-czar o un ristretto manipolo di veri conoscitori della materia per assumere rapidamente le decisioni e muovere le pedine già operative per affrontare attacchi digitali, gestire la controffensiva, ripristinare la situazione quo ante e – nei periodi di apparente quiete – coordinare tutte le iniziative per innalzare il livello di preparazione e la capacità reattiva di chi gestisce le infrastrutture critiche e delle organizzazioni pubbliche e private che erogano servizi essenziali. La previsione di un direttore generale e di un suo vice raddoppia le possibilità di accontentare i promotori dei candidati. La loro scelta da una parte esclude che quel ruolo venga rivestito da un giovane brillante e competente che magari ha un grado o una posizione non apicale (ve lo dice chi da tenente colonnello ha catturato gli hacker entrati nei sistemi di Pentagono e NASA) e privilegia alti dignitari di una generazione lontana da queste tematiche, dall’altra apre a chiunque provenga dall’esterno della Pubblica Amministrazione. Se è vero che il 95% dei sistemi informatici non è sicuro, come dice il ministro Colao, è giusto tenere fuori da questa partita chi nella PA o alla Presidenza del Consiglio per anni ha avuto e continua ad avere responsabilità in area cyber perché probabilmente non ha le debite competenze tecniche ed organizzative oppure non ha saputo fare il proprio mestiere. Ma non vorrete farmi credere che siete convinti che nell’industria, nelle banche o nelle imprese la situazione sia migliore? Pensate alle umiliazioni subite da Leonardo (ne ho parlato anche qui e qui), ENEL (anche qui), INPS (anche qui), Vodafone e TIM, Ho.mobile (anche qui), Unicredit (anche qui), SAIPEM (anche qui), CINECA, SNAI, Geox, Luxottica (anche qui e qui), Campari, l’ANIA, l’Università di Tor Vergata, l’Ospedale San Raffaele (anche qui) e alle altre mille realtà cui – in certi contesti – andrebbe tolta la parola. Vertice a parte, situazioni di difficoltà vanno risolte con strutture snelle, rapide ad intervenire, chirurgiche nell’agire. Servono team affiatati, di poche persone con doti professionali straordinarie e capaci di giocare senza protagonismi. L’assetto ipotizzato prevede il coinvolgimento di troppi soggetti la cui inclusione deve essere solo esecutiva. Il “Nucleo per la cyber sicurezza”, ad esempio, evoca teste di cuoio e SWAT pronti a piombare in campo, a duellare contro il nemico di turno, a risolvere il problema. Invece si traduce in un conclave di rappresentanti ministeriali che si riunisce periodicamente, con la lentezza delle convocazioni e l’incertezza delle rispettive agende. I suoi componenti rispettano le regole della buona convivenza istituzionale, ma calpestano quelle della necessità di contrastare momenti di estrema drammaticità con rapidità ed effettiva capacità proattiva. Il “contingente di esperti”, in cui si prevedono 50 luminari impiegati part-time, prova il comprensibile desiderio di non scontentare nessuno e al contempo è un goffo tentativo di diluire possibili responsabilità in caso di incidente. Il “Centro Nazionale di Valutazione e Certificazione”, che viene assorbito dall’Agenzia, è una realtà che – varata nel 2019, Di Maio ministro – ancora deve avere piena operatività, testimoniando che l’obsolescenza non sembra far paura, dimenticando che due anni sono un’era geologica, Il Computer Security Incident Response Team (CSIRT), istituito nel 2018 e rivisitato l’anno successivo, sopravvive per non far torti a chicchessia ma risulta depotenziato…Qualche mutilazione tocca in sorte anche all’Agenzia per l’Italia Digitale e dulcis in fundo si prevede la migrazione delle risorse pregiate finora in carico al DIS. È evidente la nebbia che obnubila il panorama e favorisce l’avvio di altre maldestre iniziative che prevedono, però, l’assunzione di 300 superspecialisti cui affidare il nostro destino. Se è difficile capire come procedere alla loro selezione (e non ci sono così tanti “guerrieri” davvero all’altezza), incuriosisce chi dovrebbe provvedervi. Gli stessi del 95% di Colao? Immaginando che nessuno avrà domande da farmi, i quesiti per una volta li pongo io. Qualcuno ha mai conosciuto un hacker, visto che è questo che non immagina solo il quisque de populo ma si prefigura il Governo? Si conosce il livello di reale affidabilità dei pirati informatici o si è convinti di organizzare battaglioni di ascari virtuali per una estemporanea performance bellica? Si crede davvero che un Rocambole del bit sia disposto a giocare in squadra? Quanto tempo si immagina possa trascorrere prima che qualunque masnadiero cominci ad annoiarsi nel vedersi tramutato in un mezzemaniche? E poi chi dovrebbe incarnare il sergente di ferro che tiene a bada tante primedonne? Soprattutto per quale motivo non c’è traccia di un percorso formativo (che avrebbe dovuto e potuto avviarsi trent’anni fa) o di una scuola che sensibilizzi il management pubblico e privato, crei capacità di committenza (invece di lasciar mano libera ai fornitori), istruisca chiunque è parte del sistema così da evitare quelle banali imprudenze all’origine di troppi disastri? Perché non si procede ad un’opera di razionalizzazione delle risorse esistenti, costringendole a funzionare e trasformando dannose sovrapposizioni in utili complementarità? Perché non ci si capacita del tempo perso in chiacchiere e convegni e non si tirano le somme del “non fatto finora”, dal decreto Monti del 2013 a oggi? Perché si pensa di stanziare 429 milioni di euro se non si immagina nemmeno dove e come andranno spesi e oggi invece lo si dovrebbe sapere al centesimo? Per quale dannato motivo non si copia il modello statunitense senza aver timore di riconoscerne limiti e difetti? Perché non si prova a calcolare il tempo necessario per una decisione che dovrebbe essere istantanea grazie ad un diretto link tra il leader e il suo cyber-centurione e invece si prevede una estenuante e imperitura sequenza di passaggi in cui ognuno fatica a prendersi le responsabilità che gli competono? Se qualcuno, nella sua adulazione vocazionale, vi dirà che il provvedimento è perfetto, siate certi che aspira soltanto ad una collocazione in sella o nel ventre della nascente creatura.

(ANSA il 13 maggio 2021) La società che opera la Colonial pipeline, il più grande oleodotto Usa, ha pagato un riscatto di quasi 5 milioni di dollari agli hacker di origine russa autori del cyber attacco che ha costretto la compagnia a chiudere l'infrastruttura. Lo riporta la Bloomberg sul suo sito. Una notizia che contrasta con quelle dei giorni scorsi secondo cui la società non aveva alcuna intenzione di pagare per ripristinare l'operatività della pipeline.  "Il carburante comincia a fluire, Colonial Pipeline dovrebbe raggiungere la piena operatività mentre sto parlando, la disponibilità di benzina dovrebbe essere normale entro il weekend o la prossima settimana": lo ha detto Joe Biden parlando alla Casa Bianca del cyber attacco all'oleodotto più grande degli Usa. Il presidente ha anche invitato gli automobilisti a non avere panico.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 20 maggio 2021. «Sì, abbiamo pagato il riscatto agli hacker: 4,4 milioni di dollari. Non sono contento, ma era la cosa migliore da fare per il Paese». Joseph Blount, amministratore delegato di Colonial Pipeline, conferma al Wall Street Journal la notizia pubblicata il 13 maggio scorso dall' agenzia Bloomberg. Ma sono parole comunque clamorose: è la prima volta che una grande società americana ammette di aver dovuto sottostare al ricatto dei pirati informatici. Il 7 maggio l'allarme. Una parte dei server della società viene messa fuori uso da un attacco cibernetico. I dirigenti della Colonial sono costretti a interrompere le forniture di greggio, diesel, gas per uso domestico, combustibile per le basi militari e gli aeroporti civili sulla costa Est degli Stati Uniti. Circa 378 milioni di litri al giorno, il 45% del fabbisogno energetico che scorre in un gasdotto lungo 8.850 chilometri, dal Texas al New Jersey. Il 13 riprende il servizio, anche se i disagi, specie nei distributori di benzina, continuano per giorni. Nel frattempo Blount, 60 anni, aveva dato ordine di pagare gli incursori: «Lo so che è una decisione fortemente controversa. Non l'ho presa alla leggera. Devo ammettere che non è stato piacevole vedere uscire i soldi dalla porta per finire a gente come questa. Ma era la cosa giusta da fare per il Paese». Il manager racconta di riunioni frenetiche con gli ingegneri. Vengono inviati circa 300 tecnici sul campo per verificare che non ci siano stati danneggiamenti fisici agli impianti. Ma il risultato è scoraggiante: impossibile stabilire quanto danno avesse procurato il «cyberattack»; difficile stimare quanto tempo ci sarebbe voluto per ripristinare la normale attività di distribuzione. A quel punto il Ceo, il capo dell'azienda, preferisce limitare le perdite: 4,4 milioni di dollari consegnati in bitcoin, a fronte dei codici per sbloccare il pannello elettronico di comando. Blount non ha rivelato l'identità della gang criminale. Resta il sospetto che gli autori del colpo facciano parte di «Darkside», un gruppo con base in Russia. La scelta di Colonial mette in imbarazzo il sistema politico e giudiziario. A cominciare dalla Casa Bianca. Joe Biden aveva chiesto di non alimentare un fenomeno in crescita tumultuosa che ha colpito centri di ricerca medica, enti statali e locali, scuole. In media il riscatto richiesto si aggira sui 310 mila dollari. Nello stesso tempo, il presidente non aveva strumenti per intervenire in «un fatto privato, aziendale». Mancano leggi o, più semplicemente, schemi di contrasto concordati tra le industrie più esposte e l'Fbi.

Umberto Rapetto per infosec.news il 13 maggio 2021. L’attacco alla Colonial Pipeline verrà ricordato nei libri di storia al pari dell’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914. Se l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria-Ungheria, e sua moglie Sofia segnò l’avvio della prima guerra mondiale, l’aggressione digitale al ciclopico oleodotto che va dal Texas al New Jersey è destinato a marcare il fatidico passaggio da uno stato di belligeranza ad una condizione di guerra vera e propria. L’Executive Order on Improving the Nation’s Cybersecurity appena firmato da Joe Biden non è diverso dalle sirene che un tempo allertavano la popolazione per un imminente bombardamento e indirizzavano la gente verso i rifugi antiaerei. Dopo i clamorosi incidenti di sicurezza informatica come quello di SolarWinds, Microsoft Exchange e ora di Colonial Pipeline, il Presidente degli Stati Uniti emana un provvedimento che tuona come la prima dichiarazione di guerra contro un nemico invisibile. L’insidia tecnologica (animata dal mercenariato diffuso e dalle “cyber armed forces” dei Paesi più attivi su questo campo di battaglia) non può più essere trascurata e Biden sottolinea che certi episodi manifestano l’insufficienza dell’azione federale e la necessità di una reale ed efficace cooperazione con il settore privato che possiede e gestisce gran parte delle infrastrutture critiche interne agli Stati Uniti. Il fatto che le società decidano autonomamente in merito agli investimenti in sicurezza informatica deve essere superato con l’avvio di un programma di azione coordinato che porti ad aumentare e allineare gli sforzi organizzativi, tecnici e finanziari con l’obiettivo di ridurre al minimo il rischio di catastrofi future.

“Ai posti di combattimento”. In primo luogo occorre rimuovere gli ostacoli alla condivisione delle informazioni sulle minacce tra governo e settore privato. Secondo l’Executive Order i fornitori di servizi ITC devono essere in grado di condividere le informazioni con il Governo garantendo un costante aggiornamento sulle minacce rilevate e sulle violazioni dei sistemi verificatesi. È fondamentale eliminare la riluttanza di chi fornisce servizi informatici a confessare situazioni imbarazzanti ed è diventata urgente la condivisione “volontaria” di tutte le informazioni disponibili su eventuali compromissioni di sistemi di elaborazione dati e reti di comunicazione. Biden parla chiaro. Certi silenzi dovuti ad obblighi contrattuali o ad altri accordi tra privati devono sparire e deve maturare la convinzione che un dialogo immediato e trasparente con le istituzioni governative può consentire la più tempestiva adozione di misure di sicurezza in grado di salvaguardare la Nazione nel suo complesso. L’Executive Order rimarca il ruolo del Governo federale nella protezione dei servizi “cloud” e dell’architettura “zero-trust” ed impone l’implementazione dell’autenticazione a più fattori e della crittografia: il testo manifesta la consapevolezza che modelli di sicurezza obsoleti e dati non cifrati hanno portato alla profonda compromissione dei sistemi informatici “più delicati” nei settori pubblico e privato. Tra i punti cardine del provvedimento c’è il rafforzamento della protezione della catena di fornitura del software. Dovranno essere stabiliti e consolidati standard di sicurezza per lo sviluppo di programmi ed applicazioni destinati ad essere utilizzati dalle entità governative. Sarà richiesto agli sviluppatori di dare la massima visibilità su istruzioni e codici inseriti nel software con particolare riguardo a quanto costituisce la struttura di sicurezza. Si deve innescare un processo pubblico-privato per sviluppare approcci nuovi e innovativi e dar vita al programma pilota per creare un tipo di etichetta “Energy Star” in modo che il governo – e il mondo pubblico in generale – possa determinare rapidamente se il software è stato sviluppato in modo sicuro. “È troppo il software, incluso quello critico, che viene fornito con vulnerabilità significative sfruttate dai nostri avversari” dice testualmente il comunicato stampa della Casa Bianca.

La necessità di un Comitato e di una “cassetta di pronto soccorso”. L’ordine esecutivo istituisce un comitato di revisione della sicurezza informatica, co-presieduto da leader del governo e del settore privato, che può riunirsi a seguito di un incidente informatico significativo per analizzare l’accaduto e formulare raccomandazioni concrete per migliorare la sicurezza informatica. Si è coscienti che troppo sovente le organizzazioni ripetono gli errori del passato, non apprendono le drammatiche lezioni dalle brutte esperienze, non si pongono le domande scomode che richiedono risposte ancor più dolorose, faticano ad apportare modifiche e miglioramenti. L’idea prende spunto dal modello del National Transportation Safety Board, l’organismo che entra in campo dopo incidenti aerei e altri disastri, e si basa sulla creazione di un “playbook standard” (ovvero sulla predisposizione di rimedi modulari preconfezionati e personalizzabili) in grado di attivare una replica rapida con un sufficiente livello di copertura del problema con iniziative uniformi e collaudate volte a identificare e a contrastare i pericoli emergenti. Particolare attenzione è richiesta alle attività di “detection”, ovvero quelle mirate a rilevare le situazioni di crisi, a circoscrivere gli incidenti, a prevedere operazioni dannose che possono compromettere le Reti pubbliche e private e tutte le risorse informative del tessuto connettivo digitale americano. Lentezza, sovrapposizione, mancato coordinamento: sono questi i fattori che espongono un Paese al rischio di aggressione cibernetica e solo un disegno armonico e condiviso ai più diversi livelli può rasserenare il futuro.

E da noi? Ci si augura che anche dalle nostre parti qualcuno trovi il tempo di leggere l’Executive Order e magari di prenderne spunto. I cambiamenti ai vertici dell’intelligence nazionale possono essere l’occasione per riconsiderare lo scenario e per prendere – finalmente – atto delle urgenze, delle priorità e soprattutto del tempo perso finora in chiacchiere, convegni, protocolli d’intesa e altre “inutilia” di varia natura.

·        L’Algocrazia.

Algocrazia, la scelta di non scegliere più. C'è una delega sempre più ampia dell'uomo alla tecnologia e all'informatica e il digitale di fatto non è più governato. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 5 Dicembre 2021. Siamo sempre più inclini a farci indirizzare dagli algoritmi, nelle scelte che riguardano gli aspetti importanti (e anche quelli meno appariscenti) della nostra vita. Anche per questo le nostre capacità di scelta e ragionamento vanno via via assottigliandosi. Il primo ad aver intravisto questa possibilità era stato Theodor Adorno che, nel suo saggio La crisi dell’individuo a metà del secolo scorso aveva scritto: “Si ha la netta sensazione che per la stragrande maggioranza gli uomini siano stati derubricati da tempo a mere funzioni all’interno del mostruoso macchinario sociale di cui tutti siamo prigionieri. … un sistema di amministrazione, un certo tipo di gestione dall’alto”. Quello indicato con grande anticipo dai filosofi e sociologi della Scuola di Francoforte è probabilmente il primo accenno alla trasformazione che, qualche decennio più tardi, avrebbe investito il nostro modo di vivere, lavorare, acquistare e perfino pensare. Si trattava dell’anticipazione di ciò che sarebbe poi diventato “L’uomo a una dimensione” nella magistrale intuizione di Herbert Marcuse a metà degli anni ’60. Una realtà per l’umanità intesa come incessantemente spinta in quella strettissima dimensione identificata dal filosofo e sociologo di origine tedesca e naturalizzato statunitense, che si è consolidata negli anni e oggi è assimilabile a una delega sempre più ampia alla tecnologia e all’informatica, con una conseguente sottrazione di autonomia alle persone, che il digitale lo consumano ma di fatto non lo governano più. Marcuse lo aveva inteso talmente bene, quell’avanzare che avrebbe segnato cosi tanto le quotidianità delle persone, che aveva cominciato il suo libro forse più famoso con un incipit inequivocabile: “Una confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà prevale nella civiltà industriale avanzata, segno del progresso tecnico”. Sta proprio qui la concezione centrale dell’unidimensionalità umana: l’uomo a una dimensione nell’interpretazione marcusiana è una persona il cui pensiero è sistematicamente reso meno profondo, nei fatti in difficoltà nel dover seriamente concepire un’alternativa all’ordine costituito. La ragione principale, nella sua argomentazione, sta nel fatto che nel linguaggio prevalgono aspetti formali che hanno una natura distinta dall’essenza del pensiero. Gli aspetti formali vengono peraltro rinforzati dall’interazione con gli oggetti materiali, rendendo l’uomo a una dimensione il risultato dell’avanzata di strutture formali che si realizzano nel sistema tecnologico e scientifico e sono usate dal potere come strumento di dominio. Nei fatti, oggi tutto è governato da quello che informalmente definiamo Intelligenza Artificiale e che gli informatici chiamano invece – in modo più appropriato – Machine Learning: un sistema di algoritmi oramai divenuti imprescindibili in molti aspetti della vita pubblica, dalla sanità alla politica, dalla giustizia all’istruzione. Ma non si tratta solo della vita pubblica: non possiamo più fare a meno di algoritmi neanche nella vita privata. Li usiamo per esempio quando interagiamo con gli assistenti vocali sui nostri smartphone o scegliamo il riconoscimento facciale al posto di digitare un codice di accesso. Sono invisibili ma ci accompagnano quotidianamente quando cerchiamo un percorso in auto tramite la geo-localizzazione, paghiamo una bolletta tramite app della nostra banca di fiducia, prenotiamo un posto in treno o semplicemente cerchiamo su un motore di ricerca il sito migliore per prenotare una vacanza esotica; o quando esibiamo il Green-Pass sul nostro telefono per entrare a cena in un ristorante. Aveva avuto certamente una buona intuizione A. Aneesh, sociologo americano dell’Università di Milwaukee-Wisconsin, che nel 2006, nel volume Virtual Migration, aveva per la prima volta utilizzato il termine algocracy, che poi in italiano è diventato algocrazia. In realtà Anesh rivendica l’uso di questo concetto già nel 1997, nella sua tesi di laurea presentata poi in un abstract all’American Sociological Association nel 1999. Il termine Algocrazia, invece, è oramai accettato anche nella nostra lingua, e ha cominciato a fare capolino attorno al 2013, riferito a un ambiente digitale di rete in cui il potere viene esercitato in modo sempre più profondo dagli algoritmi, alla base delle piattaforme mediatiche, che rendono possibili solo alcune forme di interazione e di organizzazione a scapito di altre. Nei suoi scritti Aneesh usa i termini algocracy e algocratic facendo riferimento prevalentemente al mondo del lavoro per identificare un nuovo sistema di governance basato appunto sugli algoritmi a differenza dei sistemi organizzativi più noti, la burocrazia e il mercato. Per far comprendere meglio il suo ragionamento, Aneesh utilizza un esempio che riguarda il controllo del traffico e delle violazioni automobilistiche. L’uso dei semafori implica per gli automobilisti il rispetto di alcune regole – fermarsi quando è rosso, per esempio – le cui violazioni possono essere rilevate da chi è preposto ai controlli. Perché questo modello organizzativo funziona? Perché c’è una sorta di interiorizzazione delle regole da parte degli automobilisti, ma anche perché esiste la minaccia della pena per il mancato rispetto delle regole. Questo è insomma il modello che rappresenta l’organizzazione burocratica, al quale Aneesh contrappone appunto l’idea di quello algocratico: un sistema di autocontrollo del traffico che non si basa su regole ma su come sono costruite le strade. E quindi, per intenderci, una strada che impedisce letteralmente ai guidatori di svoltare a sinistra o a destra o di sostare in un punto preciso a meno che non sia previsto da chi ha progettato la strada. Una vera rivoluzione, insomma. Tanto la forma inglese che la sua traduzione italiana, in origine, facevano riferimento all’effetto che le tecnologie informatiche hanno sull’evoluzione del lavoro; il termine è stato poi esteso, nel suo uso corrente, anche alla fattispecie relativa ad indicare, più genericamente, l’importanza degli algoritmi nella società, talmente in crescita da suscitare motivate preoccupazioni. Perché in fondo l’algocrazia ha a che fare con una concezione particolare del potere: a differenza della burocrazia infatti, che sfrutta il modello di ‘orientamento all’azione’ (orienta cioè le nostre personalità verso determinate norme), le algocrazie predeterminano l’azione verso risultati prefissati: qualcosa che ha a che fare con quanto sosteneva Shoshana Zuboff, autrice del libro ‘In the Age of the Smart Machine: The Future of Work and Power’, che nel 1988 aveva introdotto il concetto di ‘Informating’, ossia il processo di digitalizzazione che traduce attività, eventi, cambiamenti e obiettivi sociali in informazioni. Nei suoi ultimi lavori la ricercatrice americana ha concentrato i suoi studi sul nuovo modello di ‘capitalismo della sorveglianza’, in mano oggi alle multinazionali informatiche più importanti del pianeta. Si tratta di un tema oggi al centro del dibattito perché tocca da vicino gran parte dell’umanità (perlomeno tutta quella che utilizza connessioni di rete quotidianamente): perché la continua e ciclopica cessione di dati che facciamo tutte le volte che ci connettiamo alla rete fa parte di un quadro generale che pare avere un destino segnato inequivocabilmente. Quello di essere regolato da una serie di macchine onniscienti, alimentate proprio da quella quantità sempre maggiore di dati. La democrazia, la partecipazione, la reciprocità informativa e la trasparenza non fanno parte dell’algoritmo perché, banalmente, fanno diminuire i guadagni e vanno controcorrente rispetto alla ferma ideologia del superamento della deliberazione umana, certamente di quella che fa più resistenza al ricercato quadro di standardizzazione delle scelte e dei comportamenti. E torniamo al punto di partenza. Come aveva già intuito Marcuse negli anni ’60, proseguendo sul filone di analisi della Scuola di Francoforte, la democrazia permeata di tecnologia digitale tende ad assumere una natura totalitaria che assorbe e integra ogni cosa. Tutto sta dentro un dispositivo informatico, e per la gran parte di noi vale la regola della “black box”, cioè di una scatola nera all’interno della quale ci sono cose che non conosciamo (e quindi non governiamo). Tutto e tutti siamo avvolti in una razionalità automatica che aiuta, semplifica ma soprattutto indirizza (e genera dipendenza). La tecnica spinge in questo modo l’essere umano a una vita semplificata, a una dimensione sempre più ristretta. Una dimensione che fa il paio con la velocità, il consumismo e l’iperattività e che garantisce, in definitiva, comportamenti standardizzati certamente più semplici da governare.

·        Viaggio sulla Luna.

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 2 dicembre 2021. Sembra la trama di un film di fantascienza ma quello che sta accadendo tra la Roscosmos e la Nasa è tutto vero: l'agenzia spaziale russa ha infatti deciso di denunciare l'astronauta americana Serena Auñón-Chancellor con l'accusa di aver volutamente tentato di sabotare la missione spaziale del 2018, di cui era parte come equipaggio. Il motivo? Una lite con il presunto amante, anche lui a bordo. E la voglia, di lei, di tornare sulla terra. Una versione contestata da alcuni perché vista come un tentativo di Mosca di giustificare l'incidente avvenuto nella loro missione. Dopo alcune indiscrezioni circolate sui media nei mesi scorsi, l'agenzia di Mosca ha concluso le sue indagini ufficiali e nel suo rapporto ha confermato le ipotesi già rese note in precedenza. Secondo la Roscosmos, la donna ha perforato con un trapano il modulo Soyuz MS-09 che era agganciato alla Stazione Spaziale Internazionale (Iss) - e con cui era arrivata a giugno insieme al russo Sergey Prokopyev e Alexander Gerst dell'Esa - con l'obiettivo di rientrare in anticipo sulla Terra. Ora saranno le autorità competenti russe a decidere se ci sono gli estremi per procedere per vie legali. La Nasa ha parlato di «attacchi falsi e privi di ogni credibilità», ai quali sono seguite speculazioni sul tentativo dei russi di trovare un colpevole cui addossare la responsabilità di un guasto al Soyouz, che sarebbe stato motivo di grande imbarazzo per l'agenzia spaziale di Mosca. Secondo queste voci la falla sarebbe stata riparata frettolosamente prima del decollo con una sostanza deterioratasi nello spazio.

 IL DANNO Il rapporto di Mosca però cerca di escludere anche questa possibilità, precisando che se il danno fosse avvenuto a Terra, «il Soyouz non avrebbe mai potuto superare i test pre-partenza perché la pressione sarebbe scesa immediatamente». Sul perché Auñón-Chancellor avrebbe compiuto quel folle gesto, tuttavia, la Roscosmos lascia aperte due piste: secondo la Tass, lo ha fatto in seguito a una furiosa lite con l'amante che si trovava a bordo con lei. Una persona di cui tuttavia non è stato reso noto il nome, forse anche perché l'astronauta era sposata ai tempi della missione e lo è ancora oggi, a distanza di quattro anni dal suo ritorno. Un'altra ipotesi, invece, è che la Auñón-Chancellor abbia agito così per motivi di salute, una «crisi psicologica molto forte» causata da un coagulo di sangue nella vena giugulare che aveva dovuto curare in autonomia. La Nasa si è limitata a sottolineare che non avrebbe commentato «questioni mediche» ma che riteneva la Auñón-Chancellor una professionista molto rispettata in grado di apportare un contributo inestimabile ai progetti in cui è stata coinvolta. E ora veniamo al foro di due millimetri, identificato in data 30 agosto 2018: in quel giorno una diminuzione di pressione da esso causata ha fatto scattare l'allarme e gli astronauti si sono attivati per chiudere la fessura con una colla apposita. Non appena arginata l'emergenza, hanno tentato di comprenderne le cause e dopo aver escluso l'ipotesi di un detrito proveniente dall'esterno, i russi si sono convinti dell'origine dolosa del danno.

L'IPOTESI Nel 2019 Mosca ha confermato che quel buco era stato effettuato dall'interno. Un'ipotesi rafforzata dal fatto, precisano nel rapporto, che le telecamere di sorveglianza che controllano il tratto tra il segmento russo e quello americano avevano «misteriosamente» smesso di funzionare. E che attorno al foro c'erano altri graffi, forse tentativi di perforare non andati a buon fine. La Roscosmos punta il dito contro l'astronauta americana anche perché quest' ultima si è rifiutata di sottoporsi alla macchina della verità, contrariamente ai colleghi russi. L'agenzia, inoltre, ha lamentato di non aver avuto la possibilità di esaminare la strumentazione e i trapani presenti sulla Iss per verificare la presenza o meno di resti metallici.

Da video.repubblica.it l'8 novembre 2021. Il sito Earth Observatory della Nasa descrive Wernher von Braun come il più grande scienziato missilistico della storia. Fu lui a guidare lo sviluppo del razzo Saturn V che portò i primi uomini sulla Luna nel luglio del 1969. Tedesco, naturalizzato statunitense, von Braun era stato un nazista, ma all'epoca questo retroscena non era noto.

Capitano Kirk nello spazio: missione compiuta a 90 anni. «È stato incredibile». Peppe Aquaro su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. A bordo della New Shepard della Blue Origin l’attore William Shatner (il celebre capitano di Star Trek) è atterrato in Texas. È diventato l’uomo più anziano ad essere stato in orbita: «Dovrebbero farlo tutti». E magari avrà pure dato dei consigli al resto dell’equipaggio, dicendo cose di questo tipo: «Non accetti promozioni, non accetti trasferimenti e non accetti niente che la porti via dal ponte di comando: perché, finché è là, può fare la differenza». E aggiungendo, probabilmente: «Se Spock fosse qui con noi? Direbbe che solo un essere umano, illogico e irrazionale, accetterebbe una missione del genere». Diavolo di un Capitano Kirk, alias William Shatner, che alla veneranda età di 90 anni suonati c’è riuscito davvero a fare ciò che un essere umano riuscirebbe difficilmente a realizzare. Figuriamoci se molto in là negli anni. «È stata un’esperienza incredibile che tutti dovrebbero fare — ha dichiarato commosso Shatner appena uscito dalla navetta —. Un’emozione più profonda di quanto potessi immaginare: non voglio dimenticare quello che provo ora, vorrei poterlo comunicare e condividere il più possibile». Ma lui è il Capitano Kirk, della nave stellare Enterprise, del telefilm Star Trek, trasmesso in America a partire dal 1966, tre anni prima dell’allunaggio americano. Il divo canadese Shatner è atterrato poco dopo le 17,00 (ora italiana) nel deserto texano, a bordo della capsula «New Shepard» della compagnia Blue Origin del magnate Jeff Bezos, dopo un volo di circa undici minuti, di cui tre in condizione di micro-gravità. A bordo con il «Capitano», l’equipaggio era formato da altri tre passeggeri: il vicepresidente della missione di Blue Origin Audrey Powers, il co-fondatore della compagnia di osservazione terrestre Planet Lab Chris Boshuizen, e Glen de Vries, co-fondatore di un'azienda di software francesi. E così, il buon vecchio William è riuscito anche nell’impresa di passare alla storia come il più anziano astronauta di tutti i tempi, superando la pioniera dell'aviazione, l’82enne Wally Funk, in orbita il 20 luglio scorso insieme a Bezos in persona, in compagnia del fratello Mark, e del giovanissimo studente olandese, l’appena diciottenne Oliver Daemen. È stato lo stesso Bezos ad accompagnare l’equipaggio fin sopra alla rampa di lancio (avvenuto a due passi da Van Horn, in Texas) assicurandosi che le cinture fossero agganciate bene e che il portellone fosse ermeticamente chiuso. E poi, come da tradizione, ha suonato la campanellina per i saluti. Sì, chi era presente giura di aver visto una immagine più da cartoon alla Simpson che da missione eroica. Ma tanto ci ha pensato il buon vecchio «Kirk», con casco in mano, a creare l’atmosfera delle grandi occasioni, lanciandosi in più di una solenne dichiarazione: «Le cose che ho solo interpretato da attore, le potrò provare in prima persona. Al ritorno voglio raccontarvi come mi sono sentito davvero quando ho visto le cose che abbiamo studiato in modo indiretto. Ragazzi, stavolta vado nello Spazio in prima persona». Belle parole. Pompose quanto si vuole, ma all’altezza delle motivazioni della Nasa in occasione del conferimento all’attore della medaglia d’onore: «Per la generosità eccezionale e la dedizione ad ispirare nuove generazioni di esploratori di tutto il mondo, oltre all’incrollabile sostegno alla Nasa ed alle sue missioni di scoperta». Era il 2014, e James Kirk- William Shatner non avrebbe mai sognato di interpretare realmente nello Spazio la parte del capitano. A 90 anni, poi. Complimenti, Mister Kirk.

 Da tgcom24.mediaset.it il 14 ottobre 2021. Missione compiuta: il capitano James T. Kirk di "Star Trek", ovvero l'attore William Shatner, ha effettuato il suo volo nello spazio. Un volo da record visto che i suoi 90 anni è il più anziano di sempre. Shatner, con i suoi tre compagni di viaggio ha volato a bordo della Blue Origin di Jeff Bezos: dieci minuti in orbita e un atterraggio perfetto. Il veicolo spaziale, del tutto automatico, ha raggiunto un'altitudine di circa 106 chilometri sul deserto del Texas occidentale per poi ridiscendere frenato da alcuni paracadute. Insieme a Shatner c'erano Audrey Powers, vicepresidente di Blue Origin ed ex controllore di volo della stazione spaziale per la Nasa, e due clienti paganti: Chris Boshuizen, un ex ingegnere della Nasa, e Glen de Vries, di una società di software 3D. Blue Origin non divulga il costo dei biglietti per il viaggio spaziale. Di certo, pare che Shatner non abbia pagato, visto che il fondatore di Amazon è un grande fan di "Star Trek" e avrebbe invitato l'attore personalmente. Al ritorno, sano e salvo, sulla Terra, Shatner è apparso euforico, elettrizzato e anche un po' commosso. «Hai fatto qualcosa, spero di non riprendermi mai più da tutto questo», ha detto a Bezos che lo aspettava fuori dalla capsula. «Mi hai regalato l'esperienza più profonda della mia vita. Chiunque nel mondo deve farlo, tutti devono vedere. E' incredibile», ha aggiunto, raccontando che durante il volo, mentre viaggiava dal cielo azzurro all'oscurità dello spazio, si è chiesto se fosse così la morte.

Lo Spazio è un'odissea tra "capitano Kirk", Paperoni e basi lunari. Massimiliano Parente il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale.  William Shatner, 90enne, l'eroe di Star Trek, vola in orbita con Bezos. Ma è solo show. Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell'astronave Enterprise diretta all'esplorazione di nuovi mondi», avete presente no? Devo dire che mi sono venuti i brividi. Cioè, è passato più di mezzo secolo dalla prima puntata di Star Trek, la serie di fantascienza più famosa di sempre, e gli anni sono passati anche per l'ormai mitico capitano Kirk, ossia William Shatner, che oggi ha novant'anni, e ieri è andato nello spazio sul serio, una figata. Tutto ciò grazie a Jeff Bezos, l'uomo più ricco del mondo, che se con Amazon vi porta a casa quello che volete, con Blue Origin vi porta per dieci minuti nello spazio, e mandarci il capitano Kirk è un bel colpo di scena. Fa una certa impressione pensare a Shatner che guarderà la Terra dall'alto come fosse davvero sull'Enterprise, farà impressione allo stesso Shatner (non penso se la faccia sotto, alla sua età si è abituati a tutto), forse fa meno impressione la notizia del viaggio in sé (il costo del biglietto è ancora segreto, ma bisogna essere milionari per poterselo permettere), ci siamo abituati un po' a tutto, senza rendercene conto. Anche perché la scienza va avanti, e la fantascienza ha anticipato spesso i tempi, a volte con troppo ottimismo, ma ci stiamo arrivando. Pensate a 2001 Odissea nello spazio, il capolavoro di Stanley Kubrick realizzato nel 1968 (sì, l'anno dello sbarco sulla Luna, e in effetti all'epoca si poteva pensare: se nel 1968 siamo sulla Luna, nel 2001 dove saremo? Purtroppo solo a vedere due aerei che si schiantavano sulle Torri gemelle guidati da terroristi islamici). Vi ricordate Spazio 1999? Beh, siamo nel 2021 e non abbiamo ancora messo delle basi sulla Luna (anzi, dopo le missioni del programma Apollo non ci siamo più tornati, costava troppo), e lì il comandante (della base lunare Alpha) era John Koning, interpretato da Martin Landau, che però è morto nel 2017 e non potrà provare anche lui il brivido di essere nello spazio. Di sicuro se lo sarebbe aggiudicato non tanto Jeff Bezos ma il suo rivale Elon Musk, il quale punta dritto su Marte ma in realtà anche alla Luna, visto che la Nasa ha scelto la Space X di Musk per il suo programma Artemis, che si propone di costruire basi sulla Luna, proprio come in Spazio 1999, sebbene con la solita retorica femminista, «porteremo la prima donna sulla Luna» (comunque non una cattiva idea, potremmo mandarci la Boldrini o la Murgia o entrambe, a me non parrebbe vero). Il turismo spaziale, in ogni caso, tra poco anni sarà all'ordine del giorno e alla portata di tutti. «Dove vai in vacanza?». «Volevo farmi un giro intorno a Venere e poi fermarmi nell'astronave orbitante a Venere, dove hanno aperto uno Starbucks che fa dei cappuccini veramente spaziali». Infine tecnicamente, lo dico per i pignoli, nessun essere umano è mai andato nello spazio dopo le missioni Apollo, sebbene abbiamo i nostri astronauti, da Luca Parmitano a Samantha Cristoforetti che vanno in giro a pubblicare libri e rilasciare interviste sulle loro incredibili vite da astronauti (tipo su come hanno fatto la pizza e la pipì in assenza di gravità, sebbene anche lì la gravità c'è ma non si vede, è solo il 5% meno di terrestre). La ISS, cioè la Stazione Spaziale Internazionale, è ancora in orbita terrestre bassa (quattrocento chilometri dalla Terra, mentre nei viaggi di Bezos si arriva a cento chilometri), protetta dalle radiazioni (lo spazio è cancerogeno) dal campo magnetico terrestre, quindi l'unico vero astronauta più anziano vivente a essere stato nello spazio è il novantenne Buzz Aldrin, che mise piede sulla Luna (distante 384mila di chilometri) insieme a Neil Armstrong. Però, anche se non è proprio lo spazio, il capitano Kirk sulla navicella di Bezos è fantastico. Anche perché in genere a novant'anni, al massimo, ci aspetta un'odissea nell'ospizio. Massimiliano Parente

Roberto Vittori. “Quarta volta nello spazio per Roberto Vittori”: l’astronauta italiano verso il record. Matteo Marini su La Repubblica il 26 ottobre 2021. A 57 anni, è stato per la prima volta nello spazio nel 2002, a bordo di una Soyuz. Poi di nuovo nel 2005 e  nel 2011 con lo Space shuttle Endeavour. Ora L’Agenzia spaziale italiana lo ha candidato per una nuova missione. L'Agenzia spaziale italiana (Asi) ha candidato l'astronauta italiano dell'Esa Roberto Vittori per una nuova missione sulla Stazione spaziale internazionale (Iss). Se riuscisse a tornare lassù diventerebbe, alle soglie dei 60 anni, il primo astronauta italiano per numero di missioni (quattro, anche se brevi), e il primo, ma a questo punto anche l'unico, a schizzare verso l'orbita su tre veicoli differenti.

Paolo Nespoli. Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 24 settembre 2021. Superman ha smesso di volare il 28 novembre dello scorso anno. È cominciato tutto con una stanchezza formidabile. Poi i controlli di routine, la Tac alla testa. C'era una macchia. Tre giorni dopo, la risonanza magnetica riconosce il tumore. La biopsia gli dà nome e cognome: linfoma B al cervello. Per l'astronauta di Verano Brianza che ha trascorso in orbita 313 giorni, due ore e 36 minuti, comincia un nuovo viaggio, terrestre, durissimo: prima la chemioterapia, nel mezzo la riabilitazione per ricominciare a camminare, ad agosto l'autotrapianto di cellule staminali. Accanto a lui quattro medici, preziosissimi, con i loro team: Alessandro Perin e Antonio Silvani del Besta di Milano, Giuliano Zebellin dell'Auxologico Capitanio e Andrés José María Ferreri del San Raffaele. Oggi alle 11 Paolo Nespoli ritorna a parlare in pubblico, all'Italian Tech Week di Torino. È dimagrito, cammina piano, continua a guardare avanti. Ha fiducia nel futuro.

Ingegnere, cosa ha pensato quando il neurochirurgo le ha riferito l'esito della biopsia?

«Confesso di non aver pensato molto... So solo che il medico ha detto che c'erano buone probabilità di cura, non dico di guarigione. Quindi gli ho risposto: facciamo tutto quello che c'è da fare». 

Ha mai temuto di non farcela?

«No, di non farcela mai. Però forse avevo sottovalutato la pesantezza delle cure». 

Quali sono stati i momenti più difficili?

«A parte quelli iniziali, dove capivo poco quello che stava succedendo, quando ne ho preso coscienza ho cominciato ad avere una serie di effetti collaterali legati alla terapia. Forse il momento più duro è stato l'isolamento di 23 giorni durante l'ultimo ricovero per l'autotrapianto, al San Raffaele». 

Che effetto le ha fatto vedere trasformarsi il suo corpo?

«Ho sempre pensato che sarebbe stata una cosa passeggera e che bisognasse portare pazienza, che alla fine di questa cosa sarei tornato come prima. Ora mi rendo conto che forse non tornerò mai come prima, ma credo di avere buone chance di rimettermi a posto».

Cosa le ha dato più forza in questi mesi?

«Ho cercato di applicare lo stesso metodo che applicavo prima con le cose più difficili, quando mi addestravo. Cioè non pensavo che mancava 100 per finire, ma vivevo un giorno alla volta, un pezzettino alla volta, in modo da non lasciarmi spaventare da quello che avevo ancora davanti». 

Era spaventato?

«Spaventato forse no... Però certi giorni mi sarebbe piaciuto che fosse tutto più chiaro e preciso come una lista di addestramento ed esami, che quando ne fai uno poi passi al successivo. Questa certezza, con le cure, non l'ho mai avuta. È una questione medica, dove le certezze sono relative».

Ha avuto paura di non vedere crescere i suoi figli?

«Il fatto che i figli crescono ti dà un senso del tempo che passa. A me piacerebbe vederli crescere, ma se non ci sarò so che potranno crescere bene, per cui l'importante è che loro possano farlo». 

Mentre era all'ospedale ripensava alle sue missioni sulla Stazione spaziale internazionale?

«Sì e no, non era un pensiero fisso. Mi ritornavano in mente le cose della mia vita, la mia giovinezza, l'Esercito, l'università in America, l'attività di ingegnere all'Esa, la vita nella Stazione spaziale...».

In queste ultime settimane, dei civili sono andati in orbita con Jeff Bezos e Elon Musk. Che effetto le fa sentirli chiamare astronauti?

«Ho sempre pensato che fosse un peccato precludere lo Spazio alla stragrande maggioranza delle persone sulla Terra e sono convinto che tutti dovrebbero provare questa esperienza dell'assenza di gravità e vedere il nostro bellissimo pianeta da lassù, perché sono cose che ti cambiano dentro. Ma non diventi astronauta solo per aver superato la linea di Kármán. Se compri un volo Milano-New York non diventi automaticamente pilota del jumbo jet, resti un passeggero: per diventar pilota c'è una strada lunga da fare e lo stesso vale per l'astronauta. Quindi sarei contrario alla definizione applicata a chi supera una certa altezza, senza togliere niente ai civili che fanno questa scelta coraggiosa». 

E lei viaggerebbe con Bezos o con Musk?

«Io ho fatto esperienze sia sullo Shuttle che sullo Soyuz. Se mi venisse data qualsiasi opportunità con l'uno o con l'altro la prenderei senza battere ciglio, anzi, ringrazierei moltissimo». 

Se le dico futuro?

«Io mi sento alla fine di un tunnel, guardo avanti e vedo la luce. Non mi aspetto di ritornare normale, ma con la maggior parte della capacità che avevo prima, per continuare a viaggiare, a fare le conferenze, a parlare con i ragazzi, a spronarli a fare l'impossibile. Vedo queste cose nel mio futuro».

L'uomo delle stelle. Chi è Paolo Nespoli, l’astronauta e la sua lotta contro un tumore al cervello: “Mi sento alla fine di un tunnel”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Settembre 2021. Paolo Nespoli è stato salutato con un lunghissimo applauso alla Italian Tech Week a Torino. È astronauta, ingegnere e militare italiano. È stato tre volte sulla Stazione Spaziale Internazionale. È uno dei simboli degli italiani che studiano e scoprono le stelle. A emozionare – oltre al coinvolgente intervento sulla space economy – la rivelazione dell’astronauta che ha raccontato di essere malato di un tumore al cervello. “Ho sempre pensato che sarebbe stata una cosa passeggera e che bisognasse portare pazienza, che alla fine di questa cosa sarei tornato come prima. Ora mi rendo conto che forse non tornerò mai come prima, ma credo di avere buone chance di rimettermi a posto”, ha detto in un’intervista a Il Corriere della Sera. Classe 1997, diplomato a Desio al liceo scientifico, ha studiato alla scuola di paracadutismo di Pisa e ha ottenuto un Bachelor of Science in Aerospace Engineering a New York e in Aeronautic and Astronautics al Politecnico della New York University. Si è anche laureato in ingegneria meccanica all’Università degli studi di Firenze. È entrato all’Esa, l’Agenzia Spaziale Europea nel 1991. Nei primi anni ’80, e non parlava né l’inglese né era laureato, fu esortato a continuare a lavorare per diventare astronauta dalla giornalista e scrittrice Oriana Fallaci e quindi è entrata nel suo romanzo Insciallah come il personaggio di Angelo. In tutto ha passato, nelle tre missioni del 2007, del 2010 e del 2017, 313 giorni, 2 ore e 36 minuti nello spazio. “Ho cercato di applicare lo stesso metodo che applicavo prima con le cose più difficili, quando mi addestravo – ha raccontato a Il Corriere – Cioè non pensavo che mancava 100 per finire, ma vivevo un giorno alla volta, un pezzettino alla volta, in modo da non lasciarmi spaventare da quello che avevo ancora davanti”. Nespoli ha anche pubblicato un libro, Dall’alto i problemi sembrano più piccoli, edito da Mondadori. È perfino diventato un personaggio di Topolino, Paolo Nexp. Il suo ultimo volo il 28 novembre dell’anno scorso. Poi una tac alla testa ha scoperto un tumore al cervello: linfoma B cerebrale. “Io mi sento alla fine di un tunnel, guardo avanti e vedo la luce. Non mi aspetto di ritornare normale, ma con la maggior parte della capacità che avevo prima, per continuare a viaggiare, a fare le conferenze, a parlare con i ragazzi, a spronarli a fare l’impossibile. Vedo queste cose nel mio futuro”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Francesca De Martino per “il Giornale” il 3 magio 2021. Missione compiuta per SpaceX e Nasa. La capsula Crew Dragon ha riportato sulla terra, e in sicurezza, quattro astronauti dopo un viaggio di sei mesi nello spazio. Ed è ammarata in pieno buio a largo delle coste della Florida senza nessun contrattempo, nella notte tra sabato e domenica, sostenuta da quattro paracaduti. Ma un recupero in mare di una navicella in piena notte, così esemplare e senza intoppi, non avveniva dall'Apollo 8, l'equipaggio che orbitò per primo intorno alla Luna nel 1968. Non solo una spedizione riuscita, ma un bel colpo per l'azienda aerospaziale SpaceX fondata dal milionario Elon Musk, che rafforza sempre di più il suo legame con la Nasa. «Bentornati a Terra!», ha infatti esultato l'azienda con un post su Twitter appena dopo l'ammaraggio della navicella. La Crew Dragon si era staccata dalla Stazione Spaziale Internazionale alle 20,35 (le 2,35 in Italia) e ha impiegato circa sei ore e mezza per ammarare nel Golfo del Messico, al largo della costa di Panama City, in Florida. È arrivata alle 8,57 ora italiana e tutto è stato ripreso e condiviso sui social dalla Nasa. Gli astronauti Michael Hopkins, Victor Glover e Shannon Walker della Nasa e il giapponese Soichi Noguchi della Japan Aerospace Exploration Agency hanno condiviso il viaggio di ritorno nella stessa capsula di nove metri quadrati, di nome Resilience, con cui erano partiti dal Kennedy Space Center il 17 novembre. Il veicolo di Musk, fatto con un design a capsule, si è evoluto da un precedente veicolo spaziale, il Dragon 1, lanciato venti volte in missioni per consegnare merci all'Iss. La missione è durata 167 giorni ed è la più lunga mai organizzata dagli Stati Uniti. Il record precedente di 84 giorni era stato raggiunto dall'equipaggio della stazione Skylab nel 1974. La capsula è stata trasportata da una nave, dove i quattro astronauti hanno trovato ad attenderli una squadra di medici pronti ad assisterli per il duro ritorno alla gravità. Un elicottero poi li ha portati sulla terraferma dove un altro aereo ha fatto fare loro ritorno a Houston, sede della Nasa. Per eventuali emergenze erano stati segnalati anche altri siti. Steve Stich, il capo del programma di voli commerciali della Nasa, aveva infatti assicurato poco prima della partenza: «Siamo addestrati a recuperare gli equipaggi giorno e notte. Le navi di SpaceX possono raggiungere la capsula circa dieci minuti dopo l'atterraggio».  Il primo a uscire dalla capsula è stato Hopkins. «È incredibile ciò che si può ottenere quando le persone si uniscono», ha detto ai controllori di volo di Space. Insomma, una bella occasione riuscita per un'azienda privata e soprattutto per l'imprenditore visionario Elon Musk, 49 anni, candidato a diventare l'imperatore dello Spazio per i suoi ambiziosi progetti che mirano a sviluppare internet ad alta velocità e voli con destinazione «cosmo» legati al turismo. Anche se, dall'altro lato ha un rivale non da poco e con gli stessi obiettivi: il multimiliardario Jeff Bezos, 59 anni, e fondatore del gruppo Blue Origin. Il primo vanta un capitale di 167 miliardi di dollari, il secondo di ben 202 miliardi (il più ricco del mondo). Il ruolo strategico della SpaceX ha restituito un gran prestigio agli Stati Uniti, che sono riusciti a portare ancora una volta uomini nello spazio e non succedeva dallo Space Shuttle del 2011. Ed è un traguardo che mette in discussione i rapporti spaziali tra Russia e Usa e mette fine al monopolio Russo. Crew Dragon è ufficialmente il secondo mezzo in grado di raggiungere la Iss oltre alla classica Soyuz russa.

L'audace colpo della Cia: quando le spie americane rubarono la sonda sovietica. Lorenzo Vita il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. L'operazione per rubare i segreti del programma Luna è una delle storie più straordinarie dell'era dello spionaggio della Guerra Fredda. Alla fine degli Anni Cinquanta del secolo scorso, l'Unione Sovietica appariva come la vera superpotenza nella corsa allo spazio. Washington sapeva che a Mosca facevano sul serio. Il presidente Eisenhower riceveva continuamente rapporti della Cia in cui si segnalavano i progressi dei comunisti nella corsa allo spazio. Un timore fondato: l'Urss aveva intrapreso da anni un programma di sviluppo tecnologico che faceva tremare i palazzi americani, tanto che ormai negli Stati Uniti era di moda parlare di "Missile gap", quella sensazione di divario crescente che metteva in serio pericolo le certezze dell'Occidente.

La leggenda negli archivi della Cia. Tra gli archivi della Cia - ovviamente nella parte descretata nel corso di questi ultimi anni - c'è una serie di rapporti che parla proprio di questa guerra tecnologica. Sabotaggi, missioni "impossibili" degne di film, rapporto inviati a Washington per i presidenti. Ma c'è una storia, in particolare, che sembra davvero uscire da una pellicola di 007: il "rapimento" di una sonda del programma Lunik. Non possiamo sapere né la data né il luogo. È una storia avvolta nella leggenda, tanto che molti non credevano neppure nella sua esistenza. Sappiamo solo che in un giorno imprecisato tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 in un luogo altrettanto imprecisato del mondo, un gruppo di spie americane fecero quello che nessuno era mai stato in grado di realizzare: rubare i segreti del programma spaziale del Cremlino. L'articolo pubblicato dalla rivista di studi della Cia nel 1967 parla di un evento avvenuto "qualche anno fa", quindi è probabile che fossimo nella fase più importante del programma lunare di Mosca. Ma sul luogo c' ancora più incertezza: a quell'epoca, l'Urss inviò in giro per il mondo un modello del Luna (il vettore per il satellite della Terra) per mostrare i traguardi raggiungi dalla tecnologia sovietica, e c'è chi giura che l'episodio sia avvenuto addirittura in Messico.

La questione di orgoglio. Le spie americane avevano subito messo gli occhi su quel Luna che girava in un vero e proprio tour mondiale per mostrare le mirabolanti imprese dei sovietici. All'inizio nessuno a Washington credeva che fosse una sonda vera, ma i primi cablogrammi inviati dalle città che venivano raggiunte dalla propaganda sovietica non lasciavano dubbi: quello era proprio il più grande problema del programma spaziale americano. E girava indisturbato per il mondo con una guardia di soldati di Mosca a fargli da scorta. Per la Cia la questione era di primaria importanza. Non si trattava soltanto di una questione di paura e di progresso tecnologico ma anche di orgoglio. Nessuno poteva accettare che i sovietici fossero così avanti mentre l'Occidente guardava agli Stati Uniti come al grande faro della modernità. Così quel Luna, schiaffo di propaganda e di orgoglio, diventò immediatamente l'obiettivo. Andava capito cosa fosse, cosa ci fosse dentro e soprattutto farlo sotto il naso dell'Urss in una missione pressoché impossibile, carpendo ogni singolo segreto. L'operazione non era semplice. Come rubare i segreti a una sonda protetta 24 ore su 24 dalle guardie di Mosca? Le indagini durarono giorni finché dal luogo imprecisato arrivò una notizia: per spostarsi da una città all'altra il percorso della sonda prevedeva un passaggio in un camion e l'arrivo nella più vicina stazione ferroviaria. Impossibile intrufolarsi in treno, ma forse sarebbe stato più semplice farlo con l'autocarro. Il controllo sovietico prevedeva semplicemente che arrivasse il giusto numero di casse nella stazione: nessuno avrebbe controllato il contenuto, sicuro che le guardie che lo avevano preceduto avessero svolto il loro compito. Dopo numerosi briefing tra agenti, ex agenti, capi della Cia e i migliori funzionari della sicurezza Usa, i file dell'intelligence Usa ci dicono che giunse l'ordine di dare il via all'operazione. L'America avrebbe dirottato il camion con la sonda e rubato i segreti dell'Unione Sovietica.

Inizia l'operazione. Gli agenti in borghese iniziarono a seguire la cassa contente il satellite. Le spie si guardarono intorno ma non sembrava esserci alcun servizio di guardia in più del solito. Forse proprio per non destare sospetti, i sovietici mandavano in giro quel gioiello della tecnologia in un'anonima cassa di legno con qualche simbolo disegnato sul bordo. Il camion si avvicinava lentamente alla stazione ferroviaria quando le spie americane entrarono in azione. L'autista venne fermato e condotto all'albergo più vicino. E c'è chi dice con le buone (qualcuno parla di alcol e prostitute e fiumi di dollari), altri dicono decisamente con le cattive. Quello che è certo è che in pochi secondi un agente della Cia era a bordo del camion e poteva guidare il veicolo lontano dalla rotta prestabilita: in un vecchio cantiere circondato da un muro abbastanza alto da tenere lontani gli occhi indiscreti del Kgb. Per qualche minuto interminabile, gli agenti statunitensi aspettarono di vedere arrivare qualche sovietico: ma apparentemente nessuno si era accorto del ritardo del Lunik. Il camion contenente la navicella era l'ultimo ad aver lasciato la mostra. Ma era possibile che molti del servizio russo non lo sapessero.

Foto, sigilli e fuga. Gli 007 americani iniziarono ad aggirarsi intorno alla cassa. La missione era estremamente difficile. Non si trattava solo di smontare l'involucro di legno fotografare e richiuderlo. In pochi minuti gli agenti della Cia avrebbero dovuto aprire la cassa, fotografare la sonda, smontarla, fotografare tutte le apparecchiature e rimontare tutto come se nulla fosse. Fu una notte lunghissima. I lavori sulla cassa iniziarono intorno alle sette di sera e si conclusero alle 5 del mattino. Un agente, con la torcia, illuminava la sonda mentre altri fotografavano a più non posso sperando che le immagini fossero abbastanza nitide. Non c'era alternativa: la missione era unica, non ci sarebbero state altre occasioni per osservare così da vicino il Lunik. Le spie fotografarono tutto, dai bulloni al serbatoio a ogni pezzo dell'area del motore (che però non era presente all'interno della cassa). Furono addirittura richieste le sapienti mani di un agente Cia sul luogo per riprodurre sul momento un simbolo sovietico su un sigillo di plastica che si era rotto per aprire un vano. Niente doveva far credere che quella cassa fosse stata aperta da agenti nemici. Poi, a notte fonda prima delle luci dell'alba, gli agenti ripresero il vecchio autista, probabilmente carico di alcol o di soldi, e lo rimisero al loro posto. In pochi minuti, tolsero il grosso telo dalla cassa, fecero ripartire lentamente il camion, lo rimisero sul tracciato originale. E l'autista portò la sonda Luna a destinazione senza che i sovietici si accorgessero di nulla. Almeno fino a quel momento. Probabilmente dopo qualche minuto Mosca già avrebbe saputo dell'agguato notturno, ma era impossibile avvertire qualcuno per agire in tempo. O forse l'apparato di sicurezza locale era decisamente inadeguato e il Cremlino aveva paura che accadesse l'irreparabile. Sta di fatto che l'Urss si risvegliò con un grosso segreto rubato, mentre gli Stati Uniti con uno dei migliori trofei di caccia della storia del suo spionaggio. Da quel momento la corsa allo spazio sarebbe cambiata totalmente.

Tra storia e leggende, tutto quello che non sapevi sulla Luna. Tiziano Bernard il 14 Aprile 2021 su Il Giornale. "O graziosa luna, io mi rammendo…" sono le celebri prime righe della poesia di Leopardi Alla Luna. Non c’è simbolo più presente nella nostra vita della Luna. Appare puntualmente ogni sera e ci illumina l’esistenza suscitando le più grandi fantasie poetiche. Ma che cos’è, infatti, la Luna? Da dove viene? Cosa comporta per noi sulla Terra? Certamente, non si tratta solo di un artefatto celeste che ha ispirato alcuni tra i più grandi pensatori dell’umanità ma si tratta anche di un oggetto che influenza il nostro pianeta nella quotidianità. È un simbolo universale che genera emozioni di fantasia, di amore, e di ingegno. Ci accompagna nelle nostre passeggiate notturne e molto spesso ci induce a pensare, a riflettere, e, se fortunati, a prendere buone decisioni. Non c’è forse cosa più romantica che camminare con chi si ama al suo chiarore. Eh già, sto parlando della nostra grande e bellissima Luna. La Luna è un corpo celeste che orbita attorno al nostro pianeta. Un satellite, appunto. Con il termine satellite si indica spesso un oggetto creato dall’uomo e poi lanciato in orbita per svolgere vari compiti: satelliti di comunicazione, navigazione ed altro. Questi sono però satelliti “artificiali” e la Luna, invece è un satellite “naturale”. Essa ruota in sincronia con la Terra, limitandoci a vederne solamente un lato. Ecco il perché dell’espressione “the dark side of the moon” (ripresa anche dai Pink Floyd per il loro celebre disco): un lato della superficie lunare non è mai visibile dal nostro pianeta. La luna è visibile quando la luce del sole la illumina e riflette la luce ai nostri occhi. Quindi durante la nostra notte, quando il sole è dietro al nostro pianeta, la Luna si illumina, rendendosi visibile. Le varie fasi lunari sono invece dettate dal moto di rivoluzione del satellite e la relativa posizione tra la Terra ed il Sole. Le fasi sono otto (quattro fondamentali e quattro intermedie): luna (1) nuova, (2) crescente, (3) primo quarto, (4) gibbosa crescente, (5) piena, (6) gibbosa calante, (7) ultimo quarto e (8) calante. Questo vale per l’emisfero boreale, cioè una visione della Terra dall’alto guardando il Polo Nord. Per l’emisfero Australe, le fasi sono invertite perché viste “a testa in giù”! Nell’esempio della grafica sotto, vediamo come la luna nuova (1) riceve luce da sole solamente al lato opposto al nostro. Dalla terra non possiamo quindi vederla. Nell’esempio della luna piena (5), essa riceve la luce dal sole ed è a noi visibile. Per i casi (2) a (4) e (6) a (8), invece, vediamo solo degli spicchi. La Luna, come accade con molti corpi celesti, percorre un’orbita ellittica (non circolare) dando spesso l’illusione che il diametro cambi. D’altronde per trovare un equilibrio naturale nell’universo anche la Luna deve escogitare qualche trucco. La Luna segue delle chiari leggi astronomiche che governano il suo movimento e ne hanno dettato la sua evoluzione.

Le origini della Luna. Non si sa per certo come la Luna sia nata. La teoria più accettata è di una grande collisione tra la Terra e un altro pianeta dalle dimensioni paragonabili a Marte. Questa collisione, circa 4,5 miliardi di anni fa, avrebbe causato detriti che con il tempo avrebbero formato il nostro satellite naturale. All’inizio la Luna sarebbe stata in stato fuso (rocce sciolte da grandi temperature e pressioni formando magma) e in appena un centinaio di milioni di anni il magma si sarebbe cristallizzato per formare l’attuale superficie.

Durante questo processo, mentre la Luna era ancora una “palla di magma”, le sostanze più dense (e quindi pesanti) sarebbero sprofondate verso il centro, mentre quelle più leggere sarebbero emerse verso la superficie. La Luna è infatti composta da più strati come nel grafico in basso. Al centro c’è un nucleo metallico solido composto principalmente da ferro e nickel che copre un diametro di circa 160km. Segue uno strato fuso e parzialmente fuso di circa 350km sotto un altro strato del mantello inferiore parzialmente fuso (circa 590km). Si raggiunge poi il mantello (circa 2350km) e la crosta lunare che copre appena circa 50km. Una curiosità molto interessante sulla profondità della crosta lunare è che è più sottile sul lato che guarda la Terra e più spessa dall’altro. Ci sono infatti varie differenze tra le due facciate, sia dal punto di vista geometrico che di composizione. La facciata più vicina alla Terra è molto più ricca di potassio, fosforo ed altri materiali detti “terre rare” (rare earth elements), indicando una tardiva cristallizzazione. Secondo due famosi scienziati, Martin Jutzi (Università di Berna) e Erik Asphaug (Università dell'Arizona), questo fenomeno potrebbe essere attribuito ad una collisione con un altro corpo celeste: una seconda Luna. Questa teoria, spiegata in dettaglio nel libro di Erik Asphaug Quando la Terra aveva due lune - La storia dimenticata del cielo notturno, racconta di una seconda Luna di dimensioni molto inferiori (circa 1000km in diametro) che potrebbe essere esistita assieme al nostro attuale satellite. Nel giro di decine di milioni di anni questi due corpi si sarebbero allontanati dalla Terra fino al punto di entrare in collisione. Dato che entrambe le lune avrebbero avuto la stessa orbita, la collisione sarebbe stata alquanto indolore, causando solamente l’asimmetria presente ora sulla nostra Luna. È una teoria che è stata definita “elegante e provocante” da altri grandi nomi quale Peter Schultz della Brown University in Providence (Rhode Island, Usa). Le teorie sull’incipit del nostro satellite rimangono quindi solo teorie. Però con i prossimi voli spaziali verso la Luna chissà che non si riesca a fare luce sul mistero.

Le influenze terrestri: scienza e spiritualità. La Luna è inoltre responsabile per vari fenomeni ed influenze presenti sulla Terra. Il più famoso è senza dubbio la marea. Chi ha vissuto sulla costa della nostra penisola italica non può non aver mai notato gli effetti della marea. Il ciclico alzamento ed abbassamento delle acque è dovuto alle forze di gravità combinate del sole (da una parte) e della Luna (dall’altra). Come mostra la grafica sotto, il nostro satellite e la nostra stella, con la loro gravità, attraggono i mari verso di se rendendo la distribuzione ineguale. Inoltre, il calendario gregoriano, cioè il calendario solare usato da quasi tutti i Paesi del mondo, fu derivato dal mese sinodico (completo ciclo lunare di 29 giorni). Fu introdotto nel 1582 per volontà di papa Gregorio XIII (1501-1585) con la bolla papale Inter gravissimas che pose fine al calendario Giuliano. Nell’ambito spirituale o religioso la Luna ha ispirato molte culture ed ideologie passate ma anche presenti. Il nuovo libro di Fatoumata Kébé, Il Libro della Luna - Storia, miti e leggende racconta molte di queste influenze. Da migliaia di anni essa rappresenta la femminilità, o meglio l’energia femminile. Non per altro rappresenta anche la nascita, la saggezza, l’intuizione, il ciclo della vita. Ecco perché alcuni gruppi di natura spirituale usano il termine “polarità lunare” (al contrario della “polarità solare” che è maschile). Il ciclo della Luna non può che non ricordare il ciclo della vita: da crescente, a piena, a calante. In un rituale Wicca, per esempio, la Somma Sacerdotessa chiede alla Dea (cioè alla Luna, spesso rappresentata dalle “tre Lune”) di prendere possesso del suo corpo per impartire saggezza e messaggi. Per di più si può attribuire il fascino degli antichi per la Luna alla sua natura ciclica. Si poteva trovare un parallelo con le stagioni e quindi anche a fenomeni connessi all’agricoltura quali pioggia, fertilità e molti altri. Nel cristianesimo, invece, la Luna non ha alcuna rappresentazione mitologica. Ha un valore appunto pratico (come il calendario) ma non rappresenta alcuna ragione di culto o adorazione. La Luna ha quindi influenzato la nostra esistenza sin dall’inizio dei tempi. Che sia con una presenza folcloristica come i lupi mannari, una presenza spirituale come la Dea della femminilità o semplicemente un corpo celeste da ammirare con i propri cari, le dobbiamo sicuramente molto. "Non giurare sulla luna, l’incostante luna che si trasforma ogni mese nella sua sfera, per paura che anche il tuo amore si dimostri, come la stessa luna, mutevole" , scriveva d'altronde Shakespere in Romeo e Giulietta.

Tiziano Bernard. Sono nato a Trieste, una città giuliana sul Mare Adriatico nel 1992. Da mia madre pianista ho ereditato il lato artistico studiando violino al conservatorio Tartini di Trieste e da mio padre biologo ho assorbito la mentalità razionale e scientifica che mi ha portato a  diventare ingegnere aerospaziale e pilota. Dopo un’istruzione all’International School of Trieste.

Dagospia il 12 aprile 2021. Ryan Morrison per Mailonline. Sono volati 60 anni da quando il cosmonauta russo Yuri Gagarin è diventato il primo essere umano ad avventurarsi nello spazio. Per l'occasione persone, agenzie spaziali e governi di tutto il mondo celebrano la Giornata internazionale del volo spaziale umano in suo onore. Il 12 aprile 1961, dal cosmodromo di Baikonur, il 27enne Gagarin salì nella sua capsula Vostok 1, pronto per il volo di 108 minuti, gridando "Poyekhali!" - 'Si parte!' - mentre i razzi lo sparavano nello spazio. Gagarin diventò una celebrità internazionale dopo il suo viaggio nello spazio, girando per il mondo, tenendo discorsi, interviste e firmando autografi, per celebrare la sua storica missione, ma soprattutto cementò la supremazia sovietica nello spazio fino a quando gli Stati Uniti non misero un uomo sulla luna più di otto anni dopo. Una volta atterrato, Gagarin fu trasportato in aereo a Mosca per ricevere il benvenuto di un eroe, salutato dal leader sovietico Nikita Khrushchev e accolto da folle entusiaste che acclamavano il suo volo come un trionfo alla pari della vittoria nella seconda guerra mondiale. Nato nel 1934 nel villaggio di Klushino, vicino a Gzhatsk, Gagarin fu selezionato per il programma di volo spaziale con equipaggio Vostok dopo essere stato sottoposto a test fisici e psicologici a Mosca. Per adattarsi alla capsula, il cosmonauta non doveva essere più alto di metro e 70 e pesare meno di 72 kili, Gagarin era alto un metro e 58. Morì nel 1968 all'età di 34 anni - l’anno prima che Neil Armstrong diventasse il primo essere umano a camminare sulla superficie della luna - in un incidente aereo mentre volava su un jet da addestramento. Gagarin andò nello spazio solo una volta, anche se partecipò come equipaggio di riserva alla prima missione Soyuz nel 1967 che vide il cosmonauta Vladimir Komarov ucciso quando si schiantò al suolo dopo un guasto del paracadute durante il suo ritorno sulla Terra. Temendo per la vita di un uomo che era diventato un'icona nazionale, i funzionari sovietici bandirono Gagarin da ulteriori voli spaziali dopo il fallimento della Soyuz.  '’Orbitando attorno alla Terra nell'astronave, ho visto quanto è bello il nostro pianeta. Persone, preserviamo e aumentiamo questa bellezza, non distruggiamola! ", disse Gagarin della Terra dallo spazio durante la sua orbita solitaria. Richard Branson, fondatore di Virgin Galactic, ha rivelato di aver sognato di sperimentare la vista della Terra dallo spazio - come visto per la prima volta da Yuri Gagarin - sin da quando era un bambino che osservava gli sbarchi sulla luna. Correva l’anno 1957 quando l’Unione Sovietica, con il lancio dello Sputnik, aprì una competizione con gli Stati Uniti; un'aspra campagna per dimostrare la superiorità della propria tecnologia spaziale; una gara che è diventata il simbolo dell'era della Guerra Fredda. Il lancio di Sputnik colse di sorpresa il Pentagono e nel 1958 la NASA fu creata per affrontare la superiorità spaziale dei russi. Ma nel 1961, Gagarin divenne la prima persona a orbitare attorno alla Terra, viaggiando a bordo della navicella spaziale Vostok 1: gli Stati Uniti erano ancora secondi nella corsa allo spazio. Più tardi nello stesso anno, l'allora presidente John F. Kennedy dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero fatto atterrare un uomo sulla Luna entro la fine del decennio, e il budget della NASA fu aumentato di oltre il 500% nei successivi quattro anni. La NASA raggiunse l’obiettivo di Kennedy nel luglio 1969 quando gli astronauti statunitensi Neil Armstrong, Edwin "Buzz" Aldrin e Michael Collins partirono per la missione spaziale Apollo 11. Armstrong sarebbe diventato il primo uomo sulla luna, ponendo effettivamente fine alla Guerra Fredda.

Il primo uomo nello spazio. Sessanta anni fa il primo volo nello spazio: Gagarin fece sognare la Russia e infuriare gli Usa. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Aprile 2021. Accadeva 60 anni fa. 13 Aprile 1961, il primo uomo nello spazio. L’Homo Sovieticus. Jurij Gagarin. Figlio di proletari, uomo modesto ma forte, il tipico eroe di un mondo alternativo a quello occidentale. Nikita Krusciov, il successore di Stalin, lo chiama mentre lui è in orbita e gli chiede: “Siete sposato? Avete figli?. “Sì, compagno Serghei Nikolaevic, ho una moglie e due figlie”. “Fatele tanti auguri e dite alle vostre figlie che possono essere orgogliose del loro padre. Salutate anche i vostri genitori”. “Grazie, compagno Krusciov, ne saranno onorati”. Il mondo in quel giorno d’aprile di sessanta anni fa non solo esulta, ma riconosce al sistema comunista sovietico un primato. Un primato che va al di là della tecnologia. Jurij Gagarin dispone persino di strumenti futuristici e infallibili: si parla di un orologio sovietico spaziale sincronico che non può perdere un istante che funziona con un diapason. Diapason e Gagarin diventano parole gemelle: ancor oggi, quando le nuove Soyuz in leasing internazionale solcano l’ ultra-spazio, portano i nomi di quell’astronauta e di quell’oggetto, quelli di una generazione di gioielli perfetti come appartenuti agli dei. Ma immaginari. Molto più che oggetti: sono simboli. In Italia tutti coloro che si sentono vicini al partito e al comunismo sovietico esultano in un delirio che si sforza di mantenere una compostezza razionale, ma che non vuole trattenere la gioia per la potenza esplosiva di un mondo alternativo a quello degli americani, i quali ancora non sono capaci di impressionare l’umanità con le future macchine celesti del programma Apollo. E quando lo faranno, non conquisteranno mai l’aura magico-religiosa della vittoria ideologica attraverso la tecnica. A questo penserà più tardi il presidente Donald Reagan con un gioco di spregiudicate pressioni economiche militari e scientifiche su Michail Gorbaciov, quando lo metterà di fronte ai costi e alle tecnologie delle immaginarie Guerre Stellari, che in realtà esistevano soltanto nella fantasia dei progetti americani. Allora era il 1961, (che fra l’altro è l’anno della costruzione del famigerato Muro di Berlino) siamo a pochi anni di distanza dal lancio del primo satellite artificiale in un’orbita terrestre, la sfera di metallo chiamata Sputnik , lo stesso nome che oggi La Russia non più sovietica ha dato al suo vaccino eternamente in attesa di autorizzazione dell’Ema, sembra per la riluttanza russa a far visitare i propri stabilimenti dagli ispettori europei. Era anche quello di Gagarin un mondo segreto. L’Unità, quotidiano del Partito comunista italiano, riferiva come fatto ovvio che la località da cui era partita l’astronave era segreta e che il segreto proteggeva il gioiello mondiale comunista, che usava le armi della discrezione per sviluppare le armi della scienza in vista del trionfo dell’uomo nuovo. “Il vostro nome sarà ricordato nei secoli ”, diceva Radio Mosca rivolgendosi all’astronauta nella cabina spaziale così terribilmente scomoda e imprigionante, se paragonata al comfort delle attuali stazioni orbitanti in cui anche gli astronauti italiani si alternano nuotando nell’aria, parlando in diretta televisiva terrestre. Allora, sessanta anni fa come oggi, tutto era così monoblocco: un uomo come un pulcino dentro una tuta dentro una capsula dentro una macchina sopra un razzo lanciato nel buio, senza paura perché i calcoli perfetti della macchina scientifica sovietica non avrebbero costituito alcun pericolo, appartenendo alla sfera divina del futuro costruito su una potente religione atea. Sappiamo che le cose erano meno facili di come ci sono state raccontate perché sicuramente alcuni astronauti russi di cui non sappiamo il nome hanno perso una vita in esperimenti falliti ma questo oggi non importa. Oggi non esiste più l’unione delle repubbliche socialiste sovietiche ed anzi proprio in queste ore una di queste repubbliche, quella Ucraina, si sta attrezzando per fronteggiare militarmente la Repubblica russa, mentre la Repubblica bielorussa non sta guardare ma traffica in armi e uomini. Non esiste più una Cecoslovacchia come allora nell’aprile del 1961, quando radio Praga trasmetteva messaggi entusiasti del popolo cecoslovacco che fu una drammatica invenzione poi risolta con la separazione siamese definitiva dei boemi e degli slovacchi. E gli ungheresi, persino gli ungheresi che 5 anni prima erano stati martirizzati da carri armati dell’armata rossa che avevano represso nel sangue la rivolta degli studenti e degli operai di Budapest guidati dal loro stesso partito comunista, persino loro ora si dichiarano entusiasti, ammirati e sbalorditi dall’innegabile successo della madrepatria sovietica. In Italia regnava allora il sindaco La Pira di Firenze che era un democristiano di sinistra molto aperto ai comunisti e all’Unione Sovietica, molto chiuso al mondo americano, e che quindi era guardato con estrema simpatia da tutta l’area della sinistra sia italiana che internazionale. E mentre Gagarin spiccava il volo, era presente proprio a Firenze il grande scienziato sovietico Blagonravov, un anziano in abito di fattura modesta e decorosa che raccontava ai cronisti di conoscere – nientemeno! – di persona il compagno Gagarin. E lo raccontava allo stesso sindaco di Firenze, aggiungendo con un sorriso che l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, dopo avere incassato il successo del primo uomo in orbita intorno alla Terra, già si apprestava ad esplorare gli altri mondi: non tanto la Luna, considerata una tappa troppo banale, ma più in là, oltre lo spazio fino ai pianeti Marte e Venere che sembravano ormai a portata di mano. Tutto ciò che oggi può sembrare ovvio, datato, persino patetico, era allora sul pinnacolo dell’enfasi come i violinisti di Chagall che volavano con le loro mucche sopra le case. Così i sogni propagati dalla incommensurabile terra in cui si sviluppava la rivoluzione comunista, e che già a riverberava sull’umanità gli effetti prodigiosi e indiscutibilmente superiori della tecnica, della scienza, dell’esplorazione umana, della potenza missilistica, della indiscutibile qualità della scuola, delle università, di tutto un intero sistema che era insieme padre e madre di quel risultato magnifico e tuttavia così proletario come il volo di Gagarin intorno alla terra. L’astronauta descriveva dagli oblò il mondo che vedeva dall’alto. Fu la prima volta che il pianeta terra riceveva le foto di se stessa vista da fuori: l’oggettivizzazione astrale, la visione dei Monti e delle valli, degli oceani, delle nubi, degli acciai e dei deserti ma anche la improvvisa visione spionistica di oggetti nell’aria capaci di vedere tutto, fotografare tutto, lontani dalla gittata delle armi o perlomeno a distanza tale da poter giocare una partita molto diversa da quella militare tradizionale. Sembrò allora che il trionfo fosse definitivo e completo. L’Unione Sovietica che aveva cominciato male la seconda guerra mondiale, aveva poi pagato un tributo di sangue come mai nessun altro popolo nella storia, per vincere l’aggressione tedesca non soltanto con l’eroismo dei soldati ma con la capacità tecnica di inventare mettere sul campo nuovi carri armati, nuove Katiuscie, nuova artiglieria ed aerei, e che ora, a pochi anni di distanza da quella guerra, aveva sviluppato la tecnologia della nuova Unione Sovietica vittoriosa era diventata la potenza pacifica dell’esplorazione spaziale. Con dentro per la prima volta un essere umano. La prima creatura vivente che aveva pagato un prezzo, quello inconsapevole della sua stessa vita, era stata la cagnetta Laika, chiusa a forza dentro un razzo e sparata nel vuoto ad abbaiare in un microfono. Poi c’era stato il volo semi orbitare di Titov, ed ora Jurij Gagarin completava l’ empireo socialista sovietico con eleganza e sexy appeal: non c’era ragazza nella vasta Unione Sovietica ma anche in Europa e negli Stati Uniti che non avrebbe voluto festeggiare il modesto ed attraente Jurij Gagarin, figlio di brava gente di campagna , niente grilli per la testa: tutt’altra umanità se comparata a quella americana che appariva così sfacciatamente volgare e per ora perdente. Fu quello il momento più alto e da allora il nome di Gagarin era stato usato per Marche di orologi sovietici tutti di una precisione stellare impossibile, il diapason che vibrano all’unisono con l’anima e col corpo e permettono la posizione umana più favorevole all’interno delle navicelle. Tutto sembrava nuovo magnifico e magico. Purché venisse dal mondo del bene. Il mondo del male allora appariva chiaramente quello di mammona, del denaro, del capitalismo, del razzismo e dello sfruttamento della fugacità del consumismo della sfacciata decadenza del mondo occidentale. Ci vorranno quasi trent’anni perché tutto si capovolgesse come si capovolse. Ma fu la loro ora più bella. Non soltanto dell’unione delle repubbliche socialiste sovietiche, non soltanto sui cieli spenti e neri oltre lo spessore della ionosfera, ma nelle menti e nei cuori di tutti coloro che sul pianeta terra erano sicuri che un nuovo sole era sorto ed era quello dell’avvenire. Socialista, naturalmente. Anzi meglio, comunista. Gli americani erano sempre più scioccati impressionati da questi successi, mettevano sotto processo tutto il loro sistema di apprendimento scolastico fustigandosi in tutti i modi e ordinando previsioni sempre più radicali per lo studio della matematica della fi sica e delle scienze in generale. Fu in questo senso una potente sferzata di energia quella che l’astronauta solitario Jurij Gagarin vibrò sul mondo di sessanta anni fa: quella sferzata ha fatto vibrare il nostro pianeta. Di Gagarin arrestano inevitabili monumenti, steli, memorie ma un decrescente numero di coloro che possono dire “io c’ero, io ricordo”. Io – ad esempio – c’ero e ricordo. E devo dire che riportare alla luce quelle sensazioni per chi oggi è giovane, è quasi impossibile. Uno dei più grandi psicologi viventi, Irwin Yalom, sostiene che ognuno di noi è un universo in cui si accumulano ricordi anche minimi che per lo più non meritano menzione, ma che tuttavia sono il mondo. Ognuno di noi quando perisce porta con sé non soltanto una memoria ma un intero universo con cui non possono competere i ricordi filmati, o memorizzati nemmeno sui libri. Quel mondo che fu emotivamente distorto e illuminato dall’avventura di Gagarin è ormai ai confini del nulla, che poi è il confine dello spazio che lui salì per primo ad annusare.

P.S. Jurij Alekseevič Gagarin era nato nel marzo del 1934. Era molto piccolo: 1 metro e 57. Aveva solo 27 anni al momento del volo spaziale. Morì in un incidente aereo, mentre pilotava un caccia, il 27 marzo del 1968, a 34 anni.

Il "catastrofico successo" che cambiò le sorti del mondo. Quella dell'Apollo 13 fu una vera odissea nello Spazio, nonché l'ultimo viaggio di tre astronauti sfortunati, che non hanno toccato la Luna, ma detengono tutt'ora un record universale: aver raggiunto il limite più distante dal pianeta. Davide Bartoccini - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. 11 aprile 1970, Cape Kennedy, Florida. Sulla cima dell'ottavo ciclopico razzo multistadio Saturn V, progettato dall’esimio barone e professore Wernher von Braun - un regalo dei tedeschi che prima di aver perso la guerra avevano scoperto qualche “trucco” interessante per raggiungere lo spazio - siedono stretti a morte dalle cinghie, in candide tute spaziali gli astronauti Jim Lovell, Jack Swigert e Fred Haise. Sul petto il gagliardetto della missione Apollo 13, dove sono raffigurati tre cavalli dorati che volano sopra il satellite naturale della Terra, da tempo raggiungibile dall’uomo. Sotto il motto "Ex luna, scientia" (“Dalla Luna, conoscenza”, ndr) e il numero della missione in caratteri romani. Prima di loro, soltanto 6 uomini hanno osato tanto. Sei su oltre tre miliardi di esseri umani. Da noi in Italia sono le otto di sera, dall’altra parte dell’Atlantico, nella base voluta da Truman per effettuare i test missilistici statunitensi, data la posizione ottimale per sfruttare al meglio la spinta concessa dalla rotazione terrestre, sono le 14.13. Per il Centro controllo missione di Houston, in Texas, è “Go”: si può partire. Ha inizio la sequenza di lancio. La potenza dei cinque motori del razzo a propellente liquido catapulta dalla rampa e oltre l’atmosfera il vettore lungo 111 metri, che stadio dopo stadio si separa, lasciandosi alle spalle intere sezioni non riutilizzabili, e riducendosi a una navicella spaziale che non misura neanche un terzo: composta dal modulo di comando e servizio Odyssey - nome scelto dal Lovell in onore di Omero, ma anche di Kubrick e del suo capolavoro 2001: Odissea nello Spazio - e dal modulo lunare, chiamato Aquarius o con il termine tecnico Lem, agganciato ed estratto dall’ultimo stadio del razzo. La traiettoria verso la Luna è buona. L’assetto è buono. Tutto, tranne lo spegnimento nel motore numero cinque del secondo stadio, è andato liscio. Il cratere di Fra Mauro, latitudine più elevata rispetto a quelle raggiunte nelle missioni precedenti e zona designata per l’allunaggio, è sulla via. Un gioco da ragazzi per la Nasa, che ha già portato l’Apollo 11 di Armstrong e l'Apollo 12 di Conrad sul piccolo satellite roccioso appena un anno prima, rendendo possibile il compimento di quei “piccoli passi per l’uomo” che ancora oggi rappresentano dei prodigiosi “balzi in avanti” per l’umanità. Quando l’Apollo 13 si trova a 330mila chilometri dalla Terra, nel buio quieto dello spazio aperto, dopo cinquantasei ore di navigazione, gli analisti del centro controllo di Huston continuano a monitorare ogni parametro della missione, e chiedono a Swigert per eccesso di zelo di rimescolare i serbatoi d’ossigeno dell'Odyssey. Un istante, un interruttore abbassato e una forte esplosione che spezza il silenzio, facendo tornare alla mente i tragici secondi che hanno portato alla morte l’equipaggio di quell’Apollo 1 che non raggiunse neanche l’orbita. I computer sfarfallano. L’allarme generale scandisce momenti di panico a bordo. Prima Swigert, poi Lovell, pronunciano alla radio una frase che resterà negli annali e nell’immaginario collettivo come sinonimo di “guai”: “Houston abbiamo un problema”. In Florida è sera, al Centro controllo su ogni terminale si cercano spiegazioni per la navicella spaziale che inizia a rollare e beccheggiare, perdendo l’assetto che Lovell cerca di mantenere a fatica con la piccola cloche. Guardando fuori dall’oblò numero 1 nota del gas che fuoriesce dall’Odyssey. È ossigeno. Il tempo di alcuni controlli incrociati, di comunicazioni agitate tra lo spazio e la terra. Dieci minuti di altissima tensione per capire cosa è accaduto: non si è trattato di un meteorite né di un qualche frammento di qualcosa che ha impattato con l’Odyssey. C’è stata un’esplosione, avvenuta durante il rimescolamento dei serbatoi d’ossigeno - elemento non solo indispensabile agli astronauti per respirare nello spazio che ne è praticamente privo, ma necessario a fornire insieme all’idrogeno l’alimentazione per le batterie di bordo, che garantiscono l’energia elettrica e fa di fatto funzionare ogni genere di strumentazione. È il 14 aprile e non ci vorrà molto a capire che l’Apollo 13 ha perso la Luna. Che la missione principale è fallita, e che sta per iniziare una vera odissea nello spazio: quella per riportare a casa tre uomini che hanno perso la rotta, senza ossigeno, energia elettrica e carburante. Quell'esplosione provocata dalla procedura di routine ha danneggiato diverse componenti del modulo di servizio. Due due quattro serbatoi d’ossigeno sono completante andati. Anche il motore potrebbe aver subito danni. L’indagine che verrà condotta in seguito, dimostrerà che un cortocircuito nei cavi che portavano corrente al miscelatore del serbatoio 2 aveva innescato l’esplosione. Ancora una volta, come per l'Apollo 1, un cavo da pochi dollari era costato il successo della missione di un programma che costava miliardi. Dal momento che non si poteva avere una stima completa dei danni, né i tecnici a terra né l’equipaggio dell’Apollo 13 possono assumersi il rischio di accendere il motore principale del modulo di servizio per fare rotta verso casa. Mentre alla Nasa si lavora per vagliare ogni ipotesi ed elaborare un piano di contingenza, gli astronauti si spostano sull’Aquarius: il modulo lunare che non è stato danneggiato e che si trasformerà in una lancia di salvataggio grazie alle batterie e ai serbatoi preparati per la breve permanenza che solo due membri dell’equipaggio avrebbero trascorso sulla Luna. Dal controllo missione l’ordine è di rifugiarsi lì e aspettare una soluzione per tornare a casa, vivi. Al presidente Nixon, che chiede un calcolo delle probabilità di successo della missione di salvataggio, viene fornita una stima poco rassicurante: forse il 20%. Non di più. Sebbene l’idea iniziale fosse quella di limitarsi a invertire la rotta, non verrà effettuata nessuna semplicistica inversione a “U”, dato che accendendo il motore principale potrebbe saltare tutto in aria (anzi nello spazio). Bisogna limitarsi a sfruttare l’effetto fionda che l’attrazione gravitazionale della Luna può fornire. Una tattica che era stata già impiegata nel 1969 per l’allunaggio di Armstrong. La rotta va corretta, ma resta la stessa. L’Apollo 13 compierà una traiettoria a forma di enorme simbolo dell’infinito, sparirà dagli schermi oltre il lato oscuro della Luna, nel freddo glaciale e nel completo silenzio radio; e se tutto andrà bene ricomparirà dall’altra parte, per fare rotta verso casa. Alla sessantunesima ora di quell'odissea i motori del modulo Lem che erano stati progettati esclusivamente per la fase di allunaggio - non per viaggiare nello spazio - vengono attivati per soli 34 secondi: il tempo di modificare la traiettoria. E poi alla via così, ci penserà la Luna. Sarà allora, nel completo silenzio radio, che Lovell e i suoi sorvolano il lato oscuro della Luna a un’altitudine di circa 100 chilometri, raggiungendo una distanza di oltre 400mila chilometri dalla Terra. Record ancora imbattuto per l’essere umano. Sebbene il modulo lunare potesse contare su una scorta di ossigeno, bisognava considerare che essa era stata pensata per solo due astronauti. Non tre. Dunque considerata l’anidride l’anidride carbonica che sarebbe stata prodotta nei quattro giorni che mancavano al rientro, l'equipaggio rischiava tra milioni di variabili anche la morte per asfissia. Il tutto mentre doveva rimanere lucido e attento a una temperatura di 3° centigradi - dato che ogni tipo di sistema elettrico era stato spento per non sprecare la poca energia indispensabile alle sequenze di rientro. Furono ancora una volta gli ingegneri della Nasa a trovare una soluzione per loro: adattando filtri di forme e dimensioni diverse, impiegando dotazioni presenti a bordo, dai calzini alle copertine dei manuali di bordo. Nel frattempo gli astronauti avrebbero vissuto con una razione d’acqua di 200 millilitri al giorno, nella semi oscurità, ad aspettare l’ora X e guardare con speranza il pianeta celeste dagli oblò ghiacciati. Sulla Terra invece tutti avevano lo sguardo rivolto al cielo, sapendo che nonostante la Guerra Fredda e il segreto militare, che tre uomini come loro, tre pionieri della specie umana, erano lassù da qualche parte e non vedevano l’ora di tornare a casa per riabbracciare le loro famiglie. Raggiunto il punto calcolato sulla rotta di rientro, i motori del modulo lunare vennero accesi due volte, per lassi di tempo molto brevi, al fine di ottenere la giusta angolazione per entrare nell’atmosfera alla giusta velocità e non vanificare gli sforzi di quei giorni, facendo schiantare la capsula sugli strati esterni dell’atmosfera. La prima accensione avvenuta a 105 ore, 18 minuti e 42 secondi secondo il tempo di viaggio di una durata di 14 secondi e la seconda a 137 ore, 40 minuti e 13 secondi. Quando il modulo di servizio fu sganciato, Lovell si rese conto con i suoi occhi che i danni causati dall’esplosione erano talmente ingenti che se avessero acceso il motore principale, sarebbe stata davvero la fine. Dando addio al modulo di comando e all’Aquarius, la loro salvezza, gli astronauti presero posto nel piccolo abitacolo ghiacciato. In attesa di rientrare finalmente sul pianeta. Ci vollero altri sei minuti di totale silenzio radio, mentre lo scudo termico dell’Odyssey si faceva incandescente, i g (l'accelerazione gravitazionale) aumentavano, e a bordo tutto il ghiaccio si scioglieva bagnando le tute spaziali. Mentre tutto il mondo seguiva in diretta e con il fiato sospeso l’ultima battuta di quella odissea, tutti quanti, divenuti ormai appassionanti ed esperti dopo giorni di notiziari, speciali e prime pagine dei giornali, si domandavano se lo scudo termico avrebbe retto, se il sistema automatico di apertura dei paracadute avrebbe funzionato, se tutto sarebbe andato per il meglio: se al termine di quel lungo silenzio, dall’altra parte, qualcuno avrebbe risposto al contatto che cercavano al centro di controllo missione di Houston. Silenzio. Ancora silenzio. Poi la luce. I grandi paracadute di seta che si spalancano e la piccola capsula a forma cono che danza nel cielo. E si adagia lieta sulle onde calme dell’oceano Pacifico. I grandi palloni galleggianti si aprono, gli elicotteri decollati dalla portaerei Uss Iwo Jima dai quali si tuffano i paracadutisti soccorritori della Marina, e finalmente il portellone che si apre, alle 18:07 (Utc) del 17 aprile. Dall’altra parte i sorrisi e la commozione di Lovell, Swigert e Haise. Tornati sulla Terra, stanchi, smagriti e duramente provati da quell’esperienza che non li vide mai più tornare nello spazio, ma sani e salvi. Jim Lovell dirà in seguito: “Certo sopravvivemmo, ma ci mancò proprio un pelo. La nostra missione fu un fallimento, ma mi piace pensarlo come un fallimento che fu un successo”. Le indagini successive, oltre a confermare il problema del serbatoio d’ossigeno numero 2, svelarono un ulteriore malfunzionamento: “Un cedimento meccanico che portò all'apertura di una falla nel serbatoio contenente il gas propulsivo necessario all'espulsione della copertura dei paracadute”. Che però si aprirono grazie a una ridondanza nel sistema di funzionamento. Quando John Fitzgerald Kennedy, durante il suo breve mandato presidenziale, parlando all’attenzione della Rice University e dell’intera nazione spiegò l’importanza dello sforzo spaziale per l'America e l'uomo, al fine di persuadere il popolo americano a sostenere il programma Apollo, disse: “Scegliamo di andare sulla Luna in questo decennio e fare le altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili”. L’Apollo 13 non arrivò sulla Luna, ma dimostrò al mondo intero, compresi i sovietici a cui non si voleva mostrare alcuna debolezza o ritardo nel programma spaziale, che alla Nasa non erano soltanto capaci di mandare l’uomo sulla Luna: erano stati capaci di affrontare molte difficoltà e salvare tre astronauti, risolvendo un “problema” sorto a 300mila chilometri della Terra. Come Dunkerque, la tredicesima missione Apollo fu un disastro conclusosi in uno straordinario successo.

Le donne si prendono Spazio (60 anni dopo il primo uomo). Gagarin fu lo spot della rivoluzione materialista. Ora il cielo è la nuova via dell'emancipazione femminile. Massimo M. Veronese - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Scelsero lui, tra tremila candidati, non solo perché a 27 anni era tenente dei top gun, ma perché era figlio di operai, viveva in un appartamento di due stanze con la moglie Valentina e due figlie e il suo sorriso luminoso incarnava l'ideale del giovane sovietico. Anche quando tornò da quel viaggio, il giro della Terra in 118 minuti, primo uomo ad andare nel Spazio sessant'anni fa il 12 aprile, la sua frase «Sono stato lassù ma Dio non l'ho visto» obbediva allo spirito materialista che animava la ricerca spaziale comunista, l'Uomo Nuovo uscito dalla Rivoluzione al posto del Dio dei Millenni. Quando il suo collega Sergej Krykaliov, trentuno anni dopo, tornò dalla Mir, la prima casa degli uomini nel cosmo, non trovò più nemmeno l'Unione Sovietica: al posto della bandiera rossa con falce e martello c'era il tricolore russo fatto issare da Boris Eltsin. La morte a 34 anni di Gagarin, precipitò il 27 marzo del 1968 mentre collaudava un caccia, lo trasformò in monumento al coraggio e alla lealtà socialista e in icona globale. Si scoprì poi che il «bravo ragazzo», tornato con i piedi per terra, non aveva retto al peso della gloria: si ubriacava di continuo e molestava le cameriere degli alberghi delle città dove veniva spedito per i tour di propaganda. Il controllo di quell'ultimo aereo forse lo aveva perso perché era ubriaco. E oggi nello Spazio, data stellare 2021, è un esercito di donne ad aver preso il posto del primo uomo. Donna è Adriana Marais, astrofisica, candidata a diventare la prima africana dell'Universo, Operazione Mars One, che sogna di «vivere su Marte gli ultimi giorni della mia vita»; donna è Anna Kilkina, unica cosmonauta di Roscosmos, l'agenzia spaziale russa, alla quale la Marvel si è ispirata per realizzare l'ultima Barbie; donna è Sarah al-Amiri, ministro per le Scienze avanzate e capo dell'agenzia spaziale saudita, una delle cento donne più influenti del mondo. E sarà una donna la prossima a mettere piede sulla Luna con Artemis 1: dodici gli americani che hanno camminato sulla Luna fino a oggi tutti uomini, e nove le ragazze che si stanno addestrando per andarci. Sono medici, agenti della Cia, scienziate, piloti militari. Ne resterà solo una. Pare che lo Spazio sia più adatto a loro che agli uomini: sono più leggere, consumano meno calorie, producono meno rifiuti. Impossibile poi pensare a una colonizzazione interplanetaria senza di loro. Mamma è tutto anche nell'universo infinito. La Nasa ci ha creduto sempre così così: dei 347 americani cha hanno volato nello spazio, solo 49 sono donne. La prima fu Sally Ride, ma chi la ricorda più? E le tredici aviatrici che si candidarono invano negli anni Sessanta per la missione Mercury sono diventate un docufilm Netflix di oggi sul maschilismo stellare. Sono ancora il 10% del totale, ma far atterrare una donna sulla luna potrebbe ispirare un'intera generazione di giovani ragazze, ha detto l'amministratore della Nasa Jim Bridenstine. «Ho una figlia di 11 anni e voglio che veda davanti a se tutte le opportunità che ho avuto io». Anche noi italiani facciamo la nostra parte: abbiamo candidato Simonetta Di Pippo, da anni direttore dell'Ufficio Onu per lo Spazio e già a capo del Volo umano dell'Esa, a successore del tedesco Woerner alla guida dell'Agenzia spaziale europea. Del resto siamo un modello per il mondo. L'India, che ha incaricato Ritu Karidhal, Nandini Harinath e Anuradha Tk di aprire una finestra sul cielo, si è inventata un trucco: a guidare la missione Gaganyann sarà Vyommitra, un semiumanoide ma di aspetto femminile. Un robot donna. Una classica soluzione all'italiana.

·        Viaggio su Marte.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 19 ottobre 2021. Il Disco di Nebra, considerato la più antica rappresentazione del cielo, sarà esposto al British Museum. Il disco di bronzo che misura 30 centimetri ha un fondo blu-verde su cui sono intarsiati simboli dorati che rappresentano la luna, il sole, i solstizi e le stelle, incluse le Pleiadi. Il disco è stato scoperto vicino alla città di Nevra in Sassonia-Anhalt, in Germania, nel 1999 da due saccheggiatori. I due distrussero parte del sito e con la loro vanga danneggiarono il reperto. Misero in vendita questo e altri manufatti, e dopo vari passaggi, i beni furono sequestrati dal museo Hildegard Burri-Bayer. Gli esperti ritengono che il disco celeste sia stato utilizzato come calcolatore per aiutare la popolazione a prevedere i tempi migliori per la raccolta in primavera e in autunno. Un’interpretazione supportata dalla presenza delle sette Pleiadi vicino a una luna piena. Non c’è certezza sulla datazione: il dottor Pernicka dell’Università di Tubinga sostiene risalga al 1.600 a.C., il dotto Gebhard della Bavarian State Archaeological Collection lo colloca invece circa mille anni dopo. Ll disco di Nebra sarà uno dei momenti salienti della mostra "The World of Stonehenge", che presenterà centinaia di altri manufatti provenienti dalla Gran Bretagna e dall'Europa. Un pezzo degno di nota sarà un ciondolo solare estremamente raro di 3000 anni fa, che gli esperti hanno definito il pezzo d'oro più significativo della Gran Bretagna dell'età del bronzo. «Il disco di Nebra e il ciondolo del sole sono due degli oggetti più straordinari dell'Europa dell'età del bronzo», ha detto il curatore del British Museum Neil Wilkin. «Entrambi sono stati portati alla luce solo di recente, letteralmente, dopo essere rimasti nascosti nel terreno per oltre tre millenni. Siamo lieti che saranno entrambi pezzi chiave nella nostra mostra irripetibile di Stonehenge al British Museum». «Mentre entrambi sono stati trovati a centinaia di miglia da Stonehenge, li useremo per far luce sul vasto mondo interconnesso che esisteva intorno all'antico monumento, che abbracciava la Gran Bretagna, l'Irlanda e l'Europa continentale». «Sarà una rivelazione», ha concluso. Il Nebra Sky Disc è stato prestato al British Museum dalle collezioni dello State Museum of Prehistory di Halle, nell'est della Germania.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 settembre 2021. Un astronomo dilettante tedesco, Harald Paleske, stava osservando l’ombra della luna di Giove, Io, creare un’eclissi solare nell’atmosfera quando si è accorto che qualcosa aveva impattato sulla superficie del pianeta. «Un lampo di luce brillante mi ha sorpreso» ha raccontato l’uomo. «Potrebbe trattarsi solo di un impatto». Se confermato, questo evento sarebbe l’ottavo registrato sul gigante del gas: il primo è stato identificato nel 1994. Dopo aver visto il lampo, Paleske ha tentato in ogni modo di determinarne l’origine osservando ogni singolo fotogramma del video che ha girato. Così ha scoperto che il lampo è rimasto visibile per due secondi. Anche se Giove viene colpito da dozzine, e forse centinaia, di asteroidi ogni anno, riprendere un evento del genere è molto difficile. L’impatto è stato registrato anche da un altro astronomo dilettante, José Luis Pereira, brasiliano di Sao Caetano do Sul. «Con mia grande sorpresa, nel primo video ho notato un bagliore diverso sul pianeta, ma non ci ho prestato molta attenzione perché pensavo potesse essere qualcosa legato ai parametri adottati, e ho continuato a guardare». «Per non interrompere le riprese in corso, non ho controllato il primo video». «Ho controllato il risultato solo la mattina del 14, quando il programma mi ha avvisato dell'alta probabilità di impatto e ho verificato che c'era effettivamente un record nel primo video della notte», ha scritto Pereira. Ha quindi inviato le informazioni a Marc Delcroix della Società Astronomica francese, che ha confermato che l'evento visto nel filmato è un impatto. 

DA leggo.it il 9 settembre 2021. Esistono altri mondi abitabili? Una domanda che l'uomo ha iniziato a porsi secoli fa e che oggi grazie alle tecnologie disponibili potrebbe trovare una risposta in un futuro non troppo lontano. I candidati non mancano tra gli oltre 5.000 esopianeti - pianeti cioè al di fuori del sistema solare - individuati fino ad oggi. Il primo, 51 Pegasi b, è stato scoperto nel 1995 da Michel Mayor, astrofisico svizzero insignito nel 2019 del Nobel per la Fisica, che oggi e domani è a Roma per una due giorni dedicata a esopianeti e vita extraterrestre, organizzata nell'ambito del Progetto Scienza NET, dall'INAF e Sapienza Università di Roma. Si tratta però di pianeti talmente distanti da noi da non essere raggiungibili dall'uomo, spiega Mayor: "Il pianeta ideale non lo troveremo a 1-2 anni luce, volendo essere ottimisti potremmo trovarlo ad almeno 30 milioni di anni luce, un miliardo di volte la distanza che separa la Terra dalla Luna. Dunque non è tecnicamente raggiungibile. Finché parliamo di fantascienza va bene, ma per la scienza non è possibile". Dunque è inimmaginabile che esista un Pianeta B dove l'umanità possa migrare nel caso in cui la Terra diventi inabitabile? "Esattamente - conferma lo scienziato - Noi siamo su questo pianeta e ci rimarremo. Noi siamo legati a questo pianeta, che non è poi così male e dunque sta a noi preservarlo". Neanche Marte può candidarsi a diventare il pianeta B? Sono tante attualmente le missioni in preparazione per portare l'uomo sul pianeta rosso. "Marte è nel sistema solare, è facile da raggiungere. Dunque bene partire, esplorare, immaginare che degli equipaggi possano trascorrere alcuni mesi su questo pianeta, fare esperimenti scientifici. Scoprire fa parte delle aspirazioni dell'umanità. Al contrario, - afferma Mayor - l'idea di una migrazione dell'umanità su Marte, sento parlare di mandare un milione di persone su Marte, è qualcosa in cui non credo. Marte ha un'atmosfera irrespirabile, il terreno è sterile, manca dell'infrastruttura biologica necessaria alla nostra vita. Il deserto più inospitale sulla Terra è un paradiso al confronto con Marte".

Alessio Lana per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2021. Colonizzare non è più una parola tabù soprattutto se avvicinata a un altro termine sempre più in voga: «terraformare». Viene dall'inglese terraforming, è importato dal latino, e significa rendere terrestre e abitabile la superficie di un pianeta dove poi mandare dei coloni. Se prima la terraformazione era dominio della fantascienza, il termine stesso è dello scrittore Jack Williamson, adesso entra nei laboratori per diventare realtà. L'invio di sonde e rover è stato solo il primo passo della conquista americana di Marte perché ora la Nasa accelera: sta cercando volontari per vivere all'interno di un habitat che simula una colonia marziana. I quattro fortunati (nonché pagati ma non si sa la cifra) che parteciperanno al primo dei tre esperimenti previsti, dal 2022 vivranno per un anno nel Mars Dune Alpha, un futuristico complesso di 150 metri quadrati all'interno del Johnson Space Center di Houston, il centro di comando di tutti i voli spaziali con equipaggio umano (quello del «Houston, abbiamo un problema»). Il progetto è della Big del danese Bjarke Ingels, profeta della «sostenibilità edonistica» ad oggi riconosciuto come uno dei designer più visionari al mondo. Il termovalorizzatore con le piste da sci che nel centro di Copenaghen porta la sua firma così come il treno da 1.200 km/h che unirà Dubai e Doha e il grattacielo orizzontale The Portico in costruzione a City Life, a Milano. Come tanti progetti di Big, anche l'habitat artificiale marziano «non ha bisogno di sacrificare l'estetica» per essere funzionale. Ecco quindi forme sinuose e spazi ampi (nonostante i 150 metri quadrati), quattro stanze da letto separate (un dormitorio in quattro per un anno sarebbe eccessivo), una serra idroponica, una palestra e l'ambulatorio. Luci, temperatura e acustica vengono regolate automaticamente per rispettare il ritmo sonno-veglia degli occupanti (un giorno su Marte dura solo 39 minuti più del nostro) mentre il soffitto si muove per rompere la monotonia. Ciliegina sulla torta, l'edificio sarà stampato in 3D, simulando la tecnica costruttiva che la Nasa prospetta per il Pianeta Rosso. Lì i quattro pseudo colonizzatori simuleranno la vita quotidiana sul Pianeta Rosso concedendosi finte passeggiate spaziali ed esplorazioni ma anche affrontando limitatissimi contatti con la Terra, scarsità di cibo e risorse, eventuali guasti. Il Pianeta Rosso però non è per tutti e i criteri di selezione sono molto stringenti. Per partecipare occorre un master in materie scientifiche, ingegneria o matematica oppure un brevetto da pilota. Si deve essere statunitensi o residenti permanenti, avere tra i 30 e i 55 anni e un'ottima forma fisica, nessun disturbo alimentare e non soffrire di motion sickness (o cinetosi), il «mal di mare» provocato dalla realtà virtuale. Insomma, «praticamente si deve essere degli astronauti», come ha notato l'astrostar Chris Hadfield, il «chitarrista» della Stazione Spaziale Internazionale, aggiungendo che bisogna essere «super competenti, intraprendenti e non fare affidamento sugli altri». Proprio come Matt Damon in The Martian però nella terrestre Houston.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 agosto 2021. Una società del Texas incaricata di progettare habitat stampati in 3D per supportare le missioni della NASA su Marte ha pubblicato un incredibile video di come funziona il suo processo di stampa 3D.

ICON - che sviluppa tecnologie di costruzione avanzate - si è aggiudicata un subappalto dall'agenzia spaziale per stampare Mars Dune Alpha, progettato dallo studio di architettura di fama mondiale BIG-Bjarke Ingels Group per il Johnson Space Center. L'azienda con sede ad Austin, nota per aver consegnato la prima casa stampata in 3D autorizzata negli Stati Uniti nel 2018, ha pubblicato all'inizio di questa settimana straordinari video rendering che mostrano come sarebbero stati i moduli completati.

La NASA, che spera di inviare esseri umani sul Pianeta Rosso entro il 2037, ha detto venerdì che sta cercando «individui altamente motivati» per partecipare a un programma di simulazione della vita su Marte: i prescelti vivranno un anno nel modulo di 520 metri quadrati. 

ICON ha affermato in un comunicato stampa che il modulo simulerà un habitat realistico di Marte per supportare missioni spaziali di lunga durata di classe esplorativa. Jason Ballard, co-fondatore e CEO di ICON, ha definito Mars Dune Alpha «l'habitat simulato più fedele mai costruito dall'uomo». «Mars Dune Alpha ha uno scopo molto specifico: preparare gli umani a vivere su un altro pianeta», ha detto Ballard. «Volevamo sviluppare un analogo più fedele possibile per aiutare il sogno dell'umanità di espandersi nelle stelle». Ballard ha aggiunto: «La stampa 3D dell'habitat ci ha ulteriormente fatto capire che la stampa 3D è una parte essenziale del kit di strumenti dell'umanità sulla Terra per andare (e restare) sulla Luna e su Marte».

ICON costruirà il modulo utilizzando Vulcan, la stampante 3D per costruzioni su larga scala dell'azienda. La stampante misura 15 metri di larghezza ed è in grado di stampare case e strutture fino a 900 metri quadrati utilizzando Lavacrete, un materiale da costruzione a base di cemento. L'azienda afferma che il calcestruzzo speciale può resistere a condizioni meteorologiche estreme e «ridurre notevolmente l'impatto dei disastri naturali». Il Vulcan crea perline di stampa alte 2,5 cm e larghe 3 centimetri a una velocità compresa tra 10-25 centimetri al secondo, secondo il sito Web dell'azienda. Non era immediatamente chiaro quanto tempo ci sarebbe voluto per costruire il modulo della NASA. Su una delle estremità il modulo ospita quattro alloggi privati per l'equipaggi. Dall'altra parte ci sono postazioni di lavoro dedicate, postazioni mediche e postazioni di coltivazione. Al centro si trovano alcuni spazi di vita condivisi. Mars Dune Alpha sarà arredato con un mix di mobili fissi e mobili che i membri dell'equipaggio possono riorganizzare in base alle loro esigenze e desideri, e illuminazione, temperatura e controllo del suono saranno personalizzabili.

La NASA ha aggiunto: «L'habitat simulerà le sfide di una missione su Marte, comprese limitazioni delle risorse, guasti alle apparecchiature, ritardi nelle comunicazioni e altri fattori di stress ambientale». «I compiti dell'equipaggio possono includere passeggiate spaziali simulate, ricerca scientifica, uso della realtà virtuale, controlli robotici e scambio di comunicazioni. I risultati forniranno importanti dati scientifici per convalidare i sistemi e sviluppare soluzioni». Le domande di adesione alle missioni scadono fino al 12 settembre 2021. 

 

Lo studio uscirà nel prossimo numero di The Astronomical. Scoperto un nuovo pianeta: il TOI 1231 simile a Nettuno ma potrebbe avere nuvole d’acqua. Elisabetta Panico su Il Riformista il 16 Giugno 2021. Ormai la scienza non ha limiti. Sono all’ordine del giorno le straordinarie scoperte fatte dai migliori esperti e ricercatori di tutto il mondo. L’ultima novità riguarda gli esopianeti. Gli esopianeti sono pianeti che si trovano al di fuori del sistema solare e gli scienziati astrologici hanno appena scoperto l’esistenza di un nuovo esopianeta che si trova a 90 anni luce dalla Terra. La cosa sorprendente è che hanno un’atmosfera molto particolare che potrebbe avere nuvole d’acqua. È stato chiamato TOI-1231 b, completa il giro attorno alla sua stella ogni 24 giorni terrestri. La sua stella è una nana rossa o nana M nota come  NLTT 24399. La nano M è più piccola e meno luminosa delle stelle del sistema solare. “Anche se TOI 1231 b è otto volte più vicino alla sua stella che la Terra al Sole, la sua temperatura è simile a quella della Terra perché la sua stella ospite è più fredda e meno luminosa”, ha detto la coautrice dello studio Diana Dragomir, assistente professore nel dipartimento di fisica e astronomia dell’Università del New Mexico, in una conferenza stampa. “Tuttavia, il pianeta stesso è in realtà più grande della Terra e un po’ più piccolo di Nettuno, potremmo chiamarlo sub-Nettuno”. I ricercatori sono stati in grado di determinare il raggio e la massa del pianeta, il che li ha aiutati a dedurre che ha una bassa densità. Il livello di densità suggerisce che potrebbe essere un pianeta gassoso piuttosto che roccioso come la Terra. “TOI-1231 b è abbastanza simile per dimensioni e densità a Nettuno, quindi pensiamo che abbia un’atmosfera gassosa altrettanto grande”, ha detto l’autrice principale dello studio Jennifer Burt, borsista post-dottorato presso il Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, in California. “TOI1231b potrebbe avere una grande atmosfera di idrogeno o idrogeno-elio, o un’atmosfera di vapore acqueo più densa”, ha detto Dragomir. “Ognuno di questi porterebbe a un’origine diversa, consentendo agli astronomi di capire se e come i pianeti si formano in modo diverso attorno alle nane rosse rispetto ai pianeti attorno al nostro Sole, ad esempio”. I ricercatori ritengono che TOI-1231 b abbia una temperatura media di 60 gradi Celsius, che lo rende uno dei piccoli esopianeti più freddi disponibili per futuri studi sulla sua atmosfera. “Rispetto alla maggior parte dei pianeti in transito rilevati finora, che spesso hanno temperature torride di molte centinaia o migliaia di gradi, TOI-1231 b è decisamente gelido”, ha detto l’autrice Burt. “TOI-1231 b è uno dei pochi altri pianeti che conosciamo con dimensioni e intervallo di temperatura simili, quindi le osservazioni future di questo nuovo pianeta ci consentiranno di determinare quanto sia comune (o raro) la formazione di nuvole d’acqua intorno a questi mondi temperati”, ha spiegato Burt. Le caratteristiche di TOI-1231 b lo rendono il candidato perfetto per le osservazioni del telescopio spaziale Hubble, o del telescopio spaziale James Webb, il cui lancio è previsto per ottobre. Webb avrà la capacità di scrutare le atmosfere degli esopianeti e aiutare a determinarne la composizione. Al contrario, Hubble è programmato per osservare l’esopianeta alla fine di questo mese. Burt, Dragomir e i loro colleghi hanno scoperto il pianeta utilizzando i dati del Transiting Exoplanet Survey Satellite, o TESS, della NASA. Il satellite a caccia di pianeti, lanciato nel 2018, osserva diverse aree del cielo per 28 giorni alla volta. Finora, TESS ha aiutato gli scienziati a trovare esopianeti grandi e piccoli in orbita attorno a stelle come il nostro sole e le stelle nane rosse più piccole. Queste minuscole stelle sono comuni nella galassia della Via Lattea. Gli astronomi utilizzano queste missioni per scoprire nuovi esopianeti. Uno dei modi più comuni è “il transito” ovvero quando un pianeta si incrocia davanti alla sua stella durante l’orbita e blocca una certa quantità di luce. Dato che le stelle nane M sono più piccole, la quantità di luce bloccata da un pianeta che le orbita è maggiore, il che rende il transito più rilevabile. Gli scienziati cercano almeno due transiti prima di determinare se hanno trovato un candidato esopianeta. Le osservazioni di follow-up sono state effettuate utilizzando lo spettrografo Planet Finder sul telescopio Magellan Clay presso l’Osservatorio di Las Campanas in Cile. “Uno dei risultati più intriganti degli ultimi due decenni di scienza degli esopianeti è che, finora, nessuno dei nuovi sistemi planetari che abbiamo scoperto assomiglia al nostro sistema solare”, ha detto Burt. “Questo nuovo pianeta che abbiamo scoperto è ancora strano, ma è un passo più vicino all’essere un po’ come i nostri pianeti vicini”. Lo studio della nuova scoperta uscirà nel prossimo numero del giornale The Astronomical.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia

Buco nero, "ecco che cosa ha ingoiato": senza precedenti nello spazio, perché si apre una nuova era. Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. Le ricerche sui misteri dello spazio sono sempre più avanzate grazie agli strumenti tecnologici nuovi di cui si dispone. Il rilevatore europeo Virgo, che vede la partecipazione anche dell'Italia tramite l'istituto nazionale di fisica nucleare, ha registrato i primi due segnali di onde gravitazionali generate dai buchi neri che "ingoiano" piccole stelle di neutroni. Si tratta di quel che resta delle stelle che, collassando, diventano così piccole e dense che un cucchiaio della loro materia può arrivare a pesare addirittura come una montagna. Si è aperta quindi una fase nuova di ricerca per gli astrofisici e gli astronomi del mondo intero grazie ai due segnali registrati: le onde gravitazionali erano state scoperte nel 2016, ma adesso si riescono a ricercare aspetti finora inediti dell'universo grazie all'utilizzo di strumenti che leggono segnali di tipo diverso. I due segnali si chiamano GW200105 e GW200115, codici che identificano anno, mese e giorno dell'osservazione dell'onda gravitazionale. Il primo è quindi stato rilevato il 5 gennaio 2020 e il secondo il 15 gennaio dello stesso anno. In entrambi i casi, la forma del segnale registrato ha reso possibile la sua attribuzione a un evento di coalescenza che ha coinvolto un buco nero e una stella di neutroni, i quali si sono fusi in singolo corpo celeste estremamente compatto.

Sophia Mitrokostas per it.businessinsider.com il 13 giugno 2021. Anche se non sappiamo molto del nostro universo in espansione e potenzialmente infinito, quello che abbiamo scoperto fino ad ora è un misto di imponente, spaventoso e assolutamente strano. Ecco alcune curiosità spaziali che non sapevi esistessero.

C’è una gigantesca nube spaziale che potrebbe odorare di rum.  La nube spaziale Sagittarius B2 è una vasta nuvola di polvere e gas al centro della nostra galassia. È composta soprattutto di formiato di metile, la molecola responsabile dell’aroma unico del rum e del sapore fruttato dei lamponi. Quindi, se fluttuassi attraverso Sagittarius B2, potresti essere circondato dall’odore di rum e dal sapore di lampone.

Gli scienziati hanno scoperto un pianeta che potrebbe essere composto da diamante solido. Nel 2017, un gruppo di ricerca internazionale composto da astronomi ha scoperto quello che potrebbe essere un pianeta fatto di diamante solido. Le pulsar sono piccole stelle di neutroni morti con un diametro di soli 20 chilometri che compiono centinaia di rotazioni al secondo mentre emettono fasci di radiazioni. Il pianeta in questione è in coppia con la pulsar PSR J1719-1438 e gli scienziati pensano che sia fatto interamente di carbonio così denso che potrebbe essere cristallino, cosicché gran parte di quel mondo sarebbe diamante. Secondo Reuters, incredibilmente il pianeta “compie una rivoluzione attorno alla propria stella ogni due ore e 10 minuti, ha una massa leggermente maggiore di Giove ma è 20 volte più denso”.

C’è anche un pianeta che è composto interamente di ghiaccio – ma è in fiamme. Gliese 436b è una specie di paradosso. Il remoto esopianeta è composto solo di ghiaccio. Ma, stranamente, questo ghiaccio sembra essere in fiamme. La superficie di Gliese 436b ha una temperatura rovente di 439 gradi Celsius, ma il paesaggio ghiacciato del pianeta resta gelido a causa dell’immensa forza gravitazionale esercitata dal nucleo del pianeta. Questa forza mantiene il ghiaccio molto più denso rispetto al ghiaccio a cui siamo abituati sulla Terra e si pensa che addirittura comprima ogni vapore acqueo che potrebbe evaporare.

La pulsar Vedova Nera consuma il proprio compagno. Secondo l’American Astronomical Society, la pulsar Vedova Nera — o Pulsar J1311-3430, com’è conosciuta nei circoli astronomici – è un tipo di stella di neutroni che bombarda lentamente di radiazioni la sua stella compagna. Maggiore è il materiale che la pulsar porta via da quella stella, più lentamente girerà. L’energia persa dalla pulsar mentre evapora può colpire la sua compagna, provocandone l’evaporazione.

Gli astronomi hanno scoperto un pianeta vagabondo alla deriva da solo per l’universo. La scoperta del “pianeta vagabondo” CFBDSIR2149 nel 2012 ha provocato fermento nella comunità scientifica. Questo perché i pianeti a cui siamo abituati orbitano attorno a una stella, mentre sembra che lui stia vagando per lo spazio senza una stella. Il pianeta ha una massa che è circa sette volte quella di Giove. Gli astronomi ritengono probabile l’esistenza di miliardi di pianeti vagabondi – in effetti, ritengono probabile che superino in numero i pianeti che girano attorno a stelle.

C’è un pianeta dove piove vetro affilato, di traverso, a causa di venti a 8.700 km/h. La bella tonalità blu dell’esopianeta HD 189733 b nasconde la natura brutale del suo ambiente. Secondo la Nasa, se passeggiassi sulla superficie di questo mondo, saresti soggetto a venti fino a 8.700 km/h, sette volte circa la velocità del suono. Peggio ancora, si ritiene che la pioggia su questo pianeta sia composta di schegge di vetro e che spazzi la superficie di traverso.

Gli scienziati hanno scoperto un gruppo di pianeti abitabili. Gli astronomi hanno identificato oltre 40 pianeti che potrebbero essere simili alla Terra, che hanno cioè le condizioni potenzialmente essere favorevoli alla vita aliena. Una delle più recenti e più promettenti scoperte è arrivata nel 2017, quando lo European Southern Observatory ha identificato Ross-128b, un esopianeta lontano 11 anni luce. Si ritiene che questo pianeta abbia un paesaggio roccioso e temperature massime e minime tali da permettere l’esistenza di acqua liquida sulla sua superficie. La durata di un anno su Ross-128b è di circa 10 giorni soltanto.

Le stelle cadenti esistono veramente. Probabilmente sai che le “stelle cadenti” che vediamo strisciare il nostro cielo notturno in realtà sono meteore che bruciano nell’atmosfera terrestre. Si è però scoperto che alcune stelle sfrecciano veramente nello spazio. Queste stelle iperveloci sono state scoperte dagli astronomi nel 2005. Si pensa che si formino quando un sistema stallare binario – un sistema con due stelle – viene distrutto da un immenso buco nero. Una delle stelle nel sistema viene solitamente consumata dal buco nero, mentre l’altra viene lanciata nello spazio a una velocità di milioni di chilometri all’ora.

Ci sono cento specchi sulla superficie della luna. La maggior parte delle persone non sa che gli astronauti Buzz Aldrin e Neil Armstrong si sono lasciati dietro un curioso souvenir sulla superficie lunare dopo la loro missione Apollo del 1969. Gli esploratori spaziali hanno depositato sulla superficie lunare un pannello da 60 centimetri coperto da 100 specchi. Gli astronomi oggi usano questo pannello per calcolare la distanza tra la luna e la Terra riflettendo impulsi laser negli specchi. È l’unico esperimento della missione Apollo ancora funzionante.

La maggiore riserva d’acqua nell’universo sta fluttuando attorno a un buco nero. L’acqua è essenziale alla vita umana, e non c’è nessun posto nell’universo che ne ha di più del quasar APM 08279+5255. I quasar, per definizione, sono oggetti molto compatti con una luminosità incredibile che assomigliano a una stella. Si crede che siano alimentati da buchi neri supermassicci. Questo quasar, in particolare, è composto da un buco nero circondato da una nube di vapore che contiene 140mila miliardi di volte la quantità di acqua presente sulla Terra. È il più grande serbatoio di acqua mai scoperto. Grazie al modo in cui la luce attraversa lo spazio, gli scienziati teorizzano che questa nube acquosa si sia formata soltanto 1,6 milioni di anni dopo l’universo stesso.

Da "corriere.it" il 12 marzo 2021. Venticinque secondi di video in cui il rover Perseverance della Nasa racconta il suo atterraggio su Marte. Le immagini sono state condivise dalla Nasa sui social con un tweet in cui fa parlare direttamente il rover. Nella clip registrata durante l’atterraggio, si nota la scelta del punto preciso di atterraggio ed è ben visibile il terreno del pianeta Marte. «Stai guardando le immagini reali registrate per fare il mio atterraggio più preciso. È così che mi sono orientato rapidamente e ho scelto il terreno sicuro negli ultimi tre minuti prima dell’atterraggio» racconta Perseverance agli spettatori.

Da "Ansa" il 15 maggio 2021. La sonda cinese Tianwen-1 ha toccato il suolo di Marte ed è diventata così il terzo Paese a portare un veicolo sulla superficie del pianeta rosso. Il rover Zhurong, rilasciato dalla sonda Tianwen-1, alle 1,18 italiane si è posato nella grande pianura chiamata Utopia Planitia, nell'emisfero settentrionale del pianeta, la stessa area nella quale nel 1976 si era posato il lander della sonda Viking 2 della Nasa. Il presidente Xi Jinping si è complimentato per la riuscita dell'atterraggio della prima sonda cinese su Marte e in un messaggio, ha riferito il Quotidiano del Popolo, il presidente "ha espresso le sue calorose congratulazioni e i sinceri saluti a tutti coloro che hanno partecipato alla missione di esplorazione su Marte, Tianwen-1". Il lancio della sonda Tianwen-1, avvenuto il 23 luglio 2020, ha segnato una pietra miliare nel programma spaziale della Cina, visto come un segno della sua crescente statura globale e di potenza tecnologica. La sonda ha raggiunto la posizione ideale per rilasciare il rover: la vasta pianura lavica dell'emisfero settentrionale del pianeta chiamata Utopia Planitia. Per la prima volta quindi anche un veicolo cinese si prepara ad affrontare i "sette minuti di terrore", il tempo necessario perché avvenga la discesa sulla superficie del pianeta, sempre piena di incognite. Il rover Zhurong è stato chiamato come l'antico Dio del fuoco e ricorda il nome di Marte, che in cinese è chiamato Stella del fuoco. Se la missione avrà successo, il rover a sei ruote, alimentato a energia solare e pesante circa 240 chilogrammi, raccoglierà e analizzerà campioni di roccia dalla superficie del pianeta, dove dovrebbe lavorare per circa tre mesi.

·        Gli Ufo.

Da ilgiorno.it il 30 novembre 2021. Le segnalazioni, da prendere naturalmente con le pinze, arrivano dal Centro Ufologico Mediterraneo, associazione regolarmente registrata che si occupa di avvistamento di oggetti non identificati nel cielo con tanto di call center per raccogliere e verificare gli x-files. Da tale screening su foto e video girati sarebbero risultati credibili tre avvistamenti nei cieli del centro sud Italia avvenuti negli ultimi mesi: in Campania, in Sicilia e nel Lazio. In particolar modo, nei primi due casi, colpisce il fatto che i presunti ufo siano stati visti volare sopra il Vesuvio e l'Etna. Ma andiamo con ordine. A San Sebastiano al Vesuvio, in provincia di Napoli, il 16 luglio 2021, alle ore 18,20 circa, in pieno giorno, in un cielo parzialmente nuvoloso, uno strano oggetto volante, bianco, di natura ignota, è stato filmato, mentre si muoveva e stazionava alternativamente. L'ufo, che in alcuni frangenti sembrava triangolare, si è poi eclissato dietro ad alcune nuvole. Così fa sapere Angelo Carannante, presidente del centro ufologico Mediterraneo. A Nettuno, nel Lazio, lo scorso 8 ottobre, alle ore 19,30 circa, un oggetto situato, prospetticamente, poco sopra al cornicione di un edificio, si è poi spostato lateralmente, suscitando la curiosità di alcuni testimoni, che lo hanno immediatamente filmato. I presenti hanno dichiarato che, l'oggetto, visto dal vivo era piuttosto diverso da come lo si vede nel filmato girato nell’occasione, in quanto, con i propri occhi, lo vedevano di forma triangolare. Non è la prima volta che, nella casistica ufologica, un oggetto volante non identificato, visto poi in video o foto, appare diverso rispetto all’osservazione. Infine, importante è anche il caso di Santa Maria di Licodia (Catania), dove il 3 agosto 2021, un giovane, sul terrazzo di casa, era intento a preparare il proprio telescopio per delle osservazioni dei corpi celesti, quando si è accorto di un oggetto a forma di diamante che, nel buio imperante, è passato abbastanza veloce davanti ai suoi occhi. Il testimone è riuscito a filmarlo, sia pure per brevi momenti, ma quanto basta per constatare la sua insolita sagoma. 

Da "ilmattino.it" l'11 ottobre 2021. Un ufo triangolare, è stato osservato da due paesi della Campania distanti una sessantina di chilometri. Si tratta di Cesa, in provincia di Caserta e Nocera Superiore in provincia di Salerno e probabilmente a Mondragone, qualche ora prima. Lo fa sapere il Centro Ufologioco Mediterraneo diretto da Angelo Carannante. L’uap in questione sarebbe transitato nei cieli campani il 4 ottobre 2021. Alle 19:40, a Cesa, due persone, padre e figlio, hanno puntato il loro telescopio verso l’emisfero nord, per osservare la costellazione di Andromeda situata, prospetticamente, non lontano da Pegaso. Si ritrovano un oggetto bianco e molto luminoso, proprio sulla loro verticale, riuscendo ad inquadrarlo con il telescopio. A questo punto restano sbalorditi: si trattava di uno splendido ufo triangolare, spesso avvistato in altre parti della terra. Ha percorso il cielo, in un baleno, circa un minuto, dileguandosi infine all’orizzonte. Scena non dissimile, si è ripetuta dopo soli due minuti, a ben 45 chilometri di distanza, in linea d’aria, in provincia di Salerno, precisamente a Nocera Superiore. Quasi in fotocopia, una famiglia, composta da madre, padre e figlioletta, hanno visto un oggetto bianco sfrecciare in direzione nord sud est, esattamente la stessa direzione dell’avvistamento di Cesa, che appariva “spigoloso”, come dimostrato dal video che la famiglia è riuscita a girare. Quindi, confermando, di fatto, che si trattava dello stesso oggetto di Cesa, anche perchè tutto coincide: colore, quota, tempi dell'avvistamento, direzione dell'uap, stesso descrizione. Nell'audio del filmato, si sentono i commenti meravigliati dei tre testimoni a conferma dell’autenticità dell’avvistamento. Infine, intorno alle tre di notte, qualche ora prima, un giornalista di Mondragone, ha filmato, durante un temporale, uno sconcertante ufo pulsante che ha evoluito per diversi minuti davanti all’uomo. Era molto luminoso e molto grande a quota piuttosto bassa. Che fosse lo stesso ufo di Cesa e Nocera Superiore? Il team del Cufom, sotto la guida del suo presidente Angelo Carannante, sta conducendo serrate indagini ed, un ricco articolo sui fatti ufologici, è postato sul sito ufficiale centroufologicomediterraneo.it, mentre su cufomchannel, canale youtube del Cufom è stato postato un video che racchiude tutti e tre gli avvistamenti. Indubbiamente un grande evento ufologico, ha sottolineato il massimo esponente dei ricercatori mediterranei. La situazione è in piena evoluzione e non è escluso che, con la pubblicazione dei tre avvistamenti, giungano altre segnalazioni. Eventuali ulteriori novità dei tre avvistamenti ufo, saranno rese pubbliche tempestivamente.

Mistero. Esiste anche una "Roswell sovietica"? Da Focus. Nel 1986 le cronache riferirono di una "Roswell sovietica": un oggetto non identificato impattò in circostanze mai ben chiarite sul suolo dell'allora Unione Sovietica.Nell'inverno 1986, sulla Cima 611 dei monti Izvetoskovaya (nel Dal'negorsk, regione dell'estremo oriente russo), si verificò, a detta di molti, lo schianto di un oggetto volante non identificato.

Le cronache dell'epoca raccontano che alle 19:55 del 29 gennaio un luminoso disco rossastro fu visto cadere alle spalle del complesso montuoso, ma la spedizione organizzata il giorno dopo trovò l'area bonificata, rinvenendo solo un cratere di tre metri di diametro e una scia di terra bruciata contenente materiali non reperibili nella zona (tra cui grafite e oro). 

COME A ROSWELL? I misteri legati al cosiddetto "incidente di Dal'negorsk" hanno tratti in comune con quanto avvenuto a Roswell (New Mexico) dove, leggenda narra, nel 1947 precipitò un disco volante poi custodito nella famosa Area 51, nello stato americano del Nevada (a proposito, sai proprio tutto su quel che si dice sull'Area 51?). La spiegazione che accomuna i due eventi sarebbe che, in entrambi i casi, si sia trattato dello schianto di un veicolo militare o di un meteorite.

Mistero. Alieni: e se fossero già stati qui? Da Focus. Un astronomo riflette sulla possibilità che forme di vita intelligente abbiano lasciato, nel Sistema Solare, tracce che non abbiamo ancora cercato. È possibile che alieni intelligenti abbiano già visitato (o abitato) il Sistema Solare e lasciato testimonianze che dobbiamo ancora trovare? Jason Wright, docente di astronomia alla Penn State University, ha pubblicato su arXiv un documento nel quale fa il punto sulla ricerca di altre forme di vita nello Spazio e pone una questione interessante e molto cara ai "cacciatori di misteri" almeno dalla metà del secolo scorso: abbiamo per davvero cercato con sufficiente attenzione testimonianze di vita aliena nel nostro stesso Sistema Solare? I nostri strumenti scandagliano l'Universo alla ricerca di segnali, radio o luminosi, di origine intelligente (senza successo, finora), ma, afferma Wright, poco o nulla di analogo viene fatto con i mondi del Sistema Solare. La "faccia di Marte" è una nota struttura geologica che, in particolari condizioni di luce, assume un aspetto familiare: è un classico esempio di pareidolia (ecco tutto quello che abbiamo creduto di vedere su Marte). In sintesi, nel suo lavoro Wright afferma che non possiamo escludere che forme di vita intelligente siano vissute per periodi più o meno lunghi su qualche "nostro" satellite o pianeta, Terra compresa. Lasciando poi, volutamente o involontariamente, le prove del loro sviluppo tecnologico, ossia quello che si definisce firma tecnologica (in inglese: technosignatures).

PERCHÉ SOLO MICROBI? Wright non afferma quindi che altre forme di vita intelligente siano già state presenti nel Sistema Solare, ma che la seppur remota probabilità che sia accaduto non deve essere sottovalutata: è possibile che altre intelligenze abbiano abitato il Sistema Solare e che, per motivi ignoti, si siano estinte o se ne siano andate. Ai giorni nostri, sottolinea, la ricerca punta a rilevare tracce di vita extraterrestre microbica, presente o passata, mentre sembra avere escluso possibilità di vita più evoluta. Il Corpo Forestale dello Stato e lo strano caso delle fate dei boschi. Nella foto: le "Fate di Cottingley", un famoso scherzo fotografico realizzato nel 1920 da due adolescenti inglesi e in cui caddero diversi esperti, compreso Sir Arthur Conan Doyle.

CERCARE OVUNQUE. Sulla Terra, trovare eventuali tracce di alieni estinti è praticamente fuori discussione: a causa dell'evoluzione geologica del nostro pianeta, per esempio il movimento delle placche, qualsiasi firma tecnologica vecchia centinaia di milioni anni, se non qualche miliardo, è certamente andata distrutta. Altri corpi del Sistema Solare, invece, potrebbero avere conservato per periodi di tempo molto lunghi eventuali strutture aliene, quando non soggette all'azione geologica e o dell'atmosfera. Non è la prima volta che ricercatori e scienziati propongono ipotesi del genere: negli anni '90 era stato proposto di scandagliare all'infrarosso il Sistema Solare, alla ricerca di tracce di attività termica di origine artificiale, ma le poche ricerche fatte non portarono ad alcun risultato.

 Dagotraduzione dal Sun il 10 dicembre 2021. Secondo un rapporto della Nasa, che si definisce «non chiusa» alla possibilità che esista vita extraterrestre, gli alieni potrebbero avere già visitato la Terra in passato. Anche se il rapporto afferma di non aver ancora trovato «alcuna prova credibile», spiega che le missioni scientifiche stanno «lavorando insieme con l’obiettivo di trovare segni inconfondibili di vita oltre la Terra». Questi dettagli sono stati rilasciati il 30 novembre a seguito di una richiesta formale. Nel documento diffuso si dice: «Quando apprendiamo di fenomeni aerei non identificati, (UAP, o più comunemente noti come oggetti volanti non identificati o UFO), si apre la porta a nuove domande scientifiche da esplorare». Le rivelazioni arrivano dopo che il governo ha pubblicato a giugno un rapporto su una serie di misteriosi oggetti volanti che sono stati osservati negli spazi aerei militari negli ultimi decenni. Il rapporto, diffuso sul sito dell'Ufficio del Direttore dell'Intelligence nazionale, ha esaminato 144 questi incontri con quelli che il governo ha definito «fenomeni aerei non identificati». Gli investigatori inoltre non hanno trovato prove di vita extraterrestre o di importanti progressi tecnologici da parte di un nemico straniero, come la Cina o la Russia.

«Sui 144 rapporti di cui ci occupiamo qui, non abbiamo chiare indicazioni che ci sia una spiegazione non terrestre, ma andremo ovunque ci porteranno i dati"» ha detto un alto funzionario degli Stati Uniti.

«Non abbiamo indicazioni chiare che nessuno di questi fenomeni aerei non identificati facciano parte di un programma di raccolta [di intelligence] straniero e non abbiamo dati chiari che siano indicativi di un importante progresso tecnologico da parte di un potenziale avversario».

«Continuiamo a dedicare molto impegno ed energia al monitoraggio di questi sviluppi e li osserviamo con molta attenzione. Niente in questo set di dati ci indica chiaramente quella direzione», ha continuato il funzionario. 

Un secondo alto funzionario ha affermato che 21 dei rapporti mostrano UAP «che sembrano avere una sorta di propulsione avanzata o tecnologia avanzata».

Ognuno sembra anche privo di qualsiasi mezzo di propulsione o accelerazione e mostra velocità di cui nessuno è capace. L'UFO del Pentagono ha anche rivelato un  misterioso aereo  «raggruppato intorno alle basi militari e ai campi di prova degli Stati Uniti». 

Il rapporto segna un punto di svolta per il governo degli Stati Uniti dopo che i militari hanno trascorso decenni a deviare, ridimensionare e screditare le osservazioni di oggetti volanti non identificati e "dischi volanti" risalenti agli anni '40.

I legislatori hanno chiesto che i risultati vengano rilasciati dopo che circa 120 incidenti negli ultimi 20 anni sono stati segnalati dall'esercito americano. I piloti della US Navy, ad esempio, hanno registrato oggetti che viaggiavano a velocità apparentemente ipersoniche, ruotando e scomparendo misteriosamente. 

Nel dicembre di quest'anno al Pentagono è stato dato il via libera per creare un vero ufficio X-Files dedicato alle indagini sugli UFO, sulle loro origini e sui tentativi di "catturare o sfruttare" uno dei misteriosi velivoli.

Molti rapporti affermano che gli UFO sono stati visti emergere o immergersi nell'oceano, scatenando speculazioni sul legame tra gli oggetti e l'oceano.

Dagotraduzione dal Guardian il 13 settembre 2021. A giugno, il governo degli Stati Uniti ha pubblicato il tanto atteso rapporto sugli Ufo. Anche se il documento non ha confermato, né smentito, l’esistenza di alieni, ha rivelato che non solo nei nostri cieli appaiono oggetti che il Pentagono non riesce a spiegare, ma che alcuni di questi sollevano «un problema di sicurezza e una sfida per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti». Il Pentagono ha anche rivelato di aver preso gli Ufo così seriamente che nel 2007 ha istituito l’Advanced Aerospace Threat Identification Program (AATIP), che da allora ha raccolto dati su fenomeni aerei inspiegabili. Il rapporto del Pentagono ha offerto comunque cinque possibili spiegazioni banali per glli Ufo, e una che le comprendeva tutte. È quest’ultima ad aver catturato l’attenzione degli astronomi e dei teorici della cospirazione. Se l'esercito degli Stati Uniti sta indagando silenziosamente e seriamente sugli UFO (o, come vorrebbe il Pentagono, sugli UAP) dal 2007, e se il rapporto ufficiale del Pentagono non può escludere l'esistenza di extraterrestri, non sarà ora di rivedere le affermazioni sugli avvistamenti degli alieni? L’entusiasmo per gli Ufo ha iniziato a spopolare da quando un pallone aeronautico americano si è schiantato vicino Roswell, nel 1947. I teorici della cospirazione lo hanno scambiato per un Ufo, e il governo degli Stati Uniti non è riuscito a ridimensionare l’affermazione. Risultato: gli alieni hanno catturato l’immaginazione collettiva. E così fino al 1961, quando Barney e Betty Hill raccontarono la prima storia di rapimenti alieni. Da allora le segnalazioni e i racconti si sono seguiti per anni. Terry Lovelace, assistente procuratore generale in pensione nel Vermont, negli Stati Uniti, e autore di Incident at Devil's Den, ha tenuto per sé il suo rapimento per 40 anni per paura di perdere il lavoro. Ha avuto un incontro ravvicinato nel 1977 mentre prestava servizio nell'aeronautica americana. Lovelace, che ora ha 67 anni, era in campeggio nel parco statale di Devil's Den nel nord dell'Arkansas con un amico e collega di nome Toby quando le cose si sono fatte strane. Erano seduti intorno a un fuoco, cercando di parlare nonostante il cantare delle cicale e il gracchiare delle rane, quando tutto è diventato silenzioso. «Sembra un cliché - da film - ma è esattamente quello che è successo a noi», dice. Tre luci brillanti sono apparse all'orizzonte e si sono mosse nella loro direzione. Una volta arrivate sopra di loro, hanno visto che provenivano da un prisma triangolare nero largo quanto due isolati. Sono stati colpiti da un raggio laser blu, che li ha resi sonnolenti. Quando si è sveliato ha visto l’amico Toby che sbirciava fuori dalla tenda. Il triangolo era sospeso sopra quella che sembrava essere una dozzina di bambini in piedi in un prato sotto di loro. «Cosa ci fanno questi ragazzi qui nel bel mezzo della notte?». «Non sono bambini piccoli. Non ti ricordi che ci hanno preso e ci hanno ferito?» ha risposto Toby. E a quel punto Lovelace ha iniziato a ricordare di aver incontrato creature aliene. Per alcuni, il fatto che il Pentagono abbia finalmente ammesso di non poter spiegare il comportamento degli oggetti potrebbe essere stata una sorpresa ma, per Alan Godfrey, 73 anni, è solo la dimostrazione di quello che già sa. In una ventosa e umida sera del novembre 1980, Godfrey era alle calcagna di una mandria di mucche fuggite nel complesso residenziale di Todmorden, nel West Yorkshire. Invece di trovare le mucche, si è imbattuto in un gigantesco diamante levitante che avrebbe cambiato il corso della sua vita. L'incontro ravvicinato di Godfrey con questo UFO è diventato virale in tutto il mondo e ha trasformato Todmorden nel Roswell britannico. Godfrey, un uomo dello Yorkshire senza fronzoli nato e cresciuto a Oldham, è da tempo in pensione ma ricorda ancora gli eventi di quella notte in cui si è trovato faccia a faccia con l'oggetto peculiare: un aereo a forma di diamante che si librava a 5 piedi da terra mentre girava sul suo asse. Ha appena avuto il tempo di disegnare l'UFO sul suo taccuino prima di essere accecato. Nel momento successivo di consapevolezza, era seduto nella sua auto di pattuglia. L'UFO era sparito. «Sono sceso dall'auto, ho guardato la superficie stradale e sembrava un vortice», dice. Foglie morte, ramoscelli e altri detriti erano in una spirale a tema autunnale. Godfrey è stato ridicolizzato per anni - molti che affermano di aver avuto incontri con gli UFO sono riluttanti a registrarsi per paura dello stesso trattamento - ma le cose stanno cambiando. Funzionari governativi di alto livello come Christopher Mellon, ex segretario alla difesa degli Stati Uniti nell'intelligence, e Luis Elizondo, ex direttore dell'AATIP, insistono sul fatto che ci sono aerei nei nostri cieli che non obbediscono alle note leggi della fisica. Anche Barack Obama, parlando quest'anno alla CBS, ha detto: «Ci sono filmati e registrazioni di oggetti nei cieli, che non sappiamo esattamente cosa siano, non possiamo spiegare come si sono mossi, la loro traiettoria. Non avevano uno schema facilmente spiegabile. E quindi, sai, penso che le persone prendano ancora sul serio il tentativo di indagare e capire di cosa si tratta. Ma non ho niente da riferirvi oggi». Quando si tratta di storie di rapimenti, gli scettici dicono che questi incontri sono bufale o resoconti di sogni vividi o allucinazioni. Christopher French, professore emerito di psicologia alla Goldsmiths, Università di Londra, ha trascorso anni a studiare il paranormale e sostiene che la paralisi del sonno è una spiegazione migliore per molte di queste storie. «In alcuni casi, ottieni sintomi associati che includono un senso di presenza; una sensazione molto forte che ci sia qualcosa nella stanza con te», dice French. Aggiunge che i malati potrebbero avere allucinazioni e «vedere strane luci muoversi nella stanza o strane figure o persone ombra». Questo non si adatta alla storia di Godfrey: era alla guida e in servizio in quel momento. «Penso che nel caso di Alan Godfrey, il problema fosse l’insonnia; era in servizio da molto tempo. La spiegazione più probabile è una sorta di esperienza allucinatoria dovuta alla stanchezza», afferma French. E la storia che ha raccontato sotto ipnosi? «La regressione ipnotica è uno dei modi migliori per generare falsi ricordi. Se fai la regressione ipnotica aspettandoti di recuperare i ricordi del rapimento alieno, ci sono ottime possibilità che lo otterrai». Ma Nick Pope, un ex investigatore UFO per il Ministero della Difesa, non è convinto e pensa che Godfrey sia genuino.

«Aveva molto da perdere potenzialmente uscendo con questa storia».

Un'allucinazione non spiega quello che ha visto?

«Ho capito che le persone hanno allucinazioni, ma tendono ad essere il risultato di una malattia mentale o di una sorta di sostanza allucinogena, e questo ragazzo era di turno ed era, a detta di tutti, razionale. E quindi quelle spiegazioni non sembrano essere applicabili – sono perplesso quando si tratta di quel caso particolare. Chiediti: quante volte sei stato stanco e sei arrivato alla fine di una lunga giornata? Siamo stati tutti in quella situazione e non costruiamo improvvisamente narrazioni bizzarre su astronavi e alieni».

È ora di iniziare a prendere queste storie più seriamente?

«Non sto dicendo che credo sia letteralmente vero che queste sono astronavi aliene», dice Pope. «Ma almeno, queste persone dovrebbero essere ascoltate. Per tutti quelli che ti dicono che queste persone cercano attenzioni in cerca di fama e fortuna, io risponderei: “Quale fama? Che fortuna?' Chi al di fuori della comunità UFO ha sentito parlare di Alan Godfrey o Terry Lovelace?”» 

Pope pensa che gli ET siano tra noi?

«Non lo so. Sono certo che sono là fuori, ma se sono quaggiù o no? Non lo so. Penso che sia molto più probabile che abbiamo a che fare con sonde senza equipaggio». Se non si tratta di allucinazioni, problemi tecnici o errori, molti diranno che le operazioni segrete, condotte da Stati Uniti, Cina, Russia o altri eserciti, sono una spiegazione più plausibile degli alieni. «I militari, il governo e la comunità dell'intelligence hanno un'idea abbastanza precisa di dove si trovi il tetto in termini di tecnologia. Quindi, quando questi testimoni esperti militari descrivono i tipi di velocità, accelerazioni, manovre che vengono riportate con questo tipo di incidenti, mi siedo e prendo nota».

Qualunque cosa si pensi sulla veridicità di queste storie, molte delle persone che le raccontano credono che siano vere, e alcune soffrono di gravi malattie mentali in seguito. Chris French afferma che i livelli di eccitazione psicologica nelle persone che convivono con il disturbo da stress post-traumatico vanno “alle stelle” quando viene chiesto loro di raccontare nuovamente le loro storie. La notte di Lovelace a Devil's Den ha cambiato la sua vita e quella del suo amico Toby. L'aeronautica americana ha saputo del loro calvario e, come da protocollo militare, li ha separati e riassegnati. Lovelace ha ignorato i suoi ordini e ha visitato Toby per salutarlo. «Toby stava cadendo a pezzi», dice Lovelace. I due si sono abbracciati. Toby ha detto: «È successo, vero?». «Sì, fratello mio, è successo davvero. Non stai perdendo la testa», gli ha risposto Lovelace. Lovelace ha sofferto enormemente da quella notte. «Ho avuto 40 anni di incubi. Ho ancora la fobia di attraversare terreni aperti. Dormo ancora con la luce accesa e una pistola accanto al letto». Ma si sente giustificato dai riconoscimenti fatti dal governo degli Stati Uniti, dal personale militare e da Obama. «Ho una lunga lista di persone a cui invierò un'e-mail e dirò: “Te l'avevo detto”». Per Godfrey, sono 40 anni in ritardo. È irremovibile su ciò che ha visto quella mattina a Todmorden. «Ne ho avuti di tutti i tipi: sei caduto in una sorta di trance mentre guidavi – tutta quella merda. No, era reale. L’Ufo ha lasciato detriti sulla strada: i miei fari si riflettevano su di loro, così come le luci blu. Questo è stato un vero incidente. Non avevo bisogno che il Pentagono mi dicesse che ci sono cose là fuori. So che quello che ho visto quella notte era reale, dadi e bulloni. Se fossi sceso e ci avessi tirato un mattone, avrebbe fatto 'Clang!' Non cambia quello che mi è successo e come sono stata trattata allora».

Ufo, la domanda che nessuno si pone: chi vuole farci credere agli alieni, e perché? Il libro di Gianluca Marletta spiega molto. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 09 settembre 2021 

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Il binomio Ufo – Alieni circola ormai ovunque, al cinema, nelle pubblicità, sui giornali, sulle scatole di cereali, sponsorizzato dall’Onu pro-gender-aborto-eutanasia e da personaggi venerati dal mainstream come Obama, Nobel per la Pace che, lo ricordiamo, di oggetti volanti – ben identificati - ne ha sganciati 26.171 sulle teste degli afghani. Ci sarà dunque qualcosa sotto? Pare proprio di sì, come spiega l’interessantissimo “Ufo e alieni” (ed. Irfan) dello storico Gianluca Marletta. Ne parleremo con l’autore oggi, alle 18.00, ospiti di “Ritorno a Itaca” di Aurelio Porfiri. Un titolo, quello del libro, che farebbe pensare all’ennesima pubblicazione sui lucertoloni nascosti fra noi, e invece indaga in modo scorrevole e colto le radici culturali e le manipolazioni, da parte di ben noti poteri, di questi strani fenomeni. Sì, perché, di fatto, in 74 anni di avvistamenti, (dal 1947, guarda caso, inizio dell’era spaziale) con decine di migliaia di persone che hanno osservato e ripreso luci, dischi, “sigari” volanti e altri fenomeni aerei che, per una percentuale fra il 5 e il 10% restano oggettivamente inspiegabili, nessuno è mai riuscito a trovare una latta d’olio “Made in Neptune”, un bullone di Ufo o una mutanda di alieno. Il caso Roswell (1947) è notissimo, ma tra smentite, rottami di palloni-sonda, pupazzi, falsi video di autopsie, finora nulla è stato dimostrato. Colpa dei militari arcigni che ramazzano via ogni cosa, in perfetta pulizia, che nemmeno Mastro Lindo? Forse. Resta il fatto che, per ora, si tratta di fenomeni immateriali, proprio come i fenomeni medianici di cui molti raccontano, tanti dicono di averli visti, fotografati e ripresi, ma - sebbene immateriali per definizione – nessuno è mai riuscito a catturare dei fantasmi. Non stupisce allora, che il mito degli extraterrestri nasca proprio sulle ceneri dell’ormai spento spiritismo; non a caso, di “alieni transdimensionali” parlava il satanista-mago Alesteir Crowley detto “La Bestia 666”; così il teosofo spiritista Camille Flammarion che teorizzò i marziani e il medico bolscevico Aleksandr Bogdanov, fissato con le trasfusioni, che nei suoi romanzi scriveva di marziani-vampiri resi immortali dalla condivisione del sangue. Nel secondo dopoguerra, le sperimentazioni americane sugli arditissimi ultimi velivoli nazisti hanno fatto il resto, implementate dai filmoni anni ’70 della Hollywood  gnostica di Spielberg e Kubrik (“E.T.” e “2001 Odissea nello spazio”). Si nota, dunque che il mito extraterrestre è sempre stato cavalcato da tutti i poteri non-cristiani o anticristiani del passato e del presente. Oggi, con un darwinismo ridotto ormai sui gomiti, l’ipotesi che l’uomo sia stato creato - non da Dio - ma da alieni venuti a inseminare delle scimmie terrestri (contenti loro) si offre come radicale e perfetta alternativa alla cultura creazionista dell’Occidente cristiano. L’alieno è il perfetto Grande Architetto dell’Universo massonico-mondialista, anche perché in pochi riescono a domandarsi: “Sì, ma chi ha creato gli alieni?”. I parallelismi dell’ufologismo con un culto religioso vero e proprio sono tanti: i profeti, i “posseduti”, (ovvero i “contattisti” rapiti dagli alieni), l’attesa messianica di un paradiso promesso dall’illuminazione di questi esseri superiori, insieme all’altra paccottiglia New Age: pacifismo, ecologismo, reincarnazionismo, sincretismo etc. Ma, come in ogni cosa, anche Dio si prende la sua parte. Ci sono, infatti, altre due ipotesi su questi inspiegabili fenomeni: quella parafisica e quella metafisica. Entrambe considerano queste apparizioni nel cielo come fenomeni ingannevoli da parte di entità sottili, provenienti da un’altra dimensione. Esseri transdimensionali, o entità spirituali maligne, vorrebbero farci credere, con uno spettacolo di suoni e luci, proprio alla realtà fisica degli extraterrestri, per i motivi di cui sopra. Un inganno anticristico in cui pare ci si stia cadendo con tutti e due i piedi, tanto che, guarda caso, le pseudoreligioni ufologiche sono tutte, immancabilmente, anticristiane. Perfino la Chiesa, ormai metastatizzata dal modernismo, sta aprendo all’ipotesi extraterrestre dimenticando quanto insegna l’Apocalisse sui “segni dal cielo”. Follie misticheggianti, dirà qualcuno. Allora rettiliani e “grigi” che governano il mondo insieme a Soros sarebbero un’ipotesi di solido buon senso?

Occhi all’insù. Tutto quello che volevo sapere sugli Ufo e che ho osato chiedere. Harry Reid su L'Inkiesta.it il 2 Agosto 2021. Il senatore degli Stati Uniti Harry Reid racconta le sue esperienze con i cosiddetti “fenomeni aerei non identificati” e la sua ostinazione nel voler sapere di più riguardo ad alcuni strani avvistamenti. Nel giugno scorso il Pentagono ha fornito alcuni dati in materia, ma rimangono ancora molte le domande senza risposta. Da Linkiesta Magazine in edicola, in libreria o su Linkiesta Store. Un giorno del 1996 ho ricevuto una telefonata da George Knapp, che è un reporter investigativo di KLAS-TV, emittente di Las Vegas del network CBS, ed è anche un mio amico. «Harry, c’è una cosa alla quale devi partecipare», mi disse. E mi invitò a una conferenza, prevista di lì a poco, che avrebbe avuto come argomento quelli che il governo americano definisce abitualmente “fenomeni aerei non identificati” e che la gran parte delle persone chiama semplicemente Ufo: un tema verso cui Knapp nutriva, e tuttora nutre, un interesse particolare. In occasione dell’evento, una grande sala convegni si riempì di docenti universitari, di persone comuni interessate all’argomento e, sì, di qualche tipo stravagante. Rimasi molto impressionato dai professori, che parlavano di fenomeni aerei non identificati con linguaggio scientifico, discutendo il tema in termini di sviluppo tecnologico e sicurezza nazionale. Ne fui catturato. Negli anni seguenti, mentre il mio interesse per gli Ufo aumentava – anche grazie alle mie conversazioni con l’ex astronauta John Glenn, un collega in Senato che condivideva le mie curiosità – il mio staff mi raccomandò di non farmi vedere mentre mi occupavo di questo argomento. «Tieniti maledettamente lontano da tutto ciò», mi dicevano. Li ho gentilmente ignorati. Ero curioso. Come il senatore Glenn, ritenevo che quello fosse un tema da indagare ed ero nella posizione per fare qualcosa. E qualcosa ho fatto. Nel 2007, mentre ricoprivo il ruolo di leader della maggioranza, ho lavorato con il senatore Ted Stevens, un Repubblicano dell’Alaska, e con Daniel Inouye, un Democratico delle Hawaii, perché fossero stanziati fondi per 22 milioni di dollari per quello che sarebbe diventato noto come Advanced Aerospace Threat Identification Program (Programma avanzato per l’identificazione delle minacce aerospaziali). Questa operazione segreta del Pentagono condusse ricerche sui report riguardanti gli Ufo e altri fenomeni analoghi, compresi gli incontri con gli Ufo che avevano coinvolto personale militare americano. In seguito sono stati resi pubblici alcuni video e alcune fotografie che documentano questi stupefacenti incontri e che hanno ravvivato la fascinazione di lungo corso che l’America ha per gli Ufo. Benché il programma del Pentagono che ho contribuito a creare non esista più, il governo ha continuato a studiare gli Ufo, da ultimo attraverso un nuovo programma conosciuto come Unidentified Aerial Phenomenon Task Force (Task force per i fenomeni aerei non identificati). Sono sempre stato affascinato dalle cose che non capisco – da ciò che è misterioso e da ciò che non trova spiegazione – e credo che questa fascinazione derivi in parte dall’essere cresciuto nel Nevada rurale. Vengo da Searchlight, un paese che si trova in pieno deserto, a una cinquantina di miglia a Sud di Las Vegas, e che oggi ha circa 300 abitanti. La casa in cui sono cresciuto era stata costruita con traversine ferroviarie e ho imparato a nuotare nell’unica piscina della cittadina, che si trovava in un bordello. A Searchlight la prostituzione aveva sostituito il settore minerario come principale attività economica e c’erano molte case di dubbia reputazione. Per fortuna c’era anche il grande, splendido cielo con le meraviglie che contiene. Le persone che vivono nell’America rurale, lontano dall’inquinamento luminoso delle grandi città, di notte possono fissare i loro sguardi in cielo e vedere le meraviglie della Via Lattea e molto altro. Nella mia giovinezza a Searchlight ho passato molte sere sdraiato su un vecchio materasso a fissare il cielo sconfinato e pieno di stelle. Sono state poche le notti in cui non ho visto una stella cadente. Quella distesa scintillante riempiva i miei occhi e scatenava la mia immaginazione. Il fatto di non avere una formazione scientifica è una cosa che mi ha sempre procurato dispiacere. Nella mia scuola elementare non avevamo un’insegnante di scienze. E quando sono andato alla high school erano disponibili soltanto pochi corsi. Ma, nonostante la mia carenza di conoscenze scientifiche (o forse proprio per questa ragione), sono sempre stato molto curioso. Come mai il sole rimane caldo?, mi domandavo. Come mai non si raffredda alla fine del giorno? Da ragazzo non avrei saputo trovare le risposte, ma non ho mai smesso di porre domande. Come disse una volta Albert Einstein, «la curiosità ha in se stessa la propria ragione di esistere». Anni dopo, quando sono diventato una figura pubblica, ero ancora curioso come prima. Come senatore Democratico per il Nevada, ho visitato l’Area 51, la base sperimentale top secret dell’Air Force che si trova nel Nevada meridionale e che era da lungo tempo associata alle teorie del complotto connesse con gli Ufo. Quello che ho visto mi ha affascinato, benché molte di quelle cose debbano restare coperte da segreto. Durante una di queste visite ho percorso la breve distanza verso la struttura che ospitava i nuovi aerei stealth dell’Air Force, ancora segreti. Per ragioni di sicurezza i piloti potevano farli volare soltanto di notte – sotto quelle stesse stelle del Nevada su cui fissavo i miei occhi quando ero un ragazzo. Benché l’Area 51 sia stata sviluppata decine di anni fa, all’apice della Guerra fredda, la sua esistenza non è stata pubblicamente riconosciuta dal governo degli Stati Uniti fino al 2013. Farlo prima avrebbe messo a rischio la sicurezza del nostro Paese, dal momento che il governo cerca sempre un equilibrio tra le priorità della segretezza e la trasparenza che è propria di una democrazia. Fino a tempi recenti, molti piloti militari avevano timore di essere puniti qualora avessero riportato l’avvistamento di fenomeni aerei non identificati. Ma io ritenevo che l’esistenza di un tabù non ufficiale, che impediva una schietta discussione su questi incontri, avrebbe potuto danneggiare la nostra sicurezza nazionale e ostacolare possibili avanzamenti tecnici. E questo è il motivo per il quale nel 2007, insieme con i senatori Stevens e Inouye, ho contribuito a creare quel programma segreto del Pentagono. Volevamo dare un’occhiata da vicino, e in modo scientifico, alle implicazioni tecnologiche connesse con gli incontri con gli Ufo che erano stati riferiti. Credo che dalle indagini segrete del governo sui fenomeni aerei non identificati siano state scoperte delle informazioni che potrebbero essere rese pubbliche senza mettere a rischio la nostra sicurezza nazionale. Il popolo americano merita di sapere di più (alla fine del giugno scorso il governo di Washington ha in effetti diffuso un rapporto sui “fenomeni aerei non identificati”, ma la maggior parte degli esperti ha ritenuto piuttosto inconcludenti le analisi contenute in questo documento del governo degli Stati Uniti, ndr). Ma che cosa ho imparato finora dalle inchieste ufficiali sui fenomeni aerei non identificati? La verità, per quanto possa essere deludente, è che ci sono ancora molte cose che non capiamo. Non è chiaro se gli Ufo in cui ci siamo imbattuti possano essere stati costruiti da Paesi stranieri che sono nostri avversari, se la percezione visiva dei nostri piloti durante alcuni di questi incontri fosse in qualche modo falsata o se davvero abbiamo prove credibili di visite da parte di extraterrestri. E potrebbero esserci ulteriori spiegazioni, ancora sconosciute, per alcuni di questi strani avvistamenti. In ogni caso, quando si studiano gli Ufo, credo che sia di fondamentale importanza partire dalla scienza. Se concentreremo la nostra attenzione su omini verdi e teorie del complotto non andremo lontano. Naturalmente, qualunque cosa ci dovesse dire la scienza, una parte dell’opinione pubblica continuerebbe a credere all’esistenza di Ufo provenienti da altri mondi come a un articolo di fede. Negli ultimi tempi, il dibattito intorno agli Ufo può essere suddiviso così: da un lato, chi crede sinceramente alla scienza, dall’altro chi crede sinceramente negli extraterrestri. Io sto dalla parte della scienza. Voglio chiarirlo ancora: non ho mai avuto l’intenzione di provare che esista vita oltre la Terra. Ma se la scienza provasse che esiste, per me non ci sarebbe nessun problema. Perché più imparo e più mi rendo conto che ci sono ancora tantissime cose che non conosco.

2021 The New York Times Company and Harry Reid. Distributed by The New York Times Licensing Group

UFO. DA lastampa.it il 13 luglio 2021. Altri due avvistamenti Ufo registrati dall'Aeronautica militare, entrambi nel mese di maggio. Dopo la segnalazione, registrata il 14 gennaio scorso a Bernareggio (Mb), di un oggetto «bianco e nero» di forma «irregolare obliqua» che si muoveva «in direzione sud est», nella casistica della forza armata finiscono anche i «numerosi» oggetti «leggermente ovali» e «luminosi» segnalati da un cittadino il 6 maggio scorso a Firenze. Sempre il 6 maggio, a Caltanissetta, è stato avvistato un «oggetto sferico» dalla «luce bianca», volare in direzione sud. «Sulla base dei dati raccolti presso gli enti preposti della forza armata», viene precisato, gli eventi non sono stati associati «ad attività di volo o di radiosondaggio» e sono stati pertanto «catalogati come “Ovni”». Tuttavia gli avvistamenti presentano «forti analogie con il noto ''effetto starlink'' che ha interessato i cieli dell'intero territorio nazionale nella settimana del 6 maggio». Nell'ambito della Difesa, è l'Aeronautica Militare l'organismo istituzionale deputato a raccogliere, verificare e monitorare le segnalazioni relative agli oggetti volanti non identificati. Attività che viene svolta dal Reparto Generale Sicurezza dello Stato Maggiore Aeronautica «allo scopo di garantire la sicurezza del volo e nazionale». Le segnalazioni di oggetti volanti non identificati giunte dai cittadini finiscono nei registri pubblicati dalla forza armata. Nei registri del Reparto Generale Sicurezza dello Stato Maggiore sono stati raccolte, negli ultimi due anni, 11 segnalazioni: oltre alle tre di quest'anno, questi i precedenti: il 5 gennaio del 2019 a Cremosano (Cr), viene avvistato un oggetto «scuro nella zona superiore, illuminato in quella inferiore», di forma «sferica», muoversi a bassa quota e a velocità «sostenuta» da sud a nord. «L'evento non è stato associato ad attività di volo o di radiosondaggio ed è stato pertanto catalogato come oggetto volante non identificato», registra l'Aeronautica. Sempre a gennaio 2019, il giorno 25 alle 16.57, un 'privato cittadino' nota in cielo a circa 500 metri di quota, un oggetto dalla «forma allungata con spigolature» che vola «da nord ovest direzione sud est» a velocità «bassa e costante con spostamento orizzontale veloce verso sinistra». Qualche mese più tardi, la mattina del 4 giugno, è la volta di un 'ufo ' grigio di forma circolare avvistato al Passo della Futa. Neanche una settimana più tardi, il 10 giugno, a Soveria Mannelli (Cz) viene avvistato un oggetto volante di forma «allungata» di colore «bianco tendente al giallastro» che vola a bassa quota verso ovest. Sempre nel 2019, il 16 agosto intorno alle 22.30, a Cornate d'Adda (Mi), di oggetti ne vengono avvistati due in una volta sola: il primo di circa 50 metri, il secondo di 30, sferici, che illuminano la notte con il loro «colore arancione e bianco intenso» mentre si spostano lentamente in cielo. Ultimo avvistamento registrato del 2019, un oggetto volante descritto come una sorta di «sigaro» notato in cielo alle 13.05 del 25 novembre a Castellone (Cr) mentre si dirigeva verso nord con una velocità «costante tipo aereo a elica». Nel 2020 negli archivi dell'Aeronautica militare vengono registrate due segnalazioni: la prima il 18 luglio, a Cerchiate di Pero (Mi), con un oggetto di «forma sferica irregolare», di colore «bianco intenso e sul finire rossastro» che si muove con «continui cambi di direzione». Alle prime luci del 2 agosto, a Milano Marittima (Ra), sono le 5.45 quando un cittadino avvista in cielo una sfera di colore giallo allontanarsi «in direzione nord».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 5 luglio 2021. La scorsa settimana Matthew Evans, 36 anni, si è affacciato alla finestra della sua abitazione e ha visto planare sul mare un oggetto non identificato, che ha subito fotografato. Nelle immagini si vedono quattro luci brillanti posizionate a triangolo che indugiano nel cielo notturno. Pochi secondi dopo aver scattato le foto, l’oggetto è sfrecciato in lontananza. Matthew, che vive a Tidmouth, nel Devon, ha detto: «Non ho potuto fare a meno di vederlo. La finestra della mia cucina offre una splendida vista sul mare. Non si muoveva come avrebbe fatto un aereo». «Si muoveva molto più lentamente ed è andato su e giù per un po' prima di librarsi per dieci secondi buoni. È rimasto in un punto abbastanza a lungo da permettermi di tirare fuori il mio telefono e ottenere quegli scatti. Poi si è rapidamente allontanato a una certa velocità e non sono più riuscito a vederlo. La luce era davvero brillante». «Non sapevo cosa potesse essere così ho deciso di fare una foto. Ma è difficile definirlo, quindi suppongo che sia un oggetto volante non identificato». 

Dal Corriere della Sera il 27 giugno 2021. Ci sono gli «avvistamenti», esattamente 143 dal 2004. Ci sono foto e video. Ma l'atteso rapporto dell'intelligence americana non offre spiegazioni. Il mistero degli Ufo, gli oggetti volanti non identificati, che da decenni popola la fantasia di scrittori e registi, e quindi anche la nostra, non è risolto. E dunque continueranno ad appassionarci, a farci discutere, anche a litigare. Ieri la Direzione della «National Intelligence», l'agenzia ombrello di tutti i servizi segreti americani, compresa la Cia, ha diffuso un documento che sta già facendo discutere. Si parte dai dati raccolti negli ultimi 17 anni, esaminati da una speciale task force del Pentagono. Le segnalazioni di «oggetti» sconosciuti che vagavano nei cieli sono 143. L' attenzione si è concentrata su 21 fenomeni. Gli esperti militari hanno osservato «entità» che si muovono «senza un'apparente fonte di propulsione» e con «accelerazione rapida». Una capacità tecnologica sconosciuta per gli Stati Uniti, ma anche fuori dalla portata di Russia, Cina e altri Stati. Non ci sono prove che «le apparizioni» siano in realtà armi o altri veicoli sperimentati segretamente dagli stessi americani o dalle potenze rivali. Nello stesso tempo, però, «non si esclude» che possano provenire da «visitatori extraterrestri». Il New York Times nota come queste conclusioni così incerte dimostrino lo scarso impegno del governo. In altre parole le diverse Amministrazioni, guidate da George W.Bush, Barack Obama e Donald Trump, non avrebbero preso troppo sul serio la «questione Ufo». Probabilmente nessuno ha voluto mobilitare risorse finanziare e metter insieme i migliori scienziati per rispondere alla domanda che si pose Winston Churchill in uno scritto del 1939: «Siamo soli nell' universo?». Il futuro premier britannico rispose: «È possibile, non possiamo escluderlo». Oggi le autorità pubbliche, nonostante la tecnologia stellare appunto, gli imprenditori visionari come Elon Musk, Jeff Bezos che progettano il «turismo spaziale», non sono riuscite a fare un passo avanti rispetto a quelle tredici pagine di Churchill. Non abbiamo abbastanza dati, osservano gli analisti dell'Intelligence. Se ne discuterà nei prossimi giorni nel Congresso americano. Il Pentagono si presenterà con un piano per migliorare lo studio dei «fenomeni inspiegabili». Sarà coinvolta anche la Nasa, l'Agenzia spaziale, cui spetta l'ultima parola, e anche la più competente, per accertare la natura di tutto ciò che si muove nell' atmosfera e oltre. In particolare ci sono tre video considerati di «alto profilo» girati da piloti della Marina militare americana. Oppure immagini di macchine volanti a forma triangolare che paiono sospinti da potenti getti di luce. O ancora forme di rettangoli allungati, con due specie di ali divise da un possibile centro di comando. La ricerca condotta dal governo è sempre in bilico tra fascinazioni della scienza e preoccupazioni per la sicurezza nazionale. Ecco perché il rapporto sugli Ufo si chiude con un elenco di cinque opzioni, alcune, in realtà, sembrano contraddire l'analisi iniziale. Eccole: tecnologia sconosciuta sviluppata da «Stati nemici»; progetti iper segreti promossi da apparati americani; fenomeni naturali. E infine «oggetti non immediatamente riconoscibili», una categoria aperta che comprende sonde metereologiche, ma non esclude gli extraterrestri.  

Usa, nessuna spiegazione sugli Ufo, non esclusa l'attività aliena. Ansa il 25/6/2021. Gli Stati Uniti non hanno una spiegazione sugli Ufo, o meglio sui fenomeni aerei non identificati. L'atteso rapporto del Pentagono e dell'intelligence - riportato dai media americani - non offre conclusioni definitive e, allo stesso tempo, non esclude "attività aliena" lasciando di fatto la porta aperta a nuove teorie sugli extraterrestri. I 143 episodi registrati dal 2004, su un totale di 144, restano senza spiegazione. Di questi 21 potrebbero essere riconducibili a sperimentazioni di Russia, Cina o altri paesi con la tecnologia ipersonica. Non ci sono prove che gli episodi registrati riguardino programmi militari segreti americani, tecnologia sconosciuta russa o cinese o visite extraterrestri. Ma anche in mancanza di prove si tratta, precisa il rapporto, di spiegazioni che non possono essere scartate del tutto. Il rapporto anche se inconcludente segna la prima volta che il governo americano ammette pubblicamente l'esistenza di tali fenomeni. "Dai 144 casi non ci sono indicazioni chiare che esista una spiegazione non terrestre per giustificarli, ma andremo dove i dati ci porteranno", spiegano funzionari del Pentagono illustrando il rapporto e annunciando la creazione di una banca dati per i fenomeni aerei non identificati e l'istituzione di protocolli per riportarli. Questo con l'obiettivo di raccogliere maggiori informazioni e dati che al momento mancano rendendo difficile raggiungere conclusioni. Proprio la mancanza di conclusioni apre la porta a nuove teorie fra i sostenitori dell'esistenza degli Ufo. 

Il rapporto sugli Ufo del Pentagono. Il Pentagono conferma 143 avvistamenti di Ufo, ma non c’è prova che siano alieni. Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Il Corriere della Sera il 26/6/2021. Diffuso l’atteso documento sugli eventi misteriosi testimoniati anche da foto e video, ma non ci sono spiegazioni convincenti sui fenomeni osservati. Gli Stati Uniti non sono in grado di fornire spiegazioni sulla stragrande maggioranza dei 144 avvistamenti di «oggetti volanti non identificati» — gli Ufo o, come ora vengono definiti dalle autorità Usa, Uap, «Unidentified aerial phenomenon» — registrati in più di vent’anni. A rivelarlo è un atteso report consegnato al Congresso dall’Office of the Director of National Intelligence, in collaborazione con una task force del Pentagono. Nel report — che, come scrive il New York Times, con ogni probabilità «contribuirà a dare fiato alle più svariate teorie sui fenomeni aerei senza spiegazione» — si legge che non vi sono prove per confermare che dietro ad alcuni di quei fenomeni vi siano esistenze extraterrestri, ma anche che non vi sono prove per escluderle. «I dati in nostro possesso - si sottolinea nel documento della Difesa - sono largamente insufficienti per determinare la natura» di questi oggetti misteriosi osservati da piloti militari. Il report si riferisce a 144 Uap in un arco di tempo che parte dal 2004. «Gli Uap rappresentano un problema per la sicurezza dei voli, e potrebbero rappresentare una sfida alla sicurezza nazionale americana», si legge nel rapporto, nel quale si dice anche che «probabilmente non c’è una singola spiegazione» per tutti i fenomeni osservati. «In un numero limitato di osservazioni» gli Uap «mostrano caratteristiche di volo inusuali» che potrebbero essere il risultato di «errori nei sensori o nella percezione di chi ha compiuto l’osservazione» e richiedono una ulteriore, rigorosa analisi. Nel report si parla anche di oggetti volanti le cui caratteristiche sembrano superiori a quelle di veicoli aerei finora osservati sulla Terra, per velocità, manovrabilità e sistemi di propulsione. «Relativamente ai 144 fenomeni descritti», ha però detto un membro dell’intelligence Usa all’agenzia Ap «non abbiamo indicazioni chiare su una possibile spiegazione extraterrestre, ma continueremo la ricerca ovunque i dati ci condurranno». «Dai dati in nostro possesso, non abbiamo indicazioni chiare che nessuno di questi fenomeni non identificati sia parte di un programma di intelligence di una potenza straniera, né che sia frutto di avanzamenti tecnologici dei nostri avversari». Un altro rappresentante dell’intelligence ha spiegato che in 21 dei casi «sembra che ci si trovi di fronte a una propulsione avanzata, o a qualche tecnologia avanzata» sconosciute agli Stati Uniti: si tratta di oggetti che si muovono senza mezzi di propulsione identificabili, o con accelerazioni così rapide da essere al di là delle possibilità note di Russia, Cina o altre nazioni.

Dagotraduzione dal The Sun il 25 giugno 2021. Secondo il Sun il Pentagono avrebbe in suo possesso un’incredibile foto nitida di un Ufo “Triangolo Nero” che emerge dall’oceano. Da quando è stata segnalata la presunta esistenza della foto a fine 2020, gli appassionati di Ufo ne hanno chiesto la pubblicazione. Se fosse vero, sarebbe uno degli avvistamenti Ufo più avvincenti mai ripresi da una fotocamera. A scattare, sarebbe stato un pilota della Marina degli Stati Uniti che pilotava un Super Hornet F/A-18F. L’esistenza della foto non è mai stata ufficialmente confermata dal Pentagono, ma molti affermano che esista. Il Sun dice di aver appreso che la foto è altamente classificata proprio perché è stata catturata utilizzando attrezzature militari a bordo dell'aereo da combattimento. Secondo quanto riferito, la foto in possesso del Pentagono è «estremamente chiara» ed è stata diffusa l'anno scorso in un rapporto di intelligence della task force sui fenomeni aerei non identificati (UAP). Secondo quanto riportato per la prima volta da The Debrief, è stata scattata nel 2019 da un pilota che ha individuato il mezzo mentre emergeva dall'oceano e iniziava a salire verso l'alto. L'oggetto ripreso è stato descritto come un grande triangolo con bordi "smussati" e "luci" sferiche bianche su ogni angolo - e si dice che l'incontro sia avvenuto al largo della costa orientale degli Stati Uniti. Si ritiene che i piloti che hanno incontrato l'oggetto operassero dalla USS Dwight D. Eisenhower o dalla USS John C. Stennis. Entrambi sono supercarrier a propulsione nucleare di classe Nimitz, che approfondiscono ulteriormente i legami apparenti tra gli UFO e le capacità nucleari dell'uomo. Tom Rogan, scrittore di sicurezza nazionale del Washington Examiner, ha confermato l'esistenza della splendida foto dopo averla verificata con le sue fonti. Ha detto a The Sun Online: «È la punta dell'iceberg. Ma vedremo più perdite di immagini e dati UAP nei prossimi anni. Il Pentagono dovrebbe anticipare la curva e rilasciare ufficialmente più materiale». Secondo quanto riferito, il file contenente la foto è stato diffuso su NSANet, l'intranet ufficiale dell'Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, a cui si ritiene abbiano accesso la Gran Bretagna e altre nazioni dell'alleanza dei servizi segreti Five Eyes. Anche Luis Elizondo, che ha guidato l’Advanced Aerospace Threat Identification Program (AATIP) per il Pentagono, è stato recentemente interrogato sulla foto. L'ufficiale dell'intelligence si è dimesso dal suo incarico mentre cercava di portare la discussione sugli UFO al pubblico, descrivendoli come un «problema di sicurezza nazionale». Interrogato sul canale Disclosure Team su YouTube se avesse visto la famigerata immagine, Elizondo ha risposto: «Non posso discuterne». Ha aggiunto con un sorriso: «Grande domanda». La decisione dell'insider di non confermare né smentire l'esistenza della foto ha solo alimentato l'entusiasmo e le speculazioni intorno alla presunta foto.

Federico Cella per "corriere.it" il 25 giugno 2021. Per i fan della vecchia serie X-Files è impossibile non pensare a Fox Mulder, l’agente dell’Fbi che voleva credere. Immaginarselo in questi giorni, in attesa del report del Pentagono sugli Ufo, dopo anni passati a combattere contro il suo stesso governo per arrivare alla verità. Che è la fuori, come recitava lo slogan della serie creata da Chris Carter e andata in onda per 11 stagioni dal 1993. Aspettando le pagine governative sugli Uap (nuova dicitura statunitense per gli Unidentified Aerial Phenomenon), attese per oggi 25 giugno dopo la richiesta ufficiale da parte del Congresso a seguito dei numerosi avvistamenti certificati dalle forze armate americane, è bene però uscire dalla fiction. E calarsi in una realtà molto terrestre, come anticipato dal New York Times e le sue indiscrezioni sul contenuto del rapporto stesso. Ma andiamo con ordine. La nascita di questo rapporto non classificato, e dunque di libera circolazione, avviene lo scorso agosto – durante quindi la presidenza Trump – con la costituzione di una task force all’interno del Pentagono, per mettere ordine sui fenomeni aerei non identificati. Quelli che venivano chiamati Ufo. Il compito del gruppo, secondi quanto riportato dai militari Usa, è di «rilevare, analizzare e catalogare» questi eventi e quindi «ottenere informazioni dettagliate» sulla «natura e sulle origini» degli Uap. Una versione, questa volta classificata, del rapporto è stata fornita a funzionari governativi all’inizio di giugno. Secondo i primi commenti trapelati, il rapporto non ha trovato prove di attività aliene. Ma nemmeno lo esclude. La task force ha però stabilito che gli avvistamenti non sono riferibili a tecnologia militare segreta in mano agli Stati Uniti. Lasciando spazio, come raccontato dal Nyt, all’ipotesi che si tratti invece di esperimenti condotti dalla Russia o dalla Cina. Sono diverse le teorie complottistiche che sostengono come la verità sugli Ufo sia tenuta nascosta da decenni. Almeno fin dal 1947 quando si verificò il cosiddetto «incidente di Roswell»: secondo alcune versioni, si trattò dello schianto di uno o più Ufo, con conseguente recupero da parte delle forze militari americane di cadaveri di alieni. Le prove dell’esistenza della vita extra-terrestre sarebbero poi state rinchiuse e insabbiate nella famigerata Area 51, base sperimentale con un’area di poco superiore a quella dell’intera Sicilia situata nel sud del Nevada. Da allora il tema Ufo, intesi proprio come forme di vita aliene, è entrato nell’immaginario collettivo americano e non solo. Trovando sostenitori anche tra persone apparentemente insospettabili. Parliamo per esempio di Haim Eshed, ex direttore del programma spaziale israeliano presso il ministero della Difesa del Paese. Al quotidiano Yediot Aharonot ha detto: «C’è un accordo tra il governo degli Stati Uniti e gli alieni. Hanno firmato un contratto con noi per fare esperimenti qui». A rincarare la dose è stato l’ex presidente Trump, che secondo Eshed avrebbe deciso di non rivelare l’accordo tra le diverse specie di vita senzienti nel timore di creare un attacco di panico di massa. In un’intervista dello scorso anno, Donald Trump ha affermato che non avrebbe rivelato - nemmeno alla sua famiglia - ciò che aveva appreso sugli alieni: «Non vi dirò quello che so al riguardo, ma è molto interessante». Più credibile quanto affermato dal suo predecessore alla Casa Bianca, lo scorso maggio, in occasione di una trasmissione televisiva. Barack Obama rispondendo a James Corden, ha dapprima scherzato: «Quando sono entrato in carica, ho chiesto... c’è un laboratorio da qualche parte dove teniamo gli esemplari alieni e la nave spaziale? E sai, hanno fatto un po’ di ricerche e la risposta è stata no». Poi si è fatto più serio: «Ciò che è vero è che ci sono filmati e registrazioni di oggetti nei cieli, che non sappiamo esattamente cosa siano. Non possiamo spiegare come si sono mossi, la loro traiettoria... E quindi è corretto indagare nel tentativo di capire di cosa si tratta». Il Pentagono, secondo quanto si apprende, avrebbe raccolto dati sugli avvistamenti almeno fin dal 2007, come parte di un programma di identificazione delle minacce aerospaziali. Curiosamente, ma forse anche no, il denaro per finanziare il progetto era stato richiesto dal senatore Harry Reid, democratico che allora rappresentava la regione che comprende l’Area 51. Lo scorso marzo, l’ex direttore dell’intelligence di Trump, John Ratcliffe, aveva detto a Fox News che «ci sono molti più avvistamenti di quelli che sono stati resi pubblici». Nessuna novità sull’origine di questi fenomeni: «Stiamo parlando di oggetti che sono stati visti dai piloti della Marina o dell’Aeronautica, o sono stati rilevati da immagini satellitari, che francamente si impegnano in azioni difficili da spiegare. Movimenti difficili da replicare, per i quali non abbiamo la tecnologia, o che viaggiano a velocità che superano la barriera del suono senza un boom sonico». La descrizione ricalca molto bene quello che si può definire come l’ultimo avvistamento ufficiale, quello della nave Omaha. Un oggetto dalla forma sferica, chiamato «transmedium vehicle» perché capace di muoversi senza apparente difficoltà sia in aria, sia in acqua. La conferma del Pentagono stesso ci porta all’attesa di questi giorni, dopo anni in cui le forze militari americane avevano di fatto declassato gli avvistamenti come sogni a occhi aperti. Un cambio di marcia importante che vedrà il suo apice proprio nel report. Il punto di svolta nella politica americana verso gli Ufo si può forse far risalire all’avvistamento del 2004 con «quella che sembrava una caramella di Tic Tac volante», come ha raccontato la ex pilota di caccia, Alex Dietrich. Da allora ci sarebbero stati altri 120 casi di avvistamenti misteriosi, molti dei quali riferiti da membri delle forze navali o aeree americane. L’attesa è alta, ma è probabile che Fox Mulder ne rimarrà deluso: nel report non si troverà traccia di prove dell’esistenza di vita extraterrestre.

Dagotraduzione dal The Guardian il 24 giugno 2021. Per secoli, gli uomini hanno guardato il cielo e si sono interrogati sulla vita tra le stelle. Ma mentre gli esseri umani davano la caccia agli alieni, gli extraterrestri potrebbero averci osservato. Almeno secondo un gruppo di astronomi, che ha preparato un elenco di pianeti posizionati in modo tale da consentire a eventuali abitanti di curiosare sulla Terra. E non sono pochi. Gli scienziati hanno individuato 1.715 sistemi stellari che si trovano nel nostro raggio cosmico e da cui negli ultimi 5.000 anni osservatori interessati avrebbero potuto comodamente vedere la nostra Terra transitare davanti al Sole. Tra questi, 46 sono abbastanza vicini da permettere ad eventuali abitanti di intercettare segnali dell’esistenza umana: le trasmissioni radiofoniche e televisive iniziate circa 100 anni fa. I ricercatori stimano che 29 di questi pianeti siano potenzialmente abitabili e ben posizionati per intercettarci. Ma non è detto che altre civiltà più avanzate vogliano stabilire un contatto con noi. Gli astronomi terrestri hanno rilevato migliaia di pianeti oltre il sistema solare. Circa il 70% viene individuato quando i mondi alieni passano davanti alle stelle che li ospitano e bloccano parte della luce che raggiunge i telescopi degli scienziati. I futuri osservatori, come il James Webb Space Telescope della Nasa, che verrà lanciato quest'anno, cercheranno segni di vita sugli “esopianeti” analizzando la composizione delle loro atmosfere. Una stella conosciuta come Ross 128, una nana rossa della costellazione della Vergine, si trova a circa 11 anni luce di distanza - abbastanza vicina da ricevere le trasmissioni della Terra - e ha una superficie grande quasi il doppio della Terra. Qualsiasi forma di vita adeguatamente attrezzata avrebbe potuto individuare il transito terrestre per più di 2000 anni, ma 900 anni fa ha cambiato posizione. Se c'è vita intelligente su uno dei due pianeti conosciuti che orbitano attorno alla stella di Teegarden, a 12,5 anni luce di distanza, tra 29 anni saranno in una posizione privilegiata per osservare i transiti della Terra. A 45 anni luce di distanza, anche un'altra stella chiamata Trappist-1 è abbastanza vicina da percepire le nostre trasmissioni. La stella ospita almeno sette pianeti, quattro dei quali nella zona temperata e abitabile, ma non saranno in grado di assistere a un transito terrestre per altri 1.642 anni, scrivono gli scienziati su Nature. I risultati arrivano proprio mentre il governo degli Stati Uniti si prepara a pubblicare un rapporto molto atteso sugli oggetti volanti non identificati (UFO). Il rapporto della task force sui fenomeni aerei non identificati del Pentagono, che è stato richiesto per ottenere informazioni sulla natura e sulle origini di velivoli sconosciuti, non dovrebbe rivelare prove di acrobazie aliene, ma neanche escluderle.

Ufo, Chris Smalling e la moglie: "Ne abbiamo visto uno, non eravamo fatti". Avvistamento sconvolgente. Libero Quotidiano il 07 giugno 2021. Chris Smalling e sua moglie Sam Cooke hanno visto un Ufo. Lo ha raccontato la moglie del calciatore della Roma sui propri social, svelati i dettagli dell'avvistamento extraterrestre: "Ok, giuro che non eravamo sotto l'effetto funghi magici o altro. Ma io e Chris abbiamo visto un ufo incredibile la scorsa notte! Non è come avvistare per pochi secondi qualcosa di alto nel cielo che potrebbe essere un aereo! È volato giù davanti a noi e poi si è girato ed è tornato in alto nel cielo dove è rimasto per un'ora (forse più a lungo ma siamo dovuti andare via), era troppo piccolo per essere ripreso quando è rimasto stazionato nel cielo anche se Chris poteva vederlo ruotare con luci lampeggianti tutt'intorno. (Potevo vedere solo le luci esterne a questo punto perché i miei occhi non sono così buoni)". Poi ha aggiunto: "Avremmo potuto riprenderlo con la telecamera quando stava volando da noi perché era chiaro da vedere, ma eravamo entrambi troppo sbalorditi per tirare fuori le nostre telecamere. Inoltre non volevamo distogliere lo sguardo e perderci qualunque cosa fosse. Sembrava enorme. Non sembrava il tipico avvistamento ufo. Era totalmente silenzioso. Incredibile. Qualcuno ha visto qualcosa di simile? È difficile da spiegare perché era ben mimetizzato, ma era come due rettangoli 3d separati che ruotavano l'uno intorno all'altro con luci deboli che si muovevano attorno ai bordi", si legge ancora. La cosa curiosa è che l'avvistamento è avvenuto in Giamaica dove è stato ambientato Incontri ravvicinati del terzo tipo, il celebre film di Steven Spielberg, dove la famiglia Smalling sta trascorrendo le vacanze. Semplice suggestione?

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 giugno 2021. I politici americani hanno espresso serie preoccupazioni sulla minaccia degli UFO alla sicurezza nazionale americana, con un politico che ha detto che «sta succedendo qualcosa che non possiamo gestire». I commenti sono emersi mercoledì dopo un briefing altamente riservato della Marina e dell'FBI ai membri del Comitato permanente ristretto della Camera sull'antiterrorismo, in vista dell'attesissimo rapporto del Pentagono sugli UFO di questo mese. «Chiaramente, sta succedendo qualcosa che non possiamo gestire», ha avvertito il rappresentante Tim Burchett dopo il briefing. Sean Patrick Maloney ha aggiunto che stanno prendendo «sul serio» la questione dei fenomeni aerei inspiegabili, specialmente quando si tratta degli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, «quindi vogliamo sapere con cosa abbiamo a che fare». «Ci sono domande legittime che riguardano la sicurezza e la protezione del nostro personale, e nelle nostre operazioni e nelle nostre attività sensibili, e sappiamo tutti che c'è [una] proliferazione di tecnologie là fuori», ha detto Maloney al New York Post. La task force UAP del Pentagono è pronta a consegnare al Congresso il suo rapporto sugli avvistamenti di UFO da parte dei militari il 25 giugno. Una versione non classificata sarà resa pubblica, mentre una classificata più dettagliata rimarrà segreta - e l'attesa è cresciuta su ciò che potrebbe essere rivelato. Questa settimana, alcuni politici hanno potuto dare una sbirciatina in una «struttura di informazioni a compartimenti sensibili» o SCIF, ma non hanno voluto dire cosa hanno visto all'interno. Invece, si sono concentrati sull'esprimere la loro preoccupazione su come gli UFO potrebbero minacciare la sicurezza nazionale negli Stati Uniti. Il rappresentante Val Demings ha detto: «Sapete che si tratta sempre della nostra sicurezza e protezione - la nostra sicurezza nazionale è [la priorità] numero uno - e quindi questa è l'area su cui ci siamo concentrati questa mattina». «È stato un briefing interessante», ha affermato il rappresentante Adam Schiff. «Ho imparato cose che erano certamente nuove per me». Tuttavia, non tutti i politici erano così preoccupati dal fatto che il rappresentante Peter Welch abbia affermato del prossimo rapporto: «Non sono sul bordo della sedia». Almeno un ex funzionario del Pentagono ha già espresso preoccupazioni che potrebbero riguardare la sicurezza nazionale, affermando che gli UFO si sono ripetutamente intromessi nella tecnologia nucleare degli Stati Uniti, costringendo persino alcune strutture ad andare offline. Luis Elizondo, l'ex capo dell'Advanced Aerospace Threat Identification Program del Pentagono, ha dichiarato al Washington Post la scorsa settimana che gli UFO o UAP (fenomeno aereo non identificato) hanno effettivamente interferito con la tecnologia nucleare degli Stati Uniti. «Ora in questo paese abbiamo avuto incidenti in cui questi UAP hanno interferito e hanno effettivamente messo fuori uso le nostre capacità nucleari», ha detto Elizondo in un'intervista. A Elizondo è stato chiesto di diversi avvistamenti UFO sopra strutture segrete di armi nucleari e del fatto che quasi tutte le principali potenze nucleari in tutto il mondo hanno segnalato e declassificato questi avvistamenti. Ha detto che il fenomeno è una «preoccupazione» per la sicurezza nazionale e ha aggiunto che la stessa osservazione è stata fatta in altri paesi, rendendolo un «problema globale». Elizondo ha affermato che alcune persone hanno suggerito che gli UFO che mettono offline le capacità nucleari statunitensi potrebbero essere interpretati come un segno che gli oggetti non identificati sono «pacifici», ma ha affermato che in altri paesi gli UFO hanno effettivamente attivato la tecnologia nucleare. «Quindi questo, per me, è altrettanto preoccupante. Penso che a questo punto ci siano certamente dati sufficienti per dimostrare che c'è un interesse per la nostra tecnologia nucleare, un potenziale anche per interferire con quella tecnologia nucleare». Elizondo ha anche detto al Post che il prossimo rapporto del Pentagono dichiarerà definitivamente che gli UAP non sono tecnologia statunitense, nonostante le speculazioni.  Ha detto che credeva che i risultati avrebbero concluso che non erano nemmeno tecnologia russa o cinese, dicendo che invece crede che sia una tecnologia di «prossima generazione», decenni avanti rispetto alla nostra. «Grazie alle osservazioni siamo abbastanza convinti di avere a che fare con una tecnologia multigenerazionale, diverse generazioni avanti rispetto a quella che consideriamo tecnologia di prossima generazione. Potrebbero avanti di 50 o 1.000 anni avanti a noi."  All'inizio di questa settimana, anche un fisico di spicco ha espresso allarme per gli UFO. Il fisico Mark Buchanan ha scritto in un recente editoriale del Washington Post che era preoccupato che il contatto alieno potesse comportare «la fine di tutta la vita sulla terra». «È probabile che dovremmo essere tutti grati di non avere ancora alcuna prova di contatto con civiltà aliene», scrive Buchanan. «Tentare di comunicare con gli extraterrestri, se esistono, potrebbe essere estremamente pericoloso per noi». L'astronomo Joe Gertz alla ricerca di informazioni extraterrestri ha fatto eco ai sentimenti di Buchanan, affermando che tutti i nostri tentativi di comunicare con gli extraterrestri potrebbero alla fine causare «un serio pericolo per tutta l'umanità, e dovrebbero essere assolutamente ascritti ai crimini gestiti dalla Corte internazionale di giustizia dell'Aia». Buchanan ha paragonato un possibile incontro alieno all’arrivo di Cristoforo Colombo in Nord America, dove gli europei, tecnologicamente più avanzati, trovarono una civiltà più antica e vulnerabile. Ma alcuni astronomi e scienziati la pensano diversamente. Secondo loro il contatto con gli extraterrestri potrebbe avvantaggiare l'umanità attraverso l'uso della tecnologia aliena, che a sua volta potrebbe migliorare la sostenibilità del pianeta. Douglas Vakoch, un astrobiologo americano, ricercatore di intelligence extraterrestre, psicologo e presidente di METI International, è uno di quegli astronomi che non solo crede nell’utilità di contattare gli alieni, ma lo sta facendo attivamente. Sebbene gli UFO siano stati avvistati dai civili per decenni, la loro esistenza è stata liquidata come nient'altro che una teoria della cospirazione. Ma l'opinione pubblica è cambiata negli ultimi anni, soprattutto dopo che le riprese video e le immagini scattate dai piloti della Marina degli Stati Uniti tra la metà del 2014 e il marzo 2015 sono trapelate al New York Times, tre anni fa. Le immagini hanno mostrato un oggetto da 30 a 40 piedi, a forma di Tic Tac, senza ali o rotori, ma in grado di librarsi, girare e accelerare nel cielo a velocità ipersoniche. Nel video si sentono i piloti della Marina sbalorditi esclamare: «Oh amico!». Il New York Times ha anche riferito di un'organizzazione oscura con sede al Pentagono dedicata ai rapporti sugli avvistamenti di UFO, l'Advanced Aerospace Threat Identification Program - AATIP. Nell'aprile 2020 il Dipartimento della Difesa ha pubblicato diversi video, uno dei quali mostra un aereo della Marina degli Stati Uniti che incontra «fenomeni aerei non identificati», inclusi oggetti che volano e si muovono a velocità e direzioni impossibili per il volo artificiale. Solo un anno prima, il filmato trapelato dal Pentagono mostrava un oggetto volante non identificato in bilico su San Diego, ipotizzando che un «incontro ravvicinato del terzo tipo» non è così lontano dall'accadere.

(ANSA il 4 giugno 2021) L'intelligence Usa non ha trovato prove che gli strani fenomeni aerei visti dai piloti della Marina negli ultimi anni siano astronavi di alieni, ma non è in grado di spiegare gli inusuali movimenti che hanno disorientato scienziati e militari. Lo scrive il New York Times, citando alti dirigenti dell'amministrazione informati sui risultati di un rapporto declassificato destinato al Congresso. L'unica certezza è l'esclusione che la maggioranza dei 120 incidenti degli ultimi 20 anni sia attribuibile a tecnologie segrete americane.

(ANSA il 4 giugno 2021) Almeno alcuni degli strani fenomeni aerei visti da personale militare Usa negli ultimi anni, quelli che molti chiamano Ufo, potrebbero essere originati da tecnologia sperimentale di potenze rivali, molto probabilmente Russia o Cina. Lo scrive il New York Times citando alti dirigenti dell'amministrazione informati sui risultati di un rapporto declassificato destinato al Congresso. Una delle fonti ha riferito che c'è la preoccupazione tra i vertici dell'intelligence e dell'esercito che Russia o Cina potrebbero essere coinvolti nella sperimentazione della tecnologia ipersonica.  

"Astronavi aliene non escluse". Le rivelazioni choc del rapporto Usa sugli Ufo. Alessandro Ferro il 4 Giugno 2021 su Il Giornale. Un nuovo dossier degli Stati Uniti ammette che molti dei fenomeni osservati rimane di difficile spiegazione: le ipotesi formulate non reggono al 100%, ecco perchè non è stata esclusa del tutto una presenza aliena. I funzionari dell'intelligence degli Stati Uniti non hanno trovato prove che confermino che gli oggetti volanti non identificati (Ufo) incontrati dai piloti della Marina degli Stati Uniti negli ultimi anni fossero astronavi aliene ma non hanno nemmeno raggiunto una valutazione definitiva su quali potrebbero essere questi oggetti misteriosi.

Cosa dice il rapporto. È quanto riportato da cinque fonti segretissime che hanno avuto modo di vedere il rapporto sugli Ufo che verrà presentato al Congresso il prossimo 25 giugno. In ogni caso, secondo tre di queste fonti il dossier non esclude nemmeno la possibilità che si tratti di astronavi aliene. L'esclusiva l'ha data il New York Times con le prime indiscrezioni su questo rapporto che stabilisce come la stragrande maggioranza di oltre 120 incidenti negli ultimi due decenni non ha avuto origine da alcun esercito americano o da altre tecnologie avanzate del governo degli Stati Uniti. Fossero così le cose, viene eliminata la possibilità che i piloti della Marina che hanno riferito di aver visto aerei inspiegabili possano aver incontrato programmi che il governo intendeva mantenere segreti, rafforzando la tesi di misteriosi oggetti non identificati.

Il video che ha fatto il giro del mondo. Il caos si è scatenato poche settimane fa quando un videoclip realizzato dalla videocamera dell'Iss durante l'Earth Viewing Experiment pubblicato originariamente su Internet come parte dell'esperimento di osservazione della Terra in alta definizione, mostra un oggetto dalla forma triangolare con "quattro luci abbaglianti" che viaggia nella galassia e vola oltre la Stazione Spaziale. Il video è stato subito analizzato dagli esperti del paranormale riuniti sotto l'account YouTube UFO Sightings Daily, che lo hanno certificato come "alieno al 100%". Sempre secondo il NYTimes, alti funzionari informati dall'intelligence hanno ammesso che la stessa ambiguità dei risultati significava che il governo non poteva escludere definitivamente le teorie secondo cui i fenomeni osservati dai piloti militari potrebbero essere stati causati da un veicolo spaziale alieno.

"Non sappiamo cosa siano..." Il fascino e l'interesse che gli americani hanno sempre manifestato per gli Ufo si è intensificato nelle ultime settimane anche per quanto dichiarato dall'ex presidente Barack Obama quando gli è stato recentemente chiesto un parere sugli incidenti nella popolare trasmissione "The Late Late Show with James Corden" sulla CBS. "Ciò che è vero, e adesso mi faccio serio", ha detto Obama, "è che ci sono filmati e registrazioni di oggetti nei cieli che non sappiamo esattamente cosa siano". Il rapporto di cui si parlerà il 25 giugno al Congresso Usa ammette che molti dei fenomeni osservati rimangono di difficile spiegazione come la loro accelerazione o la capacità di cambiare direzione ed immergersi nel mare. La spiegazione che potrebbe trattarsi di palloni meteorologici o altri palloni di ricerca non regge a causa dei cambiamenti nella velocità del vento e nei momenti di alcune interazioni. Tra le ipotesi avanzate dagli esperti, una delle più accreditate è che il fenomeno possa essere attribuito ad esperimenti di Russia e Cina nel campo del volo ipersonico: questa ipotesi, però, non sembra spiegare la natura del volo di questi oggetti capaci di improvvisi cambi di rotta ad elevatissimi livelli di accelerazione gravitazionale ("g"), e apparentemente di attraversare l'atmosfera o masse d'acqua senza distinzioni.

Rapporto storico sugli Ufo. A prescindere da come andrà la vicenda, per la prima volta nella sua storia, il governo degli Stati Uniti si prepara a pubblicare uno straordinario rapporto non classificato che dettaglia ciò che sa su una serie di misteriosi incontri con oggetti volanti non identificati comunemente chiamati Ufo: sebbene il rapporto non dovrebbe confermare l'esistenza di vita extraterrestre, il semplice fatto che la comunità dell'intelligence sia pronta a riconoscere questi incidenti rappresenta un notevole cambiamento nel modo in cui i funzionari statunitensi pensano a questo fenomeno. In attesa di sapere, il mistero si infittisce...

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi app...

Dagotraduzione da Abc News il 3 giugno 2021. Alla fine di questo mese, le agenzie di intelligence statunitensi presenteranno al Congresso un attesissimo rapporto non classificato su ciò che sanno sugli UFO, o come li chiama ora il Pentagono, Unexplained Aerial Phenomena (UAP). Tuttavia, nessuno sa ancora se il rapporto conterrà le risposte che gli appassionati di UFO stanno cercando, e cioè se i recenti incontri militari con gli UAP siano la prova dei contatti con la vita extraterrestre. Il rapporto segna una pietra miliare: l'interesse per gli UFO è aumentato moltissimo negli ultimi anni, soprattutto dopo il rilascio da parte della Marina di video che documentavano incontri con gli UAP avvenuti tra il 2004 e nel 2014. I video hanno sollevato livelli di interesse non solo tra gli appassionati di UFO, ma anche tra i membri del Congresso ansiosi di sapere se gli UAP catturati nei video rappresentano minacce tecnologiche avanzate da avversari stranieri. Il rapporto è stato voluto dal senatore della Florida Mark Rubio, che nel 2020 era presidente del Comitato ristretto per l'intelligence del Senato e come tale ha richiesto all’intelligence di preparare il documento. Un portavoce di Rubio ha detto a ABC News che il rapporto dovrebbe essere presentato al Congresso il 29 giugno, data che segna il termine di 180 giorni richiesto dalla legislazione quando è entrata in vigore il 1° gennaio. «Gli uomini e le donne a cui abbiamo affidato la difesa del nostro Paese stanno segnalando incontri con aerei non identificati con capacità superiori», ha detto Rubio in una dichiarazione fornita ad ABC News. «Non possiamo permettere che lo stigma degli UFO ci impedisca di indagare seriamente su questo. Il prossimo rapporto è un passo di questo processo, ma non sarà l'ultimo». Il rapporto è stato preparato dall'Ufficio del Direttore dell'intelligence nazionale e dalla Task Force UAP, un'organizzazione creata dal Pentagono lo scorso settembre per esaminare gli incontri dell'esercito americano con gli UAP. «Stiamo fornendo il contesto e le informazioni che abbiamo su questi fenomeni e il nostro obiettivo è, ancora una volta, sostenere gli sforzi del DNI per produrre questo rapporto», ha detto ai giornalisti John Kirby, il principale portavoce del Pentagono. Anche se sarà un rapporto non classificato, è possibile che il suo contenuto non soddisfi gli appassionati di UFO ansiosi di sapere se gli incontri sono contatti con extraterrestri, perché sarà un rapporto di intelligence. «La protezione delle metodologie è una parte importante del modo in cui opera la Task Force UAP», ha detto a ABC News un funzionario del Pentagono. «Questo è uno sforzo guidato dall'intelligence e, in materia di intelligence, si cerca sempre di proteggere le fonti e i metodi utilizzati per impedire a potenziali avversari di avere un'idea di come apprendiamo le cose». Il rapporto non si baserà solo sui ricordi dei testimoni oculari dei loro incontri, ma si concentrerà sui dati raccolti dai sensori utilizzati dalle forze armate statunitensi per rilevare gli avversari. «Questo è un esame basato sui dati degli UAP», ha detto il funzionario del Pentagono a ABC News. «Più dati abbiamo, meglio siamo in grado di identificare quali sono questi UAP». Per gli scienziati, l'attenzione del rapporto sui dati è la chiave per aiutare a determinare cosa sta succedendo nei video. «Quei prodotti di dati derivati possono suggerirci traiettorie, masse e densità», ha detto a ABC News il dottor Hakeem Oluseyi, professore affiliato di fisica e astronomia alla George Mason University. «Se riusciamo a capire dove si trovano nello spazio tridimensionale e come stanno manovrando, se individuiamo la loro massa e le forze coinvolte, possiamo trarne alcune suggerimento sulla tecnologia che stanno utilizzando» ha aggiunto. «Il fatto di vedere qualcosa che non capiamo non significa saltare a conclusioni folli. Significa prendere i dati, mettere tutto insieme e capire se si tratta di una nostra tecnologia oppure no».

DA ilgiorno.it il 26 maggio 2021. Quattro luci disposte in forma triangolare attraversano lo spazio. E' quanto si vede in un video che ha mandato in visibilio gli ufologi, convinti di aver visto una navicella aliena. L'avvistamento è stato fatto durante il live streaming dalla stazione spaziale internazionale nell'ambito dell'ISS HD Earth Viewing Experiment. Il frammento di video è stato analizzato dall'account YouTube "Ufo Sightings Daily". Scott Waring, appassionato di Ufo, che ha analizzato la clip, ha affermato che in quelle immagini si vede un "alieno al 100%". "E' un singolo oggetto con quattro aree illuminate - ha spiegato, descrivendo le immagini -, è illuminata anche la parte centrale anteriore, che immagino sia una cabina di pilotaggio o parte della propulsione. E' assolutamente incredibile, è una navicella aliena, credo sia aliena al cento per cento". Non possiamo ignorare - continua l'ufologo - che l'immagine è stata ripresa da una videocamera da milioni di dollari della Stazione spaziale, questo rende innegabile quanti ripreso dalla Nasa stessa".  L'ufologo ha quindi analizzato il video dell'Earth Viewing Experiment con l'aiuto di un software avanzato, per concentrarsi sulle caratteristiche dell'oggetto a forma di triangolo. Waring ha così scoperto che una "struttura solida" può essere intravista tra quelle luci misteriose e colorate.

Le parole di Obama. La scoperta riaccende gli animi di chi è convinto che non siamo soli nell'universo e arriva dopo le sorprendenti parole dell'ex presidente Usa, Barack Obama. "Gli Ufo esistono e con loro non si scherza. Vanno presi sul serio". Un'affermazione che lascerebbe un po' il tempo che trova se a farla non fosse una persona non certo conosciuta come un "fanatico". Un'affermazione che Obama ha fatto nel corso di un'intervista-chiacchierata nel corso della trasmissione televisiva in onda sulla Cnn (il notissimo canale statunitense) il popolare "Late Late Show" condotto da James Corden.

Cosa sono gli Ufo. La parola Ufo è un acronimo (parola formata dalle iniziali di un'espressione) che deriva dall'inglese "Unidentified Flying Object o Unknown Flying Object" vale a dire in italiano "oggetto volante non identificato" con cui si indica genericamente ogni fenomeno aereo le cui cause non possano facilmente o immediatamente essere individuate da un osservatore.

Da esquire.com il 23 maggio 2021. Era un po' che non se ne sentiva parlare ad alti livelli e invece eccoli tornati in auge a solcare i nostri cieli. Esatto, parlo degli UFO. Negli anni Settanta il boom degli oggetti volanti non identificati fu tale che divennero un'icona pop planetaria e anche le discussioni sugli alieni esplosero ovunque, seguite da film, fumetti e tutto quanto. Con il passare dei decenni e con l'avanzamento delle tecnologie e dell'esplorazione spaziale tutto questo parlare di UFO a livello mainstream è un po' calato (al di là del fatto che è rimasto un bel tema per qualche film o serie). Negli ultimi 10 anni qualsiasi oggetto che vedevamo nel cielo poteva essere identificato in pochi minuti, il numero di droni, satelliti e velivoli di ogni tipo è triplicato e il concetto di oggetto misterioso si è un po' spento. Ultimamente però i piloti della Marina Militare degli Stati Uniti stanno vedendo molti strani oggetti che sembrano essere molto più veloci e manovrabili dei loro aerei. Spesso li chiamano UAP (Unidentified Aerial Phenomenon). Uno dei personaggi che sta mettendo in risalto più di tutti queste testimonianze e questi filmati è Christopher Mellon, che è stato vice segretario della difesa per l'intelligence sotto Clinton e Bush. Secondo Mellon non stiamo facendo abbastanza per controllare questa nuova ondata di avistamenti. Lui stesso ha consegnato 3 video di UFO al New York Times che hanno fatto il giro del mondo e che non sono mai stati smontati o "risolti" da nessuno. "È bizzarro che uno come me sia costretto a fare cose del genere per attirare l'attenzione su un un problema di sicurezza nazionale come questo" ha detto al programma televisivo 60 Minutes. In effetti questo problema lo ha confermato anche il senatore degli Stati Uniti Marco Rubio, dicendo: "Tutto ciò che entra in uno spazio aereo e non dovrebbe esserci, è una minaccia". Più che agli alieni naturalmente si pensa a nuove tecnologie cinesi o russe, che secondo gli americani più paranoici entrano nel loro territorio per fare chissà cosa. Certo ci sono anche molte teorie sul fatto che siano semplicemente errori, nel senso di segnali male interpretati, effetti ottici, ombre strane. Ma è sempre meglio stare con gli occhi aperti. Sarà mica la volta buona che sono arrivati davvero? Le risposte a quanto pare arriveranno presto e il governo degli Stati Uniti si muoverà presto per risolvere queste richieste di analisi e controllo meticoloso su ogni testimonianze del genere, soprattutto da parte di militari.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2021. Mentre Elon Musk continua a collaudare astronavi che dovrebbero portare l'uomo su Marte, cresce il numero dei miliardari che investono nello spazio e torna la competizione tra potenze con Cina e Russia decise a creare una base comune sulla Luna dove anche gli Stati Uniti stanno per tornare, prepariamoci a nuove rivelazioni che ci renderanno meno scettici su UFO ed extraterrestri: ormai ne parla seriamente anche Barack Obama e a giugno il Pentagono e i servizi segreti Usa presenteranno al Congresso un rapporto sugli avvistamenti di oggetti non identificati che farà rumore. Quando arrivò alla Casa Bianca, nel 2009, Barack Obama tentò un esperimento di democrazia diretta chiedendo ai cittadini di dirgli, via Internet, quali fossero, secondo loro, le priorità da affrontare. Il risultato - primo, la liberalizzazione della marijuana, secondo togliere il vincolo top secret del Pentagono sulle informazioni sugli UFO - fece cadere le braccia al presidente che archiviò subito quel test. Dodici anni dopo, però, mentre la cannabis è stata legalizzata in molti Stati dell'Unione anche sull'onda di referendum popolari, lo stesso Obama, intervistato dalla Cbs , ha parlato degli avvistamenti di oggetti non identificati e di possibilità di vita extraterrestre non come stranezze messe in giro da personaggi eccentrici, ma come qualcosa da studiare a fondo. «Perché» ha aggiunto «la verità è che spesso abbiamo trovato oggetti nei cieli dei quali non sappiamo spiegare la natura. Non sappiamo come fanno a muoversi in quel modo, con quelle traiettorie. Bisogna continuare a indagare per capire di cosa si tratta». La sortita di un ex presidente su una materia così controversa fa sensazione, visto che per decenni discutere di dischi volanti e marziani è stato considerato un esercizio puerile anche dalla politica. Con l'unica eccezione di un ex leader dei senatori democratici, Harry Reid, che 15 anni fa fece stanziare 22 milioni di dollari per uno studio segreto del Pentagono sulla natura degli oggetti volanti più volte avvistati, il Congresso non ha mai preso sul serio questa materia: molti parlamentari, soprattutto conservatori, hanno considerato queste ricerche uno spreco di denaro dei contribuenti. Nell'America polarizzata di oggi le parole di Obama potrebbero anche innescare un altro conflitto culturale tra destra e sinistra. Ma stavolta forse non accadrà perché la quantità di avvistamenti inspiegabili registrati da militari che di certo non hanno inventato storie e il timore che alcuni di questi oggetti che volano a velocità pazzesche e cambiano traiettoria e quota come se non fossero condizionati dalle leggi della fisica possano venire non dallo spazio ma da laboratori segreti russi o cinesi hanno spinto un leader repubblicano a chiedere di fare luce: nell'autunno scorso, quando era ancora presidente della Commissione Servizi segreti del Senato, Marco Rubio ha ottenuto dal presidente Trump l'inserimento del rapporto della National Intelligence e del Pentagono al Congresso, e il relativo stanziamento, nelle misure di emergenza varate per fronteggiare la pandemia. E la sortita di Obama è stata presa sul serio e rilanciata anche da Tucker Carlson, il conduttore più seguito dal pubblico conservatore della Fox, mentre John Ratcliffe, direttore dei serivizi segreti negli anni di Trump, avverte che il rapporto del mese prossimo farà rumore: conterrà molti elementi che il Pentagono non ha mai rivelato. Del resto gli stessi militari da anni danno conto sempre più spesso di avvistamenti inspiegabili. In questo campo, poi, cresce anche un'altra dimensione: l'esplorazione dello spazio lontano. Fin qui gli astronomi hanno temuto il ridicolo nella ricerca di altri mondi abitati. Ma libri come Extraterrestrial dello scienziato di Harvard Avi Loeb e i progressi tecnologici che consentono di avvistare migliaia di pianeti di stelle lontane e di selezionare con l'intelligenza artificiale miliardi di dati per capire dove è possibile qualche forma di vita, aprono nuovi spazi di ricerca dando credibilità agli scienziati visionari: quelli che hanno rotto gli schemi dei colleghi più ortodossi e timorosi di cadere nel ridicolo. Nella sola Via Lattea, la nostra galassia, ci sono da 100 a 400 miliardi di stelle come il Sole, con i loro pianeti. Da qualche parte potrebbero essersi create condizioni come quelle che abbiamo sulla Terra. E i nuovi telescopi - quelli al suolo e quelli in orbita - esplorano spazi sempre più lontani: è nella natura dell'uomo anche se c'è chi dice che, con tutti i problemi che abbiamo in casa, è futile cercare segnali di vita in mondi lontani anni-luce che, quando li riceviamo, potrebbero già non esistere più.

Ufo, parla Obama: "Oggetti volanti non identificati, esistono ma non sappiamo cosa siano". Tiziano Toniutti su La Repubblica il 21 maggio 2021. Il tema degli Uap (o ufo) in Usa diventa di rilievo mediatico. Senatori di entrambi gli schieramenti ne parlano, così come dirigenti ed esperti di intelligence. Elizondo: "Il governo ha dei reperti di veicoli caduti". Il tema degli Ufo, o "Uap" come si dice adesso, è ormai diventato oggetto di dibattito mediatico e popolare negli Stati Uniti. Gli oggetti volanti non identificati sembrano essere usciti dal limbo del folklore e delle favole moderne. L'ultimo arrivato a parlarne in tv è l'ex presidente Barack Obama che lo scorso lunedì ha partecipato a The Late Show, il programma della Cbs condotto da James Corden, un appuntamento per milioni di spettatori in Usa e non solo. L'argomento è stato introdotto in modo scherzoso, ma Obama ha poi cambiato tono, sulla scia di quanto sta avvenendo un po' ovunque sui media americani (come ad esempio nell'articolo del New Yorker che invita, sin dal titolo, a prendere la questione Uap "con serietà"). Obama ha detto che: "Esistono video e immagini in cui compaiono oggetti volanti, che non sappiamo esattamente cosa siano. Non siamo in grado di spiegarne il comportamento in volo, come facciano a volare in quel modo o a seguire quelle traiettorie". Obama ha poi aggiunto che il fenomeno necessita di indagini e ricerche. Naturalmente Ufo o Uap non significa per forza "alieni". Obama ha però chiaramente riconosciuto l'esistenza di una fenomenologia, quella degli oggetti volanti sconosciuti che, al netto di numerose ricerche in atto da anni a più livelli e con vari gradi di attendibilità - fino a poco tempo fa era considerata poco più che un'eresia, o semplicemente fantascienza. L'ex presidente ha sostanzialmente comunicato che il fenomeno è reale, esiste ed è documentato. Di cosa si tratti però, per ora non è noto. Anche se le ipotesi in campo sono tante e diverse, e si va da spiegazioni più prosaiche (tecnologia straniera) fino ai classici alieni. Passando per una declinazione di possibilità - o impossibilità - a metà tra il cinema e la fisica quantistica. In ogni caso, dopo la pubblicazione dei video di Ufo "bollinati" dal Pentagono come autentici, ripresi da imbarcazioni militari come già raccontato anche da Repubblica, l'asticella del dibattito sugli Uap negli Usa si è alzata notevolmente. E se da una parte ormai le autorità non negano o smentiscono più di aver raccolto materiale sul fenomeno, dall'altra la questione diventa sempre più politica, con le parole dei senatori Marco Rubio (gop) che vede negli Uap una "minaccia alla sicurezza nazionale" e il dem Martin Heinrich che parla apertamente degli Uap come "tecnologia troppo sofisticata per essere umana". In questa sua dichiarazione, rafforzato anche da Christopher Mellon, fino a poco tempo fa alto responsabile dell'intelligence statunitense, e con un cognome di peso (è il Mellon nell'Università Carnegie Mellon di Pittsburgh in Pennsylvania, una delle più prestigiose del mondo). Harry Reid, il senatore democratico dietro il programma Advanced Aerospace Threat Identification Program (AATIP, ovvero il programma segreto di ricerca sugli Ufo), aveva ammesso che il materiale video visto finora non è che una "minima parte di quello effettivamente disponibile" negli archivi dell'intelligence e dei militari. Reid è tornato ad analizzare il fenomeno in un pezzo per il New York Times del 21 maggio. Con un messaggio chiaro: "La verità è che degli Uap non abbiamo capito granché. Ma dobbiamo continuare la ricerca, seguendo la scienza". Il motivo di questa nuova attenzione al fenomeno Uap non è noto. Le congetture possibili invece sono innumerevoli. Sicuramente, a livello mediatico il flusso delle informazioni è sensibilmente più ampio che negli ultimi decenni, contraddistinti da quello che gli appassionati della materia (e di X Files) chiamano "cover up", insabbiamento. La ratifica del Pentagono sui video girati dagli incrociatori ha di fatto portato il dibattito su un altro livello, di cui l'oggetto è ora la natura di questo fenomeno e non più la discussione sulla sua esistenza. Entro i primi di giugno poi, in seguito al Covid Act firmato dall'ex presidente Donald Trump, le agenzie governative, la difesa e l'intelligence dovranno consegnare al Congresso un rapporto in chiaro sul fenomeno Uap, sostanzialmente mettendo nero su bianco informazioni e dati. Il tutto mentre Louis Elizondo, ex agente Cia e responsabile dell'AATIP, dichiara pubblicamente che il governo americano è in possesso di "reperti" recuperati nei luoghi di presunti Ufo crash, da relitti degli oggetti volanti. Insomma gli Usa avrebbero parti e componenti degli Uap, custoditi in luoghi non noti. In Rete si trovano le ipotesi più disparate, dalle classiche basi dell'esercito nel deserto ai laboratori di industrie come la Bigelow Aerospace, ma ovviamente non vi è alcuna conferma o certezza. Si tratterebbe di "metamateriali" dalle caratteristiche peculiari, il cui studio potrebbe dare risposte nell'ambito della ricerca su un fenomeno che ora appare per quello che è: reale, e ora questo è ufficiale. Ma che rimane di enorme e profonda complessità.

Otto Lanzavecchia per formiche.net il 19 maggio 2021. Gli ufo esistono e la loro esistenza è documentata. La conferma arriva direttamente dal Pentagono, che ad agosto 2020 ha ricostituito la divisione dedicata allo studio degli oggetti volanti non identificati, noti nell’ambiente come Uap (unidentified aerial phenomena, fenomeni aerei non identificati). Negli Usa sta prendendo piede la convinzione che serva approfondire la materia, non solo per capire di cosa si tratti, ma anche per scoprire se dietro agli avvistamenti si nasconda una minaccia di un’entità o un Paese ostile. L’ultima puntata del notissimo programma giornalistico americano 60 Minutes ha tenuto gli spettatori incollati ai teleschermi. Il segmento, condotto da Bill Whitaker, includeva diverse testimonianze di membri delle forze armate americane – tra cui una assolutamente inedita – e prove video uscite (e poi confermate) dal Pentagono. Tra queste, avvistamenti di oggetti volanti non riconosciuti, di forma variabile ma spesso ovale, apparentemente in grado di raggiungere velocità altissime con accelerazioni spaventose e librarsi in aria senza sistemi di propulsione o emissioni visibili. L’ex tenente della Marina americana Ryan Graves ha detto a Whitaker di aver visto gli ufo “ogni giorno per almeno un paio di anni” al largo della Virginia, sull’Atlantico, uno spazio aereo interdetto. Il primo avvistamento è avvenuto quando il suo squadrone di F-18 ha aggiornato i radar di bordo con sensori zoom a infrarossi, che hanno permesso di notare gli oggetti. Secondo Graves i piloti che si addestrano nella zona vedono oggetti simili “continuamente”. Secondo i piloti intervistati da 60 Minutes gli avvistamenti possono essere una di tre cose: tecnologia americana segreta, un veicolo di spionaggio ostile, o qualcosa di extraterrestre. E la seconda ipotesi in particolare merita attenzione, perché potrebbe rivelare l’esistenza di tecnologie avanzate (e dunque un vantaggio militare) nelle mani di attori come la Cina e la Russia. “Sono preoccupato, onestamente”, ha detto Graves; “se questi fossero jet tattici di un altro Paese in giro da quelle parti, sarebbe un problema enorme. Ma poiché sembrano leggermente diversi non siamo disposti a guardare effettivamente il problema in faccia. Ci accontentiamo di ignorare il fatto che questi [oggetti] sono là fuori, che ci guardano ogni giorno”. Anche il comandante Dave Fravor e la tenente comandante Alex Dietrich, che testimoniava per la prima volta, hanno raccontato a Whitaker di aver avuto un incontro ravvicinato con un ufo nel 2004 mentre si addestravano nel Pacifico. I due erano a bordo dei rispettivi F-18 quando un’altra nave, la USS Princeton, registrò la presenza di un oggetto non identificato sul radar e gli chiese di eseguire una ricognizione. Fravor e Dietricht hanno raccontato di aver notato un’area di acqua ribollente, sopra la quale si librava un “piccolo oggetto bianco che sembrava un Tic-Tac”, più o meno della dimensione dei loro caccia, senza insegne, ali o getti di scarico visibili. L’ufo si sarebbe poi innalzato e avrebbe accelerato così repentinamente da scomparire, per ricomparire quasi immediatamente sul radar della USS Princeton – a sessanta miglia di distanza. Ma in seguito al loro rapporto post-missione non successe nulla. “La domanda è: cosa sono? Quali sono le loro intenzioni e quali le loro capacità?” si è chiesto Loue Elizondo, il veterano americano che ha diretto il programma da 22 milioni di dollari di riconoscimento di minacce aerospaziali avanzate del Pentagono (Atip) dal 2007 al 2012. Parte del suo lavoro ad Atip era recuperare le testimonianze dirette di militari, che spesso tacevano i loro avvistamenti per paura di non essere presi sul serio. Le prove video che ha raccolto, invece, sono più difficili da ignorare. “Non siamo noi, quello lo so per certo,” ha detto a Whitaker Christopher Mellon, vice segretario aggiunto alla difesa per l’intelligence sotto i presidenti Bill Clinton e George W. Bush. Resosi conto che le testimonianze e le prove riguardanti gli Uap non venivano prese sul serio al Pentagono, Mellon decise nel 2017 (vestendo i panni di un normale civile) di ottenere e spedire quei video, opportunamente declassificati da Elizondo, al New York Times. Nel 2020 il Pentagono ne ha confermato l’autenticità. “Ciò che [il Pentagono] sta riconoscendo è che ci sono davvero velivoli che stanno violando lo spazio aereo interdetto. Questo accade e continua ad accadere, e non sappiamo da dove vengano, e non capiamo la tecnologia”, ha detto Mellon a 60 Minutes. Oggi i membri delle forze armate americane sono incoraggiati a condividere testimonianze e prove di avvistamenti. Nel 2020 il sottosegretario alla difesa David Nordquist ha creato all’interno della Marina una piccola task force incaricata di studiare gli Uap. E il senatore Marco Rubio, vicepresidente della commissione di intelligence del Senato americano, si sta battendo affinché un rapporto governativo sulla materia, in uscita a giugno, venga declassificato e mostrato al Congresso americano. Secondo Rubio la questione deve essere trattata con più serietà; “non possiamo permettere che lo stigma (associato agli Ufo, ndr) ci impedisca di avere una risposta a una domanda fondamentale […] voglio poter contare su un processo per analizzare i dati ogni volta che arrivano”, ha detto a Whitaker. “Forse la risposta è molto semplice. Forse no”.

Da "ilmessaggero.it" il 15 maggio 2021. Gli Ufo sono tra noi. Nuovo video di un “incontro ravvicinato” durante una esercitazione militare della Marina americana, al largo di San Diego. Il video, fatto circolare da Jeremy Corbell, un noto ricercatore di fenomeni del genere e documentarista, mostra un oggetto sferico che segue da vicino una nave da guerra, la USS Omaha. Si tratta del secondo video che riguarda i fatti apparentemente inspiegabili occorsi durante le esercitazioni del luglio 2019, e che sarebbero stati registrati - conferma il Pentagono - dai marinai a bordo.  Nelle immagini si vede un piccolo oggetto rotondo, che vola sopra l’oceano, e che dopo alcune evoluzioni si inabissa improvvisamente. “Guarda, si avvicina - dice una voce mentre il video viene registrato - ora si è inabissato!” Luis “Lue” Elizondo, un ex ufficiale dei serivizi del Pentagono, che utilizza le sue credenziali per studiare i documenti del Pentagono sugli oggetti volanti non identificati, ha detto al New York Post che gli Ufo sono in grado di viaggiare indistintamente nello spazio, nei cieli e anche di navigare sott’acqua. Il video è stato girato con uno smartphone dentro al Combat Information Center della nave, una particolare sezione soggetta a norme di massima segretezza, e dove quindi anche i cellulari non sono ammessi. Il documentarista Jeremy Corbell ha detto all’emittente FOX 8 che, in seguito, un sottomarino è andato in profondità per cercare l’oggetto misterioso che si era inabissato, ma senza riuscire a trovarlo. Le esercitazioni navali coinvolgevano tre navi da guerra provenienti dall’area di San Diego, che hanno registrato diverse incursioni di oggetti volanti hanno seguito a lungo le unità americane. In uno di questi episodi, un Ufo (o qualunque cosa fosse) ha seguito un cacciatorpediniere per novanta minuti, come è stato scrupolosamente scritto nel diario di bordo. Gli episodi inspiegabili sono andati avanti per parecchi giorni.

Gran Bretagna, la testimonianza choc di una 50enne: "Rapita dagli alieni 52 volte, i miei lividi lo provano". Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. "Rapita 52 volte dagli alieni": una donna di Bradford, nello Yorkshire in Gran Bretagna, ha raccontato in un'intervista al Mirror le sue esperienze paranormali. "Succede e basta. Tutto quello che posso fare è andare avanti normalmente, altrimenti impazzirei", ha detto, mostrando come "prova" dei rapimenti alcuni lividi provocati - a suo dire - durante gli incontri extraterrestri. La signora, che si chiama Paula Smith e ha 50 anni, ha rivelato di essere stata a contatto con gli alieni per la prima volta quando era solo una bambina. Poi l'esperienza si è ripetuta più di 50 volte. Per rendere il suo racconto credibile anche ai più scettici, la donna ha disegnato un'immagine di un alieno d'argento e ha sostenuto anche di essere stata all'interno di un Ufo. E lì gli extraterrestri le avrebbero mostrato la loro tecnologia, sconosciuta agli esseri umani: "Mi hanno mostrato una presentazione di paesaggi incontaminati che aveva un bellissimo fiume che poi è diventato nero. Il cielo blu è diventato rosso sangue e presto ho capito che era un film della Terra che viene distrutta dall'avidità dell'uomo". Dopo quell'episodio, Paula ha raccontato di essere tornata a casa con un livido triangolare sul viso e segni di impronte digitali sul braccio. Parlando della sua "prima volta", la donna ha detto: "Era il 1982. Ero nel bosco ed era completamente silenzioso. Il sentiero si è stretto e ho sentito il mio cuore battere forte. Ricordo di aver guardato nell'oscurità mentre i miei occhi si abituavano. Potevo vedere quella che sembrava una forma boomerang con un braccio in più su di essa. Ogni braccio aveva una luce all'estremità. Ricordo tre luci, una era blu, l'altra verde, ma non riesco a ricordare il colore dell'altra luce. Potrei descriverla meglio come la pala di un'elica di un aeroplano. Era alta circa 30 piedi e larga 30 piedi". E ancora: "Ricordo di aver provato a correre ma sembrava che il terreno fosse fatto di sabbie mobili, poi tutto è diventato nero. Secondo la mia famiglia, ero scomparsa da quattro ore, ma  non ricordo cosa sia realmente accaduto. Da allora, le esperienze non si sono fermate. Sono stata portata via dalla finestra della mia camera da letto e dal mio letto".

DA “Adnkronos” il 5 maggio 2021. Gli avvistamenti Ufo negli archivi delle forze armate italiane: gli ufologi del Cun elogiano la 'trasparenza' dell'Aeronautica militare, che rende note le segnalazioni di oggetti volanti non identificati giunte dai cittadini, che fanno parte della casistica raccolta dal Reparto Generale Sicurezza dello Stato Maggiore. In particolare, per quanto riguarda gli ultimi due anni, sono state catalogate finora 9 segnalazioni: il 5 gennaio del 2019 a Cremosano (Cr), viene avvistato un oggetto "scuro nella zona superiore, illuminato in quella inferiore", di forma "sferica", muoversi a bassa quota e a velocità "sostenuta" da sud a nord. "L'evento non è stato associato ad attività di volo o di radiosondaggio ed è stato pertanto catalogato come oggetto volante non identificato", registra l'Aeronautica. Sempre a gennaio 2019, il giorno 25 alle 16.57, un 'privato cittadino' nota in cielo a circa 500 metri di quota, un oggetto dalla "forma allungata con spigolature" che vola "da nord ovest direzione sud est" a velocità "bassa e costante con spostamento orizzontale veloce verso sinistra". Qualche mese più tardi, la mattina del 4 giugno, è la volta di un 'ufo' grigio di forma circolare avvistato al Passo della Futa. Neanche una settimana più tardi, il 10 giugno, a Soveria Mannelli (Cz) viene avvistato un oggetto volante di forma "allungata" di colore "bianco tendente al giallastro" che vola a bassa quota verso ovest. Il 16 agosto intorno alle 22.30, a Cornate d'Adda (Mi), di oggetti ne vengono avvistati due in una volta sola: il primo di circa 50 metri, il secondo di 30, sferici, che illuminano la notte con il loro "colore arancione e bianco intenso" mentre si spostano lentamente in cielo. Ultimo avvistamento registrato del 2019, un oggetto volante descritto come una sorta di "sigaro" notato in cielo alle 13.05 del 25 novembre a Castellone (Cr) mentre si dirigeva verso nord con una velocità "costante tipo aereo a elica". Nel 2020 negli archivi dell'Aeronautica militare vengono registrate due segnalazioni: la prima il 18 luglio, a Cerchiate di Pero (Mi), con un oggetto di "forma sferica irregolare", di colore "bianco intenso e sul finire rossastro" che si muove con "continui cambi di direzione". Alle prime luci del 2 agosto, a Milano Marittima (Ra), sono le 5.45 quando un cittadino avvista in cielo una sfera di colore giallo allontanarsi "in direzione nord". Per quanto riguarda quest'anno, finora si registra una sola segnalazione, relativa all'avvistamento, il 14 gennaio scorso a Bernareggio (Mb), di un oggetto "bianco e nero" di forma "irregolare obliqua" che si muoveva "in direzione sud est". "Mentre negli Stati Uniti continua l’attesa per la pubblicazione da parte degli enti di intelligence del rapporto sugli Uap/Ufo previsto dalla legge di autorizzazione per le attività di intelligence, il Cun e il Cifas ricordano che l’Italia nel 2001 è stato il primo paese al mondo a rendere pubblicamente disponibili i dati militari sugli avvistamenti di oggetti volanti non identificati", dicono Roberto Pinotti, presidente del Cun (Centro Ufologico Nazionale) e Vladimiro Bibolotti, del Cifas (Consiglio della Federazione Internazionale di Studi Avanzati), definendo "encomiabile l'impegno di trasparenza" dell'Aeronautica. Cun e Cifas "auspicano che la pubblicazione del previsto rapporto negli Stati Uniti possa avere significative conseguenze per il riconoscimento del fenomeno degli Oggetti Volanti Non Identificati, e confidano che tali conseguenze saranno positivamente recepite anche in Italia". In seguito all'ondata di avvistamenti di oggetti volanti non identificati del 1978, l’allora Presidente del Consiglio Giulio Andreotti "designò l’Aeronautica Militare quale Organismo Istituzionale deputato a raccogliere, verificare e monitorizzare le segnalazioni inerenti gli Ovni. Attualmente -spiegano all'Aeronautica- tale attività viene svolta dal Reparto Generale Sicurezza dello Stato Maggiore Aeronautica" allo scopo "di garantire la sicurezza del volo e nazionale".

Dagotraduzione dal Dailymail.com il 13 aprile 2021. Il Pentagono ha confermato che le immagini e i video in cui si vedono oggetti volanti non identificati in volo sulle navi da guerra della Marina al largo della costa della California nel 2019 sono reali e sono state scattate da personale militare. La conferma arriva una settimana dopo che l'ammiraglio Michael Gilday, il capo delle operazioni navali, ha ammesso di non conoscere l’origine dello sciame di misteriosi droni. Le foto sono trapelate da un'indagine della UAP Task Force del Pentagono sugli UFO. Le immagini, ottenute dal regista Jeremy Corbell, mostrano oggetti non identificati che volano sopra quattro cacciatorpediniere statunitensi, tra cui il cacciatorpediniere della USS Kidd Navy. Uno degli oggetti sembra avere la forma di una piramide, mentre gli altri somigliano a droni o palloncini. Per la Marina si tratta di oggetti sconosciuti. The Drive, che ha ottenuto i registri delle navi, le e-mail interne dalla Marina e le descrizioni dei testimoni oculari del personale a bordo, ha stabilito che gli oggetti non identificati avevano una capacità aeronautica molto maggiore rispetto a qualsiasi drone precedentemente noto.

LA RICOSTRUZIONE. Secondo la ricostruzione di The Drive, la notte del 14 luglio 2019, poco prima delle 22, l’USS Kidd ha avvistato due droni. Pochi minuti dopo, il mezzo militare è passato in modalità silenziosa, riducendo al minimo le comunicazioni. Altri cacciatorpediniere della Marina, di pattuglia nelle vicinanze, hanno visto le stesse luci, e la nave da guerra USS Rafael Peralta, con a bordo personale dell’intelligence, ha scattato alcune foto. Alle 23.23, la USS Rafael Peralta ha notato una luce bianca sospesa sulla pista di atterraggio. L’oggetto è rimasto lì per quasi 90 minuti, dimostrando capacità tecnologiche superiori a quelle dei droni disponibili in commercio. La notte successiva, gli oggetti sono tornati, questa volta mentre le navi da guerra stavano pattugliando una zona più vicina alla terraferma californiana. I registri a bordo della USS Russell hanno mostrato che i droni brulicavano dappertutto, ed erano capaci di scendere da 1000 a 700 piedi velocemente e di muoversi in qualsiasi direzione. Stessa avventura per le altre navi nei dintorni: la USS Rafael Peralta è stata avvicinata da 4 droni, la Uss Kid ne ha visti “più” di uno aggirarsi intorno all’imbarcazione, e anche una nave da crociera di passaggio, la Carnival Imagination, ne ha contati sei. Per tre ore, fino a quasi mezzanotte, questi oggetti hanno continuato a volare intorno alle navi, ma nessuno è stato in grado di dire con certezza da dove provenissero. L'avvistamento ha misteriosi parallelismi con precedenti incontri con gli UFO, in particolare con un incidente del 2004 durante il quale sei piloti di Super Hornet entrarono in contatto con un velivolo misterioso. Sono state segnalate decine di avvistamenti simili risalenti agli anni '60, ma la maggior parte delle indagini militari statunitensi rimangono riservate. I legislatori chiedono da anni al Pentagono di aprire i suoi registri riservati sugli incontri, citando preoccupazioni per la sicurezza nazionale. A gennaio, come parte di un pacchetto di soccorso per il COVID-19, il Congresso ha stabilito che il 1 ° giugno le agenzie di intelligence statunitensi e il Dipartimento della Difesa potranno rilasciare i documenti sugli UFO e i fenomeni aerei non identificati.

DAGONEWS DA mediaite.com il 24 marzo 2021. Il senatore americano Marco Rubio ha dichiarato ai microfoni di TMZ la sua preoccupazione riguardo la possibilità di avvistamenti di UFO vicino ad alcune basi militari americane. Rubio, membro del Comitato di Intelligence Americano, ha evidenziato come il governo americano dovrebbe rilasciare un rapporto in cui si dettaglia tutto quello che si sa sugli UFO. “Ci sono cose che volano intorno alle basi militari, nessuno sa cosa siano e non sono americane” ha affermato il senatore. Alla domanda se Rubio considerasse una minaccia maggiore per gli Stati Uniti la visita di alieni oppure di altri paesi come Cina, il senatore ha risposto “non sappiamo cosa siano quelle cose che volano intorno alle nostre strutture, scopriamolo”. La paura è che si tratti di potenze straniere e ostili. “Forse si tratta di un altro paese e anche in quel caso non sarebbero buone notizie”.

DAGONEWS il 22 marzo 2021. Gli Stati Uniti hanno le prove che UFO riescono a infrangere il muro del suono senza creare il boom sonico grazie a manovre che sono impossibili con le tecnologie a noi note. È quanto rivelato a Fox New da John Ratcliffe, che è stato direttore dell'intelligence nazionale di Donald Trump, parlando di avvistamenti non facili da spiegare: « Ci sono molti più avvistamenti di quelli che sono stati resi pubblici. Alcuni di questi sono stati declassificati. Quando parliamo di avvistamenti, parliamo di oggetti che hanno visto piloti della Marina o dell'Air Force, o che sono stati ripresi da immagini satellitari. Ci sono movimenti difficili da replicare per i quali non abbiamo la tecnologia. O viaggiano a velocità che supera il muro del suono senza un boom sonico. Questi fenomeni aerei non identificati sono stati osservati in tutto il mondo. Quando parliamo di avvistamenti, l'altra cosa che vi dirò è che non si tratta solo di un pilota o solo di un satellite o di una raccolta di informazioni. Di solito abbiamo più sensori che rilevano queste cose, e alcuni di questi sono fenomeni inspiegabili, e in realtà ce ne sono molti di più di quelli che sono stati resi pubblici». Le sue parole hanno aumentato la curiosità per il rapporto che dovrà essere reso pubblico: a dicembre è stato concesso al governo un termine di 180 giorni per rivelare ciò che sapeva, il che significa che il rapporto dovrebbe essere pubblicato prima del 1 giugno.

Ufo, il report pesantissimo degli 007 americani: "Esistono, abbiamo tre video in cui eseguono delle manovre impossibili". Libero Quotidiano il 23 marzo 2021. Gli Ufo esistono. Ne è fortemente convinto l'ex direttore dell'intelligence nazionale Usa (Dni) John Ratcliffe, in carica sino al 21 gennaio sotto Donald Trump. "Gli Stati Uniti possiedono prove segrete che gli Ufo hanno infranto la barriera del suono senza emettere un 'boom sonico', oltre ad aver compiuto manovre da fantascienza, impossibili da imitare con le tecnologie umane conosciute", ha raccontato per poi scendere nei dettagli di quella che a suo dire è una certezza: "Abbiamo molti più avvistamenti di quelli che rendiamo pubblici e molti di questi 'incidenti' non hanno una spiegazione logica. Avrei voluto regalare ai cittadini un rapporto declassificato prima che finisse il mio mandato, ma non è stato possibile". Nonostante questo gli Stati Uniti non attenderanno molto prima di svelare tutto. A giugno infatti è atteso il super dossier sugli extraterrestri. "Quando parlo di avvistamenti difficili da spiegare - ha poi precisato Ratcliffe alla Fox News -, mi riferisco a oggetti segnalati da piloti della Marina o dell'Air Force, quindi più di uno, oppure raccolti da satelliti dotati di sensori super precisi. Questi fenomeni aerei, tra cui il superamento della velocità del suono senza passare per la barriera del suono, sono stati visti in tutto il mondo". Un obiettivo che si è posto anche il suo successore, il nuovo direttore dell'intelligence nazionale Avril Haines. Al vaglio ci sono tre video della Marina Usa (catturati dai Super Hornets della Marina FA-18) rilasciati lo scorso anno grazie al Freedom of Information Act.  Le immagini parlerebbero chiaro: tre Ufo eseguono manovre apparentemente impossibili a velocità incredibili. Un fenomeno che colpisce anche il nostro Paese. In Italia gli avvistamenti sono in crescita negli avvistamenti. Nel 2020, l'anno della pandemia, il Cun (Centro ufologico nazionale) ha ricevuto 380 segnalazioni, con un incremento del 57 per cento.  

Paolo Mastrolilli per "La Stampa" il 23 marzo 2021. Gli Ufo esistono, le forze armate americane li hanno avvistati e registrati, e dal primo giugno tutto il mondo li vedrà. A dirlo non è un visionario qualunque, ma l'ex direttore dell'intelligence nazionale americana John Ratcliffe, che ha dato la conferma durante un'intervista con la Fox News. Per Ufo naturalmente si intendono gli oggetti volanti non identificati, e quindi non c'è la certezza che al loro interno ci fossero gli alieni a pilotarli. Però il sospetto che dimostrino l'esistenza di forme di vita diverse e superiori alle nostre è forte, anche perché lo stesso Ratcliffe ammette che alcuni dei fenomeni osservati «sono difficili da spiegare con le tecnologia a nostra conoscenza». Nel dicembre scorso l'ex presidente Trump aveva firmato una legge che stanziava 2,3 trilioni di dollari per mitigare gli effetti del Covid. Il testo conteneva anche l'Intelligence Authorization Act del 2021, che tra le altre cose ordinava al Pentagono di produrre entro il primo giugno un rapporto sugli "unidentified aerial phenomena", ossia i fenomeni inspiegabili avvistati nell'aria. Lo scopo era verificare se i nemici degli Stati Uniti avessero sviluppato sistemi d'arma che mettono a rischio la sicurezza nazionale, e quindi le eventuali minacce poste da Cina, Russia, o chissà che altro. Nel calderone della ricerca però c'è finito tutto quanto di strano abbiano avvistato i piloti, e secondo Ratcliffe «esistono situazioni dove non abbiamo una buona spiegazione per alcune delle cose viste». In altre parole, oggetti volanti che conducevano manovre impossibili per gli esseri umani, o comunque non compatibili con le tecnologie a disposizione degli abitanti del pianeta Terra, di qualunque nazionalità. L'anno scorso erano già stati pubblicati alcuni video sorprendenti, ripresi nel novembre del 2004 e nel gennaio del 2015, identificati in codice come "FLIR1", "Gimbal" e "GoFast". Li avevano registrati i piloti degli F/A - 18 Super Hornets della Navy, che non erano riusciti a trattenere il loro stupore. Secondo Ratcliffe, però, quelli erano niente: «Ci sono stati avvistamenti in tutto il mondo. E quando parliamo di avvistamenti, non si tratta solo di un pilota o di un satellite che fa sorveglianza per l'intelligence. In genere abbiamo sensori multipli che raccolgono queste cose». In altre parole, i fenomeni sono ben documentati, e non possono essere attribuiti all'errore di un essere umano che aveva le traveggole o magari li guadava sotto l'influenza di alcool: «Il rapporto conterrà molte cose difficili da spiegare». Magari non vedremo le foto dei marziani venuti a spiarci, ma fenomeni ignoti anche alla scienza. E se la scienza non riuscirà a decifrarli, ogni fantasia e ogni paura diventerà lecita.

Ufo, tutti i documenti della Cia sono online (e spunta anche il criminale di guerra Radovan Karadzic). Alessio Lana su Il Corriere della Sera il 15/1/2021. Avvistamenti strani, apparizioni sospette, incontri del terzo tipo. Gli Ufo hanno alimentato gran parte della dietrologia contemporanea ma ora diventano molto più «identificati». Grazie a un enorme lavoro di raccolta, un sito ha messo a disposizione di tutti il ricco archivio della Cia sugli Uap (Unidentified Aerial Phenomena, Fenomeno aereo non identificato), una sigla che ha ormai preso il posto di Ufo (Unidentified Flying Object, Oggetto volante non identificato) nel linguaggio burocratico Usa. La vasta mole di documenti, 2.780 pagine, è stata riversata online da The Black Vault, un sito che per nome e grafica strizza l'occhio al mistero. Sembra quasi l'archivio riservato di Mulder e Scully di X-Files (manca solo una musichetta d’atmosfera) e, una volta entrati, ci troviamo di fronte a una lunghissima lista di Pdf che possiamo leggere direttamente o scaricare. Le scansioni sono spesso di bassa o bassissima qualità ma generalmente leggibili anche se molteplici omissis coprono con il loro manto nero nomi, luoghi e altri elementi identificativi.

Oltre 25 anni di ricerche. Lo sbarco online ha seguito un lungo percorso durato 25 anni. Il fondatore di The Black Vault, John Greenewald Jr., ha raccontato che per ottenere i documenti sono state necessarie circa diecimila richieste FOIA (Freedom Of Information Act) che negli Stati Uniti, come anche in Italia e in altri cento Paesi del mondo, garantiscono al cittadino la possibilità di richiedere dati e documenti alle pubbliche amministrazioni senza dover dimostrare di possedere un interesse qualificato (Sempre che non compromettano interessi pubblici o privati rilevanti indicati dalla legge). «Ho ricevuto i documenti in uno scatolone», racconta Greenwald che da vent'anni si batte per avere accesso a questa mole di dati, «erano circa duemila pagine e l'ho dovute scansionare una per una». Nel frattempo poi l’agenzia Usa aveva rilasciato un Cd-Rom con tutti i rapporti desecretati: Greenwald lo ha comprato per essere certo di avere davvero tutto nel suo archivio.

Saranno tutti? Come in ogni storia sugli Ufo (o Uap, che dir si voglia) non manca il mistero, quel pizzico di dietrologia che mette un po' di pepe a ogni narrazione fantascientifica che si rispetti. Tutti i documenti pubblicati sono ovviamente declassificati e pubblici. Inutile sperare di trovarvi qualcosa di segreto. The Black Vault però non manca di sottolineare che sebbene la Cia affermi di aver reso disponibili tutto ciò che è i suo possesso non c'è alcun modo di verificare questa affermazione né di sapere se ce ne sono altri da qualche parte. Chissà. Mentre la ricerca continua possiamo vedere i misteriosi video pubblicati dal Pentagono nell’aprile scorso o compulsare queste 2.780 pagine che coprono mezzo secolo di storia. Vi avvertiamo, vi si trova un po' di tutto, dalle misteriose esplosioni avvenute in Russia nel 1991 (Una bomba? Un meteorite? Un Ufo?) alla latitanza di Radovan Karadzic, l’ex presidente serbo-bosniaco poi condannato per crimini di guerra. Leggendo queste tre pagine in formato A4 si fatica a capire perché l'uomo che guidò il massacro di Srebrenica sia finito tra i documenti «alieni» ma poi la spiegazione è semplice. È un errore. Per esprimere il suo stupore circa l'incapacità del Pentagono di catturare un elemento del genere, l'autore del testo afferma che i militari Usa «riescono a comunicare costantemente con gli extraterrestri, per loro non ci sono segreti sul nostro pianeta». Era solo un'iperbole, insomma, altro che E.T.

Massimo Basile per “la Repubblica” il 15 gennaio 2021. Dischi volanti, astronavi simili a palloni sgonfi, sfere luminose, oggetti dalla forma di medusa con luci laser. Gli alieni sono tra noi, o quasi. Migliaia di documenti della Cia sugli Ufo, oggetti volanti non identificati, sono stati pubblicati questa settimana in un cd-rom che, secondo gli 007 americani, conterrebbe tutti i report di avvistamenti nel mondo degli ultimi settant'anni. I documenti sono consultabili online sul sito The Black Vault, fondato da un ostinato cacciatore di Ufo, John Greenewald Jr, 39 anni, uno che dal '96, quando aveva 15 anni, martella la Cia di richieste. Alla fine ha ottenuto quello che voleva. I file, scaricabili, contengono più di 2.700 pagine di report stilati fin dagli anni 50 da collaboratori dei Servizi. La maggior parte dei documenti, ammette lo stesso Greenewald, non è verificata. Alcuni report sono illeggibili o con parti oscurate, ma leggendoli emergono scenari che sembrano tratti dalla serie televisiva "Ufo" degli anni 70 in cui il colonnello Straker aspettava l'arrivo degli extraterrestri in un futuristico 1980. Il 4 ottobre '55 viene avvistato a Baku, Azerbaijan, un oggetto simile a un «pallone un po' sgonfio», con luce nella parte superiore, che si muove lentamente sopra l'orizzonte. Un «disco volante» appare il 22 ottobre '59 in Ucraina, un altro in Argentina il 25 maggio '62. «Sfere con luci rosse, verdi e gialle volavano in formazione», sopra le isole Orkney, nell'arcipelago scozzese. Un oggetto «a forma di medusa, che irradiava luce» avvistato in Carelia, Russia. Ai Caraibi nell'87, a Guangzhou, in Cina, nel '92. L'aereo "fantasma" visto in Corea del Sud, pochi mesi dopo. Tra i testimoni, molti piloti di linea. Arriviamo agli anni Duemila. In uno di questi report, sotto l'annotazione della visita del presidente russo Vladimir Putin in Mongolia, si legge al punto 11: «Avvistato un Ufo in Daghestan». Così, senza aggiungere altro. Ma prima di arrivare a frettolose conclusioni, sappiate che a Washington da tempo prendono sul serio il tema. Ad aprile il dipartimento della Difesa ha diffuso tre video che registravano avvistamenti radar di Ufo da parte di jet militari americani. L'ex senatore americano Harry Reid ritwittò i video, scrivendo: «Gli Stati Uniti devono prendere sul serio questa potenziale minaccia alla sicurezza nazionale». Ad agosto la Difesa ha creato una taskforce con il compito di «individuare, analizzare e catalogare» Ufo che «potrebbero rappresentare una minaccia». A dicembre la commissione Intelligence del Senato ha chiesto a Pentagono e Difesa di stilare un rapporto entro sei mesi e annotare «qualsiasi legame con governi stranieri ostili», lasciando capire che dietro i "dischi volanti" potrebbero esserci forze straniere, naturalmente non troppo straniere. In uno dei report, datato 9 marzo '93, non verificato, si parla di un "flying saucer", un disco volante, assemblato dai russi negli impianti di Saratov, con una «capacità di ospitare da 20 a 2.000 passeggeri». Due anni prima, sempre in Russia, il passaggio di un oggetto non identificato, a «velocità supersonica», aveva provocato una specie di terremoto, senza lasciare feriti, ma devastando le finestre di interi quartieri della città di Sasovo. Nessuno ha mai capito cosa fosse. Alieni o agenti del Cremlino, il dubbio per ora resta.

Desecretati documenti della Cia: pubblicati migliaia di avvistamenti Ufo. Ma cosa sono? Le iene News il 15 gennaio 2021. Oltre 2000 pagine pubblicate online che raccolgono mezzo secolo di avvistamenti Ufo in tutto il mondo. Con Niccolò Torielli abbiamo approfondito il tema degli avvistamenti di oggetti non identificati e di cosa questo possa significare parlando con chi lavora in questo ambito ogni giorno. Dischi volanti, oggetti a forma di palloni sgonfi, sfere colorate, sono migliaia i file della Cia che documentano avvistamenti Ufo. La raccolta comprende mezzo secolo di report di avvistamenti: dagli anni ’50 fino a dopo il 2000. I documenti sono online e sono accessibili a tutti sul sito The Black Vault. Si tratta di 2780 pagine: i casi segnalati sono tantissimi, molti dei quali non verificati. La notizia, non stupisce, ha catturato l'attenzione di tutti. Si tratta di un argomento, quello degli avvistamenti Ufo, che da sempre attira la curiosità delle persone, portando con sé domande enormi: esistono altre forme di vita nell'Universo? Possiamo entrarci in contatto? Di avvistamenti di oggetti non identificati e di cosa questo possa significare ci siamo occupati anche noi, nel servizio di Nicolò Torielli che potete vedere qui sopra. Vi abbiamo mostrato alcuni video resi pubblici nel 2019 dalla Marina Militare americana, che ne ha certificato l’autenticità: ha quindi confermato che i video non sono stati manomessi e che non si sa cosa siano gli oggetti ripresi, il che non vuol dire che i video mostrino navi aliene. Del resto la stessa parola Ufo sta per “Unidentified Flying Object”, ovvero “Oggetto volante non identificato”. “Chiunque conosca la grandezza del cosmo non può escludere la probabilità di altre forme di vita altrove”, ha detto Paola Catapano, della comunicazione scientifica del Cern di Ginevra, alla Iena. Al Cern centinaia di scienziati studiano il cosmo e la materia che lo compone. “Jim Peebles, che ha ricevuto il premio Nobel per la fisica nel 2019, ha detto che sicuramente c’è vita aliena”, continua Paola Catapano. “Ma l’Universo è talmente sconfinato che la probabilità di avere un contatto e quindi di avere la certezza che questa vita ci sia è molto molto difficile. Siamo andati con le sonde Voyager oltre i confini del  sistema solare. Abbiamo osservato con telescopi pianeti extrasolari simili alla Terra che girano intorno a un sole, però non è arrivata nessuna forma di vita simile alla nostra”. E a proposito dei video della Marina americana che abbiamo mostrato nel servizio dice: “Sono dei video… Potrebbe essere qualsiasi cosa, non c’è nessuna prova che sia null'altro che un oggetto non identificato. Per dire che c’è un extraterrestre bisognerebbe avere se non altro un contatto. Vedendo quell’immagine io non posso dire nulla, potrebbero essere dei droni”. Uno dei filmati resi pubblici dalla Marina americana che vi abbiamo mostrato è stato realizzato nel 2004 da un caccia pilotato dal comandante David Fravor, che racconta così la vicenda: “Era il 14 novembre 2004. Non sapevamo che da 2 settimane il controllo stava monitorando degli oggetti che comparivano in cielo. Ciò che vediamo è un oggetto a forma di confettino Tic Tac poco sopra la superficie dell’acqua lungo circa 12 metri. Mentre scendiamo verso di lui l’oggetto inizia a risalire. Mentre mi avvicino lui vira, accelera e in meno di un secondo puff se ne va”. “Io dubito fortemente, anzi sono quasi certo che non si tratti di un oggetto extraterrestre”, ha commentato Umberto Guidoni, astronauta e astrofisico, intervistato dalla Iena. “Mi sembra una tecnologia terrena. Potrebbe essere un altro aereo in fase di esercitazione”. Nei documenti desecretati dalla Cia e ora online, si trova di tutto: dagli avvistamenti in Sudamerica di “dischi volanti” risalenti agli anni ’60 fino agli avvistamenti raccolti in Azerbaijan e Russia negli anni '90 e in molti altri paesi. Una questione che Washington prende molto seriamente: a fine dicembre la commissione Intelligence del Senato ha chiesto un rapporto sugli avvistamenti di Ufo che dovrà essere stilato entro sei mesi. E intanto, cresce il mistero attorno agli Ufo. 

"Cos'è quell'oggetto triangolare?": l'ultimo mistero dentro l'Area 51. Tutto quello che riguarda l'Area 51, istituita dalla Cia nel 1955, è coperto dal massimo riserbo governativo, stimolando così le fantasie sugli Ufo. Gerry Freda, Sabato 09/01/2021 su Il Giornale. Delle foto scattate il giorno di Natale nello Stato Usa del Nevada stanno dando nuova forza ai misteri e alle teorie del complotto che aleggiano da anni intorno all'Area 51. Intorno a tale base dell'aviazione americana, protetta da una stringente sorveglianza e da elevate misure di sicurezza, sono infatti maturate innumerevoli ipotesi su cosa si nasconderebbe realmente all'interno della struttura militare. Una delle tesi più esplosive è quella per cui, nella base, sarebbero conservati i corpi di alcuni extraterrestri, nonché dei rottami di navicelle spaziali. A riaccendere il mito dell'Area 51 ci ha pensato in queste vacanze natalizie Gabe Zeifman, pilota, formatore di controllori di volo e appassionato di fotografia. Egli, il 25 dicembre, ha appunto sorvolato con il suo aereo Cessna 150 privato, in tre diverse incursioni, il Nevada Test and Training Range (Nttr), ossia il complesso militare per l'addestramento dei piloti della Difesa al cui interno è ubicata l'Area 51. Egli ha anche realizzato un video in cui spiega in diretta la rotta da lui seguita per raggiungere la zona militare nel deserto. Osservando dall'alto tali insediamenti amministrati dalle forze armate e allestiti nel deserto del Mojave, Zeifman ha notato alcuni particolari strani in quella base. Nelle oltre 1000 immagini dell'Nttr scattate in volo da lui mediante strumentazione fotografica di alta qualità risaltano infatti dei dettagli inconsueti, adatti a ridare fiato ai seguaci di teorie complottiste e ai sostenitori dell'esistenza della vita aliena. In particolare, in un'istantanea realizzata dal pilota citato si può vedere il complesso principale dell'Nttr e, a sud di quest'ultimo, risalta un hangar, che sembra essere l'unico aperto in tutta quella sezione dell'insediamento. Proprio dentro tale hangar si scorge un oggetto misterioso, apparentemente molto grande e di struttura triangolare. Dopo la pubblicazione dello scatto incriminato sono subito fioccate diverse ipotesi sulla natura di quel grosso triangolo, su cui persisterà un'aura di assoluto mistero, data la massima segretezza osservata dalle autorità militari su tutto ciò che riguarda l'Area 51. Di tale base top-secret si sa solo che fu istituita direttamente dalla Cia nel 1955, con l'obiettivo di sviluppare lì gli aerei-spia U2 e di testare aerei super-segreti sperimentali. Sempre in tema di presunti file ultra-riservati in possesso del governo Usa circa gli alieni, il Pentagono ha reso pubblici ad aprile dei video di apparenti avvistamenti di Ufo, realizzati da piloti della Marina statunitense durante ricognizioni risalenti ad anni diversi.

"Oumuamura è la prova che gli alieni esistono": la tesi shock dell'astrofisico. Secondo Abraham "Avi" Loeb, scienziato israeliano-americano di fama internazionale che si occupa di astrofisica e cosmologia, "Oumuamura", oggetto misterioso avvistato nel 2017, sarebbe la prova dell'esistenza degli alieni. Roberto Vivaldelli, Martedì 05/01/2021 su Il Giornale. No, non siamo in una puntata di X-Files o in un film di Ridley Scott: gli alieni sono già stati qui, sul pianeta Terra, e potrebbero essere già tra noi. Abraham "Avi" Loeb, scienziato israeliano-americano di fama internazionale che si occupa di astrofisica e cosmologia, Professore di Scienze presso l'Università di Harvard, svela nel suo nuovo libro Extraterrestrial: The First Sign of Intelligent Life Beyond Earth che gli alieni sarebbero transitati nel nostro universo nel 2017. La prova? L'oggetto non identificato soprannominato Oumuamura - parola hawaiana che significa "esploratore" - avvistato in quel periodo. Le dichiarazioni di Loeb arrivano poco dopo quelle di Haim Eshed, ex-capo della sicurezza spaziale di Israele, il quale ha assicurato che il suo Paese e gli Stati Uniti sono in relazione con una "federazione galattica": Eshed, 87 anni, ha detto di non avere "niente da perdere" prima di aggiungere che "gli oggetti volanti non identificati hanno chiesto di non pubblicare che sono qui, l'umanità non è ancora pronta".

Il mistero di "Oumuamura" continua: la tesi di Loeb. Ma torniamo alla tesi di Loeb. Il professore chiarisce la sua teoria in un'intervista rilasciata al New York Post: "Cosa sarebbe successo se un uomo delle caverne avesse visto un cellulare? Avendo visto pietre tutta la vita, avrebbe pensato ad una pietra scintillante. Certa gente non vuole discutere della possibilità che ci siano altre civiltà là fuori, credono che siamo speciali e unici. Io credo che sia un pregiudizio che dobbiamo abbandonare" ha dichiarato. Benché la maggior parte degli scienziati sostiene che "Oumuamura" sia una cometa, secondo Loeb si tratterebbe di "spazzatura" abbandonata da una specie aliena, scarto probabilmente di qualche astronave che vaga nello spazio chissà da quanto. Come riporta La Stampa, "Oumuamura" era almeno da cinque a dieci volte più lungo di quanto fosse largo e aveva la forma di un sigaro. "Questo rende la sua geometria più insolita di almeno un paio di volte in proporzione rispetto agli asteroidi o comete più estremi che abbiamo mai visto", scrive Loeb. Inoltre, era anche insolitamente brillante, almeno "dieci volte più riflettente dei tipici asteroidi o comete del Sistema solare" e la sua superficie era più simile a metallo lucido che a roccia. "L'unico modo per cercare [civiltà aliene] è cercare la loro spazzatura, come i giornalisti investigativi che guardano nella spazzatura delle celebrità", ha detto Loeb. Naturalmente, non tutti nella comunità scientifica sono d'accordo con la sua teoria. Nel luglio 2019, il team "Oumuamura" dell'International Space Science Institute ha pubblicato un articolo su Nature Astronomy nel quale spiegava che non vi erano "prove convincenti" per determinare se Oumuamua fosse un oggetto "alieno". Tuttavia, secondo Loeb gli scettici che provano a dimostrare l'origine "naturale" dell'oggetto misterioso forniscono spiegazioni del tutto insufficienti. "Qualunque sia la verità - osserva il New York Post - la posta in gioco è alta".

Che cos'è "Oumuamura". In effetti, ci sono molte cose che non tornano rispetto all'avvistamento di Oumuamura. Come spiega Business Insider, in un primo momento si pensava fosse un asteroide arrivato da un altro sistema solare, ma la sua velocità e traiettoria non ne giustificavano le caratteristiche: poi si è parlato di cometa, ma anche questa ipotesi è stata smentita da molti scienziati in quanto non si sono osservate tracce di coda; infine si è ipotizzato che l’oggetto interstellare fosse un oggetto ghiacciato composto solo da idrogeno molecolare (ossia fatto di molecole composte da due atomi di idrogeno) - ma Loeb, e non solo lui, contesta questa tesi. Infatti, quella nube non avrebbe potuto dare vita ad un iceberg di idrogeno molecolare tale da farlo viaggiare intatto nello spazio per così lunghe distanze. C'è un'altra stranezza in Oumuamura che gli scienziati non riescono a spiegarsi, come rileva la rivista Le Scienze: Il telescopio spaziale Spitzer non ha rilevato alcun calore sotto forma di radiazione infrarossa provenire da Oumuamura. Data la temperatura della superficie, determinata dalla traiettoria di Oumuamura vicino al Sole, questo impone un limite superiore alla sua dimensione di centinaia di metri. Considerato questo limite dimensionale, Oumuamura deve essere insolitamente brillante, almeno dieci volte di più dei "normali" asteroidi osservati nel sistema solare. E se davvero avesse ragione Loeb? Oppure si tratta di un'astutissima strategia di marketing per vendere qualche copia in più del suo libro?

·        Il Triangolo delle Bermuda.

Aereo scomparso in Sicilia, il mistero nel triangolo delle Bermude dei cieli italiano. Libero Quotidiano il 17 agosto 2021. Un aereo scompare nel nulla nei cieli del triangolo delle Bermude italiano, al largo della Sicilia. A bordo ci sono Bepi Cajozzo e due piloti milanesi. L'aereo è il Myster, siamo nel febbraio del 1978. A quarant'anni dalla vicenda c'è chi pensa che Bepi sia ancoa vivo, in qualche paradiso terrestre. Magari insieme ai due che erano con lui sul piccolo jet privato. A ricordare questo caso misterioso è Repubblica. Il velivolo privato era sparito tra Ustica e Palermo nel pomeriggio di giovedì 22 febbraio 1978, quasi due anni prima della tragedia del Dc 9 dell'Itavia, sulla stessa rotta e sullo stesso tratto di mare. I resti dell'aereo Myster non sono mai stati trovati. E' come se il velivolo - un jet costoso e moderno capace di volare a 900 chilometri orari e a 12mila metri, si fosse smaterializzato. Il mezzo era costato un miliardo e 800 milioni di lire. Un prezzo che poteva permettersi il costruttore palermitano Francesco Maniglia, proprietario, appunto, dell'aereo scomparso. Alle 16,08 il jet con Bepi Cajozzo, Antonio Marchese ed Ernesto Carcano, tutti trentenni, è un puntino sullo schermo radar dello scalo di Punta Raisi. Sta tornando da Roma dove ha lasciato Francesco Maniglia. Ma in un istante il puntino che segna la rotta del Myster sparisce all'improvviso dai radar per non riapparire più. Ma può un aereo sparire così nel nulla, senza lasciare traccia? Secondo gli esperti se l'impatto avviene con una certa angolazione con la superficie del mare, l'aereo entra in acqua e si inabissa. Poi però resta sul fondo del mare. E invece quella zona scandagliata in lungo e in largo non mostra relitti. Quindi il Myster non è mai caduto? O qualcuno nascosto il relitto? 

"Tutto strano, pure l'oceano". Cosa accadde nel triangolo delle Bermuda? Mariangela Garofano il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Nel dicembre del 1945 cinque aerei della marina statunitense decollano per un'esercitazione di routine, per non fare mai più ritorno. Tutti e cinque gli aerei scompaiono nel nulla, nell'area nota come Triangolo delle Bermuda. "Non riusciamo a trovare l'Ovest. È tutto sbagliato. Non possiamo essere sicuri di nessuna direzione. Tutto sembra strano, anche l'oceano". A pronunciare queste parole confuse è il tenente Charles Carroll Taylor, esperto aviatore, a capo della missione “Problema di navigazione n° 1”. Durante la missione scompariranno nel nulla, nel Triangolo delle Bermuda, tutti i 14 aviatori prendenti parte all’esercitazione. È il 5 dicembre 1945 e cinque aerosiluranti Grumman Tbf Avenger decollano dalla base di Fort Lauderdale per un’esercitazione che prevede bombardamento e navigazione, con l’obiettivo di valutare la capacità di navigazione e le operazioni di combattimento degli allievi. Al momento del decollo degli aerei le condizioni meteo sono buone, l’esercitazione inizia quindi senza intoppi, e per un’ora tutto procede come previsto.

L’incidente. Dopo circa un’ora qualcosa inizia a non andare per il verso giusto. Le conversazioni tra i piloti sono rintracciabili sia da terra che da eventuali altri velivoli in volo. Ed è così che il tenente Robert F. Fox, a capo di una missione analoga a quella di Taylor e dei suoi allievi, capta un messaggio. “Non so dove siamo. Dobbiamo esserci persi dopo l'ultima virata”. La voce è di un certo Powers, uno degli aviatori del volo 19, che si rivolge a un altro pilota. Fox a questo punto intuisce che c’è un problema e chiede a Powers di identificarsi. “Qui è Ft-74, prego aereo o nave chiamato 'Powers' di identificarsi in modo da potervi dare aiuto”. Dopo una serie di messaggi da parte del tenente Fox per sapere cosa succede, ecco arrivare la risposta da parte di Taylor, visibilmente confuso e preoccupato. “Entrambe le mie bussole sono andate e sto tentando di trovare Fort Lauderdale, Florida. Sono sopra la terraferma ma è interrotta. Sono sicuro di essere alle Keys, ma non so a che altitudine e non so come raggiungere Fort Lauderdale”. Com’era possibile che un pilota esperto come Taylor, che aveva sorvolato quei cieli innumerevoli volte, si trovasse in quella situazione? Cosa stava succedendo? Verso le 18 il tempo peggiora e le comunicazioni con Taylor e la sua flotta si fanno disturbate. La base riceve stralci di conversazioni tra gli allievi di Taylor. “Sembra che stiamo entrando in acque bianche...”, afferma uno dei piloti, che prosegue esternando tutto il suo disorientamento. “Siamo completamente perduti". Questo è l’ultimo messaggio ricevuto del volo 19 della missione “Problema di navigazione n° 1”, perché da quel momento si perderanno le tracce dei velivoli per sempre. Immediatamente due Martiner Mariner si alzano in volo alla ricerca della Squadriglia 19, ma dopo poco un’altra sciagura accade nei cieli. Una petroliera riferisce di un’esplosione in cielo: si tratta proprio di uno dei Mariner partiti per dare soccorso agli aviatori. L’incidente del velivolo di soccorso causa la morte dell’intero equipaggio, composto da 13 persone.

L’indagine. Il bilancio complessivo delle perdite è di 27 persone, tutti scomparsi nel giro di poche ore. Le indagini si concentrano dapprima sul leader della missione: Charles Carroll Taylor, al quale viene imputata la responsabilità dell’incidente. Da una prima inchiesta si deduce che il pilota aveva confuso le Bahamas con le Isole Keys, guidando i suoi verso Nord-ovest e finendo il carburante. Taylor, sebbene ottimo pilota, era solito prendere iniziative personali, a volte smarrendosi, si legge nel rapporto. Dopo che la madre del pilota accusa la marina militare di aver dato la colpa dell’incidente al figlio senza aver ritrovato i corpi e gli aerei, il rapporto viene modificato e la scomparsa dei velivoli viene attribuita a “cause sconosciute". Tuttavia l’inchiesta prosegue e si stabilisce che gli aerei avevano effettivamente sorvolato le Bahamas, ma che la convinzione del tenente di essere alle Keys guidò gli aerei fuori rotta, allontanandosi dalla costa.

La teoria del Triangolo delle Bermuda. Parallelamente alle indagini ufficiali, che imputarono la scomparsa dei cinque velivoli adun errore del tenente Taylor, si susseguirono una serie di teorie alternative su cosa portò quel 5 dicembre 1945 cinque aerei della marina militare a svanire nel nulla, nell’area che prende il nome di Triangolo delle Bermuda, ovvero il tratto di Oceano Atlantico compreso tra l'arcipelago delle Bermuda, Porto Rico e la Florida. A seguito delle numerose sparizioni di navi e aerei nell’area, come inghiottiti da un vortice invisibile, al Triangolo delle Bermuda venne attributa un'aura paranormale, sulla quale si sono basati libri e film, che vanno dai rapimenti alieni ai portali interdimensionali. Celebre è la citazione nel film “Incontri ravvicinati del terzo tipo” di Steven Spielberg, in cui i cinque aerei vengono ritrovati intatti nel deserto di Sonora, una zona situata al confine tra Messico e Stati Uniti.

Il primo a indagare sul mistero del volo 19 fu Allen W. Eckert, che scrisse un articolo per il magazine “American Legion”, intitolato “The Lost patrol", in cui riporta l’inquietante vicenda. Nell’articolo Eckert racconta che, dopo una serie di messaggi confusi da parte del leader Taylor, dalle registrazioni radio emerse che quest’ultimo passò il comando a uno dei suoi allievi, senza un’apparente ragione. “Senza alcuna ragione e nessun avvertimento, il leader del volo diede il comando a un altro pilota”, si legge nell’articolo, che prosegue: “Questo è di per sé una stranezza e rivela quanto la situazione fosse disperata”. Ad aggiungersi alla scomparsa degli aerei del volo 19 c’è inoltre quella del Pbm Mariner di soccorso, che ha alimentato le dicerie sulla maledizione del Triangolo delle Bermuda. Pur non essendo stato risolto il mistero, recentemente il giornalista scientifico australiano Karl Kruszelnicki ha cercato di fornire una spiegazione plausibile alle tante scomparse nel Triangolo delle Bermuda. “Siamo in una zona prossima all'Equatore e molto vicina alle coste degli Stati Uniti - ha affermato il giornalista durante un’intervista per News.com.au - mare e cielo qui sono sempre molto trafficati e lo sono stati anche in passato. Non si tratta di eventi straordinari", continua l’australiano, che attribuisce gli incidenti alle condizioni meteo avverse della zona, “perché sono avvenuti a causa di condizioni meteorologiche pessime, e qui le onde possono essere alte più di 15 metri, e hanno coinvolto vascelli vecchi e tecnologicamente arretrati anche per la loro epoca”. Le affermazioni di Kruszelnicki trovano una possibile conferma nel fatto che le onde anomale, unite alle forti correnti presenti in quell'area, potrebbero aver disorientato la Squadriglia 19 fino a far precipitare tutti e cinque gli aerei nelle gelide acque dell'Atlantico, senza possibilità di essere ritrovati. Anche recentemente il "maledetto" triangolo si è reso protagonista dell'ennesima tragedia. Un aereo con a bordo una famiglia di quattro persone di ritorno da una vacanza a Porto Rico verso la Florida, scompare a 59 chilometri dalle Bahamas, nonostante le abilità del pilota. Stessa area e e purtroppo stesso finale. Il mistero continua.

Mariangela Garofano. Il giornalismo è la mia passione fin dai tempi dell’università. Per ilGiornale.it scrivo di cronaca e spettacoli. Recensisco romanzi per alcuni blog letterari da diversi anni. Da sempre appassionata di scrittura e libri, ho svolto il lavoro di correttore di bozze. Per amore della lettura, ho gestito anche una libreria a Bologna 

·        Il Corpo elettrico.

Da "agi.it" il 14 marzo 2021. Realizzare un dispositivo indossabile a basso costo in grado di utilizzare e immagazzinare l’energia del corpo umano. Questo l’obiettivo perseguito da una ricerca, pubblicata sulla rivista Science Advances, condotta dagli scienziati dell’Università del Colorado a Boulder, che hanno sviluppato uno strumento indossabile, abbastanza elastico da essere utilizzato come anello, bracciale o qualunque accessorio a contatto con la pelle. “Il nostro dispositivo attinge al calore naturale di una persona – afferma Jianliang Xiao, docente presso il Dipartimento di ingegneria meccanica presso l’Università del Colorado a Boulder – utilizza generatori termoelettrici per convertire la temperatura interna del corpo in elettricità. L’obiettivo è quello di riuscire ad alimentare l’elettronica indossabile senza dover includere una batteria”. Il team ha realizzato un dispositivo in grado di generare circa un Volt di energia per ogni centimetro quadrato di spazio sulla pelle, inferiore rispetto al voltaggio fornito dalla maggior parte delle batterie, ma sufficiente ad alimentare dispositivi elettronici semplici come orologi o fitness tracker. Lo stesso gruppo di ricerca sta lavorando sulla realizzazione di una particolare pelle elettronica economica, flessibile, ecologica e funzionale. “Il nostro strumento può autoripararsi ed è completamente riciclabile, per cui rappresenta una valida alternativa pulita all’elettronica tradizionale – aggiunge il ricercatore – la base è costituita da un materiale elastico noto come poliammina, nella quale vengono inseriti chip termoelettrici. Il risultato sembra un incrocio tra un braccialetto di plastica e una scheda madre per computer in miniatura o forse un anello di diamanti tecnologico”. Il docente spiega che questo design rende il sistema estensibile senza introdurre troppe sollecitazioni al materiale termoelettrico, che può essere estremamente fragile. “I generatori termoelettrici sono a stretto contatto con il corpo umano e possono utilizzare il calore che normalmente verrebbe dissipato nell'ambiente – continua lo scienziato – la potenza generata può essere raggiunta semplicemente aggiungendo blocchi di generatori. In pratica si combinano le unità più piccole per ottenerne una più grande, proprio come avviene con i Lego. Questo rende il dispositivo molto personalizzabile”. Il team ha calcolato, ad esempio, che una camminata veloce potrebbe generare circa cinque volt di elettricità, più di quanto possano offrire molte batterie per orologi. “Stiamo cercando di rendere i nostri dispositivi il più economici e affidabili possibile – conclude Xiao – ci sono ancora alcuni dettagli da risolvere per quanto riguarda il design, ma nel giro di cinque o dieci anni, speriamo di poter portare sul mercato queste innovazioni”.

·        L’Informatica Quantistica ed i cristalli temporali.

Dagotraduzione dal Washington Post il 13 agosto 2021. I cristalli temporali sembrano oggetti maestosi nei film di fantascienza dove sbloccano passaggi verso universi alternativi. Nell'universo Marvel, le "pietre del tempo" danno a chi le impugna il controllo su passato, presente e futuro. Anche se questa rimane una fantasia, gli scienziati hanno creato con successo cristalli temporali su microscala per anni, non per alimentare astronavi intergalattiche, ma per energizzare computer ultrapotenti. «I cristalli temporali sono una specie di sosta sulla strada per la costruzione di un computer quantistico», ha affermato Norman Yao, fisico molecolare presso l'Università della California, Berkley. È un'area di interesse per Google, che, insieme ai fisici delle università di Stanford e Princeton, afferma di aver sviluppato un «approccio scalabile» alla creazione di cristalli temporali utilizzando il computer quantistico Sycamore dell'azienda. In un articolo pubblicato il mese scorso sulla piattaforma di condivisione della ricerca Arxiv.org , un team di oltre 100 scienziati descrive come hanno creato una matrice di 20 particelle quantistiche, o qubit, per fungere da cristallo temporale. Durante gli esperimenti, hanno applicato algoritmi che hanno fatto ruotare i qubit verso l'alto e verso il basso, generando una reazione controllabile che potrebbe essere sostenuta «per tempi infinitamente lunghi», secondo il documento. I cristalli temporali sono stranezze scientifiche fatte di atomi disposti in uno schema ripetuto nello spazio. Questo design consente loro di cambiare forma nel tempo senza perdere energia o surriscaldarsi. Poiché i cristalli temporali si evolvono continuamente e non sembrano richiedere molto input energetico, possono essere utili per i computer quantistici, che si basano su qubit estremamente fragili e soggetti a decadimento. L'informatica quantistica è appesantita da qubit difficili da controllare, che sono soggetti a errori e spesso muoiono. I cristalli temporali potrebbero introdurre un metodo migliore per sostenere l'informatica quantistica, secondo Yao, che ha pubblicato un progetto per creare cristalli temporali nel 2017. «I cristalli temporali sono un punto di riferimento ponderato, che mostra che il tuo sistema ha il livello di controllo richiesto», ha detto Yao. Gli scienziati coinvolti nella ricerca di Google affermano di non poter discutere i loro risultati mentre vengono sottoposti a revisione paritaria. Tuttavia, il lavoro affronta un'area in cui i fisici sperano da tempo in una svolta. «La conseguenza è sorprendente: si elude la seconda legge della termodinamica», ha detto a Quanta Magazine Roderich Moessner, coautore del documento Google. Il concetto di cristallo temporale è stato proposto per la prima volta nel 2012 dal fisico premio Nobel Frank Wilczek, che si è chiesto se gli atomi potessero essere disposti nel tempo in modo simile a come sono disposti nei cristalli ordinari. In sostanza, si chiedeva se un sistema chiuso potesse ruotare, oscillare o muoversi in modo ripetitivo. Ciò che seguì fu una buona dose di scrutinio da parte della più ampia comunità di fisici, anni di esperimenti universitari con e senza Wilczek e test per vedere se la sua visione era possibile. La definizione si è espansa per includere oggetti che si attivano a causa di un'influenza esterna, come una scossa, una mescolanza o un colpo laser. «La definizione è alquanto fluida. Ma se vuoi chiamarlo un nuovo stato della materia, vuoi che sia autonomo e non si muova», ha detto Wilczek. I primi esperimenti pompavano ioni con i laser in modo che pulsassero artificialmente. È stato utile ma difficile da ridimensionare, ha aggiunto Wilczek. Nel 2017, gli scienziati dell'Università di Harvard e dell'Università del Maryland hanno rivelato di aver creato cristalli temporali su microscala in un laboratorio a temperature gelide. Entrambi hanno superato la revisione paritaria. Più di recente, a luglio, un team della Delft University of Technology nei Paesi Bassi ha pubblicato i risultati sul suo approccio alla costruzione di un cristallo temporale all'interno di un diamante (Questi risultati non sono stati sottoposti a revisione paritaria.) I cristalli temporali sono un concetto difficile da comprendere, ma gli scienziati dicono che puoi pensarli come una macchina del moto perpetuo, che non risponde alla seconda legge della termodinamica secondo cui un qualsiasi sistema isolato degenera in un altro stato più disordinato. La loro esistenza mina anche la prima legge del moto di Newton, che descrive in dettaglio come un oggetto deve reagire al movimento. I cristalli temporali sono i primi oggetti creati che rompono spontaneamente la "simmetria di traduzione temporale" o l'idea che un oggetto stabile, come solidi, liquidi, gas e plasma, rimarrà lo stesso nel tempo. Il lavoro di Google ha prodotto un cristallo temporale che ha funzionato per millisecondi, ma la ricerca sembra promettente, ha affermato Wilczek. Il presupposto è che una volta che l'hardware sarà più avanzato, i cristalli temporali risultanti dureranno più a lungo, ha aggiunto. «Niente dura per sempre, nemmeno i diamanti, sono protoni e alla fine decadranno», ha detto Wilczek. «Se puoi creare qualcosa che ha un comportamento da cristallo temporale che dura milioni di cicli o migliaia di cicli, può supportare tecnologie sensibili. Puoi fare molto anche se non è perfetto».

·        I Fari marittimi.

Da Omero a Hopper l'infinito fascino proiettato dai fari sulla storia dell'uomo. Gianluca Barbera l'11 Ottobre 2021 su Il Giornale. Un catalogo delle "torri luminose" che costellano coste e isole. Fra storia, arte e citazioni letterarie...Il mestiere di guardiano del faro è visto da molti come un sogno romantico. Ancora oggi quando si bandisce un concorso per guardiano di fari, in qualsiasi parte del mondo, le domande fioccano a migliaia. Molti fari sono ormai automatizzati, ma anche questi necessitano di una manutenzione periodica. Svariati i motivi che inducono molte persone a sognare la professione di guardiano di faro: il ritrovare un senso di libertà perduto, il fuggire dalla routine, lo staccare della vita quotidiana, lo stare soli, il vivere a contatto con la natura. La scrittrice e ricercatrice messicana Jazmina Barrera coltiva fin da piccola un'insolita passione: colleziona riproduzioni di fari da tutto il mondo, molti dei quali li ha visitati. E possiede una mappa che mostra i fari di tutte le coste e le isole del globo. Nel suo nuovo Quaderno dei fari (La nuova frontiera, pagg. 126, euro 15), tra citazioni letterarie e artistiche, da Omero a Walter Scott, da Lawrence Durrell a Virginia Woolf fino a Edward Hopper, racconta dei suoi vagabondaggi da un faro all'altro, spinta dal desiderio di conoscerli e catalogarli tutti. «Mi sono messa a fare ricerche sulla storia dei fari, sulle storie di fari. Ed è stato come quando ci si innamora, volevo portare la conoscenza alle sue estreme conseguenze. Di tutti i fari. Tutto sui fari». Nati per segnalare ai naviganti la presenza di zone pericolose, barriere, scogli, coste, moli o luoghi d'atterraggio, i fari da sempre esercitazione sul nostro immaginario una forte e inesplicabile suggestione. I fari più antichi che ci restano risalgono al medioevo. A quell'epoca erano soprattutto i monaci a occuparsi della loro manutenzione, dal momento che feudatari e monarchi «rivendicavano la proprietà di tutto ciò che naufragava sulle loro coste (uomini e donne compresi). Da qui la prosperità di terre come la Normandia, dove spesso le brusche correnti facevano naufragare le navi». Uno dei primi fari, quello di Alessandria d'Egitto, era una torre di pietra alta 135 metri, con in cima un braciere posto accanto alla statua del dio Elio e fiamme che si sprigionavano alte verso il cielo. Rimaneva acceso giorno e notte e la sua fiamma era distinguibile dai marinai a oltre cinquanta chilometri di distanza. Era una delle sette meraviglie del mondo. Sorgeva sull'isola di Faro (da qui il nome), situata all'imboccatura del porto di Alessandria e collegata alla terraferma da una strada rialzata. A costruirlo stato nel III secolo a.C. l'architetto Sostrato di Cnido, che lavorava per Tolomeo I, sovrano d'Egitto, e prima ancora generale macedone al seguito di Alessandro Magno. L'astuto architetto aveva inciso il proprio nome sulla pietra, e quello di Tolomeo sull'intonaco steso sopra, nella consapevolezza che col tempo il gesso si sarebbe sbriciolato portandosi via il nome del re e lasciando affiorare il proprio. Il faro esisteva ancora quindici secoli dopo, benché ormai in disarmo (fu raso al suolo da un terremoto nel 1323). Così lo descrive Ibn Battuta, viaggiatore marocchino del XIV secolo, che ci ha lasciato un resoconto dei suoi viaggi e che lo visitò nel 1326: «Un edificio quadrato che si staglia nel cielo, posto su un'alta collina a una parasanga da Alessandria, al termine di una lunga striscia di terra che ospita il cimitero, circondata per tre lati dal mare». In realtà già Omero fa riferimento a «torri accese» con falò che andavano accuditi con la stessa cura del sacro fuoco dei templi. All'epoca della guerra di Troia un faro sorgeva all'ingresso dei Dardanelli (all'epoca chiamati Ellesponto) e un altro davanti all'imbocco del Bosforo. Svetonio cita un faro situato a Caprera, Plinio il Vecchio fa riferimento a quelli di Ostia e di Ravenna, avvertendo: «Attenzione a non scambiarli per stelle!». I Maya pare costruissero edifici illuminati dall'interno per consentire ai naviganti di orientarsi. I celti accendevano dei falò sulla costa. I cinesi costruivano gigantesche pagode che fungevano da fari. La presenza di fari e lanterne è una costante nei secoli e in ogni angolo di mondo. Alcuni costruiti sulla costa, altri su isolotti rocciosi battuti dalle onde e dalle tempeste (come quello di Fastnet, in Irlanda, o quello di Mouro, sulla piccola e rocciosa isola di fronte alle coste della città di Santander, nella Spagna settentrionale). I guardiani di questi fari restavano isolati per mesi, fino a che il mare non avesse consentito l'attracco al personale giunto a dare il cambio. Pazienza e buon carattere erano tra i requisiti richiesti ai fini del loro reclutamento. Tra i guardiani della famosa Lanterna di Genova, costruita nel 1321, ci fu lo zio di Cristoforo Colombo, Antonio Colombo. Dal faro di Yaquina Head (un tempo chiamato «Faro del Maltempo»), sulla costa dell'Oregon, il quale si illumina ogni due secondi, si può assistere al passaggio di branchi di balene. Il faro ritenuto il più pericoloso al mondo è quello francese della Jument, tra il canale della Manica e il golfo di Biscaglia, battuto da onde alte fino a trenta metri. Il nonno e il padre dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson erano ingegneri, per lo più costruttori di fari. Il nonno di Stevenson fu il primo «a costruire un faro su uno scoglio affiorante, lontano dalla costa», noto come Bell Rock. Anni dopo il padre «contribuì all'evoluzione dei fari, trasformando la lente di Fresnel (introdotta nella prima metà dell'800 per incrementare la luminosità complessiva delle lampade dei fari) con l'aggiunta del metallo che la rese più potente». Egli restava immobile per ore a contemplare le onde, le contava, annotando le caratteristiche del loro moto, in modo da progettare fari in grado di reggere all'urto, al loro incessante frangersi. I primi fari bruciavano legna. Quelli successivi carbone e pece. Poi fu la volta delle lampade a petrolio e a gas, fino all'avvento dell'energia elettrica e delle lampadine. Se avete in mente di viaggiare, un bell'itinerario alla scoperta dei fari italiani (sono 161, dall'imponente Faro della Vittoria di Trieste, alto 67 metri, al suggestivo Faro di Capel Rosso, sull'Isola del Giglio; dal Faro della Guardia di Ponza a quello di Capo d'Otranto, tutelato dalla Commissione europea; da quello dello scoglio Mangiabarche, nell'Isola di Sant'Antioco, a quello di Strombolicchio, abbarbicato su un alto sperone roccioso in mezzo alle onde) potrebbe essere un'idea da non trascurare. Gianluca Barbera

Gabriele Santoro per “Il Messaggero” il 19 agosto 2021. Luce, eclisse, luce: i lampi dei fari hanno segnato il rapporto tra i marinai e la terraferma, scrivendo un capitolo appassionante della storia che lega l'uomo agli abissi del mare e alla luce. Fáros, phare, faro: sulle sponde del Mediterraneo tra Grecia, Francia, Italia e Spagna risuona la somiglianza lessicale della parola derivata dal primo leggendario faro, considerato tra le sette meraviglie del mondo antico, fatto costruire sull'isola di Faro, citata nell'Odissea, davanti ad Alessandria d'Egitto nel III secolo a.C. da Tolomeo I, generale macedone di Alessandro Magno, e distrutto da un terremoto nel 1323. Era una torre di pietra alta 135 metri e le navi potevano avvistare il fuoco fino a 56 chilometri di distanza. Dalle torri dedicate alla segnalazione della vicinanza alle coste fino al primo faro elettrico del 1858, invenzione degli inglesi, i fari, nati come sforzo d'ingegno collettivo per allertare i navigatori sulla presenza di zone pericolose, hanno assunto anche funzioni votive, celebrative e dall'Ottocento sono diventati materia letteraria e artistica. Posizionati in luoghi particolarmente suggestivi, riescono tuttora a trasportarci in un altrove e sembrano restituire ai viaggiatori la giusta distanza dalle cose del mondo. La giovane autrice Jazmina Barrera, nata a Città del Messico nel 1988, ha saputo descrivere questa esigenza interiore con il Quaderno dei fari (la nuova frontiera, 128 pagine, traduzione di Federico Niola) che è un saggio letterario intenso. La scrittrice ha intrapreso il viaggio dal faro di Yaquina Head Lighthouse di Newport, in Oregon, ripercorrendo le storie di fari intrecciate con l'arte e la letteratura come il Cape Elizabeth Light nel Maine, raffigurato da Edward Hopper nel celebre dipinto del 1929 The Lighthouse at Two Lights, e il Faro di Godrevy nell'omonima isola della Cornovaglia che ha ispirato Virginia Woolf per Gita al faro. La Marina militare britannica propiziò la costruzione dei fari lungo le coste di competenza. Da una nobile famiglia di costruttori di fari discendeva Robert Louis Stevenson. Nel suo splendido libro Records of a Family of Engineers gli ingegneri che progettano i fari sono artisti le cui opere sfidano la natura. I fari più antichi ancora integri o restaurati, come il trecentesco Fanale di Livorno, risalgono al Medioevo e spesso sono diventati simbolo dei luoghi di appartenenza. In Italia il pensiero corre a Trieste e ai suoi due fari monumentali, quello ottocentesco della Lanterna e il faro della Vittoria, tuttora in funzione dall'alto dei suoi 67 metri, che hanno caratterizzato lo sviluppo del sistema faristico lungo la dorsale adriatica, unendo Oriente e Occidente. Dall'iconica Lanterna di Genova, eretta nel 1321, la mappa dei fari nella penisola italiana è vasta. Nello stretto di Messina è impossibile non soffermarsi alla Lanterna del Montorsoli, che raffigura la stratificazione storica di queste opere dal Trecento alla seconda metà dell'Ottocento, quando è stata aggiunta la torretta dotata del faro. Nelle isole tirreniche sono numerosi i fari da esplorare: Faro di Capel Rosso al Giglio, Punta Carena a Capri, Mangiabarche nell'Isola di Sant'Antioco senza dimenticare il Faro della Guardia a Ponza. La Puglia è terra di fari con quello di Punta Palascia che è il più esposto a Est. Il lampo di luce ha significato per milioni di migranti l'inizio dell'agognata vita nuova. Pensiamo al senso del faro elettrico di atterraggio a luce fissa della Statua della libertà a New York, inaugurato nel 1866, per gli italiani con la valigia di cartone. A livello globale i fari sono un obiettivo che attira e appassiona gli amanti della fotografia. L'Heceta Head Lighthouse in Oregon è tra i più fotografati al mondo: a picco sulla costa del Pacifico domina la scena su Instagram. Tornando in Europa meta prediletta dei viaggiatori è il Fanad Lighthouse nella contea del Donegal in Irlanda, che conquista con splendidi scorci. La figura mitica del guardiano del faro è perlopiù venuta meno in conseguenza dell'innovazione tecnologica e dell'automazione. Molti fari storici sono in disuso, però non è stato smarrito il loro valore altruistico profondo da quando i maya costruivano monumenti illuminati dall'interno per indicare i luoghi dove era rischioso o possibile sbarcare, i celti accendevano falò per inviare messaggi lungo la costa e i greci diedero ai fari il loro nome.

·        Non dare niente per scontato.

Dal Corriere.it il 12 settembre 2021. Nella vita di tutti i giorni ci sono cose talmente scontate da non suscitare il minimo interrogativo. Per esempio: per quale motivo il frigorifero ha la luce ma il freezer, salvo rare eccezioni in alcuni modelli di fascia alta, ne è completamente privo? A rispondere a questa semplice ma inusuale domanda ci ha pensato nel 2009 lo statunitense Robert H. Frank, docente di Economia presso la Cornell University di Ithaca (New York) e autore di libri e volumi tradotti in mezzo mondo. Originariamente pubblicata sul sito del network televisivo Pbs, la sua spiegazione è tornata d’attualità negli ultimi giorni su blog e social network, ravvivando la curiosità degli utenti. Potrebbe forse sembrare eccessivo aver richiesto l’ausilio di un esperto tanto illustre per una questione così ordinaria, ma effettivamente la ragione di tale differenza va ricondotta a uno dei principi cardine dell’economia: quello del rapporto tra costi e benefici. Trattandosi di due elettrodomestici dalla funzione piuttosto simile, per le aziende produttrici il costo dell’inserimento di un piccolo impianto luminoso all’interno del frigo e del freezer sarebbe essenzialmente identico. «È quello che gli economisti chiamano costo fisso – ha spiegato Frank –, che in questo contesto significa che non varia con il numero di volte in cui si apre lo sportello». Sono dunque i benefici a cambiare, e questo alla luce del diverso uso che le persone fanno dei due strumenti. Il frigo, infatti, non solo viene aperto molto più frequentemente del freezer, ma in media anche per più tempo: tipico il caso in cui si resta per lunghi secondi a scrutare i ripiani alla ricerca di qualcosa con cui fare uno spuntino o per decidere cosa comprare al supermercato. «Quindi – ha concluso il professore –, il test costi-benefici sulla necessità della luce è più probabile venga superato da un frigo che da un freezer». Non è tutto. Come ha fatto notare nel 2012 il sito di curiosità Today I Found Out, infatti, l’utilità di una luce all’interno del freezer verrebbe ridotta dal tipico accumulo di ghiaccio, che ne limiterebbe la luminosità. Certo, oggi esistono modelli No Frost grazie ai quali il problema non si porrebbe, ma ciò offre anche un’ulteriore spiegazione della tradizionale assenza di lampadine, led e consimili nei congelatori. Tutto comunque dipende sempre dai consumatori. Perché se da un lato la maggior parte delle persone non sarebbe disposta a pagare di più (anche in bolletta) per avere una luce di cui probabilmente non ha mai avvertito il bisogno, dall’altro esistono anche delle eccezioni: «In generale il beneficio di tali funzioni, misurato in base a quanto le persone sono disposte a pagare per esse, tende ad aumentare all’aumentare del reddito – ha illustrato Frank –. Il principio costi-benefici prevede quindi che consumatori con redditi estremamente elevati potrebbero pensare che una luce nel freezer valga il costo aggiuntivo».

Dagotraduzione dal Guardian il 12 settembre 2021. Giovedì sera sono stati annunciati i premi più ambiti della scienza: gli Ig Nobel, che celebrano le ricerche più bizzarre della scienza e premiano quelle che fanno più ridere ma anche riflettere. Così ieri, in una cerimonia online anziché nel consueto teatro dell’Università di Harvard, i veri Nobel hanno consegnato dieci Ig Nobel a scienziati, economisti, medici e matematici di 24 paesi diversi. «Quando ho saputo di aver vinto ero un po' nervoso», ha detto David Carrier, professore di biologia all'Università dello Utah e destinatario del premio Ig Nobel per la pace. «Pensavo: voglio questo premio?». Dopo una piccola ricerca, ha concluso che ne valeva la pena. Il professor Carrier e i suoi colleghi hanno deciso di testare la controversa ipotesi secondo cui nel processo di evoluzione la barba aveva il compito di proteggere il volto dei maschi dai pugni e dai cazzotti. Mentre Charles Darwin sosteneva che lo scopo evolutivo dei peli sul viso fosse un «ornamento per attirare o eccitare il sesso opposto», Carrier ha trovato prove delle loro qualità di protezione. Dopo aver lasciato cadere dei pesi su un materiale simile a un osso ricoperto di vello di pecora, ha concluso che la pelle pelosa assorbe molta più energia della pelle liscia. «Non è che la barba offra molta protezione. Un pugno davvero forte sarà sempre pericoloso», ha detto. «Quello che possiamo dire è che fornisce una certa protezione alle ossa e alla pelle». Ora Carrier si sta chiedendo se le barbe possano anche avere una funzione oscurante, rendendo la mascella più difficile da colpire in una scazzottata. L'Ig Nobel per l'economia è andato a Pavlo Blavatskyy, professore alla Montpellier Business School, che ha utilizzato un algoritmo di visione artificiale e foto di politici per trovare prove che l'obesità è «altamente correlata» con la corruzione nazionale. Il premio per la fisica è stato assegnato alla ricerca che ha spiegato perché i pedoni non si scontrano costantemente, e quello per la cinetica al lavoro che ha mostrato perché a volte l’impatto avviene. Gli altri Ig Nobel assegnati sono stati: entomologia (al comandante in pensione John A. Mulrennan, che ha scoperto come sradicare gli scarafaggi dai sottomarini grazie a un insetticida organofosfato molto potente); trasporti (alla ricerca che dimostrato che trasportare via aerea rinoceronti a testa in giù è meglio che portarli su un fianco); ecologia (allo studio dei batteri che vivono sulla gomma di masticare); biologia (alla dottoressa Susanne Shötz dell’Università di Lund per il suo lavoro sulla comunicazione felina). Per la medicina il premio è andato a Cem Bulut e i suoi colleghi tedeschi: hanno dimostrato che un orgasmo è un efficace decongestionante nasale. Bulut aveva dei sospetti basati sull’”autosservazione”, così ha reclutato un gruppo di colleghi per indagare. Le coppie di volontari sono state dotate di un dispositivo per misurare il flusso d’aria nasale prima del rapporto sessuale, subito dopo l’orgasmo e poi a intervalli regolari. Secondo il rapporto del team, il sesso è stato altrettanto efficace nel pulire i nasi ostruiti per almeno un'ora, lo stesso risultato ottenuto dai decongestionanti commerciali, anche se Bulut ammette di non aver ottenuto dati precisi da tutti. «Penso che alcune persone non siano riuscite a concentrarsi sul dispositivo», ha detto. Perché il sesso sblocchi il naso non è del tutto chiaro, ma Bulut pensa ci siano una serie di fattori in gioco. «Penso che sia un misto di eccitazione, esercizio fisico e cambiamenti ormonali che arrivano con l'orgasmo», ha detto. Il professor Jonathan Williams, chimico atmosferico presso il Max Planck Institute for Chemistry, e colleghi hanno vinto l'Ig Nobel per la chimica per aver studiato come gli odori rilasciati dal pubblico del cinema cambino a seconda del genere del film. Gli scienziati hanno scoperto tra l’altro che i livelli di isoprene variano enormemente durante i film di paura. «Ora sappiamo che gli esseri umani trasmettono segnali a seconda di vari stati emotivi, la domanda d'oro è se le altre persone percepiscono quei segnali», ha detto Williams. «Se fossimo in una stanza buia e io avessi paura, lo sentiresti?». L'evento è prodotto dalla rivista Annals of Improbable Research.

·        Le Scoperte esemplari.

Le 10 invenzioni italiane che hanno cambiato la storia dell'auto. Federico Pesce La Repubblica il 2 dicembre 2021. E’ la creatività unita al genio il pezzo forte degli italiani, in qualsiasi campo: dal telefono di Antonio Meucci alla radio di Guglielmo Marconi fino ai microchip inventati dal fisico vicentino Federico Faggin. La stessa regola vale anche per l’automobile: ci sono per lo meno 10 invenzioni fondamentali che portano con orgoglio il tricolore sulle spalle: Eccole. 

1. Il motore a scoppio

Iniziamo da lui, senza il quale nemmeno staremmo qui a parlare. Il primo motore a scoppio fu inventato nel 1853 da due ingegneri italiani, per la precisione originari di Lucca: Eugenio Barsanti e Felice Matteucci. Il primo utilizzo del rudimentale, ma funzionante, propulsore a scoppio fu presso le Officine della Stazione ferroviaria Maria Antonia, l’attuale Santa Maria Novella. 

2. Il primo impianto elettrico

Un’auto senza impianto elettrico che auto è? Il primo della storia ad essere montato su un’auto prodotta in serie fu quello della Lancia Theta, un modello risalente al 1913. I 6 volt di cui disponeva riuscivano a fornire energia utile ad illuminare la strumentazione - una novità per l’epoca - a far funzionare il clacson, le luci anteriori e quelle posteriori. 

3. I fari a Led

Visto che siamo in tema, facciamo un salto nel tempo per arrivare al 2002, quando grazie all’azienda italiana Magneti Marelli debuttano a bordo della Lancia Thesis (guarda caso un’altra Lancia) i fari a LED, che dopo questo esordio sono diventati di uso comune.   

4. Il freno a pedale

Ora torniamo indietro. La medaglia va appuntata sul petto della Fiat, che introduce questa rivoluzione ingegneristica a bordo della sua prima automobile, la celebre 3 ½ HP del 1899. Fino ad allora il freno era comandato a leva, come l’attuale freno a mano. Una bella svolta. 

5. Il cambio automatico

Viene inventato nel 1931 da Elio Trenta, un ingegnere originario di Città della Pieve che nello stesso anno lo registra presso il Ministero delle Corporazioni. Trenta presentò la sua invenzione alla Fiat ma senza successo, perché l'azienda torinese pensava che il cambio automatico potesse penalizzare le prestazioni delle sue automobili. Il brevetto fu quindi lasciato nel dimenticatoio, fino a quando l’americana Oldmobile inizierà ad adottarlo sulle auto di serie. E fu un trionfo. 

6. La monovolume

Anche la prima monovolume della storia dell'auto è targata Fiat. L’idea della 600 Multipla è semplicemente pazzesca: sistemare 6 passeggeri in tre file di sedili, di cui l’ultima si può abbattere per aumentare il volume del portabagagli. La vettura fu prodotta tra il 1956 e il 1967 e venduta in 240.000 esemplari. 

7. La trazione anteriore

Questo primato spetta alla Lancia Flavia, che oltre ad essere la prima auto a proporsi con la trazione anteriore - dove cioè il motore esercita la propria azione sulle ruote anteriori, che appunto “trainano” quelle posteriori - fu anche la prima auto di serie ad avere 4 freni a disco. La Flavia fu prodotta dal 1960 al 1971 grazie al progetto di Antonio Fessia, ingegnere che aveva abbandonato la Fiat per idee divergenti da quelle della direzione del Lingotto. 

8. Il sistema Start & Stop

Quello che oggi si chiama Start & Stop, all’origine portava un nome meno ad effetto e più didascalico: spegnimento automatico del propulsore. La prima auto a montarlo è ancora una volta una Fiat, per la precisione la Regata Energy Saving, che nel 1983 monta il sistema Citymatic capace di spegnere automaticamente il motore tutte le volte che l’auto si ferma. Oggi è ritenuta una delle invenzioni più accreditate per la la tutela dell’ambiente. 

9. L’iniezione diretta sul turbo diesel

E’ sempre Fiat ad essere protagonista delle invenzioni italiane. Questa volta la casa del Lingotto realizza il motore turbo diesel con iniezione diretta. La prima auto a disporne e la Croma TDI del 1988, che da subito offre miglioramenti sia sui consumi e che sulle prestazioni. 

10. Il common rail

Anche il common rail è italiano, e c’entra ancora una volta la Fiat. Il suo Centro Ricerche di Orbassano ideò infatti e sviluppò questa inedita tecnologia di iniezione elettronica per i motori a gasolio, ma cedette alla Bosch i diritti. Il colosso tedesco ne completò la messa a punto, e il common rail fu quindi pronto a debuttare a bordo dell’Alfa Romeo 156 1.9 Jtd. Era il 1997.

La meraviglia di Marconi dimenticata da tutti. Luca Bocci il 10 dicembre su L'Arno su Il Giornale. Noi toscani ci vantiamo spesso del fatto che dalle nostre parti ogni roccia può raccontare una storia incredibile. Altre regioni del mondo possono avere paesaggi splendidi o capolavori dell’arte, ma nessuna di loro ha la densità incredibile che si trova qui. Anche i tratti più bruttarelli, come la pianura a sud dell’aeroporto di Pisa, hanno fatto la storia del mondo. Nel 1911, nel piccolo villaggio di Coltano, Guglielmo Marconi costruì la prima stazione radio “ultrapotente”, che rimase all’avanguardia della telegrafia senza fili per decenni. 

Quando l’esercito tedesco in ritirata distrusse le colossali antenne, la stazione non fu ricostruita, finendo per essere dimenticata da tutti. Ora solo l’edificio originale è sopravvissuto, in pessime condizioni peraltro. L’ultimo piano del Comune di Pisa per ristrutturarlo e costruire un museo della radio è fallito qualche anno fa.  Numerosi articoli accademici su questa stazione, come quello recente del professor Filippo Giannetti su una prestigiosa rivista internazionale, fanno sperare che si faccia avanti un nuovo sponsor che riesca a salvare questo pezzo di storia della scienza in Toscana. Ascoltate la storia di questa incredibile stazione e della sua sorella alla Hawaii che ha fatto la stessa fine in questa puntata del nostro podcast. Fateci anche sapere cosa ne pensate, partecipando alla conversazione sui nostri profili social o nei commenti all’articolo:

La meraviglia di Marconi dimenticata da tutti

Basta parlare qualche minuto con un toscano per rendersi conto di come siamo intimamente convinti di vivere nell’angolo più straordinario su questa palla azzurra che rotola attorno al sole. Inutile provare a ragionare, far notare come ci siamo altre terre altrettanto ricche di arte e bellezze naturali, non riuscirete a farci cambiare idea. Mio padre, buonanima, ogni volta che si trovava di fronte ad un palazzo bellissimo o un panorama mozzafiato, non riusciva a fare a meno di paragonarlo ad una delle nostre meraviglie. Non subito, prima se lo godeva per qualche minuto ma, una volta passato il momento, il paragone scattava, inevitabile. Ebbene sì, siamo profondamente campanilisti, attaccati in maniera quasi morbosa alla nostra terra ed al nostro passato, il che ci rende ogni tanto piuttosto antipatici. Siamo fatti così, orgogliosi e sempre pronti a glorificare la nostra meravigliosa terra. Chi se ne frega dei fatti? La Toscana è la terra più bella del mondo – e chi non lo capisce, peste lo colga!

Logiche da strapaese a parte, alle volte mi sono chiesto se questo comportamento abbia o meno un fondo di verità. Senza scendere nei dettagli, mi sono fatto un’idea a proposito. Quello che rende la Toscana unica ed irripetibile non è la bellezza dei panorami o il valore assoluto dei capolavori che vi si trovano. Palazzi stupendi od opere d’arte incredibili si trovano dappertutto al mondo e certo la Toscana non ha l’esclusiva quando si parla di panorami meravigliosi. Quello che rende la Toscana superiore è la densità di queste bellezze artistiche e naturali. Quando ci raccontiamo la storia che ogni pietra da queste parti può raccontare una storia incredibile o che ogni villaggetto sperduto ha qualcosa di meraviglioso da dire al resto del mondo, stiamo sì esagerando ma anche dicendo una mezza ovvietà. Dovunque guardi puoi trovare qualcosa di speciale, unico – il che è allo stesso tempo un dono e una maledizione. Quando hai così tante cose straordinarie sottomano, come fai a promuoverle tutte come meriterebbero? Pensate alle montagne di capolavori rinchiusi nei magazzini degli Uffizi. In un qualsiasi altro paese non solo le tirerebbero tutte fuori, ma costruirebbero musei su musei per esibirle tutte. Come fai? Ne abbiamo davvero troppe! Mica puoi trasformare l’intero centro di Firenze in un museo! Inevitabile quindi che luoghi di grande tradizione ed opere d’arte splendide finiscano per passare inosservate.

Talvolta però, queste “dimenticanze” lasciano davvero interdette, specialmente quando succedono in zone che hanno molto poco da offrire. Detto tra di noi, pochi tratti della nostra regione sono meno attraenti della piana che si stende per chilometri a sud dell’aeroporto Galileo Galilei di Pisa. Se vi capita di passarci, non potete fare a meno di notare quanto sia profondamente brutta. Non c’è quasi niente, poche case, qualche albero, una sensazione irresistibile di quasi desolazione. Il paesino si chiama Coltano e molti pisani lo conoscono solo per i tanti campi da calcetto ed il fatto che ospiti un campo nomadi, con tutti i problemi di sicurezza e fastidi che porta con sé. Eppure anche qui, in questo paese dimenticabilissimo, si trova un posto incredibile, un luogo che ha fatto la storia del Ventesimo secolo e che è stato dimenticato praticamente da tutti. Da quelle parti, attorno al rudere dilapidato di una costruzione di inizio secolo, fino alla Seconda Guerra Mondiale si trovava la più potente stazione radio al mondo. Di questa stazione, figlia del genio dell’inventore della radio Guglielmo Marconi, non rimane nemmeno una targa. Questa è la storia della meraviglia tecnologica che stupì il mondo e di come sia praticamente svanita nel nulla.

Nonostante da quelle parti la gente viva da un’eternità, la storia sembrava aver dimenticato l’esistenza di Coltano. Di paludi all’epoca ce n’erano fin troppe in giro, perché mai preoccuparsi proprio di quella? Le cose iniziarono a cambiare nel XVI secolo, quando l’interramento del porto di Pisa spinse il governo dei Medici a pensare un primo canale per collegare l’Arno con il nuovo porto, che col tempo sarebbe diventato Livorno. L’arrivo dei Lorena portò nuove opere di bonifica e la nascita di alcuni allevamenti di cavalli di qualità, da usare nella vicina riserva di San Rossore. La passione per la caccia dei nobili locali portò alla crescita della riserva, che giunse ad incorporare questi terreni e gran parte dei boschi sulla costa, abbandonati da tutti e decisamente insalubri. Vittorio Emanuele II di Savoia adorava San Rossore e ci passava parecchio tempo, cosa che da lì a poco si sarebbe rivelata la chiave per il futuro della zona.

Il vero e proprio momento “sliding doors” avvenne qualche anno dopo e coinvolse un altro membro della famiglia reale ed un inventore con il pallino degli affari. 8 settembre 1902, l’incrociatore della Regia Marina “Carlo Alberto” sta riportando il nuovo re d’Italia Vittorio Emanuele III in patria dopo una crociera nel Nord Europa dedicata ad impegni di stato e le classiche public relations. Ad accompagnare il re, una vera e propria celebrità, un giovane inventore bolognese che si era guadagnato le prime pagine dei giornali con i suoi esperimenti sull’uso di quelle che all’epoca venivano chiamate “onde herziane”. Guglielmo Marconi, a soli 28 anni, era stato la vera star sia in Inghilterra all’incoronazione di Re Edoardo VII sia in Russia, a Kronstadt, dove lo zar Nicola II e la sua corte erano stati affascinati dall’invenzione dell’italiano, il telegrafo senza fili. Mentre i Romanov iniziavano a pensare a come la radio li avrebbe aiutati a governare un paese enorme e in preda a violente convulsioni rivoluzionarie, a bordo dell’incrociatore si iniziava a pensare allo sbarco ed al ritorno alla vita di tutti i giorni. A cena con il capitano della nave, Marconi guardò fuori e confessò all’ufficiale un progetto che aveva in mente: costruire la più grande stazione radio al mondo, con strumenti in grado di inviare messaggi oltre l’Atlantico. Il capitano fu incuriosito: perché mai costruirla proprio lì, dove non c’era mai stato niente a parte paludi, zanzare e vipere? Marconi sorrise sornione: proprio perché non c’era niente. La campagna attorno a Coltano era praticamente vuota, perfettamente piana ma allo stesso tempo non troppo distante da Pisa e Livorno, rispettivamente importante nodo ferroviario e porto capace di ospitare grandi navi. Le antenne necessarie per la radio, poi, erano parecchio ingombranti – difficile trovare posti in grado di ospitarle senza provocare reazioni da parte dei vicini. Il bolognese si perse poi nei dettagli tecnici, che l’ufficiale di marina capì a malapena, qualcosa sul fatto che il terreno ancora paludoso riducesse la dispersione delle onde radio. Una cosa però la capì al volo: il fatto che i terreni fossero tutti parte della riserva di caccia di San Rossore non era un caso. Comprensibile, peraltro. Perché mai dannarsi l’anima a convincere dieci o cento piccoli proprietari terrieri quando sarebbe bastato avere l’approvazione del re per dare il via libera al progetto. Un’altra cosa che capì subito fu l’importanza strategica della nuova tecnologia, qualcosa in grado di cambiare per sempre la vita di uomini di mare come lui.

A parte la fine dell’isolamento forzato, la possibilità di mettersi in contatto con i propri cari, mantenersi in contatto con le basi in tutto il mondo e comunicare nuovi ordini istantaneamente sarebbe stato la chiave del futuro della guerra, in mare, in terra e in cielo. Marconi aveva capito che quello era il momento giusto per chiedere l’aiuto del governo nazionale. A parte l’interesse della Marina, le ragioni per avere un canale di comunicazione indipendente con le colonie africane e la crescente comunità di espatriati nelle Americhe erano parecchie. Non ci volle molto per ottenere l’autorizzazione del re, ma quando si trattò di trasformare in realtà il proprio sogno le cose si complicarono non poco. Nonostante il premio Nobel gli avesse portato un’altra ondata di pubblicità, la compagnia fondata da Marconi ebbe bisogno di ben sette anni prima di completare la stazione di Coltano. Il 13 novembre 1910, un messaggio di prova fu inviato da Coltano alla stagione gemella di Grace Bay, in Nova Scotia, sulla costa atlantica del Canada. La notizia fece scalpore ma l’impianto pisano non era ancora perfettamente a punto. Un anno e due giorni dopo, un nuovo messaggio fu inviato, stavolta diretto al comandante della guarnigione italiana a Mogadiscio, una dimostrazione delle capacità militari della radio che arrivò esattamente al momento giusto.

Otto giorni dopo la stazione Marconi fu inaugurata ufficialmente con la presenza non solo del padrone di casa, il re, ma anche di una nutrita commissione militare. Perché mai così tante uniformi in giro? Semplice, l’Italia era di nuovo in guerra, stavolta contro il “malato d’Europa”, quell’Impero Ottomano che dopo aver terrorizzato il Vecchio Continente per secoli, era ormai in evidente stato di disfacimento. L’Italietta liberale colse l’occasione al volo per garantirsi la cosiddetta “terza sponda”, lo sbocco in Nordafrica venduto come la panacea di tutti i mali di un paese che stava già faticando a tenere il passo delle grandi potenze. Il fatto che la Tripolitania si sarebbe rivelata ben diversa dal “suol d’amore” delle canzoni e uno “scatolone di sabbia” dove i coloni italiani si sarebbero spaccati la schiena per decenni era ancora al di là da venire. A Marconi interessava poco. Non era ancora un politico. Aveva una tecnologia da sviluppare, impianti da costruire in mezzo mondo e un successo a Coltano gli avrebbe portato tanti e lucrosi contratti. La stazione pisana era operata da personale della Regia Marina, lo sponsor più sollecito nel sostenere la nuova tecnologia.

I militari avrebbero preferito qualcosa di più semplice da nascondere, ma Marconi era stato chiarissimo: servivano antenne grandi, mai viste prima. A chi passava da quelle parti, la stazione Marconi sembrava venire fuori da un romanzo di Jules Verne. Nel mezzo del nulla erano spuntate due enormi antenne direzionali, una puntata verso il Canada, l’altra verso il Corno d’Africa, a nord e a sud dell’edificio di controllo, l’unica costruzione ad essere sopravvissuta alle ingiurie del tempo. Per supportare le antenne, lunghe 530 metri l’una, furono costruite 16 torri di metallo alte 75 metri, con punte di legno per dissipare l’elettricità statica. Lavorando con onde estremamente lunghe, le più adatte a rimbalzare sulla ionosfera e superare la curvatura della Terra, servivano strutture imponenti e potenze di trasmissione mai viste prima. La notizia fece il giro del mondo, guadagnandosi un posto sulla prima pagina del New York Times, che definì Coltano la “stazione radio più potente al mondo”. Il rapido progresso della tecnologia nel colossale tritacarne della Grande Guerra portò nuovi, cospicui investimenti alla stazione pisana, ancora una volta supportati dalla Regia Marina. Nel 1919 fu approvata la costruzione di una nuova stazione intercontinentale, la prima in Europa in grado di fornire un canale di comunicazione aperto anche ai privati verso il Nord America. Per migliorare il servizio verso il cuore industriale del paese e la capitale, furono potenziate le linee telegrafiche e telefoniche. In un raro esempio di lungimiranza, il comando della Marina non demolì né il centro controllo né le vecchie antenne.

Coltano fu la prima stazione di nuova generazione, un centro integrato in grado di usare sia le onde super lunghe che le onde medie, garantendo un servizio migliore e molte economie di scala. Quando il nuovo centro aprì i battenti nel 1923, la nuova antenna non passò certo inosservata. Al posto delle due antenne direzionali, stavolta bastò una sola, impressionante antenna, un quadrato di 420 metri sostenuto da quattro giganteschi piloni d’acciaio alti 250 metri l’uno. Questi enormi tralicci metallici erano ancorati al terreno da colossali blocchi di cemento ed erano in grado di trasmettere onde radio lunghe 16 chilometri ad un livello di potenza astronomico per l’epoca. L’impatto sulla costa toscana fu altrettanto impressionante. I quattro piloni, alti come quattro Torri Eiffel una sull’altra, dominavano l’orizzonte per chilometri, affascinando i viaggiatori dell’epoca che passavano sulla vicina linea tirrenica. Le migliorie continuarono per tutti gli anni 20 e 30, col progressivo passaggio all’uso delle onde corte, completato nel 1934. Questa fu l’età dell’oro per la stazione Marconi, favorita anche dal passaggio dalla Marina al Ministero della Posta, che la rese la chiave di volta del sistema nazionale di telecomunicazioni. Coltano diventò parte integrale del sistema mondiale che permetteva di rimanere costantemente in contatto con navi e stazioni remote. Marconi, ormai stimatissimo senatore del Regno e nume tutelare delle comunicazioni senza fili, non smise mai di mettere a punto dimostrazioni pubbliche della sua tecnologia, come quella del 13 settembre 1931.

Dal suo ufficio a Palazzo Madama fece partire il comando che accese i riflettori sotto la nuova statua del Cristo Redentore, che da allora domina il Pan di Zucchero e la sottostante città di Rio de Janeiro. Il segnale, ovviamente, passò dalla mega-antenna di Coltano. I record erano utili per far contento il Duce e riempire le prime pagine dei giornali ma all’inventore bolognese interessavano di più per la pubblicità gratuita che garantivano alla sua compagnia. Quando l’aprile successivo gli ingegneri pisani misero a segno un nuovo record mondiale, riuscendo a mantenere aperto un canale di comunicazione con il piroscafo “Conte Rosso”, al largo di Shanghai, ad oltre 10000 miglia dalla costa pisana, non furono solo gli apologeti del regime a festeggiare il successo della tecnologia italiana.

I grandi successi non furono sufficienti ad evitare che, come molte altre eccellenze italiane, la stazione Marconi fosse travolta dall’onda anomala della guerra. Nel 1944, poco prima di ritirarsi a nord della Linea Gotica, reparti di artificieri della Wehrmacht fecero saltare le enormi antenne e gli impianti di trasmissione. Si salvò solo l’edificio di controllo originale, quello che ospitava gli strumenti originali di Marconi, il resto fu devastato, quasi senza lasciare traccia della grande stazione pisana. Alcuni degli strumenti furono recuperati dalla Marina, che li ha conservati in magazzino per decenni. Dal 2017 sono di nuovo esposti al pubblico al Museo Tecnico Navale di La Spezia, in una nuova e moderna sala dedicata alla storia dell’impiego della radio sulle navi della Marina Italiana. La RAI non abbandonò del tutto Coltano, mantenendovi per anni un ripetitore dei propri canali ad ampiezza di modulazione, ma della stazione Marconi non c’è quasi traccia. Non un solo cartello stradale, neanche una misera targa che ricordi il valore storico straordinario di questa installazione.

Gli appassionati locali la conoscono, ovviamente, ma è solo una delle tante storie che passiamo di padre in figlio senza mai prenderci il disturbo di andarla a vedere di persona. D’altro canto, cosa c’è mai da vedere? Una palazzina d’inizio secolo con le finestre sfondate, erbacce ovunque? Un trattamento ben diverso da quello che la città natale di Marconi ha riservato all’inventore, dove un intero paese ha cambiato nome per celebrare il fatto che i primi esperimenti con le onde radio fossero stati fatti da quelle parti. Sul sito di Coltano è calato un silenzio tanto profondo quanto sospetto. Il fatto che da maggio a settembre 1945 le forze alleate vi avessero ospitato migliaia di prigionieri di guerra tedeschi e fascisti non ha certo aiutato. Molti, troppi, nomi famosi erano ansiosi di far dimenticare il fatto che, anche loro, erano stati internati dopo la sconfitta nella guerra civile.

L’elenco certo fa impressione. A parte vari generali rimasti fedeli al Duce, molti protagonisti della cultura e dello spettacolo del Dopoguerra passarono da Coltano, da Dario Fo a Walter Chiari, da Enrico Maria Salerno a Raimondo Vianello, dalla voce di “Tutto il calcio minuto per minuto” Enrico Ameri a Mauro de Mauro, grande firma dell’Ora di Palermo rapita dalla mafia nel 1970 e mai più ritrovato. Agli abitanti del posto la scomparsa delle grandi antenne non dispiacque più di tanto. Tornarono alla normalità di sempre, specialmente a partire dagli anni 70, quando molti terreni furono rimossi dalla tenuta presidenziale di San Rossore e venduti ad agricoltori locali. Da allora stanno provando a reintrodurre prodotti tipici del territorio e farsi spazio nel competitivo mercato degli agriturismo. Molti, a partire dalla figlia di Marconi, Elettra, si sono battuti per anni per fare in modo che la stazione di Coltano sia recuperata e trasformata in un museo dedicato alla storia della telegrafia senza fili. Nel dicembre 2017 le stelle sembravano essersi finalmente allineate. Il Comune di Pisa annunciò con grande enfasi di aver ottenuto dal Demanio un permesso di due anni per ristrutturare l’edificio originale e costruire nuovi edifici grazie al contributo di sponsor privati. Il progetto, approvato nel 2014, sarebbe costato circa due milioni e mezzo di Euro, grazie al finanziamento della compagnia greca Intracom Telecom. Non solo la palazzina Marconi si sarebbe salvata ma i nuovi edifici avrebbero ospitato non solo un’area espositiva ma anche un centro di ricerca sulle tecnologie wireless che avrebbe attirato ricercatori e capitali privati nell’area. Un bel sogno che purtroppo finì malissimo.

Quando Pisa passò a sorpresa al centrodestra, il piano sembrò collassare come un castello di carte. Il passaggio delle consegne fu particolarmente molto complicato e la giunta Conti aveva ben altre gatte da pelare. Nonostante il sindaco abbia più volte affermato che salvare la stazione Marconi è una priorità della sua amministrazione, niente è stato fatto a riguardo. La compagnia greca si è presto defilata ed il permesso di costruzione è scaduto dopo che sono stati completati solo i lavori più urgenti alla palazzina storica. La giunta ha chiesto un’estensione al permesso ma senza un nuovo sponsor privato i piani più ambiziosi di rilancio dovranno aspettare tempi migliori. Il sindaco Conti ha detto che non si indebiterà per salvare un sito storico prima di aver fatto tutto il possibile per migliorare la vita dei cittadini pisani, che hanno problemi molto concreti e decisamente più urgenti. Niente di male, ci mancherebbe, specialmente se vuoi garantirti un nuovo mandato alle amministrative del 2023 ma il sapore in bocca non è dei migliori. Fa una tristezza infinita vedere la stazione languire così, dimenticata da tutti dopo essere stata all’avanguardia per decenni. Non servono grandi antenne per ricevere il suono della desolazione. Quel silenzio imbarazzato vale più di mille parole.

Per fortuna sono ancora molti gli studiosi e gli appassionati della radio che stanno lottando per salvare questo pezzo di storia della scienza in Toscana. Nel 2017 sull’Arno raccontammo di come Filippo Giannetti, professore di telecomunicazioni all’Università di Pisa, avesse riportato l’attenzione del mondo accademico sulla storia della stazione di Coltano. Il suo articolo, pubblicato da una prestigiosa rivista specialistica in lingua inglese, è il frutto di un lavoro certosino d’archivio effettuato dallo studioso pisano. La documentazione sulla stazione è frammentaria se non incompleta, molti testi sono difficili da trovare e diversi articoli pubblicati in passato sono pieni di inesattezze. Giannetti si propose quindi di realizzare “una trattazione che sia completa dal punto di vista storico ed al tempo stesso rigorosa dal punto di vista tecnico e scientifico”.

Le molte fonti originali, rinvenute negli archivi della Marconi Company, ora alla Bodleian Library di Oxford, e molti studi riesumati dalla biblioteca della facoltà di ingegneria pisana, rendono questo studio unico, come il fatto che sia disponibile in inglese, rendendolo accessibile a studiosi in tutto il mondo. Non è la lettura più facile del mondo, ma getta luce sulla strategia di Marconi in Italia e all’estero, di come vedesse Coltano come la chiave per vendere impianti simili nel resto del mondo. Leggendo l’articolo abbiamo scoperto come la stazione pisana avesse una sorella dall’altra parte del pianeta. Nel 1914 gli stessi strumenti furono usati per costruirne un’altra su un’area di 89 acri vista oceano sulla costa nord di Kahuku, isola delle Hawaii. A metà strada tra un famoso campo da golf e un altrettanto noto allevamento di gamberi, la stazione Marconi ha fatto la stessa fine di quella pisano, finendo abbandonata. La stazione di Kahuku faceva parte di quella che gli inglesi chiamarono pomposamente la “British Imperial Chain”, una rete di impianti che avrebbero tenuto unito l’Impero Britannico. Da Londra il segnale andava nel New Jersey, poi a Panama, nelle Hawaii, nelle Filippine, Singapore, India, Africa, Toscana e di nuovo a Londra. Quando fu inaugurata nel 1914, la stazione delle Hawaii era ancora più potente di Coltano. D’altro canto serviva molta più potenza per far arrivare il segnale fino al Giappone, a più di 4200 miglia di distanza.

Se il panorama è sicuramente più affascinante del nulla di Coltano, gli edifici sono decisamente più dimenticabili. A differenza della stazione pisana, gran parte dei fabbricati sono ancora in piedi, visto che nella Seconda Guerra Mondiale l’aeronautica americana usò l’area per farvi transitare aerei cargo. La stazione rimase operativa fino al 1957, quando fu inaugurato un cavo sottomarino in grado di collegare l’arcipelago con la costa ovest degli Stati Uniti. La proprietà è abbandonata dal 2005 ed il proprietario spera di riuscire a trasformarla in un museo. Nel 2013 è stata aggiunta all’elenco dei luoghi storici delle Hawaii ed è una delle due stazioni radio sopravvissute nell’arcipelago, sentinelle silenziose di un tempo nel quale il telegrafo senza fili era la meraviglia del mondo.

Speriamo davvero che le stazioni Marconi a Kahuku e Coltano riescano a tornare allo splendore dell’epoca d’oro. Avremmo davvero tutti bisogno di ricordare quei tempi eroici, quando la tecnologia era ancora in grado di far sentire il mondo più unito, invece di rinchiuderci inesorabilmente in comodi loculi super-connessi dove passare la vita guardando il mondo dai nostri schermi luminosi. Quei tempi probabilmente non torneranno più ma possiamo continuare a sperare. Sognare, almeno per ora, non costa niente. E fa tanto bene all’anima. Luca Bocci

I 100 anni di Arrigo Castelli, l'uomo che ha portato l'Italia sulla Luna. Roberta Damiata il 22 Novembre 2021 su Il Giornale. Avrebbe compiuto oggi 100 anni, il cavalier Arrigo Castelli, inventore dell'elettrocardiografo ma soprattutto del magnetofono. Grazie a questa eccellenza Italiana, l'intera umanità ha potuto ascoltare le voci degli astronauti dell'Apollo 11. Il 22 novembre avrebbe compiuto 100 anni il cavalier Arrigo Castelli, un imprenditore geniale e carismatico e di fatto una delle nostre eccellenze italiane. A lui si deve l'invenzione dell’elettrocardiografo, ma soprattutto del magnetofono, il culmine più alto del suo desiderio di sempre, quello di catturare la voce e registrarla su un filo d’acciaio. Era il 1947 quando a Como, nello scantinato della casa di uno zio, diede vita il suo sogno. Un sogno che rese felice lui, ma che fu soprattutto un enorme passo avanti per la tecnologia. “Sul filo ho registrato un fruscio da me provocato”, raccontò alla sorella, la giornalista Sarah Castelli, mentre in casa stappavano una bottiglia di spumante per festeggiare. Più tardi quel filo d’acciaio, su cui aveva inciso un suono, riportò invece all’intera umanità quelle parole che gli astronauti dell’Apollo 11 pronunciarono non appena messo piede sulla Luna. Ma in quel momento di gioia familiare, il pensiero di sua sorella non arrivò così lontano, come invece successe poi in realtà: “Mi fermai a riflettere - racconta -che presto avremmo sentito registrate le voci di ognuno e che, se l’invenzione fosse stata fatta tanto tempo prima, oggi potremmo sentire le voci di Gesù, di Galileo, di Leonardo da Vinci, di Napoleone e tanti altri!”. Un precursore Arrigo Castelli, un sognatore, ma soprattutto un uomo che sapeva essere buono, affabile e gentile quanto intransigente, severo e autoritario. Abbiamo intervistato sua figlia Serena Castelli per questa importante ricorrenza. Ci ha raccontato che quello che suo padre voleva ardentemente era che i suoi macchinari fossero facili da comprendere. Anche dai bambini. Non a caso per il magnetofono, che aveva fatto costruire e mettere in commercio dopo averne inventato ogni singola componente, aveva lavorato sulla fruibilità, la semplicità d’utilizzo e il basso costo. Presentato alla fiera di Milano, questo piccolo macchinario rivoluzionario, riscosse un immediato successo. “Anzi fu l’evento della Fiera campionaria di Milano dove nessuno volle andar via senza aver prima sentito la propria voce incisa”. Si legge. Fu poi l’incontro con John Geloso che creò le premesse tangibili per la commercializzazione e l’enorme diffusione degli apparecchi, chiamati Gelosino, in tutto il mondo, tutti riportanti la licenza Magnetofoni Castelli. L’evoluzione fu velocissima e negli anni ’50 tutti le famiglie ne possedevano uno con cui registravano voci, riproducevano canzoni e lo usavano per studiare e lavorare. Suo nipote Ivan ad esempio, ci ascoltava la musica, e del nonno ha un ricordo molto tenero: “Era un vero galantuomo, un uomo buono, che parlava di tutto con tutti. Aveva la capacità di mettere le persone a proprio agio, senza mai far pesare la sua posizione”.

Il ricordo della famiglia

La sua storia ricorda forse quella di Steve Jobs anche lui un sognatore e creatore di oggetti tecnologici che ha lasciato un segno per l’umanità. “Mio nonno, si era reso conto dell'impatto delle sue invenzioni sulla società - racconta ancora Ivan -e diceva sempre che dopo di lui sarebbe arrivato dagli Stati uniti una persona che avrebbe reso le informazioni a portata di tutti con altre scoperte sempre più evolute. Infatti anni dopo è arrivato Steve Jobs. A lui interessava sperimentare e rendere alla portata di tutti le sue invenzioni, lui puntava sull'utilità delle sue scoperte. Se poi potevano servire per registrare le voci dalla Luna, meglio ancora, del resto senza quel fono-telecomando con quelle componenti e quelle caratteristiche brevettate da lui, non avremmo traccia di quel momento storico, che invece ha tenuto incollato e col fiato sospeso tutto il mondo”.

Ma che tipo di "impatto" ha avuto sulle nuove generazioni? "Mio nonno era un ‘incantatore di serpenti’, riusciva sempre a convincere tutti con le sue invenzioni che studiava alla perfezione. Amava gli open-day, era talmente avanti che già apriva le sue fabbriche ai governatori, alle autorità, ed era talmente carismatico e capace di creare opportunità di lavoro che sosteneva fortemente la presenza femminile all'interno dell'azienda, perché le mani femminili erano decisamente più indicate ad assemblare le componenti meccaniche ed elettroniche rispetto a quelle maschili. Potremmo dire che era un sostenitore delle quote rosa! Certamente sarebbe stato amato da grandi e piccini”, ci ha spiegato il nipote.

La voce dalla Luna

Alla fine degli anni ’60 l'invenzione del cavaliere Castelli arriva alla Nasa, che sta preparando il progetto Apollo 11. “Houston: i tre astronauti Edwin Aldrin, Michael Collins e Neil Armstrong, sempre racchiusi nel loro quartiere di isolamento, raccontano punto per punto ai dirigenti della Nasa le fasi del loro storico viaggio sulla luna. Il tutto viene registrato”. Così scrive il 29 luglio del ’69 un importante quotidiano, pubblicando la foto del magnetofono. Se quindi le generazioni successive possono ascoltare le voci che rappresentarono “Un piccolo passo per l'uomo ma un’enorme passo per l’umanità”, si deve proprio a lui che aveva perfezionato il modello e creato un fono-telecomando che accendeva la registrazione del magnetofono con un intervallo di tempo talmente minimo che non perdeva l’informazione parlata. Questo era fondamentale per i tecnici della Nasa, i quali volevano monitorare, continuamente, le trasmissioni e i colloqui che avvenivano con gli astronauti. Con l'invenzione di Castelli, appena arrivava la voce, un suono o un rumore, il magnetofono iniziava la registrazione con un ritardo impercettibile, senza far perdere ciò che si voleva ascoltare. Nessuno al mondo aveva trovato una soluzione del genere. Lui sì. Ed è così che i tre astronauti si fanno fotografare in quarantena precauzionale e si fanno registrare attraverso i ben visibili dispositivi Geloso.

La medicina, un altro sogno di Castelli

Dopo l'incontro con Padre Agostino Gemelli, fondatore della Società italiana di fonetica sperimentale, nasce l’elettrocardiografo. Sfruttando la struttura del magnetofono anche in ambito medicale, dalla registrazione del suono passa a quella del battito del cuore, attraverso il primo prototipo di elettrocardiografo a tubo catodico con registrazione fotografica. Tutto questo all'inizio degli anni ’50 nel primo stabilimento di Milano che Castelli amplierà aprendo poi l’Elettronica Trentina in Val di Non, dove conoscerà la futura moglie, la signora Liliana, con cui rimarrà per 62 anni.

In quel paesino Cavereno, in Trentino, con poco più di 1000 abitanti, inizia la produzione di elettrocardiografi scriventi, che in poco tempo si evolvono e conquistano i mercati di tutto il mondo, arrivando negli anni ’80 ad occupare la metà del mercato nazionale del settore. Il Pioniere dell’industria trentina come venne definito all'epoca dalla Confindustria di Trento, nel 2015 ricevette per questo l'onore di avere una via a lui dedicata. Un grande omaggio che ancora oggi testimonia la sua grandezza.

Il suo testamento alle nuove generazioni

“La mia vita l'ho vissuta da inventore. La mia luce nella mente era sempre in movimento. Non potevo stare fermo, appena finivo un’invenzione dovevo farne un’altra. Sapevo solo che dovevo continuare. Quando un’invenzione era finita esultavo tra me perché sapevo che sarebbe servita all’umanità. Pensate che emozione quando, con l'invenzione del mio magnetofono, hanno potuto parlare fin sulla luna. Poi sono passato ad altre invenzioni, il vostro cuore posso sentirlo anche adesso. Alle nuove generazioni dico: 'Non fermate la vostra mente, cercate in ogni maniera di creare, di fare cose nuove, poiché ce n'è bisogno. Contribuirete alla nuova scienza che farà del bene a voi stessi e all’umanità. Datemi retta, perché quando l’invenzione riesce è veramente un’apoteosi e capirete che la vostra vita è servita veramente a qualcosa e anche voi vi sentirete grandi'".

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi. 

Il monaco toscano che inventò il motore a scoppio. Luca Bocci su L'arno-su Il Giornale il 29 ottobre 2021. Non so come vanno le cose dalle vostre parti, ma da noi in Toscana è normale che ogni singola cittadina pensi di aver avuto un ruolo nella storia del mondo ben superiore a quello che raccontano le cronache ufficiali. Non si scappa, anche il più piccolo villaggio ha il suo appassionato di storia che vi narrerà con estrema dovizia di dettagli la storia di questo o quel grand’uomo nato da quelle parti. Se in gran parte dei casi, la mancanza di prove rende queste storie poco più di leggende metropolitane, può anche capitare di trovare delle storie davvero affascinanti. Il caso della cittadina di Pietrasanta è emblematico. Se riuscite a resistere alla tentazione delle spiagge della Versilia o dello struscio in Passeggiata, potrete trovare un piccolo museo dedicato ad un padre scolopio appassionato di ingegneria. La targa potrebbe farvi sollevare un sopracciglio. A quanto pare, sarebbe stato il vero inventore del motore a scoppio. Lo scetticismo è giustificato. Tutti sappiamo che i motori che fanno andare le nostre macchine sono stati inventati in Germania. C’è chi dice che fu Nicolaus Otto, altri danno la corona a Karl Benz, ma nessuno certo ci ha mai detto niente di un monaco toscano. Il fatto che entrambi gli inventori tedeschi siano in un modo o nell’altro collegati al gruppo Daimler, che da allora produce alcune delle automobili più prestigiose al mondo, può far sollevare qualche sospetto. E se questa storia non fosse una leggenda metropolitana? Basta una rapida ricerca per rendersi conto che gli abitanti di Pietrasanta hanno assolutamente ragione. Quasi vent’anni prima dei colleghi tedeschi, furono infatti due ingegneri toscani, entrambi lucchesi, a brevettare il primo motore a scoppio funzionante. Al contrario del motore a ciclo Otto, il motore toscano non usava derivati del petrolio, ma una miscela di idrogeno ed aria. La differenza non è da poco. Dal tubo di scarico, infatti, non uscivano veleni ma solo vapore acqueo. Questa è la storia di come un monaco toscano inventò il motore a scoppio e del perché pochi conoscano il suo nome. Padre Eugenio Barsanti nacque a Pietrasanta 200 anni fa, il 12 ottobre 1821, da una famiglia della piccola borghesia cittadina. Il giovane Eugenio non aveva mai brillato in quanto a vigore e vivacità. Perseguitato da una lunga serie di malattie, passava gran parte del suo tempo in casa, solitamente immerso nelle sue letture. Eugenio, infatti, fin da piccolo, si era appassionato alla fisica e alla matematica. Visto che, all’epoca, una buona educazione potevano permettersela solo i ricchi, le opzioni per la famiglia Barsanti non erano molte. Alla fine, il buon cuore e il carattere tranquillo del bambino convinsero i genitori ad affidarlo ai Padri Scolopi, ordine monastico da sempre dedicato all’educazione dei bambini e, più in generale, alla ricerca scientifica. Dopo aver conseguito il diploma, Eugenio si convinse che il miglior modo per continuare i suoi studi fosse entrare a far parte dell’ordine e diventare insegnante di fisica e matematica. Mentre insegnava nel collegio degli Scolopi a Volterra, il tempo per rimanere aggiornato sugli ultimi sviluppi della scienza certo non gli mancava. Barsanti osservò con attenzione quello che stava succedendo in tutta Europa, dove il vapore stava alimentando la rivoluzione industriale. Quei motori, però, non lo convincevano affatto. Troppo grandi, complicati, costosi da alimentare con tonnellate e tonnellate di carbone. Qualcuno poi iniziava a preoccuparsi delle emissioni, quei fumi neri che stavano stendendo un velo di fuliggine sulle città industriali in Inghilterra e altrove. La coscienza ambientalista era ancora da venire, come i disastri legati all’inquinamento, ma qualcuno iniziava a domandarsi quali sarebbero state le conseguenze di questa rivoluzione. Invece di perfezionare la tecnologia esistente, perché non pensare ad un modo diverso per alimentare questi motori? Barsanti si convinse che una soluzione migliore doveva esserci – e dedicò tutto il tempo libero alla ricerca. Il colpo di fulmine arrivò mentre stava leggendo gli appunti di Alessandro Volta, il genio milanese che pochi decenni prima aveva inventato la pila e aprendo la porta allo studio dell’elettricità. Il motore elettrico era ancora da venire, ma Barsanti rimase colpito da uno degli esperimenti “minori” di Volta, quello della “pistola”. Lo scienziato nel 1777 aveva notato come, introducendo in uno spazio chiuso una miscela di gas infiammabili ed applicando una scarica elettrica, la miscela generasse un’esplosione. Questo esperimento era stato a lungo considerato una semplice curiosità ma il monaco toscano intuì come questa detonazione potesse essere usata per generare forza motrice. L’idrogeno o il metano erano stati scoperti da decenni ma le applicazioni pratiche stavano solo allora prendendo piede. Il cosiddetto “gas di carbone” veniva usato in diverse città europee per illuminare le strade. Perché non poteva essere usato anche per far andare le locomotive? Barsanti da solo riuscì a buttar giù un bozzetto, ma non fu in grado di costruire un prototipo. Nel 1851, quando fu trasferito al collegio degli Scolopi di Firenze, incontrò un altro giovane ingegnere lucchese, Felice Matteucci. Se di giorno Matteucci si concentrava sull’ingegneria idraulica, l’idea di Barsanti era affascinante. Un motore più compatto, efficiente ed economico di quello a vapore avrebbe potuto cambiare il mondo – e fargli fare parecchi soldi. La coppia di scienziati iniziò a mettere a punto un primo prototipo, affidandosi ad una officina fiorentina per la sua realizzazione pratica. Una volta sistemati i tanti problemi iniziali, Barsanti e Matteucci furono pronti per brevettare la loro idea. Peccato che all’epoca il Granducato di Toscana non avesse un ufficio brevetti. L’unica opzione disponibile era la presentazione all’Accademia dei Georgofili, avvenuta il 4 ottobre 1853. La certificazione della prestigiosa accademia fiorentina non avrebbe però impedito ad altri inventori di rubare l’idea dei toscani. Ci volle qualche mese per presentare il brevetto nella patria della rivoluzione industriale, l’Inghilterra. Il brevetto 1072, “un metodo nuovo o migliorato di applicare l’esplosione di gas come forza motrice”, fu certificato e pubblicato sul Morning Journal di Londra, provando che Barsanti e Matteucci furono in effetti i primi ad ideare un motore a scoppio. A parte la soddisfazione scientifica, l’idea da sola non valeva granché. Il loro primo prototipo era buono per dimostrare il principio ma non per generare profitti. I due ci misero sei anni per passare dal progetto ad un motore pronto ad essere utilizzato ogni giorno. Il primo modello da 20 cavalli fu costruito dalle Officine Bernini di Firenze e presentato al pubblico il 19 settembre 1860. La reazione dei media fu entusiastica. La neonata “Nazione” tesse le lodi di questa nuova invenzione, definendola “epocale”. Il giornalista fa notare come il motore Barsanti-Matteucci fosse molto superiore ai motori a vapore. Non c’era bisogno di far andare in pressione la caldaia, bruciando chili e chili di carbone prima di poter usare il motore. Bastava girare una chiave ed il motore prendeva immediatamente vita. Ad attirare l’attenzione di molti fu il fatto che il motore a scoppio era molto più economico di quelli a vapore. Il costo per generare un cavallo di potenza era un sesto, 2 centesimi invece di 12. Di carbone, poi, in Italia ce n’era davvero poco e procurarselo dal Nord Europa era un costoso grattacapo. Idrogeno e metano potevano essere prodotti anche da noi, togliendo un grosso ostacolo all’industrializzazione del paese. Gli scienziati capirono il potenziale della loro scoperta, fondando una compagnia per costruire e vendere i loro motori. La prima preoccupazione fu quella di proteggersi dai tanti imitatori, presentando brevetti in tutta Europa, dalla Francia al Belgio, dalla Prussia al Regno Unito. Il futuro sembrava sorridere agli ingegneri toscani, insomma. Il motore era piuttosto semplice, un bicilindrico a tre tempi che usava una miscela di idrogeno ed aria per generare forza motrice. Senza scendere troppo nei dettagli, invece del “normale” ciclo Otto a quattro tempi, il motore Barsanti-Matteucci generava forza non durante la fase di espansione, quando lo scoppio della miscela spinge in alto il pistone, ma nella fase di compressione, quando la pressione atmosferica ed il peso del pistone lo spingeva in basso. Questo permetteva al motore di avere un’efficienza termica ben superiore agli altri modelli sperimentali che si stavano facendo strada in Europa. Rispetto al motore Lenoir, presentato in Belgio nel 1859, il motore toscano era molto più compatto, affidabile e versatile. Il primo esemplare del motore, che le Officine Bernini iniziarono ad usare nel 1856 per spostare pesanti macchinari, si rivelò molto robusto e facile da riparare. A partire dal 1861 la compagnia di Barsanti e Matteucci iniziò a lavorare sullo sviluppo di versioni speciali del motore, dedicate ad usi specifici. Vista la mancanza di grossi investitori, i due ingegneri non furono mai in grado di realizzare i propri motori da soli ma furono costretti a rivolgersi ad officine specializzate a Milano e Zurigo. Il motore toscano riuscì a guadagnarsi qualche contratto all’estero ma molti preferirono il concorrente belga. Il motore Lenoir era meno efficiente, ma in quanto a marketing e pubblicità i belgi erano enormemente superiori. I due ingegneri toscani provarono a combattere il brevetto belga ma non riuscirono a provare il loro caso. Alla fine la svolta arrivò proprio dal Belgio, dove la compagnia John Cockerill mostrò interesse a creare uno stabilimento dove costruire una versione evoluta del motore toscano. Padre Barsanti si trasferì a Seraing, in Belgio, per dirigere lo sviluppo, mentre Matteucci continuava a lavorare a Firenze. Proprio quando il futuro della ditta toscana sembrava roseo, la tragedia. Padre Barsanti contrasse il tifo in Belgio e morì dopo una rapida agonia il 30 marzo 1864. Matteucci rimase da solo e fu quindi costretto ad occuparsi sia della gestione della compagnia che dello sviluppo del motore – troppo per l’anziano ingegnere. Proprio quando i primi motori prodotti in Belgio iniziavano ad essere venduti, una nuova doccia gelata. All’Esibizione Universale di Parigi del 1867 venne presentato un nuovo concorrente, il motore Otto-Langen. L’architettura del motore tedesco era molto simile a quello toscano ma, invece di usare idrogeno ad alta pressione, usava un idrocarburo liquido, un derivato del petrolio che sarebbe poi stato chiamato “benzina”. Invece di aver bisogno di serbatoi ad alta pressione, la benzina era stabile a temperatura ambiente e più facile da produrre in grandi quantità. Quando il motore Otto vinse il primo premio a Parigi, Matteucci si dedicò completamente a dimostrare che il motore tedesco era una copia di quello toscano. Troppe le similarità, non poteva essere considerato una nuova invenzione. Alcuni giornalisti in Europa notarono questo fatto, dando ragione all’ingegnere toscano, ma non servì a molto. L’Italia era troppo povera ed arretrata rispetto alla Germania. Senza una forte base industriale e munifici finanziatori alle spalle, Matteucci si accorse presto che stava lottando contro i mulini a vento. Alla fine, la compagnia fu costretta a dichiarare bancarotta. Deluso, l’ingegnere toscano tornò al suo primo amore, passando gli ultimi anni della sua vita ad occuparsi di idraulica. Il suo motore, pulito ed efficiente, diventò una nota a margine nei libri di ingegneria. Il motore tedesco andò avanti, trasformando il mondo in quello che abbiamo davanti agli occhi oggi, inquinamento e riscaldamento globale inclusi. Padre Eugenio Barsanti rimase sempre uno scienziato puro, troppo umile e riservato per sopravvivere nel tumultuoso mondo della rivoluzione industriale. Più che di corteggiare possibili finanziatori o alleati politici nella lotta contro i concorrenti, sembrava più preoccupato dell’impatto futuro della sua invenzione. In una lettera inviata a Papa Pio IX, si disse preoccupato del fatto che il motore a scoppio avrebbe cambiato non solo il mondo, ma anche le anime di tutti noi. Barsanti capì che la sua invenzione avrebbe allontanato gli uomini dalla spiritualità ed alimentato quella visione materialistica del mondo che, fin dall’Illuminismo, aveva iniziato a corrodere le fondamenta della civiltà occidentale. Se non fosse stato per il lavoro dei suoi confratelli, che scrissero libri ed articoli sulla sua vita e sulla sua invenzione, nessuno oggi ricorderebbe Padre Barsanti ed il suo incredibile motore ad idrogeno. Del suo lavoro rimane poco, a parte una copia del motore al Museo della Scienza di Milano, ma i suoi concittadini non l’hanno affatto dimenticato. Per i 200 anni dalla nascita, il comune di Pietrasanta ha inaugurato una copia in bronzo del busto in marmo che adorna la basilica di Santa Croce a Firenze. Gli è stato intitolato il giardino dell’area dedicata alle esibizioni del Chiostro di Sant’Agostino ma la cosa che avrebbe più inorgoglito Padre Barsanti è la ventesima edizione del premio internazionale a lui dedicato. Il premio, vinto in passato dal genio del design Giorgetto Giugiaro e dal premio Nobel Gerhard Ertl, inventore della marmitta catalitica, è andato quest’anno ad Alberto Bombassei, fondatore e presidente dell’italianissima Brembo, ditta leader al mondo nei freni per automobili. Queste celebrazioni sono un poco tristi, specialmente se si pensa a come sarebbe stato diverso il nostro mondo se, invece di benzina o gasolio, si fosse scelto di sviluppare l’economia basandosi sulla combustione dell’idrogeno fin dal primo momento. Questo genio toscano aveva offerto un futuro senza inquinamento al mondo ma fu troppo umile e riservato per difendere questa sua visione dall’assalto di altri personaggi più spregiudicati. A quanto pare, per cambiare il mondo non basta nemmeno una grande idea. Il genio, da solo, non basta. Magari, la prossima volta che salirete in macchina, pensate a Barsanti. Ovunque sia, sono sicuro che gli farebbe piacere.

Storia.  Come è nato il calendario gregoriano.  Elisabetta Intini su Focus il 20 marzo 2019. Il 4 ottobre 1582 entrava in vigore il calendario gregoriano, che ancora oggi usiamo in quasi tutto il mondo. "Rubando" 10 giorni per rimettere in linea il computo del tempo del calendario precedente e la durata dell'anno solare. Il 4 ottobre 1582, la gente sperimentò, andando a dormire, un vero e proprio viaggio nel futuro. I giorni compresi tra il 5 e il 14 di ottobre furono letteralmente cancellati dal calendario, e ci si risvegliò la mattina seguente che era già il 15 dello stesso mese. Tutta colpa dell'introduzione del calendario gregoriano. 

RAPIDO RECUPERO. Il 1582 durò di fatto 10 giorni in meno. Questo lasso di tempo fu dichiarato non esistente da Papa Gregorio XIII, che voleva con questa riforma superare lo sfasamento tra il calendario giuliano, introdotto da Giulio Cesare nel 46 a.C. e utilizzato fino ad allora, e l'andamento dell'anno solare, nei confronti dei quali si era, in quel momento, in ritardo.

SFASAMENTO. L'anno solare, infatti, dura precisamente 365 giorni, 5 ore, 48 minuti e 46 secondi e non soltanto 365: il non aver tenuto conto, per secoli, di questo "scarto" aveva fatto cadere l'equinozio di primavera, così come segnato dalle meridiane, l'11 marzo, 10 giorni prima di quanto previsto dal calendario. E di conseguenza anche la data stabilita per la Pasqua - che cade la domenica successiva alla prima Luna piena di primavera - sballava. 

LA DIFFERENZA. Per recuperare il tempo perduto fu allora presa questa drastica misura, con la bolla papale Inter gravissimas, frutto di un lavoro di quattro anni in accordo con il medico Luigi Lilio e l'astronomo Cristoforo Clavio. Il nuovo calendario gregoriano era molto simile al precedente (con anni di 365 giorni e uno bisestile ogni 4), con la differenza che furono soppressi i bisestili degli anni centenari non multipli di 400 (vedi anche: quando un anno è bisestile, e perché?).

A MACCHIA D'OLIO. Dapprima entrato in vigore nei paesi cattolici come Italia, Spagna e Portogallo, il calendario gregoriano è ora per la sua praticità in uso in gran parte del mondo, con alcune eccezioni.

IL CALENDARIO GIULIANO. Il rapporto coi calendari, però, è sempre stato difficile. Andavano ciclicamente aggiustati. Quello che avvenne con Gregorio XIII successe anche 1500 anni prima, con Giulio Cesare: nel 46 a. C. Cesare incaricò l’astronomo alessandrino Sisogene di rimettere in pari le date rispetto alle stagioni (l’equinozio primaverile cadeva… all’inizio dell’inverno). Si stabilì che il 46 a. C. avesse 445 giorni; il caos precedente era tale che quello fu detto ultimus annus confusionis. Sisogene definì un anno di 365 giorni, con un anno bisestile ogni 4: era il calendario giuliano. Elisabetta Intini su Focus il 20 marzo 2019 

Francesca Cibrario per il "Corriere della sera" il 20 settembre 2021. Il lattaio di Watertown si lamenta dell'odore rancido che i prodotti che trasporta lasciano nel suo furgone. Tra i passanti che lo ascoltano c'è anche Julius Sämann, un profumiere della zona, da poco rientrato nello Stato di New York dopo un lungo soggiorno in Canada, dove aveva studiato gli aromi delle conifere. Catturato da quel problema, Sämann decide di trovarne la soluzione e, per la prima volta, si mette a lavorare su una fragranza non per le persone, ma per le loro auto. I veicoli in quel lontano 1952 puzzano - di carburante, fumo, cibo - molto più di oggi: c'è mercato per la sua idea. Che velocemente prende forma e anche odore, quelli di un piccolo pino. Comincia così la storia di Little Trees, che noi conosciamo come Arbre Magique e che, quasi 70 anni dopo, penzola ancora dagli specchietti retrovisori di tutto il mondo. Dall'America l'alberello odoroso arriva nel nostro Paese nel 1964, grazie a un altro incontro casuale: «È stato un tassista newyorkese a farmelo scoprire», ricorda Giancarlo Tavola, presidente di Tavola Spa, distributrice esclusiva (e dal 1975 anche produttrice) di Arbre Magique. «Affascinato e incuriosito da quel piccolo oggetto che stravolgeva le abitudini degli automobilisti e capace di deodorare l'abitacolo con attenzione al design, ho deciso di portarne con me in Italia un po' di esemplari. All'inizio ho dovuto faticare per convincere l'azienda della forza del prodotto, ma il suo immediato successo devo dire che mi ha dato ragione». E anche il tempo: il cartoncino sagomato oggi è leader del settore, ma anche un'icona della cultura pop. «Il vero marchio è proprio la sua forma - spiega Gianpaolo Re, amministratore delegato di Tavola Spa -, perché il nome cambia a seconda del mercato in cui è venduto. I tassisti lo chiamano semplicemente "l'alberello"». E un tempo, invece, «il prodotto delle pin-up», perché veniva venduto dentro una bustina trasparente e pinzato a un cartoncino con illustrazioni sempre diverse. «Quella che lo rese famoso fu proprio quella di una pin-up, che da noi era detta "la Marilyn Monroe". Tirandolo fuori dalla busta si regolava sia la durata sia l'intensità del profumo». Nel nostro Paese, all'inizio, Arbre Magique era disponibile in due fragranze: Pino e Vaniglia. «Oggi se ne contano 28/30, quasi 40 nel mondo», continua Re. «Ogni anno tre o quattro muoiono, e ne immettiamo altrettante». Mantenere l'albero sempre verde è un lavoro continuo, perché «gli odori passano di moda, come i profumi per il corpo». Ma i risultati sono positivi: «Quando siamo partiti in Italia vendevamo intorno alle centinaia di migliaia di pezzi all'anno, oggi decine di milioni». I best-seller? «Globalmente Vaniglia e Pino sono sempre sul podio, il terzo varia: da noi oggi è lo Sport, molto secco, mascolino. Subito dopo ci sono profumi più classici, come Lavanda e Colonia, e i fruttati». Molto apprezzati Coconut, Fruit Cocktail, Anguria e la fragranza che si chiama Auto Nuova. Non solo successi, però: «Sette anni fa abbiamo fatto una linea che si chiamava Pret-à-Porter: colonie che si legano agli abiti che si indossano. È stato un flop perché, avvicinandoci alla moda, ci siamo allontanati dall'automobile, così la abbiamo dismessa». Gli ultimi nati? «Per esempio, dopo il primo lockdown, abbiamo lanciato la fragranza Aria Nuova, un profumo fresco e acquoso: ha avuto un'accettazione entusiasta, perché c'era tanta voglia di ricominciare ad andare in giro. Per festeggiare la vittoria degli Europei di calcio, invece, abbiamo lanciato un Arbre Magique tricolore. Oltre ad avere prodotti che piacciano per sempre, bisogna sapere anche interpretare i momenti speciali». Un prodotto celebrativo e celebrato: «Lo consideriamo quasi un'opera della pop-art», conclude l'amministratore delegato. «E ci gratifica che venga citato nelle canzoni (di 883, Articolo 31, Calcutta, Beastie Boys, ndr) e compaia in film internazionali»: Robin Williams lo porta al collo ne La leggenda del re pescatore di Terry Gilliam e il killer di Seven, capolavoro di David Fincher, lo usa per nascondere l'odore dei suoi crimini. Interpretazioni da Oscar.

·        Elio Trenta ed il cambio automatico.

L'incredibile storia dell'ingegnere italiano che a 20 anni brevettò il cambio automatico. Marco Tullio Giordana su La Repubblica il 27 marzo 2021. Il regista de "I cento passi" e "La meglio gioventù" racconta la vicenda di Elio Trenta che nel 1932 inventò il “rapportatore di velocità per macchine in genere”. Ma era troppo in anticipo e allora...Il bravo attore Luigi Diberti, col quale ho lavorato nel 2012 nella messinscena del testo di Tom Stoppard The Coast of Utopia e, ancor prima, nel 2008, nel mio film Sanguepazzo, mi ha raccontato di un monologo al quale sta lavorando, insieme allo scrittore e presbitero Gianmario Pagano e ispirato a una figura pressoché sconosciuta. Si tratta di Elio Trenta, nato a Città della Pieve nel 1912 e morto nel 1934, che brevettò nell’aprile del 1932, presso l’allora Ministero delle Corporazioni del Regno d’Italia, il “rapportatore di velocità per macchine in genere”, ovvero l’ormai comunemente diffuso cambio automatico, oggi disponibile su gran parte delle autovetture in commercio. Nulla sapevo di Elio Trenta; le notizie che ho potuto trovare in rete sono scarne e sembrano tutte provenire da una medesima stringata fonte. Per taluni sarebbe morto ventenne nel 1932, prima dunque d’aver conseguito la laurea in ingegneria, per altri invece due anni dopo. È evidente che il giovanissimo inventore ha concepito il rivoluzionario meccanismo addirittura nel corso dei suoi studi, con inventiva e lungimiranza precocissime. Tuttavia questo suo brevetto, rubricato col numero d’ordine 298415, non trovò credito presso l’industria automobilistica italiana, soprattutto per l’aggravio di costi che comportava su un prodotto che, pur ancora lussuoso e per pochi eletti, stava cercando di allargare la propria clientela. Per quanto l’invenzione semplificasse la condotta dell’autoveicolo, fino a quel momento riservata agli chauffeurs ma sempre più diretta al cliente che voleva guidarselo di persona, la complessità costruttiva, l’eccessivo assorbimento di potenza e l’aumento dei consumi che il cambio automatico comportava ne impedirono lo sviluppo. Elio Trenta, questo va detto, non era stato il solo. In quello stesso 1931 l’ingegnere svizzero Gaston Fleischel stava studiando un cambio automatico che perfezionasse il sistema elettromagnetico francese Cotal, e il suo brevetto fu acquistato nel 1935 dalla Peugeot. Ancora prima, siamo addirittura nel 1921, il canadese Alfred Horner Munro aveva inventato una trasmissione automatica brevettata nel paese d’origine nel 1925 e, a seguire, nel Regno Unito nel 1924 e in Usa nel 1927. Un altro geniale inventore, Oscar H. Banker (proveniva dall’Armenia, il vero nome era Asatour Sarafian), studiò un cambio automatico per la General Motors nel 1932, stesso anno del brevetto Trenta. Sarà proprio una azienda del gruppo GM, la Oldsmobile, a montare, con un sovrapprezzo di 57 dollari, il cambio automatico sul Model Year 1940, rendendo questo accessorio indispensabile su ogni futura auto americana. Ci vorrà mezzo secolo perché si diffonda con altrettanta capillarità in Europa. Se Elio Trenta non fu l’unico responsabile di questa innovazione, a lui spetta senz’altro la palma del più giovane. Senza contare che, estraneo e indipendente da qualsiasi sfruttamento industriale, il suo “rapportatore di velocità” è idea che nasce senza l’appoggio di nessuno, per pura teoresi. La morte, repentinamente sopravvenuta ad appena 22 anni, lo ha privato del giusto riconoscimento e perfino del posto che meriterebbe con tutti gli onori nel Pantheon dell’automobilismo italiano.

·        I Droni.

Umberto Rapetto per “il Messaggero - MoltoFuturo” il 17 giugno 2021. L'ultima generazione di droni-killer è una realtà talmente spaventosa da far sembrare medievale l’avveniristica esecuzione del generale iraniano Soleimani, ucciso da un attacco aereo all’una di notte del 3 gennaio 2020 all’aeroporto di Baghdad. I missili che centrarono il convoglio di auto erano stati lanciati da un “banale” General Atomics MQ-9 Reaper (conosciuto anche come Predator B), aereo privo di pilota ma comandato a distanza. Il raid era l’esito di un processo decisionale tradizionale con Trump a premere il grilletto dopo valutazioni politiche e militari. Sbagliato o giusto che fosse, a decretare la morte di Qassem Soleimani era stato un uomo e non autonomamente la “macchina”.

L’ATTIVITÀ. In Libia – secondo le Nazioni Unite – sarebbe invece in azione un micidiale KARGU-2, un quadricottero da combattimento di fabbricazione turca “istruito” per combattere le unità di Khalifa Haftar. Il suo funzionamento – basato sul ricorso a sofisticate applicazioni di intelligenza artificiale – è pressoché autonomo e ogni azione è determinata dal drone in totale indipendenza nel solo rispetto delle regole che sono state “automatizzate”. Il KARGU-2, il cui nome significa letteralmente “torre di osservazione in cima alla montagna”, è un minuscolo drone kamikaze prodotto da Savunma Teknolojileri Mühendislik ve Ticaret A.S. (STM) per essere impiegato in operazioni a contrasto delle insurrezioni contro bersagli statici e in movimento. È capace di osservare (tra i suoi nomignoli quello di “sparviero euroasiatico”), acquisire immagini, elaborarne il contenuto e stabilire in tempo reale le iniziative da adottare sulla base di algoritmi di apprendimento automatico incorporati nella sua piattaforma software. In termini pratici vede, si fa una sua idea dell’atteggiamento di un determinato soggetto, ne stabilisce il livello di potenziale pericolosità e decide in piena autonomia il da farsi.

LA MEMORIA. La base di metaconoscenze inserite nella sua “memoria” all’entrata in servizio è arricchita dall’esperienza che matura ad ogni sorvolo, acquisendo nuovi dati, classificando espressioni dei volti, movimenti e gesti, stabilendone il grado di aggressività, prevedendo ipotetiche azioni che ancora non sono avvenute. È “lui” a stabilire la necessità di un eventuale intervento, in modo completamente automatico e in assoluta assenza di interferenze umane. La libera interpretazione delle condotte cui assiste può portare il drone ad innescare attività sconsiderate. La sua capacità di intervento “preventivo” evoca angoscianti sequenze cinematografiche e prospetta i peggiori scenari distopici. Il punto è che i sistemi di intelligenza artificiale, anche i più sofisticati, non sanno distinguere lo scherzo dal vero.  Un domani – se simili arnesi trovassero diffusione ai fini di polizia – guai a lasciarsi scappare un faceto “ti ammazzerei…” perché il robot-sbirro non darebbe il tempo di completare la frase. Il 24 marzo 2014 l’Assemblea Generale Onu aveva approvato la risoluzione A/HRC/25/L.32 volta a «garantire l’uso di velivoli a pilotaggio remoto o droni armati in operazioni antiterrorismo e militari in conformità con il diritto internazionale, compresi i diritti umani internazionali e il diritto umanitario». Poiché pare che oltre alla Turchia altri Paesi, a cominciare da Russia e Stati Uniti, dispongano di simili armi letali (persino più avanzate), forse è il caso che le Nazioni Unite rispolverino quella risoluzione.

·        Dentro la Scatola Nera.

Dentro la scatola nera, tra segreti e realtà. Tiziano Bernard il 4 Luglio 2021 su Il Giornale. Le “scatole nere” vengono installate su vari mezzi di trasporto: treni, automezzi e soprattutto aerei. Ma come funziona una scatola nera? Quali sono i suoi segreti? L’abbiamo chiesto ad un vero investigatore federale degli Stati Uniti ed al direttore dell’agenzia investigativa Ntsb del governo americano. Le scatole nere sanno tutto. O meglio, racconteranno tutto. È questo quello che mi passava per la mente mentre pilotavo un piccolo Cessna nei cieli sopra lo stato del Kansas, negli Stati Uniti. Eravamo in volo da poco, appena decollati da Olathe diretti a Gardner, vicino a Kansas City. L’aereo era abbracciato dalle nuvole e non c’era alcuna visibilità. Avevo gli occhi fissi sull’avionica Garmin di ultima generazione che mi indicava la rotta, mi aggiornava sul piano di volo, ricreava la topografia locale con una visione sintetica e mi forniva informazioni sugli aerei vicini. Dalla mia cabina vedevo il mondo che mi circondava. Eppure se guardavo fuori dal finestrino vedevo un bianco infinito e brillante. Visibilità zero. Mi venne in mente la scatola nera perché quell’aereo era troppo piccolo per averne una. Se mai fosse successo qualcosa, non ci sarebbero stati molti dati per ricreare il passato, tranne le mie telecamere (amatoriali) montate in cabina. Ma quel giorno la scatola nera non sarebbe stata necessaria. Accanto a me avevo un istruttore “con i fiocchi”. Mio collega di allora, amico e istruttore di volo, il dott.ric. William “Bill” Tuccio. Bill conosce la sicurezza in volo come pochi. Non solo per le sue migliaia di ore di volo, o i suoi titoli di studio o la sua passione per l’aeronautica. Bill era un investigatore federale del National Transportation Safety Board (Ntsb), l’agenzia governativa degli Stati Uniti responsabile di investigare gli incidenti nel mondo dei trasporti. Quando precipita un aereo, affonda una nave, deraglia un treno, c’è l’Ntsb. E a chi meglio che il dr. Tuccio, chiedere i segreti delle scatole nere ed il processo investigativo che ne deriva. “Il mio ruolo era quello di specialista di registratori nell’Ufficio di Ricerca e Ingegneria, Divisione Registratori di Veicoli. Ero un investigatore federale con l’Ntsb” ci racconta il dr. Tuccio. Distintivo e tutto il resto. “Il mio mestiere era di scaricare informazioni da registratori certificati (quindi ufficiali) e qualsiasi altro pezzo di elettronica trovato nelle vicinanze di un evento. Questo vale per qualsiasi modalità: aviazione, ferrovie, marina, autostrada ed altro.” Usare una scatola nera significa innanzitutto ritrovare la scatola stessa, scaricare i dati che contiene e poi riassumere i fatti descritti dalle registrazioni. “La maggior parte delle volte è un impegno individuale, altre volte invece si usa una squadra composta da altri membri del Ntsb”. L'investigatore federale dott. ric. William "Bill" Tuccio alle prese con una scatola nera. Molto spesso l'Ntsb viene chiamata a dare supporto per investigazioni internazionali.

Che cos'è una scatola nera? La scatola nera è una scatola metallica che custodisce un registratore al suo interno. Questo registratore, in origine un semplice nastro, annota vari parametri continuamente. Nell’esempio di un aereo, la scatola nera registra quelli di volo (come altitudine, velocità, angolazioni) e le conversazioni in cabina di pilotaggio per capire cosa dicevano i piloti. Ce ne sono quindi di vari tipi. “Ci sono quelle parametriche (registratore per i dati di volo - FDR) che usano dati in formato binario ARINC, vocali (registratore per le conversazioni in cabina - CVR) che creano un file .WAV, e registratori video” spiega Bill. “I registratori video certificati non hanno penetrato il mercato in maniera sostanziosa, anche se l’Ntsb ha spinto per un uso più frequente”. Queste scatole sono di colore arancione acceso (e non nero!), proprio per essere trovate con più facilità. Il termina “scatola nera” deriva dal secondo conflitto mondiale, indicando una serie ti tecnologie elettroniche (come radar, radio, ed altri sistemi di navigazione) che venivano nascoste in scatole di colore nero. Con il tempo l’uso è diventato civile, ma il termine “scatola nera” era ormai coniato ed usato colloquialmente da tutti i costruttori aeronautici. Più importante è il design: sono progettati per resistere agli incidenti più estremi. Questo per garantire, con un’alta confidenza, che sarà quasi sempre possibile analizzare i dati e determinare le cause di un evento. Analizzando e studiando i dati sarà poi possibile imparare e migliorare il mondo dei trasporti. “Gli standard sono cambiati con gli anni” spiega il Dr. Tuccio. “Gli ordini governativi che dettano gli standard di certificazione contengono requisiti dettagliati per accelerazioni, danno da impatto, shock, tempistiche per il calore e contatto con i fluidi”. Il sito del Ntsb indica alcune di queste caratteristiche: resistenza al fuoco fino a 1100 gradi centigradi, impermeabilità fino a 6km di profondità, capacità di trasmettere la posizione per 30 giorni (sott’acqua) e resistenza all’impatto fino a 3400 G. La scatola deve quindi essere pronta a tutto. “Se una scatola viene ritrovata, la informazioni possono essere scaricate” continua Bill. Naturalmente, se la scatola non viene ritrovata, come nel caso di Malaysian Airlines 370, i dati sono persi. “C’è un pò di interesse internazionale ad usare satelliti per trasferire dati di continuo e non aver più il bisogno di una scatola fisica” commenta il dr. Tuccio. Naturalmente, la scatola nera è solo un piccolo pezzo di un puzzle molto più grande. Rimanendo in tema aeronautico, altri pezzi di questo quadro potrebbero essere lo spazio aereo, il controllore di volo, la compagnia aerea, l’esperienza precedente dei piloti, il costruttore dell’aereo, il meccanico responsabile della manutenzione e molti, molti altri. Per ognuno di questi potrebbero esserci molteplici contributori ad un incidente. Per esempio, i turni dei controllori di volo troppo lunghi o un nuovo protocollo per il controllo di manutenzione. Ecco perché la scatola nera non potrà quasi mai ritrarre l’intero quadro di un evento. È però capace anche di raccontare le emozioni, i pensieri e le parole. Tutto quello che rendono “umani” i piloti.

Il processo investigativo. Dopo un incidente, la scatola nera viene ritrovata e presa in custodia dagli investigatori federali del Ntsb. Deve poi essere trasportata in modo sicuro al quartier generale dell’agenzia. Non possono naturalmente esserci interferenze di alcun tipo. Una volta al sicuro, investigatori come Bill Tuccio scaricano i dati su una rete privata ed isolata dal mondo esterno per garantire la privacy. La registrazione viene poi ascoltata dall’investigatore per determinare che l’evento di interesse sia presente (che la scatola nera abbia funzionato correttamente). I dirigenti ed il capo investigatore (“investigator in charge”) poi decidono come condurre l’investigazione della scatola. Questo può risultare in due processi. Il primo consiste in un lavoro individuale, dove l’investigatore riassume i fatti ascoltati nel registratore ed un rapporto con “i fatti” viene steso. Il secondo consiste in un lavoro di gruppo dove gli investigatori si riuniscono con il costruttore dell’aereo, i sindacati dei piloti, il costruttore del motore e l’amministrazione federale dell’aviazione (l’autorità che gestisce l’aviazione). Per circa quattro giorni il gruppo trascrive l’intera registrazione. Questo rapporto non è semplice da scrivere perché deve evidenziare ogni esitazione tra le parole, ogni prolungamento di una parola, ogni rumore. Proprio tutto. Le scatole nere vocali registrano tipicamente le ultime due ore, dando spesso molto lavoro agli inquirenti. Le scatole nere parametriche invece hanno tradizionalmente un ciclo tra le 25 e 50 ore (esistono modelli che arrivano anche alle centinaia di ore). Questo è dovuto anche alla necessità di capire se l’aereo avesse avuto altri comportamenti sospetti ben prima di un evento. Se l’equipaggio sopravvive, esso viene prima intervistato (tipicamente entro le prime 36 ore) dai gruppi “operazioni e fattori umani” (Human Factors and Operations) per iniziare a rispondere alla domanda “cosa è successo?" (successione degli eventi, stato del mezzo, altri fattori, problemi, ecc). Successivamente, l'equipaggio viene anche invitato ad ascoltare le registrazioni con lo specialista. La trascrizione finale viene poi aggiunta al fascicolo investigativo e custodita gelosamente per evitare che venga rilasciata al pubblico prima del dovuto; verrà pubblicata assieme al rapporto finale. La registrazione audio della scatola nera, invece, non verrà mai rilasciata al pubblico. Se l’evento è molto complesso e c’è una necessità di avere più dati, l’agenzia può organizzare un’udienza (“hearing”) dove le varie parti vengono invitate a testimoniare. L’Ntsb potrebbe avere domande per l’operatore, le loro procedure, le loro misure di sicurezza, o per il costruttore del veicolo, oppure per il costruttore dei motori. Chiunque possa fornire dati di interesse per l’investigazione. L’equipaggio, se sopravvissuto, è anche invitato a questa udienza pubblica. L’analisi di tutti i dati viene condotta dall’agenzia privatamente. Alla conclusione, lo staff prepara una presentazione dove l’intero rapporto viene discusso e revisionato davanti al consiglio direttivo Ntsb (“Members of the Board”). Tutto viene discusso meticolosamente per pubblicare il miglior rapporto possibile: fatti, analisi, conclusioni, cause e raccomandazioni. Il consiglio spesso formula domande per gli investigatori e alla fine vota sulla stesura e la pubblicazione del rapporto finale. Può succedere che i membri del consiglio offrano opinioni differenti. Il dr. Bill Tuccio ne ha viste molte, tra cui l’incidente con Space Ship Two (2014) e l’incidente che ha coinvolto un jet privato (Learjet) all’aeroporto di Teterboro nel New Jersey nel 2017 (vicino a New York). Per il primo, anche se non sotto la sua investigazione, la scatola nera è stata assolutamente critica. L’incidente che ha visto il veicolo spaziale esplodere è stato attribuito ad un errore umano, oltre ad altre responsabilità aziendali. Il secondo invece è stato un evento interessante per la moltitudine di fattori presenti nell’incidente, come la poca preparazione pre-volo e le interazioni tra pilota e copilota durante la fase di atterraggio.

La struttura del National Transportation Safety Board. L’Ntsb è per definizione un’agenzia investigativa federale ma indipendente dal governo degli Stati Uniti. Per federale si intende che ha giurisdizione su tutti gli Stati del paese ed i membri del consiglio direttivo sono nominati dalla Presidenza del governo. Sotto il consiglio lavorano centinaia di specialisti, tra esperti in un determinato settore ed investigatori professionisti. Le qualità necessarie per lavorare con l’Ntsb sono molte, proprio come spiega il dr. Tuccio. Tra le qualità, ci sono “la capacità di trovare ripetizioni e modelli tra i dati, essere attenti ai dettagli, avere padronanza della materia (aeronautica nel suo caso), conoscenze ingegneristiche, conoscenze elettroniche e molte altre”. Lavorare per l’Ntsb comanda rispetto dato che l’agenzia è da sempre conosciuta come oggettiva, imparziale, apolitica e puramente finalizzata a migliorare la sicurezza nei trasporti civili statunitensi. Il quartier generale si trova a Washington D.C., non lontano dalla Casa Bianca. Il direttore (tecnicamente Presidente del Consiglio - “Chairman of the Board”), fino a qualche giorno fa, è stato Robert L. Sumwalt, un personaggio straordinario e devoto alla sua professione, proprio come racconta il dr. Tuccio. “A varie riunioni del consiglio ho dato testimonianza e risposto alle sue domande. È una persona estremamente gentile che tiene a chi lavora per lui. Ama il suo lavoro e si vede in tutto quello che fa.” Robert Sumwalt si è appena ritirato qualche giorno fa. È stato direttore dal 2017 ed un membro del consiglio dal 2006. “L’America ha avuto un grande servizio dal Direttore Sumwalt.” racconta Bill Tuccio. Non potevamo non contattarlo e fargli giustamente qualche domanda. “Studio ed insegno cause d’incidenti e prevenzione da molto tempo” ci racconta il direttore Sumwalt. “Ho anche lavorato nei team di investigazione del Ntsb. Quindi conosco molto bene come opera l’agenzia. Avere una conoscenza dell’aviazione mi ha sicuramente aiutato molto” continua a raccontarci. E di conoscenze ne ha molte. Master in scienze aeronautiche (con lode) e laurea in ingegneria aerospaziale con specialità in fattori umani e sicurezza. E ancora, oltre 14000 ore di volo con brevetti su cinque aerei di linea diversi. La vera definizione di “esperto”.

Le scatole nere nel futuro. Dopo l’incidente del volo Colgan Air nel 2009, il Direttore Sumwalt ha espresso la necessità di utilizzare le scatole nere per incrementare la qualità delle operazioni di volo. Il programma “flight operational quality assurance” (Foqa) è una responsabilità degli operatori di volo (per esempio le compagnie aeree) di monitorare e migliorare la qualità della sicurezza nelle loro operazioni di volo. Uno dei modi è scaricare le scatole nere e vedere come i voli sono stati condotti. “Le scatole nere appartengono agli operatori, non al governo” spiega Bill Tuccio, “non ci sono leggi o regolamenti che ne proibiscano l’uso dagli operatori stessi”. Ma non tutti i piloti (e sindacalisti associati) sono felici dell’idea. Avere una specie di “grande fratello” a bordo non è certo stimolante. Gli operatori che usano le scatole nere nel loro programma Foqa scaricano i dati in maniera anonima, cosí da non puntare il dito a nessun equipaggio in particolare. Però il concetto di “grande fratello” a bordo non è nuovo, ed in parte esiste tutt’ora. Molti aeroplani devono trasmettere dati durante i voli per essere periodicamente monitorati (protocollo ADS-C). Inoltre, studi in anni recenti hanno considerato l’uso di telecamere in cabina di pilotaggio per poter creare una connessione video con il suolo durante un’emergenza. Certo, durante un’emergenza potrebbe anche essere utile, ma la maggiorparte dei piloti non ama l’idea di avere una telecamera che può vedere tutto quello che fanno. Potrebbe quasi creare un paradosso e ridurre la sicurezza in volo aumentando la tensione. Alla fine, una cosa è fondamentale. Le scatole nere devono continuare a dare risposte in maniera fattuale. Il concetto di “fake news” non esiste nel vocabolario del Ntsb. E lo si vede in vari modi. Per esempio, l’Ntsb è una delle poche (se non l’unica) agenzia investigativa governativa nel mondo a pubblicare la trascrizione del registratore audio nei rapporti investigativi. “Credo che sia molto importante per noi essere trasparenti” spiega il direttore Sumwalt “e sono d’accordo con il nostro protocollo. Certamente, un linguaggio poco pulito e frasi che non sono pertinenti all’evento possono spesso essere rimosse, specialmente se di natura personale”. Però, come ci spiega Bill Tuccio, la trascrizione deve essere piena per dare il senso della conversazione, incluso lo stato emotivo delle persone. “Per esempio” conclude il direttore Sumwalt “se un pilota parla in maniera volgare e maliziosa della moglie e queste parole non hanno niente a che vedere con l’evento, verranno omesse dalla trascrizione. Se invece il pilota aveva appena avuto una discussione con la moglie ed era sconvolto prima dell’evento, allora si dovrebbe caratterizzare quello che è stato detto senza usare volgarità.” Ecco cosa significa essere corretti, fattuali, umani e professionali. 

Tiziano Bernard. Sono nato a Trieste, una città giuliana sul Mare Adriatico nel 1992. Da mia madre pianista ho ereditato il lato artistico studiando violino al conservatorio Tartini di Trieste e da mio padre biologo ho assorbito la mentalità razionale e scientifica che mi ha portato a diventare ingegnere aerospaziale e pilota. Dopo un’istruzione all’International School of Trieste, mi sono trasferito in Florida dove ho conseguito una laurea in ingegneria aerospaziale a 22 anni, un master in prove di volo (flight test) a 23, ed un dottorato di ricerca in ingegneria cognitiva (human-centered design) a 26 presso il Florida Institute of Technology. Finiti gli studi, nel 2019 ho lasciato il mondo accademico per dedicarmi all’industria aeronautica. Ho progettato cabine di pilotaggio per Garmin fino al 2021 ed ora mi occupo di prove di volo su jet privati con un grande costruttore negli Stati Uniti. Non sono riuscito a lasciare completamente il mondo accademico. Infatti, continuo a pubblicare trattati scientifici e a parlare e tenere lezioni in aerospazio e performance umana presso congressi ed atenei quando posso. Nel 2017 ho ricevuto la medaglia bronzea dal Comune di Trieste per i miei impegni in ambito aerospaziale e nel 2019 sono stato eletto da Forbes Italia alla lista “under 30” per le scienze. Appartengo all’Ordine al Merito della Real Casa di Savoia e all’Ordine di S. Giovanni. Collaboro con ilGiornale.it - con grande piacere ed orgoglio - dal 2018.

·        La Colt.

Flavio Pompetti per "il Messaggero" il 27 luglio 2021. Quando esordì nel 1873 alla cintola della cavalleria dell'esercito statunitense, la Colt single action a canna lunga, in gergo la Pacificatrice, si poteva acquistare al prezzo di 17.50 dollari; un grosso affare se valutato con il metro della modernità, visto che incorporava quasi un'oncia d'oro, che ora vale 1.800 dollari. Ancora oggi è possibile comprare una delle sue innumerevoli reincarnazioni, senza più oro nella lega, per circa 2.000 dollari. Un esemplare particolare di quest' arma andrà all'asta oggi a Los Angeles con una base di prezzo di 2 milioni di dollari, ma la casa Bonhams che la batte prevede che l'offerta finale supererà agilmente quota tre milioni. È la Colt con la quale lo sceriffo Pat Garrett uccise con un solo colpo al petto il bandito Billy the Kid nella camera da letto di un ranch a Fort Sumner, New Mexico, il 14 luglio del 1881. La storia è stata raccontata già tante volte dalla letteratura e dal cinema. La leggenda vuole che qualche mese prima, quando Billy era già stato imprigionato da Garrett, quest' ultimo gli abbia detto che lo avrebbe impiccato «fino a che non sarai morto, morto, morto» e che l'altro gli avesse risposto: «Vai all'inferno, all'inferno, all'inferno». Qualche ora dopo il ventunenne criminale, che aveva alle spalle già otto cadaveri, riuscì a scappare dalla cella. Rubò una pistola dall'armeria di Garrett e la usò per ferire due guardie che cercavano di trattenerlo. Tra lo sceriffo e il bandito esisteva una curiosa solidarietà. Entrambi erano a caccia di fama ancora più che di successo ed erano uniti a doppio filo come gli arcinemici di un cartone animato a tema dell'inseguimento e della fuga. Si racconta persino che fossero stati un tempo compagni di lavoro in una fattoria del New Messico prima di prendere direzioni opposte nella vita. Billy, il cui nome di nascita era Henry McCarty, era rimasto orfano di entrambi i genitori all'età di 15 anni e aveva subito il primo arresto l'anno successivo per un furto di cibo da un negozio. Fuggì una prima volta di galera e divenne un fuorilegge ricercato dalla polizia federale quando attraversò il confine con l'Arizona, territorio al tempo ancora non federato nell'Unione. Alla fine fu Garrett ad avere la meglio. Era stato informato dell'arrivo di Billy a Fort Sumner e si nascose al buio della camera. Quando il bandito rientrò, lo sceriffo gli sparò e lo uccise sul colpo con la Colt che aveva sottratto a un altro membro della gang: Billy Wilson, da lui precedentemente arrestato. Il martirio consacrò il culto romantico del baby fuorilegge e valse a Garrett il diritto di raccontare come era andata in una biografia che pubblicò qualche anno dopo. Non tutti hanno creduto alla sua versione: per molti Billy uscì vivo anche da quell'agguato e almeno un paio di testimoni giurarono di averlo incontrato negli anni successivi. Quello che resta oggi è la Colt, che in diverse occasioni è passata tra le mani dell'uno e dell'altro protagonista di questa storia e che per questo rappresenta al meglio il legame che li univa. Bonhams la offre all'asta insieme a quella che si pensa sia la collezione più ricca al mondo di memorabilia del vecchio west, ammassata negli anni dal professore universitario texano Jim Earle e da sua moglie Theresa, la quale è oggi pronta a disfarsene. Il prezzo ventilato dal banditore non ha precedenti per la pistola che è tra le più famose del mondo e che è stata prodotta in quasi mezzo milione di esemplari in un secolo e mezzo di vita. Il risultato della licitazione sarà anche un responso sulla longevità del mito del bandito bambino e della epopea del west, in tempi di dominio dei supereroi e della fantascienza.

Carlo Nordio per “Il Messaggero” il 22 febbraio 2021. Pochi giorni fa è uscita la notizia che il produttore d'armi ceco Ceska Zbrojovka ha acquistato la totalità delle azioni della Colt. Il caso vuole che il cambio di padrone avvenga nell'imminenza del 25 febbraio, data in cui, nel 1836, Samuel Colt brevettò il primo modello di pistola a tamburo rotante, che dalla lingua madre prese il nome, ora noto a tutti, di revolver. L'arma è entrata nelle nostre case attraverso i film western, i fumetti di Buffalo Bill e di Tex Willer, gli sceneggiati del tenente Sheridan e la 44 magnum dell'ispettore Callaghan. Come giocattolo, ha deliziato i giochi di generazioni di bambini, almeno fino alla sua sostituzione con le più pacifiche betoniere o altri aggeggi apparentemente meno cruenti o, come si dice, meno diseducativi. A Samuel Colt l'ispirazione venne osservando un capstan e un windlass cioè un argano e un verricello a prua di una nave: dalla loro rotazione derivò l'idea di introdurre le munizioni non nella canna della pistola ma in un tamburo con cinque o sei colpi. L'arma a più canne era già stata sperimentata da artigiani tedeschi e veneziani; ma per la difficoltà dell'uso, il costo proibitivo e i molteplici fallimenti il progetto era stato abbandonato. Colt invece brevettò la sua invenzione, che manteneva tuttavia aspetti rudimentali: era ad avancarica, e la cartuccia doveva essere collocata unitamente alla polvere. Ma l'idea era vincente. Nell'arco di pochi anni con l'introduzione della cartuccia metallica e altre significative modifiche l'arma assunse la sua forma definitiva, e fu adottata dall'esercito americano. Tutto il mondo ha visto in dozzine di film il generale Custer mentre spara gli ultimo colpi accerchiato dagli indiani. La modernità e l'efficienza del revolver comunque non lo salvarono dalle soverchianti forze di Toro Seduto. Samuel Colt morì nel 1862, ricco di fama, di denaro e anche di riconoscenza. Poco prima, Garibaldi gli aveva inviato un lusinghiero ringraziamento per una fornitura di cento pistole e fucili in occasione dell'impresa dei Mille. Pare che uno di questi revolver in possesso del colonnello Missori, abbia salvato la vita dell'eroe dei due mondi durante la battaglia di Milazzo. Nel frattempo Horace Smith e Daniel B. Wesson avevano ulteriormente perfezionato il modello, e da allora la Smith & Wesson contende alla Colt la fama e il primato di quest' arma tascabile. Nella traduzione italiana il revolver è diventato la rivoltella. In realtà quest' ultima è qualcosa di diverso, perché comprende genericamente qualsiasi pistola a ripetizione, automatica o semiautomatica. Il revolver, al contrario, è un'arma da fuoco dotata di un cilindro, detto appunto il tamburo - in grado di ruotare attorno a un asse parallelo alla canna - dentro al quale stanno cinque o sei camere di scoppio. Il lettore comune può facilmente farsene un'idea confrontando le armi in dotazione alle nostre forze dell'ordine - tutte pistole automatiche con quelle dei cowboy o degli agenti del FBI. Le prime sono dotate di un maggior numero di munizioni e sparano più velocemente, ma sono anche le meno sicure: se cadono, il rinculo può far partire un colpo, e si inceppano più facilmente. Non solo. Talvolta chi le impugna , ignorando che il proiettile è già in canna, per sbaglio o per scherzo ammazza un collega. Chi scrive ha spesso indagato su simili fatti dolorosi, dovuti al caso, o alla mancanza di cautela. Il revolver, al contrario, non spara mai da solo: la pressione necessaria per alzare il cane è incompatibile con un evento accidentale. Le cartucce, dal canto loro, sono visibili dall'esterno, e quindi si capisce subito se l'arma è carica o meno. Tra tutte le armi da fuoco, il revolver è quello che ha subito evoluzione e modifiche minori. Nell'arco di questi due secoli sono nate le mitragliatrici, che da rudimentali aggeggi a manovella sono diventate rovinosi strumenti di stragi durante le due guerre mondiali, e oggi, con le canne rotanti ad alta velocità, possono sparare in un minuto migliaia di proiettili in grado di perforare un carro armato. Lo stesso si può dire per i fucili, la cui precisione e portata hanno persino ispirato film di successo su cecchini e terroristi. E naturalmente è cambiata l'artiglieria, con i cannoni a tiro rapido che sparano da torrette girevoli mentre il blindato corre come un fuoristrada. Per non parlare infine dell'arsenale ipertecnologico, dai droni alle cosiddette bombe intelligenti che, sganciate da aerei invisibili, colpiscono bersagli remoti. In questa rivoluzione continua, la vecchia pistola a tamburo mantiene la sua funzione e, a modo suo ,il suo fascino, quando spunta, nei vari sceneggiati polizieschi, dalla giacca elegante degli agenti di scorta o da quella spiegazzata dei detective della squadra omicidi. In effetti le sue doti maggiori, l'affidabilità e la potenza, sono, nella quotidiana lotta alla criminalità, ancora apprezzate. Al termine di questa panoramica sulle pistole a tamburo potrebbe sorgere il sospetto che la loro immagine susciti in noi, e magari nel lettore, un certo entusiasmo. Naturalmente non è così: si tratta pur sempre di strumenti atti a offendere, e talvolta a uccidere. Ma nemmeno vogliamo cedere agli stucchevoli luoghi comuni della loro demonizzazione. Le armi, come tutte le cose materiali, non sono in sé né buone né cattive: dipende dall'uso che intendiamo farne. La pistola è buona nelle mani di un carabiniere che sventa un attentato terroristico, o quando è esibita a fini intimidatori per allontanare una minaccia ingiusta. Mentre è cattiva in quelle di un rapinatore , ed è pericolosa in quelle di un bambino o di un adulto distratto. Ma questo avviene anche con la pietra, strumento nobilissimo sotto lo scalpello di Michelangelo ma mortale nelle mani di Caino. Oppure con le alabarde delle guardie svizzere, eleganti nell'ossequiare il Pontefice ma micidiali se infilate nella nostra pancia. L'uomo non ha certo atteso l'invenzione della polvere da sparo per ammazzare i suoi simili: si è persino servito di sorella acqua per annegarne a migliaia - come fece Carrier nelle noyades di Nantes - e persino del vino, dove Riccardo III fece gettare il povero Clarence. Anche le frasi apparentemente più nobili rivelano spesso banalità: chi predica di svuotare gli arsenali e riempire i granai dimentica che le migliaia di missili termonucleari giacenti nei silos russi e americani non hanno mai fatto una vittima, mentre molti operai e contadini sono morti cadendo in quelli che contenevano il frumento. L'uomo, come diceva il filosofo, è misura di tutte le cose. Queste ultime, compresi i revolver, sono materiale inerte, sottoposte a una volontà buona e intelligente, oppure stupida e malvagia. Purtroppo la statistica dimostra che questa seconda possibilità è la più frequente.  

·        L’Occhio del Grande Fratello.

Striscia la Notizia, "a nostra insaputa": lo smartphone ci spia, la sconvolgente conferma dal microfono.  Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. Striscia la Notizia è tornata a occuparsi di cellulari che spiano. Dopo l'esperimento della scorsa puntata, effettuato dall'esperto informatico Marco Camisani Calzolari, sono stati numerosi i feedback ricevuti dai telespettatori. L'inviato del tg satirico di Canale 5, infatti, aveva invitato le persone a far ascoltare al loro telefonino questo messaggio: "Mi serve un'auto nuova, una macchina per viaggiare". Poi le reazioni. Omar ha scritto: "Tempo due minuti, avevo post sponsorizzati su Facebook su automobili ibride, da me mai cercate". Valentina ha fatto sapere che le è capitato su Youtube, Leonardo su Instagram, e così via. Parecchi hanno ricevuto persino gli sms dai venditori di auto. "Pensate che valga solo per le macchine? - ha detto Calzolari rivolgendosi ai telespettatori -. Proviamo a parlare di abbigliamento. Come la volta scorsa, alzate il volume della tv, avvicinate il telefono e fategli ascoltare questo: 'Vorrei dei vestiti nuovi, un completo da uomo o un bell'abito colorato per uscire la sera. Mi servirebbero anche dei vestiti per bambini e un po' di abbigliamento sportivo'". L'esperto, poi, ha chiesto ai telespettatori che ricevono pubblicità di abbigliamento di inviare delle segnalazioni, come nell'ultimo caso. "Attraverso i microfoni dei nostri smartphone e tablet è tecnicamente possibile per i produttori di app attivare il microfono, quindi ascoltarci - ha spiegato Guido Scorza, componente del Garante della Privacy -. A seguito del servizio di Striscia, abbiamo appena aperto un'indagine". Le ipotesi, stando a Scorza, sarebbero due: "La prima è quella di app pirata che forzano i nostri dispositivi, poi ci sono app che ci chiedono il permesso di attivare il microfono e noi glielo diamo perché in quel momento siamo troppo presi dalla voglia di utilizzare il servizio, senza leggere l'informativa sulla privacy". L'inviato, poi, ha anche mostrato ai possessori di smartphone Apple e Android come fare per limitare l'accesso al microfono di alcune app. 

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 22 settembre 2021. Più che una sfida è una scommessa, quella del Comune di Udine sulle telecamere a riconoscimento facciale. A metà tra il Grande Fratello e un telefilm modello Csi, con gli esperti di indagini forense che, a un certo punto, smanettando su un super-computer della centrale, scaglionano i volti dei passanti in una piazza cittadina per individuare il criminale di turno. Fantascienza, televisione? Non proprio: perché le nuove tecnologie permettono questo, e pure di più. Le amministrazioni di diversi Comuni italiani han già deciso di adottare strumentazioni simili: ché gli scippi, e il degrado e la sicurezza vengon prima di tutto. Premessa: il Garante della Privacy, per ora, ha detto no. Troppe complicazioni, i dati personali e la riservatezza ne uscirebbero con le gambe rotte. Stai andando a fare la spesa, cammini ignaro, e finisci in un database della polizia: tra l'altro, il margine di errore degli algoritmi digitali è ancora alto. Siam mica dentro un romanzo di Orwell, la "sorveglianza di massa" per carità. È proprio qui che nasce la "scommessa" di Udine: perché in Friuli, la giunta leghista di Pietro Fontanini ha deciso di provarci lo stesso. Quest' estate ha lanciato un bando per l'installazione di 65 nuove telecamere su tutto il territorio, alla gara han risposto otto ditte e si parla di un affare di circa 700mila euro: 73 punti critici, nove scuole e cinque "check -point" nei viali d'accesso. Alcuni di questi occhi elettronici, poi, saranno di nuova generazione e consentiranno, appunto, di riconoscere facce e volti.

STRUMENTO INNOVATIVO «Abbiamo deciso di installare questo sistema di riconoscimento - diceva alla stampa locale l'assessore alla Sicurezza, Alessandro Ciani, neanche un mese fa, - anche se al momento non potrà essere utilizzato. Speriamo, tuttavia, che presto venga consentito l'utilizzo di questa tecnologia che consentirebbe alle forze dell'ordine di avere uno strumento innovativo per contrastare il crimine, pur nel rispetto della privacy». E aggiungeva: «Fin da subito saremo, comunque, in grado di rilevare il passaggio di una persona vestita di nero, o con un cappellino. Di per sé, questo potrebbe già essere d'aiuto. Inoltre le immagini potranno essere condivise tra tutte le forze dell'ordine». Sul sito del Comune è ancora presente il testo del concorso di appalto, scaduto ad aprile: pieno di dettagli tecnici e indicazioni. Udine, però, non è la sola ad aver individuato le "telecamere smart" come soluzione contro gli episodi di criminalità. Un dato, su tutti: negli ultimi vent' anni, l'Italia è diventata la capitale mondiale delle telecamere per strada. La videosorveglianza, da noi, vale qualcosa come circa due milioni di dispositivi, praticamente uno ogni 35 abitanti. Ci filmano anche quando portiamo fuori il cane, non è una novità. Quelle che riconoscono i lineamenti del volto, però, vanno oltre: esistono addirittura software che riescono a identificare una persona analizzando appena la sua andatura e il modo in cui mette un piede davanti all'altro. Il giornale on-line IlPost ne ha fatto una piccola carrellata, c'è solo da sbizzarrirsi. Quelle di Udine potranno individuare persone «anche con occlusioni parziali del viso, come occhiali o sciarpe. E cambiamenti di espressioni, ombre, contrasti elevati».

 TUTTI D'ACCORDO A Torino, nella roccaforte di Chiara Appenino, un progetto simile è partito a marzo del 2018: eran stufi, da quelle parti, di dover fronteggiare problemi di spaccio e son ricorsi alle telecamere. Quattro nell'area del Centro Civico, sei ai giardini Maria Teresa di Calcutta. «La richiesta della loro istallazione - raccontavano gli addetti ai lavori tre anni fa, - è stata presentata dopo un percorso condiviso tra associazioni e comitati di residenti». Come a dire, eran tutti d'accordo. A Como, in Lombardia, se ne è parlato a inizio del 2019 e poi è venuta fuori una serie di cavilli (come il fatto che non rientravano nel capitolato tecnico previsto) che ha rallentato l'iter: ma l'amministrazione ha tirato dritto, vincendo il premio di prima città italiana dotata di un sistema di riconoscimento facciale. Le "registrazioni pilota" sono iniziate nel giugno dello scorso anno: al momento, però, le 16 telecamere del Comasco sono utilizzate come telecamere normale. Il Garante della Privacy, e una legge in materia (che ancora non c'è), dovrebbero far chiarezza sul loro impiego.

Andrea Cappelli per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2021. Grande Fratello, Grande Fratello, Grande Fratello! Non si tratta di un'invocazione, ma l'effetto è più o meno quello. Dopo aver ripetuto varie volte e ad alta voce questa formula, ho preso in mano il mio smartphone, e la prima notizia suggeritami da Google è stata la seguente: «Perché Tommaso Zorzi porterà sulle spalle anche il Grande Fratello Vip 6». Poco importa che il rituale avesse lo scopo di evocare il Grande Fratello di George Orwell: il fatto che al posto del dittatore del celebre romanzo "1984" si sia materializzato il giovane influencer milanese uscito vincitore dall'ultima edizione del GF Vip non è che un bizzarro segno dei tempi. L'esperimento è comunque riuscito, e convalida un'ipotesi già confermata da diverse fonti: i nostri telefoni cellulari ascoltano ciò che diciamo.  E questo accade anche quando i dispositivi sembrano spenti, ovvero quando sono in modalità stand by, con tanto di blocco inserito e schermata nera. Nessun complotto: è solo uno dei tanti volti del capitalismo, moderna divinità di cui fatichiamo a comprendere i disegni. Ma torniamo al punto: i nostri smartphone ci spiano? Sono in grado di ascoltare ciò che confidiamo ai nostri amici al bar, trasformando quelle informazioni in pubblicità? La risposta è sì. L'ultimo a confermare questo fatto è stato Alessandro Curioni, esperto di cybersecurity intervistato ieri da Stefano Lorenzetto sul Corriere. Alla domanda secca («È vero che i cellulari ci ascoltano?») è seguita una risposta immediata: «Ho fatto un esperimento. In un corso aziendale ho ripetuto trenta volte la frase "Avengers Endgame". Più tardi, tra i risultati di Google mi è apparsa la data di uscita del film Avengers: Endgame». A dirlo non è uno qualsiasi, ma un docente di Sicurezza dell'informazione alla Cattolica di Milano. Sul lato tecnico, la cosa è spiegabile in maniera chiara. Prima una premessa: non stiamo parlando di attività di spionaggio propriamente dette o similari. Per queste operazioni esistono programmi appositi, ma sono molto costosi e il loro utilizzo è regolato da rigide norme legali. Come ben spiegato da svariate riviste tra cui Wired o ilPost, è però possibile che il telefono ascolti una nostra chiacchierata, registrando parole chiave come "Grande Fratello" o "Napoleone Bonaparte". Questo processo, accertato più volte (si legga un articolo apparso nel 2018 sull'edizione americana di Vice) viene disciplinato dalle policy legali ma può sempre capitare che, utilizzando sistemi di controllo vocale come Siri (Apple), Alexa (Amazon) o Google Assistant, lo smartphone registri e conservi una parte delle conversazioni (circa lo 0,2%) per "migliorare il servizio", cosa che oggi accade non tanto con le registrazioni vere e proprie ma con le trascrizioni generate dal sistema. Per evitare questo inconveniente è possibile disattivare il sistema di controllo vocale: il procedimento può sembrare ostico, ma in realtà è semplice. In un sistema Android basta cliccare sull'icona Google e accedere alle impostazioni: tra le varie opzioni occorre digitare su "Voce", poi "Voice Match" e infine disattivare il comando "Accedi con Voice Match". In questo modo, anche pronunciando la parolina magica "Ok Google" funzionale alla sua attivazione, il sistema resterà in sonno. Nel caso di un sistema iOS (quello utilizzato dagli iPhone, e quindi dalla Apple), basta accedere alle impostazioni del telefono e cliccare sulla scritta "Siri e Cerca". Nella nuova schermata si dovranno quindi spostare le levette accanto alle scritte "Premi il tasto laterale per Siri" e "Abilita Ehi Siri" da On a Off per disattivare il sistema. Questo tipo di procedure varia nei modelli di smartphone più vecchi o in dispositivi che usano sistemi diversi dai due principali (Android e iOS), ma la trafila è simile e attuabile sempre a partire dalle Impostazioni. Infine, è bene specificare che il più delle volte non sono i sistemi di registrazione dei telefoni a "intercettarci": a fornire le informazioni siamo noi stessi ogni volta che scriviamo un post su Facebook o digitiamo qualcosa sulla barra di ricerca. Social network e motori di ricerca, infatti, non si fanno alcuno scrupolo: il loro business si basa proprio su queste informazioni. Molto spesso non ci rendiamo conto di avere già dato in pasto al web i nostri interessi ben prima di condividerli a voce alta con i nostri familiari, amici o con quel terribile ficcanaso del nostro smartphone.

Le ombre della sorveglianza di massa e dei regimi eterni. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 20 agosto 2021. Il futuro (in)evitabile del mondo sembra essere quello della sorveglianza di massa. Un futuro dal quale nessuno si potrà sottrarre, perché microfoni e telecamere saranno ovunque, e che cambierà la storia dell’umanità radicalmente, forse per sempre. Perché quel futuro, che va poco a poco materializzandosi sotto i nostri occhi, incontrando poca o nulla resistenza da parte degli Uomini, potrebbe costituire il principio di una nuova era: l’era dei regimi eterni.

Dalla sorveglianza non si torna indietro. Il futuro del mondo è illiberale, che lo si accetti oppure no, e per illiberale non si intende un futuro dominato dai populismi di destra di trumpiana memoria, quanto un futuro dominato, per l’appunto, dal ridimensionamento delle libertà individuali. Un futuro dominato, in estrema sintesi, da regimi politici che commettono liberticidi con il pretesto di tutelare le libertà delle collettività. Quei liberticidi verranno accettati dalle masse, che li accoglieranno come i troiani a loro tempo spalancarono le porte al Cavallo di Odisseo, e ciò che accadrà per tre motivi: saranno inebetite dalle precipitazioni torrenziali provenienti dalle nubi del biopotere – psyops partorite allo scopo di traviare l’opinione pubblica –, saranno stordite dagli effetti soporiferi dell’ipnopedia e del soma – ogni riferimento ad Aldous Huxley è puramente voluto – e saranno impossibilitate alla ribellione contro i soprusi delle tecno-tirannie perché controllate in maniera permanente dal Grande Fratello. I più scettici potranno tacciare tale scenario di irrealismo e pessimismo antropologico, ritenendolo viziato dal fascino per la distopia apocalittica, ma le loro convinzioni nulla possono né potranno per alterare la realtà dei fatti. E la realtà dei fatti, cioè il corso degli eventi, suggerisce come il mondo, già da parecchio tempo, si sia incamminato verso il destino del controllo permanente. Una deriva dalla quale, nei tempi recenti, ci hanno messo in guardia Edward Snowden, Yuval Harari e Jean-Luc Mélenchon, tre personaggi tra loro molto diversi che, dopo aver osservato attentamente lo sdoganamento della sorveglianza di massa e della repressione del dissenso durante la pandemia, hanno invitato la gente comune a prendere atto del progressivo emergere di nuovi totalitarismi.

Verso l’ascesa dei regimi eterni? I regimi del controllo permanente, che si trovino in Occidente o che abbiano sede nel resto del mondo, sono accomunati da alcune peculiarità. La più importante, senza dubbio, ha a che fare con la loro raison d’être: nascono per soddisfare degli obiettivi estemporanei – dalla lotta al terrorismo al contrasto di una pandemia – e, ad emergenza rientrata, vengono mantenuti intatti con il cavicchio della loro utilità ai fini della sicurezza pubblica e del benessere collettivo. E coloro che si oppongono ad una misura concepita per tutelare la comunità, chiaramente, non possono che essere nocivi, che essere portatori di oscuri segreti, che essere perseguibili (e perseguitabili) nel nome della presunzione di colpevolezza. I regimi eterni sono già qui, anche se pochi lo hanno notato. Sono disseminati in maniera capillare, in quanto presenti in ognuna delle terre emerse e al governo di un numero crescente di stati-nazione. Sono i regimi politici che impiegano i controllori della rete – Google, Facebook, Twitter, YouTube et similia – per silenziare il dissenso, de-piattaformizzandolo. Che, al termine di una crisi, normalizzano l’eccezionale straordinarietà – costituita da telecamere intelligenti per il riconoscimento facciale, droni per il controllo del territorio e tracciamento dei cellulari illegale – persuadendo i cittadini tanto della bontà quanto dell’ineluttabilità della “nuova normalità”. Che riscrivono il passato abbattendo statue e riscrivendo libri e che dominano il presente con l’imposizione di strumenti orwelliani quali lo psicoreato, il bispensiero, il buonpensiero, la neolingua e i momenti dell’odio. E che, ultimo ma non meno importante, introducono stati di polizia e forme di eutanizzazione del pensiero e della creatività, come il sistema del credito sociale, con la scusa del concordia civium murus urbium. I regimi eterni sono già qui, dunque, e sono tali perché, incredibilmente in grado di legittimare la loro esistenza agli occhi delle masse, nonché di reprimere il dissenso grazie alla sorveglianza pervasiva e alla sempreverde strategia della polarizzazione indotta – le sacche di opposizione, al di là della loro reale pericolosità, vengono isolate e su di loro viene attratto l’odio della maggioranza manipolata dalla propaganda –, possiedono le capacità rigenerative dell’Idra di Lerna – della quale condividono anche la velenosità, il genio maligno e la propensione all’inganno.

Le implicazioni dell’eternizzazione dei regimi politici. Questa è l’epoca delle guerre ibride e senza limiti, dove tutto è o può essere un’arma: dalle organizzazioni nongovernative che possono indottrinare la popolazione del rivale alle corporazioni multinazionali che possono colonizzarne interi settori produttivi, passando per gli hacker in grado di far collassare infrastrutture critiche come ospedali e centrali elettriche e per i media, nuovi e tradizionali, suscettibili di dividere le società sino a condurle alla guerra civile. La lenta ascesa dei regimi eterni, però, è destinata ad alterare profondamente suddetto modo di fare la guerra e a mutare la stessa concezione di relazioni internazionali. Perché un regime eterno, per definizione, esercita un controllo totale e totalizzante su tutto ciò che pertiene allo Stato, ed è potenzialmente capace di rigenerarsi, e di progredire con l’età senza andare incontro alla demenza senile, grazie all’utilizzazione della sorveglianza di massa. Sorveglianza che dota la classe dirigente di una vasta gamma di poteri, tra i quali la repressione preventiva di moti popolari, la conversione degli oppositori in lillipuziani Emmanuel Goldstein e la riduzione significativa dei margini di manovra delle quinte colonne. Poteri, quelli di cui sopra, promananti dalla dilatazione inusitata di un nuovo tipo di sorveglianza – miniaturizzata perché introdotta nelle case e colliquata perché proiettabile ovunque, dalle piazze alle stazioni –, che è stata resa possibile dal progresso tecnologico e che è emblematizzata dall’espansione della telecamerizzazione intelligente, dalla dronizzazione dei cieli a scopo di polizia e dalla crescente dipendenza delle persone dall’Internet delle cose e del corpo. Sarà la storia a premiare o condannare questo pronostico, che, se mai divenisse realtà, potrebbe sancire l’avvio di un’era costellata di confronti egemonici temporalmente lunghi ed economicamente disagevoli, perché combattuti tra potenze dotate del potere taumaturgico dell’autorigenerazione. Potenze eterne come Eurasia, Estasia ed Oceania. Potenze la cui esistenza ci sembra una finzione irrealizzabile, ma che invece esistono, già oggi, e che, tra un’emergenza e l’altra, vanno lentamente traslando in realtà i loro sogni di vita eterna.

Il business della sorveglianza di Stato. Simone Pieranni su L'Espresso il 2 agosto 2021. Il giornalista ucciso Jamal Khashoggi sarebbe stato "controllato" dal governo saudita grazie al software Pegasus. I software-spia come Pegasus vengono usati da Paesi autoritari e non solo. Ma sono anche un grande affare. Per limitarne l’export occorre l’impegno dei governi. Casablanca, 2019. Un noto attivista marocchino incontra un giornalista. È un suo amico, devono aggiornarsi su diverse cose accadute dal loro ultimo incontro. Una di queste è la disinfestazione del telefono dell’attivista: aveva scoperto di essere stato “infettato” da un potente spyware creato da un’azienda israeliana ed era dovuto ricorrere a una “pulizia” metodica e professionale del suo smartphone. Solo che durante l’incontro non sapevano che a essere “controllato” era anche il telefono del giornalista. È bastata una ricerca on line perché il suo smartphone fosse infettato, mettendolo completamente nelle mani di chi, dall’altra parte, ha potuto osservare, ascoltare e prendere nota di tutto quanto presente nel telefono cellulare del giornalista. Lo spyware si chiama Pegasus e a produrlo è un’azienda israeliana, la Nso. Entrambi sono da tempo sotto la luce di Amnesty, Forbidden Story (che sulla vicenda marocchina produsse un denso report), Citizen Lab e tante altre organizzazioni che hanno denunciato da tempo la pericolosità di Pegasus e la completa mancanza di regole per limitare la sua esportazione da parte di Israele. Nelle ultime due settimane Pegasus è diventato noto a tutti i media, grazie a una inchiesta giornalistica che ha svelato come lo spyware sia utilizzato da molti paesi (per lo più autoritari, come Azerbaijan, Bahrain, Kazakhstan, Marocco, Ruanda, Arabia Saudita, ma non mancano democrazie, seppure non proprio limpide, come India, Ungheria e Messico) per prendere il completo controllo dello smartphone e dunque delle informazioni di giornalisti e attivisti. Secondo la documentazione rilasciata da diversi quotidiani sarebbero almeno 50mila le persone potenzialmente colpite dallo spyware. In alcuni casi, come accaduto al giornalista saudita Jamal Khashoggi, dal “controllo” si è passati all’omicidio. In altri, lo spyware è diventato un vero e proprio stimolo a una sperimentazione dai numeri altissimi, come ad esempio in Messico dove, secondo i dati rilasciati dal Guardian, una delle testate protagoniste delle ultime rivelazioni sul software israeliano, «lo straordinario numero di numeri messicani nei dati trapelati, inclusi telefoni appartenenti a sacerdoti, vittime di crimini sponsorizzati dallo stato e figli di personaggi di alto profilo, mina gravemente le affermazioni di Nso secondo cui il suo software sarebbe utilizzato solo dai suoi clienti per combattere gravi crimini e terrorismo». Nonostante gli scandali degli anni scorsi, ad esempio quello rivelato da Snowden sulla Nsa, l’attenzione rispetto ad attività di controllo e accaparramento dei dati è stata spesso incentrata sulle “piattaforme”, dimenticando che una parte massiccia della sorveglianza, oggi, avviene soprattutto attraverso attività “di sicurezza” degli Stati. L’affaire Pegasus, solo l’ultimo nel suo genere, è lì a dimostrare che non solo “così fan tutti” ma che l’utilizzo di questi strumenti si diffonde a macchia d’olio, finanziando economie e regimi e portando sempre più indietro le richieste che arrivano da ong e associazioni per una regolamentazione del fenomeno. I problemi più gravi messi in evidenza dalle recenti inchieste sono di due tipi: in primo luogo lo spyware è in grado di realizzare uno “zero click exploit”, cioè “entrare” nello smartphone senza che la vittima debba fare niente (né rispondere a una mail, né a un messaggio). Il software “buca” i sistemi operativi attraverso alcune falle: mano a mano che queste sono riparate (poiché si parla da tempo della potenza degli spyware) anche il software si aggiorna, rimanendo così pericoloso (è possibile usare dei tool per scoprire se si è stati infettati, ma servono minime conoscenze tecniche). In secondo luogo Pegasus è uno dei pesci più grossi di un oceano nel quale gli spyware costituiscono un mercato immenso: ne fa parte anche l’Italia con alcuni prodotti che nel corso degli anni sono stati al centro di attenzione mediatica e scandali. Le questioni sono tante e coinvolgono i produttori e le regole, mancanti, in grado di regolarizzare o vietare del tutto l’esportazione di questi software, un settore che Edward Snowden di recente ha definito «un’industria che non dovrebbe esistere». La potenza dello spyware conferma il “mito” del luogo dal quale proviene, ovvero la Nso, un’azienda israeliana nata dalla “Unità 8200”, divisione dell’intelligence di Tel Aviv che si è lanciata nel settore commerciale. Fu lo stesso allora premier israeliano Benjiamin Netanyahu a sottolineare le ragioni di questo sbocco: «è per fare tanti soldi», disse più volte a un convegno sulla tecnologia in Israele. E fu l’attuale premier Bennet, quando era ministro della Difesa, a dare l’ok alla vendita nel mondo dello spyware. A Tel Aviv, infatti, conoscono bene tanto Pegasus quanto la Nso. Già nel 2018 un’indagine condotta da Haaretz, basata su circa 100 fonti in 15 paesi, aveva mostrato che «l’industria israeliana non ha esitato a vendere capacità offensive a molti paesi privi di una forte tradizione democratica, anche quando non hanno modo di accertare se gli articoli venduti fossero usati per violare i diritti dei civili. Le testimonianze mostrano che l’attrezzatura israeliana è stata utilizzata per localizzare e detenere attivisti per i diritti umani, perseguitare membri della comunità Lgbt, mettere a tacere i cittadini che erano critici nei confronti del loro governo e persino per fabbricare casi di blasfemia contro l’Islam nei paesi musulmani che non mantengono rapporti formali con Israele». A proposito di Nso, Antonella Napolitano, Policy officer presso Privacy International, ci ha raccontato che «due mesi fa abbiamo pubblicato un rapporto congiunto con Amnesty International e il Centre for Research on Multinational Corporations, analizzando la struttura labirintica del Gruppo Nso che ha fornito all’azienda vantaggi legali e normativi in varie giurisdizioni per facilitare gli investimenti, il funzionamento e la crescita. La resistenza di Nso a rivelare dettagli essenziali sulle sue operazioni, comprese le vendite e l’impatto sui diritti umani, ha fornito al settore della sorveglianza un modello su come evitare la trasparenza. Nso Group e il resto di questa industria della sorveglianza colpiscono giornalisti e attivisti di tutto il mondo, facendoli arrestare o terrorizzandoli con il rischio che il governo stia osservando ogni loro mossa. I governi coinvolti non possono più sottrarsi alle responsabilità e devono attuare una moratoria sulla vendita e il trasferimento di apparecchiature di sorveglianza fino a quando non sarà messo in atto un adeguato quadro normativo improntato al rispetto dei diritti umani». Oggi Israele, insieme alla Cina, è probabilmente il paese con il know how più forte in fatto di sistemi di sorveglianza, sia per l’utilizzo interno sia per scopi commerciali. Il controllo sui palestinesi, più volte denunciato e le cui conseguenze drammatiche sono state raccontate nel film del 2013 “Omar” del regista Hany Abu-Assad, e alcuni spregiudicati utilizzi dei sistemi di tracciamento durante il Covid-19 portarono Haaretz a sollevare dubbi e alla segnalazione di come Israele stia «seguendo la Cina in materia di sorveglianza», attraverso il monitoraggio dei cellulari e il tentativo costante «di intromettersi ancora di più nelle nostre vite tramite i nostri telefoni. E una volta entrato, è difficile credere che possa mai uscirne di nuovo». Eitay Mack, un avvocato israeliano per i diritti umani che ha cercato per anni di far annullare la licenza di esportazione di Nso, ha raccontato al Financial Times che «dagli anni ’50, Israele ha usato le sue vendite di armi per guadagni diplomatici, l’unica cosa che cambia sono i nomi dei paesi». Sul tema, ovvero come gestire l’esportazione di questi prodotti, Antonella Napolitano specifica che «dopo ben dieci anni di negoziazioni, a maggio 2021 è stato approvato il regolamento europeo sulle tecnologie a uso duale, che introduce alcune tutele e responsabilità. Si tratta di un passo importante ma il risultato avrebbe potuto essere più ambizioso. Con alcune altre ong come Human Rights Watch, Amnesty International, Access Now, abbiamo analizzato il regolamento, che è davvero una base minima. Ci sono aspetti positivi, come l’obbligo per le autorità dell’Ue di fornire pubblicamente informazioni dettagliate su quale esportazione le licenze sono state approvate o negate e i rischi per i diritti umani, ma l’accordo non fornisce indicazioni esplicite e condizioni rigorose per le autorità e gli esportatori degli Stati membri». Come emerso nel corso degli ultimi anni, anche l’Italia ha un suo ruolo: nel 2019 un’inchiesta di Wired sulla base della ricostruzione del centro di giornalismo d’inchiesta Irpi svelò Exodus, un malware «che ha messo a repentaglio milioni di byte di dati secretati e sensibili, intercettando almeno 393 telefoni», sviluppato dalla E-Surv, una società di Catanzaro. E ancora prima, nel 2016, il report di Privacy International dal titolo The Global Surveillance Industry aveva individuato18 aziende italiane, tra cui alcune come Hacking Team e Area diventate nel tempo note ai media. Nel 2017, ad esempio, il Mise revocò la licenza di esportazione di Area verso l’Egitto anche a seguito della pressione di diverse ong italiane (Area è anche citata insieme alla Nso all’interno di un documentario di Al Jazeera dal titolo “Spy Merchants”). Il mercato è fiorente anche in Italia, così come in tutto il mondo, considerando che non tutto è “emerso”. Per questo è ancora più complicato soddisfare gli obblighi internazionali di protezione dei diritti umani: «C’è ancora molto da fare in termini di ampliamento delle definizioni di cybersorveglianza. Insomma, questa è una base minima», spiega Antonella Napolitano, «e molta responsabilità va agli stati membri in termini di implementazione. Purtroppo, molti di essi hanno privilegiato gli interessi dell’industria di sorveglianza anche in fase di negoziazione. L’Italia è stata storicamente poco trasparente su questo tema. Inchieste come questa rendono ancora più evidente l’urgenza di certe misure». 

Pegasus e le guerre cyberspaziali. Piccole Note il 22 luglio 2021 su Il Giornale. A movimentare un po’ questa estate rovente e tragicamente pluviale anche la spystory made in Israel, che ha come protagonista la Nso, società di cybersicurezza che ha venduto a mezzo mondo il suo avanzato sistema di spionaggio Pegasus, capace di infiltrarsi nei sistemi di comunicazione con una facilità nuova, senza cioè alcuna interazione da parte dell’utente. Basta conoscere solo il numero telefonico dell’interessato, come da dimostrazione pubblica dell’azienda alle autorità saudite, invitate, durante la performance, ad acquistare uno smartphone nel vicino supermercato e poi a comunicare loro solo il numero del dispositivo. Dimostrazione riuscita in pieno, con i sauditi in visibilio e pronti a firmare gli impegnativi contratti predisposti. Un aneddoto raccontato da Haaretz, che spiega come Netanyahu sia stato il principale sponsor dell’azienda. Nell’articolo, infatti, illustra la correlazione puntuale tra i viaggi dell’ex premier israeliano in giro per il mondo e l’acquisto da parte dei Paesi interessati alla visita di Pegasus. Una puntualità sorprendente, per la quale rimandiamo al giornale israeliano. Certo, così fan tutti, ché la Nso non è l’unica azienda a vendere prodotti del genere (è in buona compagnia con americani, russi e quanti altri), ma il fatto che il Pegasus sia stato venduto a regimi autoritari e sia servito a spiare giornalisti e figure delle opposizioni ha gettato un’ombra scura su tali operazioni.

Pecunia e geopolitica. Operazioni che, spiega ancora Haaretz, non erano solo a fini commerciali, ma avevano anche un valore “geopolitico”. Tanto che nell’articolo si tira in ballo anche la Difesa israeliana, chiamata a dare le necessarie autorizzazioni alla vendita di software sofisticati a Paesi terzi. Il giornale israeliano porta, infatti, alcuni esempi in cui interventi superiori hanno dettato la linea all’azienda in questione, e ad altre rivali (sempre israeliane). Esempi come questo: “Il fondatore e CEO di NSO, Shalev Hulio” ha raccontato ad Haaretz che “dopo che l’azienda aveva deciso di premere il famoso kill switch sul suo software, tagliando fuori quanti abusavano del suo sistema Pegasus, ha ricevuto la richiesta di riattivarlo per motivi diplomatici e legati alla difesa”. In particolare, il software sembra sia servito ad accompagnare l’accordo di Abraham con i Paesi del Golfo, ma anche a favorire un “surriscaldamento” dei rapporti tra Riad e Teheran, sviluppo funzionale agli interessi di Israele.

Insomma, pur se create e gestite da privati, la Nso e le sue consorelle agivano in coordinamento con gli apparati israeliani. Ipotesi avanzata anche dal Washington Post, che titola: “Funzionari della sicurezza degli Stati Uniti e della UE diffidano dei collegamenti della NSO con l’intelligence israeliana”. E così nel sottotitolo: “Funzionari e analisti affermano che l’azienda tecnologica di sorveglianza israeliana ha creato un prodotto di livello mondiale, ma alcuni sospettano una relazione con il governo israeliano”.

Guerre cyberspaziali. La Nso nega gli addebiti e si dice vittima di una campagna orchestrata, cosa ovvia la prima e più che plausibile la seconda, dal momento che si tratta di un segreto di pulcinella, e che accomuna tante aziende del settore, emerso a creare uno scandalo a orologeria. Detto questo, probabilmente è un bene che, almeno per una volta, il mondo possa interrogarsi su certe operazioni e su certe commistioni; e più in generale, sui tanti significati del termine cybersicurezza. Pur non potendo escludere scenari più ampi, che potrebbero vedere una lotta segreta tra intelligence di Paesi diversi – oggi che tra hackeraggi e spyware lo spazio digitale è diventato terreno di scontro sensibile -, è possibile che quanto sta avvenendo sia parte di uno scontro sottotraccia tra poteri israeliani, o almeno sia utilizzato anche a tale scopo dopo la sua emersione. Uno scontro tra il vecchio e ultradecennale potere che faceva e fa riferimento a Netanyahu e quello che lo ha rimpiazzato, con partite che si giocano a ogni livello, interessando anche l’intelligence, nelle sue articolazioni pubbliche e private. Ipotesi, solo ipotesi, ovvio, che, data la fluidità della materia, nel digitale non c’è certezza. E però, pur nell’incertezza, si può registrare certa imprudenza della Nso, le cui iniziative, pur di materia d’ombra, sono state realizzate alla luce del sole, Probabile che sapevano di poter contare su una copertura stellare, evidentemente svaporata con la dipartita di Netanyahu. Di interesse, a latere, notare che Amazon ha subito bandito la Nso (Wired). E dire che il colosso di Bezos ha un rapporto alquanto complicato con la cybersicurezza, come denota anche la cooptazione nel suo consiglio di amministrazione del generale in pensione Keith Alexander, già capo della Nsa. Un militare che ha conosciuto gli onori della cronaca grazie a wikileaks, che ha rivelato “una diffusa sorveglianza sulle comunicazioni statunitensi e internazionali presso la NSA, nel periodo in cui era guidata” da Alexander (Forbes). Di certo l’ex generale non è stato chiamato nell’azienda per giocare a Risiko.

Quanto a noi, semplici viandanti in questi tempi bui, Pegaso, il mitico cavallo alato, resta ancora un simbolo di libertà, nonostante l’abuso onomastico della cyberfollia. 

Francesco Bechis per formiche.net il 26 luglio 2021. Più ancora delle parole possono i numeri. L’Italia è al centro di una tempesta di attacchi cyber. Da quando è iniziata la pandemia non è più una guerra, è quotidianità. Un dato: dal 2019 al 2020, le aggressioni nel dominio cibernetico alle infrastrutture critiche nazionali sono aumentate del 246%. Quelle ai privati hanno seguito un trend simile. È il prezzo da pagare per un ampiamento senza precedenti della platea digitale dovuto alle restrizioni, allo smart working. Pc, tablet, smartphone sono comparsi dove non esistevano. Un trionfo dell’innovazione, che però ha già presentato il conto. Attacchi ransomware, spionaggio, furto di dati sono all’ordine del giorno per i naviganti nel mare del web. Lo sa bene chi quotidianamente è impegnato a difendere il Paese dalle aggressioni cyber e si è trovato costretto ad alzare l’asticella. Come Nunzia Ciardi, direttore del Servizio Postale e delle Comunicazioni, da una vita impegnata contro il lato oscuro di internet. La incontriamo nel suo ufficio per una lunga conversazione con Formiche.net sulle sfide della cybersecurity italiana, pronta a entrare in una nuova fase con l’Agenzia per la cyberiscurezza nazionale disegnata dal governo Draghi.

La pandemia ha fatto conoscere da vicino al grande pubblico le virtù e i pericoli della vita online. Come si spiega l’impennata di attacchi?

La pandemia è stata un cigno nero. Ha costretto per ragioni sanitarie gran parte della popolazione del globo in casa. La tecnologia è stato l’unico, prezioso strumento per fare online ciò che non potevamo più fare fisicamente. Ma ha anche esteso in modo rilevante la superficie d’attacco. Spesso lo smart working si è diffuso in condizioni di sicurezza precarie, non tutti erano pronti a questo salto.

C’entra solo la pandemia?

No, siamo di fronte a un’accelerazione storico-evolutiva. Cresce la necessità di digitalizzazione delle società moderne: un Paese che voglia essere all’avanguardia non può che insistere sulla digitalizzazione di tutti i servizi. Non a caso una buona parte dei finanziamenti europei per la ripresa insiste su questo fronte. Ovviamente la crescita del digitale comporta problemi di cybersicurezza. E l’impennata dei reati cibernetici è il lato oscuro dell’innovazione.

Le cronache quotidiane riferiscono ogni giorno di un attacco cyber, alcuni di portata globale. L’ultima scoperta, quella dello spyware israeliano Pegasus con cui decine di governi autoritari hanno spiato e controllato per anni dissidenti e giornalisti, si è trasformata in un caso politico internazionale. Ci spiega di cosa si tratta?

È un software che viene inoculato nel dispositivo delle vittime ed è in grado di monitorarne alcune azioni. Nello specifico Pegasus è uno spyware molto performante e sofisticato. È in grado di prendere il controllo assoluto del dispositivo preso di mira. Può azionarne il microfono, scattare foto, leggere chat criptate, cancellare o modificare il registro delle chiamate. 

Come si inocula uno spyware?

Ci sono modalità diverse. Alcuni richiedono un click da parte della vittima su un link che inietta il virus, altri entrano in azione con l’aggiornamento di un software. Altri ancora, i più sofisticati, si attivano da soli. 

Quanto sono diffusi spyware come Pegasus?

Pegasus è uno spyware efficace e molto costoso, il prezzo proibitivo ne limita la diffusione. Ma di questi strumenti esiste un vero e proprio mercato. Sono un’arma a doppio taglio: se non sono utilizzati per ragioni investigative possono rivelarsi deflagranti sotto il profilo della privacy.

C’è un modo per evitare che finiscano in mani sbagliate?

Ci sono le leggi. Pegasus è un software prodotto da un’azienda israeliana, Nso, che come tutte è soggetta ad alcune regole. Fra queste, il divieto di vendita a Paesi che utilizzano gli spyware per violare i diritti umani. Una clausola che, così riporta la stampa internazionale, potrebbe non essere stata rispettata. 

Come ci si può mettere al sicuro?

Nessuno è davvero invulnerabile, non esiste il punto zero della sicurezza. La sicurezza informatica, in particolare, è un orizzonte che si allontana e bisogna continuamente cercare di raggiungere. C’è ovviamente un livello accettabile di sicurezza da garantire per ridurre al minimo gli aspetti patologici del web.

L’Italia a che punto si trova?

C’è molto da lavoro da fare, soprattutto per le infrastrutture critiche pubbliche. Non a caso il ministro Colao ha parlato di un alto numero di server della PA a rischio sicurezza. 

Quali sono gli attacchi più frequenti?

Durante la pandemia c’è stato l’imbarazzo della scelta. Tra i più insidiosi ci sono gli attacchi insediati attraverso il ransomware, un malware che viene installato e cripta istantaneamente tutti i dati della vittima. Non solo sono aumentati quantitativamente, sono anche diventati più sofisticati. Inizialmente prendevano la forma di una pesca intensiva: le organizzazioni criminali diffondevano il malware sperando di ottenere il riscatto dei dati. 

E adesso?

Oggi c’è una più accurata targettizzazione delle vittime, soprattutto aziende. I criminali scelgono i soggetti in grado di pagare, quelli che hanno più da perdere, e sono quindi più disposti a rischiare. Si tratta di attacchi mirati. Il ransomware viene installato non solo per sequestrare i dati, ma anche per copiarli. 

Si può provare a fare un backup. O no?

Sì, ma così si risolve solo una parte del problema. Solitamente il pericolo è duplice: gli aggressori minacciano di rendere pubbliche le informazioni sensibili. Bilanci, corrispondenze, dati personali, segreti industriali raccolti durante le intrusioni nei sistemi operativi, a volte protratte per mesi. Alcune aziende non vogliono correre un rischio così grande per la propria immagine.

Quindi pagano il riscatto.

Capita, certo. Difficile fare una stima precisa dei riscatti pagati. C’è un sommerso che i nostri radar faticano a intravedere. Molti imprenditori, spaventati, decidono di non denunciare e pagano la somma richiesta, quasi sempre in criptovalute. Un danno nel danno. 

Perché?

Dietro queste operazioni non c’è un hacker adolescente seduto nella sua camera da letto, ma forme molto evolute di criminalità organizzata.

Ad esempio?

L’anno scorso abbiamo seguito il caso di un’azienda che ha pagato un riscatto di 18 milioni di euro, una cifra altissima. Per gestire e riciclare una simile somma di denaro serve un’organizzazione strutturata. Per lo più sono collettivi transnazionali. Quando hanno bisogno di professionalità esperte nel campo cyber, le acquistano dal dark web pagando in criptovalute. 

Ci sono altre forme di aggressioni?

Sì. L’estorsione diventa tripla quando entra in gioco la minaccia di un attacco DoS (Denial of Service, ndr) per saturare la banda e renderla inservibile. Un’altra tipologia che inizia lentamente ad emergere, anche in Italia, consiste nell’affossare il profilo azionario di una società quotata in Borsa facendo filtrare notizie sensibili sottratte e consentendo una speculazione sul crollo delle azioni. Parliamo di attacchi che colpiscono il tessuto produttivo nazionale.

Negli Stati Uniti due attacchi ransomware attribuiti ai Servizi segreti russi hanno bucato le difese cyber colpendo le aziende produttrici di software SolarWinds e Kaseya. Cosa insegnano all’Italia?

Che ormai queste aggressioni rappresentano una minaccia assimilabile al terrorismo, che va combattuta con ogni sforzo perché mette in pericolo il sistema Paese. Il caso Kaseya è particolarmente preoccupante. Insieme all’azienda è stata colpita l’intera catena di approvvigionamento, tanto da mandare in tilt una linea di supermercati in Svezia. Ce ne sono altri meno noti, ma altrettanto inquietanti. 

Quali?

Un anno fa la più grande società americana di fecondazione assistita è stata colpita da un attacco ransomware. Fortunatamente era stato effettuato il backup dei dati, le attività si sono fermate nel giro di una settimana. Ma i proprietari si sono accorti che gli attaccanti erano dentro al sistema da oltre un mese e avevano rubato tutti i dati sensibili relativi a 130.000 nascite: nomi, cognomi, numeri di telefono, numeri di previdenza sociali. Dati delicati, che vengono riciclati per altre forme di criminalità. Nulla viene sprecato. C’è un mercato enorme dei dati esfiltrati.

Ue e Stati Uniti hanno accusato il governo cinese per l’attacco cyber contro i sistemi di Microsoft. Ci sono anche attori statali dietro queste aggressioni e come li si può riconoscere?

Premesso che questa missione non rientra nella nostra competenza e spetta, in particolare, agli apparati di intelligence, sicuramente dietro alcuni attacchi ci sono attori statali o para-statali. L’attribuzione però è sempre una fase delicata e complessa. 

C’è chi propone di stilare una white list di tecnologia sicura per la Pubblica amministrazione italiana. Lei sarebbe d’accordo?

È certamente una soluzione. Bisogna avviare una riflessione sull’opportunità di tener conto di un solo criterio, quello del minor prezzo, quando si tratta di approvvigionare la Pa con tecnologie sensibili. Se si dovesse operare al cuore, si affiderebbe al medico più competente o al più economico? Affidarsi a un’azienda di cui non si conosca appieno la struttura societaria è un rischio.

La Polizia Postale si occupa da anni di contrasto al terrorismo online. L’Italia può dirsi al sicuro da questo fenomeno?

Le nostre indagini ancora oggi riguardano spesso individui radicalizzati che, una volta rintracciati, sono espulsi dal Paese. Il fenomeno della radicalizzazione online esiste eccome, spesso si tratta di persone che compiono un percorso solitario. Su questo fronte un ruolo cruciale è svolto dalla Polizia di Prevenzione. 

Chiudiamo con la riforma della governance cyber italiana con la regia del premier e del sottosegretario con delega all’Intelligence Franco Gabrielli. La nascita dell’Agenzia serve anche a rimettere ordine nelle competenze fra gli apparati della sicurezza. Era necessario?

Sicuramente. Come ha sottolineato il sottosegretario Gabrielli, in questi anni l’intelligence ha svolto un ottimo lavoro ma forse in un campo un po’ lontano dal suo dna. L’Agenzia, a quanto si apprende, dovrebbe rispondere a un criterio di reductio ad unum sul tema della resilienza dagli attacchi cyber. Le diverse declinazioni della cybersicurezza, il cybercrime e la cyberdefence, resteranno nel loro alveo naturale, rispettivamente quello delle forze di Polizia, e in particolare la Polizia Postale, e della Difesa italiana.

Ce n’è un altro: aiutare le grandi aziende ma soprattutto le tante start-up italiane nel mondo della cybersecurity a crescere e a unire le forze, anche grazie ai fondi europei per la ripresa.

 Una missione giusta e necessaria. Ci sono altri Paesi che supportano da tempo le loro start-up perché siano funzionali alla crescita della sicurezza nazionale. Come ho detto, la digitalizzazione è fondamentale, ma la cybersicurezza deve accompagnarla. Altrimenti rischiamo di uscirne perdenti.

Davide Frattini per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2021. Dagli anni del liceo ad Haifa - diploma in teatro - si era portato negli Stati Uniti la parlantina e la capacità di convincere «anziane signore a comprare le creme ai sali del Mar Morto», ha raccontato in una intervista. A Shalev Hulio non bastava fare il banditore nei centri commerciali americani, sperava in un'idea d'oro, di quelle che rendono milionari. In un bar di Haifa - dov' è nato e cresciuto - immagina con l'amico d'infanzia Omri Lavie di creare una società per vendere i prodotti che gli spettatori vedono passare nelle serie televisive, usano come esempio Sex and the City . Non funziona. Il secondo tentativo funziona anche troppo. Loro stessi ammettono di non aver capito da subito le potenzialità di quella trovata. Nel 2008 i telefonini sono ormai nelle mani di tutti, pochi sanno maneggiarli quando si impiantano. Shalev e Omri mettono a punto un sistema per inviare un collegamento ai cellulari che permetta ai loro tecnici tra le colline della Galilea di intervenire da remoto e aiutare gli utenti sperduti nei misteri tecnologici. Il discendente di quel progenitore informatico si chiama Pegasus, ha reso alla fine milionari i due soci e difficile la vita ad attivisti e giornalisti indipendenti in tutto il mondo. L'inchiesta che anche il Washington Post sta pubblicando in questi giorni - ci ha lavorato assieme ad altre 15 organizzazioni giornalistiche - rivela che il software in grado di prendere il controllo del telefonino bersagliato è stato usato in modo illegale dai governi di diversi Paesi. L'indagine parte da 50 mila numeri telefonici, una lista ottenuta e analizzata da Amnesty International e dalla francese Forbidden Stories. Il gruppo Nso fondato da Hulio e Lavie può esportare i prodotti solo dopo l'autorizzazione del ministero della Difesa che equipara questi software alle armi. Si tratterebbe di trattative commerciali private. Il Washington Post ha raccolto però le supposizioni di 007 europei e americani convinti che la società «fornisca almeno qualche dato al governo israeliano su chi utilizza i prodotti e su quali informazioni stanno raccogliendo». Ipotesi smentita dal ministero della Difesa. Non è la prima volta che i segugi digitali scoprono le tracce di Pegasus nei cellulari di oppositori spiati dai regimi. Il Citizen Lab, fondato all'università di Toronto da Ron Deibert, ha messo insieme il dossier legale che WhatsApp ha presentato in tribunale due anni fa: la società - proprietà di Facebook - accusa Nso di aver hackerato 1.400 utenti della popolare app di messaggistica. Hulio è ancora quello con la parlantina ed è lui a rispondere alle accuse (anche se per lo più la compagnia si limita a comunicati ufficiali). Alla rivista israeliana Calcalist ha spiegato che 50 mila è un numero spropositato: «Gli obiettivi dei nostri 45 clienti sono un centinaio all'anno. In tutta la storia di Nso non è possibile raggiungere quella cifra». Ripete che Pegasus viene venduto ai servizi segreti e alle forze di sicurezza per contrastare la criminalità o i gruppi terroristici. È proprio sulla lista degli acquirenti che si è concentrato il quotidiano Haaretz : Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Ungheria, India, Messico, Ruanda, Marocco. Sono i Paesi con cui Benjamin Netanyahu da primo ministro ha cercato di costruire e rafforzare i rapporti diplomatici. Il giornale arriva alla stessa conclusione di Ronen Bergman, esperto di intelligence, sul New York Times : «Israele ha segretamente incoraggiato e autorizzato le vendite di cyber-materiali nonostante le condanne internazionali per gli abusi perpetrati da questi governi».

Giordano Stabile per "la Stampa" il 22 luglio 2021. Dove arrivava Benjamin Netanyahu, arrivava Pegasus. Un filo rosso lega i Paesi che hanno utilizzato lo spyware ideato dall'israeliana Nso e i viaggi all'estero l'ex premier israeliano. Arabia Saudita, Ungheria, Azerbaigian, Ruanda, Messico. Tutti Stati che hanno allacciato o riallacciato, anche in segreto, le relazioni con Israele e sono diventati clienti privilegiati dei suoi prodotti militari e di intelligence. In dodici anni filati da primo ministro Netanyahu è riuscito ad allargare molto la sfera di influenza dello Stato ebraico, uno dei suoi maggiori successi. Ma adesso l'exploit tecnologico che ha accompagnato la sua azione diplomatica rischia di ritorcersi contro.  Le rivelazioni di Forbidden Stories sulle centinaia se non migliaia di politici, giornalisti, attivisti, oppositori spiati e a volte arrestati suscitano preoccupazioni. In Francia sono già state avviate indagini, dopo che i telefoni del presidente Emmanuel Macron sono stati infettati dal malware. L'Ungheria è di nuovo nel mirino delle ong per i diritti umani e Reporter senza frontiere ha esortato lo Stato ebraico a sospendere l'esportazione di «tecnologia volta alla sorveglianza». Un mercato lucroso, ma con riflessi pesanti sul rispetto dei diritti umani. Il governo israeliano ha respinto le accuse su un legame diretto con i servizi offerti dall'Nso. Di certo però i viaggi di Netanyahu aprivano molte porte. Nell'estate del 2016 l'ex premier parte per uno «storico viaggio» in Africa, con la tappa principale in Ruanda. Nel dicembre dello stesso anno visita il Kazakhstan e l'Azerbaigian. Nel luglio del 2017 è il primo leader israeliano ad arrivare in Ungheria. A settembre parte per il Messico, altra prima assoluta. Nel gennaio del 2018 è in India. In tutti questi Paesi l'uso di Pegasus per infiltrarsi nei cellulari dei cittadini comincia pochi mesi o al massimo un anno e mezzo dopo, nel caso di Budapest. Israele ha interesse a potenziare le capacità di intelligence dei nuovi alleati. Il Ruanda si offre per accogliere immigrati irregolari dall'Africa che lo Stato ebraico vuole espellere. L'Azerbaigian confina con l'Iran, è una base ideale per controllare il principale avversario in Medio Oriente. Viktor Orban si pone come la voce più vicina alle posizioni israeliane nella Ue, anche su Gerusalemme e Territori occupati. L'uso di Pegasus comincia nel febbraio del 2018, subito dopo l'incontro fra Netanyahu e il consigliere per la sicurezza Jozsef Czukor. Coincidenze che hanno insospettito, fra gli altri, anche il Financial Times. Il quotidiano londinese sottolinea come Pegasus sia diventato «una componente essenziale dell'espansione diplomatica» israeliana. Anche l'export di armi, fin dagli anni Cinquanta, lo è stata, ma la sorveglianza di massa pone maggiori problemi. Il ministero della Difesa, che approva ogni licenza per le esportazioni, ha ribadito che vengono prese «misure appropriate» per evitare abusi. Il co-fondatore di Nso, Shalev Hulio, è tornato a negare che il software sia stato usato per spiare «rappresentanti della società civile non legati a fatti di terrorismo o crimine». Ma la condanna in Marocco del giornalista Omar Radi, controllato da Pegasus, o i telefoni infettati della moglie e della fidanzata dell'editorialista del «Washington Post» Jamal Khashoggi, ucciso nel consolato saudita di Istanbul, gettano ombre preoccupanti. Pure questi Paesi rientrano nella «rete diplomatica» di Netanyahu, che nel dicembre del 2020 aveva annunciato il ristabilimento delle relazioni con Rabat, e nel novembre dello stesso anno aveva incontrato in segreto sul Mar Rosso il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman. Anche perciò Reporter senza frontiere chiede, con il suo numero uno Christophe Deloire, una moratoria sulla vendita di questi prodotti, «fino a quando non sarà istituito un quadro normativo di protezione».

Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 24 luglio 2021. Dopo anni di resistenze, Emmanuel Macron si è lasciato convincere e ha cambiato numero e telefono, dopo che l'iPhone - uno dei quattro telefoni della sua dotazione - è apparso nell'elenco dell'intelligence del Marocco attraverso il software israeliano Pegasus. Le rivelazioni dell'organizzazione non profit Forbidden Stories e dei suoi media partner internazionali hanno riportato in primo piano il difficile rapporto dei leader mondiali con gli smartphone. In particolare il presidente francese era stato già avvertito che almeno una delle linee usate non era più sicura, e da tempo. Nel 2017, tra i due turni dell'elezione presidenziale, le email del suo partito En Marche erano state bersaglio di hacker russi e il suo iPhone era stato violato, nell'ambito del caso «MacronLeaks». Entrato all'Eliseo, Macron era stato pregato dai responsabili della sicurezza di abbandonare quel numero, invano. Fino a ieri Macron aveva due iPhone - uno dei quali viene adesso abbandonato -, e due apparecchi teoricamente quasi inviolabili.  Il primo è un Teorem, messo a punto dall'azienda francese Thales, che già equipaggiava il presidente Jacques Chirac a partire dal 2006. Si tratta di un telefono che serve solo per chiamate - niente messaggerie o Internet - e funziona solo con altri Teorem identici. In tutta la Francia i Teorem sono in mano a circa tremila persone, 30 delle quali sono i più stretti collaboratori di Macron all'Eliseo. L'altro telefono mobile è un Samsung modificato, sviluppato grazie alla collaborazione tra le società Orange Cyberdéfense e Ercom sulla base della tecnologia CryptoSmart, che permette di navigare su Internet in relativa sicurezza. La questione degli smartphone dei leader è stata posta in primo piano da Barack Obama, che per anni si è lamentato del Blackberry modificato - più sicuro e anche più limitato - che gli era concesso alla Casa Bianca. Il suo successore alla presidenza degli Stati Uniti, Donald Trump, è stato criticato spesso per i tweet inviati di prima mattina usando un iPhone invece che il telefonino speciale messo a punto dalla National Security Agency. Il presidente attuale Joe Biden usa l'Apple Watch, e ha destato qualche attenzione la sua bici da camera Peloton con schermo, videocamera, microfono e connessione in Rete. Sono lontani i tempi del mitico Nokia 6210 usato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel per anni spiato dall'intelligence americana, prima del passaggio a un Blackberry Z10. Il premier britannico Boris Johnson si è invece lasciato sfuggire una volta un selfie scattato con uno Huawei P20, innescando un dibattito sui rischi per la sicurezza nazionale visto che l'azienda cinese è sospettata di essere usata come cavallo di Troia dalle autorità di Pechino per spiare l'Occidente. L'uso dello smartphone più decisivo negli ultimi anni è stato forse quello del presidente turco Erdogan, che durante il tentativo di colpo di Stato del 15 luglio 2016 chiamò la redazione della Cnn turca in video con l'applicazione FaceTime dell'iPhone. Quel momento chiave non gli ha impedito poi, due anni dopo, di minacciare il boicottaggio degli iPhone e degli altri prodotti Apple nell'ambito della guerra commerciale tra Turchia e Stati Uniti.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. «Non sono sorpreso, e neanche preoccupato. Ho ringraziato i giornalisti del Washington Post che mi hanno avvisato, non so perché abbiano cercato di spiarmi. Mi piacerebbe sapere per conto di chi», dice Romano Prodi, ex presidente del Consiglio italiano e della Commissione europea. Il suo telefonino potrebbe essere stato obiettivo dei servizi segreti del Marocco perché nel 2012 Prodi era stato inviato speciale dell'Onu nel Sahel. Ma l'incertezza sugli autori e le motivazioni è uno degli elementi fondamentali del caso Pegasus. Il software messo a punto dalla società israeliana Nso Group è da anni sospettato di essere usato non solo nell'ambito della lotta anti-terrorismo, ma anche per obiettivi illeciti come il controllo di oppositori politici, attivisti per i diritti umani, avvocati, giornalisti e leader politici. Le rivelazioni che si susseguono da lunedì sera, diffuse dal gruppo non profit Forbidden Stories e da sedici media internazionali, sembrano confermare questi dubbi e indicano un sistema di spionaggio ad ampio raggio, su oltre cinquantamila persone. Non tutti i numeri telefonici presenti negli elenchi in mano a Forbidden Stories sono stati effettivamente violati. Ma di sicuro sono stati identificati dai Paesi che usano il software Pegasus, e considerati come interessanti in vista di un'attività di spionaggio immediata o futura. I Paesi più attivi sono Messico e Marocco, che avrebbe provato (forse con successo) a impossessarsi dei dati dell'iPhone del presidente francese Emmanuel Macron e del suo governo. Ieri, tre giorni dopo le prime rivelazioni, lo Stato nordafricano è intervenuto nella questione. Il governo ha dato mandato alla corte di Appello di Rabat di aprire un'inchiesta contro Forbidden Stories, accusando i media di accuse «del tutto false e infondate» e di «arrecare danni alle autorità pubbliche nazionali e di ledere gli interessi superiori del regno del Marocco». Sembra cominciare una battaglia legale internazionale, perché il giorno prima avevano presentato denuncia alla procura di Parigi due giornalisti francesi, il fondatore del giornale online Mediapart e la reporter della stessa testata Lenaig Bredoux, a loro volta spiati dal Marocco perché in contatto con gruppi di oppositori al regime di Rabat. E anche i politici di tutti gli orientamenti politici stanno presentando denunce: ieri lo hanno fatto il deputato vicino a Macron, Cédric Villani, e anche Adrien Quatennens del partito della sinistra antagonista La France Insoumise: «Tramite me, è tutta l'attività del nostro movimento e del suo gruppo parlamentare a essere potenzialmente violata». Il primo ministro Jean Castex ha detto ieri che «stiamo seguendo la vicenda da molto vicino, tenuto conto della gravità potenziale», aggiungendo che «il presidente ha ordinato una serie di verifiche e inchieste». Il software Pegasus è oggetto di indagini e polemiche dal 2016, dopo l'allerta lanciato dal dissidente degli Emirati Arabi Uniti, Ahmed Mansoor, condannato a 10 anni di prigione. La novità di questa serie di rivelazioni è il carattere sistematico e su larga scala dell'attività di spionaggio.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 23 luglio 2021. Il software Pegasus potrebbe essere stato usato dai servizi degli Emirati Arabi Uniti per impedire la fuga della principessa Latifa Al-Maktoum, una delle figlie dell'emiro di Dubai, Mohammed Al-Maktoum. Ricchissima ma prigioniera di fatto nello Stato guidato dal padre, Latifa ha provato a lasciare la famiglia una prima volta quando aveva 16 anni, nel 2001. Arrestata alla frontiera con l'Oman, era stata riconsegnata all'emiro che - secondo una testimonianza video di Latifa - l'aveva tenuta per tre anni in una cella senza finestre, facendola picchiare e minacciandola di morte. Il secondo tentativo, nel 2018, era quasi riuscito. L'ormai 32enne Latifa sembrava vicina al sogno di lasciare gli Emirati. La principessa si era rivolta a un ex agente dei servizi francesi, Hervé Jaubert, uomo d'affari e skipper dello yacht a vela Nostromo. Il piano di fuga era complesso e apparentemente ben congegnato: Latifa si è nascosta nel bagagliaio di un'auto e ha attraversato così la frontiera con l'Oman. Poi è salita su una jeep per raggiungere la costa, dove un gommone l'ha portata al largo. Infine, una moto d'acqua l'ha condotta fino al Nostromo, che la stava aspettando fuori dalle acque territoriali, e che era pronto a fare rotta verso lo Sri Lanka, primo Paese di accoglienza in vista di un trasferimento negli Usa. Il primo atto della tentata evasione è stato l'abbandono del telefonino nelle toilette del ristorante La Serre, a Dubai, nella speranza di non farsi geolocalizzare. Oggi, i risultati dell'inchiesta di sedici media internazionali coordinati dall'organizzazione non profit Forbidden Stories sul software Pegasus sembrano indicare che nelle ore successive a quel gesto il numero della principessa Latifa venne inserito nella lista di Pegasus, e che vennero messi sotto controllo tutti i suoi contatti. Conversazioni, email, messaggi WhatsApp, Telegram, qualsiasi dato presente nei telefonini nel suo entourage e quindi della squadra che la stava aiutando a fuggire: il suo coach di paracadutismo Juan Mayer, l'amica Lynda Bouchikhi, la professoressa di matematica Sioned Taylor, l'istruttrice finlandese di ginnastica, Tiina Jauhiainen. Fu così che una notte, quando il Nostromo si stava avvicinando a Goa in India e tutti a bordo dormivano, le forze speciali indiane aiutate da quelle degli Emirati presero d'assalto lo yacht, usando fumogeni e puntando i mirini laser sui volti degli occupanti. La preghiera della principessa Latifa - «Uccidetemi qui ma non portatemi indietro» - non venne esaudita. Il 16 febbraio 2021 in un video girato di nascosto la principessa chiede aiuto: «Mi trovo in una villa trasformata in prigione, sono chiusa in bagno, sorvegliata da cinque agenti fuori e due dentro la casa. Non sarò mai libera». L'azienda israeliana NSO Group, in questi giorni impegnata a difendersi dalle rivelazioni di Forbidden Stories, avrebbe rotto il contratto per la fornitura di Pegasus agli Emirati nel febbraio 2021. Oltre alla principessa Latifa sarebbe stata spiata con Pegasus la principessa Haya, figlia del re Hussein di Giordania e sesta moglie dell'emiro Mohammed Al-Maktoum, che però è riuscita a fuggire in Gran Bretagna con i due figli e a denunciare in tribunale l'emiro di Dubai.

Spiati pure il Dalai Lama e le principesse in fuga. Parigi apre un'inchiesta. Gaia Cesare il 23 Luglio 2021 su Il Giornale. Nel mirino ex moglie e figlia dell'emiro di Dubai. Merkel: il software non finisca in mani sbagliate. Usato per intercettare capi di Stato come il presidente francese Emmanuel Macron, ex capi di governo come Romano Prodi, giornalisti, oppositori politici e ora si scopre anche figlie e mogli in fuga dal regime autoritario degli Emirati Arabi Uniti e perfino l'entourage del pacifico ma scomodo Dalai Lama. Il software-spia Pegasus, prodotto dall'azienda israeliana Nso Group, allarma le cancellerie internazionali, ancor più dopo le ultime rivelazioni delle 17 testate internazionali che si sono occupate dell'inchiesta e hanno sfoderato nelle scorse ore nuovi nomi eccellenti finiti nella lista delle circa 50 mila utenze depredate di foto, audio e informazioni personali. Ci sono anche la martoriata principessa Latifa, figlia del sovrano di Dubai, lo sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, e l'ex moglie del monarca, Haya Al-Hussein, tra le vittime dello spionaggio selvaggio denunciato dall'indagine svolta sotto il coordinamento dell'organizzazione francese «Forbidden Stories», con l'assistenza tecnica di Amnesty International, entrambe citate in giudizio dal Marocco accusato di aver preso di mira Macron e finoto sotto accusa insieme ad Arabia Saudita, Marocco, Ungheria, Messico, India e così via. Come centinaia di altre storie in questa vicenda, la notizia prova che introdursi nei telefoni cellulari sia stato il passatempo preferito - reso agevole da Pegagus - di Paesi e autorità che disprezzano i diritti umani. La storia di Latifa, d'altra parte, è una storia di orrore, violenza e repressione di un padre-padrone incapace non solo di elargire le più basilari libertà individuali ai suoi sudditi negli Emirati Arabi Uniti, ma avverso anche a concedere qualche ora d'aria e la minima autonomia alla propria figlia. Proprio Pegasus sembra essere andato incontro al monarca assoluto quando Latifa tentò una fuga disperata dal Paese arabo nel febbraio 2018. La giovane allora aveva 32 anni, si era nascosta nel bagagliaio di un'auto, aveva attraversato la frontiera con l'Oman ed era salita su un gommone, poi aveva raggiunto uno yacht che l'avrebbe dovuta portare in Sri Lanka, prima di arrivare nella meta ambita, gli Stati Uniti. Unico obiettivo: sfuggire alle grinfie del padre, re degli Emirati, che la teneva segregata. Nonostante Latifa avesse lasciato il suo telefono nel bagno di un ristorante di Dubai, ora si scopre che il suo numero finì sotto il controllo di Pegasus qualche ora dopo, rivelando le conversazioni avute con un'amica e altre persone fidate. Latifa fu portata via mentre lo yacht si avvicinava alle coste di Goa, India. Da allora la giovane non è più riuscita a liberarsi dal giogo del padre-sovrano. Ormai celebre un video girato di nascosto nel bagno di casa, e diffuso a gennaio dalla Bbc, in cui racconta: «Sono tenuta rinchiusa in una villa trasformata in prigione. Ci sono sbarre a tutte le finestre e non posso aprirle. Le guardie minacciano che potrei non rivedere il sole». Viva ma segregata. Grazie a Pegasus. Usato per mettere sotto controllo anche la sesta moglie dell'emiro di Dubai, figlia del re Hussein di Giordania, Haya Al-Hussein, ora fuggita in Gran Bretagna. Come se non bastasse, ora si scopre che anche la stretta cerchia di collaboratori del Dalai Lama è stata spiata. Sarebbe stato il governo indiano a puntare la squadra della guida spirituale del buddhismo tibetano ed ex capo del governo in esilio dopo la rottura con la Cina. Ecco perché ieri, mentre Macron convocava un Consiglio di Difesa eccezionale, alcuni media francesi riferivano del suo cambio di smartphone e numero di telefono, la Francia annunciava un'inchiesta e la cancelliera tedesca Angela Merkel si premurava a esortare: è «importante» che questo genere di software «non finisca nelle mani sbagliate», che «non sia venduto a quei Paesi dove la legge non può proteggere» dalle intercettazioni delle autorità.  Gaia Cesare

Giordano Stabile per "La Stampa" il 21 luglio 2021. Allora era Angela Merkel a essere spiata dalla Nsa, adesso è Emmanuel Macron a essere ascoltato dalla Nso, o meglio dai servizi segreti marocchini attraverso Pegasus, lo spyware della multinazionale israeliana, ormai diventato sinonimo di uno scandalo mondiale. È il nuovo episodio nella saga della sorveglianza globale, che non risparmia attivisti, diplomatici, giornalisti e persino capi di Stato. Ben quattordici fra presidenti, primi ministri e sovrani, secondo le rivelazioni del consorzio di giornalismo investigativo, Forbidden Stories, con sede a Parigi e un rapporto di collaborazione con 17 testate internazionali, da Le Monde, al Guardian, al Washington Post. Le prime anticipazioni sono state rilanciate dai social domenica sera, lunedì si è avuta contezza della portata dello spionaggio, condotto soprattutto da Stati mediorientali, ma anche dall'europea Ungheria. Ieri è arrivata la deflagrazione che ha scosso la capitale francese e l'Eliseo. «Se i fatti dovessero essere confermati, sarebbe ovviamente gravissimo. Sarà fatta piena luce», ha dichiarato con un secco comunicato la presidenza. Ma è chiaro che l'irritazione è enorme, soprattutto perché lo sgarbo arriva da uno stretto alleato. Le Monde ha confermato che il telefono, o i telefoni, di Macron sono stati infettati con Pegasus dai servizi di Rabat. Lo spyware permette di ascoltare le chiamate, leggere i messaggi, le mail, e persino di attivare la telecamera e osservare la vittima, anche mentre dorme e il dispositivo è spento. Un'arma potentissima che procura vantaggi incalcolabili, per esempio per sapere in anticipo una mossa diplomatica, o la decisione su un contratto miliardario. Secondo Forbidden Stories, la Nso ha fornito il programma a una dozzina di governi, che hanno messo sotto controllo «50 mila cellulari». Mano a mano che vengono analizzati i numeri recuperati in una complessa operazione, che ha visto anche il contributo tecnico di Amnesty International, lo scandalo assume proporzioni gigantesche. Lunedì era emerso che i servizi marocchini avevano infettato cellulari di giornalisti dello stesso Le Monde, di Mediapart, del Figaro. Ieri è emerso che Macron è stato posto sotto controllo nel 2019, alla partenza per un tour africano con tappe in Kenya ed Etiopia. Assieme a lui, nella stessa occasione, è finito nel mirino anche l'attuale presidente del Consiglio europeo, allora premier belga, Charles Michel. E sul caso sta indagando anche Bruxelles che, ha detto il responsabile alla Giustizia Ue, Didier Reynders, «sta raccogliendo informazioni per capire quale sia il possibile utilizzo dell'applicazione». Ma la sorveglianza globale interessa tutti i continenti. Il presidente del Sudafrica, Cyril Ramaphosa, è stato posto sotto sorveglianza dal Ruanda. L'ex premier libanese Saad Hariri, già nel 2018 dagli Emirati Arabi Uniti. Il primo ministro pachistano Imran Khan dall'India. L'ex presidente messicano Felipe Calderón, nel 2016, da un rivale interno non identificato. I servizi marocchini avrebbero invece spiato anche il diplomatico americano Robert Malley, adesso inviato speciale della Casa Bianca per l'Iran, e il direttore generale dell'Oms, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus. E addirittura il proprio primo ministro Saadeddine Othmani e lo stesso re Mohammed VI. Nella lista ci sono anche il premier dell'Uganda Ruhakana Rugunda e il presidente dell'Iraq Barham Salih. L'Nso ha replicato che i governi che usano il suo spyware sono impossibilitati a operare contro cittadini americani, in quanto «tecnicamente impossibile». L'azienda ha negato di aver mai conservato «liste di obiettivi passati o presenti» e definito le rivelazioni di Forbidden Stories «piene di affermazioni sbagliate e teorie non corroborate dai fatti». Ma lo scandalo getta un'ombra su tutto il settore della tecnologia militare israeliana, una miriade di start-up che hanno legami con la leggendaria unità 8200 dell'esercito. Emergono i legami con i regimi che sfruttano i software spia per controllare e reprimere attivisti, giornalisti e oppositori. Come è il caso, ancora in Marocco, del giornalista Omar Radi, conosciuto soprattutto per le sue inchieste anti-corrotti, condannato ieri a sei anni di prigione dopo essere stato spiato con Pegasus. 

Stefano Montefiori per "la Stampa" il 19 luglio 2021. Alcuni Paesi usano il software Pegasus prodotto dalla società israeliana NSO Group nell'ambito della lotta contro il terrorismo. E questo lo si sapeva. Talvolta il ricorso a Pegasus avviene al di fuori di questo contesto, e anche questo era conosciuto. Le novità - secondo quanto sostengono Le Monde e altri 15 giornali legati alle ong Forbidden Stories e Amnesty International - sono essenzialmente due: 1) a usare in modo illegittimo il software Pegasus sono anche democrazie come Messico, India e l'Ungheria di Viktor Orbán; 2) queste violazioni non sono occasionali e sporadiche ma sistematiche e su larga scala. Potrebbe essere il caso di spionaggio digitale più grave dal 2013, quando Edward Snowden rivelò le pratiche illecite e globali dell'agenzia governativa americana Nsa. Stavolta le rivelazioni riguardano i governi di Messico, India, Marocco, Indonesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Kazakistan, Azerbaigian, Togo, Ruanda e Ungheria, che avrebbero messo sotto controllo 50 mila numeri telefonici tra i quali quelli di circa 180 giornalisti (appartenenti per esempio a Financial Times, CNN, New York Times, Economist, Associated Press e Reuters ), oltre alle comunicazioni di avvocati militanti per i diritti umani, diplomatici, medici, campioni dello sport, e uomini politici tra i quali ministri e 13 capi di Stato o di governo (dei quali tre europei). Tra i Paesi più attivi c'è il Messico, che ha usato il sistema Pegasus per controllare 15 mila numeri di telefoni tra i quali quello di Cecilio Pineda, giornalista assassinato nel 2017. L'India ha spiato una trentina di giornalisti che indagavano su gruppi industriali vicini al premier Narendra Modi e su un'ipotesi di corruzione che riguarda la vendita all'India degli aerei militari francesi Rafale. L'Arabia Saudita ha fatto ricorso a Pegasus per spiare i famigliari del giornalista Jamal Khashoggi fatto a pezzi nel consolato di Istanbul il 2 ottobre 2018, e Le Monde ipotizza che tra le ragioni all'origine dello spettacolare avvicinamento diplomatico tra Israele da una parte e Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti dall'altra ci sia anche la messa a disposizione da parte di Gerusalemme del software Pegasus. Lo spionaggio illecito ai danni di propri concittadini riguarda anche un Paese membro dell'Unione europea, l'Ungheria: grazie a Pegasus il governo di Orbán ha messo sotto controllo i numeri di dieci avvocati impegnati nella difesa dei diritti umani, le comunicazioni di Zoltan Varga che è a capo di un gruppo di media ostili all'esecutivo e due giornalisti di Direkt36 , una testata investigativa online di Budapest. La Francia non ricorre a Pegasus ma molti cittadini francesi ne fanno le spese perché spiati dal Marocco: dal fondatore del giornale online Mediapart , Edwy Plenel, che in passato ha sostenuto il processo di democratizzazione nel Paese nordafricano, a colleghi delle reti France 2, France 24, RFI, e all'opinionista anti-islam e possibile candidato di estrema destra alle presidenziali francesi del 2022, Eric Zemmour. NSO Group parla di «false accuse», «teorie non provate», «informazioni prive di qualsiasi base fattuale», e assicura di continuare a indagare sulle «denunce credibili» di uso illecito del suo software, «come abbiamo già fatto in passato». Gli autori dell'inchiesta promettono nuove rivelazioni distribuite lungo tutta la settimana.

Lo spione Pegasus su giornalisti e dissidenti. Snowden: "La storia dell'anno". Giulia Belardelli per huffingtonpost.it il 20 luglio 2021. Più di mille persone – tra cui quasi 190 giornalisti, oltre 600 politici e funzionari governativi, almeno 65 dirigenti aziendali, 85 attivisti per i diritti umani e diversi capi di Stato e di governo - sono finite nel mirino di governi autoritari che sono ricorsi al software di spionaggio Pegasus dell’azienda israeliana NSO Group. A rivelare il maxi sistema di spionaggio è un’indagine condotta da 17 testate internazionali - tra cui il Washington Post e il Guardian - sulla base di dati ottenuti dall’organizzazione no profit di giornalismo Forbidden Stories con base a Parigi e dal gruppo per i diritti umani Amnesty International. Secondo il Security Tech Lab della ong, guidato dall’italiano Claudio Guarnieri, il malware era stato installato sul telefono di Hatice Cengiz, la fidanzata di Khashoggi, quattro giorni dopo il suo assassinio. Lo spyware dell’azienda israeliana NSO Group - denuncia l’organizzazione - ”è usato per facilitare violazioni dei diritti umani a livello globale e su scala massiccia”. NSO Group è l’organizzazione di hacker su commissione più famigerata al mondo, e Pegasus è lo spyware di punta del gruppo. Il software di livello militare, nato per per consentire ai governi di penetrare le reti di terroristi e criminali, è un malware che infetta gli iPhone e gli smartphone Android per consentire a chi lo opera di accedere ai dispositivi ed estrarre messaggi, foto, email e anche per attivare segretamente il microfono e la telecamera del dispositivo. NSO Group nega che i dati siano trapelati dai suoi server e definisce il rapporto di Forbidden Stories “pieno di ipotesi errate e teorie non confermate”. Sono almeno dieci i Paesi implicati nell’affaire Pegasus come clienti di NSO: si tratta di Ungheria, Azerbaigian, Kazakhstan, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein, India, Messico, Marocco, Ruanda. Come tengono a evidenziare le testate internazionali, la sola presenza del numero di telefono nel database di Pegasus - composto da oltre 50.000 contatti - non significa necessariamente che quella persona sia stata spiata, tuttavia il dato è rivelatore del fatto che ci sono governi pronti a tenere sotto controllo la vita professionale e privata di persone che con la criminalità o il terrorismo internazionale non hanno nulla a che fare. La tecnologia – riporta il Guardian - sarebbe stata usata anche dal governo ungherese di Viktor Orbán nell’ambito della sua guerra ai media. Proprio lo staff di Orban, con il Washington Post, replica secco: “In Ungheria gli organi statali autorizzati all’uso di strumenti sotto copertura sono monitorati regolarmente dalle istituzioni governative e non governative. Avete fatto la stessa domanda ai governi degli Stati Uniti, del Regno Unito, della Germania o della Francia?”. A Pegasus avrebbero fatto ricorso anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti per prendere di mira i cellulari di alcune persone vicine al giornalista ucciso Jamal Khashoggi. Secondo le verifiche di Amnesty, lo spyware è stato installato con successo sul telefono della fidanzata di Khashoggi, Hatice Cengiz, appena quattro giorni dopo l’omicidio avvenuto nel 2018 nel consolato saudita a Istanbul. La società NSO era stata precedentemente implicata in altre attività di spionaggio sul caso Khashoggi. Da un elenco di oltre 50.000 numeri di cellulare ottenuto da Forbidden Stories e Amnesty International, il Pegasus Project ha identificato più di 1.000 persone in 50 Paesi che sarebbero state selezionate da clienti di NSO per una potenziale sorveglianza. A essere finiti nell’occhio di Pegasus sono, tra gli altri, la direttrice del Financial Times Roula Khalaf e giornalisti di Associated Press, Reuters, CNN, Wall Street Journal, New York Times, Bloomberg News, Le Monde. L’analisi dell’elenco mette in evidenza che il cliente di NSO che ha selezionato la maggior quantità di numeri di telefono è il Messico con oltre 15.000. Il Marocco e gli Emirati Arabi Uniti ne hanno selezionati più di 10.000. I numeri selezionati sono stati rintracciati in oltre 45 Paesi in quattro continenti. In Europa sono oltre 10.000 i contatti telefonici inseriti dai clienti di NSO. L’inchiesta riapre il dibattito sull’uso diffuso di strumenti di spionaggio che minacciano le democrazie, affermano i critici, osservando come la sorveglianza renda difficile per i giornalisti raccogliere informazioni, per gli attivisti continuare a svolgere la loro attività e per gli oppositori politici pianificare le loro strategie. Con Pegasus, mette in evidenza l’ex dell’intelligence americana Timothy Summers, si può spiare quasi l’intera popolazione mondiale: “Non c’è nulla di male nello sviluppare tecnologie che consentono di raccogliere dati. Ma l’umanità non è in una situazione di poter rendere accessibile a tutti tanto potere”. Per Agnes Callamard, segretaria generale di Amnesty International, “il numero di giornalisti identificati come obiettivi illustra chiaramente come Pegasus venga utilizzato come strumento per intimidire i media critici. Si tratta di controllare la narrativa pubblica, resistere al controllo e sopprimere qualsiasi voce di dissenso″. In un caso evidenziato dal Guardian, il giornalista messicano Cecilio Pineda Birto è stato assassinato nel 2017 poche settimane dopo che il suo numero di cellulare era apparso sulla lista trapelata. Tra gli spiati figura Umar Khalid, leader indiano della Democratic Students’ Union in carcere dallo scorso anno. Nel corso del processo, l’accusa ha presentato documenti che erano nel telefono personale dell’imputato senza spiegare in che modo vi fosse entrata in possesso. È stato spiato per ben tre anni il telefono di Khadija Ismayilova, una delle più importanti reporter dell’Azerbaigian per le sue inchieste atte a rivelare corruzioni e abusi del presidente Ilham Aliyev. Il governo di Baku è accusato di aver messo sotto controllo almeno 48 cronisti. L’inchiesta ha rilanciato le pressioni internazionali sul governo israeliano, che di fatto consente all’azienda di fare affari con regimi autoritari che utilizzano lo spyware per scopi che vanno ben oltre l’obiettivo dichiarato, che è quello di prendere di mira terroristi e criminali. Le rivelazioni seguono un recente rapporto del New York Times, secondo cui Israele ha permesso alla NSO di fare affari con l’Arabia Saudita e l’ha incoraggiata a continuare a farlo anche dopo l’omicidio del giornalista e dissidente Khashoggi. Per fornire i propri servizi in un dato Paese, l’azienda deve ricevere un permesso dal governo israeliano, ma una volta consegnati i software ai governi che ne fanno richiesta NSO ha un limitato controllo su scopi e modalità di utilizzo. Le nuove accuse hanno accresciuto le preoccupazioni tra gli attivisti per la privacy secondo cui nessun utente di smartphone, nemmeno quelli che utilizzano software come WhatsApp o Signal, è al sicuro dai governi e da chiunque altro disponga della giusta tecnologia di sorveglianza informatica. “Smetti di fare quello che stai facendo e leggi questo”, ha twittato Edward Snowden, l’informatore che ha fatto trapelare un gran numero di informazioni riservate dalla National Security Agency nel 2013. “Questa fuga di notizie sarà la storia dell’anno”.

Messico, così il software spia Pegasus è finito in mano ai Narcos. Daniele Mastrogiacomo per repubblica.it il 20 luglio 2021. Lo scandalo è esploso a metà giugno del 2017. Ma era almeno da sei anni che le agenzie di intelligence messicane si dedicavano a spiare decine di migliaia di cittadini. Soprattutto oppositori politici e attivisti sociali. Ma quando decine di giornalisti, avvocati, docenti universitari e persino parlamentari hanno scoperto che il loro cellulare era stato infettato con un software che li trasformava in potenziali bersagli, allora Pegasus è venuto allo scoperto. (…) Lo scandalo Pegasus diventa una bomba politica per l'allora presidente Enrique Peña Nieto. Tra le vittime del software ci sono dei parlamentari. Fioccano le interrogazioni, il presidente nega. Ma di fronte all'evidenza è costretto ad ammettere. Si tratta di un software acquistato dal governo messicano dal gruppo NSO, una società informatica israeliana all'avanguardia anche nei sistemi di spionaggio militare. La quale, a sua volta, conferma di averlo venduto alle tre agenzie di intelligence messicane per 80 milioni di dollari. Ma chiarisce anche che l'acquisto aveva una condizione che ogni governo doveva sottoscrivere: poteva essere usato solo nella lotta alla criminalità e il terrorismo. Violare questa clausola provocava la cancellazione del diritto alla licenza e il virus-spia veniva disattivato. In apparenza. Il presidente Nieto si impegnò a svolgere un'accurata indagine che, come sempre, non ha approdato a nulla. L'intelligence ha interrotto la sua attività di controllo. Ma ha attirato l'interesse dei Cartelli.  E' bastato pagare e Pegasus è finito nelle mani dei narcos che di soldi ne hanno montagne. Anche l'attuale presidente Andrés Manuel López Obrador ha dichiarato che il software era stato eliminato. Ma la serie impressionante di omicidi eccellenti fanno invece ritenere che sia in circolazione. Il Gruppo NSO spiega che è impossibile capire nelle mani di chi sia finito. "E' come un kalashnikov. Lo vendi a qualcuno che può venderlo ad altri e questi ad altri ancora. Non lo ritrovi più e continua a sparare", dicono a Tel Aviv. (…)

(ANSA il 20 luglio 2021) Un'inchiesta è stata aperta in Francia nel quadro del caso Pegasus sullo spionaggio dei giornalisti: è quanto riferisce la procura di Parigi. (ANSA).

Francesca Basso per il "Corriere della Sera" il 20 luglio 2021. Reazioni indignate ovunque. Il caso Pegasus, l'inchiesta giornalistica condotta da 16 giornali legati alle ong Forbidden Stories e Amnesty International, che ha preso il nome dal software israeliano della società NSO usato in modo illegale da diversi governi in tutto il mondo, tra cui l'Ungheria nella Ue, per spiare migliaia di giornalisti, attivisti per i diritti umani, politici, autorità religiose, ha scatenato reazioni di condanna. Per la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, «deve essere verificato, ma se è così è completamente inaccettabile. Sarebbe contro qualsiasi regola: la libertà della stampa è uno dei valori fondamentali dell'Ue. Sarebbe assolutamente inaccettabile se fosse così». La «democrazia illiberale» di Viktor Orbán è tra gli 11 Paesi coinvolti: Arabia Saudita, Azerbaigian, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, India, Kazakistan, Marocco, Messico, Ruanda e Togo. Oltre ai giornalisti Szabolcs Panyi e András Szabó della testata Direkt36 , anch' essa parte del team investigativo, che sono stati effettivamente spiati, sono finiti nella lista János Bánáti, presidente dell'Ordine degli avvocati ungheresi insieme ad altri dieci avvocati e György Gémesi, sindaco dell'opposizione della cittadina di Gödöll, Zoltán Varga, proprietario del Central Media Group e l'economista Attila Chikán, ex ministro del primo governo di Viktor Orbán e ora voce critica nei confronti del leader magiaro. Il figlio e uno dei confidenti più stretti dell'ex oligarca Lajos Simicska. Il Washington Post , che ha partecipato all'inchiesta, riferisce che oltre 300 numeri di telefono ungheresi, collegati a giornalisti, avvocati, uomini d'affari e attivisti, sono apparsi nell'elenco che includeva i numeri selezionati per la sorveglianza dai clienti della NSO, ma non è chiaro quali siano stati effettivamente spiati. I deputati dell'opposizione ungherese hanno chiesto un'inchiesta parlamentare. Il governo nega ogni coinvolgimento. Il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto ha detto che «il governo non è a conoscenza di questo tipo di raccolta dati», aggiungendo che «non è stata instaurata alcuna collaborazione con i servizi di intelligence israeliani». Se il coinvolgimento di Budapest fosse confermato sarebbe un altro episodio gravissimo di mancato rispetto dello Stato di diritto. Ma un portavoce della Commissione ha spiegato che il compito di controllare non è di Bruxelles: «Le autorità nazionali - ha detto - hanno il dovere di vigilare sui diritti alla privacy e sulla libertà dei media». Oggi la Commissione presenta il rapporto annuale sullo Stato di diritto nell'Ue e Ungheria e Polonia saranno tra gli osservati speciali. Sono emersi nuovi dettagli anche su Messico, Ruanda e India. Il Guardian ha riferito che nell'elenco degli spiati sono presenti 50 persone vicine al presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, tra cui la moglie e i figli, e Carine Kanimba, figlia di Paul Rusesabagina, l'attivista ruandese imprigionato che ha ispirato il film «Hotel Rwanda». Nella lista anche Rahul Gandhi, il principale rivale politico del primo ministro indiano Narendra Modi. I Paesi coinvolti si chiamano fuori. Il Marocco ha definito «false» le informazioni emerse dall'inchiesta. Anche l'India ha negato qualsiasi coinvolgimento.

Stefano Montefiori per il "Corriere della Sera" il 20 luglio 2021. «Sono stata avvisata qualche settimana fa da Forbidden Stories che due giornalisti di Mediapart , io e il direttore Edwy Plenel, eravamo stati bersaglio dei servizi del Marocco attraverso Pegasus. Abbiamo accettato di dare i nostri telefonini al Security Lab di Amnesty International a Berlino perché facessero un'analisi tecnica. È venuto fuori che Plenel è stato messo sotto controllo per due mesi nel 2019, e io per quindici mesi, da fine febbraio 2019 a fine maggio 2020. Hanno spiato non solo le telefonate, ma tutto il contenuto del telefonino. Contatti, foto, email, messaggi WhatsApp, tutto». Lénaïg Bredoux, quarantenne gender editor del giornale online Mediapart , è tra le oltre 50 mila persone vittime del software Pegasus nel mondo. 

Perché lei è stata spiata?

«Questo è un aspetto interessante, non banale. Ci sono due livelli: lo spionaggio per motivi evidenti, di uno Stato ai danni di suoi oppositori. Per esempio quello dell'Arabia Saudita ai danni dei famigliari del giornalista Jamal Khashoggi. E poi il secondo livello, più vasto e forse più preoccupante per tutti, in cui i motivi sono più opachi. Nel mio caso, sono una cittadina francese spiata dal governo del Marocco, circostanza gravissima da un punto di vista diplomatico. I motivi possono essere diversi: forse perché nel 2015 ho scritto una serie di articoli su Abdellatif Hammouchi, l'uomo forte dell'intelligence marocchina. O forse perché nel febbraio 2019 ho seguito un processo per violenze sessuali, tema molto seguito dal regime di Rabat perché lo usa talvolta per incastrare gli oppositori». 

Sa chi ha ordinato l'intrusione?

«No, e questo è uno degli aspetti stressanti del ritrovarsi spiati. Non sai che cosa faranno delle informazioni, non sai che cosa hanno in mano esattamente, non sai chi ha ordinato di metterti sotto sorveglianza e non sai per quale ragione precisa. Su larga scala, diventa una forma di arbitrio e di intimidazione».

Pensa che questo aspetto possa mobilitare l'opinione pubblica? Del software Pegasus si sapeva. Il salto di qualità, stavolta, sembra essere l'enorme quantità di persone coinvolte.

«Non sono complottista ma credo che una vicenda come questa debba spingere tutti a porsi questioni sulla riservatezza dei dati. La quantità di informazioni rubate è enorme: uno Stato malintenzionato può utilizzare quando vuole, per motivi che non possiamo sospettare, le foto dei bambini o i dati del conto bancario». 

È possibile che siate i mezzi per arrivare ad altri?

«Certo. È possibile che siamo i cavalli di Troia per nuocere magari a colleghi giornalisti marocchini. Ma più in generale, come dice Laurent Richard, fondatore di Forbidden Stories, questo scandalo permette di vedere il volto ordinario di tanti spiati: persone finite dentro le liste magari perché un giorno hanno incontrato qualcuno. 

Accanto a oppositori, giornalisti, militanti per i diritti dell'uomo, ci sono persone comuni che magari non hanno scelto di correre i rischi legati al condurre un'inchiesta. Nessuno è al riparo».

Che cosa farà adesso?

«Con il direttore Plenel abbiamo presentato denuncia davanti al procuratore della Repubblica di Parigi». 

Segni di solidarietà dalle autorità francesi?

«Niente, per ora, che io sappia. Il Marocco, Paese alleato, che spia cittadini francesi in Francia. L'imbarazzo è enorme».

L'inchiesta internazionale. Pegasus Project, così giornalisti e capi di Stato sono stati spiati dai governi con un software anti-terrorismo. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Luglio 2021. Un potente e controverso software sviluppato dall’azienda israeliana NSO, nato per spiare terroristi e criminali, utilizzato da diversi governi per spiare attivisti, giornalisti e persino capi di Stato. È quanto emerge da una inchiesta internazionale condotta da 17 quotidiani, tra cui il Washington Post, il Guardian, Le Monde, assieme ad organizzazioni come Amnesty International e Forbidden Stories, un’iniziativa giornalistica senza scopo di lucro con sede a Parigi. Pegasus Project, questo il nome dell’inchiesta giornalistica, mette nel mirino la NSO, l’azienda israeliana produttrice del software poi utilizzato per spiare giornalisti, attivisti per i diritti umani, dirigenti d’azienda e capi di Stato. Pegasus è un software progettato per intercettare le telefonate, geolocalizzare l’utente, raccogliere i suoi messaggi di testo e copiarne le password, usato da molti governi per monitorare le attività di persone sospettate di essere un pericolo per la sicurezza nazionale. Una volta che lo smartphone è infettato da Pegasus, il "manovratore" può prenderne il controllo e spiare ogni sua mossa. Peccato che, come denunciato da Amnesty International e Forbidden Stories, Pegasus sia stato utilizzato per sorvegliare oltre 50mila utenze telefoniche di giornalisti, attivisti e almeno 13 capi di Stato. Ad utilizzarlo, secondo i quotidiani che hanno diffuso l’inchiesta corale, sarebbero stati i governi di Messico, India, Marocco, Indonesia, Ruanda, Togo, mentre in Europa vi sarebbe l’Ungheria di Viktor Orban, che avrebbe utilizzato Pegasus per controllare gli oppositori del governo. Il nome spuntato fuori sui quotidiani è quello di Szabolcs Panyi, uno dei più noti reporter ungheresi, cronista del sito investigativo Direkt36, uno tra i pochi media indipendenti nel Paese. Gran parte delle Nazioni citate hanno negato di aver utilizzato Pegasus, o di aver utilizzato il software per scopi diversi dallo spionaggio anti-terrorismo. A finire pedinato da Pegasus ci sarebbe stato anche Jamal Khashoggi, il giornalista ucciso da sicari dell’Arabia Saudita nel consolato saudita di Istanbul, in Turchia, su mandato (secondo una inchiesta Cia) del principe ereditario Mohammad bin Salman. Altra giornalista nota spiata da Pegasus era Cecilio Pineda Birto, cronista messicano ucciso nel 2018 da due killer in un autolavaggio. Al momento sono pochi i nomi di persone spiate da Pegasus che sono stati resi noti: per il Guardian ci sono “centinaia tra uomini d’affari, autorità religiose, accademici, operatori di Organizzazioni non governativi, sindacalisti, funzionari governativi, ministri, presidenti e primi ministri”, mentre per quando riguarda i giornalisti vi sarebbero cronisti della maggiori testate e agenzie, come Financial Times, Economist, Al Jazeera, Mediapart, El Pais, Bloomberg, Associated Press, Reuters, Cnn. La NSO, la società israeliana produttrice del software, contattata dal consorzio di giornali ha spiegato che dopo aver venduto Pegasus a forze armate, polizie e agenzie di intelligence di 40 Paesi, non specificati ma “accuratamente selezionati”, non ne ha più il controllo operativo. Quanto alle 50mila utenze nel database, per NSO si tratta di dati “esagerati”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

La tecnologia di sorveglianza cinese è sbarcata in Italia? Andrea Muratore su Inside Over il 13 aprile 2021. Le procure italiane utilizzano per la videosorveglianza le telecamere prodotte da un’azienda cinese implicata nel controverso caso del controllo degli uiguri in Xinjiang? Questo sembrerebbe emergere da un’inchiesta di Wired della scorsa settimana. La testata specializzata in temi legati alla tecnologia ha infatti riportato che “mille telecamere della multinazionale cinese Hikvision sorvegliano le sale intercettazioni delle Procure italiane. Le ha acquistate il ministero della Giustizia nel 2017 per la messa in sicurezza di quei centri dove sono conservati dati estremamente sensibili, frutto delle intercettazioni, di cui deve garantire la segretezza”. La Hikvision, azienda presente con una filiale italiana avente sede a Cinisello Balsamo, si è aggiudicata la gara messa in campo da Consip dopo la stipula di una convenzione con Fastweb, che ha ritenuto Hikvision capace di rispettare i requisiti di sicurezza per garantire la continua sorveglianza di impianti delicati come i centri di intercettazione (Cit) che “che comprendono gli archivi del materiale raccolto con trojan e cimici, le sale server e gli spazi per l’ascolto”. Un caso analogo a quello di  Dahua Technology, costola italiana dell’omonima azienda di Hangzhou, bandita negli Usa nel marzo scorso, che si è aggiudicata la gara per installare 19 termoscanner a Palazzo Chigi. Hikvision e Dahua sono salite sul banco degli imputati perché ritenute complici e fruitrici dirette delle politiche con cui il governo di Xi Jinping è accusato in Occidente di voler sottomettere e controllare la popolazione musulmana degli uiguri, che comprendono anche la massiccia strutturazione di una campagna di sorveglianza su larga scala a Urumqi, Kashgar e negli altri grandi centri dello Xinjiang. Nel 2018 Ipvm, il portale leader su scala globale per le analisi sulla sorveglianza, ha sottolineato che le due aziende hanno vinto un contratto da un miliardo di dollari per progetti governativi nello Xinjiang. A cui, in particolare, Hikvision avrebbe contribuito in patria costruendo un algoritmo di intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale in grado di individuare gli uiguri nella popolazione, monitorando con videocamere oltre mille moschee nella regione e vincendo appalti per servizi di fornitura alla polizia dal valore di 300 milioni di dollari. Tali tecnologie hanno ricevuto per le politiche di sorveglianza di massa un boost al loro sviluppo tale da rendere la Cina, indirettamente, all’avanguardia al momento della loro applicazione per il monitoraggio e il contenimento della pandemia di Covid-19. Ma a anni di distanza si scopre che aziende fortemente compromesse con possibili violazioni dei diritti umani hanno, nel nostro Paese, entrature commerciali di primissima caratura. Formiche segnala altri importanti contratti per cui Hikvision ha ottenuto la possibilità di fornire servizi ad autorità pubbliche italiane: sono sorvegliate con tecnologia Hikvision”la città di Avezzano (L’Aquila), la cattedrale di Santa Maria Nuova a Monreale (Palermo), la clinica privata Villa Margherita nel cuore di Roma e lo storico beach club sul litorale ostiense Marine Village. Su PadovaOggi.it si legge di telecamere Hikvision installate nella città veneta, perfino nel cimitero”. Tutto questo pone inevitabilmente una questione politica ora che il tema dello Xinjiang e degli uiguri infiamma i rapporti italo-cinesi. “Gli interventi politici a Pechino si fanno attraverso la tecnologia e questi software poi arrivano anche da noi”, ha dichiarato a La Verità l’onorevole leghista Paolo Formentini, tra i massimi critici delle attività di Pechino in Italia. Formentini, membro della Commissione Esteri, ha presentato una dura mozione di censura delle attività di Pechino in Xinjiang in cui invita il governo Draghi a “considerare con attenzione le testimonianze provenienti dalla diaspora uigura relativamente alle misure di carattere genocidario di cui sarebbero vittima le minoranze residenti nello Xinjiang”. Una presa di posizione netta a cui si contrappongono delle sfumature diverse nella visione di Pd e Movimento Cinque Stelle, intenzionati a proporre una mozione in cui il richiamo al “genocidio” è espunto. Una spinosa questone politica su cui il governo Draghi rischia di trovarsi spaccato al momento del voto, che si annoda con la necessità di trovare un modus vivendi ideale sui legami economici e tecnologici con la Cina. Aziende come Zte, nel nostro Paese, partecipano attivamente e con trasparenza alla definizione di standard securitari e tecnologici di assoluto valore; altre compagnie sono invece poste in veri e propri “coni d’ombra” che nascondono le ambigue manovre delle case madri cinesi. E questo porrà la necessità di risposte calibrabili sulla base della rilevanza che il governo darà al tema degli uiguri come punto di partenza di una possibile svolta improntata a un maggior contenimento politico di Pechino dopo le convergenze dell’era Conte. Quella svelta da Wired con la sua inchiesta è per questo una questione di cruciale importanza.

L'occhio del Dragone. Report Rai PUNTATA DEL 10/05/2021 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini. Con la pandemia ci siamo abituati a passare numerosi controlli biometrici: le telecamere intelligenti rilevano se abbiamo la febbre, se portiamo bene la mascherina, se abbiamo un cappello che copre troppo la fronte, se siamo in gruppo o da soli davanti all’obiettivo. Si tratta di un grande aiuto a prevenire la diffusione del virus ma il mercato della videosorveglianza è in mano a poche aziende e i più grandi player del mercato sono multinazionali cinesi. Chi c'è dietro queste aziende? Dove finiscono i nostri dati? Potrebbero essere usati contro di noi? Dopo Trump e Biden una nuova guerra fredda sembra stagliarsi all'orizzonte e proprio i dati saranno il terreno di battaglia. Intanto l'ombra di deportazioni e lavoro forzato tinge di rosso le piantagioni di cotone dello Xinjiang nell'ovest della Cina, dove decine di migliaia di uiguri, una minoranza turcofona musulmana, sono costretti da Pechino a estenuanti campagne di raccolta a mano lontano dai loro villaggi. Il Partito Comunista Cinese vuole cancellare le radici culturali delle minoranze e combattere l'estremismo e lo ha fatto imprigionando da uno a tre milioni di uiguri in campi di rieducazione che il governo definisce centri di formazione professionale. Una volta rieducati molti di questi uiguri sono spediti nelle grandi fabbriche della Cina orientale, a lavorare per i fornitori di multinazionali occidentali. Anche noi abbiamo provato a creare la nostra società di import export e ci siamo infilati nel business del cotone. Scoprendo quanto è facile camuffarne l'origine.

 - Le risposte di aziende e istituzioni sulle nostre domande in tema di sicurezza nazionale e tutela dei diritti umani: HikVision [prima risposta | risposta tecnica], ministero della Giustizia, Consip, Candy, H&M, Uniqlo, Fila, Nike.

L’OCCHIO DEL DRAGONE Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione Norma Ferrara ed Eleonora Zocca Immagini Paolo Palermo e Alfredo Farina Montaggio Riccardo Zoffoli Grafica Giorgio Vallati.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Xi Jinping ha avviato da anni un processo di integrazione del settore civile con quello militare: la sensazione è di un intero Paese che della raccolta dati e dell’intelligence fa un asset nazionale. Così capita che una start up di Shenzhen, la Zhenhua, aveva raccolto dati personali su decine di migliaia di soggetti politicamente esposti di tutto il mondo, usando database specializzati come Dow Jones Factiva, arricchiti con dettagli riservati e profili psicologici. Tra gli italiani nella lista: Matteo Renzi, Enrico Letta, Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, dirigenti delle autorità portuali, boss della malavita, industriali e anche i loro familiari. Qualcosa però è sfuggito di mano ed è stato analizzato da una società di cybersecurity australiana.

ROBERT POTTER – CO-FOUNDER & CEO -INTERNET 2.0 Una parte piuttosto significativa di dati tecnologici riguardava il personale militare e le navi militari.

GIULIO VALESINI è vero che sono contenute anche valutazioni psicologiche sui personaggi oggetto di questa indagine, di questa lista?

ROBERT POTTER – CO-FOUNDER & CEO -INTERNET 2.0 Le persone venivano classificate in base a profili psicologici. Li hanno poi categorizzati in base a cinque tipi di profilo come: quanto sono disponibili, quali sono le loro vulnerabilità o come quella data persona ha ereditato un certo tipo di ideologia.

GIULIO VALESINI Zhenhua ha agito in maniera indipendente oppure era in contatto con il governo cinese?

ROBERT POTTER – CO-FOUNDER & CEO -INTERNET 2.0 I loro partner avevano legami molto significativi con il governo cinese. D’altronde se qualcuno si mettesse a raccogliere questi dati, in Cina, senza il permesso del governo, finirebbe probabilmente in prigione. Un partner della società di dati Zhenhua, è fortemente coinvolta nella provincia dello Xinjiang e sviluppa molta tecnologia di riconoscimento facciale.

FRANCESCO SISCI – RENMIN UNIVERSITY OF CHINA Uno scandalo del genere significa un segnale, un avvertimento. Dire forse noi sappiamo di altre cose, forse. 

GIULIO VALESINI Come dire: guardate che questo è soltanto l’antipasto, poi abbiamo il primo e abbiamo il secondo. Giusto?

FRANCESCO SISCI – RENMIN UNIVERSITY OF CHINA Di solito succede così.

GIULIO VALESINI Dove immagino che per primo e secondo ci siano pietanze belle sostanziose

FRANCESCO SISCI – RENMIN UNIVERSITY OF CHINA È possibile, è possibile. È di solito questi sono avvertimenti che c’è dell’altro

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Con il Covid ci siamo assuefatti a passare numerosi controlli biometrici: le telecamere intelligenti rilevano se abbiamo la febbre, se portiamo bene la mascherina, se abbiamo un cappello che copre troppo la fronte, se siamo in gruppo o da soli davanti all’obiettivo. Un grande aiuto per prevenire la diffusione del virus. GIULIO VALESINI Lei si sente sicuro quando viene monitorato per il covid?

ANTONIO SELVATICI – INTELLIGENCE ECONOMICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TOR VERGATA assolutamente no. La risposta è no.

GIULIO VALESINI Perché sono aumentati tantissimo le telecamere.

ANTONIO SELVATICI – INTELLIGENCE ECONOMICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TOR VERGATA Certamente ma aumenteranno ancora.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche la Rai è un’azienda strategica del nostro paese. Il fornitore principale delle telecamere intelligenti è la Hikvsion. Lo stato cinese ne ha il controllo societario con una quota del 42%. Abbiamo deciso di fare un esperimento: Con un consulente esperto in cyber security siamo penetrati dentro il sistema di videosorveglianza della Rai per capire cosa accade ai dati catturati dalle telecamere ogni volta che riescono a connettersi alla rete.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Noi abbiamo predisposto un apparato in sostanza che riceverà le comunicazioni che attraverseranno praticamente la rete. Andiamo a provare a connetterci. E iniziamo a vedere cosa succede. Già vediamo questa nomenclatura che è Hangzhou… andiamo a capire chi è e qual è la posizione… 

GIULIO VALESINI Questi cosa sono? Indirizzi IP?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Questi sono gli indirizzi IP locali che stanno comunicando sia in broadcast ma anche con l’esterno. Adesso vediamo che stanno iniziando a sorgere molte comunicazioni

GIULIO VALESINI Quindi sostanzialmente le telecamere tra di loro si inviano i dati e poi c’è qualcuno che da fuori cerca di interrogarle e loro…

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA in realtà sono loro che stanno aprendo la connessione in sostanza, sono loro che stanno dicendo “io ci sono” e di conseguenza poi permettono quella che è l’apertura di connessione. Quelle che prima stavano provando a cercare di comunicare, adesso iniziano a comunicare.

GIULIO VALESINI Ecco.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSICUREZZA Eccole qua GIULIO VALESINI Con chi comunicano?

FRANCESCO ZORZI - ESPERTO CYBERSICUREZZA Adesso andiamo a capirlo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bel colpo. La rai ha subito provveduto e ha attivato le procedure di verifica ed è pronta ovviamente a porre in atto sistemi di sicurezza. Ora immaginiamo però che da domani molte aziende inizieranno a guardare dentro queste telecamere, per vedere fin dove si sono spinti gli occhi del dragone, quanto si sono allungati. Quello che è certo è che ce le siamo messe in casa. Anche nelle case più strategiche. A partire dalla Presidenza del Consiglio, i tribunali addirittura i palazzi dei servizi di sicurezza. Queste telecamere non solo rilevano la temperatura, ma ogni singolo dettaglio del nostro volto, e anche del nostro carattere perché sono letti questi dati dall’intelligenza artificiale. Ora, ma come abbiamo fatto a portarcele dentro casa? Perché costano meno, vengono offerte a prezzi competitivi, noi abbiamo la certezza di dialogare e di contrattare con ditte private, in realtà nella maggior parte dei casi l’azionista di maggioranza è lo Stato, oppure società che fanno riferimento poi a aziende e società militari. Ci stiamo rendendo conto di quale è il prezzo nascosto da pagare dal momento in cui abbiamo abbandonato gli investimenti sulla ricerca, sulla tecnologica. Lo abbiamo fatto per nostra incapacità o perché qualcuno ci 4 ha obbligato a comprare tecnologia dagli altri? E le telecamere le abbiamo poste solo per la nostra sicurezza o servono anche per implementare il potere di altri Paesi attraverso l’acquisizione di dati? Quello che vedremo stasera sembra un grande esperimento distopico. Ecco, eppure un test la Cina lo ha già fatto nella provincia dello Xinjiang, a maggioranza musulmana, dove milioni e milioni di uiguri, che sono una minoranza etnica turcofona, sono stati sottoposti a regime di detenzione. Ecco, ma uno dice ma a noi che ci importa degli uiguri? E invece dovrebbe. I nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Cina. Regione dello Xinjiang. Questi edifici ripresi dal satellite sono stati costruiti negli ultimi anni dal governo cinese: si vedono torri di avvistamento, recinzioni, altissime mura perimetrali, stazioni di polizia. Secondo le autorità sarebbero istituti tecnici. Ma una recente fuga di comunicazioni interne tra i quadri del regime ha svelato al mondo il manuale operativo per la gestione di questi campi di detenzione e il sistema di sorveglianza di massa della regione. Lo scoop è dell’ICIJ, il consorzio internazionale di giornalisti investigativi.

ADRIAN ZENZ – ANTROPOLOGO Rivelano per la prima volta come i cosiddetti centri di formazione professionale nello Xinjiang sono fondamentalmente campi in cui fanno il lavaggio del cervello politico.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ecco nel dettaglio cosa dice il manuale operativo di questi centri. “le porte dei dormitori devono essere chiuse a doppia mandata, controllare le attività degli studenti per prevenire le fughe durante le lezioni”. “Risolvere i problemi ideologici e le emozioni anormali degli studenti in ogni momento. Ci deve essere una copertura video completa dei dormitori e delle aule senza punti ciechi, assicurando che le guardie in servizio possano monitorare in tempo reale”. “Per ogni persona un file, con premi e punizioni e miglioramenti nell’area dell’educazione ideologica.” “Rigorosa segretezza. La politica del lavoro dei centri di istruzione e formazione professionale è ad alta sensibilità. È necessario rafforzare la consapevolezza del personale di tenere il segreto e una seria disciplina politica”

ADRIAN ZENZ – ANTROPOLOGO Sono tutte strutture in cui le persone vengono internate senza processo, senza un'accusa formale. Alla fine solo quelli il cui pensiero è stato trasformato possono essere rilasciati.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da anni la Cina accusa la minoranza musulmana dello Xinjiang di attentati. Il programma dei centri di detenzione del governo cinese sarebbe il tentativo di stroncare la minaccia.

 DOLKUN ISA – PRESIDENTE CONGRESSO MONDIALE UIGURO È una bugia, il governo cinese sta cercando di nascondere la realtà e usano la scusa del terrorismo per la repressione degli uiguri. Il mio nome è il numero tre nella lista dei terroristi, ma in tutta la mia vita non ho mai visto una pistola vera, non ho mai visto una vera bomba. La mia bomba è solo questa penna, quella che uso per scrivere.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dolkun Isa è il presidente del congresso mondiale uiguro. La madre è morta in un centro di detenzione. il fratello è stato condannato a 17 anni. Vive in Germania. Le autorità tedesche temono per la sua incolumità.

DOLKUN ISA – PRESIDENTE CONGRESSO MONDIALE UIGURO Se la mia organizzazione fosse un'organizzazione terroristica, sarebbe stato impossibile per me ottenere la cittadinanza tedesca.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Cosa succede dentro questi impenetrabili centri di detenzione ce lo racconta una testimone che nel 2017 ha insegnato in una struttura nei presso di Urumqi. Si è rifugiata in Olanda.

EX INSEGNANTE CENTRO DETENZIONE URUMQI Ho lavorato nel campo dall’inizio di marzo a fine agosto 2017.

GIULIO VALESINI Cosa ha visto che succedeva lì dentro?

EX INSEGNANTE CENTRO DETENZIONE URUMQI Quando venivano portati fuori dalle celle erano ammanettati ai piedi e alle mani. Dentro la cella non c’era coperte né letti. Per dormire si stendevano per terra, direttamente sul cemento. In fondo alla classe c’erano delle guardie cinesi: erano armati di pistola in classe.

GIULIO VALESINI C’erano anche episodi di violenza fisica nei confronti di chi stava qui dentro?

EX INSEGNANTE CENTRO DETENZIONE URUMQI Nel sotterraneo dell’edificio c’era una stanza adibita per gli interrogatori e le torture. Potevo sentire le urla provenire dai piani inferiori: lì sotto avvenivano molte torture. Ai detenuti nei campi non era permesso farsi la doccia. Dopo circa un mese la polizia ha raccolto tutti i loro vestiti nel cortile. ci ha versato sopra dell’acqua calda: sono venuti fuori una marea di insetti, mentre i poliziotti cinesi ridevano tra loro della situazione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La narrazione ufficiale del governo cinese è che non c’è alcun campo di detenzione. Ne ha scritto sul Global Times, periodico cinese, Fabio Massimo Parenti, che insegna all’università dei diplomatici in Cina. I suoi articoli sono 6 spesso ripubblicati anche sul blog del fondatore del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo.

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY Sono centri di formazione professionali.

GIULIO VALESINI sono prigioni.

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY Non sono prigioni. Perché studio…

GIULIO VALESINI io posso uscire?

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY No. No. ma perché dovevo fare questo percorso forzato di reintegrazione e rieducazione? Perché parlavamo di persone e famiglie ai margini, gente che era stata reclutata per fare attività di attacco alle istituzioni in funzione anticinese.

GIULIO VALESINI secondo lei è un modello esportabile anche da noi?

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY io preferisco questa integrazione all’abbandono alla Scampia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Questo video è stato girato con un drone a una stazione ferroviaria nello Xinjiang sudorientale. Si tratterebbe di un gruppo di uiguri trasferiti verso la prigione di Korla. Il programma di repressione nello Xinjiang ruota intorno ad un avanzato sistema di riconoscimento facciale e raccolta di dati biometrici, persino vocali, che rende possibili arresti preventivi. Milioni di telecamere disseminate in tutto lo Xinjiang e l’intelligenza artificiale che analizza le immagini e stabilisce se sei arrabbiato, pericoloso, e a quale etnia appartieni. il principale fornitore di tecnologia del governo cinese nello Xinjiang è la Leon. Il nostro collega Li è riuscito ad incontrare i dirigenti della società, fingendosi interessato a fare affari con loro.

DIRIGENTE LEON Il nostro lavoro di sicurezza in Xinjiang è la fondamentale priorità dell’intero Paese. Puoi notare che ci sono telecamere a ogni angolo di strada. Potresti pensare sia solo una camera, ma quello che non saprai, mentre cammini, è che registra tutte le tue informazioni e le analizza, compresi le tue espressioni facciali e il tuo comportamento.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il dirigente della Leon dice che le telecamere sono fornite dalla Hikvision, leader mondiale della sorveglianza. Ma è anche una delle compagnie inserite nella black list dal governo americano a causa delle presunte violazioni dei diritti umani nella provincia dello Xinjiang.

DIRIGENTE LEON La società Hikvision ha una tecnologia “micro-visione” di cui potresti aver sentito.

LI (imprenditore sotto copertura) Ci lavorate insieme?

DIRIGENTE LEON Si, siamo il loro più grande cliente.

GIULIO VALESINI siete accusati di essere il braccio tecnologico della repressione degli uiguri in Cina.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Noi produciamo apparati. È come se si accusasse un produttore di armi di omicidio.

GIULIO VALESINI In Cina, nello Xinjiang, Hikvision piazza telecamere in grado anche di riconoscere l'etnia delle persone.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Questo è tutto da vedere. Non lo so…

GIULIO VALESINI È una roba inquietante.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Ma concordo ma non ne ho…non ne ho contezza e sinceramente non ne ho contezza di questa cosa personalmente, non ne ho contezza…ecco

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un ingegnere che ha contribuito a sviluppare il sistema di sorveglianza di massa dello Xinjiang spiega come funziona la tecnologia di questa società.

INGEGNERE ELETTRONICO La specifica struttura facciale degli uiguri è stata inserita nella banca dati, quindi solo le facce degli uiguri vengono “targettizzate” per l’analisi. Il computer categorizza una persona, come: normale, preoccupante o pericolosa. Il sistema di riconoscimento facciale analizza le espressioni facciali. Controlla se sei nervoso. Se corri, sarai considerato pericoloso. I servizi di sicurezza 8 arresteranno il soggetto e lo manderanno in un campo di rieducazione o in una struttura detentiva.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il controllo di Hikvision è nelle mani del CETC, un’azienda dello stato cinese che sviluppa software militari, infrastrutture di difesa, armi elettroniche. Insomma, Hikvision è nelle mani di un gigante strettamente legato all’esercito cinese. L’amministratore è.

CHEN ZONG NIAN è un parlamentare del partito comunista cinese.

ADRINA ZENZ – ANTROPOLOGO È un laboratorio per uno stato di polizia avanzato, molto più sofisticato e spaventoso di quello immaginato da Orwell. L’utilizzo dei big data per rintracciare i criminali, gli algoritmi vengono esportati anche fuori dalla Cina.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In una relazione di fine 2019 il Copasir, il comitato parlamentare per la sicurezza nazionale che sovrintende i servizi segreti, avvertì che le aziende di Pechino potrebbero essere costrette a passare le informazioni al loro governo. Per questa ragione ne suggeriva l’esclusione dalla rete 5g italiana.

MICHELE GERACI – UNIVERSITY OF NOTTINGHAM NINGBO CHINA Questa possibilità di rischio di flusso di dati, di informazioni c’è sempre stato. La Huawei è cinese, la Erikson è svedese, la Nokia finlandese, la Cisco americana.

GIULIO VALESINI Dobbiamo soltanto scegliere da chi farci spiare, cinesi o americani?

MICHELE GERACI – UNIVERSITY OF NOTTINGHAM NINGBO CHINA Noi abbiamo i cellulari - diciamolo la verità agli ascoltatori - la privacy non esiste più per nessuno.

 GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Michele Geraci insegna e vive a Shanghai. Soprannominato “il cinese” quando era sottosegretario allo sviluppo economico nel primo governo Conte, in quota Lega. E’ stato il regista dell’adesione italiana al memorandum della nuova via della seta: primo paese del G7 a farlo. Il ministro Di Maio lo mise a capo della task force sulla Cina. Era al fianco del presidente cinese Xi Jinping durante la storica visita a Palermo, la città natale di Geraci.

MICHELE GERACI – UNIVERSITY OF NOTTINGHAM NINGBO CHINA L’individuo cosa ha da nascondere? siamo in due mondi diversi: in Cina l’individuo conta meno della società, da noi l’Occidente, l’individuo conta più dell’insieme. Non ho mai visto un documento che provi delle azioni illecite da parte di queste aziende che abbiano potuto mettere in discussione la nostra sicurezza nazionale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La Cina è la nazione con più videosorveglianza al mondo. Decine di milioni di telecamere con tecnologia all'avanguardia osservano 24 ore al giorno la popolazione.

ANTONIO SELVATICI – INTELLIGENCE ECONOMICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TOR VERGATA il signor Mario Rossi esce di casa. Una telecamera lo inquadra e lo segue.

GIULIO VALESINI e lo riconosce.

ANTONIO SELVATICI – INTELLIGENCE ECONOMICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TOR VERGATA Lo stesso sistema di telecamere segue anche riconosce la targa del suo veicolo. Quindi in Cina è possibile sapere i cittadini come si muovono e quando si muovono.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un patrimonio gigantesco di dati raccolti e elaborati con sofisticata intelligenza artificiale: è il progetto “occhio di falco” voluto dal presidente Xi Jinping. A giugno 2020 il Dipartimento della Difesa americana identifica oltre a Hikvision, altre 19 società perché vicine agli apparati militari cinesi.

ANTONIO SELVATICI – INTELLIGENCE ECONOMICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TOR VERGATA Perché in Cina vige il cosiddetto credito sociale. Cioè se sei un bravo cittadino puoi avere accesso al credito, se lavori in un'amministrazione pubblica puoi far carriera, tuo figlio può accedere a alcune Università. se naturalmente non sei un bravo cittadino naturalmente questi benefit li perdi. E la cosa che a noi ma uno dice.

GIULIO VALESINI ma a noi che ce ne frega.

ANTONIO SELVATICI – INTELLIGENCE ECONOMICA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TOR VERGATA in italia cosa ce ne importa? ce ne importa alla grande. Perché? Perché queste società cinesi sono diventate delle multinazionali. il loro vantaggio competitivo è stato quello di maturare le tecnologie all'interno della Cina.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In Italia Hikvision è leader del mercato. Negli anni ha piazzato le sue telecamere anche in luoghi strategici per la sicurezza nazionale. I palazzi delle istituzioni politiche, aeroporti come Malpensa e Fiumicino, tribunali, forze dell’ordine. Hikvision Italia è posseduta da una holding europea, a sua volta 10 detenuta dalla casa madre cinese. Anche gli amministratori della Srl italiana sono cittadini cinesi.

GIULIO VALESINI La vostra società di controllo è un’azienda che si occupa anche di apparati sensibili e militari in Cina?

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Non lo so, anche perché queste aziende han tutti i siti completamente in cinese, io non parlo il cinese, non leggo il cinese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Con la pandemia anche i rilevatori di temperatura si sono moltiplicati, e con loro l’intelligenza artificiale che studia e analizza ogni immagine dietro gli occhi teneri di un panda. Ma dietro quegli occhi, ci sono le leggi sulla sicurezza emanate da Pechino nel 2017. Impongono di rivelare informazioni sensibili qualora vengano richieste dal governo.

ENRICO BORGHI – COPASIR - PARTITO DEMOCRATICO L'ordinamento giuridico cinese contempla quattro norme fondamentali che obbligano qualsiasi cittadino cinese a qualunque latitudine si trovi a dover fornire qualsivoglia genere di informazioni allo Stato, pena il carcere. Se la vogliamo dire in maniera più brutale: potenzialmente ogni cittadino cinese è una spia.

GIULIO VALESINI Vale anche per le aziende?

ENRICO BORGHI COPASIR - PARTITO DEMOCRATICO Vale per le aziende, ma non solo in Cina anche all'esterno della Cina. Se la vogliamo dire in maniera più brutale, potenzialmente ogni cittadino cinese è una spia.

MAURIZIO MENSI – DIRITTO DELL’ECONOMIA ALLA SCUOLA NAZIONALE DELL’AMMINISTRAZIONE impone a cittadini e società cinesi ovunque insediate di trasferire dati, e quindi di collaborare con il proprio governo di appartenenza senza avere la possibilità di rivelare questa collaborazione. GIULIO VALESINI Ma è rischiosissimo questa cosa.

MAURIZIO MENSI – DIRITTO DELL’ECONOMIA ALLA SCUOLA NAZIONALE DELL’AMMINISTRAZIONE Certo è molto rischioso. Il caso della società Hikvision è significativo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Sia sotto Trump,sia sotto Biden, con diversi provvedimenti gli Stati uniti hanno 11 messo al bando Hikvision perché implicata in violazioni dei diritti umani ma anche per ragioni di sicurezza nazionale. Siti sensibili e uffici governativi sono ora preclusi a questa azienda GIULIO VALESINI colpisce il fatto che voi siete considerati un'azienda inaffidabile e che mette a rischio la sicurezza nazionale. l'agenzia per la sicurezza informatica americana ha segnalato la vulnerabilità delle vostre telecamere che permetterebbero un controllo da remoto. E questo è una cosa precisa.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA una rete chiusa non permette il controllo da remoto. Abbiamo dato tutte le garanzie che ci hanno chiesto rispetto a tutto quello che è possibile produrre ad oggi perché poi ripeto non esiste oggi una vera certificazione per la cyber.

GIULIO VALESINI E allora queste accuse di vulnerabilità da dove arrivano?

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA non è vera, nel senso: quello che non è vulnerabile oggi potrebbe essere vulnerabile domani.

GIULIO VALESINI Quante telecamere Hikvision sono piazzate in Italia in questo momento. Lo saprete.

MASSIMILIANO TROILO AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Centinaia di migliaia.

GIULIO VALESINI Rispetto alle leggi sulla sicurezza in Cina.

 MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Noi ci comportiamo secondo le leggi italiane e devo dire che nessuno mi ha mai chiesto nulla di informazioni rispetto…

GIULIO VALESINI Non conosceva queste leggi?

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA No, sinceramente no.

 GIULIO VALESINI Non ci credo… leggi approvate nel 2016, applicate nel 2017: sono vincolanti per le aziende e i cittadini cinesi.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Non lo conoscevo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le società di videosorveglianza cinesi sono leader mondiali. Tra queste c’è Dahua Technology, in Italia gli affari vanno a gonfie vele. un terzo delle telecamere vendute hanno il loro brand. Sorvegliano la città del Vaticano. A settembre dello scorso anno hanno piazzato 19 termoscanner a riconoscimento facciale a Palazzo Chigi. Un vanto per l’azienda dello Zhejiang.

GIULIO VALESINI l’impatto del covid l’avete ammortizzato grazie alla vendita di termoscanner.

PASQUALE TOTARO – PROCURATORE DAHUA ITALIA Di sicuro ha inciso con un 20-30% di aumento di fatturato.

GIULIO VALESINI Il vostro slogan: Ogni uomo nasce libero e sicuro.

PASQUALE TOTARO – PROCURATORE DAHUA ITALIA Perché noi siamo convinti di questo. Usiamo anche la Cina, no? Perché si critica tanto ma bisogna anche vedere cose buone. Sa quante persone delinquenti vengono arrestati perché sono fisionomie conosciute, che magari vanno un concerto, vanno a prendere un treno, e vengono beccati. La privacy è giusta e ci deve essere, è sacrosanta ma noi facciamo sicurezza.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche la tecnologia delle telecamere Dahua è usata dal governo di Pechino nella repressione dello Xinjiang. Per questo, come Hikvision, anche loro sono finiti nella black list delle aziende che non possono più fare affari con lo Stato americano. il presidente della Dahua italiana è Fu Liquan: è un cittadino cinese, peraltro padrone dell’intero gruppo. Difficile che possa disobbedire al governo mettendo a rischio libertà e miliardi.

GIULIO VALESINI Lei conosce le leggi sulla sicurezza in Cina.

PASQUALE TOTARO – PROCURATORE DAUHA ITALIA No. Conosco a malapena quelle italiane perché nessuno è venuti a dirmi “Pasquale tu devi far sì che devi dare informazioni o devi…”

GIULIO VALESINI Ma magari non gliel’hanno detto.

PASQUALE TOTARO PROCURATORE DAUHA ITALIA Eh ma allora come faccio a rispettare una regola che non me l’han detta.

GIULIO VALESINI La proprietà di un’azienda che è sospettata di non avere sistemi tecnologicamente così sicuri o quanto meno vulnerabili dagli Stati Uniti, tanto 13 da essere inserita in blacklist è la stessa che poi opera anche in Italia, quindi la preoccupazione…

PASQUALE TOTARO PROCURATORE DAHUA ITALIA Io penso che questa sia solo una guerra economica che ci può essere tra due aziende - che io le chiamo aziende, America e Cina.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le telecamere installate nei nostri uffici pubblici sono acquistate attraverso la convenzione della Consip del 2016. gli appalti sono aggiudicati perlopiù da Tim e Fastweb che poi si sono rivolti soprattutto ai colossi nati in Cina perché offrono tecnologia a buon mercato. Come è successo nel caso del Ministero di Grazia e Giustizia per le 1.100 apparecchi Hikvision installati perfino nelle centrali di ascolto delle intercettazioni delle Procure. GIULIO VALESINI le pubbliche amministrazioni hanno le competenze tecniche per accorgersi.

RAFFAELLO JUVARA – SECUREINDEX No GIULIO VALESINI Se c'è qualcosa che non va?

RAFFAELLO JUVARA – SECURINDEX Tenderei ad escluderlo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Hikvision sorveglia la nostra televisione pubblica, la Rai. A febbraio avevamo fatto un primo esperimento in cui emergeva che solo le telecamere Hikvision - e non quelle di altre marche - aprivano canali di comunicazione con indirizzi non censiti in Cina. Abbiamo simulato un attacco informatico. GIULIO VALESINI Siamo entrati dentro il sistema. Che cosa ha visto?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY un considerevole quantitativo di comunicazione da parte di alcuni dispositivi.

GIULIO VALESINI e dove sono piazzati?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY Questi sono quelli dove ci sono accessi praticamente delle persone, dunque sistemi di controllo dei badge piuttosto che tornelli.

GIULIO VALESINI sono quelle che inquadrano i volti di chi entra e di chi esce? 

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY Esatto. dal controllo effettuato poi si è cercato di capire quali sono queste tipologie di comunicazione. si trovano delle comunicazioni verso dei server che sono registrate in sostanza dalla Hikvision e sono di Zhejiang.

GIULIO VALESINI Quindi la regione cinese, dove tra l'altro ha sede Hikvision.

FRANCESCO ZORZI– ESPERTO CYBERSECURITY dove tra l'altro ha sede Hikvision. È stato abilitato un servizio che permette grazie a questi codici che sono tra l’altro sequenziali e questo è un altro elemento, permette l'accesso da remoto. Questi codici li ha l’installatore o chiunque ha attivato questa soluzione e chiaramente il produttore.

GIULIO VALESINI queste telecamere riconoscono le persone.

FRANCESCO ZORZI– ESPERTO CYBERSECURITY Si, possono riconoscere persone, sono dotate anche di moduli sia per l'identificazione del volto. Infatti l'aspetto pratico è che sono comunque delle camere di eccellente risoluzione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La scoperta è inquietante. Il sistema in teoria è chiuso, ma se lo si apre a internet, come ad esempio per una manutenzione, in pochi minuti vede migliaia di tentativi di comunicazioni con l’esterno delle telecamere che puntano gli ingressi del centro di produzione della Rai. I dati sensibili delle persone che entrano quindi sono accessibili dall’esterno e vengono inviati proprio in Cina.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY Abbiamo riscontrato che c’erano delle configurazioni atte a permettere quello che è l’accesso da remoto. Questo accesso da remoto non avviene in modo passivo ma attivo.

GIULIO VALESINI perfetto, queste telecamere sono impostate a mandare messaggi.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY esatto, comunicano con i server che abbiamo rilevato essere registrato da Alibaba cloud computing in Cina.

GIULIO VALESINI quindi queste telecamere dialogano con server in Cina. 

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY dialogano con server. il server primario è un server statunitense, seguono poi, sono riconducibili…

GIULIO VALESINI il messaggio finale arriva in Cina?

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY si, sono registrate proprio da un ente collocato in Cina.

 GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dunque i nostri dati sensibili fanno il giro del mondo. partono dall’Italia, arrivano in un server registrato negli Stati Uniti e finiscono il loro viaggio in Cina, nella regione dove ha sede Hikvision.

GIULIO VALESINI Noi abbiamo fatto un piccolo esperimento in Rai.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Sì.

GIULIO VALESINI e abbiamo verificato, hackerando, entrando dentro il sistema che queste telecamere comunicano con l'esterno...

MASSIMILIANO TROILO– AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Cosa vuol dire?

GIULIO VALESINI nel momento in cui abbiamo aperto il sistema queste telecamere mandavano dati.

 MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Non mi risulta.

GIULIO VALESINI Nel momento in cui abbiamo connesso a Internet si connettevano con un server che era riconducibile ad Alibaba, mi sembra, poi finiva in territorio cinese.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Guardi non so che cosa, a che prodotti si riferisca…

GIULIO VALESINI sì ma aldilà del prodotto comunque è una cosa che non dovrebbero fare a prescindere dal tipo di prodotto, ha capito?

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA 16 Sì, sì ne sono consapevole, ma ripeto bisogna vedere che prodotto… e come è stato programmato, da chi è stato programmato. potrebbe essere un firmware molto vecchio che magari presentava problematiche di sicurezza dal punto di vista della cyber. magari sono uscite delle versioni aggiornate di quel firmware.

GIULIO VALESINI ma perché questi dati nel momento in cui ha aperto il sistema finivano poi in Cina? Ad Hangzhou.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Guardi non lo so, non lo so

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma durante il nostro esperimento sulle telecamere Rai emerge un altro aspetto preoccupante.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY sono state poi riscontrate la corrispondenza all'interno di questi dispositivi, di un dispositivo di memoria aggiuntivo e di registrazioni effettive. Chiaramente non è molto compatibile con un sistema centralizzato che già registra. bisogna capire per quale ragione è stata fatta questa implementazione. In ogni caso non dovrebbe avere implementazioni di comunicazione attiva.

GIULIO VALESINI soprattutto non dovrebbe lasciare tracce di comunicazione con l'esterno.

FRANCESCO ZORZI – ESPERTO CYBERSECURITY eh non dovrebbero proprio farle.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO un ristretto numero di telecamere ad alta definizione per il riconoscimento facciale di Hikvision, quelle che riprendono i volti di chi accede agli stabilimenti, sono dotate di una memoria aggiuntiva. E questa memoria ha registrato numerosi dati e metadati. Ma soprattutto le telecamere risultano capaci di inviare questi dati alla casa madre. Nonostante l’impianto dovrebbe essere chiuso. GIULIO VALESINI Dentro le telecamere c’erano delle memorie interne. Che facevano una sorta di registrazione parallele, sostanzialmente una registrazione a parte che non c'entrava nulla con il sistema di registrazione aziendale della Rai.

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Non sapendo quali sono le telecamere non posso dare una risposta circostanziata.

GIULIO VALESINI Ma le vostre telecamere sono consultabili dall'esterno attraverso i sistemi. 

MASSIMILIANO TROILO– AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Sì, se si apre la rete sono consultabili certo. abbiamo fatto diversi penetration test sui prodotti e non abbiamo trovato questo tipo di problematiche.

GIULIO VALESINI Forse era particolarmente bravo il nostro…

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA O il prodotto è particolarmente vecchio. GIULIO VALESINI Se il prodotto è vecchio manda i dati in Cina?

MASSIMILIANO TROILO – AMMINISTRATORE HIKVISION ITALIA Ma guardi non... ripeto non lo so.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come detto la Rai ha attivato immediatamente le procedure di verifica per vedere se c’era questa fuoriuscita di dati, e porre rimedio. Noi crediamo al manager di Hikvision Italia, che dice che lui rispetta le leggi italiane. Però dobbiamo anche immaginare, è mai possibile che per esempio casa madre Hikvision violi le leggi cinesi, quelle che obbligano ogni cittadino cinese ma anche le ditte che fanno riferimento alla Cina a rivelare dati sensibili qualora il governo lo richiedesse? Allora il nostro perito Zorzi che cosa ha trovato sulle telecamere Hikvision montate in Rai? Che a un certo punto all’improvviso cominciano a chiamare all’esterno, cioè a bussare: “Toc toc, noi ci siamo, che fate, le volete le nostre informazioni?”. E una mole di informazioni comincia a viaggiare verso degli indirizzi Ip cinesi. Poi il nostro perito Zorzi ha anche trovato una memoria aggiuntiva, che è accessibile però solo attraverso i codici del produttore. Tutto questo solo sulle telecamere Hikvision che sono nella zona che riprendono l’accesso dentro l’azienda, dove si passa con il tesserino, e gli accessi pedonali. Ora Hikvision dice “guardate che dipende dalla configurazione dell’installatore”. Ma l’installatore noi l’abbiamo sentito e dice “Ma noi abbiamo configurato le telecamere e i software in maniera blindata, chiusa”. Ma allora come mai ad un certo punto queste telecamere si animano e chiamano in Cina? È un mistero e forse qualcuno dovrà rispondere. Quello che è accaduto in questi giorni è che invece il parlamento europeo sta chiedendo la dismissione delle telecamere Hikvision presso le istituzioni europee. Questo perché appartengono ad una società che ha contribuito nel meccanismo di sorveglianza a quella strategia del controllo e della detenzione che è stata fatta in Cina per l’etnia degli uiguri. Ecco, e noi, da noi sono entrate in basa alla logica del basso costo. Però vogliamo ricordare una cosa: il codice degli appalti prevede che quando si tratta di sicurezza, anche le forniture possono essere valutate non solo in base all’offerta economicamente vantaggiosa, ma anche per il loro standard alto di sicurezza, quando si tratta soprattutto di uno Stato. Ecco questo è un discorso che vale per le telecamere, ma potrebbe essere applicato anche ad una semplice maglietta.

GIULIO VALESINI Una volta rieducati nei centri di detenzione, gli uiguri sono spediti come capi di bestiame nelle fabbriche della Cina orientale, in progetti di “reinserimento” pianificati dal partito. Almeno 80mila sarebbero finiti a produrre gli abiti di grandi marche, specie occidentali, da H&M a Nike, da Adidas a Zara.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, le telecamere cinesi che rivelano i nostri volti, studiano i nostri comportamenti con l’intelligenza artificiale non sono l’unica merce con un costo nascosto che ha invaso i nostri mercati. Ci sarebbero anche delle felpe, delle tshirt, delle magliette. Insomma secondo un think tank australiano, ASPI, almeno 82 grandi marchi, da Nike a Fila, alla Candy avrebbero impiegato fornitori che hanno utilizzato manodopera forzata, tutte quelle persone che sono state sottoposte al regime di detenzione, organizzato dal regime cinese, messe a disposizione delle grandi aziende. Gli Stati Uniti hanno vietato i prodotti importati con questo metodo, con questa filiera. Noi invece che cosa facciamo? Da noi invece c’è chi vorrebbe impacchettare i giovani disoccupati italiani, da Napoli fino a giù in Sicilia, come gli uiguri. Un pacchetto di 100 uiguri per 15 giorni a disposizione delle grandi aziende.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A novembre 2019 esce questo annuncio su un forum di Baidu, il Google cinese, dedicato al mercato del lavoro. Offre un pacchetto di operai uiguri. L’ inquietante documento è stato scoperto dai ricercatori del centro studi australiano ASPI.

SPEAKER LEGGE SINTESI DELL’OFFERTA “Il governo ha organizzato circa mille apprendisti dallo Xinjiang che hanno superato gli esami politici. Hanno fra i 16 e i 18 anni e sono gestiti da quadri nominati dal governo. Le fabbriche possono richiedere dei poliziotti dello Xinjiang stazionati sul posto 24 ore al giorno per una gestione interna alla fabbrica. È richiesto un dormitorio separato per questi lavoratori. I lavoratori arriveranno nella tua azienda entro 15 giorni dalla firma del contratto. l vantaggi di usare i lavoratori dello Xinjiang: gestione semi-militare, possono sopportare le difficoltà. Ordine minimo: 100 lavoratori!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una volta rieducati nei centri di detenzione, gli uiguri sono spediti come capi di bestiame nelle fabbriche della Cina orientale, in progetti di “reinserimento” pianificati dal partito. Almeno 80mila sarebbero finiti a produrre gli abiti di grandi marche, specie occidentali, da H&M a Nike, da Adidas a Zara.  

DARIA IMPIOMBATO – AUSTRALIAN STRATEGIC POLICY INSTITUTE ASPI 19 Uno, immagina, uno dei maggiori fornitori della Nike aveva attorno queste mura recintive con il filo spinato, le torri di guardia... c'erano anche delle piccole stazioni di polizia all'interno.

GIULIO VALESINI E non sono liberi di entrare o uscire dalle fabbriche. Sono assegnati alle fabbriche.

DARIA IMPIOMBATO – AUSTRALIAN STRATEGIC POLICY INSTITUTE ASPI La campagna propagandistica li dipinge come un favore che il governo cinese sta facendo alla regione del Xinjiang e a questi detenuti; poi a un certo punto si diplomano e quindi vengono in realtà venduti, perché il governo viene pagato dalle fabbriche.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ai suoi clienti occidentali la Nike mostra un volto rassicurante. Riempie i suoi store di manifesti per campagne sociali in favore del rispetto dell’ambiente e degli afroamericani. Ma sullo sfruttamento dei lavoratori in Cina ci ha mandato un comunicato stampa in cui nega manodopera di uiguri, eccetto che per un fornitore che a detta della Nike, dopo lo scandalo, non impiega più manodopera dello Xinjiang. Poche settimane fa l’Unione europea ha imposto sanzioni economiche su alcuni ufficiali cinesi per il trattamento riservato agli Uiguri. Gli Stati Uniti hanno bloccato le importazioni del cotone prodotto violando i diritti dei lavoratori.

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY Problemi nostri! Tanto ce “pijamo” la zappa sui piedi.

GIULIO VALESINI Perché? FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY Perché non abbiamo la capacità produttiva cinese. Perché lì ci sono le aziende nostre occidentali che producono. GIULIO VALESINI Però dicono che sfruttate questi pacchetti, uso un termine brutto, di uiguri, rieducati e portati a lavorare in queste aziende. Allora uno dice ma…

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY Vai da Napoli in giù e vedi quanta gente si vorrebbe fare impacchettare, che stanno senza lavoro da 20 anni e che prendono, chi più chi meno, il reddito di cittadinanza. È lavoro regolare, lavoro ben pagato! GIULIO VALESINI Magari dopo l’intervista sa che succede? Magari qualcuno dal centro-sud d’Italia chiederà di essere assunto nello Xinjiang e di andare a lavorare…

FABIO MASSIMO PARENTI – CHINA FOREIGN AFFAIRS UNIVERSITY No perché se li sanzioniamo… A parte che loro, poi, prima di tutto pensano ad occupare gli interni. Poi eventualmente…

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra i marchi italiani c’è la Candy che ha tra i fornitori di frigoriferi la società Meiling, coinvolta nella tratta di centinaia di lavoratori uiguri. Gli elettrodomestici sono prodotti in questo distretto di fabbriche che è stato possibile solo filmarlo a distanza. Anche i dirigenti della Candy non hanno voluto parlare con noi.

FRANCESCO SISCI – RENMIN UNIVERSITY OF CHINA Questa cosa di assumere le persone a pacchetti è tipica di tutta la Cina. Se io apro una fabbrica a Shenzen, mi mancano 10mila operai, cosa faccio? Vado in una provincia e assumo a pacchetti 10mila persone che mi vengono dati dai capovillaggio.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un altro brand coinvolto è ANTA, il partner cinese della multinazionale italocoreana FILA, a cui quest’ultima dà i diritti del marchio. Anta risultava avvalersi di fornitori implicati nella tratta dei lavoratori forzati, tra cui Esquel e Haoyuanpeng, un noto fornitore di altre grandi firme. A dicembre però le cose si sono complicate per la filiera delle multinazionali. Uno studio ben documentato ha mostrato che la gran parte del cotone prodotto in Xinjiang, che finisce anche nei nostri vestiti, è raccolto con manodopera forzata, migliaia di uiguri trasferiti dal regime da una zona all’altra della regione.

DEBORAH LUCCHETTI – PRESIDENTE FAIR Si parla di 500 mila persone soltanto nel 2018, di trasferimento di lavoratori, in maniera forzata, per la raccolta del cotone, che viene raccolto prevalentemente ancora a mano.

GIULIO VALESINI Le grandi aziende, i grandi marchi non mandavano controlli? Sapevano e facevano finta di non sapere?

DEBORAH LUCCHETTI – PRESIDENTE FAIR I casi sono due. O le aziende multinazionali non controllavano fino in fondo le filiere produttive, oppure se le controllavano lo facevano attraverso questo sistema. GIULIO VALESINI Dove io mi scelgo il controllore.

DEBORAH LUCCHETTI – PRESIDENTE FAIR Dove io scelgo la ditta di audit.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Un sistema privato dove il controllato si sceglie il controllore, può garantire l’indipendenza? E chi fosse animato da buone intenzioni in Cina è in grado di certificare il vero?

UGO SALERNO – PRESIDENTE RINA ITALIA Oggi noi non faremo la certificazione lì.

GIULIO VALESINI Cioè non potete andarci perché tanto non riuscireste a certificare realmente la verità.

UGO SALERNO – PRESIDENTE RINA ITALIA Oggi non riusciamo a certificare la verità. Sarebbe un caso in cui riusciremmo a certificare la verità. E allora non possiamo lavorare per eccezioni positive. Noi dobbiamo lavorare per eccezioni negative.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Abbiamo simulato di aprire una società di import export di abbigliamento di cotone. L’abbiamo chiamata “Smart clothing srl”. Con tanto di logo e un sito internet. Ci siamo finti imprenditori preoccupati della nostra reputazione e abbiamo contattato i fornitori cinesi del cotone. E abbiamo scoperto che le certificazioni si falsificano facilmente. La prima che contattiamo è l’Haoyuaapneng, fornitrice della Fila.

GIULIO VALESINI Se ci sono controlli non possono scoprire che il cotone che utilizzate è dello Xinjiang?

DIRIGENTE SHUCHENG HAOYUANPENG FANGZHIPIN YOUXIAN GONGSI No, non possono, solitamente non abbiamo questi controlli.

GIULIO VALESINI E se c’è un’ispezione come vi comportate?

DIRIGENTE SHUCHENG HAOYUANPENG FANGZHIPIN YOUXIAN GONGSI Si riferisce ad un’ispezione ufficiale da parte di un funzionario? La accettiamo, poi il nostro personale sa come gestire la situazione.

GIULIO VALESINI Quindi non potranno scoprire che il vostro cotone proviene dallo Xinjiang.

DIRIGENTE SHUCHENG HAOYUANPENG FANGZHIPIN YOUXIAN GONGSI No, non possono.

GIULIO VALESINI Quindi mi sembra di capire che i brand per cui producete non organizzano controlli?

DIRIGENTE SHUCHENG HAOYUANPENG FANGZHIPIN YOUXIAN GONGSI No no, non li organizzano.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Qualche giorno dopo però, quando è scoppiata la polemica sui grandi marchi, cambiano idea e ci scrivono che possono tranquillamente venderci il cotone dello Xinjiang ma non cambieranno la targa di provenienza. Con un’altra azienda proviamo ad essere più espliciti.

DIRIGENTE SHANDONG SANMIAN FANGZHI YOUXIAN GONGSI Lei mi sta chiedendo di venderle il cotone dello Xinjiang senza però far sapere ai vostri clienti che il cotone proviene dallo Xinjiang, giusto?

GIULIO VALESINI Sì, è proprio così.

DIRIGENTE SHANDONG SANMIAN FANGZHI YOUXIAN GONGSI No, non c’è problema, quando inscatoliamo i gomitoli scriviamo solo informazioni sulla quantità.

GIULIO VALESINI Ma con altri clienti avete già fatto in questo modo? Siete sicuri che non corriamo rischi?

DIRIGENTE SHANDONG SANMIAN FANGZHI YOUXIAN GONGSI Sì, esportiamo in America, India…

GIULIO VALESINI Ottimo, quindi anche in America esportate il cotone dello Xinjiang?

DIRIGENTE SHANDONG SANMIAN FANGZHI YOUXIAN GONGSI Sì, in America alla catena Walmart. GIULIO VALESINI E come fate con Walmart? Cosa scrivete?

DIRIGENTE SHANDONG SANMIAN FANGZHI YOUXIAN GONGSI lo vendiamo ai nostri clienti che poi lo vendono alla Walmart.

GIULIO VALESINI Mi sembra di capire che voi vendete alle società commerciali senza scrivere nulla sulla provenienza, poi la società commerciale lo vende a clienti come 23 Walmart e a quel punto il governo americano non si accorgerà mai della reale provenienza.

DIRIGENTE SHANDONG SANMIAN FANGZHI YOUXIAN GONGSI Basta non scrivere nulla ed il problema è risolto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Da un’altra azienda del cotone ci viene offerto un altro collaudato sistema per aggirare i controlli.

GIULIO VALESINI Lei saprà che il cotone dello Xinjiang non può essere esportato in America.

DIRIGENTE JIANGSU HUAMIAN IMPORT EXPORT CO. LTD Non si preoccupi, abbiamo la soluzione. GIULIO VALESINI Mi assicuri che siete in grado di risolvere questo problema, sono un imprenditore e per questa questione ho già perso parecchi soldi.

DIRIGENTE JIANGSU HUAMIAN IMPORT EXPORT CO. LTD Possiamo modificare le certificazioni qui in Cina. Lo abbiamo già fatto.

GIULIO VALESINI Quale altro brand vi ha chiesto di fare queste modifiche?

 DIRIGENTE JIANGSU HUAMIAN IMPORT EXPORT CO. LTD Uniqlo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Uniqlo è la catena di abbigliamento giapponese ormai di tendenza anche in Italia. Il loro punto vendita è tappezzato di slogan che inneggiano alla produzione sostenibile. Per settimane gli abbiamo chiesto un’intervista ma hanno preferito inviarci un’email in cui negano tutto. Prendere posizione contro lo sfruttamento degli uiguri può essere rischioso. Lo sa bene H&M, l’azienda di abbigliamento retail svedese. Anche loro sarebbero coinvolti. Ma dopo che hanno preso le distanze hanno subito il boicottaggio sulle piattaforme di acquisto online in Cina dei loro prodotti: insomma se vuoi fare affari con la Cina non devi parlare male della Cina.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, non si può fare altrimenti. Sennò l’alternativa è se non vuoi del male non parlare male. Allora, la Candy ha come fornitore di frigoriferi la società Hefei Meiling, coinvolta nella tratta degli uiguri. Candy declina l’intervista con Report ma dice: “Facciamo monitoraggi continui e chiediamo comunque ai nostri fornitori di rispettare i diritti dei lavoratori”. Vabbé noi gli crediamo comunque. Però per completezza di informazione dobbiamo dire che Zhang Ruimin, il padrone della casa madre Candy in Cina, è membro del partito 24 comunista cinese. Difficile ipotizzare che sulla vicenda degli uiguri la pensi in maniera diversa da Xi Jinping. La Fila, invece, ha cercato, ma diche che non ha trovato nessuno disposto a parlarci. Fantastico, insomma è una multinazionale, scaricano la responsabilità sul partner cinese ANTA. Alla quale però hanno lasciato la gestione dei diritti per il marchio FILA in Cina. E poi dicono: “Dei due fornitori coinvolti nella ‘integrazione’ degli uiguri uno non lo usiamo più l’altro è troppo grande per farne a meno. Tuttavia se scoprite qualcosa di importante segnalatecelo via email”. Poi H&M invece ha evitato ogni confronto. Zara non ha neppure risposto. La catena di abbigliamento giapponese Uniqlo nega di aver chiesto ai fornitori di falsificare le documentazioni. Ecco quando hanno tutti la pancia piena visti i fatturati, i diritti umani possono andare a farsi benedire. Poi c’è chi ci mette la faccia come il professor Parenti, il quale vorrebbe addirittura impacchettare i giovani disoccupati meridionali come gli uiguri, e spedirli a lavorare. Ecco, immaginiamo che ci sia un mondo, una dignità diversa del lavoro e dell’uomo. Perché il corpo lo puoi coprire con una felpa, ma la coscienza?

·        Godfrey Hardy. Apologia di un matematico.

Apologia di un matematico. Godfrey Hardy, lo specialista della teoria dei numeri che rivela la bellezza della matematica. Filippo La Porta su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Io la matematica la odio. Anzi, pensavo di odiarla, come dirò tra un po’. In prima media venni rimandato in matematica da una prof sadica, e da allora fino alla terza liceo i miei genitori (preoccupati) mi costrinsero – umiliandomi! – a prendere lezioni private. Da una rapida inchiesta tra amici e conoscenti ho scoperto che la matematica è materia-incubo per la stragrande maggioranza dei miei connazionali (Giorgio Manganelli era ripetutamente mortificato dalla sua insegnante di liceo). Da allora ammiro – con senso di frustrazione – i matematici, considerandoli uomini superiori, ad es. Odifreddi, anche quando non parlano di matematica. Il che è palesemente assurdo, oltre che un tantino volgare. Diceva Stendhal che è segno di volgarità ammirare chi ci intimidisce. Poi ho scoperto che proprio Odifreddi – ad es. sdottoreggiando su Dante – ha pure detto una quantità di corbellerie, ma quella ammirazione è dura a morire. Ora, ho recentemente scoperto su una bancarella un libello aureo, che consiglio a tutti, e che in parte mi ha riconciliato con la matematica: Apologia di un matematico di Godfrey H. Hardy (Garzanti 1989). L’autore, specialista in “teoria dei numeri” (qualsiasi cosa voglia dire), è stato un matematico importante (scomparso nel 1966), ed è divenuto borsista a Cambridge già a 23 anni. Infanzia vittoriana molto colta, prodigio di intelligenza, stravagante, appassionato di cricket, antinarciso (assai bello ma contrario ad essere fotografato), amico di Bertrand Russell e affascinato dal matematico indiano naif Ramanujan (che fece venire in Inghilterra), così ci appare nel bel ritratto, a mo’ di introduzione, di Charles P. Snow. Amava sia gli Usa che l’Urss, teneva una grande foto di Lenin nella sua stanza. Preferiva a quelli che definiva i “grandi sederi”, le persone svantaggiate, “i poveri, gli infelici, i timidi”. All’inizio del libro – lievemente malinconico poiché il suo autore ritiene che un matematico non deve essere troppo vecchio, quando si è indebolito il suo desiderio di creare – leggiamo subito che «la maggior parte delle persone è così spaventata dalla matematica che è portata, in tutta sincerità, a esagerare la propria stupidità nella materia». Se possiamo apprezzare una bella partita a scacchi allora dobbiamo pensare che un problema di scacchi non è che un esercizio di matematica pura, e anzi è matematica banale poiché per quanto originali e sorprendenti siano le mosse «gli manca qualcosa di essenziale», non è un problema importante. A proposito di bellezza della matematica Hardy ci introduce a due teoremi di matematica formulati nell’antica Grecia (i greci sono stati i primi matematici), sui quali si fonda buona parte della matematica, e che può capire qualsiasi persona intelligente, benché non esperta, in meno di un’ora (altri teoremi sarebbero altrettanto belli, come quello di Cantor o la teoria degli insiemi ma richiederebbero troppe spiegazioni). Si tratta del numero infinito dei numeri primi (Euclide) e dei numeri irrazionali (Pitagora): il procedimento seguito è quella della reductio ad absurdum e della smentita di una ipotesi fatta all’inizio dei due teoremi (nel primo caso che la serie dei numeri primi abbia una fine, nel secondo che a e b della frazione indicata dalla radice quadrata di 2 non hanno fattori comuni – questa seconda cosa vi suonerà più esoterica ma non importa). Se seguite con pazienza il ragionamento di Hardy, giungendo alla conclusione dei due teoremi, scoprirete con emozione che i due teoremi sono “belli”: esprimono serietà, armonia, ordine, razionalità, contengono “idee significative” o anche “profonde” (dove “profondo” ha a che fare con “difficile”). L’autore aggiunge che non servono quasi a niente, non hanno alcuna utilità pratica, poniamo, per un ingegnere o per un medico, anche se questi si avvalgono della matematica (nel campo delle applicazioni pratiche ci si occupa di numeri piccoli). La matematica non favorisce la felicità del genere umano, non aumenta il benessere collettivo, può solo alimentare un abito mentale elevato (mentre molta “matematica elementare”, ha una utilità pratica, ma è quella più noiosa, “quella che ha minor valore estetico”). Qui arriviamo al nucleo più originale del pensiero di Hardy. Le forme create dal matematico, come quelle del pittore o del poeta, devono essere belle (le idee devono legarsi armoniosamente)! La matematica ha a che fare con l’arte. L’interrogativo fondamentale è il seguente: posto che esiste una “realtà fisica” (il mondo materiale, studiato dalla fisica), a noi esterno, per quanto riguarda invece la “realtà matematica” come va considerata? Una realtà mentale, creata da noi, o è indipendente? Qui la risposta di Hardy è straordinaria: la realtà matematica è fuori di noi, il nostro compito è di scoprirla e di osservarla. I teoremi che chiamiamo «pomposamente nostre creazioni sono semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni». Inoltre: la realtà del fisico ha pochissimi degli attributi che il senso comune accorda alla realtà: una sedia è un insieme di elettroni turbinanti, una stella non è ciò che sembra. Mentre “2” o “317” sono simili a quello che sembrano essere. “317” è un numero primo non perché lo pensiamo noi, ma perché è così (se riuscite a seguire i due teoremi di prima hanno una conclusione inesorabile, oggettiva). Sapere che anche in matematica la bellezza non è interamente soggettiva, che la verità di qualcosa non totalmente in nostro potere – e anzi si impone a noi (è così!) – beh, ha qualcosa di liberatorio. E se l’arte non inventa la realtà né la rispecchia, piuttosto la rivela, anche la matematica, secondo Hardy, rivela un mondo che già esisteva, ne mostra ad un tratto le relazioni e connessioni interne finora invisibili. Finché dura l’effetto di questa esaltante lettura cesserò di odiare la matematica, e anzi mi piacerà contrapporre la figura di Hardy, la sua indole sensibile e delicata, alla figura della mia professoressa sadica delle medie. Filippo La Porta

·        Margherita Hack.

L'accademica e divulgatrice scientifica. Chi era Margherita Hack, l’astrofisica italiana diventa per tutti “La signora delle Stelle”. Vito Califano su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Per celebrare quello che sarebbe stato il suo 99esimo compleanno Google ha dedicato il suo doodle a Margherita Hack, scomparsa a Trieste il 29 giugno del 2013. La “Signora delle Stelle”, astrofisica, accademica, divulgatrice scientifica e attivista italiana. Studiò i satelliti, gli asteroidi, l’evoluzione delle atmosfere stellari. “Buon compleanno, Margherita Hack, e grazie per aver ispirato le generazioni – passate, presenti e future – a puntare alle stelle”, scandisce il Team di Google. Era nata a Firenze il 12 giugno 1922. Dopo aver seguito un solo corso universitario di lettere passò alla specializzazione in Fisica. Si laureò con una tesi sulle variabili Cefeidi, le stelle usate per misurare le distanze intergalattiche. Hack applicò le sue conoscenze sulla spettroscopia stellare presso l’Osservatorio Astronomico di Arcetri a Firenze. È diventata la prima donna a ottenere una cattedra all’università di Trieste, nel 1964. Nella stessa città divenne la prima donna direttrice dell’Osservatorio Astronomico. Un istituto guidato per vent’anni e portato con la sua direzione a una notorietà mondiale prima sconosciuta e impensabile. Hack divenne quindi parte di istituzioni come la NASA e l’Agenzia Spaziale Europea. Nella sua carriera ha pubblicato decine di libre, centinaia di articoli. Era nota per spiegare concetti scientifici complessi in maniera semplice. Ha fondato due riviste dedicate all’astronomia e a lei è stato dedicato l’asteroide 8558 Hack, che orbita tra Marte e Giove, nel 1995. A 90 anni fu insignita del titolo di Cavaliere di Gran Croce, l’onorificenza più alta della Repubblica italiana. Hack era nota per le sue posizioni progressiste e l’impegno nella difesa dei diritti civili e per la protezione degli animali.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Cervello.

L'uomo usa solo il 10% del cervello? Erika Pomella il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. Lucy è un film d'azione interpretato da Scarlett Johansson che porta sullo schermo uno dei più famosi miti della scienza: quello secondo il quale gli esseri umani utilizzerebbero solo il 10% delle potenzialità del cervello. Lucy è il film di Luc Besson che andrà in onda questa sera alle 21.23 su Italia 1. La pellicola è interpretata da Scarlett Johansson ed è stata un successo al botteghino sebbene non tutta la critica abbia accolto con favore il film del regista francese. Lucy, infatti, è stato "accusato" di aver fatto troppo leva sul mito secondo il quale gli esseri umani userebbero solo il dieci per cento del loro cervello.

Lucy, la trama

Uscito in sala nel 2014, Lucy parla di Lucy Miller (Scarlett Johansson), una studentessa che vive a Taipei e che sembra non avere altra preoccupazione al mondo se non godersi la vita insieme al fidanzato Richard (Pilou Asbæk). Ed è proprio Richard che le chiede di consegnare in un dato luogo una valigetta misteriosa. Per fare un favore al suo compagno, Lucy finisce con l'essere rapita e sfruttata come corriere nel narcotraffico da un uomo che la usa, mettendole nello stomaco la droga CPH4. Aggredita da un gangster che vorrebbe abusare sessualmente di lei, Lucy finisce con l'essere presa a calci e questo fa sì che il sacchetto nel suo stomaco si rompa, rilasciando nell'organismo della ragazza l'intero contenuto. La CPH4 dà a Lucy dei poteri incredibili, tanto fisici quanto mentali, che la porteranno a chiedere aiuto a un famoso studioso di abilità cognitive (Morgan Freeman). A questo punto Lucy deve decidere cosa farsene dei poteri che ha scoperto e come fare per potersi vendicare di coloro che l'hanno sfruttata.

Gli esseri umani sfruttano davvero solo il dieci per cento del cervello?

Come riporta il sito dell'Internet Movie Data Base, Luc Besson impiegò circa dieci anni per poter realizzare il film. Lucy, infatti, era la sceneggiatura a cui il regista francese stava lavorando già da anni, asserendo di voler realizzare una pellicola che potesse miscelare gli elementi di altri film come Léon, Interstellar e 2001: Odissea nello spazio. Nonostante il molto tempo che Luc Besson aveva destinato alla realizzazione di Lucy, il metteur en scene era comunque consapevole che all'interno della sua sceneggiatura c'erano delle nozioni che erano errate e che non avevano nessun fondamento scientifico. Tra queste c'è anche quella secondo cui gli esseri umani userebbero solo il dieci per cento del cervello, lasciando intendere che ci sia un universo sconfinato di possibilità per poter sfruttare al meglio la mente umana.

Come scrive Discover Magazine, non è chiaro da dove sia nato questo mito che la scienza si è sempre prodigata a smentire. Tuttavia molti addetti ai lavori sembrano concordare sul fatto che la divulgazione di questa concezione errata possa essere cominciata nel 1936 con la pubblicazione di un libro di auto-aiuto di Dale Carnegie che, a sua volta, riportava alcune idee che lo psicologo William James aveva teorizzato a inizio del Novecento. In un articolo del 1907 riportato da Psych Classics, James scriveva: "Paragonato a quello che possiamo fare, è come se fossimo per metà addormentati. Il nostro fuoco è smorzato, le nostre correnti d'aria sono controllate. Stiamo utilizzando solo una piccola parte delle nostre risorse fisiche e mentali". Sandra Aamodt, neuroscienziata, ha detto a Discover Magazine: "Credo che le persone siano attratte da questo pseudo-fatto perché è una teoria ottimista. Non ameremmo tutti credere che i nostri cervelli siano gigantesche piscine piene di potenziale che non stiamo usando? L'alternativa sarebbe dover accettare la realtà dei nostri limiti e le sfide rappresentate dall'imparare". Inoltre la neuroscienziata sottolinea come non ci sia assolutamente niente di vero nel mito riportato anche nel film Lucy. Ha detto: "Non c'è spazio per alcun dubbio. La functional Magnetic Resonance Imaging ha dimostrato che tutte le parti del cervello sono attive durante varie attività. Non tutte nello stesso momento, naturalmente, ma ogni parte del cervello ha un lavoro da fare."

Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per l’organizzazione della prima edizione del festival del cinema francese a Roma. Parlo fluentemente francese e, quando non lavoro, passo il mio tempo a leggere montagne di romanzi e ad organizzare viaggi

Antonio Caperna per "il Giornale" il 16 settembre 2021. Due funzioni cerebrali chiave, che ci consentono di occuparci di nuove informazioni e di concentrarci, possono migliorare negli individui più anziani. Sono alla base di aspetti critici della cognizione come la memoria, il processo decisionale e l'autocontrollo e persino la navigazione, la matematica, la lingua e la lettura. Quindi, l'avanzare dell'età che porta a un ampio declino delle capacità mentali, può in realtà riservare delle sorprese inaspettate, sottolinea una ricerca del Georgetown University Medical Center, supportata dal National Institutes of Health e pubblicata su Nature Human Behavior. «Questi risultati sono sorprendenti e hanno importanti conseguenze su come dovremmo considerare l'invecchiamento - afferma il ricercatore senior dello studio, Michael T. Ullman, direttore del Brain and Language Lab del Georgetown -. Le persone hanno ampiamente ipotizzato che l'attenzione e le funzioni esecutive diminuiscano con l'età. Ma i risultati del nostro ampio studio indicano che gli elementi critici di queste abilità migliorano effettivamente durante l'invecchiamento, probabilmente perché semplicemente le pratichiamo per tutta la vita. E questo è tanto più importante con l'aumento dell'aspettativa di vita in molti Paesi». Un aspetto pratico è che con ulteriori ricerche, si potrebbero migliorare deliberatamente queste abilità come forma di protezione contro il declino mentale nell'invecchiamento e i relativi disturbi. Il team di ricerca ha esaminato tre componenti separati di attenzione e funzione esecutiva in un gruppo di 702 partecipanti di età compresa tra 58 e 98 anni, che rappresenta la fascia d'età dove l'invecchiamento incide di più sugli aspetti cognitivi. I componenti che hanno studiato sono le reti cerebrali coinvolte nell'allerta, nell'orientamento e nell'inibizione esecutiva. Ognuno ha caratteristiche diverse e si basa su diverse aree del cervello e su diversi geni e fattori neurochimici. Pertanto le reti possono anche mostrare diversi modelli di invecchiamento. L'allerta è caratterizzata da uno stato di maggiore vigilanza e preparazione al fine di rispondere alle informazioni in arrivo. L'orientamento implica lo spostamento delle risorse del cervello in una particolare posizione nello spazio. La rete esecutiva inibisce le informazioni distraenti o conflittuali, permettendoci di concentrarci su ciò che è importante. «Utilizziamo costantemente tutti e tre i processi- spiega il ricercatore Veríssimo - Ad esempio, quando si guida un'auto, l'avviso è l'aspetto più importante vicino a un incrocio. L'orientamento si verifica quando si sposta l'attenzione su un movimento inaspettato, come un pedone. E la funzione esecutiva consente di inibire le distrazioni come uccelli o cartelloni pubblicitari, in modo da poter rimanere concentrato alla guida». Lo studio ha scoperto che solo le capacità di allerta diminuivano con l'età. Al contrario, sia l'inibizione orientativa che quella esecutiva sono effettivamente migliorate. I ricercatori ipotizzano che, poiché l'orientamento e l'inibizione sono semplicemente abilità che consentono alle persone di prestare attenzione in modo selettivo agli oggetti, possono migliorare con la pratica permanente.

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 23 aprile 2021. Spolverare, riordinare, pulire, ma anche cucinare, fare la spesa o giardinaggio, insomma dedicarsi ai lavori domestici, fa bene alla mente, amplia le capacità cognitive e aiuta perfino a prevenire patologie come la demenza senile. Ad affermarlo è uno studio condotto da scienziati del Rotman Research Institute del Baycrest Centre, a Toronto, in Canada, secondo cui i benefici per la salute derivanti dal fare le pulizie sarebbero decisamente sottovalutati.

IMPATTO SUL CERVELLO L'attenzione sarebbe concentrata sull' allenamento sportivo, senza tenere conto di attività più semplici, quotidiane, a basso rischio, come quelle di casa appunto, che potrebbero essere un toccasana per gli anziani. «Gli scienziati sanno già che l' esercizio fisico ha un impatto positivo sul cervello, ma il nostro studio è il primo a dimostrare che lo stesso può essere vero per le faccende domestiche», dice Noah Koblinsky, tra gli autori della ricerca. «Capire come le diverse forme di attività fisica contribuiscono alla salute del cervello è fondamentale per lo sviluppo di strategie per ridurre il rischio di declino cognitivo e demenza negli anziani».

I TEST DI VALUTAZIONE Lo studio, pubblicato su BMC Geriatrics, è stato condotto su sessantasei individui sani, tra i 65 e gli 85 anni, sottoposti a più test per la valutazione delle condizioni fisiche, mentali e cognitive. Ad ognuno è stato chiesto il tempo mediamente riservato a eseguire le faccende domestiche, da quelle ordinarie, come pulire, a quelle più pesanti, come la cura del giardino, fino a eventuali riparazioni. Dal confronto tra le ore investite in tali impegni e le condizioni dei singoli è emerso che, indipendentemente dall' attività sportiva svolta, gli anziani che dedicavano più tempo alle faccende, come, ad esempio, fare le pulizie, spazzare, cucinare e fare giardinaggio, avevano un volume cerebrale maggiore. Varie le ipotesi dei ricercatori. Svolgere tali mansioni corrisponderebbe a un' attività aerobica di bassa intensità, con vantaggi per la salute del cuore e, di conseguenza, per quella del cervello. L' organizzazione, inoltre, favorirebbe nuove connessioni neurali nel cervello, anche con l' avanzare dell' età. A ciò si aggiunge che, più semplicemente, chi svolge questi compiti conduce una vita meno sedentaria. «Si è sempre pensato che chi rimane in casa vada maggiormente incontro a depressione, ansia e simili - commenta Filippo Anelli, presidente Fnomceo-Federazione nazionale Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri - i lavori domestici, in tale visione, possono contribuire a rimettere in moto l' organismo e a prevenire eventuali patologie neurodegenerative. Fare le faccende potrebbe così diventare pure un esercizio utile per la riabilitazione, aprendo nuove possibilità per quanto riguarda i ricoveri in istituti, consentendo ad anziani, con supporto sociale, di restare in casa propria. In ottica di prevenzione, svolgere attività domestiche è una buona abitudine da prendere sin da giovani».

I VANTAGGI I benefici d' altronde sono numerosi. Stando a una ricerca della Oregon State University, su oltre seimila persone tra 18 e 65 anni, gli effetti sarebbero interessanti pure per il benessere fisico. E pari a quelli della palestra. I lavori domestici aiuterebbero a prevenire ipertensione, colesterolo, diabete, infarto. Chi svolge le faccende, avrebbe l' 89% delle possibilità di non sviluppare la sindrome metabolica. Per chi pratica palestra, la stima è dell' 87%. Vantaggi si vedono anche sulla bilancia. Lavare i vetri farebbe bruciare 334 calorie in un' ora. Pulire i pavimenti circa 145 in mezz' ora. E così via. Non solo. Da uno studio della McMaster University del Canada, su 130mila soggetti tra 35 e 70 anni, è emerso che fare i lavori di casa per trenta minuti al giorno, riposandosi sabato e domenica, ridurrebbe del 28% il rischio di mortalità, allungando la vita.

DAGONEWS DA dailymail.co.uk il 17 aprile 2021. Un nuovo studio rivela che i cervelli degli esseri umani moderni sono "relativamente giovani" e si sono evoluti solo circa 1,7 milioni di anni fa, dopo che i primi esseri umani si sono allontanati per la prima volta dall'Africa. I ricercatori dell’Università di Zurigo hanno utilizzato la tecnica della tomografia computerizzata per esaminare i crani dei fossili di Ominidi che vivevano in Africa e in Asia tra 1 milione e 2 milioni di anni fa. Hanno quindi confrontato i risultati della loro analisi con gli esseri umani moderni e i nostri parenti viventi più prossimi a noi: gli scimpanzé e altre grandi scimmie. Hanno individuato lo sviluppo di un cervello simile a quello degli umani moderni tra 1,5 e 1,7 milioni di anni fa in Africa, poco più di un milione di anni prima che emergesse il primo Homo sapiens. "Le nostre analisi suggeriscono che le strutture del cervello umano si sono sviluppate solo 1,5 a 1,7 milioni di anni fa nelle popolazioni africane di ominidi", ha detto l'autore dello studio, il professor Christoph Zollikofer dell'Università di Zurigo. La teoria prevalente era precedentemente quella che il genere l'Homo sia stato sempre stato bipede e dotato di un cervello moderno simile a quello umano. Questa teoria è stata smentita poiché i cervelli simili a quelli degli umani moderni si sono sviluppati solo circa 1,5 milioni di anni fa. I ricercatori affermano che il cervello umano moderno si sia evoluto quando la cultura intorno alla produzione degli strumenti di pietra in Africa è diventata sempre più complessa. Durante questo periodo, le culture in Africa divennero più complesse e diversificate, come dimostra la scoperta di vari tipi di strumenti. I ricercatori ritengono che l'evoluzione biologica e culturale siano probabilmente dipendenti l'una dall'altra: "È probabile che in questo periodo si siano sviluppate anche le prime forme di linguaggio umano", ha affermato l'autore dello studio Marcia Ponce de León dell’Università di Zurigo. A parte le dimensioni, il cervello umano differisce da quello delle grandi scimmie particolarmente nella posizione e nell'organizzazione delle singole regioni cerebrali. "Le caratteristiche tipiche degli esseri umani sono principalmente quelle regioni del lobo frontale che sono responsabili della pianificazione e dell'esecuzione di schemi complessi di pensiero e azione e anche del linguaggio", ha detto la Ponce de León. Le teorie precedenti avevano poco per supportarle a causa della mancanza di dati affidabili. "Il problema è che i cervelli dei nostri antenati non sono stati conservati come fossili", ha detto Zollikofer. "Le loro strutture cerebrali possono essere dedotte solo dalle impressioni lasciate dalle pieghe e dai solchi sulle superfici interne dei teschi fossili." 

·        L’’intelligenza artificiale.

Striscia la Notizia, "i vostri telefonini vi ascoltano". La sconvolgente verità sulle pubblicità che vi bombardano. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. A volte capita che poco dopo aver parlato di un determinato argomento ci ritroviamo le relative pubblicità sui social o su altri siti. Come se qualcuno ci avesse ascoltato. Com'è possibile? Ce lo spiega Marco Camisani Calzolari, l'esperto di Striscia la Notizia sui segreti del web. "Quante volte vi è capitato di parlare di qualcosa al telefono e poco dopo vi appare sui profili social vi appaiono pubblicità di quello di cui avete parlato pochi prima. Per esempio Facebook lo usa grazie alle piccole microapp che abbiamo installato. Registrano sui loro server quello che diciamo poi un sistema traduce la voce in testo scritto e questo poi viene venduto in veri e propri mercati in cui c'è qualcuno che vuole fare pubblicità ai proprio prodotti", spiega Marco Camisani Calzolari. Camisani Calzolari spiega però che adesso con questi metodi sanno anche quello che pensiamo le aziende pubblicitarie: "Un mercato complesso nato all'uso di machine learning che prevedono quello che vorremmo. Ma come possiamo difenderci?". Camisani Calzolari racconta come modificare il proprio cellulare entrando nelle impostazioni della privacy per bloccare il microfono delle App che abbiamo scaricato sul nostro cellulare, cosicché le suddette applicazioni non possano ascoltare e recepire i nostri interessi e addirittura prevedere quello che noi pensiamo per poi proporcelo sotto forma di pubblicità.

L’uso dell’intelligenza artificiale e i rischi per i diritti umani. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 febbraio 2021. Lettera alla Commissione europea dell’Asgi e di altre 60 associazioni italiane sui rischi per l’uso dell’intelligenza artificiale nel sistema giudiziario. Entro il 2021 l’Unione europea emanerà una legge che regolamenta l’intelligenza artificiale (IA), ma sarà un compito delicato perché bisognerà evitare che intacchi i diritti umani come, di fatto, sta accadendo in Cina. Ad esempio, come mettono in guardia numerose associazioni che si occupano dei diritti umani, l’uso di strumenti di valutazione del rischio nel sistema di giustizia penale e nel contesto preprocessuale, come gli algoritmi per tracciare un profilo degli individui all’interno dei processi, rappresenta una grave minaccia per i diritti fondamentali. «Tali strumenti – si legge nella lettera rivolta alla Commissione europea a firma dell’Asgi e altre 60 associazioni italiane – basano le loro valutazioni su una vasta raccolta di dati personali non collegati alla presunta cattiva condotta degli imputati. Questa raccolta di dati personali al fine di prevedere il rischio di recidiva non può essere percepita come necessaria né proporzionata allo scopo, in particolare considerando le implicazioni per il diritto al rispetto della vita privata e la presunzione di innocenza. Inoltre, prove sostanziali hanno dimostrato che l’introduzione di tali sistemi nei sistemi di giustizia penale in Europa e altrove ha portato a risultati ingiusti e discriminatori». Il Parlamento europeo, è tra le prime istituzioni a presentare delle raccomandazioni su ciò che le norme sull’Intelligenza artificiale dovrebbero includere in materia di etica, responsabilità e diritti di proprietà intellettuale. Queste raccomandazioni aiuteranno l’Ue a diventare un leader globale nello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Non è un caso che negli anni passati, l’Ue ha stanziato diversi miliardi per la ricerca. Com’è detto, l’intelligenza artificiale deve rimanere dentro i confini di un quadro etico ben dettagliato. Anche perchè qualsiasi approccio “umanocentrico” all’intelligenza artificiale richiede il rispetto dei diritti fondamentali, indipendentemente dal fatto che questi siano o meno esplicitamente protetti dai trattati dell’Unione Europea, come il Trattato sull’Unione Europea (Tue) o la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea. Nel 2019, su spinta della commissione europea, si è costituto un gruppo di esperti denominato AI HLEG. E sono quest’ultimi che hanno suggerito all’Unione Europea di impegnarsi a una regolamentazione che punti verso nozioni quali «rispetto dell’uguaglianza, non discriminazione e solidarietà». L’AI HLEG ha esplicitamente raccomandato ai politici di emanare regolamenti per garantire che gli individui non siano soggetti a «tracciamento o identificazione personale, fisica o mentale ingiustificata, profiling e nudging attraverso metodi di riconoscimento biometrico basati sull’intelligenza artificiale come il tracciamento emotivo, Dna, scansione dell’iride e identificazione comportamentale». Tali metodi dovrebbero, però, «essere consentiti solo in circostanze eccezionali, ma anche in questo caso solo se “basati su prove nonché sul rispetto dei diritti fondamentali». In sostanza si chiede di non fare la fine della Cina che già usa l’Intelligenza artificiale per imporre il controllo. Di recente, l’associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e altre 60 associazioni, in vista della proposta legislativa sull’intelligenza artificiale, hanno inviato una lettera aperta alla Commissione europea chiedendo che vengano posti dei limiti chiari nell’elaborazione di una regolamentazione comunitaria nell’utilizzo delle nuove tecnologie. Elencano una serie di preoccupazioni e si sollecita la Commissione europea affinché vengano affrontate in maniera inequivocabile per evitare eventuali rischi di violazione dei diritti umani fondamentali.

·        Entrare nei meandri della Mente.

Il Mental Coach. Tokyo 2020, il mental coach di Tamberi: "Questa Olimpiade era il suo sogno e il suo incubo". Camilla Romana Bruno su La Repubblica il 02 agosto 2021. Lavorano insieme dal 2014, due anni prima del sogno infranto di Rio. Una collaborazione nata un po' per caso ma che da allora non si è mai interrotta. Luciano Sabbatini, mental coach di Gianmarco Tamberi, racconta il suo rapporto con Gimbo all'indomani della vittoria dell'oro olimpico nel salto in alto. "Per lui Tokyo 2020 è stata una liberazione, era il suo sogno ma anche il suo incubo. Non ci si crede", afferma soddisfatto e molto emozionato. "La cosa più difficile da gestire di Gianmarco? La sua enorme volontà che a volte superava anche i limiti". 

La mental coach di Marcell Jacobs: "E adesso andiamo a prendere tempi ancora migliori". Sergio Rizzo su La Repubblica il 02 agosto 2021. Il rapporto con la mental coach Nicoletta Romanazzi è uno dei segreti degli enormi miglioramenti ottenuti negli ultimi mesi da Marcell Jacobs, storico, primo oro olimpico italiano nei 100 metri. "Siamo tutti e due ambiziosissimi - spiega la mental coach - e in questo ci siamo trovati perfettamente". Nicoletta Romanazzi segue Marcell Jacobs dallo scorso settembre: "Insieme - dice - abbiamo rimosso tutta una serie di blocchi che non gli permettevano di esprimere tutto il suo potenziale".

I cerchi alla testa curati con il mental coach personale. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 5 agosto 2021. UNA delle tante lezioni politiche che viene dai Giochi di Tokyo è la seguente: urge procurarsi un mental coach. Magari si può fare a meno (e talvolta è anche meglio farlo) di un portavoce, oppure si può trascurare “la bestia” che rende virale ogni fesseria divulgata a mezzo social e il web, che pure sembra durare lo spazio di un mattino,  in realtà ha la memoria di un elefante e di una moglie (“quella volta hai postato che”, ! quella volta hai detto che” è il rinfaccio perenne). Ma quello di cui non ci si può mai più privare è un mental coach: in un paio di giorni rimetti a posto i tuoi demoni, come li ha chiamati la ginnasta Simone Biles e puoi tornare in gara. Il politico può ricandidarsi per le elezioni, tanto ce n’è a urna continua. La faccenda è maledettamente seria e non si può liquidare con una battuta sulla psicanalisi, di quelle alla Ennio Flaiano (“la psicanalisi è una pseudo-scienza inventata da un ebreo per convincere i protestanti a comportarsi da cattolici”), o alla Marcello Marchesi (“meglio dalla psicanalista che dal confessore: per quest’ultimo è sempre colpa tua, per il primo è di qualcun altro”). Il mental coach è ormai una figura indispensabile per uno sportivo militante e più sei campione più ti necessita. La Divina, Federica Pellegrini, appena eletta tra gli atleti partecipi del potere del Comitato Internazionale Olimpico, ha  detto che un suo impegno sarà sottolineare l’importanza del mental coaching. Il mental coach s’affianca già, seppure on dad o via zoom o skype al tempo del virus, al preparatore atletico, al nutrizionista, al videoanalyst, al fisioterapista, al social manager, e via con altre analisi e altri maneggi. Tempi moderni, né migliori né peggiori di quelli andati: a Fausto Coppi, per dire, bastava Biagio Cavanna, il non vedente cui il Campionissimo affidava pene di muscoli e d’amore, e ne riceveva consolanti “consigli della nonna” e pari unguenti. Il mental coach ha poi, di bello, che non ti fa sentire “paziente” come può capitare con lo psicanalista: sei “cliente”. La differenza non è da poco. Non ti toglie il peggio, ti esalta il meglio. O così pare, almeno a spanne, pure se con gli affari dell’anima non si può andare avanti a spanne, né con la salute mentale, se non sei Harry e Meghan. L’argomento è spinoso per i politici: in America, ad esempio, pare che il mental coach di Bill Clinton e quello di Donald Trump fosse lo stesso. Diversi i risultati…  Ma del resto è forse proprio questo il compito: il rispetto dell’unicità di ogni essere umano aiutandolo a realizzarsi per quel che è, al suo meglio. Già questo sarebbe un buon risultato: non è che tanti politici rendano al meglio. O almeno: speriamo che sia così… Sempre a proposito di lezioni di sport alla politica: dopo questi due giorni di Olimpiadi giapponesi, non diciamo più che “l’importante è fare squadra”.  Magari se hai un Filippo Ganna che trascina un quartetto (che non è squadra, ma ibrido fra l’individuo e il gruppo) puoi pensarlo; però le due pallavolo, la pallanuoto e il basket freschi di eliminazione pensando a Jacobs e Tamberi, a Vanessa Ferrari e Paltrinieri, fanno sospettare che meglio soli… Soli, magari, con il mental coach.

Da ilnapolista.it il 5 agosto 2021. Il Napolista ospita un intervento di Alberto Cei psicologo, direttore scientifico del master in psicologia dello sport. Sono le Olimpiadi delle emozioni e non quelle dei mental coach. Anche se può sembrare esattamente l’opposto dato che i media e i social utilizzati dagli stessi atleti trasmettono giornalmente ogni loro battito di ciglia. Questa forma di comunicazione deriva anche dall’aver detto per anni che per evitare l’insorgere dei problemi psicologici se non di psicopatologie gli atleti avrebbero dovuto condividere i loro disagi, per evitare guai peggiori. Naturalmente ci si riferiva alla condivisione con persone per loro importanti e non pubbliche. Comunque per tutti viene il giorno in cui si toccano i propri limiti non solo fisici ma anche psicologici, e così molti atleti di livello assoluto si dimostrano più fragili proprio nell’evento per loro più importante, le Olimpiadi. Non è una storia nuova, si può trovare già descritta in un numero dell’International Journal of Sport Psychology del 1972 con il resoconto di nove psicologi che hanno partecipato alle Olimpiadi di Monaco. A distanza di cinquant’anni, il ruolo dello psicologo dello sport, chiamato ora mental coach, è esploso durante questi Giochi Olimpici. Lo stress non più gestito e la depressione hanno colpito i super-winners, come Djokovic, Osaka, Biles, ma anche atleti più giovani alla loro prima esperienza olimpica, che hanno poi vinto una medaglia. Gli atleti e le atlete percepiscono con più consapevolezza le aspettative di risultato che il mondo gli impone, devono eccellere altrimenti valgono zero. Per molti di loro non vi sono alternative alla vittoria, pensiamo a Djokovic che dopo 22 vittorie consecutive ha perso una partita che stava dominando e anche il suo autocontrollo. Sono storie che diventano tragiche anche per l’impossibilità degli atleti di vivere diversamente. Ricordo un commento di Julio Velasco quando osserva che ha visto nelle immagini televisive che Simone Biles è sempre attaccata al suo cellulare, fonte di stress. Mi viene in mente una situazione opposta quando Rudic, ai mondiali di nuoto a Roma di molti anni fa, si fece consegnare i cellulari dai giocatori di pallanuoto perché non voleva che si distraessero. Ovviamente ognuno è libero di scegliere cosa vuole fare, ma la grande esposizione pubblica degli atleti odierni e la consapevolezza che il successo è veramente un modo per cambiare radicalmente il loro futuro economico sono fattori molto destabilizzanti che sinora sono stati poco trattati. Da ciò deriva l’esplosione della figura del mental coach o del ruolo di campioni del passato come Vialli con la nazionale di calcio o Phelps che sulla base di una riflessine critica sulle proprie esperienze di atleta di livello assoluto possono svolgere un ruolo positivo sull’educazione mentale di altri giovani.

Valeria Arnaldi per "Il Messaggero" il 4 agosto 2021. L'attore Hugh Jackman che ha voluto sperimentare il coaching per perfezionare le sue performance in scena. I Metallica, in un periodo di crisi. I politici, da Bill Clinton a Donald Trump. E molti altri, come il neo campione olimpico dei 100 metri, l'uomo più veloce del mondo, il nostro Marcell Jacobs, che tanto ha ringraziato la sua mental coach per averlo aiutato a vincere l'oro a Tokyo. E ancora fino ai tanti, tantissimi - sempre più - che, lontani dai riflettori, oggi si rivolgono ai life e mental coach per valorizzare i propri talenti, migliorare la vita quotidiana, affrontare problemi familiari, spaziando dunque dal divorzio alla carriera, dalla menopausa alla perdita di un animale domestico, dalla ricerca dell'amore al successo. E perfino, per ripensarsi in epoca Covid. In pandemia il coaching, infatti, ha conosciuto un vero boom. Anche nel nostro Paese. Stando agli ultimi dati della Icf-International Coaching Federation, i coach nel mondo sono circa 86.900, in Europa 31.600. Dal 2016 al 2020, la partecipazione dei coach agli studi di settore è salita di oltre il 46%. Non una questione di maggiore coinvolgimento ma proprio di numeri del comparto. Nel Regno Unito, secondo il Daily Mail, solo nel 2020 c'è stato un aumento del 153% di life coach. Le cifre del settore nel 2019, riportate da Prometeo Coaching stimavano in 1500 i coach professionisti nel nostro Paese, più uomini - il 59% - che donne, e perlopiù tra i 27 e i 54 anni, per un giro d'affari complessivo approssimativamente di 18 milioni di euro. «I nostri iscritti - dice Giorgia Franceschini, presidente Icf Italia - negli ultimi quattro anni sono più che raddoppiati. E, in pandemia, i numeri sono saliti sensibilmente. La maggiore quantità di tempo a disposizione delle persone ha fatto emergere insoddisfazioni latenti. Tanti hanno approfittato del periodo per riflettere sui propri bisogni e cercare di cambiare il proprio futuro. Per questo, si sono avvicinati al coaching. Come clienti e, in taluni casi, anche per diventare coach. I due poli, per il settore, nel Paese sono Roma e Milano». Vari gli obiettivi a livello globale. Tra i principali, in ambito lavorativo, rafforzare la leadership personale, promuovere la collaborazione, favorire il cambiamento e gestire lo stress. In quello personale, migliorare le capacità comunicative, aumentare l'autostima, affinare l'equilibrio tra vita privata e lavoro. Perlopiù - oltre il 50%, in Italia - a rivolgersi ai coach sono state donne. «In epoca Covid, la depressione femminile è aumentata del 45% e molte, per affrontarla, si sono rivolte ai life coach - commenta la dottoressa Alessandra Lancellotti, psicoterapeuta e life e career coach, che è stata anche life coach per i talenti a X-Factor e in altre trasmissioni televisive - I tempi dell'analisi non ci sono più, il life coaching assicura risposte veloci e pratiche. Non si guarda al passato ma avanti. Il problema più grande, durante il Covid è stata la gestione del quotidiano, il lavoro portato in casa, che ha creato una sorta di prigione, in un programma giornaliero fatto di obblighi: smart working, cucina, cura dei bambini, ancora smart working e così via». È salita anche l'età delle richiedenti. «L'età media si è alzata - prosegue Lancellotti - tante le richieste di over 50, pure di ultrasettantenni. Oggi non ci si vergogna di fare nuovi progetti e trovare modi per cambiare le proprie esistenze. Si è compreso che è fondamentale continuare ad apprendere, cercare sempre nuove forme e strade per riuscire a fare ciò che si desidera». E la creatività? «Sono nate molte esperienze artistiche, tanti si sono messi in gioco in modo nuovo. C'è stato un fiorire di iniziative quasi rinascimentale». Il life coach aiuta. «Non diamo consigli - sottolinea Franceschini - ma partiamo dal presupposto che le persone abbiano già in sé forza e risposte, devono essere aiutate a trovarle». E questo vale per tutti. «La parola coaching è diventata di moda - spiega la presidente - Prima il fenomeno era associato perlopiù alle élite, in azienda ai top manager, nell'ultimo periodo si è diffuso a più livelli. Molti si rivolgono al coach pure in ambito privato. Oggi ci sono persone che si regalano un percorso di coaching. Negli Usa questo processo è in corso da tempo con coach nelle no profit, nelle scuole e via dicendo. Anche in Italia è in atto: il settore è in forte sviluppo».

V. Arn. Per "Il Messaggero" il 4 agosto 2021. Attore, che ha debuttato diretto da Aldo Giuffrè, è stato nella compagnia di Gabriele Lavia e pure assistente alla regia di Enzo Garinei, Daniele Sirotti, classe 1974, oggi è life coach.

Come mai tale scelta?

«Per diversificare. Tra le due professioni ci sono punti di contatto. Come attore, sono vicino al mondo dell'introspezione, al fatto di guardare in sé e aiutare gli altri a farlo, senza dimenticare il lavoro sulla motivazione, fondamentale quando si deve andare in scena ogni sera, mettendo da parte i problemi».

Ha mai sperimentato, da fruitore, un percorso di coaching?

«Era uno dei requisiti per la certificazione. Un iter stimolante. C'è un grande obiettivo ma ce ne sono altri piccoli, uno per sessione. Se il fine è imparare a parlare in pubblico, quello di una sessione potrebbe essere farlo davanti a un collega. Vedere risultati concreti di ciò che si fa è motivante. E complesso, sei aiutato nel ragionamento ma la risposta viene da te». 

Chi si rivolge al life coach?

«Chi cerca un modo per realizzare i propri obiettivi, quindi, sportivi ma anche persone che vogliono migliorare i rapporti con gli altri». 

Le problematiche più comuni?

«Sul lavoro, imparare a vincere situazioni nelle quali si viene messi sotto o non si riesce ad emergere. Dinamiche simili ci sono pure in famiglia».

E per i professionisti della scena?

«Sono anche active coaching, ossia un coach per l'attore che cerca la chiave di un personaggio o vuole svilupparlo. È utile ai professionisti per ritrovarsi o rinnovarsi». 

Dagotraduzione dal New York Times il 15 luglio 2021. Non riesce a parlare dal 2003, da quando all'età di 20 anni rimase paralizzato da un grave ictus dopo un terribile incidente d'auto. Ma oggi i ricercatori sono riusciti ad arrivare alle aree del linguaggio del suo cervello, e gli hanno permesso di produrre parole e frasi comprensibili solo provando a dirle. Quando l'uomo, conosciuto con il soprannome di Pancho, cerca di parlare, degli elettrodi impiantati nella sua testa trasmettono segnali a un computer che visualizza sullo schermo le parole che intendeva pronunciare. La sua prima frase riconoscibile, hanno detto i ricercatori, è stata: «La mia famiglia è fuori». Il risultato, pubblicato mercoledì sul New England Journal of Medicine, potrebbe essere d’aiuto a moltissimi pazienti che hanno perso la capacità di parlare. «Sono andati oltre quello che avevamo mai immaginato di poter raggiungere», ha detto Melanie Fried-Oken, professore di neurologia e pediatria presso l'Oregon Health & Science University, che non è stata coinvolta nel progetto. Tre anni fa, quando Pancho, che ora ha 38 anni, ha accettato di lavorare con i ricercatori di neuroscienze, non erano sicuri che il suo cervello avesse mantenuto i meccanismi del linguaggio. «Quella parte del suo cervello poteva essere dormiente, e non sapevamo se si sarebbe mai davvero svegliata per farlo parlare di nuovo», ha detto il dottor Edward Chang, presidente della chirurgia neurologica presso l'Università della California, San Francisco, che ha guidato la ricerca. I medici hanno impiantato un foglio rettangolare di 128 elettrodi, progettato per rilevare i segnali dei processi sensoriali e motori legati al linguaggio legati a bocca, labbra, mascella, lingua e laringe. In 50 sessioni durate 81 settimane, hanno collegato l'impianto a un computer tramite un cavo collegato a una porta nella testa di Pancho e gli hanno chiesto di provare a dire parole da un elenco di 50 parole comuni, tra cui «fame», «musica» e «computer». Mentre cercava di parlare, gli elettrodi trasmettevano segnali attraverso una forma di intelligenza artificiale che cercava di riconoscere le parole previste. «Il nostro sistema traduce l'attività cerebrale che normalmente avrebbe controllato il suo tratto vocale in parole e frasi», ha detto David Moses, un ingegnere post-dottorato che ha sviluppato il sistema con Sean Metzger e Jessie R. Liu, studenti laureati. I tre sono i principali autori dello studio. Pancho (che ha chiesto di essere identificato con il suo soprannome per proteggere la sua privacy) ha anche provato a pronunciare le 50 parole in 50 frasi distinte come «La mia infermiera è appena fuori» e «Portami gli occhiali, per favore» e in risposta a domande come «Come stai oggi?». La sua risposta, visualizzata sullo schermo: «Sono molto bravo». In quasi la metà delle 9.000 volte in cui Pancho ha provato a dire singole parole, l'algoritmo ha indovinato. Quando ha provato a dire frasi scritte sullo schermo, ha fatto anche meglio. Incanalando i risultati dell'algoritmo attraverso una sorta di sistema di previsione della lingua a correzione automatica, il computer ha riconosciuto correttamente le singole parole nelle frasi quasi tre quarti delle volte e ha decodificato perfettamente intere frasi più della metà delle volte. «Dimostrare che puoi decifrare il discorso dai segnali elettrici nell'area motoria del tuo cervello è rivoluzionario», ha detto il dottor Fried-Oken, che sta studiando come rilevare i segnali usando elettrodi in un cappuccio posto sulla testa, non impiantato. Dopo una recente sessione, osservata dal New York Times, Pancho ha sorriso e ha inclinato leggermente la testa. E poi ha detto: "No, non ho sete". Nelle interviste di diverse settimane svolte per questo articolo, ha comunicato attraverso scambi di e-mail utilizzando un mouse controllato dalla testa per digitare faticosamente tasto per tasto, il metodo a cui di solito si affida. Il riconoscimento delle sue parole da parte dell'impianto cerebrale è «un'esperienza che cambia la vita», ha detto. «Voglio solo, non lo so, ottenere qualcosa di buono, perché i medici mi hanno sempre detto che avevo 0 possibilità di stare meglio», ha scritto Pancho durante una chat video dalla casa di cura della California settentrionale dove vive. Più tardi, ha inviato un'e-mail: «Non essere in grado di comunicare con nessuno, avere una conversazione normale ed esprimersi in qualsiasi modo, è devastante, molto difficile da vivere». Durante le sessioni di ricerca con gli elettrodi, ha scritto: «È come avere una seconda possibilità di parlare di nuovo». Pancho lavorava nei vigneti della California fino a quando una domenica d’estate ha avuto un incidente d'auto. Dopo aver subito un intervento chirurgico per gravi danni allo stomaco, è stato dimesso dall'ospedale: camminava, parlava e credeva di essere in via di guarigione. Ma la mattina seguente, si è svegliato "vomitando, non riuscivo a reggermi in piedi», ha scritto. I medici hanno detto che ha avuto un ictus cerebrale, apparentemente causato da un coagulo di sangue post-operatorio. Una settimana dopo, si è svegliato dal coma in una piccola stanza buia. «Ho provato a muovermi, ma non ci riuscivo, ho provato a parlare, ma non riuscivo a sputare una parola», ha scritto. «Così, ho iniziato a piangere, ma poiché non riuscivo a emettere alcun suono, tutto ciò che ho fatto sono stati alcuni brutti gesti». È stato terrificante. «Avrei voluto non essermi mai svegliato dal coma», ha scritto. Il nuovo approccio, chiamato neuroprotesi del linguaggio, fa parte di una nuova corrente volta ad aiutare decine di migliaia di persone che non hanno la capacità di parlare, ma il cui cervello contiene percorsi neurali per la parola, dice il dottor Leigh Hochberg, neurologo del Massachusetts General Hospital, Brown University e Department of Veterans Affairs, che non è stato coinvolto nello studio ma ha scritto un editoriale al riguardo. Per esempio potrebbe aiutare persone con lesioni cerebrali o affette da condizioni come la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) o la paralisi cerebrale: in questi casi i pazienti hanno un controllo muscolare insufficiente per parlare. «L'urgenza non può essere sopravvalutata», ha detto il dottor Hochberg, che dirige un progetto chiamato BrainGate che impianta elettrodi più piccoli per leggere i segnali dai singoli neuroni. «Ora è solo questione di anni», ha detto, «prima di trovare un sistema clinicamente utile che consenta il ripristino della comunicazione». Per anni, Pancho ha comunicato scrivendo le parole su un computer usando un puntatore attaccato a un berretto da baseball, un metodo arduo che gli ha permesso di digitare circa cinque parole corrette al minuto. «Ho dovuto piegare/inclinare la testa in avanti, in basso e infilare una lettera chiave una per una per scrivere», ha detto. L'anno scorso, i ricercatori gli hanno dato un altro dispositivo, ma non è veloce come gli elettrodi cerebrali nelle sessioni di ricerca. Attraverso gli elettrodi, Pancho comunica dalle 15 alle 18 parole al minuto. Questa è la velocità massima consentita dallo studio perché il computer attende tra i prompt. Il dottor Chang sostiene che è possibile una decodifica più rapida, anche se non è chiaro se si avvicinerà al ritmo del tipico discorso conversazionale: circa 150 parole al minuto. La velocità è una delle ragioni principali per cui il progetto si concentra sul parlare, attingendo direttamente al sistema di produzione delle parole del cervello piuttosto che ai movimenti della mano coinvolti nella digitazione o nella scrittura. «È il modo più naturale per le persone di comunicare», ha detto. La personalità vivace di Pancho ha aiutato i ricercatori a superare le sfide, ma occasionalmente rende il riconoscimento vocale irregolare. «A volte non riesco a controllare le mie emozioni e rido molto e non faccio troppo bene con l'esperimento», ha scritto. Il dottor Chang ha ricordato le volte in cui, dopo che l'algoritmo ha identificato con successo una frase, «si poteva vederlo tremare visibilmente e sembrava che stesse ridacchiando». Quando ciò accadeva o quando, durante i compiti ripetitivi, sbadigliava o si distraeva, il sistema «non ha funzionato benissimo perché Pancho non era concentrato su come ottenere le parole. Abbiamo alcune cose su cui lavorare perché vogliamo che funzioni sempre». L'algoritmo a volte confondeva le parole con suoni fonetici simili, identificando «andare» come «portare», e le parole che iniziano con "F" - "fede", "famiglia", "sentire". Le frasi più lunghe hanno avuto bisogno di maggiore aiuto dal sistema di predizione della lingua. Senza, «Come ti piace la mia musica?» è stato decodificato come «Come ti piace portare male?» e «Ciao come stai?» è diventato «Fame come stai?». Ma secondo il dottor Chang durante la pandemia la precisione è migliorata, sia perché l'algoritmo ha imparato dagli sforzi di Pancho sia perché «ci sono sicuramente cose che stanno cambiando nel suo cervello», aiutandolo a «illuminarsi e mostrarci i segnali che avevamo bisogno di far uscire queste parole». Prima del suo ictus, Pancho aveva frequentato la scuola in Messico solo fino al sesto anno. Con notevole determinazione, da allora ha conseguito un diploma di scuola superiore, ha frequentato corsi universitari, ha ricevuto un certificato di sviluppatore web e ha iniziato a studiare il francese. «Penso che l'incidente d'auto mi abbia fatto diventare una persona migliore e anche più intelligente», ha scritto. Con il suo limitato movimento del polso, Pancho può manovrare una sedia a rotelle elettrica, premendo il joystick con un calzino imbottito legato intorno alla mano con elastici. Nei negozi, si avvicina agli oggetti finché i cassieri non decifrano quello che vuole, per esempio una tazza di caffè. «Lo posano sulla mia sedia a rotelle e io lo porto a casa mia così posso chiedere aiuto per berlo», ha detto. «Le persone qui alla struttura sono rimaste sorprese, mi hanno sempre chiesto, “COME HAI ACQUISTATO E COME HAI DETTO COSA VOLEVI!?”». Pancho lavora anche con altri ricercatori usando gli elettrodi per aiutarlo a manipolare un braccio robotico. Le sue sessioni bisettimanali di conversazione possono essere difficili ed estenuanti, ma non vede l'ora di svegliarsi e alzarsi dal letto ogni giorno, e aspettare che arrivino i suoi UCSF. Lo studio sul discorso è frutto di oltre un decennio di ricerca, in cui il team del Dr. Chang ha mappato l'attività cerebrale per tutti i suoni di vocali e consonanti e ha attinto al cervello di persone sane per produrre un discorso computerizzato. I ricercatori sottolineano che gli elettrodi non leggono la mente di Pancho, ma rilevano i segnali cerebrali corrispondenti a ogni parola che cerca di dire. «Sta pensando alla parola», ha detto il dottor Fried-Oken. «Non sono pensieri casuali che il computer sta captando».  Il dottor Chang ha affermato che «in futuro, potremmo essere in grado di dire ciò che le persone pensano», il che solleva «alcune domande davvero importanti sull'etica di questo tipo di tecnologia». Ma per il momento, ha detto, «si tratta di ripristinare la voce dell'individuo». Nelle attività più recenti, Pancho ha mimato le parole in silenzio e pronunciato parole meno comuni usando l'alfabeto militare: "delta" per "d", "foxtrot" per "f". «È davvero un pioniere», ha detto il dottor Moses. Il gruppo vuole anche progettare impianti con maggiore sensibilità. Man mano che i partecipanti aumentano, gli scienziati potrebbero trovare variazioni cerebrali individuali, ha detto il dottor Fried-Oken, aggiungendo che se i pazienti sono stanchi o malati, l'intensità o la tempistica dei loro segnali cerebrali potrebbero cambiare. «Volevo solo essere in qualche modo in grado di fare qualcosa per me stesso, anche un po'», ha detto Pancho, «ma ora lo so, non lo sto facendo solo per me stesso».

Dagotraduzione da Bloomberg il 17 giugno 2021. Nelle prossime settimane, una società chiamata Kernel inizierà a inviare a dozzine di clienti negli Stati Uniti un casco da 50.000 dollari che può, in parole povere, leggere la mente. Il casco, che pesa circa 9 chili, contiene sensori e altri dispositivi elettronici che misurano e analizzano, alla velocità del pensiero, gli impulsi del cervello e il flusso sanguigno, restituendo dati su come la nostra materia grigia risponde agli stimoli esterni. La tecnologia non è nuova, ma finora è stata montata su macchine enormi da milioni di euro che necessitavano ai pazienti di stare seduti fermi in un ambiente clinico. La promessa di una tecnologia più conveniente che chiunque possa indossare e con cui camminare è, beh, strabiliante. Ricercatori entusiasti prevedono di utilizzare i caschi per ottenere informazioni sull'invecchiamento cerebrale, i disturbi mentali, le commozioni cerebrali, gli ictus e i meccanismi alla base di esperienze precedentemente metafisiche come la meditazione e i viaggi psichedelici. «Per fare progressi su tutti i fronti di cui abbiamo bisogno come società, dobbiamo portare il cervello in linea», ha detto Bryan Johnson, che ha impiegato più di cinque anni e ha raccolto circa 110 milioni di dollari, metà dei quali suoi soldi, per sviluppare i caschi. Johnson è l'amministratore delegato di Kernel, la startup che sta cercando di costruire e vendere migliaia, o addirittura milioni, di caschi leggeri e relativamente economici che hanno la potenza e la precisione necessarie per ciò che neuroscienziati, informatici e ingegneri elettrici hanno cercato di fare per anni: sbirciare attraverso il cranio umano al di fuori dei laboratori universitari o governativi. In quella che deve essere una specie di record per di «no», 228 investitori hanno ignorato la proposta di vendita di Johnson e l'amministratore delegato, che ha fatto fortuna con la sua precedente azienda nel settore dei pagamenti, ha quasi azzerato il suo conto in banca l'anno scorso per mantenere Kernel in funzione. Uno degli elementi centrali del discorso di Johnson è «Conosci te stesso», una frase che si rifà all'antica Grecia, e che vuole sottolineare quanto poco abbiamo imparato sulla nostra testa dai tempi di Platone. Gli scienziati hanno costruito tutti i tipi di test e macchine per misurare il nostro cuore, il sangue e persino il DNA, ma i test sul cervello rimangono rari e costosi, limitando drasticamente i nostri dati sull'organo che più ci definisce. «Se andando da un cardiologo ti chiedesse come si sente il tuo cuore, penseresti che è pazzo», dice Johnson. «Gli chiederesti di misurare la tua pressione sanguigna e il tuo colesterolo e tutto il resto». I primi caschi Kernel sono diretti agli istituti di ricerca sul cervello e, forse meno nobilmente, alle aziende che vogliono sfruttare le intuizioni su come le persone pensano per modellare i loro prodotti (Christof Koch, capo scienziato dell'Allen Institute for Brain Science di Seattle, definisce i dispositivi di Kernel “rivoluzionari”). Entro il 2030, dice Johnson, vuole abbassare il prezzo della gamma e mettere un casco in ogni casa americana. I caschi, dice, consentiranno alle persone di prendere finalmente sul serio la propria salute mentale, di andare d'accordo, di esaminare gli effetti mentali della pandemia e persino le cause alla radice della polarizzazione politica americana. Se l'amministrazione Biden volesse finanziare tale ricerca, dice Johnson, sarebbe più che felice di vendere ai federali un milione di caschi e iniziare. Johnson è una specie di ossessivo delle misurazioni. È in prima linea in quello che è noto come il movimento del sé quantificato. Quasi ogni cellula del suo corpo è stata ripetutamente analizzata e curata da un team di medici, e i loro test ora lo valutano come un decennio più giovane dei suoi 43 anni. Lungo queste linee, vuole lasciare che tutti gli altri analizzino, modifichino e perfezionino le loro menti. Nessuno sa quali saranno i risultati, o anche se questa è una buona idea, ma Johnson si è preso la responsabilità di scoprirlo.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'1 maggio 2021. Quando un bambino cade in un coma profondo, è preoccupante. Ma quando i bambini sono 169, tutti residenti in una piccola area geografica, e distribuiti su più anni, diventa un caso da studiare. Negli ultimi dieci anni in Svezia 169 bambini siriani, tutti figli di famiglie richiedenti asilo che si sono viste respingere la richiesta, si sono addormentati di un sonno talmente profondo da durare mesi, anni. È successo solo ai bambini siriani, in Svezia. Nessun africano nelle stesse condizioni, per esempio. E nessun siriano in un altro luogo del mondo. Prima di addormentarsi, i bambini in questione sono diventati ansiosi e depressi: hanno smesso di giocare con gli altri, poi piano di piano di parlare, infine si sono messi a dormire. Eppure i medici, dopo averli visitati e testati, non hanno trovato nessuna disfunzione che spiegasse il loro sonno. Un mistero che ha provato a indagare la scrittrice scientifica e neurologa Suzanne O'Sullivan, che su questa e altre storie ha scritto un libro dal titolo "The Sleeping Beauties". Secondo la neurologa i piccolo sono affetti da una malattia psisomatica, ma non per questo meno reale, anche se il termine è spesso usato in maniera riduttiva, ad indicare un male frutto dell'immaginazione. O'Sullivan crede che questo male, che è stato ribattezzato "Sindrome da rassegnazione", sia influenzato sia dagli aspetti peculiari delle singole culture che dalla biologia umana. In Svezia, per esempio, i richiedenti asilo sono stati accolti a braccia aperte all'inizio. Ma, gradualmente, l'atteggiamento è cambiato: l'immigrazione è diventata una questione politica e scottante e i richiedenti asilo che solo cinque anni prima avrebbero ottenuto asilo si sono ritrovati respinti. I piccoli sono così passati da una sensazione di sicurezza, provata forse per la prima volta in vita loro, alla paura per il futuro: i bambini, senza rendersene conto, si sono difesi come potevano. «Il corpo è lo specchio della mente» dice la neurologa. Uno di loro ha raccontato la sua esperienza. Si era sentito dentro a una scatola di vetro con pareti fragili, immersa nel profondo dell'oceano. Se avesse parlato, o si fosse mosso, avrebbe creato una vibrazione e frantumato il vetro. «L'acqua mi avrebbe ricoperto e ucciso» ha detto.

Walter Veltroni per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2021. Sembra una favola nera. Ma succede nella realtà. Uppgivenhetssyndrom . «Sindrome della rassegnazione». L'hanno chiamata così, in Svezia. In quel Paese, chissà perché quasi solo in quel Paese, dall'inizio del nuovo millennio si è manifestata, con centinaia di casi, una sindrome fino ad allora sconosciuta. Una patologia, per ora chiamiamola così, che ha colpito centinaia di bambini tra gli otto e i quindici anni che cadono in una condizione prima di abulia e poi di letargo, di catatonia. E dormono, dormono per mesi o anni. Riguarda esclusivamente bambini e bambine che sono arrivati in Svezia dalle repubbliche dell'Ex Urss, dai Paesi balcanici e, più recentemente, ragazzi di origine yazida. Qualche caso è emerso in Australia, sempre tra bambini immigrati. Non è un virus, non è un problema genetico. È una reazione al dolore, alla paura. Un lungo articolo del New Yorker e il bel documentario «Sopraffatti dalla vita» hanno raccontato la natura del fenomeno. I bambini che si addormentano sono tutti figli di immigrati. Nella maggior parte dei casi, sono stati testimoni di violenze terribili avvenute nei loro Paesi e hanno vissuto il clima di terrore che ha spinto le loro famiglie a intraprendere un lungo e spesso spaventoso viaggio. La violenza è entrata nella loro vita nella forma di esperienza diretta - occhi di bambino che vedono morte - e nella condivisione di un'ansia, di un panico che stravolge un nucleo familiare e lo porta a lasciare la propria terra, le proprie relazioni sociali e a migrare verso luoghi sconosciuti: altri paesaggi, altra lingua, altre culture, altre persone. Ma, arrivati alla meta, l'ansia non smette di rincorrere i bambini e i loro genitori. L'attesa della cittadinanza, la Svezia ha molto ristretto l'accoglienza ai richiedenti asilo, è, per le famiglie dei migranti, un incubo. Terrorizza i bimbi il ritorno nella terra della violenza da cui sono fuggiti - spesso la madre è stata violentata o il padre picchiato davanti a loro - o il continuo cercare un luogo della terra dove avere il diritto di esistere. Il bambino non simula, lo hanno stabilito con certezza i medici e lo sanno i genitori che li alimentano con sondine e li trascinano nella stanza, per non fargli perdere il tono muscolare. Il bambino avverte un clima di paura in casa, sente il pericolo e fa scattare la sua estrema difesa, quella di fuggire in un sonno che è riparo, è fuga e conforto. E, dicono gli analisti, è anche l'unico contributo che un bimbo possa dare alla salvezza del suo nucleo familiare. Cosa può fare un bambino, di fronte alla paura del futuro, se non cristallizzare il presente nell'unica forma che gli è consentita? I bambini proteggono sempre i grandi, nei momenti più difficili. Lo fanno come possono, anche dormendo. Il documentario racconta due casi. In uno la richiesta di asilo è stata respinta. Alla prima bambina si è aggiunta allora la sorella più grande. E ora dormono insieme. La seconda famiglia ha invece ricevuto la lettera che concedeva il diritto a fermarsi e i genitori l'hanno letta alla figlia che dormiva da mesi. Pian piano la bambina è tornata a vivere. I medici sostengono che i piccoli, dal loro sonno, percepiscono il clima della famiglia. Lo avvertono dal tono delle voci, dai gesti di cura che ricevono. La serenità è la loro sveglia. Uno dei ragazzi che è «tornato» ha detto al New Yorker : «Non avevo più volontà, ero molto stanco. Mi sentivo come dentro una gabbia di vetro con pareti sottili nel profondo del mare. Parlando o muovendomi il vetro si sarebbe rotto e l'acqua mi avrebbe ucciso, ogni movimento avrebbe potuto uccidermi». Protezione di se stessi e della propria famiglia, bisogno di sicurezza e di serenità. Questo chiedono i bambini che si addormentano. Non c'entra nulla Biancaneve. Non ci sono mele stregate e principi azzurri. Qui c'è il dolore squassante di vite stracciate da traumi prodotti non da calamità, ma da uomini. L'esperienza del trauma prodotto da altri esseri umani, specie se vissuta nel tempo giovanile, lascia un senso di irredimibile terrore. La minaccia non è un'alluvione ma è l'altro, l'umano, e, spesso, l'altro che detiene il potere. Il potere della forza, della violenza. Il potere di mutare il destino tuo e della tua famiglia. Ma forse è proprio il mondo degli adulti, quello del potere, che soffre di «sindrome della rassegnazione», accettando ormai che elementari principi di umanità vengano calpestati da considerazioni di opportunità o, peggio, di volubile consenso. Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah, di fronte ad un bambino impiccato che non riusciva a morire pensò: «Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov' è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva. Dov' è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca». I bambini capiscono molto più di quanto i grandi pensino e la loro mente, specie in quel tempo della vita, è attraversata da una tempesta di sogni e mostri, di desideri e paure, tutte estreme. Quei bambini che dormono, senza saperlo, vogliono salvare il mondo. La loro «rassegnazione» è un grido. È un appello ai non rassegnati. Svegliatevi, per svegliarci.

DAGONEWS da "studyfinds.org" il 25 marzo 2021. Alcuni psicologi all’Università di Miami hanno scoperto che trattenere a lungo le emozioni negative nell’amigdala possa influire negativamente sulla salute mentale a lungo termine. L’amigdala è la struttura a forma di mandorla ai lati del telencefalo, la porzione più grande del cervello, che valuta gli stimoli esterni e regola le nostre emozioni e memorie. “La maggior parte degli studi neuroscientifici cercano di spiegare come il cervello reagisce a stimoli negativi, e non come il cervello trattiene questi stimoli” afferma Aaron Heller, professore assistente di psicologia “abbiamo osservato lo “spillover”, ovvero il modo in cui la reazione emotiva di un evento si diffonde. È fondamentale capire questi meccanismi biologici per comprendere la relazione tra funzioni neurologiche e il benessere giornaliero.”

Provare rancore può influire sul nostro benessere? I ricercatori hanno esaminato il modo in cui l’esposizione a immagini o esperienze ad alto contenuto emotivo su base quotidiana possa influire sul benessere a lungo termine, teorizzando che l’amigdala possa avere un ruolo cruciale in questo processo. Due degli autori della ricerca, Nikki Puccetti e Aaron Heller, hanno analizzato i dati di 52 partecipanti, i quali hanno completato un questionario riguardo il loro benessere psicologico e poi registrato le emozioni negative e positive provate durante la giornata. In seguito, i soggetti sono stati sottoposti a una risonanza magnetica per misurare l’attività cerebrale in risposta a stimoli visivi. I risultati dimostrano che coloro che trattengono per qualche secondo gli stimoli negativi nella loro amigdala di sinistra registrano emozioni più positive nella loro vita quotidiana. D’altro canto, le persone che reagivano più persistentemente alle immagini negative provavano più emozioni negative durante la loro giornata. “Potrebbe essere che, per gli individui con maggiore persistenza nell’amigdala, i momenti negativi possano diventare amplificati o prolungati a causa di un’associazione a esperienze negative non correlate” suggerisce un altro autore dello studio.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 5 ottobre 2021. Da quando, a fine 2016, è stata individuata per la prima volta, la sindrome dell’Avana ha tenuto impegnata l’intelligence americana e le casse del governo degli Stati Uniti, che per scoprirne di più ha speso milioni di dollari. Ma secondo Robert Bartholomew, esperto di sociologia medica, si tratta di un caso di suggestione di massa, e ne è così convinto da aver pubblicato sul tema un libro insieme a Robert Baloh. La malattia, finora rimasta senza spiegazione, è stata registrata per la prima volta a Cuba e da allora si è diffusa nelle ambasciate statunitensi di tutto il mondo (e anche in alcune canadesi): ad oggi sono stati segnalati 130 casi. Tra i sintomi ci sono perdita dell’udito, forti mal di testa, problemi di memoria, vertigini e lesioni cerebrali. «Ci sono più prove per Bigfoot che per la sindrome dell’Avana» dice Bartholomew, statunitense espatriato in Australia dove insegna all’Università di Auckland. «L’evidenza indica in modo schiacciante l’isteria di massa o, come viene comunemente chiamata dagli scienziati, la malattia psicogena di massa. La sindrome dell’Avana è il risultato di funzionari governativi incompetenti e di cattiva scienza. Oserei addirittura ribattezzarla Havana Syndrome Delusion, l’assurda convinzione, sulla scia di persistenti prove contrarie, che i diplomatici siamo presi di mira con un’arma energetica». Secondo Bartholomew infatti è possibile usare il rumore come arma, ma non nel modo in cui le vittime della sindrome dell’Avana sostengono che sia successo. «Nelle Filippine, il governo ha messo la musica di Katy Perry per interrompere una manifestazione. A parte questo esempio, il rumore non funziona bene come arma per via delle leggi della fisica». Secondo Bartholomew ci sono quattro teorie sulla sindrome dell’Avana e su cosa la provoca. L’arma sonora. «La prima teoria è che si tratti di un'arma sonora che usa le onde per far ammalare le persone. Questo è inverosimile perché queste persone all'Avana non sono state prese di mira nell'ambasciata. Sono stati presi di mira in due grandi alberghi. Prendere di mira qualcuno in un enorme hotel sfiderebbe le leggi della fisica: il 99% delle onde sonore rimbalzerebbe contro il muro esterno. Semplicemente non funziona in questo modo».

Pesticidi. «La seconda spiegazione è che si tratti di pesticidi spruzzati per uccidere le zanzare che trasportano il virus Zika. Il problema è che non esiste nessuna neurotossina al mondo in grado di colpire solo i diplomatici americani e canadesi e le loro famiglie e nessun altro». Effetto Frey. «La terza spiegazione è questa roba del microonde, l'effetto Frey [un fenomeno uditivo in cui le microonde o le frequenze radio generano ticchettii all'interno della testa]. Una teoria che ha guadagnato popolarità dopo che la National Academy of Sciences ha pubblicato il suo rapporto e ha affermato che potrebbe essere l'effetto Frey. Ma non erano sicuri. Leggendo attentamente il rapporto, si capisce che si trattava solo di un'ipotesi. La persona che ha identificato il meccanismo nell'effetto Frey è Ken Foster dell'Università della Pennsylvania, è un bioingegnere. L'ho contattato e ha detto che non è sicuramente l'effetto Frey». Malattia psicogena di massa. «Quindi rimane l'unica spiegazione plausibile, che è una malattia psicogena di massa. Le prime persone infette erano agenti dell'intelligence nella stessa area. Questa è una caratteristica distintiva della malattia psicogena di massa. Segue i social network e di solito inizia in questi piccoli gruppi coesi e si diffonde verso l'esterno, ed è esattamente quello che è successo. Queste persone appartengono tutte a un ambiente di lavoro comune. C'è un alto grado di stress, si trovano in un paese straniero, sapevano di essere sorvegliati 24 ore su 24, 7 giorni su 7. È una configurazione classica per l'isteria di massa».

Guido Olimpio per corriere.it il 22 settembre 2021. Ci risiamo. Un altro caso di sindrome dell’Avana e questa volta ha coinvolto un bersaglio speciale: un elemento della Cia al seguito del direttore dell’agenzia, William Burns. L’episodio – denunciato da fonti Usa - è avvenuto a New Delhi nel corso di una recente visita in India, una tappa collegata alla crisi afghana. L’agente del team avrebbe avuto lo stesso malessere sofferto da numerosi funzionari statunitensi all’estero. Oltre duecento di loro hanno raccontato di nausea, perdita dell’orientamento, capogiri, strani ronzii. Una vicenda misteriosa – a tratti accolta con scetticismo - iniziata nel 2016 a Cuba, da qui il nome di sindrome dell’Avana. Con il passare del tempo gli «incidenti». si sono moltiplicati: Cina, Colombia, Uzbekistan, la stessa capitale Washington sono stati coinvolti in eventi non sempre spiegabili. Un altro evento, abbastanza clamoroso, ha riguardato il team della vice presidente Kamal Harris in occasione di un viaggio in Asia. Il Dipartimento di Stato è stato costretto a modificare il programma dopo che due membri del gruppo hanno lamentato guai ad Hanoi. Molte le ipotesi sull’origine dell’attacco, un’indagine che ha coinvolto servizi segreti, specialisti, ricercatori universitari. E naturalmente negli Stati Uniti si è subito pensato all’azione di intelligence ostili, con il personale «bombardato» da onde radio o micro-onde. Una tesi, condivisa da alcuni investigatori, ritiene che tutto sia il risultato prodotto da sistemi di sorveglianza usati da servizi segreti avversari, in particolare russi e cubani. Dunque le «ombre» seguono i bersagli, li spiano impiegando apparati che innescano effetti collaterali. Gli accusati, ovviamente, hanno smentito. Ma c’è anche chi ha suggerito cause diverse, dall’uso di particolari pesticidi all’esterno delle ambasciate al canto fastidioso di insetti. Nella ricerca del colpevole non è mancata neppure l’allusione ad una possibile suggestione. Il dossier è comunque aperto, con la Casa Bianca decisa ad avere risposte precise. Anche perché le situazioni anomale si stanno ripetendo. La Cia ha creato una task force affidata coordinata dal dirigente che ha dato la caccia a Osama. A chiudere, un particolare legato alla missione di Burns. Il numero uno era nella capitale indiana in contemporanea con la presenza di una delegazione di alto livello dell’intelligence russa e questo aveva portato a voci su un incontro riservato tra le due parti. Una sorta di consulto speciale per discutere della vittoria talebana. Circostanza smentita, ma perfetta per la storia della «sindrome».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 agosto 2021. Gli attacchi sono stati a lungo tanto sconcertanti quanto inquietanti: strani suoni acuti che le vittime hanno talvolta descritto come un forte squillo o raschiamento e, altre volte, come rumori elettronici o addirittura come il cinguettio di un grillo particolarmente insistente. Possono essere rumori da spaccare le orecchie o appena udibili, proprio come i sintomi sono stati in alcuni casi minori e in altri devastanti. Ma c'è un po' più di chiarezza su chi è preso di mira: spie del governo degli Stati Uniti, diplomatici e le loro famiglie. Più di 130 di loro in tutto il mondo hanno ceduto a quella che è stata soprannominata la "Sindrome dell'Avana", dal luogo in cui è iniziata cinque anni fa. Secondo quanto riferito, tra le vittime ci sarebbero circa 100 agenti della CIA e i loro cari. E se l'assalto misterioso - che è stato attribuito a un microonde o a un'arma sonica - è davvero, come crede Washington, un attacco di una potenza ostile, ha finalmente colpito ad alto livello. Mercoledì è emerso che il viaggio del vicepresidente Kamala Harris in Vietnam era stato interrotto per i timori della sindrome dell'Avana. Almeno due funzionari statunitensi ad Hanoi, la capitale vietnamita, si sono ammalati durante il fine settimana e hanno dovuto essere evacuati poco prima che la signora Harris si dirigesse lì per rassicurare la gente del posto che li avrebbe aiutati a resistere all'aggressione cinese nel Mar Cinese Meridionale. Il suo volo da Singapore è stato ritardato di oltre tre ore senza spiegazioni e i giornalisti che viaggiavano con la signora Harris hanno avuto sospetti quando il suo portavoce li ha rassicurati, spontaneamente, che il vicepresidente stava "bene". Il suo volo è andato avanti dopo una valutazione della minaccia, hanno detto i funzionari. Date le crescenti domande sull'idoneità mentale di Joe Biden per la presidenza mentre si agita nelle interviste e nelle conferenze stampa, c'è preoccupazione per la capacità del suo vice di intervenire se necessario. Molte vittime della sindrome dell'Avana hanno riferito di aver sperimentato una "nebbia cognitiva". Se le forze sinistre dietro la sindrome, chiunque esse siano, si sono riscaldate in Vietnam per un attacco al Vicepresidente, significa che c’è un'escalation allarmante nel suo utilizzo. Certamente, la Cina - come la Russia, un altro sospetto - non voleva che la signora Harris andasse in Vietnam, i suoi media statali l'accusavano di cercare di creare un cuneo tra la Cina e i suoi vicini del sud-est asiatico. Se il timore della sindrome dell'Avana aveva lo scopo di danneggiare la sua visita, ha funzionato. La signora Harris stava andando ad Hanoi per annunciare, tra le altre cose, una donazione di un milione di dosi di vaccino contro il coronavirus al paese colpito dalla pandemia. Ma il ritardo di tre ore ha permesso alla Cina di far arrivare prima il suo inviato in città e di battere gli americani annunciando l’ impegno a donare due milioni di vaccini cinesi. Gli Stati Uniti si riferiscono ufficialmente alle epidemie della sindrome dell'Avana come "incidenti di salute anomali", ma sotto quel blando eufemismo turbinano una miriade di teorie oscure su cosa la stia causando e chi sia il responsabile. Le vittime si sono ammalate anche in Cina, a Berlino, a Vienna e a Washington DC. Il mistero è iniziato alla fine del 2016, quando i diplomatici statunitensi, le loro famiglie e i funzionari canadesi hanno iniziato ad ammalarsi all'Avana. Le vittime raccontano che gli attacchi di solito sono avvenuti di notte: a volte sentivano strani rumori, che alcuni descrivevano come un suono raschiante o simile al frinire delle cicale o dei grilli. Altri hanno detto che i rumori arrivavano a raffiche di un minuto. Alcuni hanno detto di non aver sentito nulla o di aver solo sentito vibrazioni insolite. A Washington, la questione è diventata di importanza per la sicurezza nazionale. Secondo quanto riferito, la CIA ha incaricato uno degli uomini che hanno aiutato a trovare Osama bin Laden di scoprire chi e cosa sta causando la sindrome dell'Avana. L'attuale opinione è che probabilmente è causato dall'energia a microonde e dal lavoro dei russi – ma Mosca lo nega – anche se l'epidemia di Hanoi potrebbe spostare l'attenzione sulla Cina. Gli esperti della difesa non sarebbero sorpresi se entrambi i paesi fossero coinvolti. Mentre gli Stati Uniti rimangono i migliori nelle armi convenzionali, i suoi due principali nemici ricorrono invece a misure più sottili che non sono considerate un atto di guerra - in questo caso, entrare (letteralmente) nella testa dell'avversario e logorarla.

Sindrome dell'Avana, la nuova arma nella guerra delle spie. Enrico Franceschini su La Repubblica il 26 agosto 2021.  Da qualche anno, dozzine di diplomatici americani sono stati colpiti da strani sintomi: problemi di udito, mal di testa, annebbiamenti. Registrato per la prima volta a Cuba, il fenomeno è poi arrivato a Berlino, Vienna e da ultimo ad Hanoi. Gli americani puntano il dito contro la Russia: che nega. Come ai tempi della Guerra fredda. Uno spettro si aggira per il mondo, ma a differenza di quello vagheggiato da Marx nessuno sa con certezza cosa ci sia dietro. Ha un nome: sindrome dell'Avana. E dei sintomi: mal di testa, spossatezza, nausea, problemi di vista, udito e equilibrio, talvolta perdita di memoria. Il timore è che sia l'ultima arma segreta nelle guerre di spionaggio e che a manovrarla sia la Russia di Vladimir Putin. 

(askanews il 13 maggio 2021) - L'amministrazione Biden sta indagando su una serie di casi di un misterioso malessere che, dallo scorso 2016, sta colpendo il proprio personale in missione all'estero. Inizialmente si credeva che fosse un fenomeno circoscritto ai diplomatici USA di base all'Avana. Successivamente ha colpito anche personale USA di stanza in Cina. Adesso, stando al New York Times, non sarebbero circa 60 ma oltre 130 gli americani - tra spie, diplomatici, soldati e altro personale - presi di mira. Ed il nuovo conteggio includerebbe casi anche in Europa e in altri Paesi asiatici. I sintomi includerebbero mal di testa lancinanti, nausea, spossatezza, vertigini e dolori al collo. Sebbene gli episodi siano stati causa di preoccupazione anche per l'amministrazione Trump, finora gli Stati Uniti non hanno determinato chi o cosa sia responsabile per questo malessere e se gli episodi - che in alcuni casi hanno provato anche danni cerebrali permanenti - possono essere considerati degli attacchi. Seppure alcuni dirigenti del dipartimento alla Difesa ritengono che i responsabili siano i servizi segreti russi, le agenzie di intelligence USA non hanno stabilito alcun legame con potenze straniere. E Mosca ha sempre negato ogni tipo di coinvolgimento. Stando un rapporto pubblicato dall'accademia nazionale delle scienze lo scorso dicembre, a causare il malessere sarebbero delle armi con tecnologia basata sulle microonde o comunque con la possibilità di orientare l'energia.

La "sindrome di Avana": nausea e vertigini, il male misterioso dei diplomatici. "Attacchi a microonde", la nuova arma degli 007. Libero Quotidiano il 24 luglio 2021. La "guerra fredda" che ha per teatro le ambasciate e per vittime designate i diplomatici, è stata battezzata "sindrome dell'Avana".  I primi casi sono stati registrati nella capitale cubana. Era l'autunno 2016 e Obama aveva riallacciato le relazioni diplomatiche nell'illusione di incoraggiare le "aperture" del regime. Dopo qualche mese, scrive il Giorno, una dozzina di funzionari dell'ambasciata americana accusarono vertigini, mal di testa, nausea, ansia, difficoltà di concentrazione e di memoria. Stessi sintomi, duraturi, tra i funzionari dell'ambasciata canadese. Alcuni tanto gravi da riportare veri e propri handicap. Secondo lo studio delle National Academies of Sciences, Engineering and Medicine l'origine di quei sintomi andava attribuita a "dirette energie pulsate da frequenze radio (RF)". Ergo, microonde. Da un altro studio della Pennsylvania University emergeva che in una quarantina di diplomatici il cervello aveva accusato danni neurologici e una diminuzione del 5 per cento della massa bianca. Le indagini risalgono a tre anni fa. Da allora gli attacchi con le presunte microonde si sono estesi alle ambasciate americane nella Cina comunista, in Russia, Polonia, Georgia, Taiwan. E di recente Vienna, Biden ha mobilitato la Cia. Il suo direttore William Burns ha creato una task force e a capo ci ha messo l'uomo che a suo tempo trovò il nascondiglio pachistano di Osama Bin Laden. Le ambasciate Usa si sono già trasformate in fortini tecnologici. Il New Yorker cita fonti dei servizi segreti: il Gru russo avrebbe già sperimentato bombardamenti di microonde su funzionari federali, nella stessa Washington. Lo scopo è rubare dati dai loro computer e dai cellulari. E quanto alle microonde il bersaglio è il cervelletto, secondo la Pennsylvania University. È il cervelletto che controlla l'equilibrio e la coordinazione dei movimenti. Questa è l'ultima frontiera della guerra fredda.

Luigi Guelpa per "il Giornale" il 19 luglio 2021. Le trame di spionaggio sono molto complicate e spesso mosse da aspetti così inspiegabili che prima o poi finiscono inesorabilmente oggetto di attenzioni. Sta accadendo da qualche mese a Vienna, dove una ventina di funzionari dell'ambasciata americana hanno riportato sintomi simili alla Sindrome dell'Avana, una misteriosa malattia cerebrale. I primi casi di questo strano malessere risalgono al febbraio 2017 quando alcuni funzionari della rappresentanza diplomatica degli Usa a Cuba denunciarono disturbi come mal di testa, vertigini e perdita dell'udito che furono ricondotti ad attacchi sonori avvenuti con un'arma ignota. Da qui appunto il nome di Sindrome dell'Avana. A oltre quattro anni da quegli strani fatti la sindrome non è stata ancora spiegata e di tanto in tanto torna alla ribalta, come accaduto di recente al numero 16 di Boltzmanngasse. Stando a uno studio dell'Università della Pennsylvania, i pazienti afflitti dal malessere non mostrano lesioni apparenti agli apparati uditivi, ma le tomografie segnalano danni al cervello simili a quelli riportati durante una commozione cerebrale. Lo studio ha evidenziato che l'energia a radiofrequenza sembra essere la spiegazione più plausibile, e sottolinea che ricerche precedenti su questi disturbi erano state condotte nell'ex Urss. I malori accusati dai diplomatici a Vienna sono venuti alla luce per la prima volta venerdì scorso dalle pagine della rivista New Yorker e confermati dal Dipartimento di Stato Usa.  Sul caso è intervenuto anche il ministro degli Esteri austriaco Alexander Schallenberg, che ha ribadito di lavorare «con le autorità statunitensi». Resta da capire chi stia manovrando la presunta arma segreta. Vienna è tornata da una decina d'anni ai tempi della guerra fredda, quando era un crocevia dello spionaggio internazionale. Oggi gli esperti calcolano che nella capitale austriaca vivano oltre 3mila spie, al lavoro per un'ottantina di nazioni. La città sta ospitando colloqui sul nucleare tra Iran e Stati Uniti. Una mano nemica, armata di ultrasuoni, vorrebbe far saltare il banco.

Austria, la sindrome cubana dei diplomatici Usa. Giampaolo Cadalanu su La Repubblica il 18 luglio 2021. Nel confronto fra le spie di mezzo mondo a Vienna, tornano i sintomi di problemi cerebrali all'ambasciata Usa. Secondo la Cia, è frutto di un'arma russa a microonde. La prima volta che i diplomatici americani impiegati nell’ambasciata all’Avana hanno lamentato misteriosi disturbi, con percezione di suoni e pressione nella testa che causavano cefalee, vertigini e problemi visivi, l’unità comportamentale dell’Fbi li ha liquidati parlando di un problema psicogeno di gruppo: in altre parole, li ha etichettati come persone talmente suggestionabili da provare sintomi di guai inesistenti per averli sentiti da altri.

Usa, misteriosi incidenti a Washington: stessi sintomi della sindrome dell'Avana. La Repubblica il 30 aprile 2021. Indaga l'Fbi. Due persone si sono ammalate in circostanze molto simili a quelle che avevano visto vittime diplomatici Usa a Cuba. La Casa Bianca sta ancora esaminando le notizie di un presunto misterioso attacco a base di energia accaduto lo scorso novembre vicino all'Ellipse, il grande prato ovale a Sud della residenza presidenziale. Lo ha detto un portavoce di Joe Biden. Si tratta di uno dei due episodi su cui stanno indagando le agenzie federali. Quello che sarebbe accaduto vicino al prato ovale, avrebbe causato pesanti malesseri a un dirigente del consiglio per la sicurezza nazionale. In altro episodio del 2019, un dirigente della Casa Bianca avrebbe subito un attacco simile mentre portava a spasso il cane in un sobborgo della Virginia, non lontano da Washington. I sintomi (vertigini, nausea, mal di testa, tintinnio alle orecchie) sembrano simili a quelli della cosiddetta "sindrome dell'Avana", riportati da personale diplomatico americano a Cuba, in Cina e in Russia. Ma gli investigatori Usa non hanno ancora accertato se gli incidenti sul suolo americano siano connessi a quelli accaduti all'estero, che sarebbero stati causati probabilmente da energia a microonde, secondo una ricerca dell'Accademia nazionale delle scienze Usa per conto del dipartimento di Stato. Ancora ignoti la fonte dell'energia e chi eventualmente sia dietro a questi presunti attacchi.

Torna l'incubo della sindrome dell'Avana. E ora colpisce Washington. Gerry Freda l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. La misteriosa sindrome provoca acufene, vertigini, fotofobia, ronzii e mal di testa. Il giallo sull'oscuro macchinario di intelligence. La "sindrome dell'Avana", ossia una misteriosa sequenza di malesseri che aveva colpito dei dipendenti dell’ambasciata americana a Cuba nel 2017 e nel 2018, sembra abbia fatto la sua comparsa sul suolo statunitense. I sintomi della sindrome citata, la cui causa è ancora ignota, sono stati individuati finora dalle pubblicazioni scientifiche in acufene, vertigini, fotofobia, ronzii e mal di testa che possono durare per anni e provocare lesioni cerebrali. La malattia sconosciuta si sarebbe abbattuta, oltre che sui dipendenti, tra cui agenti della Cia, della sede diplomatica statunitense all'Avana, anche su alcuni funzionari dell'ambasciata di Washington a Pechino. Le ricerche mediche e militari su tale mistero si sono finora tutte concentrate sull'ipotesi che imputa quei danni alla salute a un macchinario super-segreto messo a punto dall'intelligence di un governo anti-americanoe. Secondo recenti inchieste delle emittenti statunitensi, la misteriosa malattia si sarebbe appunto manifestata proprio in territorio americano, nell'ambito di due incidenti sospetti segnalati al Senato di Washington a inizio aprile da alti ufficiali della Difesa. A detta degli organi di informazione americani, le autorità militari avrebbero infatti rivelato ai senatori un primo caso di sindrome dell'Avana verificatosi nel 2019 in un sobborgo di Washington, ad Arlington, e un secondo accertato nel novembre dello scorso anno vicino all’Ellipse, il grande prato ovale sul lato sud della Casa Bianca. Il primo caso aveva visto come vittima dell'improvvisa malattia un funzionario della Casa Bianca che portava a spasso il suo cane, mentre nel secondo episodio era rimasto coinvolto un dipendente del consiglio di sicurezza nazionale. Il fatto che i due casi di sindrome dell'Avana si siano improvvisamente manifestati nel cuore del potere federale sta ovviamente mettendo in allarme le istituzioni del Paese. Sulla vicenda il portavoce della Casa Bianca ha precisato: "La Casa Bianca sta lavorando a stretto contatto con i dipartimenti e le agenzie per affrontare incidenti di salute inspiegabili e garantire la sicurezza e la protezione degli americani in servizio in tutto il mondo. Dato che stiamo ancora valutando gli incidenti segnalati e che dobbiamo proteggere la privacy delle persone che segnalano casi del genere, al momento non possiamo fornire o confermare dettagli specifici". A rafforzare la tesi per cui la causa dei malesseri sarebbe un macchinario super-segreto è principalmente il fatto che, ha scoperto la stampa americane grazie alle ultime indiscrezioni filtrate dal Pentagono, i marines di una base remota in Siria avrebbero sviluppato sintomi simil-influenzali, assimilabili a quelli della sindrome incriminata, poco dopo che un elicottero russo aveva sorvolato l'insediamento militare. La tesi che identifica la causa della sindrome con un macchinario è stata quindi ribadita anche da un'autorevole istituzione non-militare, ossia l'Accademia americana delle Scienze. L'ente citato, in uno studio pubblicato a marzo, aveva infatti collegato i malesseri misteriosi a una probabile "energia a radiofrequenza pulsata e diretta", propagata da un'oscura tecnologia.

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

La vera storia dell’attacco acustico ai diplomatici americani a Cuba. Quattro anni fa un suono ossessivo perseguita i funzionari dell’ambasciata Usa nell’isola. Psicosi? Bufala? Oggi le carte rivelano: cavalcare la vicenda fu una manovra trumpiana per innescare una nuova crisi diplomatica. di Daniele Mastrogiacomo su L'Espresso il 24 febbraio 2021. «Sì, lo sento. È capitato anche e me, qualche sera fa, a casa mia. Eravamo in giardino con mia moglie. È durato un’ora e poi è sparito». «Tu cosa pensi? Ci stanno spiando, ci vogliono colpire». La cena tra le due coppie di funzionari dell’ambasciata Usa a L’Avana era stata eccellente. Entrambi arrivati da un paio di mesi con le mogli adesso si godevano novembre, un mese ideale per Cuba. Il periodo, tra l’altro, era esaltante da un punto di vista politico e ricco di prospettive. Sei mesi prima, nel marzo del 2016, Barack Obama era atterrato sull’isola rompendo un tabù durato 54 anni: un presidente americano sanciva la fine del bloqueo in vigore dal 1961. Aveva promesso di sotterrare «l’ultima vestigia della Guerra Fredda». Si apriva il disgelo. Cuba e Stati Uniti d’America tornavano a parlare. «Ma dai, sei assurdo», replicò con una risata il funzionario ospite del suo amico. «Sono i grilli. Qui, i grilli sono di una specie diversa, unica. Lo so, sono fastidiosi, ti rompono tutta la notte». «Sono abbastanza sicuro che non sono i grilli», insistette serio e un po’ risentito il padrone di casa. «È un rumore metallico, provocato da qualcosa di meccanico. Niente di naturale». La conversazione fa parte del centinaio di pagine di verbali e testimonianze contenute in uno dei dossier più controversi nella storia recente dell’intelligence statunitense. Per quattro anni una speciale task force della Cia ha cercato di risolvere il mistero di quella che è diventata nota come la “Sindrome de L’Avana”: una serie di gravi disfunzioni fisiche che vanno dall’emicrania, alla nausea, ai giramenti di testa, mancanza di equilibrio, che sconfinano nella fobia e anche, in casi limite, nella perdita dell’udito. Tre commissioni mediche, in differenti paesi, non sono riuscite a risolvere l’enigma. La sindrome è diventato un vero caso internazionale che ha messo a repentaglio le relazioni tra Cuba e Usa e spento le prime fasi di un disgelo su cui avevano investito i due governi in mesi di sfibranti trattative. Un negoziato condotto nel massimo segreto, con la mediazione del Vaticano, che aveva portato alla liberazione di Alan Gross, un cooperante americano accusato di aver installato illegalmente sull’isola una piattaforma simile a Facebook destinata agli oppositori di Fidel e di Rolando Sarraff Trujillo, ex operativo del servizio segreto cubano definito da Obama «uno degli agenti più importanti che gli Stati Uniti hanno avuto a Cuba». In cambio Washington aveva accettato di rilasciare gli ultimi tre membri del gruppo noto come “Cuban five” che per anni avevano spiato negli Usa prima di essere scoperti e arrestati nel 1998. Dalla sera dei grilli erano passati due anni. Un giorno uno dei due funzionari viene avvicinato da un collega nella sede dell’ambasciata. Gli racconta di un giovane, sulla trentina, atletico, che era stato ricoverato a Miami dopo una permanenza sull’isola. Soffriva di strane nausee e forti mal di testa. Gli specialisti gli avevano diagnosticato una serie di anomalie fisiche tra cui un’acuta perdita dell’udito. Il collega aggiunge qualcosa di più: il giovane aveva raccontato di essere stato colpito da un fenomeno strano e inquietante, un raggio sonoro che sembrava essere diretto proprio su di lui. Il funzionario pensa subito a quello che gli aveva raccontato l’altro collega nella famosa cena di due anni prima. Si adombrò ma non disse nulla. Fu l’amico che lo sollecitò. Gli propose di ascoltare un nastro su cui era inciso quel suono. Era identico a quello che aveva avvertito nell’aria anche lui e che il suo collega dell’ambasciata si ostinava a denunciare come un’offensiva ultrasonica del regime di Fidel. Con una differenza: né lui, né il suo amico, né il terzo collega dell’ambasciata, a differenza del «trentenne atletico», avevano avuto delle conseguenze fisiche. Nel gennaio del 2019 a Cuba il clima era cambiato. Donald Trump aveva vinto le elezioni e tutti, conoscendolo, si preparavano al terremoto che avrebbe provocato. Il nuovo inquilino della Casa Bianca non faceva mistero di voler cancellare ciò che aveva fatto il suo predecessore. Dall’accordo sul nucleare con l’Iran che subito annullò in modo unilaterale, al gelo che voleva di nuovo creare con Cuba. La Cia e l’Fbi avevano chiuso l’ennesima indagine sulla “Sindrome” senza giungere ad alcuna conclusione. Con una differenza che il Bureau sottolineò comunque per iscritto: confermò i sintomi comuni delle vittime ma escluse che queste fossero generate da alcun tipo di apparato sonoro. I funzionari dell’intelligence si soffermarono su una coincidenza che alimentò quantomeno dei sospetti: i primi quattro americani che avevano denunciato l’aggressione sonora, compreso il giovane con prestanza atletica, erano tutti ufficiali della Cia che lavoravano sotto copertura diplomatica. Stesso incarico lo avevano altri due funzionari che erano stati colpiti mesi più tardi. Cia e Fbi non hanno mai raggiunto un accordo e sono rimasti su posizioni diverse. Divergenze sottolineate anche dalle altre agenzie di intelligence e della Difesa Usa. Il vuoto di conclusioni ha finito per trasformare l’anomalia in un giallo degno di Graham Green. Nel giro di pochi mesi, la malattia scatena un panico contagioso. Ne sono colpiti 24 impiegati e funzionari dell’ambasciata Usa a L’Avana e altri 8 di quella canadese. Con effetti e conseguenze diverse: per forma e gravità. Tutti vengono portati via dall’isola e sottoposti ad accurate analisi. Ma niente. Non c’è verso di trovare una risposta convincente. I sintomi dei 24 americani hanno intensità difformi e quelli dei canadesi sono completamente diversi. Il direttore medico del Dipartimento di Stato, Charles Rosenfarb, si spinge a riconoscere che «molto probabilmente sono legati al trauma di una fonte non-naturale» e che «nessuna causa può essere esclusa». Il caso bastava per rompere le relazioni e lanciare l’offensiva contro Cuba. L’amministrazione Trump aggredì il governo di Raúl Castro e lo accusò di aver deliberatamente colpito gli uomini dell’ambasciata. Erano i primi segnali del ritorno della Guerra Fredda. Cuba reagì sorpresa e respinse, sdegnata, un assalto che aveva un suo appiglio, sebbene labile ancora tutto da chiarire; ma appariva chiaramente strumentale. Il presidente cubano offrì tutta la sua collaborazione e propose di partecipare alle indagini. Gli Usa respinsero l’offerta e puntarono il dito anche sulla Russia. La tensione sale alle stelle. Le relazioni diplomatiche vengono interrotte, i locali dell’ambasciata svuotati, il personale ridotto all’osso. Tutto tornava come tre anni prima. Scattano nuove sanzioni, sono revocate le aperture commerciali di Obama, vengono imposti divieti di soggiorno, viaggi, iniziative private per i cittadini americani con minacce di ritorsioni nei confronti di tutti quei paesi legati agli Usa con interessi a Cuba. Sull’isola si crea il vuoto. Chiudono alberghi e ristoranti, le navi da crociera si tengono al largo. Il piccolo fortino comunista è di nuovo assediato dal bloqueo e la crisi torna a mordere. Il Covid-19 fa il resto. Il gruppo di investigazioni dell’ Fbi, dopo essere andato per 4 volte a Cuba e aver visitato i luoghi, due case e tre alberghi, dove era stato avvertito l’ultrasuono, giunge a una prima conclusione certa: «Le malattie e le lesioni riscontrate sui pazienti non sono state causate da alcun tipo di apparato sonoro». Il caso della Sindrome si spegne da solo. Fino alla settimana scorsa. L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca apre anche gli archivi del Segretario di Stato. Vengono desecretati una serie di documenti che offrono una spiegazione al giallo. Niente di scientifico. Retroscena tenuti nascosti e ora più evidenti. Il suono acuto che aggrediva i diplomatici fu «l’occasione» per smantellare il disgelo avviato da Obama. «La decisione di ridurre il personale a L’Avana non ha seguito il protocollo del Dipartimento di Stato», si legge, «e non è stata preceduta né seguita da alcuna analisi formale dei rischi e dei benefici per il personale presente». Le critiche si appuntano soprattutto su Rex Tillerson, ex Segretario di Stato, colpevole di «non aver designato un alto funzionario come responsabile generale dell’inchiesta, e lamenta «l’eccessiva segretezza» della Cia per non aver condiviso le informazioni con il Dipartimento di Stato così «da ritardare la risposta che è considerata eccessiva». Un altro documento conferma che i funzionari americani soffrirono problemi di salute ma ricorda anche che non si è mai potuta stabilire la causa. «Tutto questo ha reso inefficace la reazione che è stata pervasa da mancanza di direzione, inefficacia delle comunicazioni e disorganizzazione sistematica», sentenzia il dossier. Conclusioni amare, sebbene sempre accompagnate da linguaggio diplomatico. Ma che offrono, per la prima volta, un movente più che la causa della “Sindrome de L’Avana”. Una bufala? Tutta una montatura per creare un caso? Osservatori e analisti geopolitici della Regione, anche statunitensi, ne sono convinti. Nessuno era in grado di dire cosa fosse quel suono ossessivo, tra l’altro mai più apparso. La Cia, coperta probabilmente da Tlllerson, lo ha usato per spianare la strada alla politica estera di Donald Trump. Senza avvertire nessuno. In gran segreto. Tramite i suoi agenti che hanno cominciato a insinuare sospetti, incutere timori, generare allarme, suscitare una psicosi tra lo stesso personale dell’ambasciata che finalmente placava la sua angoscia trovando una risposta ai tanti interrogativi. Non erano dei folli, c’era del vero in quel rumore metallico. Lo confermava anche l’intelligence. Il classico lavoro sporco di un progetto più ampio. Dopo un lungo silenzio, con il nuovo embargo in vigore, fino all’inserimento di Cuba nella lista dei paesi «fiancheggiatori del terrorismo», un cronista della Ap ottiene il nastro con inciso il suono della Sindrome. Lo porta dal noto biologo americano Alexander Stubbs che assieme all’etomologo Fernando Montealegre, massimo esperto di acustica degli insetti, lo mette a confronto con il fragore prodotto dall’Anurogryllus celerinictus, un grillo delle Indie a coda corta. È assai diffuso nei Caraibi ed è presente ormai solo in questa area. Era identico. Un grillo. Il nostro grillo all’Avana.

Flavio Pompetti per "Il Messaggero" il 4 febbraio 2021. I problemi per Marc Polymeropoulos sono iniziati quattro anni fa, durante la notte in una stanza d'albergo a Mosca. Era un agente della Cia da 26 anni, e nel corso della carriera aveva sperimentato di tutto: sparatorie, teatri di guerra mediorientali, fughe e inseguimenti, ma nulla lo aveva preparato a quanto gli stava accadendo. Si svegliò nel mezzo del sonno con un forte senso di nausea, e pensò di essere stato vittima di cibo avariato. Si alzò per andare in bagno, ma non riusciva a tenersi in piedi. Provò a rialzarsi da terra, ma non poteva più farlo. Sentiva le pareti della stanza ruotare intorno a lui; al tempo stesso voleva vomitare e si sentiva svenire. Polymeropoulos ha scoperto molto tempo dopo di essere stato vittima quel giorno di un'arma segreta che probabilmente è in mano dei servizi russi. Ancora oggi la Cia e le altre agenzie internazionali di intelligence non ne conoscono il nome, così come ignorano il modo in cui agisce e la sindrome che induce sulle vittime che ne sono colpite. L'agente statunitense nelle ore successive alla crisi pensò di essersi ripreso, e a distanza di giorni fece ritorno a Washington. Ma i sintomi non l'hanno mai abbandonato. Entro la fine dell'anno quattro anni fa dovette mettere fine al brillante curriculum che l'aveva catapultato in una posizione di vertice, al comando di una vasta rete di agenti assegnati a missioni operative in Europa, e da allora vive in uno stato di limbo sanitario, nel quale sono caduti decine di funzionari di ambasciata statunitense, dall'Avana a Pechino. Soltanto negli ultimi mesi la Cia sta ammettendo che bersagli individuali sono stati colpiti tra le sue spie, e che in almeno tre casi le vittime sono state raggiunte all'interno degli Stati Uniti. Il personale medico dell'agenzia sembra aver gettato la spugna nel tentativo di diagnosticare la fonte degli attacchi. Quando il primo caso si verificò nel 2016 nella sede di ambasciata che Obama aveva fatto riaprire all'Avana, la questione fu dibattuta a lungo in pubblico. Si pensava a microonde irradiate negli uffici tramite la manipolazione delle linee elettriche. Poi si è parlato della vibrazione delle ali di una particolare cicala, che può produrre una frequenza dannosa per il cervello. Alla fine in mancanza di una spiegazione conclusiva, il fenomeno resta anonimamente rubricato come sindrome dell'Avana. Il Pentagono ad agosto ha ricevuto le conclusioni di uno studio assegnato alla National Accademies of Science, ma a tutt'oggi si rifiuta di renderlo pubblico, forse perché non lo ritiene attendibile. Subito dopo l'elezione di Donald Trump e in seguito alle interferenze operate dalla Russia durante le elezioni, Polymeropoulos fu incaricato di dirigere una vasta rete segreta di controspionaggio ai danni di Mosca. Né lui né alcuni dei suoi collaboratori a Washington erano mai stati in Russia. Inventarono così una missione di cooperazione con i servizi nemici per sgominare piani terroristici, e partirono alla volta di Mosca. L'ambasciata russa a Washington rilasciò i visti, ma ammonì il gruppo a non effettuare il viaggio. Una volta sul posto, la missione fu accolta con ostilità dalla controparte russa, e gli incontri naufragarono nel nulla. Poi l'incidente al capo missione, che un paio d'anni dopo è stato affiancato dalla improvvisa sordità di cui ha sofferto un collega dello stesso gruppo. Polymeropoulos da anni lotta perché la Cia riconosca che la sindrome della quale è vittima è un incidente sul lavoro. Ha anche ottenuto privatamente una diagnosi di nevralgia occipitale, causata dalle lesione dei neuriti che trasportano informazioni tra due cellule cerebrali contigue. La Cia non risponde alle sue richieste, così come a quelle di tanti altri funzionari che giacciono tra sedie a rotelle e letti di ospedale, ad anni di distanza dall'esposizione ad una probabile arma, la cui esistenza sarebbe forse troppo umiliante da dichiarare, visto che non se ne conoscono ancora le caratteristiche.

L'ultima frontiera della privacy "Il pensiero sarà sotto attacco". Strumenti tecnologici sempre più sofisticati potranno leggere il nostro cervello. E cambiare quello che siamo. Eleonora Barbieri, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Questa volta il Garante ha deciso di occuparsi di dati che più personali non si può, quelli che risiedono, più o meno numerosi e significativi, nella nostra mente. Insomma, i «dati» sono i nostri cervelli e i loro «contenuti», memorie, sentimenti, pensieri, da tutelare quanto le cifre della carta di credito o il documento d'identità, perché essi non sono documenti, sono l'identità stessa. Così abbiamo sempre creduto, almeno da 2.500 anni, anzi già da quando, nelle grotte di Altamira e Lascaux, i nostri antenati hanno iniziato a esprimere la loro anima disegnandola a colori, su delle pareti. Che qualcuno potesse entrare nei loro pensieri, e leggerli, e magari orientarli, era qualcosa di lontanissimo, inimmaginabile, eppure così vicino sulla scala del tempo terrestre: perché è stato in un attimo che siamo arrivati qui, al 2021, a un convegno su «Privacy e neurodiritti: la persona al tempo delle neuroscienze», nel quale il Garante, Pasquale Stanzione, ha - come si usa dire - «lanciato l'allarme», poiché se «oggi strumenti diagnostici avanzati, quali la risonanza magnetica funzionale, possono decodificare diversi tipi di segnali cerebrali», allora c'è il rischio che «in un domani non lontano potranno accedere ai contenuti leggendo i pensieri e influenzare così, addirittura, gli stati mentali e il comportamento». Ecco perché serve «uno statuto giuridico ed etico» per tutelare i «neurodiritti», ecco perché, dopo l'habeas corpus e l'habeas data, al cuore dei nuovissimi «neurodiritti» c'è l'habeas mentem. Che, detto così, parrebbe quasi un'esortazione, o un auspicio: magari ci fosse una mente da difendere, caro Garante. A volte è già sparita, prima ancora di essere attraversata dalla risonanza magnetica. Pensi a quello che succede sui social, a quanto «gli stati mentali e il comportamento» vengano influenzati in un rigurgito di tastiera, e continuino poi, a loro volta, ad autoalimentare perversamente questa influenza nefasta. Comunque, è quasi poetico che Pasquale Stanzione si preoccupi di proteggere la nostra intimità più profonda e inviolabile (in teoria); questo suo interesse è di straordinaria attualità, visto che il dibattito sull'Intelligenza artificiale e l'influenza del mondo digitale e virtuale gira intorno alla questione da qualche anno, e la questione è, appunto, il nostro cervello, nel quale, per esempio, si potrebbero installare «chip che (...) permetteranno di salvare i ricordi e scaricarli su un altro corpo o robot, amplificandoli o cancellandoli selettivamente». Garante, sono parole sue citate dalle agenzie, ma non le ricorda (senza ricorrere a chip) quello che ci ha raccontato Orwell più di settanta anni fa? Siamo sicuri che questa terrificante prospettiva si stia facendo reale proprio ora, e non sia già strisciante da qualche decennio? Certo, adesso ci sono le tecnologie a renderla possibile. Ma forse il problema non sono le tecnologie, bensì le convinzioni che abbiamo su di esse. E, forse, sono proprio queste nostre convinzioni, ormai date per verità, a rendere la tecnologia stessa così «pericolosa». Jaron Lanier, ex hippie, genio della Silicon Valley, spiega benissimo come gli strumenti con cui abbiamo continuamente a che fare, dal computer allo smartphone, siano costruiti apposta per «insegnarti che sei uguale alla macchina»: «C'è questo algoritmo che ti suggerisce di fare qualcosa, tu la fai e, siccome esso è progettato affinché poi le cose sembrino andare meglio, tu pensi che l'algoritmo avesse proprio ragione. Il risultato è che rinunci tu stesso al controllo». Servono davvero strumenti diagnostici o chip futuristici o operazioni da transumanisti? O basta che noi stessi ci convinciamo di essere una macchina, per consentire a qualche inventore/magnate/scienziato di affermare di poter costruire macchine uguali al nostro cervello? Che poi, come dice il Garante, il cervello sia il «limite invalicabile persino per il più coercitivo e totalitario dei poteri», è molto discutibile: i poteri in generale, e quelli totalitari in particolare, mirano da sempre proprio al nostro cervello; e meno ce n'è, meglio è, per loro. Più è vuoto, meno c'è da intervenire. Pensieri, ricordi e sentimenti sono da sempre pericolosissimi, molto più dei chip. Ma, se crediamo di poter essere ridotti a una macchina, li abbiamo già cancellati da soli.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 31 gennaio 2021. Poco meno di due anni fa sulla rivista ufficiale delle Forze Armate russe, Armeysky Sbornik, comparve un articolo che generò infiammate discussioni nonché secche smentite. A firma del colonnello Nikolai Poroskov, l' articolo sosteneva che c' era un battaglione di soldati russi addestrati «a bloccare un computer con il pensiero, interferire con le trasmissioni televisive, comunicare senza parlare». Nonostante l' importanza della rivista, pochi credettero alle parole del colonnello. Tuttavia in queste ultime settimane alcuni documenti desecretati della Cia rivelano che negli anni Novanta le spie americane erano convinte che il Cremlino sia effettivamente riuscito a realizzare con successo esperimenti di parapsicologia. Si tratta di un rapporto di quattro pagine in cui gli 007 citano due scienziati sovietici dediti alle ricerche nel campo della «energia psichica, Konstanin Buteyko e Vlai Kaznacheyev, che avevano operato negli anni Ottanta in Siberia, a Novosibirsk, e in quella che era allora Leningrado e che oggi si chiama di nuovo San Pietroburgo. Gli stessi agenti della Cia scrivono che questi scienziati avevano perfezionato l' Esp (Extra Sensory Perception).

IL RAPPORTO. Il rapporto risale all' aprile del 1991, ma si riferisce al decennio precedente, quando Buteyko applicò a oltre 3 mila pazienti le sue pratiche «non tradizionali», per controllare malattie come asma, allergie, affezioni cardiache, con la forza dell' energia psichica. Da canto suo Kaznacheyev aveva usato volontari per «trasmettere col pensiero immagini geometriche, come cerchi e quadrati». Che l' Unione Sovietica avesse fatto esperimenti nel campo dell' Esp non è certo una novità. Già negli anni Cinquanta un agente del Kgb fuggito negli Stati Uniti, Nikolai Kholkhlov, raccontò che «nella Russia sovietica c' era un interesse considerevole per le ricerche nel campo della parapsicologia». E comunque anche negli Stati Uniti ha fatto esperimenti per imbrigliare i poteri psichici. Qualche lettore ricorderà il film comico L' uomo che fissa le capre, del 2009, in cui si raccontava di esperimenti al Pentagono per arrivare a uccidere le capre (e un giorno possibilmente i nemici) con la forza dello sguardo. Quei fatti erano davvero avvenuti, ed erano stati descritti nel saggio Capre di Guerra del giornalista Jon Ronson. Simili esperimenti sono trapelati negli anni, ma ogni volta smentiti o rinnegati come inutili e senza successo. La novità del documento della Cia è proprio questa: che gli agenti dell' intelligence sembravano convinti che i sovietici fossero riusciti nei loro esperimenti. Ed evidentemente non sono i soli a crederci se due anni fa, poco dopo la pubblicazione dell' articolo del colonnello Poroskov sulla rivista Armeysky Sbornik, è comparsa una conferma su un' altra rivista militare russa, Soldaty Rossii, in cui si sosteneva che nella Russia contemporanea c' è effettivamente un rinnovato interesse per gli esperimenti del passato, e, come scrive Anatoly Matviychuk, ci sarebbero in corso «tentativi di ripescare il lavoro di base di quei tempi». Qual era il lavoro di base? A sentire il documento della Cia, il dottor Buteyko, comunque noto per i suoi studi sull' importanza della respirazione per combattere l' asma, si serviva di due specchi convessi: il paziente veniva posizionato fra i due specchi e gli scienziati cercavano di trasmettergli un' energia psichica che lo aiutasse a sconfiggere le malattie. Il colonnello Poroskov sostiene che le ricerche di parapsicologia sono partite dagli studi dei delfini e dalla loro apparente capacità di comunicare l' un l' altro. Poroskov ha scritto che i ricercatori sono riusciti «a comunicare comandi agli animali senza ricorrere alla parola» e assicura che lo stesso sistema «può essere usato con gli umani». Nonostante il suo scritto e quello di Matviychuk siano comparsi su pubblicazioni ufficiali delle forze armate russe, i comandi hanno smentito. E, val la pena ricordare, anche la scienza ha sempre espresso enorme scetticismo verso simili esperimenti.

·        La Memoria.

Dagotraduzione dal Scientific American il 13 giugno 2021. Si dice che «gli occhi sono lo specchio dell'anima», ma una nuova ricerca suggerisce che potrebbero essere anche una finestra sul cervello. I nostri occhi rispondono a qualcosa di più della semplice luce. Indicano eccitazione, interesse o esaurimento mentale. La dilatazione della pupilla viene persino utilizzata dall'FBI per rilevare l'inganno. Il lavoro condotto nel nostro laboratorio presso il Georgia Institute of Technology suggerisce che la dimensione della pupilla di base è strettamente correlata alle differenze individuali nell'intelligenza. Più grandi sono le pupille, maggiore è l'intelligenza, misurata con prove di ragionamento, attenzione e memoria. In tre studi diversi abbiamo scoperto che la differenza nella dimensione della pupilla di base tra le persone che hanno ottenuto il punteggio più alto nei test cognitivi e coloro che hanno ottenuto il punteggio più basso era abbastanza grande da essere rilevata a occhio nudo. Abbiamo scoperto per la prima volta questa sorprendente relazione studiando le differenze nella quantità di sforzo mentale che le persone usavano per completare gli esercizi di memoria. Abbiamo usato le dilatazioni della pupilla come indicatore dello sforzo, una tecnica che lo psicologo Daniel Kahneman ha reso popolare negli anni '60 e '70. Quando abbiamo scoperto che c’era una relazione tra la dimensione della pupilla di base e l'intelligenza, non eravamo sicuri che fosse reale e neanche che cosa significasse. Incuriositi, abbiamo condotto diversi studi su larga scala in cui abbiamo reclutato più di 500 persone di età compresa tra 18 e 35 anni della comunità di Atlanta. Abbiamo misurato le dimensioni della pupilla dei partecipanti utilizzando un eye tracker, un dispositivo che cattura il riflesso della luce sulla pupilla e sulla cornea utilizzando una fotocamera e un computer ad alta potenza. Abbiamo misurato le pupille dei partecipanti a riposo mentre fissavano lo schermo di un computer vuoto per quattro minuti. Per tutto il tempo, l'eye tracker stava registrando. Utilizzando il tracker, abbiamo quindi calcolato la dimensione media della pupilla di ciascun partecipante. Per essere chiari, la dimensione della pupilla si riferisce al diametro dell'apertura circolare nera al centro dell'occhio. Può variare da circa due a otto millimetri. La pupilla è circondata dall'area colorata nota come iride, che è responsabile del controllo delle dimensioni della pupilla. Le pupille si restringono in risposta alla luce intensa, tra le altre cose, quindi abbiamo mantenuto il laboratorio buio per tutti i partecipanti. Nella parte successiva dell'esperimento, i partecipanti hanno completato una serie di test cognitivi progettati per misurare "l'intelligenza fluida", la capacità di ragionare attraverso nuovi problemi, la "capacità della memoria di lavoro", la capacità di ricordare le informazioni per un periodo di tempo e il "controllo dell'attenzione”, la capacità di focalizzare l'attenzione in mezzo a distrazioni e interferenze. Durante uno dei test di controllo dell'attenzione i partecipanti dovevano individuare sul lato dello schermo di un computer una serie di lettere che apparivano velocemente senza lasciarsi distrarre dall’asterisco tremante presente nell’altra parte dello schermo. Abbiamo scoperto che una maggiore dimensione della pupilla di base era correlata con una maggiore intelligenza fluida, con il controllo dell'attenzione e, in misura minore, con la capacità di memoria di lavoro, indicando un'affascinante relazione tra il cervello e l'occhio. È interessante notare che la dimensione della pupilla era correlata negativamente con l'età: i partecipanti più anziani tendevano ad avere pupille più piccole e più ristrette. Una volta standardizzata per età, tuttavia, la relazione tra dimensione della pupilla e capacità cognitiva è rimasta. Ma perché la dimensione della pupilla è correlata all'intelligenza? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo capire cosa succede nel cervello. La dimensione della pupilla è correlata all'attività nel locus coeruleus, un nucleo situato nella parte superiore del tronco cerebrale con connessioni neurali di vasta portata al resto del cervello. Il locus coeruleus rilascia noradrenalina, che funziona sia come neurotrasmettitore che come ormone nel cervello e nel corpo, e regola processi come la percezione, l'attenzione, l'apprendimento e la memoria. Aiuta anche a mantenere una sana organizzazione dell'attività cerebrale in modo che regioni cerebrali distanti possano lavorare insieme per svolgere compiti e obiettivi impegnativi. La disfunzione del locus coeruleus, e la conseguente rottura dell'attività cerebrale organizzata, è stata correlata con diverse patologie, tra cui il morbo di Alzheimer e il disturbo da deficit di attenzione e iperattività. In effetti, questa organizzazione dell'attività è così importante che il cervello dedica la maggior parte della sua energia per mantenerla. Un'ipotesi è che le persone che hanno pupille più grandi a riposo abbiano una maggiore regolazione dell'attività da parte del locus coeruleus, che avvantaggia le prestazioni cognitive e la funzione cerebrale a riposo. Sono necessarie ulteriori ricerche per esplorare questa possibilità e determinare perché le pupille più grandi sono associate a una maggiore intelligenza fluida e al controllo dell'attenzione.

Robert Nash per it.businessinsider.com il 12 giugno 2021. La vostra memoria non è così buona come probabilmente pensate. Ci affidiamo ai nostri ricordi non solo per condividere avvenimenti con gli amici o imparare dalle nostre esperienze passate; li usiamo anche per cose importanti come la creazione di un’identità individuale. Eppure, l’evidenza mostra che la nostra memoria non è così coerente come ci piacerebbe pensare. C’è di peggio: cambiamo spesso i fatti aggiungendo falsi particolari, senza accorgercene minimamente. Per capire un po’ come funzionano i ricordi, proviamo a pensare al gioco del passa parola. In questo gioco, una persona sussurra un messaggio all’orecchio della persona accanto, che a sua volta lo trasmette alla successiva, e così via. Ogni volta che il messaggio passa da una persona all’altra alcune parti possono essere confuse o non capite, altre invece alterate in modo innocente, migliorate, o dimenticate. Passaggio dopo passaggio il messaggio può diventare molto diverso dall’originale. Lo stesso può accadere ai nostri ricordi. Ci sono infinite ragioni per le quali ogni volta che richiamiamo gli eventi passati compaiono errori o abbellimenti: da cosa crediamo sia vero a ciò che vorremmo lo fosse; per qualcosa che qualcun altro ci ha detto sull’evento in questione, o per ciò che vorremmo quella persona pensasse. Ogni volta che si manifesta una lacuna, ciò può avere effetti a lungo termine su come in seguito saremo in grado di richiamare quel ricordo. Prendete ad esempio il raccontare. Quando descriviamo i nostri ricordi ad altre persone, usiamo modi diversi di raccontare secondo chi sta ascoltando. Potremmo esserci chiesti se fosse importante attenerci ai fatti, piuttosto che far ridere il nostro interlocutore. Secondo il carattere dell’ascoltatore o la sua opinione politica potremmo voler cambiare alcuni particolari della storia. Alcuni studi mostrano che quando raccontiamo i nostri ricordi a uditori differenti non è solo il messaggio a cambiare, ma a volte anche il ricordo stesso. Questa cosa è conosciuta come “effetto sintonia con l’ascoltatore”. In uno studio sull’effetto sintonia con l’ascoltatore, ai soggetti è stato mostrato un video di una rissa in un bar. Nel video, due uomini ubriachi vengono alle mani dopo che uno dei due ha litigato con un amico, e l’altro ha visto la sua squadra di calcio preferita perdere una partita. I partecipanti allo studio sono poi stati invitati a raccontare a un estraneo ciò che avevano visto. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi. A un gruppo è stato detto che all’estraneo in questione non piaceva uno dei due contendenti nel video. All’altro gruppo che lo stesso personaggio gli era invece gradito. In modo prevedibile, questa informazione aggiuntiva ha plasmato il modo in cui le persone avrebbero descritto il video all’estraneo. Convinti che fosse sgradito all’estraneo, i soggetti descrivevano negativamente il comportamento di quel determinato contendente. E, ancora più importante, il modo in cui le persone hanno in seguito raccontato la loro storia ha finito per influenzare il ricordo del comportamento di quel contendente. Quando più tardi i partecipanti hanno tentato di ricordare quella rissa in modo neutrale e imparziale, i due gruppi hanno comunque fornito resoconti in qualche modo divergenti su ciò che era accaduto, riflettendo l’atteggiamento del pubblico presente la prima volta. In una certa misura, le storie raccontate dai partecipanti avevano finito per diventare i loro stessi ricordi. Risultati come questi mostrano come i nostri ricordi possono cambiare spontaneamente nel tempo, per effetto del come, quando e perché vi abbiamo avuto accesso. A volte, il semplice atto di riorganizzare un ricordo può essere esattamente ciò che lo renderà suscettibile di un’alterazione. Questo fenomeno è noto come “retrieval-enhanced suggestibility” (suggestionabilità aumentata dal richiamo). In un classico studio su questo effetto, ai partecipanti è stato fatto vedere un breve film, per poi fare un test di memoria qualche giorno più tardi. Nei giorni tra l’aver visto il film e fare il test di memoria sono però successe altre due cose. A una metà dei partecipanti è stato somministrato un test di memoria per allenarsi, mentre a tutti è stato fatto leggere un riassunto del film contenente falsi particolari della storia. L’obiettivo di questo studio era capire quanti falsi dettagli sarebbero passati nel test di memoria definitivo. Centinaia di ricerche già dimostrano che le persone aggiungono involontariamente falsi dettagli di questo tipo ai loro ricordi. Questi stessi studi dimostrano però anche qualcosa di ancora più affascinante. Sono stati i partecipanti che avevano fatto il test di allenamento appena prima di leggere le false informazioni a mostrare le maggiori probabilità di riprodurle nel test finale. In questo caso, la pratica rende imperfetti. Perché mai? Secondo una teoria, riorganizzare un ricordo di eventi passati può rendere malleabile il ricordo stesso per un certo tempo. In altre parole, richiamare qualcosa alla memoria è come tirare fuori dal congelatore un gelato e lasciarlo al sole per un po’. Nel tempo che il nostro ricordo impiega a tornare nel freezer si può facilmente avere una deformazione, specialmente se nel frattempo qualcuno s’intromette. Questi risultati ci insegnano molto sul modo in cui i nostri ricordi si formano e si conservano. Potrebbero anche portarci a chiederci quanto dei nostri ricordi più cari sia cambiato dalla prima volta che li abbiamo ricordati. O forse no. Dopo tutto, la ricerca fatta da me e altri colleghi mostra che generalmente le persone sono abbastanza riluttanti a controllare la precisione dei propri ricordi. Che vi accorgiate o no dei cambiamenti grandi o piccoli già avvenuti, è poco probabile che i vostri ricordi più cari siano precisi al 100%. Dopotutto, ricordare è un po’ come raccontare. I nostri ricordi sono affidabili quanto la storia più recente che abbiamo raccontato a noi stessi.

·        Le Emozioni.

Tu chiamale se vuoi (e puoi) emozioni. Ma poi sappiamo cosa sono davvero? Solo di recente la sociologia ha iniziato a occuparsene, ma Norbert Elias è stato un precursore. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud l'1 agosto 2021. Perché il terreno delle emozioni pare essere diventato una palestra di esibizione per fantomatici professionisti che si autodefiniscono coach, dopo essere stato quasi sempre un mondo riservato agli psicologi? E in realtà, si può parlare di emozioni anche in una prospettiva differente? Proviamo a ragionare, da sociologi. In realtà, quando pensiamo alle emozioni, tendiamo ad immaginarle come qualcosa che riguardi esclusivamente la nostra sfera personale e individuale. Amore, felicità, odio: sono tutti termini che sembrano rimandare alla nostra interiorità, a qualcosa che ci appartiene ed è solo nostro. In realtà le emozioni sono fenomeni sociali almeno per due ordini diversi di motivi. Intanto perché noi impariamo in fondo a dare un nome alle emozioni a partire dai nostri rapporti sociali. Pensiamo a quando si interagisce con dei bambini: inizialmente l’interazione – anche parlando di emozioni – avviene attraverso il linguaggio del corpo e la mimica facciale. Solo quando si arriva all’età della parola allora quelle espressioni del viso e quei movimenti del corpo prendono il nome delle emozioni, diventando così rabbia, gioia, felicità, tristezza. Ecco quindi che la capacità di caratterizzare per mezzo di un preciso termine un’emozione è, nei fatti, una competenza sociale: intanto perché è socialmente appresa, e poi perché usandola nell’interazione con le altre persone diventa socialmente condivisa. Il secondo ordine di motivazioni pertiene invece alle conseguenze sociali che hanno proprio le emozioni; in particolare quando diventano base collettiva per alcuni comportamenti che, in ultima analisi, cambiano sia il nostro rapporto con gli altri con i quali abbiamo interazioni sia, in senso ampio, la società stessa in cui viviamo. È il caso, per esempio, della felicità. Una sorta di chimera, qualcosa a cui si mira sempre e comunque. Felicità vo’ cercando si potrebbe dire parafrasando la celebre “libertà vo cercando” di Virgiliana memoria nel racconto a Dante relativo a Catone. La felicità sta li, bella e impossibile per tutti, e allora per raggiungerla quasi ogni mezzo è lecito; anche quello, paradossale, dell’abuso di farmaci, in un processo di medicalizzazione e conseguente farmacologizzazione della vita e, appunto, delle emozioni. Le emozioni, insomma, sono collettive e scatenano comportamenti sociali ben definiti, aiutati in questo anche dalla comunicazione. È il caso per esempio della recente pandemia che ha colpito il mondo, con una condivisione di termini quali fiducia, speranza, paura a caratterizzare gli stati d’animo che ci hanno attraversati. Le emozioni sono insomma, a pieno titolo, veri e propri fenomeni sociali. Stabilito questo, ci si aspetterebbe quindi analisi e studi approfonditi da parte dei sociologi su questo campo di indagine veramente molto promettente e fecondo. In realtà non è così. Solo di recente infatti, qualche sociologo ha cominciato ad occuparsi in maniera sistematica di una vera e propria Sociologia delle emozioni: un tema, appunto, quasi totalmente assente da un elenco, anche allargato a dismisura, di temi sociologici classici. Certo, in qualcuno dei padri della sociologia qualche traccia è possibile trovarla, sia pure in contesti totalmente differenti da quelli in cui ci si potrebbe attendere di trovare un concetto di questo tipo: pensiamo per esempio a Comte e Durkheim, le cui intuizioni sul ruolo delle emozioni nella riproduzione dell’azione morale e dell’ordine sociale sono intimamente legate al loro approccio alla sociologia della religione. Discorso differente invece per Norbert Elias, oggi considerato uno dei sociologi tedeschi più importanti. Solo oggi, però. In vita Elias è rimasto pressoché sconosciuto al grande pubblico, e nonostante avesse scritto le cose migliori nel corso degli anni ’30 del secolo scorso, vide la sua carriera accademica cominciare molto tardi, nel 1954 all’età di 57 anni all’Università di Leicester, per poi proseguire in Ghana prima e in Germania in seguito. L’opera principale di Elias resta in ogni caso “Il processo di civilizzazione” uscito per la prima volta in Germania nel ’39 e tradotto in inglese solo nel ’62. Negli studi del sociologo tedesco sul processo di civilizzazione si trovano infatti tracce di una teoria delle emozioni e dei sentimenti come costruzioni sociali. Per Elias infatti – ed è la prima volta che un sociologo di fama ne parli in maniera così particolareggiata – le emozioni e le loro forme espressive sono fortemente correlate ai contesti sociali in cui nascono e si manifestano. Le emozioni hanno una loro storia che non può essere separata da quella della stratificazione sociale, delle organizzazioni sociali, della diversa distribuzione del potere. A ogni struttura sociale corrisponde quindi una struttura delle emozioni e dei sentimenti; la loro inibizione, repressione o libera espressione dipende dalla loro funzionalità proprio rispetto ai differenti sistemi sociali. La grande intuizione di Elias è stata di ancorare saldamente lo studio delle emozioni a quello della struttura e stratificazione sociale e di spiegare come non solo società diverse producono diverse emozioni, ma anche come classi sociali diverse generano emozioni ed espressioni emozionali che possono essere anche molto differenti tra loro. Esempi di grande rilevanza, in tal senso, sono per esempio quelli brillantemente riportati: il senso del pudore, della vergogna e della ripugnanza. Va detto anche che per Elias lo studio e l’approfondimento del sistema di emozioni non è fine a se stesso, anzi. È calato perfettamente in un quadro di azione e attori sociali centrale, tanto da fargli dire: “Da tempo è saldamente radicata nella coscienza degli uomini l’idea che la «psiche», ossia l’economia psichica, si componga di differenti zone che funzionano indipendentemente le une dalle altre e che come tali debbano quindi essere esplorate. […] Così la ricerca storico-concettuale e quella sociologica della conoscenza cercano di esplorare l’uomo partendo innanzitutto dalla conoscenza e dal pensiero. […] Ma ogni tipo di ricerca che prende in considerazione soltanto la coscienza degli uomini, la loro «ratio» o le loro «idee», e non tiene conto altresì della struttura delle pulsioni e dell’orientamento e conformazione delle emozioni e passioni umane, è destinato a priori a essere poco fruttuoso”. Ha ragione da vendere. Avrebbero dovuto capirlo anche coloro i quali hanno perseguito nella semplicistica considerazione della sociologia come “fisica sociale” un percorso scientifico che non ha potuto avvalersi del formidabile approccio di quella parte di metodi chiamati, non a caso, “non standard”. Lo avessero capito, forse la sociologia avrebbe avuto un ruolo ancora più importante nel processo di interpretazione dei comportamenti collettivi. E per restare al presente, basti pensare a come diversi modelli di società – con differenti sistemi di valori alla base delle stesse – hanno reagito a quell’enorme situazione sociale che ha rappresentato (e rappresenta ancora) la sindemia Covid19. A come emozioni differenti siano state alla base delle scelte governative di contrasto al contagio, di comportamenti collettivi, di scelte individuali. Anche le emozioni, insomma, sono culturalmente determinate.

·        Il Rumore.

Stefania Vitulli per “il Giornale” il 22 Agosto 2021. Divergenze, anzi, pareri opposti: nelle previsioni meteo, o in quelle pandemiche; nel rimpatrio di un rifugiato (negli Stati Uniti uno degli studi sulle decisioni dei giudici in tema di concessione di asilo si chiama «Refugee Roulette»), ma anche nella concessione di un mutuo; nell'assunzione di uno stagista o di un manager, ma anche nell'interpretazione di una ecografia. Di chi è la colpa, o meglio di che cosa? Il titolo, Rumore (in uscita il 7 settembre per UTET, pagg. 496, euro 24, traduzione di Eleonora Gallitelli) non rende giustizia a questo saggio a sei mani firmato dallo psicologo israeliano Nobel 2002 per l'Economia Daniel Kahneman (quello di Pensieri lenti e veloci, Mondadori), dal giurista di Harvard Cass R. Sunstein (quello di La spinta gentile, Feltrinelli), e dal guru della consulenza strategico-decisionale Olivier Sibony. Non fosse per il sottotitolo, Un difetto del ragionamento umano, si potrebbe pensare a un trattato sull'inquinamento acustico o sui disturbi dell'udito. Eppure la colpa di tutte queste «deficienze» è proprio del «rumore». Quello percepito non dalle orecchie, bensì dal cervello: le situazioni rumorose rendono la nostra vita una sgradita e inaspettata lotteria. Bisogna andare sotto la punta dell'iceberg - e creare complessi sistemi di «audit del rumore», ma questa è la parte più tecnica del volume - per trovare le cause delle interferenze e fare scoperte scioccanti, come quella che toccò qualche anno fa a Kahneman: partecipò ad uno studio condotto da una società di assicurazione per stabilire il quoziente di errore dei propri periti. Pensiamo che tra periti assicurativi diversi messi al lavoro sullo stesso caso ci possa essere un ragionevole discostamento, poniamo del 10 per cento? Lo studio dimostra che lo scostamento arriva a oltre il 50 per cento: il che significa opzioni di risarcimento che sono una la metà dell'altra. Il rumore non è questione di gusto: se cinque critici letterari ci danno pareri diversi su un romanzo non ne siamo sorpresi, mentre i capi dell'assicurazione di cui sopra scoprirono all'apparenza per la prima volta il sapore amaro di quella che gli autori chiamano l'«illusione dell'accordo». Ovvero una nebbiolina che copre, giorno dopo giorno, le nostre decisioni, inguaiandoci sempre più. Secondo i tre autori, sono soprattutto i gruppi a favorirla e questa nebbiolina crea terreno fertile per le occasioni di rumore: il buono o cattivo umore in primis; la «ricettività alle stronzate» (come ben spiega il volume, «stronzate» è diventato un termine tecnico da quando un filosofo di Princeton, Harry Frankfurt, ci ha intitolato un saggio); l'ordine in cui il caso, i candidati, il reperto vengono presentati; il livello di fatica richiesto; il fatto, ebbene sì, che piova o ci sia il sole. C'è poco da scherzare, come ben sanno gli scommettitori: tutti questi fattori e altri sono rumore che influenza il ragionamento umano e lo influenza in modo diverso ogni volta. Perché in ogni momento siamo diversi, non solo dagli altri, sottolinea a ogni passo il volume, ma anche da noi stessi. Ci sono voluti i tre cervelli del fondatore della finanza comportamentale Kahneman, del fustigatore dell'irrazionalità Sunstein (lo sa bene l'ex presidente Obama, che lo volle tra i suoi consulenti di governo) e di un ex socio senior di McKinsey, dove ha speso 25 anni della sua vita, come Sibony, per produrre, e ci hanno messo anni di studi, un manuale tutto sommato agile su come colmare almeno in parte il grande vuoto che ci separa dalla possibilità di ottenere decisioni, giudizi, previsioni, diagnosi non solo oggettive, ma assimilabili, e con una percentuale di errore tollerabile. Dato che nessuno, lo ripetiamo, è immune dal prendere abbagli e commettere aberrazioni che possono cambiare intere esistenze e produrre al tempo stesso ingiustizie cosmiche, né giudici, né arbitri sportivi, né amministratori delegati o capi di Stato, né una delle categorie che ci sta ovviamente più a cuore, ovvero scienziati e medici, le quasi cinquecento pagine di questo tomo, già tra i libri del 2021 per il Financial Times, sono tra le più stimolanti della rentrée: nella seconda parte del volume infatti - alla faccia dell'economista Nassim Taleb che post crisi 2008 scrisse Il cigno nero, bestseller mondiale contro la mania di controllo imposta dal ragionamento predittivo - i tre passano al vaglio l'apparente mancanza di rumore presente in regole, formule, algoritmi per capire se non contribuisca, in qualche modo, a incrementare gli errori, invece che a ridurli, chiedendosi finalmente: se il rumore è ubiquo, com' è che non ce ne siamo accorti prima? Ci tortura il mal di schiena, non ci teniamo più né in piedi né seduti, una diagnosi diventa urgente e sentiamo tre specialisti sulla base degli stessi esami. Il primo dice che dobbiamo operarci immediatamente. Il secondo crede fermamente nella possibilità di un recupero grazie a un costante esercizio fisioterapico per poi, tra qualche mese, rivalutare la situazione. Il terzo consiglia farmaci per un mese e, se non miglioriamo, l'operazione. Com' è possibile che tre voci «scientifiche» divergano in tal modo, nonostante le premesse oggettive? Il vero problema con il rumore è che è umano. Si mimetizza nella sua stessa spontaneità. Incoerenza, incostanza, supponenza, superficialità, tendenza a generalizzare e altre malformazioni dell'ingranaggio decisionale riconducibili al rumore non sono prevedibili, perché, a differenza del pregiudizio o della malafede, non sono sistematiche, ma generate in modo casuale. Dunque non solo non vi prestiamo attenzione, ma anche quando ce le fanno notare, ce ne dimentichiamo. Su questa grande verità si concentra la seconda metà del volume, nel tentativo di addestrarci, poi, a riconoscere il rumore e seguire una «igiene della decisione». Perché il guaio del rumore non è il fatto che esista, quanto che vogliamo vederlo. Trascurato o sottovalutato, avvelena le nostre vite proprio nel momento in cui vorremmo affidarci a «chi ne sa più di noi».

·        La Pazzia.

Al gran ballo delle pazze: un giorno di normalità nell’inferno dei manicomi. Nella Parigi dell’Ottocento, e poi anche in Italia, le sale degli ospedali si aprivano e le pazienti si mescolavano all’alta borghesia. Per una serata danzante a metà tra l’esperimento terapeutico e la pièce teatrale. Maurizio Fiorino su L'Espresso il 5 maggio 2021. Parigi, fine Ottocento. In un’ala della Salpêtrière – l’enorme ospedale nel XIII arrondissement che, nei secoli, è stato prigione per prostitute e manicomio per folli, criminali, epilettici e isterici – Jean-Martin Charcot, il celebre neurologo, inizia un corso su isteria e ipnotismo. In breve tempo, i suoi studi ottengono un successo tale che ogni settimana centinaia di studenti da tutta Europa - tra i più celebri il giovane Sigmund Freud - raggiungono il nosocomio per ascoltarlo. Trascorso più di un secolo, Victoria Mas, una giovane scrittrice nata e cresciuta nel nord della Francia, alla Salpêtrière decide di ambientare il suo primo romanzo, “Il ballo delle pazze” (edito da Albin Michel), un caso editoriale, che dopo aver vinto numerosi premi diventerà presto un film. In Italia è stato pubblicato dalle edizioni e/o, tradotto da Alberto Bracci Testasecca. Il fulcro della storia è già nel titolo: si tratta del ballo di marzo che la Parigi dell’Ottocento definiva, per l’appunto, “il ballo delle pazze” dove, aperte le porte del manicomio per una sera, le alienate, travestite in abiti d’epoca e agghindate di tutto punto, diventavano una forma di intrattenimento a uso e consumo dell’alta borghesia dell’epoca. Parrebbe un espediente letterario ben riuscito se, invece, non si trattasse di un’attività poco conosciuta, sperimentata in numerosissimi manicomi e praticata fino alla loro chiusura definitiva. Non solo in Francia, ma anche in Italia. Se, come sottolinea Fulvio Librandi, docente di Etnologia all’Università della Calabria, l’esibizione delle eccentricità altrui richiama i “freak show” e gli spettacoli delle anomalie fisiche e mentali andati avanti per oltre un secolo, le serate di ballo all’interno dei manicomi furono, in realtà, una trovata a metà strada tra il mero esperimento psichiatrico e uno stratagemma in cui andava in scena quella che era a tutti gli effetti una pièce teatrale, in cui i medici potevano, nel mentre, studiare la reazione dei propri pazienti. «Lo ha descritto molto bene Jean Starobinski nel suo studio sul trattamento della malinconia», spiega l’antropologo Vito Teti, citando l’approccio di Philippe Pinel e le sue teorie sulla teatralità del trattamento. «In pratica, per raggiungere il malato nel suo mondo, secondo Pinel il medico doveva mettere in scena un contesto tale da imporlo al proprio paziente come rappresentazione esatta del suo delirio mentale», prova a riassumere. Di conseguenza, il travestimento non era un gioco: il malato doveva avere la convinzione di far parte di un avvenimento reale e di grande importanza. Il fatto che le serate danzanti facciano parte di una storia italiana poco conosciuta e finora mai raccontata, è dovuto in larga parte alla difficoltà di reperire i documenti. La maggior parte degli archivi è ancora in fase di digitalizzazione e, di conseguenza, in attesa di essere catalogata. Ne sa qualcosa Manuele Bellonzi, un giurista appassionato di storia, soprattutto quella delle malattie mentali. È grazie alle sue incursioni nell’Archivio di Stato di Firenze che, qualche anno fa, è venuto alla luce un documento del 1845, in cui si legge: «Domani sera avrà luogo nella sala, che serve per le pubbliche lezioni, l’autorizzata festa di ballo per il sollievo dei reclusi nel manicomio, che comincerà alle ore 5 pomeridiane e durerà fino alle ore 11, avendo così combinato il Direttore». All’epoca, il professor Francesco Bini era appena stato nominato direttore del manicomio di via San Gallo, nel capoluogo toscano. Fu lui, ventinovenne e già a capo di un’intera struttura sanitaria, a voler sperimentare nuove forme di cura e, tra queste, introdusse una serata di ballo aperta alla società fiorentina. «A Firenze andar dal Bini era sinonimo di impazzire o andar fuori di testa e, all’epoca, le sue teorie erano considerate stravaganti», spiega Bellonzi. Il fatto che intorno alla decisione di aprire le porte del manicomio all’alta società, anche solo per una sera, regnasse nervosismo, è dimostrato da un’altra lettera che l’appassionato di malattie mentali ha ritrovato, scritta, questa, dal Soprintendente al Commissario in via precauzionale. Bellonzi riferisce il contenuto della missiva: che chiedeva se «colle debite cautele e vigilanza si potesse accordare la licenza pel trattenimento che si propone, il quale però sebbene il professor direttore non lo specifichi, parrebbe che non dovesse aver luogo che fra individui dello stesso sesso». Grazie ad altre testimonianze, scopriamo che l’esito dell’esperimento fu inaspettatamente positivo. Non avvenne nessun tipo di incidente e, in una lettera scritta il giorno dopo, leggiamo che vi presero parte «alienati 51» (31 donne e 20 uomini). «A quanto pare, non solo la raccomandazione di tenere i sessi separati non ebbe seguito», conclude Bellonzi, «ma scopriamo che alla serata presenziarono diverse persone, tra cui il Commissario e, come, si legge nella nota, anche alcune distinte signore, alcuni professori e molti impiegati di Santa Maria Nuova». Se in quell’era le idee del professor Bini erano innovative, l’antropologo Vito Teti, citando una conferenza tenuta da Michel Foucault negli anni Settanta, sottolinea come già nel Medioevo la sola grande festa non religiosa era la cosiddetta “festa della follia”, in cui la gente imitava i folli. «Poi, in epoca moderna, prima della nascita dei manicomi, avveniva un duplice e interessante rovesciamento: a Carnevale i folli diventavano normali e si univano, festeggiando, coi sani», spiega Teti. La testimonianza dello scrittore pesarese Paolo Teobaldi sembra andare in questa direzione. Anche lui, come Victoria Mas, in un ospedale psichiatrico ha ambientato un intero romanzo, “Il mio manicomio” (edizioni e/o). «Mia madre lavorava al San Benedetto come guardarobiera e il suo era un reparto, mettiamola così, più leggero degli altri», racconta. «Si occupava di cucire e stirare i panni degli internati, comprese le camicie di forza. Veniva aiutata dai Tranquilli, ovvero quegli internati di cui, bene o male, potevi fidarti a differenza degli Agitati». Erano gli anni Cinquanta e Teobaldi, all’epoca poco più di un bambino, venne portato da sua madre a un ballo in maschera coi pazienti dell’ospedale dove lavorava. «Come molti altri figli del personale, al manicomio ero di casa», scherza: «Mia madre aveva l’obbligo di non aprire bocca sulle storie che riguardavano il proprio lavoro, perciò c’era una grande curiosità su ciò che accadeva dentro il San Benedetto. Per noi il ballo di Carnevale era un vero e proprio evento», aggiunge. «Partecipavano alcuni ricoverati ma anche gli infermieri, i medici, gli amici di famiglia e quelli, soprattutto dei dottori. Spesso, perciò, gli invitati erano famiglie notabili, coi loro figli e i relativi amici, ma anche le famiglie del personale e le monache. Oltre ai malati e ai dipendenti, c’era quella che all’epoca veniva considerata la Pesaro bene». Di quelle serate, Teobaldi ricorda il senso di confusione che regnava sovrano. «Il carnevale è di per sé confusionario ma in quelle feste c’era un qualcosa di più inquietante: per esempio i medici che, nonostante le maschere, continuavano a fare il loro lavoro e quindi a essere medici, così come le suore. Ricordo, per esempio, lo sguardo sempre teso e vigile della superiora che teneva costantemente tutto sotto controllo», racconta. Torna alla mente ciò che scrisse il medico tedesco Johann Christian Reil, ovvero colui che coniò, per primo, il termine “psychiatrie” nei primi anni dell’Ottocento e che, riferendosi all’importanza degli oggetti sull’animo umano, ne rivendicava l’importanza. Secondo lo psichiatra tedesco, ogni manicomio doveva avere un teatro in buone condizioni, funzionante, provvisto di maschere, macchinari e scenografie. Per poter creare un simulacro di normalità dentro il quale il folle poteva ritrovare se stesso.

·        Il Cute e la Cuteness. 

Psicologia. “Ti ammazzerei di baci”. Il fenomeno della cute aggression. Quando si ha a che fare con bambini e cuccioli animali, alla tenerezza si può accompagnare una quota di aggressività (positiva). È un fenomeno scientifico chiamato "cute aggression". Riccardo Germani, Psicologo e redattore di psiche.santagostino.it il 26 Giugno 2018.

Bambini e cuccioli fanno spesso tenerezza. Ciò dipende dall’evoluzione: devono suscitare istinti di cura e protezione. Una ricerca recente, però, suggerisce che di fronte ai piccoli la tenerezza diventa un’emozione più complessa, che contiene una componente di irritazione. Questo fenomeno è stato definito cute aggression.

Trovarsi di fronte a bambini piccoli o a cuccioli animali induce in molte persone emozioni complesse. Oltre all’istinto di accudimento e una scarica di energia positiva, infatti, emergono anche impulsi quasi aggressivi. Si tratta di sentimenti di cura e affetto, che però contengono un aspetto di nervosismo e aggressività. Ci coglie una sorta di urgenza, che spinge a voler stuzzicare, stringere, pizzicare le guance del piccolo e giocare con lui. La duplicità di queste emozioni viene definita cute aggression. Uno studio recente ha rilevato come questo fenomeno abbia in realtà l’utile funzione di regolare le emozioni.

Cos’è la cute aggression e perché si verifica?

La cute aggression, ovvero ‘tenera aggressione’, è un fenomeno scientifico descritto di recente da Oriana Aragon. L’autrice di Yale ha scoperto come si genera la cute aggression e qual è la sua funzione. In particolare, la docente spiega che emozioni molto forti e piacevoli producono sia espressioni positive che espressioni contrarie. In altre parole, di fronte a emozioni molto forti, capita di generare espressioni di solito riservate a emozioni diverse o contrarie (come aggressività o lacrime). Tali espressioni contrarie emergerebbero per aiutarci a regolare emozioni e stati d’animo. Nello studio, di fronte a foto di bambini piccoli che inducevano tenerezza, chi viveva maggiore cute aggression sapeva regolare meglio le proprie emozioni. In sostanza, dopo aver vissuto una forte emozione, queste persone tornavano a uno stato di calma con più facilità. Secondo l’autrice, quando viviamo sensazioni intense, il nostro organismo attiva anche una risposta contraria, in modo da aiutarci a tornare in uno stato di equilibrio.

Altre espressioni dimorfe: risate nervose e lacrime di gioia

Le espressioni dimorfe sembrano emergere, riassumendo, quando un’emozione (sia positiva che negativa) è così intensa da essere percepita da parte dell’organismo come poco gestibile o dannosa. Quando ciò avviene, mettiamo in atto risposte contrarie all’emozione che stiamo provando. Questo può essere stato molto utile per l’uomo a livello evoluzionistico. Quando vediamo un bambino piccolo si attivano istinti di tenerezza e di cura. Tuttavia, se le emozioni suscitate sono così intense da distrarci dai pericoli, possono diventare dannose, anche se positive. C’è allora bisogno di un sistema in grado di riportare l’organismo a uno stato di equilibrio. Per fare questo, ci serviamo delle “espressioni dimorfe”, ovvero formate da due componenti (in questo caso, tenerezza e aggressività). La cute aggression è un esempio di espressione dimorfa.

Ridere d’ansia, ridere di tristezza

Ciò accade non solo per la cute aggression, ma anche per una serie di situazioni. Un esempio sono le risate nervose. Non è raro che persone molto sotto pressione o in ansia inizino a ridere senza un motivo apparente, come avviene a molti, per esempio, sull’altare, o a chi deve parlare in pubblico. Altre volte, invece, dobbiamo comunicare una notizia triste. Anche in questo caso, la pressione può portarci a una risata poco adeguata. Un’espressione poco consona alla situazione è anche ridere quando qualcuno cade o si fa male. Qui, comunque, sembrano entrare in gioco meccanismi un po’ diversi. Infatti, ci viene da ridere anche perché la situazione devia dalle aspettative sulla realtà in modo buffo. Un meccanismo utilizzato anche dai comici nei loro monologhi. In ogni caso, ridere quando qualcuno cade potrebbe anche aiutarci a recuperare dall’ansia e dallo spavento vissuti in quel momento. Un altro esempio, infine, sono le lacrime di gioia. Piangiamo perché ci sentiamo molto felici, come in occasione di una laurea. Ma la felicità provata in quel frangente rischia di ridurre il nostro senso di controllo su noi stessi, quindi deve essere regolata. Anche la commozione, quindi, è un’espressione dimorfa.

Non vi spaventate, dunque, se vedendo vostro nipote sentite il bisogno di “ammazzarlo di baci” o di “stritolarlo di abbracci”, o se al prossimo esame o davanti al vostro capo scoppierete a ridere. Quello che provate è del tutto normale e frutto di una funzione molto utile del nostro organismo.

Riccardo Germani, Psicologo e redattore. È Psicologo Clinico e redattore di Santagostino Psiche – La Finestra sulla Mente. Si è laureato in psicologia clinica all’Università di Milano Bicocca. La sua formazione è proseguita poi in centri clinici milanesi come A.R.P. e Fondazione Lighea, svolgendo volontariato con pazienti gravi. Studia psicoanalisi presso la Scuola di Psicoterapia Psicoanalitica di Milano, e ha affinato le sue competenze presso il Centro Psico Sociale (CPS) dell’Ospedale Niguarda di Milano. Si occupa di consulenza psicologica a breve e lungo termine e svolge consulenze di carriera, aiutando le persone a reinventarsi e a trovare il proprio posto nel mondo. Come divulgatore ha rilasciato interviste per Vero, Elle, Vanity Fair, Intimità e Cosmopolitan. Scrive per 4Books ed è docente nella faculty di Changers, un progetto per la crescita professionale creato da Alessandro Rimassa. 

Perché Alcuni Personaggi Sono Teneri e Altri No? Lavinia Anselmi su freedamedia.it il 05/09/2018. Dopo anni di inconsapevole adorazione nei confronti dei personaggi dei cartoni animati, i tre pinguini di Madagascar hanno svelato il segreto del loro successo: niente di più e niente di meno che essere “carini e coccolosi”: Due caratteristiche che trovano il corrispettivo inglese nella parole cute – termine che conosceranno bene tutti gli appassionati di video con protagonisti gattini/cuccioli di gattini, cani/cuccioli di cani, cuccioli in generale, e insomma animali paffuti o pelosetti che ci fanno emettere gridolini idioti; una qualità che contraddistingue molti dei personaggi di cartoni animati che hanno come unico compito, quello di intrattenere e intenerire – con la loro figura, il loro andamento e quegli occhi che non lasciano proprio scampo…Ma esiste una ricetta per essere carini e coccolosi? Delle qualità precise – sia fisiche che caratteriali – in grado di suscitare quella simpatia che un po’ ci diverte e un po’ ci commuove? Lo chiedo una sera a tavola e scopro che tutti hanno una propria teoria rispetto a ciò che più ci intenerisce (e a cui nessuno sembra essere immune): secondo un amico il mix vincente è quello tra innocenza e goffaggine. Per un altro, è l’insieme di caratteristiche paradossali – come l’avere le ali e non poter volare – mentre ancora, per un’amica, è senza dubbio il fatto di combattere con dolce ma persistente ostinazione, battaglie perse (esattamente come facciamo anche noi, nel nostro quotidiano. Impossibile non empatizzare). E a leggere le considerazioni di Preston Blair, animatore della Disney e autore del libro sul tema Advanced Animation, la realtà non sembra essere poi così distante da queste definizioni: La formula della cosiddetta “cuteness” risiederebbe in alcune caratteristiche ben precise, che risveglierebbero in noi l’istinto protettivo: fronte alta, statura bassa, occhi grandi, orecchie, bocca e naso piccolo e naturalmente, linee rotonde.

Le proporzioni basiche di un bambino più le espressioni di timidezza e riserbo.

Al giorno d’oggi, la Pixar risponderebbe che la ricetta ha assolutamente basi matematiche – quelle necessarie a creare le superfici morbide e le linee rotonde dei suoi personaggi:

Ma a ben vedere, ancora questi dettagli non bastano a completare l’identikit del personaggio tenero per eccellenza: ci sono figure come quella di E.T, Wall-E e il maestro Yoda che nonostante l’aspetto insolito e strano, rientrano decisamente nella categoria. Questo è perché, come sostiene Natalie Angier in un articolo del The New York Times, bellezza e cuteness sono due mondi ben distinti:

La cuteness è diversa dalla bellezza – secondo quanto riportano i ricercatori – perché preferisce la rotondità alle linee scolpite, la morbidezza alla sofisticatezza, la goffaggine all’essere svelto. La bellezza suscita ammirazione e richiede rispetto; l’essere carini stimola l’affezione e richiede attenzione. La bellezza è rara e brutale, è può essere minacciata da una sola imperfezione. La cuteness è banale e generale, felice di esserci così familiare.

Se dunque la bellezza ha tutte le caratteristiche per essere esclusiva e suscitare ammirazione, la forza dei personaggi carini e coccolosi fa leva su altre qualità, che lavorano sulla nostra empatia e su un certo senso di familiarità che sono in grado di suscitare. Ma questa può essere un’arma a doppio taglio: come insegna il gatto con gli stivali, il fatto che ci facciamo abbindolare così facilmente dai suoi occhioni liquidi, ci espone al rischio di farci trovare impreparati all’evenienza che, dietro il suo sguardo irresistibile, si nasconda una minaccia di tutt’altro genere. 

Nel suo libro Cute, Quaint, Hungry And Romantic: The Aesthetics Of Consumerism, Daniel Harris scrive che “l’essere carini è in una relazione dinamica con il perverso”, mentre secondo Denis Dutton, filosofo dell’arte dell’University of Canterbury in Nuova Zelanda, la rapidità con cui reagiamo a qualcosa di tenero, accompagnata dalla disponibilità totale con cui ci poniamo nei suoi confronti, può far nascere qualche sospetto. La tenerezza elimina ogni livello di senso e dice: non badiamo alla complessità, amami e basta. Da qui, arriva un senso di grossolanità che può portare alla sensazione di essere manipolati, e indurre alcuni a essere sospettosi. A questo proposito, qualche anno fa giravano gli screenshot di uno scambio spettacolare tra una moglie che doveva andare a prendere un pesce rosso per i figli e un marito a cui confessa di avere preso alla fine un cucciolo di cane, che ha chiamato Pesce. Il motivo? Era troppo carino. E non si può darle torto, tutto sommato: a chi non è capitato di incantarsi di fronte a un cucciolo peloso con le orecchie penzolanti? Pericolosissimi, non c’è che dire. 

Addirittura, secondo Brian J. McVeigh, uno ricercatore di East Asian studies presso la University of Arizona, in Giappone – dove il corrispettivo di cuteness si indica con il termine kawaii – questo fenomeno è diventato una specie di mania (che si manifesta nella popolarità di personaggi come Hello Kitty) e si spiegherebbe attraverso la rigida cultura gerarchica giapponese: La cuteness è usata per ammorbidire la struttura verticale della società, rallentare le relazioni di potere e presentare l’autorità senza essere minacciosi.

Che sia dunque un gattino peloso dagli occhi grandi o un robot metallico stile Wall-E, l’effetto di tenerezza disarmante che suscitano, è identico; e non è detto che non possa essere effettivamente un terreno comune tramite cui abbassare le ostilità e cominciare un dialogo  – o divorziare, come forse ha rischiato la coppia che ha accolto in casa il cane Pesce. Che ci piacciano alla follia o che innestino in noi quel senso di sospetto, non si può negare il potere devastante di queste creature assolutamente irresistibili.

Emergenza gattini. Il potere inquietante delle cose carine. Simon May su L'Inkiesta l'11 Dicembre 2021. Non se ne parla quasi mai, ma la cuteness è diventata un elemento sempre più presente nelle nostre vite, da Hello Kitty alle emoji. Come spiega Simon May nel suo libro (Luiss University Press) la crescita del fenomeno va di parsi passò con la glorificazione del bambino. Ed è la miglior definizione del nostro tempo.

Il Cute sta colonizzando il nostro mondo. Ma perché? E perché in modo tanto esplosivo proprio nella nostra epoca?

Potremmo pensare che il Cute sia talmente trito da non meritare la nostra attenzione e che quindi non costituisca un argomento degno di indagine. Oppure che sia talmente perverso, per la stereotipata vulnerabilità che impone ai suoi oggetti, forse anche con un certo compiacimento, da meritare poco più del nostro disprezzo. Pertanto sarebbe inutile, nel migliore dei casi, tentare di scavare in qualcosa di tanto superficiale come la figura della ragazza felina Hello Kitty; in Pikachu, il mostro dei Pokémon; in E.T., con il suo aspetto allampanato e raggrinzito; nelle bruttissime bambole Cabbage Patch Kids; e nella strana evoluzione di Topolino dopo la Seconda guerra mondiale.

O forse siamo ormai talmente abituati al Cute che non ci accorgiamo di quanto sia onnipresente: per esempio nella proliferazione degli emoji, usati da persone pressoché di ogni età e formazione; oppure nell’abbondanza di brand dal suono “carino” come Google (e, se è per questo, Apple, il cui logo collega scherzosamente la libertà personale concessa dai suoi dispositivi al simbolo originario della ribellione: il morso al frutto proibito nel giardino dell’Eden). Tutto questo potrebbe spiegare perché è stato scritto così poco sul fenomeno e sul significato del Cute e sull’incessante successione di mode passeggere che gli danno voce. Siamo stranamente poco curiosi riguardo a questo argomento. 

E se il Cute, però, parlasse di alcuni dei bisogni e delle sensibilità più potenti del mondo contemporaneo? E se, per adattare una frase di Nietzsche, fosse davvero superficiale, ma per profondità?

E se il Cute non fosse soltanto qualcosa di impotente e innocente ma giocasse, si divertisse, ironizzasse sul valore che attribuiamo al potere e sui nostri assunti riguardo a chi detiene il potere e chi no? E se fosse ipnotico proprio perché non è (o non è considerato) semplicemente innocuo, innocente, dolce e quindi confortante in un mondo impersonale e pieno di pericoli, ma invece può anche – come succede con la voluta distorsione e bruttezza di tanti oggetti carini – esprimere qualcosa di più ricco e più vero, che allo stesso tempo viene esperito come poco chiaro, insicuro, perturbante, imperfetto, consapevole, ma in un registro giocoso? E se questa sovversione lievemente minacciosa dei confini e questa indeterminatezza troppo umana – tra il chiaro e l’oscuro, il sano e l’anormale, l’innocente e il consapevole –, quando compaiono nell’idioma leggero e derisorio del Cute, fossero il fulcro della sua immensa popolarità?

E se poi l’esplosione del Cute rispecchiasse uno dei grandi sviluppi della nostra epoca, almeno in Occidente, ovvero il culto del bambino? A mio parere infatti il bambino è il nuovo oggetto supremo d’amore, e sta con lenta gradualità prendendo il posto dell’amore romantico come archetipo dell’amore che bisogna avere, il tipo di amore senza il quale si pensa che la vita non sia vissuta a pieno o al massimo del suo rigoglio. E l’infanzia è il nuovo locus del sacro e quindi anche il luogo in cui, come società e come epoca, è più facile trovare la profanazione.

Come vedremo, c’è stata una straordinaria coincidenza tra l’ascesa del Cute, dalla metà del Diciannovesimo secolo, e l’aumento, all’incirca nello stesso periodo, del valore attribuito all’infanzia, ed entrambe le tendenze hanno subito un’accelerazione in tandem dopo la Seconda guerra mondiale. Questo, argomenterò, non significa affatto che la mania del Cute sia dovuta soltanto – e in realtà neppure principalmente – all’impulso a una regressione infantile, al desiderio di tornare a un mondo immaginario di sicurezza e semplicità, né che le motivazioni che ne sono alla base e i suoi obiettivi siano necessariamente infantili.

Anzi, dobbiamo chiederci se il Cute non rispecchi anche una perdita di fiducia nelle distinzioni nette tra infanzia ed età adulta. Infatti, l’esperienza infantile non è sempre più considerata determinante per tutte le emozioni, le scelte e le azioni fondamentali dell’età adulta? E, di contro, non è sempre più invalsa la convinzione che il mondo adulto contemporaneo – in particolare la sua intensa attenzione nei confronti dell’espressione di sé, dell’autenticità e della sessualità – pervada quello infantile?

da “Carino! Il potere inquietante delle cose adorabili”, di Simon May (traduzione di Chiara Veltri), Luiss University Press, 2021, pagine 160, euro 12

·        Il Gaslighting.

Da lamenteemeravigliosa.it il 14 aprile 2021. Avete mai sentito parlare di Gaslighting? Bene, per sapere di che si tratta, vi faremo un’esempio? Probabilmente vi sarete imbattuti in esso quando vi hanno assicurato che avete detto qualcosa, che non ricordate di aver detto. Scavate nella memoria e concludete che, sicuramente, non l’avete detto. Siete convinti di avere ragione. Tuttavia, l’altra persona afferma che lo avete detto, e lo fa con tanta sicurezza che finite per darle ragione. Arriverete a pensare che forse lo avete detto, anche se non lo ricordate. È possibile che siate appena diventati vittime del Gaslighting. Si è iniziato ad osservare questo fenomeno durante gli anni sessanta. E anche se si presenta in contesti lavorativi e famigliari, risulta più comune nelle relazioni di coppia. Si definisce come l’atto di manipolazione ripetitivo che una persona esercita su un’altra. Il suo obiettivo primario è minare la sicurezza della vittima, affinché percepisca la realtà in maniera distorta.

Il Gaslighting vuole confondere la vittima. Il Gaslighting è un modo deliberato di mentire, il cui scopo è confondere la vittima per ottenere un beneficio da essa. Si tratta di una forma di abuso psicologico molto subdola; raramente c’è violenza anche se in genere è presente una certa intimidazione. Per cui, è difficile da identificare. Inoltre, il manipolatore in genere è qualcuno “degno di fiducia”, amichevole e con cui c’è una certa vicinanza. Un esempio tipico di Gaslighting si ha quando uno dei componenti della coppia cerca di negare la sua infedeltà. La vittima può affermare di averlo sentito parlare affettuosamente al telefono con qualcuno. Il manipolatore sa che è vero, ma si difende dicendo, con sicurezza, che non è così. Il partner sta confondendo l’amicizia con il corteggiamento. Il manipolatore può anche aggiungere di aver visto il partner molto stressato negli ultimi tempi. Questo stress non gli darebbe diritto a non fidarsi di lui. A questo punto, sarà riuscito ad instillare il seme del dubbio nella vittima. Questa pratica è più comune di quanto si possa immaginare. In casi ripetuti ed estremi, la vittima arriva a credere di star impazzendo. Si potrebbe commettere l’errore di pensare che sia una situazione comica e che noi non cadremmo mai in una forma di manipolazione così ridicola. Tuttavia, trascuriamo il fatto che questa situazione si presenta in relazioni in cui investiamo le nostre emozioni. Di fatto, in queste relazioni operano complessi meccanismi di proiezione ed introiezione.

Caratteristiche del Gaslighting. In termini generali, la vittima di Galighting, di solito, è una persona sfiduciata, che trova qualcuno in apparenza degno di fiducia. Il manipolatore è insicuro di sé, ma ossessionato con l’esercitare il controllo sugli altri. Dimostra simpatia e dice di volere il benessere dell’altro. Tuttavia, si tratta solo di una farsa. La vittima arriva ad idealizzare questa persona. E stando così le cose, si creano le giuste condizioni per esercitare il Gaslighting. Quando questo tipo di manipolazione emotiva prosegue per lunghi periodi, ha conseguenze profondamente negative sulla vittima. La più preoccupante, senza dubbio, è la sua sottomissione alla “realtà” imposta dal manipolatore. Il Gaslighting provoca anche che l’abusato decida di appropriarsi dei conflitti del suo abusatore. Il Gaslighting segue uno schema che si classifica in tre fasi. Nella prima, la vittima oppone resistenza argomentativa e ribatte alle affermazioni del manipolatore. Intanto, quest’ultimo cerca di plagiare la vittima dicendole cosa deve pensare e sentire. In effetti, in alcuni casi si discute per ore e ore. Alla fine, non emerge nulla di concreto, ma si verifuca un logorio nella vittima. Durante la seconda fase, la vittima cerca di tenere la mente aperta per poter capire meglio il punto di vista dell’altro. Tuttavia, non essendoci reciprocità, inizia ad avere dubbi sulle sue certezze. La terza fase si presenta come uno stato di confusione in cui la vittima perde il giudizio e pensa che le affermazioni del manipolatore siano veritiere, normali e, quindi, reali.

Aspetti da tenere in conto. Ci sono caratteristiche della personalità che predispongono alcuni individui a diventare potenziali vittime del Gaslighting. La carenza d’affetto è una di queste. La potenziale vittima vede nel manipolatore un salvatore e lo idealizza. Questa reazione si deve al fatto che la vittima interpreta le avances del manipolatore come una vera dimostrazione di affetto. La vittima sente che il manipolare, almeno all’inizio, parla con lei, le presta attenzione. Una persona che ha bisogno di avere ragione è più incline a soffrire di questo tipo di abuso. Questa situazione si presenta quando si discute di aspetti soggettivi e in questi confronti gli argomenti della futura vittima perdono solidità come conseguenza del logorio praticato dal manipolatore. Infine, la necessita di approvazione degli altri gioca un ruolo decisivo. In questo caso al manipolatore viene servita l’occasione su un piatto d’argento, egli non perderà tempo e approfitterà di questa debolezza. Per non cadere in una relazione tossica di questo tipo, è fondamentale tenere presente alcuni consigli. Primo, dovete stare attenti a qualsiasi manifestazione che metta in dubbio ciò in cui credete e che mini la fiducia in voi stessi. Non imbarcatevi in discussioni sterili, ovvero scambiandovi punti di vista soggettivi che non portano da nessuna parte. Infine, cercate di rafforzare le vostre posizioni nella vita con argomenti solidi, devono diventare delle convinzioni. Inoltre, non permettete che gli altri giudichino il vostro modo di pensare e sentire. Tenete presente che questo è un terreno fertile per chiunque voglia manipolarvi.

·        Come capire la verità.

Dagotraduzione da Vice l'11 luglio 2021. Secondo una nuova ricerca, le persone che hanno la capacità e l'abilità di dire cazzate durante una conversazione possono essere più intelligenti. In uno studio pubblicato sulla rivista scientifica Evolutionary Psychology, i ricercatori hanno scoperto che le persone più brave a inventare spiegazioni per vari concetti tendono ad essere più intelligenti di quelle che faticano a inventare cazzate. I ricercatori hanno utilizzato 1.017 partecipanti a due studi che hanno esaminato le correlazioni tra capacità cognitive, disponibilità a dire stupidaggini e abilità di farlo bene. Ai partecipanti sono stati mostrati dieci concetti e gli è stato chiesto di utilizzare una scala di valutazione a cinque punti che va da «non ne ho mai sentito parlare» a «lo conosco bene, comprendo il concetto» per valutare la loro conoscenza dei concetti. Sei di questi concetti, come Teoria della selezione sessuale e Relatività generale, erano reali, mentre quattro concetti - Scala del congiuntivo, Frazione dichiarativa, Autonomia genetica e Accettazione neurale - erano inventati. La disponibilità alle cazzate è stata poi misurata in base a chi affermava di avere conoscenza di questi concetti inventati. Per determinare la capacità di fare cazzate, a un gruppo di 534 di questi partecipanti è stato chiesto di produrre la spiegazione più convincente e soddisfacente possibile per ciascuno dei concetti di cui sopra. Gli è stato detto di non preoccuparsi se fossero effettivamente vere, ma di essere semplicemente creativi e convincenti mentre inventavano le loro spiegazioni. Quindi, a un altro gruppo campione di partecipanti, definiti "valutatori di stronzate", è stato chiesto di valutare quanto fossero accurate o soddisfacenti queste risposte utilizzando una scala a cinque punti. Questa scala andava da "per niente accurato" a "molto accurato" per giudicare l'accuratezza e da "per niente soddisfacente" a "molto soddisfacente" per determinare quanto fossero state formulate bene le spiegazioni. Ai valutatori di stronzate è stato anche chiesto di determinare l'intelligenza dei partecipanti al primo gruppo. I ricercatori hanno scoperto che la maggior parte dei partecipanti in grado di generare definizioni soddisfacenti o apparentemente accurate di concetti falsi ha anche ottenuto punteggi più alti in un test di vocabolario. La maggior parte di loro ha anche superato il ragionamento astratto e i test di intelligenza fluida non verbale, che hanno misurato la loro capacità di analizzare e risolvere i problemi. «Troviamo che quelli più abili nel produrre stronzate soddisfacenti e apparentemente accurate ottengono un punteggio più alto nelle misure di capacità cognitive e sono percepiti dagli altri come più intelligenti», ha concluso lo studio. «Nel complesso, la capacità di produrre stronzate soddisfacenti può servire ad aiutare gli individui a navigare nei sistemi sociali, sia come strategia energeticamente efficiente per impressionare gli altri sia come segnale onesto della propria intelligenza». È interessante notare che lo studio ha anche scoperto che coloro che erano bravi a raccontare frottole non erano automaticamente disposti a farlo di più solo perché potevano. «Le persone più intelligenti erano meno disposte a fare cazzate nonostante le loro capacità superiori», ha detto Mane Kara- Yakoubian, autore dello studio. «Potrebbe spiegarsi per via della loro maggiore capacità di attribuire stati mentali agli altri (cioè, teoria della mente), consentendo loro di essere più consapevoli di quando le cazzate funzioneranno e quando no». In effetti, i ricercatori hanno scoperto che le persone che erano più disposte alle cazzate erano anche più ricettive alle cazzate pseudo-profonde. Ciò era in linea con un altro studio pubblicato sul British Journal of Social Psychology, che ha scoperto che le persone che si dedicavano più frequentemente a cazzate tendevano anche a essere più suscettibili a informazioni fuorvianti come le notizie false. Kara-Yakoubian, una studentessa laureata co-autrice dello studio, ha spiegato che ciò che l'ha motivata a condurre questa ricerca è stata la scoperta che le persone non potevano distinguere tra stronzate pseudo-intellettuali e linguaggio artistico, il linguaggio usato dagli studiosi d'arte per discutere arte. «Più cazzeggiavo su un tema, migliore era il mio voto. Naturalmente la ricerca è cresciuta su di me; Ho potuto vedere la sua rilevanza nella mia vita», ha detto.

Come capire se chi ci parla sta davvero dicendo la verità. Danilo Di Diodoro su Il Corriere della Sera il 18/2/2021. Se chi vi sta parlando lo fa mantenendo una velocità di eloquio costante e abbastanza rapida, pone maggiore intensità nel mezzo della frase e tende ad abbassare il tono verso la fine, è probabile che stia parlando in maniera onesta, e che genererà una certa sensazione di fiducia in ciò che dice. Però attenzione, potrebbe anche essere solo molto abile nel manovrare la sua prosodia, termine che indica appunto l’andamento melodico della voce: tono, velocità e volume.

Interazioni personali e professionali. Riuscire a capire se chi ci sta parlando sia affidabile è sempre una sfida aperta. Alle volte si percepisce che c’è qualcosa nel modo di parlare di chi abbiamo di fronte che ci sembra poco convincente, ma non sapremmo dire di cosa si tratta. È un aspetto importante non solo nelle relazioni private, ma anche in quelle professionali, ad esempio quando si lavora con altre persone. Così un gruppo di ricercatori del Science and Technology for Music and Sound Laboratory dell’Università della Sorbona di Parigi, guidati da Louise Goupil, ha deciso di effettuare tre diversi studi per provare a risolvere la questione, i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Nature Communications.

La ricerca. Utilizzando la loro competenza nella manipolazione del suono, hanno generato una serie di pronunciamenti con diverse modalità di incrocio tra tono, velocità e intensità, facendoli poi valutare ad alcuni gruppi di persone partecipanti alla ricerca, rispetto alla sensazione di affidabilità percepita. L’esperimento è stato realizzato in tre diverse lingue, inglese, francese e spagnolo. Alla fine è emerso che il mix più convincente è quello caratterizzato da una certa velocità di eloquio, con maggiore intensità nel mezzo della frase e un tono che tende a decrescere verso la fine. Un mix che viene registrato automaticamente dal cervello dell’ascoltatore, quindi senza che sia necessaria una specifica attenzione perché sia percepito.

L’importanza della gestualità. Peraltro, il cervello è in grado di cogliere spontaneamente anche altri segnali di onestà/convinzione di chi sta parlando, oltre a quelli rilevati da questo studio. Alcune gestualità delle mani, o certe esitazioni o interiezioni del discorso — gli “huumm” — in genere inducono un senso di incertezza in chi ascolta. «I risultati delle nostra ricerca dimostrano che la vigilanza interpretativa di chi ascolta dipende da meccanismi impliciti che consentono una rapida ed efficiente rilevazione dell’inaffidabilità, che va ad affiancare la rilevazione volontaria già conosciuta nella letteratura scientifica» dicono gli autori.

Comunicazioni via Internet. «Più in generale i nostri risultati sottolineano il ruolo fondamentale giocato dall’ascolto per quanto concerne la vigilanza interpretativa. Il che ha importanti implicazioni in un’epoca digitalizzata nella quale l’informazione in gran parte viaggia in forma scritta attraverso internet. Così almeno alcuni degli strumenti che consentirebbero una certa vigilanza interpretativa potrebbero non funzionare nel mondo contemporaneo».

·        Sesto senso e telepatia.

Verità o fake? Chi è Natasha Demkina, la donna russa che riesce a vedere dentro i corpi e fare diagnosi mediche. Elisabetta Panico su Il Riformista il 15 Maggio 2021. Si chiama Natalya Nikolayevna Demkina ed è nata in Russia a Saransk nel 1987. La donna oggi 34enne avrebbe sviluppato all’età di 10 anni “un potere magico”. Infatti Natalya, chiamata da tutti Natasha, riuscirebbe a vedere all’interno dei corpi umani. La sua vista a raggi x le permetterebbe di veder organi e tessuti e quindi di fare diagnosi mediche. Il ‘superpotere’ lo avrebbe ottenuto in seguito a un’operazione all’appendice. La ragazza, rientrata a casa con la madre, ha fatto sapere che “all’improvviso ho avuto una visione – sono queste le parole di Natasha – E’ stato come un lampo. Ho visto il corpo e gli organi di mia madre. Per una frazione di secondo, posso vedere un’immagine a colori e poi iniziare ad analizzarla come se fosse un esame”. Nel 2003, un canale televisivo ha mandato in onda un servizio che parlava della giovane donna e le ha fatto dimostrare dal vivo le sue capacità. Fu lì che la soprannominarono “X-Ray Girl”. Così la giovane ragazza aveva raccontato la sua ‘prima visione’ nel documentario mandato in onda da Discovery Channel. Stupita dalle parole della figlia, la mamma Tatyana Vladimovna l’aveva accompagnata in un ospedale locale e subito era diventata il “soggetto di studio” per tutti i medici. E’ stata sottoposta a diverse prove che la ragazza ha concluso con ottimi risultati. Infatti con il semplice sguardo rivolto al corpo di alcuni pazienti sarebbe riuscita a individuare ulcere, cancri o cisti. Avrebbe anche salvato la vita a una donna anziana che era ricoverata in un ospedale a causa di un cancro. Infatti Natasha aveva comunicato ai medici che in realtà la donna aveva solo una semplice ciste. Dopo questa affermazione, la donna “malata” si era sottoposta a ulteriori esami che confermarono la diagnosi fatta dalla ragazza “raggi X”. Nel 2004, Demkina è entrata a far parte dell’Università statale di medicina e odontoiatria di Mosca. Inoltre, durante lo stesso anno anche il giornale inglese The Sun aveva raccontato la storia della ragazza “raggi X” dando una serie di dimostrazioni a tutto il pubblico inglese. Il giornale The Guardian invece aveva dichiarato che mentre stavano conducendo un’intervista alla ragazza, Natasha aveva identificato le diverse fratture e i perni metallici in una donna che poi successivamente aveva dichiarato di essere rimasta vittima di un incidente stradale. Nel gennaio 2006 ha fondato il Natalya Demkina Special Diagnostic Center, il cui obiettivo è quello di lavorare in collaborazione con professionisti della medicina tradizionale e persone con abilità speciali come lei.

Elisabetta Panico. Laureata in relazioni internazionali e politica globale al The American University of Rome nel 2018 con un master in Sistemi e tecnologie Elettroniche per la sicurezza la difesa e l'intelligence all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Appassionata di politica internazionale e tecnologia

Sesto senso e telepatia, i "poteri" di cani e gatti. Anticipano l'arrivo dei terremoti, sanno trovare la strada di casa e soffrono o gioiscono con chi li ama.Laura Tuan, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Sono innumerevoli le vicende di cani e gatti che, smarriti o abbandonati, hanno inspiegabilmente saputo ritrovare la via di casa, per questo ci si chiede se alcuni animali abbiano percezioni extra sensoriali. Possibile che Micio e Fido, proprio come gli umani sensitivi, «vedano» e «sentano» ciò che non si potrebbe nè vedere nè sentire? Un discorso analogo vale per gli uccelli migratori che, guidati da un misterioso istinto, si ritrovano come teleguidati a un magico appuntamento nel luogo lasciato l'autunno precedente. Molti parapsicologi hanno indagato nelle meraviglie arcane del mondo animale: cavalli abilissimi nel risolvere operazioni matematiche, gatti atterriti da visioni, cani capaci di indovinare i simboli delle carte zener, un test creato appositamente per misurare le facoltà extra percettive. La storia del paranormale ci regala decine di casi interessanti, storie buffe, talvolta commoventi, altre tragiche, ma sempre misteriose. Si pensi ai famosi cavalli di Elberfeld: il saggio Hans (l'epiteto gli fu attributo a proposito), conosceva i colori, le note musicali, i nomi delle persone che lo accudivano e le più semplici regole di calcolo matematico. Il suo compagno Ralph estrasse una radice cubica semplice battendo con lo zoccolo il risultato, mentre Mohamed, ancora più dotato, si cimentava persino con i problemi e le potenze tenendo una zampa alzata, rifiutandosi di proseguire ogni qualvolta il risultato non fosse esatto. Insolito e divertente il caso di Lampo (circa 1950 - 1961), il cane di un ferroviere di Campiglia Marittima, che col tempo era diventato un abituale e regolare fruitore delle ferrovie dello stato. Dopo che un collega gli ebbe riferito di aver visto il suo cane in una località molto distante, il ferroviere decise di seguire l'animale nei suoi misteriosi giri, che lo tenevano lontano da casa dal mattino al tramonto, scoprendo che, come un provetto viaggiatore, attento a orari e coincidenze, Lampo saliva su un treno, scendeva a una stazione, ne prendeva un altro e così via, trascorrendo la giornata in località sempre diverse. Ma il fatto più strabiliante è che riusciva sempre a ripresentarsi a casa alla stessa ora. Pur senza arrivare a casi così eclatanti, ogni proprietario di animale potrebbe riferire come il suo beniamino avverta episodi o fenomeni naturali prima del loro verificarsi: lo scatenarsi di un temporale o di un terremoto, l'arrivo di persone a lui note, manifestandolo con atteggiamenti insoliti, tutti da decodificare. Insomma, i poteri paranormali, classificati in parapsicologia come telepatia, chiaroveggenza, precognizione, non sono estranei neppure al mondo degli animali, anzi, liberi dagli schermi della razionalità. Tutti ricorderanno Hachiko, che per anni, dopo la morte del padrone, continuò ad attenderlo alla stazione alla sera alla stessa ora, fedele a quel rito quotidiano fino alla morte. Proprio come avviene per gli uomini, gli eventi emotivamente carichi, i disastri naturali, gli accidenti, turbano profondamente Micio o Fido, fino a casi limite. Un esempio molto triste la vicenda di Wamar, splendido levriero appartenuto a un nobile piemontese, impegnato al fronte. Il cane impazzì improvvisamente in un pomeriggio d'estate, mettendo in agitazione con i suoi ululati tutto il personale di servizio. Qualche ora più tardi si accasciò mugulando davanti al letto del padrone e, nonostante i tentativi del veterinario, morì di inedia qualche settimana più tardi. L'accaduto venne chiarito da una lettera giunta dal fronte, il granduca, rimasto ferito proprio nel momento in cui il cane aveva cominciato a ululare, era spirato qualche ora più tardi, proprio quando Wamar si era recato nella sua stanza, lasciandosi morire. Come scrive Chrtina Friedrich Hebbel, «il cane è il sesto senso dell'uomo».

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Ignoranza.

Affogare tra le pagine. Solo pochi sanno leggere davvero (e gli altri si perdono moltissimo). Piero Dorfles su L'Inkiesta il 21 dicembre 2021. Come spiega Piero Dorfles nel suo ultimo libro, edito da Bompiani, il problema non è di analfabetismo, né primario né funzionale, ma di scarsa abitudine e propensione. È un’attività che richiede allenamento e costanza, un certo impegno e a volte fatica. Ma che ripaga con una vita piena e profonda. Comincio col farmi dei nemici, perché so che quello che sto per dire offenderà qualcuno e irriterà molti; ma secondo me va detto, perché è una cosa con la quale dobbiamo avere il coraggio di confrontarci con sincerità. Voglio dire che, quando sento qualcuno che dice di non leggere perché non ha tempo, perché è difficile orientarsi tra i troppi libri che escono, e che comunque costano troppo, so per certo di avere davanti una persona che non sa leggere. Non intendo dire che si tratta di un analfabeta, perché per fortuna l’analfabetismo primario è quasi del tutto sconfitto, in Italia. E nemmeno che si tratta di un analfabeta funzionale, e cioè persona che sa leggere e scrivere ma non è in grado di capire frasi complesse. Intendo dire che non è in grado di affrontare la lettura di un libro, di un testo lungo, di un’opera intera e complessa, anche di centinaia di pagine. Questa certezza mi viene dall’esperienza, perché ho provato a mettere in mano a persone che si schermivano, dicendo che non avevano tempo per leggere, anche testi brevi, facili, che parlavano di cose che certamente li avrebbero interessati; ma mi sono accorto che non erano semplicemente riuscite a leggerli anche se il tema, o l’autore, le avevano incuriosite. Non è una colpa, e non bisogna disprezzare coloro che non hanno la fortuna di saper leggere. Ma è opportuno almeno riflettere su cosa perdono, nella speranza che prima o poi, in Italia, ci si renda conto di cosa manca a un paese di non lettori. Chi non sa leggere si trova un po’ nella condizione di chi non sa nuotare. Non ha la possibilità di fare un’esperienza unica, che non assomiglia a nessun’altra. Nessuna di queste due capacità nasce spontaneamente. Ma mentre imparare a nuotare è relativamente facile, ed è una capacità che non si perde nel tempo, leggere, decifrare quegli astrusi segni neri sulla carta, è un lavoro, un mestiere, una competenza che si acquista solo con l’esercizio, e che si rischia di perdere se non la si coltiva. È un’abitudine, una sorta di muscolo intellettuale che, se esercitato, funziona con più vigore, e dà più forza nel confrontarsi con la pagina scritta. Saper leggere vuol dire anche saper capire con facilità il contenuto e la forma di quello che contiene un libro; vuol dire saper scorrere tra le pagine per andare a cercare quello che interessa di più; vuol dire saper capire rapidamente se un testo ci attrae davvero o se non val la pena perderci tempo sopra; vuol dire essere in grado di approfittare degli interstizi del nostro tempo, una coda alla posta, un tragitto in tram, l’attesa nella sala d’aspetto del dentista. Saper leggere vuol dire essere capaci di farlo anche in ambienti rumorosi. Chi sa leggere legge anche di fronte alle più drammatiche ansie, di fronte alle angosce più profonde, di fronte ai dolori più esacerbanti. Perché per chi sa leggere i libri sono la migliore consolazione che si possa chiedere. Leggere è la cosa più astratta che l’uomo abbia imparato a fare. E non leggere vuol dire rinunciare a esercitare l’attività più raffinata, più alta, più caratteristica del suo essere che il genere umano abbia mai escogitato. Non amo parlare di esperienze personali, ma qui lo sento come un dovere. Mi è successo di assistere una persona cara in coma. In quelle occasioni ti dicono che parlare serve, perché il paziente sente, anche se non c’è una coscienza visibile. Non ho prova che questo sia vero, ma è leggendole i libri più amati che ho avuto la sensazione di avere maggiori possibilità di intercettare un barlume di attenzione; e in quella situazione non ho provato niente altro che mi desse la stessa, lieve, sensazione di serenità. Insomma, la vita ci può riservare terribili sorprese. Ma i libri, se sappiamo leggerli, sono la più straordinaria risorsa per affrontarle. Poiché nella vita quotidiana chi non legge libri se la cava benissimo, verrebbe fatto di pensare che l’incapacità di leggere abbia poco a che fare con la capacità di essere bravi cittadini, competenti lavoratori e buoni padri e madri di famiglia. E in effetti questa è l’apparenza, e pochi hanno la sensazione che, solo perché non leggono libri, gli sia sfuggito qualcosa, visto che guardano la televisione, ascoltano la radio e usano con disinvoltura i dispositivi digitali. Io credo invece che a loro sia sfuggito molto, perché nei libri (che si leggano sulla carta o su un e-reader non cambia) c’è qualcosa che difficilmente si trova altrove. Nei libri ci sono la storia dell’uomo, dai miti primigeni al disagio della contemporaneità; il bene e il male, la vita e la morte, la felicità e la sofferenza; ci sono le conquiste e i fallimenti dell’intera umanità; c’è il racconto di come i nostri sentimenti, i nostri sogni, le nostre azioni, tutti i nostri gesti hanno prodotto le nostre vite, tanto diverse quanto simili nel loro destino. C’è un pensiero simbolico, che nasce da un’esperienza del tutto astratta; e si tratta dell’esperienza che più facilmente spinge ad avere fantasia, a sviluppare idee, a immaginare cose nuove, a pensare soluzioni originali. Che ci permette di separare la pienezza della vita dal vuoto di un sentire irrazionale; l’essere dal nulla. Guardando le rovine dei grandi imperi del passato abbiamo una visione parziale, corrotta, smangiata di cosa è stato quel mondo. I libri, invece, se conservati con cura, come e più di ogni costruzione, opera d’arte e monumento, vivono per sempre. Sfidano la caducità del nostro essere e quindi sono l’unica cosa che ci fa sfiorare l’immortalità. Sono il nostro tentativo di costruire una sorta di sterminato archivio di quello che, una volta usciti dallo stato primordiale, negli ultimi tremila anni, abbiamo fatto, visto, sentito, sofferto e pensato. Il Colosseo è ancora lì, è vero, ma in parte crollato, senza pavimentazione, con pochi tratti delle immense scalinate che ne facevano il più grande teatro della romanità. Dell’Eneide abbiamo ogni singolo verso, non manca niente. Quello sì che è un monumentum aere perennius. L’avere coscienza di sé, la scrittura, e quindi i libri, sono quello che, in definitiva, ci distingue dallo stato animale. Per semplificare, potremmo dire che quello che si perde se non si legge è uno strumento essenziale per indagare sui temi centrali dell’esperienza umana. Nelle pagine che seguono ho aggregato per grandi temi, arbitrari, forse inopportuni, e lungi dall’essere esaustivi, alcune opere classiche, più o meno popolari. Spero così di aver delineato un tentativo di spiegare in modo schematico, a me e a chi avrà la pazienza di proseguire la lettura, quali sono le prospettive che la letteratura può aprirci; e come questo rappresenti un’opportunità di riflessione su cosa siamo e come siamo fatti che solo i libri ci possono dare. Nessuna sistematicità, nessuna pretesa di aver fatto un elenco ragionato dei libri più importanti, o più belli. Solo una ricognizione, personale, per alcuni pochi, grandi temi tra quelli che mi sono parsi i più adatti a spiegare perché il lavoro del lettore è il più bello che esista.

da “Il lavoro del lettore. Perché leggere ti cambia la vita”, di Piero Dorfles, Bompiani, 2021, pagine 252, euro 16

Massimo Gramellini per il "Corriere della Sera" il 26 novembre 2021. Vorrei difendere una causa persa e dire al ministro della transizione ecologica Cingolani che sono completamente d'accordo a metà con la sua affermazione riguardo alle guerre puniche: «Non serve studiarle quattro volte, serve cultura tecnica per le professioni del futuro come il digital manager». Studiare quattro volte male le guerre puniche, magari no. Ma un paio di volte bene, una alle medie e una al liceo, servirebbe eccome anche ai futuri digital manager. Imparerebbero l'arte del surplace da Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, la vischiosità degli ozi di Capua e l'importanza di conoscere i punti deboli dell'avversario per colpirlo in contropiede, testimoniata a Canne da Annibale, il Max Allegri dell'antichità. Il dilemma è così antico che se ne discuteva già ai tempi delle guerre puniche: la scuola deve fornire conoscenze tecniche o gli strumenti mentali per acquisirle? Deve assomigliare a un motorino che ti porta da qualche parte, ma mai troppo lontano, o a una cyclette che non ti porta da nessuna parte, ma ti costruisce i muscoli per andare ovunque? Il mio prof di latino diceva sempre: «Io non vi insegno i come ma i perché , dato che i come cambiano di continuo mentre i perché si applicano a qualsiasi cosa affronterete in futuro». Non so se avessero conosciuto il mio prof, ma Ciampi era laureato in lettere e Marchionne in filosofia. Anche l'attuale presidente del Consiglio ha studiato Annibale al classico e non mi sembra che coi numeri se la cavi poi così male.

Emanuela Minucci per "la Stampa" il 26 novembre 2021. Nel saggio Le due culture e la rivoluzione scientifica del 1959 il fisico Charles P. Snow raccontava della «nuova frattura venutasi a creare tra umanisti e scienziati», biasimando quei «letterati sedicenti intellettuali che, arroccati nel loro sapere erudito, si dimostravano incapaci di cogliere la portata delle scoperte scientifiche». A quei tempi non c'era Twitter, ma per mesi nelle università e nei licei non si parlò d'altro. Le frasi pronunciate l'altra sera al Tg2 Post dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, invece - «Non serve studiare quattro volte le guerre puniche, occorre cultura tecnica. Dobbiamo formare i giovani per le professioni del futuro, quelle di digital manager per esempio» - hanno scatenato non pochi cinguettii diventando trend topic per tutta la giornata. Chi conosce bene il ministro-scienziato spiega che quella delle lezioni sulle guerre puniche replicate come una soap opera è un suo cavallo di battaglia e che fin dai tempi in cui fondò l'Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) di Genova ne fece il paradigma di una scuola passatista e arretrata. Ma quelle stesse frasi pronunciate da ministro in tv hanno fatto saltare sulla sedia più di un insegnante di storia e strappato un «era ora» ai colleghi nerd con cattedra scientifica. «Il ministro Cingolani», osserva il matematico Piergiorgio Odifreddi, «ha toccato un nervo scoperto della scuola italiana, che è figlia della riforma Gentile, definita da Mussolini stesso "la più fascista delle riforme fasciste". La separazione tra umanesimo e scienza, riflessa nella contrapposizione tra il liceo classico, per le future classi dirigenti, e gli istituti tecnici per i futuri lavoratori, è anacronistica: non esiste ad esempio nelle high school americane, dove gli studenti studiano materie sia umanistiche sia scientifiche, secondo piani di studio individuali e non collettivi». Aggiunge: «I parrucconi nostrani, che ancora pensano che il greco e il latino siano gli strumenti principali per comprendere il mondo, sono i padri naturali degli antiscientisti odierni, che da un lato diffidano dei vaccini scientifici, ma dall'altro credono nei miracoli religiosi. Urge una radicale riforma della scuola, che la metta finalmente al passo coi tempi». Dialettica la posizione dello storico Gianni Oliva che si scandalizza di fronte alla minestra riscaldata in cattedra delle guerre puniche: «Premesso che non si insegnano quattro volte, ma tre, pensare che la storia si studi troppo al liceo è un errore, i programmi di oggi prevedono due ore di insegnamento a settimana, la seconda delle quali è spesso è sacrificata all'italiano. La scuola deve formare sì i tecnici, ma anche i cittadini, e io sono il primo a sostenere che nella scuola secondaria si potrebbe fare a meno delle guerre puniche, infatti auspico che il programma delle superiori cominci dalla Rivoluzione francese per arrivare poi al presente del mondo globalizzato». Forte della sua esperienza da preside, incalza: «Volendo privilegiare il sapere scientifico e tecnico bisogna però cominciare dalle basi, vale a dire dalle strutture di cui dovrebbero essere dotate tutte le scuole, a partire da un computer per ogni studente». È invece tranchant il geologo Mario Tozzi: «Con queste dichiarazioni Roberto Cingolani ha dimostrato di non essere il ministro giusto per seguire le materie ambientali. L'ambiente è questione di cultura, non solo di cultura tecnica. Non sapremmo molto del clima utilizzando soltanto i satelliti senza conoscere lo sviluppo storico dei fenomeni. E anche le guerre puniche sono espressione della storia della Terra: se non ci fosse stata una certa conformazione geologica, in quel punto Cartagine non ci sarebbe stata e avremmo parlato di un'altra storia degli uomini». Chi si è dedicato con passione allo studio delle guerre puniche come Giovanni Brizzi, professore di Storia romana all'Università di Bologna, respinge con eleganza l'attacco di Cingolani: «Le materie tecniche sono senz' altro importantissime, ma attenzione: privilegiando solo queste può finire come ai primordi della Royal Society, quando si privilegiava l'industria alla scienza, finendo col nominare presidenti uomini provenienti dalla finanza e dall'economia e in qualche modo emarginando un genio come Isaac Newton, uomo della grande sintesi». Conclude: «Ciò detto, conoscere la storia, e in particolare quella delle guerre puniche, può essere molto utile anche per leggere la modernità o indurci a scoprire la ragione che rese possibile la vittoria di Roma su Cartagine, ovvero la straordinaria capacità della prima di assorbire le popolazioni dell'Italia centrale che ne avevano fatto una civitas, mentre Cartagine era rimasta una polis dalle risorse umane infinitamente inferiori». A sorpresa, con il ministro della Transizione ecologica si schiera invece Paolo Mieli che ieri su Twitter ha scritto: «Fanno discutere le parole di #Cingolani sulle guerre puniche, da storico dico che ha perfettamente ragione; io dovrei dire "la storia non si tocca", invece penso che la storia a scuola vada fatta bene, fare più volte le guerre puniche significa farla male».

Soncini per il sociale. La lettura si estinguerà, e tutto sommato è meglio così. Guia Soncini su L'Inkiesta il 23 novembre 2021. Alessandro D’Avenia racconta di due genitori che, per convincere i figli a leggere libri, hanno introdotto un incentivo economico: un euro ogni venti pagine lette. Ma è un’iniziativa votata al fallimento, noi da piccoli leggevamo perché non c’era altro da fare, non per vera passione. Ho frequentato le scuole elementari nella Bologna di fine anni Settanta. In via Castiglione, a metà strada tra casa e scuola, io e la Violetta ci fermavamo a prendere cinquecento lire (in romano: mezza piotta) di crescenta (in romano: pizza bianca). Quarant’anni dopo, dovremmo leggere cinque pagine al giorno, se fossimo figlie del lettore di D’Avenia il cui reddito di narrativa era pubblicato ieri sul Corriere, e se ci tenessimo alla nostra crescenta. Riferisce Alessandro D’Avenia (scrittore i cui romanzi hanno venduto più di centomila copie l’uno, una cifra che in Italia non raggiungono in tantissimi, specie tra gli autori di libri non gialli) che un padre gli ha scritto definendo sé e la moglie «sfiniti» dai due anni pandemici che hanno reso i figli dipendenti da cellulari e altri infernali attrezzi elettronici (prima del Covid, invece, solo giocattoli di legno). I bambini non leggono più, e lui e la moglie hanno optato per l’incentivo economico: un euro ogni venti pagine lette. 

D’Avenia dice che inizialmente era perplesso, ma poi ha capito che è giusto corromperli: se non leggono da piccoli non leggeranno mai più. A sostegno dell’imprescindibilità della lettura cita: Cesare Pavese (nato nel 1908); Albert Einstein (nato nel 1879); Maryanne Wolf (nata nel 1947). I tre hanno fatto mestieri diversi, e i primi due sono pure morti, ma hanno una caratteristica che li accomuna, e che accomuna D’Avenia, e me, e gli adulti di oggi: quando erano (eravamo) piccoli, o leggevi o leggevi. 

I canali televisivi erano inesistenti nell’infanzia di Pavese e pochissima roba nella nostra; i videogiochi pure (io mi fermavo a giocare a Popeye in un bar tornando da scuola, poi arrivò il Vic 20 a casa, ma il serpente era troppo ripetitivo per appassionarcisi davvero). Il telefono si usava per parlare, la rete era quella cosa con cui un ragazzino faceva quasi scoppiare una guerra al cinema, al posto delle chat c’era il citofono: non leggevamo per passione, leggevamo per disperazione (e perché non c’invitavano a giocare al gioco della bottiglia). 

Sono così convinta che la lettura sia destinata a estinguersi, oggi, che nessun dato che mi smentisca riesce a farmi cambiare idea. Certo, ogni tanto arriva una Valérie Perrin o una Stefania Auci a vendere cifre spaventevoli e predigitali. Ma sono eccezioni, lo so, lo sento, ne sono certa: Fabio Volo, nella settimana d’uscita, vende con l’ultimo romanzo la metà di quel che aveva venduto nella prima settimana del penultimo: volete dirmi che non è un segno della fine? 

Certo, i vari volumi del Diario di una schiappa hanno venduto, nelle librerie italiane nell’ultimo anno, un totale di trecentottantamila copie. Certo, le ragazzine si appassionano a Fairy Oak, una roba fantasy (di autrice italiana ma con titolo inglese) di cui non voglio sapere niente (ridatemi Pattini d’argento, se non la mia Seicento e una ragazza che tu sai). 

Allora, forse, il problema dell’incentivo economico sta nei titoli che D’Avenia sceglie di usare come esempio. Guerra e pace, La metamorfosi, Delitto e castigo. Forse ai ragazzini dei classici non gliene frega niente. Forse qualunque cosa ti facciano leggere a scuola ti fa schifo per principio. 

Non sarà mica un caso che, con qualunque grande scrittore parli, quello ti dica che ha capito solo da adulto quant’erano enormi Manzoni o Dickens, e i più velleitari analfabeti amino invece vantare un’infanzia di letture. Poche cose sono garanzia di piattume intellettuale come «fin da piccolo m’è sempre piaciuto leggere», forse solo «sono sempre me stesso». (Adesso mi raccomando, offendetevi e notificatemi che voi da piccoli leggevate tantissimo e adesso siete splendidi quarantenni: cosa leggevate a fare, se non vi è servito neanche a capire che il punto non è se leggevate – certo che leggevate: vi ho appena detto che non avevate alternative – ma il fatto che ve ne vantiate invece di rendervi conto che era un rifugio da disadattati). 

Ma poi, sarebbe un male se si smettesse di leggere? Sarebbe pessimo per la capacità di noialtri scriventi di procurarci un reddito, certo (quasi nessuno di coloro che per mestiere scrivono sa fare cose utili: schiumare cappuccini, potare siepi, curare molari). Ma forse è una naturale evoluzione: i maniscalchi che diventano gommisti, il progresso inarrestabile, la necessità di formare la popolazione a nuovi lavori (ci daranno un navigator). 

E non sono così sicura sia vero che leggere stimola l’immaginazione come, nell’esempio di D’Avenia, non sanno invece fare le immagini in movimento, in cui gli autori hanno fatto il lavoro per conto dello spettatore: davvero guardare Bergman (ma pure Lynch, ma pure Nolan) è meno impegnativo che leggere D’Avenia? 

E davvero se non leggiamo libri non leggiamo altro? Siamo sicuri che sia una tesi sostenibile, nell’epoca dei messaggi, delle chat, dei social network? Non sarà, piuttosto, che quest’epoca ha dimostrato che leggere non serve a niente, neanche a imparare a leggere? Non abbiamo mai letto così tanto, non abbiamo mai capito così poco. Siamo sicuri che questo equivoco vada incentivato? Non sarà il caso che un qualche Cappato fermi l’accanimento genitoriale e lasci che la lettura muoia dignitosamente?

L’Ignoranza? Non sempre è il contrario di conoscenza e non sempre è da buttare. VIVIAMO IN UN MONDO CHE OGNI GIORNO CI CHIEDE PIÙ CULTURA ANCHE SE...Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 20 Novembre 2021. Sempre più spesso si fa riferimento alla necessità di maggiore cultura. In ogni campo. La cultura come contrasto al degrado della nostra società, sempre più individualista e disuguale. La cultura come panacea di tutti i mali, compresi quelli che verranno.

Ma siamo sicuri di fare di tutto per andare nella direzione giusta? Siamo certi di creare le condizioni perché aumenti – e c’è peraltro davvero bisogno che cresca notevolmente – il livello di cultura nella società del ventunesimo secolo?

Parlare di cultura porta necessariamente a fare i conti con l’ignoranza, in senso stretto. E cioè con quella condizione che ci rende “ignoranti”, che ci fa essere soggetti che ignorano. Facciamo un lunghissimo passo indietro. Nella Genesi 2, 16-17, si può leggere: “Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: ‘Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti’”.

Come andò è narrazione nota a tutti, e allora: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Genesi 3, 7). Secondo questa prospettiva, dunque, l’ignoranza è gioia e la conoscenza è dannazione. La differenza tra bene e male corrisponde a quella tra ignoranza e conoscenza. Insomma, come amava ricordare Benjamin Franklin, “Siamo nati tutti ignoranti, ma dobbiamo lavorare sodo per restare stupidi”, anche se in tutto il mondo occidentale la conoscenza è considerata un valore, e conseguentemente l’ignoranza un disvalore. L’istruzione è culturalmente positiva, la mancanza di istruzione è culturalmente negativa. I genitori che non mandano i propri figli a scuola sono passibili di sanzioni. Persino la legge non ha in simpatia l’ignoranza dato che “ignorantia legis non excusat”.

In definitiva, ignoranza e conoscenza sarebbero fra loro in una relazione inversa: al diminuire della prima corrisponderebbe l’aumento della seconda. Ma è proprio così? L’ignoranza è veramente il semplice contrario della conoscenza ed è sempre da buttar via? Probabilmente no, se pensiamo al fatto che in realtà l’ignoranza è socialmente costruita e negoziata; e che, paradossalmente, può essere funzionale, oltre che disfunzionale, alla società. La costruzione sociale dell’ignoranza, proprio come la costruzione sociale della conoscenza, assolve a una serie complessa di funzioni ed è utilizzata strategicamente per ottenere effetti politici, economici, sociali, culturali, che variano da contesto a contesto e da gruppo sociale a gruppo sociale.

Quando diciamo che l’ignoranza è socialmente costruita, ci riferiamo alla considerazione che la stessa pervade la vita sociale in modo importante giacché la socializzazione avviene nella direzione di accogliere e condividere determinate opinioni sulla realtà e non altre, o anche a non rivolgere la propria attenzione a parti specifiche della realtà. E il processo comincia molto presto. Alla maggior parte dei bambini si insegna – e loro d’altro canto imparano rapidamente – a non fare troppe domande (e in particolare, alcuni tipi di domande). E si prosegue – e loro assimilano – che esistono questioni da grandi; i maschi imparano che vi sono faccende da donne e le femmine che vi sono luoghi che appartengono solo ai maschi. Ma non ci si ferma all’età più tenera. Si possono esercitare pressioni sulle persone perché non acquisiscano un certo tipo di informazioni, e ci si può addirittura spingere a chiedere di non elaborare le informazioni di cui si dispone in alcuni, determinati modi.

Si spiega quindi così, in Occidente, il perché dell’invito a stare alla larga da “superstizioni”, “idee politiche sovversive” e altri modi di pensare “illegittimi”, in quanto facenti parte di strutture interpretative screditate. In definitiva, che l’ignoranza vada interpretata come il contrario della conoscenza appare quasi alla stregua di un pregiudizio. Non sembra essere necessariamente vero. Tra l’altro, le cose vanno sempre socialmente – e localmente – contestualizzate, come ben sanno i sociologi. Come ci ricorda Simmel, per esempio, l’evoluzione storica della società è contraddistinta in molti suoi aspetti dal fatto che spesso ciò che prima era manifesto passa sotto la protezione del segreto e che ciò che al contrario prima era segreto ad un certo punto può rinunciare a tale protezione e si rivela. Il segreto, però, esercita una funzione non soltanto sul singolo, ma anche sulla collettività. La formazione di una comunità deve servire a garantire la vita segreta di determinati contenuti. Questo accade per esempio nel particolare tipo di società segrete la cui sostanza è anche una dottrina segreta, un sapere teorico, mistico, religioso.

Qui il segreto è uno scopo sociologico per sé stesso; si tratta di conoscenze che non devono penetrare nella massa e coloro che sanno formano una comunità per garantirsi a vicenda che il segreto verrà mantenuto. Per Simmel, l’ignoranza, sotto forma di segreto, protegge dal caos e dalla possibilità di conflitto, mentre Francesco Battisti dal canto suo sostiene che l’ignoranza dei non adepti può venire istituzionalizzata come norma (“il silenzio è d’oro”), al fine di proteggere segreti organizzativi o di mantenere il ruolo incontrastato della leadership. Anche l’ignoranza, insomma, così come altri aspetti della vita sociale esaminati da Simmel, rivela il carattere fondamentalmente ambiguo e dualistico della vita.

Di ignoranza si occupa anche Merton, che nel 1936, discutendo delle conseguenze non previste dell’azione sociale intenzionale, indica nell’ignoranza, o nel possesso di conoscenze limitate, uno dei fattori che impediscono di prevedere correttamente le conseguenze delle proprie azioni. Di solito, nella quotidianità, agiamo non in base a conoscenze scientifiche, ma a stime e opinioni. Di conseguenza, situazioni che esigono un’azione immediata di qualche tipo, comporteranno solitamente l’ignoranza di certi aspetti della situazione e provocheranno risultati inattesi. Nella sociologia di Merton, ignoranza e esiti latenti sono strettamente intrecciati e dimostrano, in maniera palese, come l’ignoranza svolga una serie di funzioni sociali spesso trascurate, ma non per questo meno importanti di quelle riconosciute. Come dargli torto, anche alla luce di quanto sta accadendo da diversi mesi in tutto il pianeta?

Appare scontato che la vita sociale proceda senza intoppi anche perché ignoriamo tanti aspetti pure importanti, che però ostacolerebbero senz’altro il flusso ordinato della società se dovessimo dedicarvi il nostro tempo quotidiano: così come non è necessario essere esperti di fisica o robotica per affrontare un viaggio in aereo, è ingente il numero di cose che ognuno di noi dà per scontate o ignora nella vita quotidiana. Tutto ciò non impedisce, anzi facilita, lo svolgimento della stessa. Una certa dose di ignoranza è, dunque, indispensabile alla fluidità dei rapporti sociali di ogni giorno.

Il sociologo canadese Erving Goffman interpreta le relazioni sociali secondo una suggestiva metafora drammaturgica. Le persone, nei loro rapporti quotidiani, mettono in essere delle rappresentazioni che presuppongono una “ribalta” e un “retroscena”. La ribalta è il luogo dove si svolge la rappresentazione e indica il tentativo di esercitare una certa impressione sugli altri, ossia di mostrarsi in un certo modo e secondo determinate norme e intenzioni.

Il retroscena è l’ambiente in cui l’attore “prepara” la sua rappresentazione e dove può rilassarsi, abbandonare la sua facciata, smettere di recitare la parte e uscire dal ruolo. Ecco allora forse la chiave di lettura di quanto sta accadendo: probabilmente, la società che assiste alla sofferenza della comunità e all’esaltazione dell’iper-individualismo, ha reso ribalta e retroscena un unico luogo. Nel quale ciascuno di noi recita la sua parte, ignorando del tutto il resto del mondo.

·        La meritocrazia.

Samuele Cannas, lo studente dei record: a 25 anni si è laureato per la sesta volta. Alessandro Vinci su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. Originario di Cagliari e già Alfiere del Lavoro, lunedì ha ricevuto anche la licenza magistrale alla Sant'Anna di Pisa. Ora studierà negli Usa per diventare chirurgo. Sei lauree ad appena 25 anni: Samuele Cannas ce l’ha fatta. Con la Licenza Magistrale in Scienze Mediche conseguita lunedì alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, il giovane cagliaritano è riuscito a portare a termine l’obiettivo che si era prefisso al momento della sua iscrizione all’ateneo toscano. A precedere l’ultimo alloro, infatti, nei mesi scorsi erano state le lauree in Medicina e Chirurgia, Biotecnologie (triennale e magistrale) e Ingegneria Biomedica, alle quali va aggiunto un diploma in pianoforte ottenuto già nel 2017 al conservatorio Palestrina di Cagliari. Il tutto, ça va sans dire, sempre con la lode. Un record assoluto per il nostro Paese.

I complimenti di Mazzeo

A ufficializzare in mattinata la notizia, il presidente del Consiglio regionale della Toscana Antonio Mazzeo: «Quando Samuele mi ha scritto di avercela fatta ed aver raggiunto il suo traguardo mi ha davvero emozionato!», ha scritto su Facebook. Poi ha aggiunto: «Gli ho fatto i complimenti e gli ho detto che siamo tutti incredibilmente orgogliosi che la Toscana possa formare dei talenti come il suo. Adesso lo aspettiamo in Consiglio Regionale per dargli il riconoscimento che merita e fargli, anche di persona, un enorme in bocca al lupo perché i suoi sogni si trasformino in realtà».

Futuro negli Usa

Effettivamente per Samuele, già membro dell'Aspen Institute Italia e insignito del titolo di Alfiere del Lavoro dal capo dello Stato Sergio Mattarella, il bello deve ancora venire. Sogna infatti di diventare chirurgo e, attraverso la robotica applicata e le biotecnologie, poter curare i tumori al pancreas e al fegato. Ora lo attende dunque una specializzazione in chirurgia addominale negli Stati Uniti. Le sei lauree – raccontava in quest'ottica a ottobre – «sono essenzialmente il mezzo che ho scelto per affrontare un tema complesso, come quello delle patologie chirurgiche intestinali, con un approccio olistico, che ingloba le competenze del chirurgo, del biotecnologo e dell’ingegnere e le amalgama insieme, potenziandole vicendevolmente». Inoltre si era augurato che grazie al suo esempio molti giovani potessero trovare «l’ispirazione per portare avanti studi multidisciplinari non per superare dei record o vanagloria, ma perché questo è il nuovo paradigma con il quale approcciarsi alla medicina del futuro».

Giancarlo Bosetti per “la Repubblica - Robinson” l'8 novembre 2021. La caccia al tesoro intellettuale della spiegazione della vittoria di Trump nel 2016 ha finito per mettere sotto accusa la "meritocrazia". Diluviano libri e articoli contro. Persino Squid Games, la serie di Netflix sulla gara dei 456 disperati, che si lasciano ammazzare per il miraggio di un bottino che li liberi dai debiti, viene ora interpretata come metafora delle iniquità di una competizione sociale a carte truccate. Nel linguaggio corrente sta diventando un insulto alla povera gente. Se quella stessa parola - e sottolineo " se" - rappresenta l'anima della società americana, allora Dio ne scampi dal metterla in pratica. Imbocchiamo qui la strada di un paradosso nel quale sarà bene districarsi senza perdere di vista l'importanza delle critiche che, insieme a quell'idea, sono state rivolte alla società americana e a tante situazioni simili: Brexit e altri populismi. Se per meritocrazia intendiamo che i posti assegnati per concorso devono andare al più bravo e titolato dei candidati, faremo bene a presidiare il senso di giustizia, che qui va d'accordo con il senso comune: no al raccomandato e no ai concorsi truccati. Ma quel concetto ha anche, e soprattutto, quell'altro significato, fin da quando la parola fu inventata dal suo autore, Michel Young, nel 1958, in un'opera geniale, The Rise of Meritocracy (L'avvento della meritocrazia), metà satirica e metà no. Young era un laburista e aveva lavorato al programma con cui Attlee batté Churchill alla fine della guerra e in particolare alla riforma della scuola, che voleva introdurre mobilità sociale e correggere fin dalle elementari il classismo del sistema inglese, introducendo una valutazione, appunto meritocratica, che alla fine delle elementari aprisse la via alle carriere sulla base del talento, ovvero del quoziente di intelligenza. Era un criterio largamente prevalente nelle convinzioni scientifiche del tempo anche per la selezione delle università americane. Negli anni successivi però Young fu come perseguitato da un incubo, relativo alla sua stessa riforma, che prese la forma di quel famoso libro, nel quale la " meritocrazia" finisce per partorire un mostro, un mondo in cui le posizioni elevate diventano ereditarie, una selezione darwiniana, eugenetica, razzista, con l'aggiunta di matrimoni in base al QI: tutti "i migliori" sopra tutti "gli scartati" sotto. Il risultato è una società che, sessant' anni dopo, cade nella rivolta cieca, nell'anarchia, nella violenza. Young dedicò per questo il resto della sua vita a correggere i programmi viziati dal peccato originale del QI. E negli anni Novanta sconsigliò a Blair di usare quella parola. Una accurata storia di questo paradosso si trova ora nel libro, in (parziale) controtendenza, di Marco Santambrogio, filosofo analitico e del linguaggio (Il complotto contro il merito, Laterza). Dopo Trump, le pagine di Young offrivano qualche utile spiegazione alle follie degli elettori: evidenti le somiglianze tra quella distopia e l'America in preda ai fumi della rivolta dei " perdenti". Cominciava Anthony Appiah, nel 2018, con un brillante saggio dedicato proprio a Young, sul Guardian: "Contro la meritocrazia: l'idea di una società che premia il talento ha creato nuove élite di privilegiati". La critica mordeva la campagna elettorale di Hillary Clinton e la sua infausta battuta sui deplorables, che incendiava il risentimento dal basso contro l'élite. Proseguiva e allargava l'opera Daniel Markovits, con The Meritocracy Trap ( Penguin), una trappola che è il mito fondativo del sogno americano e che invece « nutre l'ineguaglianza, distrugge il ceto medio e divora l'élite» . Markovits spiega crudamente ai suoi studenti di Yale che per arrivare fino a lì hanno goduto del beneficio di un investimento famigliare di diversi milioni, inaccessibile non solo ai poveri, ma anche al ceto medio. A Young dà ulteriore credito Michael Sandel, il bestselling di Harvard, con La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e perdenti (Feltrinelli). L'incubo si è avverato, prima del previsto 2033: i vincitori si ritengono tali non più per diritto di nascita, ma per i propri meriti e sviluppano perciò arroganza nei confronti dei perdenti, i quali sono non solo sconfitti, ma anche umiliati dall'idea di esserselo meritati. Santambrogio, con gli strumenti della logica, riprende nelle sue mani la discussione a cominciare dal principio aristotelico - «giustizia è dare a ciascuno ciò che merita» - per evitare che il principio ragionevole, e a portata del senso comune di cui dicevamo all'inizio, non vada perso. Buttiamo insomma, propone, l'acqua sporca ma non il bambino, facendo chiarezza sulla omonimia pericolosa tra la visione angosciosa di Young e un modello virtuoso di ideale meritocratico: quello di una società che apre le carriere ai talenti, che offre pari opportunità a prescindere dalle differenze e assegna i posti in base al merito. A ben vedere allora, la società americana non è una meritocrazia, ma una meritocrazia fallita. Una utopia capovolta, come Bobbio diceva di quella comunista? Rispetto a una tradizione liberale che ha messo da parte il merito nel senso morale ( l'impegno, la dedizione, le qualità umane) per preferirgli il valore economico o i titoli acquisiti con il curriculum, Santambrogio vuole aggiornare la considerazione del merito e insieme contrastare le sproporzionate differenze economiche che sono associate alla selezione. Sulle ricchezze dovrà allora agire la redistribuzione attraverso il fisco, antica scoperta socialdemocratica. Ma la società dovrà assegnare al merito insieme alla ricompensa economica, da calibrare meglio che in Squid Games, anche l'onore che tocca non solo a chi ha i titoli, come il celebrato chirurgo, ma anche - e spesso di più - ai bravi e coraggiosi infermieri in corsia, uomini e più spesso donne.

Salviamo la meritocrazia, una cosa buona finita sotto attacco. Marco Santambrogio su l'Inkiesta il 5 novembre 2021. Nel suo libro Marco Santambrogio (Laterza) analizza le cause e le dinamiche che hanno reso sempre più complicato attuare e riconoscere il merito. Un concetto che in Italia è stato spesso messo in discussione dagli anni ’60 in poi. Per la mia generazione e anche per quella successiva la meritocrazia anglosassone è stata un punto di riferimento importante. Contro coloro che si aspettavano da una rivoluzione socialista una società di uguali, i riformisti di sinistra intendevano l’uguaglianza soprattutto come uguaglianza di opportunità, non di risorse. Per attuarla chiedevano una riforma e un forte potenziamento del sistema dell’istruzione, perché in una società in cui la conoscenza ha un’importanza sempre maggiore una buona preparazione scolastica e universitaria è condizione necessaria per poter competere su un piano di parità, nonostante le differenze di classe sociale. Per questo si guardava alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti e ai loro sistemi di istruzione. Subito dopo la seconda guerra mondiale i laburisti inglesi avevano fatto della scuola un punto centrale del loro programma. Abbiamo visto che anche la Costituzione italiana, all’articolo 34, fa proprie le loro stesse preoccupazioni e adotta il principio di uguaglianza delle opportunità (e menziona il merito).

Ancora molti anni dopo, nel 1996, Tony Blair sintetizzava così la «terza via», che avrebbe dovuto essere l’agenda del Partito laburista: «Chiedetemi quali sono le tre priorità per il governo e vi risponderò: istruzione, istruzione, istruzione». La ragione era evidente: «Crediamo che si debba migliorare la propria condizione con il talento, non sfruttando nascita o privilegi».

Negli Stati Uniti i presidenti democratici Kennedy, Clinton e Obama dicevano le stesse cose. Bill Clinton ad esempio, come abbiamo visto, amava sottolineare l’importanza dell’istruzione e il suo stretto legame con l’occupazione con uno slogan: «What you can earn depends on what you can learn». Nell’era della competizione globale i lavoratori senza un titolo universitario avranno difficoltà a trovare un buon lavoro con un salario decente.

Dunque «crediamo che tutti dovrebbero essere messi in grado di andare all’università, perché quel che si può guadagnare dipende da quello che si può imparare». Abbiamo anche visto che Barack Obama diceva le stesse cose qualche anno dopo, ma in toni più drammatici perché la globalizzazione stava procedendo rapidamente. Non è secondario che su questo punto il consenso negli Stati Uniti fosse tanto ampio che anche i presidenti repubblicani hanno detto più o meno le stesse cose sull’istruzione, il merito e l’uguaglianza.

Come spesso succede, non tutte le promesse sono state mantenute. Negli Stati Uniti si era pensato di rendere le università accessibili a tutti concedendo prestiti finanziati in prevalenza dal governo federale, senza garanzie e a tassi minimi, per coprire le tasse di iscrizione, da restituire gradualmente quando gli studenti, laureati, avessero cominciato a guadagnare a sufficienza per poterlo fare.

La Gran Bretagna di Tony Blair ha seguito l’esempio e anche da noi in teoria esistono i prestiti d’onore, che però non hanno avuto molto successo. Purtroppo oggi il debito contratto dagli studenti negli Stati Uniti ammonta a più di un trilione e mezzo di dollari. Di questi si stima che almeno un terzo non sarà mai restituito.

Le cause sono molte: c’è inflazione di laureati, gli stipendi sono aumentati molto meno del costo delle case, del servizio sanitario e soprattutto delle tasse universitarie. Sono aumentati infatti anche i costi di tutto il sistema educativo, mentre sono diminuite le sovvenzioni statali.

Come abbiamo visto, dopo anni di dibattiti, l’amministrazione Biden sta considerando di cancellare in tutto o in parte questi debiti, sollevando difficili problemi di equità. (Ad esempio, è giusto cancellare i debiti degli studenti e non quelli delle fasce più povere della popolazione che non possono nemmeno aspirare a iscriversi al college?).

Qualcuno sostiene che tutto il sistema dell’istruzione dovrebbe diventare gratuito – un cambiamento epocale. Al tempo stesso, mentre nel 1979 i laureati negli Stati Uniti guadagnavano circa il 40% in più dei diplomati delle scuole superiori, negli anni Duemila la differenza è salita all’80%. Soprattutto, la laurea è diventata un’assicurazione contro la disoccupazione.

Questo è solo un esempio degli evidenti problemi di giustizia sociale che si pongono proprio là dove il programma meritocratico sembrava più promettente. È giusto naturalmente che la discussione politica su questi temi sia accesa, ma negli ultimi tempi si sono levate diverse voci a sostenere che i problemi non possono più essere affrontati uno a uno ed è l’intero programma meritocratico che dev’essere rimesso in discussione dalle fondamenta.

Per gli italiani della mia generazione sentir affermare oggi che «il merito è un imbroglio» e «la meritocrazia è tossica» è spiacevole ma non del tutto sorprendente.

Noi abbiamo già sentito la critica antimeritocratica che nel ’68 chiedeva il «sei politico». In quegli anni, il sogno americano non era molto popolare da noi e il rifiuto della meritocrazia arrivava fino a respingere l’idea che si potesse competere per ottenere qualunque cosa – dalle posizioni sociali ai posti in graduatoria nei concorsi di qualunque tipo, ai voti a scuola.

L’abitudine di dare i voti, come si era sempre fatto, era bollata come «selezione meritocratica». Di qui la richiesta del «sei politico» a scuola e del «diciotto politico» all’università – cioè il rifiuto di ogni valutazione dei risultati raggiunti nella trasmissione delle conoscenze.

Non mi sembra che fosse molto diffusa la consapevolezza delle conseguenze di queste premesse. In particolare, non ci si rendeva conto che l’impossibilità di accertare le competenze portava di necessità a rendere inapplicabile il principio delle carriere aperte ai talenti. Forse è anche per questo che le pratiche tipiche dell’ancien régime nell’assegnazione dei posti e delle posizioni sociali sono durate da noi molto più a lungo che altrove.

Dal ’68 ad oggi la mia generazione ha avuto tutto il tempo di riflettere sull’argomento e in particolare su quello che si richiede a una critica della meritocrazia, al di là degli slogan più o meno ad effetto, perché sia convincente e non porti a conseguenze paradossali e non volute.

Da “Il complotto contro il merito”, di Marco Santambrogio, Laterza, 2021, pagine 232, euro 18

BUCCIA DI SPRITZ – Il regalo di Napoleone all’Italia: la Scuola Normale di Pisa. L'Arno il 25 ottobre 2021 su Il Giornale. Un uomo straordinario, che viveva la genialità in maniera del tutto ordinaria, non poteva che dar vita a una scuola dove il merito era norma fondante. Non poteva essere altri che lui, Napoleone Bonaparte, il “piccolo caporale” nativo di Ajaccio, il condottiero che brandiva la spada e l’esprit, a istituire la Scuola Normale di Pisa. Una delle eccellenze, termine passepartout per avvalorare a proposito oppure impropriamente tante e troppe realtà del nostro Belpaese. Per l’istituto sorto per decreto napoleonico il 18 ottobre 1810, eccellenza è termine quasi inadeguato, sicuramente restrittivo. Nato come “pensionato accademico” per gli studenti universitari, la Scuola Normale all’inizio mise a disposizione venticinque posti a concorso per studenti delle facoltà di Lettere e Scienze onde creare una succursale dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi. Mica una scuola qualunque: vi accedevano i migliori alunni – di età compresa fra i diciassette e i ventiquattro anni – selezionati al termine dei corsi liceali. Una scuola, la Normale, come ormai è comunemente conosciuta, che fra i suoi alunni ha avuto tre Premi Nobel: due per la Fisica come Enrico Fermi e Carlo Rubbia; e uno per la Letteratura nella persona di Giosuè Carducci. Come se non bastasse, alla Normale hanno studiato due Presidenti della Repubblica: Giovanni Gronchi e Carlo Azeglio Ciampi. E pensare che lo stesso fondatore, Napoleone Bonaparte, figlio di Carlo Maria Buonaparte, avvocato laureato all’Università di Pisa e con lontani parenti a San Miniato, fu presidente della Repubblica Italiana. Intendiamoci bene, presidente dal 1802 al 1805 di quella Repubblica Italiana entità politico-amministrativa, erede della Repubblica Cisalpina, stato satellite della Repubblica Francese. Facitore della storia, uno fra i padri fondatori dell’Europa moderna, Napoleone Bonaparte da militare e da statista di levatura eccezionale comprese con lungimiranza come affrontare un problema che tuttora affligge la nostra patria “sì bella e perduta” da decenni e decenni di immobilismo politico-amministrativo: la formazione della cosiddetta classe dirigente. E scusate se è poco. Non sarà il problema principale, ma è un nodo serio. Tanto serio che, in realtà, anche e soprattutto coloro che ogni giorno si riempiono la bocca con la tanto decantata meritocrazia, si guardano bene dall’affrontare e risolvere realmente. Parole, parole, parole… Sembra ormai che parlino per far prendere aria ai denti. Ma la speranza, si sa, è l’ultima a morire. Auspicare, desiderare, sognare che le cose prima o poi possano cambiare è sempre una palestra di normalità. Una cosa normale…

Buccia di Spritz / La sostenibile leggerezza dell’esistente tra cronaca, storia e commento (di Maurizio Sessa) Maurizio Sessa

Cacciare i prof incapaci? Non serve. La vera malattia della scuola è la burocrazia. Marco Ricucci, professore di Italiano e Latino presso il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Milano e docente a contratto presso l’Università degli Studi di Milano, su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2021. Per avere dei bravi prof, bisogna liberarli dalle troppe incombenze amministrative affidando ai più esperti la formazione delle nuove leve come nelle botteghe rinascimentali. In un recente articolo, Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, autori del saggio Il danno scolastico, da poco in libreria, si sono cimentati nella riflessione di una annosa questione: la «misurazione» o valutazione del corpo docente italiano. Bisogna essere onesti: fare la pagella ai professori non è facile e sarebbe, con tutta probabilità, mal digerito da gran parte della categoria alla quale appartengo pure io. Certamente, tra migliaia e migliaia di docenti, ci sarà chi è più bravo, chi è meno bravo: premiare il merito è cosa sacrosanta e giusta, ma non può essere ridotta, ad esempio, al bonus, cioè una manciata di pochi euro post tassazione, previsto dalla «Buona Scuola» di Renzi. I docenti fannulloni, come amava dire il Ministro Brunetta ai tempi di Berlusconi, ci sono. Mastrocola-Ricolfi, occhieggiando alla figura del preside-sceriffo di renziana impostazione, hanno auspicato «un atto di coraggio» ovvero «di dare ai presidi il potere di sostituire i casi disperati con insegnanti tratti liberamente dalle graduatorie, lasciando al Ministero il compito di decidere che fare con coloro che, per ora, non sono all’altezza del compito». In realtà, questa soluzione cozza con la realtà di chi vive la scuola tutti i giorni, nella situazione di oggi. In tutto il Nord del Paese, mancano docenti, soprattutto nella materie scientifiche: i «migliori» preferiscono far carriera nel privato rispetto a un posto fisso malpagato, rispetto alla media europea, anche se osannato in un film di Checco Zalone. La quota 100, oppure l’opzione donna, hanno permesso a molte maestre e professoresse di andare in pensione, o, con più schiettezza, di andare in «fuga» da una scuola sempre più burocratizzata e con carichi di lavoro maggiori di matrice pedagogico-amministrativa, a seguito di una serie di (pseudo)riforme. Una buona parte del corpo docente è composto da migliaia di laureati, privi di una adeguata preparazione professionalizzante per insegnare, o mandati allo sbaraglio, come i concorrenti alla Corrida di Corrado, su migliaia di posti di docenti di sostegno, per seguire alunni diversamente abili, rispetto alla strettissima minoranza che ha seguito un corso iperselettivo di specializzazione post lauream. E si potrebbe andare avanti nell’elenco di quello che non funziona, o funziona male, nella gestione organizzativo-logistica della scuola italiana, cenerentola per i tagli e depauperata di finanziamenti inadeguati, ormai da decenni. In questa galassia piene di nebulose che è la scuola italiana, bisognerebbe prima di tutto farla funzionare, a partire da piccole cose: l’assegnazione delle supplenze. In alcune scuole del Nord, soprattutto, i docenti devono ancora arrivare! Perciò, prima di iniziare la caccia alle streghe, è meglio stracciare e buttare nella pira il Malleus maleficarum, cioè liberarsi di vecchi steccati ideologici: insomma, occorre «depoliticizzare» il dibattito, per risolvere problemi strutturali della scuola partendo dall’esistente, sfoltendo per esempio la moltitudine di acronimi dietro i quali si nasconde la «fuffologia» nazional-educativa. Dobbiamo attendere un Draghi dell’Istruzione? La scuola di un Paese democratico e «moderno» deve rispecchiare una «vision» e avere una «mission», secondo i concetti di area anglosassone: la valutazione del corpo docenti deve avvenire in un contesto chiaro, funzionante, e non certamente essere lasciata preda di «riformicchie» di ogni Ministro che è passato nei più di 60 governi della storia repubblicana! Secondo la felice espressione della Mastrocola-Ricolfi, nella scuola votata al «mainstream tecno-burocratico-aziendale», la didattica, purtroppo, è relegata al (poco) tempo rimasto e alla buona volontà di docenti compilatori e amanuensi. Per avere «bravi» docenti, occorre una seria preparazione universitaria, un percorso di formazione iniziale per apprendere sia a livello teorico le competenze, disciplinari, pedagogiche, didattiche, psicologiche, metodologiche, tecnologiche e riflessive, da applicare, allo stesso tempo, in un tirocinio serio nelle scuole sotto la supervisione di docenti esperti della stessa scuola, come se andassero a bottega: questi, però, dovrebbero avere un riconoscimento economico serio oppure uno «sconto» dal monte ore di servizio. Inoltre, ci vuole un solo canale per essere reclutati e non, come ora, mille modi: chi non entra dalla porta (il concorso ordinario), entra dalla finestra (concorsi riservati, immissioni ope legis, ecc…). Così nella scuola entra di tutto: avvocati in crisi, architetti che hanno chiuso lo studio, donne che vogliono un lavoro realmente compatibile con lo status di madre, sfaccendati, chi è stato licenziato da una industria, chi non lavora più in una casa editrice. E così via. Mentre solo se i futuri docenti saranno adeguatamente formati e selezionati ci potrà essere un rinnovamento reale della scuola italiana e, di conseguenza, della società.

«Valutare gli insegnanti? Non si può. Ma rimuovere gli incapaci si deve». Paola Mastrocola e Luca Ricolfi su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, in libreria con «Il danno scolastico», intervengono sul tema della valutazione dei docenti dopo le indiscrezioni su un nuovo piano del ministro Bianchi: «Dare ai presidi il potere di sostituire i casi disperati». Annosa e fumosa questione, quella della valutazione degli insegnanti: mai risolta, forse irrisolvibile, ma ogni volta foriera di mugugni, timori, rifiuti, insurrezioni più o meno velate. C’è un solo modo sicuro per capire se uno è un bravo insegnante o no: ascoltare ciò che di lui pensano gli allievi, le famiglie e i colleghi. In una parola, conta la fama. Vox populi, vox Dei. Tutti sappiamo quali sono i bravi insegnanti in una scuola e in ogni sezione, infatti al momento delle iscrizioni le segreterie vengono invase da richieste specifiche: tutti vogliono che i propri figli vadano nella sezione dove quel docente insegna. Verità tanto lapalissiana quanto indicibile, e soprattutto inutile. La scuola quindi ha bisogno di trovare un modo più oggettivo e scientifico di valutare i suoi insegnanti. E qui casca l’asino. Quale modo? Secondo quali criteri? Stabilire i criteri non è cosa da poco: è il segno tangibile di un’idea di scuola, di che cosa oggi si vuole dalla scuola. Non facile. Per i genitori che devono iscrivere il figlio in una scuola è molto chiaro e se vogliamo, molto tradizionale: un bravo insegnante è quello che sa quel che insegna, è capace di trasmetterlo e pretende anche che l’allievo lo impari. Ma per il nuovo mainstream tecno-burocratico-aziendale potrebbe invece essere bravo colui che s’impegna ad attivare corsi extra e didattiche innovative, si occupa del recupero, del sostegno psicologico, dell’educazione alla cittadinanza o dei rapporti con il territorio. Alla fine rischierebbe di prevalere un criterio puramente numerico anziché culturale: quante ore si ferma a scuola, a quante commissioni partecipa, quanti ruoli e funzioni ricopre. Anche qui, ci sarebbe invece un modo naturale e, di nuovo, inapplicabile per valutare davvero un buon insegnante: essere presenti alle sue lezioni, e vedere come spiega, come tiene la classe, come interroga, se svolge il programma … Mandare degli ispettori in presenza, che seguano migliaia di insegnanti per migliaia di lezioni? Impensabile. Rimangono dunque le griglie, le linee guida e tutti quegli strumenti più o meno farraginosi con cui le istituzioni provano ad auto-osservarsi. Bene. E poi? Quand’anche si arrivasse ad avere un quadro chiaro in ogni scuola di chi insegna bene e chi no, che si fa? Si licenziano i cattivi insegnanti? Si depistano su altri compiti, tipo il classico bibliotecario (in scuole perlopiù prive di biblioteche)? Si ri-formano con infiniti corsi di formazione? O si “spalmano” su più sezioni, come si fa da sempre, per distribuire il danno a più classi invece che concentrarlo su una sola sventurata classe? Quest’ultimo, forse, è il punto cruciale. In quasi tutte le scuole esiste un manipolo di insegnanti non all’altezza, e i presidi - a forza di segnalazioni delle famiglie - sanno perfettamente di chi si tratta. Il danno che fanno ai ragazzi e alle ragazze è enorme, e spalmarlo su più classi non può essere la soluzione. Forse, più che mettere in piedi l’ennesimo, mastodontico, farraginoso apparato di valutazione per tutti, sarebbe un atto di coraggio dare ai presidi il potere di sostituire i casi disperati con insegnanti tratti liberamente dalle graduatorie, lasciando al Ministero il compito di decidere che fare con coloro che, per ora, non sono all’altezza del compito. Secondo l’aurea massima che guida la medicina: primum non nocere.

"La scuola progressista genera disuguaglianza. Sanzioni ai docenti che attestano il falso". Gabriele Barberis il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. "Ecco il vero danno scolastico". Il saggio del sociologo e della scrittrice Paola Mastrocola. Torna in campo il sociologo Luca Ricolfi, mente lucida e voce critica dell'area liberal-progressista. Con la moglie Paola Mastrocola (scrittrice, premio Campiello 2004 ed ex docente) ha appena scritto il libro «Il danno scolastico» che denuncia le gravi responsabilità della sinistra sullo scadimento dell'istruzione pubblica.

Professor Ricolfi, un saggio sulla scuola progressista come macchina della disuguaglianza. Scusi la provocazione, ma dove sarebbe la novità?

«Forse non è una novità per lei, ma forse non sa che la stragrande maggioranza dei miei colleghi sociologi non ha mai riconosciuto né analizzato l'impatto della qualità dell'istruzione sulla diseguaglianza. In questo libro noi dimostriamo, credo per la prima volta, che più la scuola abbassa il livello, più si allarga il divario fra le chance di promozione sociale dei ceti bassi e quelle dei ceti alti: la scuola senza qualità è un regalo ai ricchi. E la dispersione scolastica, su cui da decenni ci si straccia le vesti, è anche un effetto non voluto dell'abbassamento».

I danni dell'«istruzione democratica» sono il fardello finale del Sessantotto o ci sono responsabilità più recenti da parte di una sinistra ideologica?

«Sì, ci sono responsabilità posteriori al '68, ma ce ne sono anche di anteriori, prima fra tutte la istituzione della scuola media unica (1962), con la progressiva eliminazione del latino e il costante annacquamento dei programmi. Per non parlare dei danni del donmilanismo (Lettera a una professoressa è del 1967), un'ideologia che avrebbe avuto un senso negli anni '50, ma che alla fine dei '60, quando si diffuse, era divenuta del largamente inattuale e profondamente anti-popolare».

E le responsabilità successive al Sessantotto?

«Sono innumerevoli, a tutti i livelli. A partire dalla liberalizzazione degli accessi (1969), passando per la soppressione della figura del maestro unico alle elementari (1990), fino alle grandi riforme della fine degli anni '90 nella scuola e nell'università, con la trasformazione delle scuole in pseudo-aziende e delle università in esamifici: il capolavoro del ministro Berlinguer».

Lei elenca casi concreti di totale ignoranza o scarsa capacità di comprensione da parte di studenti universitari preparati male. Prevede una classe dirigente nazionale fatta da figure incompetenti e inadeguate?

«Più che prevederla, la osservo. L'abbassamento è iniziato quasi 60 anni fa, e quindi ha avuto tutto il tempo di produrre un ricambio completo di classe dirigente. Direi che lo spartiacque è negli anni '70: chi è nato dopo non ha più usufruito di un'istruzione decente, semplicemente perché la maggior parte di coloro che avrebbero potuto impartirgliela era uscito di scena, e la maggior parte dei nuovi docenti avevano un livello di preparazione decisamente meno soddisfacente. Naturalmente non mancano le eccezioni (pessimi docenti di ieri, ottimi docenti di oggi), ma il trend è quello che è: chiaro e inesorabile».

Vogliamo parlare anche di docenti non all'altezza, se non imbarazzanti in certi casi? Anche loro sono passati attraverso le maglie larghe dell'egualitarismo?

«Il problema non è solo l'egualitarismo, o meglio l'egualitarismo malinteso che ha dominato la scena per mezzo secolo. Il punto cruciale, quello che rende i problemi dell'istruzione maledettamente complicati (e probabilmente irrisolvibili), è che la maggior parte delle famiglie e degli studenti hanno oggi altre priorità, e nuove scale di valori: la priorità numero 1 è il consumo, e la sciatteria non è considerata un difetto. Bastano queste due circostanze, che ogni docente trova bell'e fatte davanti a sé, a ostacolare enormemente il lavoro di chi prova a insegnare qualcosa».

Le riforme Moratti e Gelmini, varate durante i governi di centrodestra, hanno tentato di correggere storture ideologiche del passato. Come ne giudica gli effetti ad anni di distanza?

«Direi che, se ci hanno provato, hanno fallito completamente. Ma a mio parere non ci hanno provato granché, probabilmente perché condividevano un punto centrale delle mode degli anni '90: l'idea che la scuola vada pensata come un'azienda, di cui va valutata l'efficienza, e i cui azionisti di maggioranza sono le famiglie. Su questo punto cruciale vedo poche differenze fra destra e sinistra».

Se lei fosse il ministro dell'Istruzione quale provvedimento adotterebbe d'urgenza?

«Come sociologo, penso che dovremmo avere il coraggio di ammettere che ci sono problemi sociali non risolvibili. O meglio, ormai non più risolvibili perché si è lasciato passare troppo tempo. Quindi non ho proposte, tutt'al più provocazioni per far capire qual è il problema.

Una provocazione?

«Beh, un'idea ce l'avrei. Così come si parla di responsabilità civile dei giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa (si può dire così?) del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi, come un perito che è responsabile della perizia che firma. Basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell'università, ossia il rilascio di certificati che attestano il falso».

Doppia domanda come analista politico. Dove sfocerà la tensione politica sul green pass? Se Draghi diventerà presidente della Repubblica, si immagina un'Italia che torna alle urne tra pochi mesi al culmine di un clima di odio?

«Alla fine credo che il governo dovrà concedere qualcosa a chi non vuole né vaccinarsi, né accollarsi, per poter lavorare, 100-150 euro al mese di spesa per i tamponi. Quanto a Draghi presidente della Repubblica, la conseguente andata alle urne a primavera mi pare difficilmente evitabile. Però mi chiedo: siamo sicuri che votare nel 2022 sarebbe un male peggiore che andare alle urne nel 2023? In fondo prima o poi al voto dovremo andare. E sarebbe anche ora, visto che è da 13 anni che non riusciamo più a scegliere i nostri governanti».

Chiudiamo con la giustizia. Le continue invasioni di campo della magistratura condizionano la politica. Anche per lei sarebbe positivo il pieno ritorno dell'immunità costituzionale per i parlamentari per frenare lo strapotere delle procure?

«Anche in questo caso, come in quello della scuola, bisognerebbe prendere atto che una soluzione soddisfacente non esiste, e che siamo costretti a scegliere fra due mali. Nel 1993 il male maggiore era, o sembrava, il vizietto del Parlamento di negare in automatico l'autorizzazione a procedere. Dopo quasi trent'anni, il male maggiore è, o sembra, il protagonismo dei Pm, che ora si accanisce anche nei confronti dei sindaci. Di qui, per noi liberali e garantisti, il paradosso: la magistratura è caduta così in basso che siamo tentati di invocare l'immunità per un ceto politico che sappiamo essere il peggiore di sempre».

Gabriele Barberis Caporedattore Politica, Il Giornale

Flavio Vanetti per il "Corriere della Sera" il 21 settembre 2021. Ha un QI di 230: Albert Einstein, per intenderci, arrivava a 160. Il matematico Terence Tao, per tutti Terry, 46 anni, professore a Ucla, si presenta come un turista comune, la semplicità gli appartiene assieme ai modi garbati: look easy, giubbotto su una polo e sandali, anche se a Varese ormai non fa più caldo. Fino al 24 settembre l'Università dell'Insubria lo ospita - con un'escursione domani pomeriggio a Brera - per incontri e conferenze. Venerdì, infine, Tao riceverà il Riemann Prize (nel 2021 un'opera di Marcello Morandini), uno dei numerosi riconoscimenti in una vita strabiliante: a 2 anni leggeva da solo, a 5 insegnava ai bambini, a 7 era al liceo, a 9 frequentava corsi di matematica avanzata.  

Un alieno, forse? 

«Macché. E ho gli stessi problemi di tutti».  

Una straordinaria normalità. La giudicano l'uomo più intelligente del mondo: che cosa ne pensa? 

«Le definizioni assolute sono pericolose e io sono un matematico che si diverte con il suo lavoro. Nel nostro mondo non facciamo confronti, non c'è motivo».  

Galileo Galilei disse: «La natura è un libro e la matematica è il suo alfabeto». 

«Bella frase. La matematica è il linguaggio con cui spogli un pensiero nelle componenti centrali. Un'eventuale razza extraterrestre non comunicherebbe a parole, ma con numeri e matrici». 

È vero che faceva disperare la nonna disegnando numeri sulle finestre con il sapone liquido? 

«Avevo 2-3 anni, i numeri mi sono sempre piaciuti: amo i giochi nei quali se fai una cosa vinci e se ne fai un'altra perdi. La matematica è proprio così: una risposta è giusta e una è sbagliata».  

Ha una vita normale o speciale? 

«Normale: il lavoro, la moglie e due figli da seguire. Gli hobby? Sono un patito di giochi da computer, anche se li ho accantonati». 

C'è una cosa che non sa fare o che non riesce a capire? 

«La fisica è dura... Poi non so cantare e nemmeno recitare: pensate che trovo complicato leggere un discorso che mi è stato preparato».  

John Garnett di Ucla sostiene che lei è come Mozart. 

«Conosco Mozart grazie al film "Amadeus": non mi identifico in lui, ma il paragone è curioso e la sua musica è splendida». 

 Che cosa esplora con le sue ricerche? 

«Le connessioni tra le aree della matematica: il tentativo di unificarne gli aspetti è una costante di questa disciplina».  

Perché molti studenti la detestano? 

«Perché la vedono come qualcosa di magico. E se non segui il suo linguaggio, ti capita qualcosa di brutto. Bisogna cambiare approccio, provare, sperimentare: la matematica non è da temere».  

Secondo Paul Dirac, se Dio esistesse sarebbe un matematico. 

(risata) «È sorprendente come la natura sia semplice a patto di non modificarne i fondamentali: se cambi, diventa complicata».  

Ma lei crede in Dio? 

«Un'entità creatrice penso ci sia stata, però poi non ha avuto parte attiva nell'evoluzione». 

Possiamo rendere la matematica più comprensibile e condivisa? 

«È una grande sfida. In Rete si sperimenta e su YouTube circolano video ben fatti. Quale matematica per il futuro? Mi aspetto ulteriori applicazioni nei Big Data, nella biomatematica, nelle scienze sociali e nella fisica».  

A scuola ha mai avuto un brutto voto? 

«Sì. Ho fallito un paio di esami. Uno era di fisica: tutto bene per la parte di matematica, poi mi hanno chiesto nozioni storiche e io non le avevo studiate perché secondo me non c'entravano nulla».  

Australiano di nascita, genitori cinesi, anche cittadino Usa. Questo melting pot l'ha aiutata nella carriera? 

«Sono stato educato secondo lo stile occidentale, guardo la tv americana, non amo il cibo cinese anche se ho amici cinesi. Di quale Paese mi sento? Nella matematica non conta da dove vieni».  

Due più due... fa sempre quattro? 

«Se non ci sono trucchi, dico di sì»

Miraggi di meritocrazia nel deserto. Angela Rizzica su Il Quotidiano del Sud il 19 luglio 2021. Gli Eroi nella Terra dei Neet. L’ultimo e inedito capitolo della saga de “Il Signore degli Anelli”? "Purtroppamente" no, come direbbe Cetto La Qualunque. I ‘neet’ (Not in Education, Employment or Training, ndr) in Italia, e cioè i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono impegnati negli studi, nel lavoro e più in generale in percorsi di formazione, nel 2020 sono aumentati di 97.000 unità rispetto al 2019. A causa della pandemia, secondo i dati diffusi dall’Eurostat, la percentuale è passata dal 22,1% del 2019 al 23,3% del 2020 (il dato peggiore in Europa), per un totale di 2,1 milioni di giovani italiani, fondamentalmente, senza prospettive. A questi dati catastrofici, si aggiungono quelli riportati nel Rapporto Nazionale INVALSI 2021: sulla scia di un trend generalmente negativo che vede un peggioramento nella preparazione degli alunni di quinta superiore rispetto al 2019 (che molti addebitano alla DAD), le regioni del Sud sono quelle che presentano un maggior numero di studenti al di sotto del livello “minimo”. A titolo esemplificativo, in Campania il 64% dei liceali non raggiunge la soglia minima di competenza nella lingua italiana; in Calabria ritroviamo la stima del 64% e in Abruzzo il 50%. Nelle altre materie la situazione di certo non è migliore. Eppure, nonostante un panorama a dir poco catastrofico, la comunicazione portata avanti dai media nazionali si concentra sulla mitizzazione di quei pochi, pochissimi giovani che raggiungono traguardi – accademici e lavorativi – ragguardevoli in tempi record. E se le mamme dei nostri ricordi, tra elementari e medie, insegnano qualcosa, possiamo certamente dire che questa narrazione tossica non fa altro che peggiorare il senso di inadeguatezza comune. I media si stanno comportando esattamente come quei genitori che, nella falsa convinzione di stimolare la competitività del pargolo, riproponevano (almeno ai miei tempi) ossessivamente all’attenzione di quest’ultimo i successi scolastici raggiunti dal compagno o dalla compagna di scuola di turno. Ovviamente, non ottenevano nulla da parte del figlio se non determinare un’innata e ingiustificata antipatia nei confronti della prima o del primo della classe. E così la comunicazione all’italiana, bombardando smartphone, tablet e pc con le notizie dei ragazzi prodigio, non ottiene schiere di ‘neet’ rinvigoriti dalla provocazione e pronti alla battaglia nel mondo del lavoro o in quello accademico, ma una pletora di giovani che sprofondano ancora di più nel baratro dell’inadeguatezza. Quei titoloni, proni alla spersonalizzazione del vissuto, mitizzano vite e soggetti senza sapere quale sia effettivamente la verità dietro a quelle vittorie, non indagano sulle circostanze che, congiunte, hanno permesso il raggiungimento di quell’obiettivo. Altrettanto, quegli stessi titoloni, non tengono in conto l’evidente divario tra le fasce della popolazione né si occupano di denunciare quella carenza di mezzi che, spesso, fa la differenza tra un laureato e uno spacciatore. Urlare ai quattro venti “se vuoi, puoi” tramite la mitizzazione di quei pochissimi che “ce l’hanno fatta”, è nascondere la testa sotto la sabbia e portare avanti un canale comunicativo pericoloso. È un processo di deresponsabilizzazione nei confronti delle Istituzioni che, per lungo tempo, sono state completamente (o quasi) assenti non solo in alcuni particolari territori ma anche, come si diceva, nelle fasce di popolazione economicamente e culturalmente meno “elevate”. I media dovrebbero preoccuparsi di denunciare queste ingiustificabili differenze che, molte volte, portano a destini predeterminati. Insomma, se non tutti hanno le stesse possibilità (escludendo le pur presenti variabili quali “raccomandazioni”, “famiglie influenti” e “agganci”), non a tutti si può richiedere il raggiungimento degli stessi obiettivi soprattutto se, come in Italia, quegli obiettivi sono spesso puri miraggi di meritocrazia nel deserto. Ai giovani italiani non servono gli esempi di chi “ce l’ha fatta” ma la predisposizione di strumenti per farcela e la creazione di un mercato accogliente e non respingente quale è quello attuale. Complimenti a Pierino che, in un anno e mezzo, si è laureato dodici volte ma complimenti vivissimi a Giulia che, vivendo a Tor Bella Monaca, si è diplomata a vent’anni e fa la cameriera per pagare le tasse universitarie e sfuggire alla sirena della criminalità. Per entrambi dobbiamo costruire un mondo inclusivo ma, per la seconda, non vedo mai titoli di giornale. Eppure, la sua storia, meriterebbe proprio di essere raccontata.

Roger Abravanel per il "Corriere della Sera" il 19 luglio 2021. Molti osservatori vedono nella vittoria di Wembley un possibile segnale per la ripresa del Paese. Il New York Times applaude alla rinnovata credibilità internazionale del paese di Mancini e Mario Draghi mentre ogni giorno fioriscono dalle nostre parti interpretazioni più o meno creative sulla riscossa del Paese grazie alla vittoria degli azzurri. Un sottosegretario ha dichiarato che la vittoria porterà il 7% di PIL in più mentre un quotidiano nazionale è uscito con un pezzo «Tra scherma e industrie hi-tech, la Jesi del Mancio ostinata e di successo» nel quale inneggia alle solite «Multinazionali tascabili» come piattaforma del rilancio economico in parallelo al successo globale dei suoi talenti sportivi come Mancini e Valentina Vezzali. La vittoria agli europei è stata sicuramente un piccolo miracolo se teniamo conto che in tre anni Mancini ha costruito una squadra vincente sulle macerie della eliminazione agli ultimi mondiali. Lo ha fatto senza possedere grandi talenti e contro squadre molto più favorite. Più che attendere magici impulsi alla crescita delle nostre imprese dalla vittoria di Wembley solo grazie alla riscossa degli italiani galvanizzati dall'essere diventati i primi d'Europa nello sport più popolare, vale la pena di soffermarsi su ciò che potrebbe imparare dal successo degli azzurri il nostro ecosistema di imprese, università e istituzioni pubbliche responsabili di un rilancio della nostra economia post-covid, reso più difficile da una accelerazione della economia della conoscenza e del talento sulla quale siamo già in grave ritardo. Innanzitutto l'ambizione dichiarata da Mancini di volere costruire un progetto vincente agli europei. Ambizione che troppo spesso manca al nostro capitalismo famigliare che si rifugia nelle «nicchie» e nelle «multinazionali tascabili» e fa sì che oggi siamo il fanalino di coda nelle Fortune 500 , le più grandi aziende del mondo , appunto quelle che vincono nella economia della conoscenza e creano i posti di lavoro ben retribuiti per i laureati che da noi oggi mancano. L'ambizione di Mancini &Co si è poi tradotta in un atteggiamento nei confronti del rischio e della innovazione (attaccare e non difendere, giocare senza centravanti ecc.) che manca totalmente a molte delle nostre imprese che rigettano nuove (e quindi rischiose) forme di crescita e competitività globale come le acquisizioni, l'e-commerce, il marketing ecc. L'ambizione e la ricerca della eccellenza latitano anche nell'altro protagonista della crescita nella economia della conoscenza, i nostri atenei. Mentre la classifica Qs metteva al 149mo posto la migliore università italiana, il Politecnico di Milano, da noi si celebrava una ricerca di Italia-decide, Intesa e Luiss che dimostrava che il 40 percento delle università italiane rientra tra le prime 1.000 del mondo. Il progetto ambizioso di Mancini si è tradotto infine in un'altra dimensione particolarmente carente nelle nostre imprese famigliari e nelle università, la meritocrazia. Selezionare talenti e metterli al posto giusto, puntando su «anziani sicuri» (Bonucci e Chiellini), scoprendo giovani poco noti (Pessina e Locatelli) e facendo rifiorire altri un po' spenti nel campionato (Bernardeschi). Lo stesso Mancini è il risultato di una selezione e non è lì perché suo padre guidava la nazionale. Meritocrazia sconosciuta nel capitalismo familista italiano che durante le settimane di euro 2020 ci sottoponeva all'antico e deprimente rito dei politici che portavano i loro omaggi al convegno di Confindustria «giovani imprenditori» che in gran parte sono figli di imprenditori (sempre meno giovani). Per non parlare del rifiuto cronico da parte dei nostri atenei della meritocrazia e della competizione che portano da sempre a scandali sulle carriere dei docenti e alla fuga dei «cervelli» che ormai non scandalizzano più nessuno. Infine la forza della idea di «squadra» azzurra che manca totalmente a un ecosistema economico in cui le regioni competono tra loro per promuovere a Shanghai il Bel Paese e il potere giuridico blocca la crescita delle imprese paralizzando il potere decisionale della PA e la giustizia civile. Le lezioni dalla vittoria di Wembley per l'ecosistema economico italiano sono interessanti anche se il rilancio del Paese è sfida ben più complessa della vittoria a euro 2020. Il paragone calcio-economia è un po' stiracchiato perché, se l'ultimo «miracolo economico» e di 50 anni fa, di «miracoli calcistici» ce ne sono stati diversi prima di quello di Wembley. Un secondo posto nel '70 dopo la mancata partecipazione del '66, quarto e primo posto nel '78 e '82 dopo l'eliminazione al primo turno del '74, vittoria ai mondiali del 2006 dopo l'eliminazione al primo turno del 2002. Alla fine, ogni 10-15 anni un miracoletto l'Italia del calcio lo ha sempre piazzato. Perciò, anche se c'è molto da imparare dal successo di Wembley, la sfida e le ricette per riscattare un ciclo negativo calcistico non sono le stesse di quelle per invertire un declino quasi secolare. Soprattutto viene da chiedersi perché il mondo dell'economia e delle istituzioni italiane non riesce da cinquant' anni a darsi una iniezione di ambizione, innovazione, meritocrazia e spirito di squadra come invece fa, periodicamente, la nostra nazionale. Qui, forse, una differenza chiave la facciamo noi italiani: tifosi esigenti nel chiedere un cambiamento dopo le sconfitte ma cittadini e operatori economici sonnacchiosi che tollerano un declino che va avanti da cinquanta anni illudendosi che vada tutto bene, senza provare davvero a capire cosa non va e accettando senza critiche le numerose sbagliate diagnosi e ricette proposte delle élite imperanti della politica e della economia e in più diffuse da media di bassa qualità.

Competenza e competizione. Romolo D'Orazio su Il Riformista il 6 Luglio 2021. Qualche giorno fa mi è capitato di imbattermi in una conversazione, attraverso la quale un venditore cercava di piazzare il proprio prodotto, denigrando con dovizia di particolari i propri concorrenti ed elencandone i vizi e le debolezze anche personali, tuttavia senza andare a fondo sulle caratteristiche distintive della propria offerta. Da lì ho riflettuto sul fatto che, se ci pensiamo bene, da qualche anno ogni tipo di competizione si caratterizza più per gli attacchi ai competitor che per le proprie competenze distintive. Questa circostanza accomuna ormai diversi e variegati settori della nostra vita: la politica, l’impresa, lo spettacolo, l’arte, lo sport; insomma, in ogni ambito competitivo ci si ritrova ad ascoltare giudizi “sull’altro” più che un focus sulla propria qualità (ovviamente quando sia concreta e dimostrabile). In un momento come quello che viviamo, all’insegna delle incertezze sul futuro, caratterizzato dal bisogno di risposta alle varie istanze, a mio avviso sarebbe molto più proficuo e lungimirante un atteggiamento che faccia leva sulle certezze da trasmettere ai nostri interlocutori:

“mi reputo bravo a…”,

“il mio prodotto ha queste caratteristiche che lo differenziano dagli altri”,

“offro un servizio che risponde ai seguenti bisogni”,

“ il mio programma politico si basa su questi principi…” ,

“otterrò dei risultati sportivi perché mi sto allenando duro”.

Bisognerebbe anche mettersi nei panni di chi si sente dire che il prodotto che ha acquistato fino ad ora era pessimo, che il consulente al quale si è affidato è un poco di buono, che il vino che beve è un aceto, che il partito che ha votato è popolato da cialtroni; chi riceve questi messaggi, in buona sostanza, si sente dare dell’incompetente e non è proprio un modo intelligente di approcciarsi ad un confronto costruttivo. In realtà, a ben riflettere, l’attacco al concorrente mette in evidenza come il livello medio di offerta, in molti ambiti, sia ormai caduto in basso; quando non si hanno delle skill solide, quando non si hanno principi ben saldi, si opta sempre per “buttarla in caciara” distogliendo così l’attenzione da sé stessi e dalle proprie debolezze. Oserei dire che il livello di attacco al competitor è direttamente proporzionale alla propria debolezza e, spesso, alla propria incompetenza. Del resto, un proverbio cinese recita “dare a tuo figlio una competenza è meglio che dargli mille monete d’oro”. Tornando tutti a concentrarci su quel che sappiamo fare meglio, provando a migliorarci costantemente senza distrarci in parole e polemiche inutili, ne trarremo tutti un grande beneficio. Senza voler santificare a tutti i costi il Mario nazionale, occorre riconoscere che ha dato un esempio di come si possa lavorare con un profilo moderato, quasi silente, inversamente proporzionale al “rumore” che fa la sua competenza, per citare Diodato. Ecco, mi sembra un ottimo esempio da seguire per affrontare gli anni che ci attendono da qui alla ripartenza definitiva: competenza, rispetto per l’avversario ed azioni concrete.

P.S. Non cito un altro esempio di concretezza e competenza, nel campo dello sport, per scaramanzia… 

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" il 6 giugno 2021. La connessione patologica tra meritocrazia, diseguaglianze e democrazia americana attraversa la conversazione con Daniel Markovits. Classe '69, titolare a Yale, la più prestigiosa Law School americana, della cattedra di diritto privato intitolata a Guido Calabresi (fondatore della scuola economica del diritto, teorico delle «scelte tragiche» e ora giudice federale a New York), Markovits si è imposto nel dibattito pubblico americano con il libro The Meritocracy Trap (La trappola della meritocrazia, Penguin Press), definito «ambizioso e disturbante» dalla New York Times Book Review. Nella annuale conferenza torinese del «Common Core of European Private Law», un progetto internazionale di studi organizzato da oltre 25 anni dall' International University College coinvolgendo centinaia di giuristi con più di 15 volumi già pubblicati per i tipi di Cambridge University Press, Markovits ha tenuto una conferenza intitolata «Enough! The Good Life after the Age of Growth». Ovvero: «Basta! La vita felice dopo l'era della crescita».

Perché la meritocrazia è una trappola?

«Perché rifà la vita come una competizione senza fine che assicura i ricchi ed esclude gli altri, incoraggiando lo sviluppo del "capitalismo umano", il regime economico in cui la formazione e le competenze dei lavoratori sono la più grande fonte di ricchezza della società». 

Con quali conseguenze?

«Questo sviluppo porta le élite a investire nelle scuole per i propri figli, in modo che l'istruzione si concentri nelle famiglie ricche. Allo stesso tempo, ristruttura il lavoro piegando l'innovazione tecnologica per favorire proprio quelle professionalità che solo l'istruzione d' élite fornisce. Queste trasformazioni precludono alla maggior parte delle persone - poveri e classe media - un accesso significativo ai vantaggi sociali ed economici». 

Una trappola per i poveri.

«Non solo, perché allo stesso tempo le élite che sembrano beneficiarne devono dedicare la loro vita e quella dei loro figli a una scuola e a un lavoro alienanti».

In che senso la meritocrazia è il mito fondatore della società americana?

«Quando i padri fondatori degli Stati Uniti si liberarono dell'aristocrazia ereditaria europea, abbracciarono consapevolmente quella che Thomas Jefferson chiamava un'aristocrazia del talento. Molte persone furono escluse, soprattutto schiavi di origine africana, nativi e donne. Ma tra gli inclusi, il merito - inteso come talento più sforzo - doveva sostituire il lignaggio come legittimazione delle gerarchie sociali. E col tempo, secondo il mito, una società sempre più illuminata ha gradualmente rimosso le esclusioni, regnando l'uguaglianza delle opportunità». 

Non è così?

«Questo è un mito non solo per la ragione che le esclusioni basate su razza e sesso e non sono state completamente superate, ma anche perché la meritocrazia stessa è diventata un modo per escludere tutti, tranne i ricchi, diventando un ostacolo alle pari opportunità». 

Com' è vista la questione nelle università americane d' élite, come la sua?

«La mia sensazione è che sia gli studiosi sia gli studenti si siano avvicinati all' idea che la meritocrazia sia la causa dell'ingiusta gerarchia più che la soluzione. I vertici delle università d' élite rimangono più scettici. Le università si trovano di fronte a una dura scelta tra uguaglianza ed elitarismo. Io sostengo che dovrebbero scegliere l'uguaglianza. Ma farlo richiederebbe l’abbandono del modello di business dell'educazione d' élite americana».

E nel dibattito politico?

«Anche il mondo politico ha cominciato ad abbracciare l'idea che una disuguaglianza meritocratica rimane una forma di gerarchia e che la meritocrazia è diventata aristocrazia con altri mezzi e sotto un nuovo nome. Questo riconoscimento attraversa le linee di partito. La partigianeria negli Stati Uniti è potente come mai a memoria d' uomo, ma si basa tanto sul tribalismo quanto sull' ideologia». 

La pandemia sta cambiando l'approccio dell'opinione pubblica americana al tema delle diseguaglianze?

«Ha messo a nudo disuguaglianze che prima erano mascherate. Le persone ora chiamate "lavoratori essenziali", che hanno salvato il paese e sopportato il peso della malattia, prima erano spesso definite "non qualificate". Questo ha portato più persone a riconoscere che i salari che il mercato paga non sono una buona misura del contributo di un lavoratore alla società. Inoltre, gli americani sono più disposti ad accettare, e persino ad abbracciare, il governo come fonte di sostegno sociale. Infine, gli americani stanno cominciando a diventare più favorevoli non solo alla spesa progressiva, ma alla tassazione redistributiva. Le tasse sulla ricchezza, per esempio, sono nell' agenda politica come non mai». 

La vittoria di Biden è una svolta?

«È presto per dirlo, per due motivi. Primo: il partito repubblicano - sia le sue élite che i suoi elettori - è al momento ostile alla democrazia. Questo minaccia una rottura catastrofica nell' ordine politico americano. Allo stesso tempo, la maggior parte degli americani rifiuta queste manovre e rimane fedele alla democrazia.

Quindi si prospetta una battaglia. Il secondo motivo riguarda le strutture economiche e sociali sottostanti. L' amministrazione Biden sta aumentando massicciamente la spesa sociale e sta lavorando - con una serietà di intenti che non si vedeva da oltre mezzo secolo - per smantellare le disuguaglianze che affliggono la vita americana. La sua idea è che il successo su questo fronte salverà anche la democrazia». 

Perché ha intitolato "Basta!" la sua conferenza a Torino?

«Pensiamo alla crescita come un valore universale: se un po' è buono, di più deve essere meglio. E l'ideale di crescita organizza la vita sociale e individuale intorno all' accumulazione. Ma questo ideale è un'invenzione storica recente: prima del 1800, la crescita aveva un ruolo molto limitato nell' esistenza umana in qualsiasi parte del pianeta.

La conferenza sostiene che la crescita è nata in risposta a un particolare insieme di problemi storici e ora pone una minaccia esistenziale alla nostra civiltà e alle nostre vite individuali. Il nostro ambiente non può semplicemente ospitare molta più crescita, e la ricerca di accumulare ricchezza sta spogliando le nostre vite personali di significato. Dobbiamo sostituire la crescita con un nuovo principio organizzativo, e io propongo alcune possibilità. Sostengo anche che, fortunatamente, la crescita ha risolto i problemi per cui è stata sviluppata, così che ora possiamo andare oltre».

·        La Scuola Comunista.

Se frana la scuola non è colpa del '68.  Michele Serra su la Repubblica il 2 Dicembre 2021. PER POSTA: Ogni settimana Michele Serra risponde ai lettori del Venerdì.  Ci sono momenti storici nei quali non c’è spazio per le scelte ambigue, rischiano di essere un vizio intellettuale e un lusso snobistico . Caro Serra, mi lascia perplesso la coda della sua risposta all'insegnante Sabrina Poggi: Se fossi un docente non saprei che pesci pigliare (sul Venerdì del 19 novembre). Mi suona come un'abdicazione al giudizio che chi ha il privilegio di scrivere ogni giorno non dovrebbe concedersi. Come società di massa abbiamo bisogno di una scuola di massa che non può pretendere l'eccellenza. Come società complessa abbiamo invece bisogno di scuole di eccellenza. L'istruzione deve quindi correre su un doppio binario su cui il metro di giudizio non può essere lo stesso. Purtroppo il '68 ci ha lasciato in eredità il pregiudizio che selezionare significa discriminare, mentre invece una scuola di eccellenza e quindi selettiva è una leva potente dell'ascensore sociale. Essere severi non significa essere punitivi, ma autorevoli. E su questo l'insegnante deve vedersela con sé stesso. Nei miei ormai lontanissimi anni di liceo avevo un professore di matematica simpatico ma pignoletto, un professore di chimica entusiasta ma troppo benevolo, un professore di lettere bravo ma demotivato, e un professore di filosofia severo e inflessibile ma dialogante. Il più seguito e amato. Massimiliano Naldini

Gentile Michele, capisco il suo ritegno a toccare il tema dell'educazione, tanto impegnativo. Però, mi piacerebbe che una persona equilibrata e decisa su molti argomenti, così come mi appare da anni, "sapesse che pesci pigliare", mettendosi senza troppe esitazioni dalla parte degli insegnanti. Io lo sono stata per alcuni anni e mi piaceva anche; ma appena me lo sono potuta permettere ho abbandonato la scuola. Non mi permettevo di mortificare i miei allievi, cercavo di capirne difficoltà e problemi. È che non riuscivo ad adattarmi alla maleducazione di alcuni, sempre giustificata dai genitori, o ad alcune incredibili frasi di dirigenti che mi ammonivano a non bocciare nessuno, altrimenti non avrei ritrovato il mio precarissimo posto l'anno successivo. Aver smantellato un sistema che negli anni in cui ho studiato io, dopo il '68, aveva mantenuto un suo rigore formativo pur offrendo a ragazzi di diverse provenienze una vera opportunità, è stato grave e mai abbastanza stigmatizzato dalla politica. Dalla scuola riceviamo una cultura che ci permette una migliore qualità di vita, e non solo nel senso di una professione conveniente: tante cose immateriali di cui godere sono legate alle nostre conoscenze e ci accompagnano per la vita. Silvia Panichi 

L'educazione è un bene inestimabile (ed è molto di più della semplice "istruzione") e forse hanno ragione i due lettori, avrei dovuto sposare con maggiore convinzione la tesi della professoressa Poggi: adulti che abdicano alle loro responsabilità preparano all'irresponsabilità anche i ragazzi. Ma lo slittamento non è solo della scuola, è dell'intera società, sempre più incline all'autocompatimento, ai percorsi "facili", alle scorciatoie comode, sempre meno disposta a mettere sullo stesso piano i diritti e i doveri. Esito, però, a darne la colpa "al '68", che certo confuse la selezione con la discriminazione di classe, e l'autorevolezza con l'autoritarismo, ma teneva comunque in grande considerazione la cultura, l'arte, la necessità di esprimersi, e di farlo bene. Si leggeva moltissimo, in quegli anni, e il famoso "impegno politico", a tutti i livelli, era fatto anche di studio, di discussione, di passione culturale. Io penso che sia soprattutto il consumismo, nella sua accezione più vasta e pervasiva, nella sua rincorsa alla soddisfazione di ogni desiderio a basso prezzo, rinunciando a ciò che costa fatica, ad avere minato il terreno. (Si rilegga Pinocchio, le pagine profetiche sul Paese dei Balocchi). La cancellazione del concetto di fatica, che implica anche lentezza, gradualità, riflessione, rende molto più difficile dire a un ragazzo: riprovaci, non puoi pretendere di farcela a poco prezzo, crescere ha un costo umano, mettiti alla prova. Non voglio improvvisarmi pedagogo o psicologo, ma io sento ogni giorno, e non solo nei ragazzi, una drammatica incapacità di farsi carico del proprio destino, anche accettandone l'imperfezione, e sopportando le delusioni. Ci si lamenta molto, ci si offende ad ogni passo, si pretende moltissimo dagli altri, meno da se stessi. Sarebbe bello che la scuola facesse argine a questa deriva. Con quali mezzi, e con quale centralità nella vita della comunità, spetterebbe alla politica deciderlo. Ma la politica parla ogni tre secondi di "famiglia", come se solo dire quella paroletta fosse taumaturgico. E parla molto meno di centralità della scuola, forse perché mettere l'accento sull'educazione vorrebbe dire anche levare un poco di potere e di centralità a quel serbatoio infinito di voti che è "la famiglia", non sempre modello di educazione e di senso del dovere. 

Così la sinistra ha ucciso la scuola. Libro di Ricolfi e Mastrocola svela 60 anni di follie progressiste. Francesca De Ambra il 4 dicembre 2021 su Il Secolo D'Italia. «La verità – sosteneva Antonio Gramsci – è sempre rivoluzionaria». Per questo non saremmo mai troppo grati a Paola Mastrocola e a Luca Ricolfi per averla gridata in un libro scritto a quattro mani (“Il danno scolastico” – ed. La nave di Teseo pp.270 € 18), dedicato allo sfascio della scuola italiana. La “rivoluzione” sta soprattutto nel sotto titolo: “La scuola progressista come macchina della disuguaglianza”. Da non credere. La coppia (moglie e marito nella vita) ricorda da vicino il bambino della fiaba di Andersen che grida “il re è nudo” mentre intorno a lui i sudditi fanno a gara a decantare il pregio delle stoffe dell’inesistente vestito del sovrano. Per la Mastrocola, docente di analisi dei dati, non è una novità. Già nel 2017, in un precedente lavoro editoriale, aveva puntato l’indice contro «un’istruzione, abbassata e facilitata oltre ogni dire, che ha messo in difficoltà il 70-80 per cento degli studenti». Era il suo verdetto di condanna della scuola progressista, bollata come «per nulla democratica e classista».

Ricolfi e l’abbaglio di don Milani

Parole e tesi che l’autrice non solo conferma, ma che ora arricchisce di cifre, statistiche e riscontri. La prova, insomma. E qui entra in campo il marito sociologo attraverso una documentata e incontestabile comparazione tra la scuola di ieri, la stessa che il troppo celebrato don Milani nella sua Lettera a una professoressa del 1967 denunciava come «troppo selettiva», e quella di oggi. Classista la prima perché troppo condizionata dal ceto sociale degli studenti? Una fregnaccia che Ricolfi rende evidente in maniera molto più elegante ancorché incontrovertibile: «Su 100 nati nel 1956 la licenza media è stata ottenuta dal 96 per cento dei giovani dei ceti alti e dal 90 per cento dei ceti bassi (…)». Una statistica che rade al suolo la più coriacea panzana del progressismo nostrano, tanto che fa presa ancora oggi.

«L’esecutore materiale è stato il ministro Berlinguer»

È questa – secondo gli autori – l’origine del disastro che in tre mosse ha mandato ko la scuola italiana. Si comincia con l’abolizione del latino nella scuola media, si prosegue con la liberalizzazione dell’accesso alle facoltà universitarie per culminare nella laurea 3+2, voluta nel 1999 dal ministro Luigi Berlinguer, sulla cui opera il giudizio di Mastrocola e Ricolfi è più tagliente di una lama affilatissima. È stato, scrivono, «l’esecutore decisivo della distruzione dell’università». Ma il j’accuse di Ricolfi è rivolto a tutti gli ideologi progressisti. «Ricevere un’ottima istruzione era l’unica carta in mano ai figli dei ceti bassi per competere con quelli dei ceti alti… Gliela avete tolta e avete avuto il becco di farlo a nome loro». Ce n’è anche per la destra, che non ha mai saputo marcare una netta discontinuità con tale impostazione.

Penalizzati i ceti bassi

Morale: la scuola è in ginocchio perché prima i docenti «esigevano» lo studio dagli studenti. Quelli di oggi, invece, non selezionano, limitandosi solo a spostare il problema in avanti. Per spiegarlo, la Mastrocola ricorre alla metafora del gattino cui hanno cucito una palpebra nelle prime tre settimane di vita. Quando gliela scuciranno sarà troppo tardi perché nel frattempo avrà perso per sempre l’uso dell’organo. È quel che accade oggi agli studenti che progrediscono senza merito fino a diventare avvocati che non sanno parlare o insegnanti che non sanno scrivere. È l’amaro esito cui conduce la scuola apparecchiata per i ceti bassi dalla sedicente “parte migliore del Paese”. La peggiore, in realtà. Ma lasciamo stare. E chiediamoci piuttosto se mai assisteremo alla presenza in un talk-show del libro di Mastrocola e Ricolfi. Pensiamo di no, e accettiamo scommesse.

·        Inferno Scuola.

Scuola, linea dura del ministero sulle occupazioni: Presidi, denunciate, è un reato. Gianna Fregonara Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. Il direttore dell’ufficio scolastico regionale del Lazio scrive ai presidi: chiedete i danni agli studenti. E ci sarà un effetto sul voto di condotta. Linea dura del ministero dell’Istruzione sul caso delle occupazioni studentesche che hanno riguardato quest’anno soprattutto le scuole del Lazio e di Roma. La scorsa settimana erano oltre 50 gli istituti dove era segnalata in corso la protesta degli studenti. Ora, alla vigilia della chiusura delle scuole per la pausa natalizia, interviene il capo dell’ufficio scolastico regionale Rocco Pinneri con un documento inviato ai presidi. E’ vero che nelle prime righe ammette che queste «delicate situazioni... ci rammentano la necessità dell’ascolto» degli studenti, ma poi dà indicazioni precise ai dirigenti: «Vi chiedo, ove vi troviate in questa situazione, di denunciare formalmente il reato di interruzione del pubblico servizio e di chiedere lo sgombero dell’edificio, avendo cura di identificare, nella denuncia, quanti possiate degli occupanti». La motivazione è duplice: «le occupazioni violano il diritto costituzionale all’istruzione di quei numerosi studenti che non condividono il ricorso a tale strumento» e «la presenza spesso cospicua di soggetti esterni alle scuole» che non permettono ai dirigenti di concedere forme alternative come l’assemblea o la cogestione che «lasciano la scuola aperta a beneficio di tutti gli studenti e aprono il dialogo necessario a comprendere le ragioni di ogni eventuale disagio».

«Continuate il dialogo»

Pinneri invita i presidi a proseguire il dialogo anche con le famiglie: «È importante che chi occupa capisca che violare il diritto dei loro compagni di scuola a frequentare le lezioni è un fatto grave, oltre che inutile vista la disponibilità di tutti al dialogo senza la necessità di azioni estreme ed illegali. Ribadite ai vostri studenti che dei temi di carattere più generale possono parlare anche con me – non mi son mai sottratto nelle rare occasioni in cui mi è stato chiesto – purché non stiano occupando».

Occupazioni a Roma, i ragazzi vanno ascoltati?

Occupazioni, il corteo blocca il Lungotevere

Scuole okkupate, perché devastarle?

Chi rompe paga, e rischia un brutto voto

C’è infine anche il tema dei danni delle occupazioni, che vanno risarciti da chi li ha fatti: «Danni che - scrive Pinneri - non possono avere alcuna valenza politica e che esprimono solo vandalismo: arredi e dotazioni laboratoriali distrutti, infissi e impianti danneggiati, distributori automatici divelti e svuotati degli alimenti e delle monetine, controsoffitti infranti e fatti precipitare, furti a danno dei bar interni ecc. In due scuole le occupazioni hanno condotto a contagi per l’inosservanza delle misure di prevenzione. Si ha notizia di altri comportamenti preoccupanti quali assembramenti su tetti privi di parapetto o in altri luoghi pericolosi e ordinariamente inaccessibili, mentre vengono consumate bevande che potrebbero diminuire i livelli di attenzione. Ciò suscita ansia in chi ha a cuore il benessere dei propri studenti. Al termine dell’occupazione occorrerà che chiediate a chi è stato identificato di risarcire la spesa per la sanificazione della scuola assieme a ogni eventuale danno, non essendo giusto che se ne debba far carico la collettività, cioè persino quegli studenti che non hanno occupato e che sono stati già danneggiati, per la violenza di alcuni compagni o di esterni, perdendo giorni di lezione. Agli occupanti identificati occorrerà anche applicare le misure disciplinari previste dal regolamento interno di ciascuna scuola e dell’occupazione si terrà conto nel determinare il voto in condotta».

Renzo Modugno e la Columbine di Roma: quel prof ucciso in classe per un quattro in matematica. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2021. Un delitto dimenticato: l’insegnante morì due giorni dopo che lo studente Giuseppe Conte, figlio di un maresciallo, gli aveva sparato. Era febbraio del 1953. Il padre del ragazzo per due volte diede le dimissioni: furono sempre respinte.

La copertina de «La Domenica del Corriere» del 1° marzo 1953 dedicata all’agguato al professor Renzo Modugno

«Faccio la seconda commerciale — disse Giuseppe Conte ai funzionari di polizia — avevo preso quattro in matematica. Il professore mi rimproverò successivamente perché non ascoltavo attentamente la lezione. Chiesi di essere interrogato di nuovo e presi un’altra insufficienza. Nel rinviarmi al posto Modugno disse con aria di scherno: “Pitagoricida” perché non avevo saputo fare l’applicazione del teorema di Pitagora. Demoralizzato non volevo più andare a scuola; mia madre mi dissuase e mi incitò a studiare di più. Chiesi al professore di essere nuovamente ascoltato: mi allontanò dicendo “smamma”. Il 13 febbraio Modugno lesse i voti del trimestre: io avevo quattro in matematica. Scoraggiato scoppiai in pianto. Nella mia mente si rincorrevano le idee più disperate: volevo uccidermi e ammazzare il professore. Trascorsi la domenica con amici per divagarmi. Lunedì pensieri ancora più neri. Aprii con una chiave falsa un cassetto di mio padre, ne tolsi una pistola, non poteva accorgersi della scomparsa perché ne aveva un’altra. Alle 14,30 caricai la pistola nel bagno».

Siamo a febbraio del 1953, il lunedì 16. L’alunno Giuseppe Conte, nulla a che vedere con il nostro ex presidente del consiglio, varca il portone della sua scuola. Il «Leonardo da Vinci», via Cavour, Roma.

Si entrava alle 14,30, allora, per il secondo turno. I ragazzi erano tanti, non come oggi, e le scuole erano poche.

Nella seconda I, alla terza ora, entra il Professor Renzo Modugno. Un insegnante stimato, che la vita aveva già segnato. Sorpreso dallo scoppio della guerra nella città di Gimma, nell’Africa Orientale, viene preso prigioniero dagli inglesi e internato in un campo di concentramento in Rhodesia, all’interno del quale continuò ad insegnare.

Durante quel periodo contrasse un morbo che gli paralizzò gli arti inferiori. Tornato in Italia cercò di curarsi ma la malattia gli lasciò una visibile zoppia.

Quel giorno, a fine lezione… «Il professor Modugno, con il suo passo zoppicante di invalido, appoggiandosi ai bastoni, è sceso non senza sforzo dalla cattedra e si è avviato verso l’uscita salutato rispettosamente dagli studenti… L’insegnante stava già con un piede nel corridoio quando è risuonato il primo sparo. Colpito al collo, il disgraziato ha tentato di fuggire ma i suoi piedi paralizzati non hanno risposto al richiamo della volontà. Raggiunto da un secondo proiettile il professore è caduto a terra ma lo studente, animato da una volontà omicida addirittura incredibile in un ragazzo di quell’età, ha continuato a sparare ancora, raggiungendo l’insegnante con una terza pallottola.»

Le cronache fin qui riportate di due diversi quotidiani danno la misura dell’incredibile episodio, la «Columbine» italiana avvenuta nella Roma dei primi anni cinquanta. E del tutto dimenticata.

Giuseppe Conte era figlio di uno stimatissimo maresciallo di P.S.. Dopo aver sparato si rifugiò in una tabaccheria di Via Nazionale e da lì, col gettone, telefonò a casa dicendo «Mamma, ho ucciso il professore di matematica». Il Corriere della Sera scrisse che il papà era stato udito dire: «Avevo affrontato tanti sacrifici per farlo studiare. Tutte le mie speranze erano riposte in lui. Invece è divenuto un delinquente come quelli contro i quali ho combattuto tutta la vita. Non voglio che mi si parli di lui, spero di non vederlo mai più.».

Il maresciallo per due volte, umiliato e offeso, darà le dimissioni che saranno sempre respinte.

Il professor Modugno spira dopo due giorni di agonia. I quotidiani riportano la notizia di una sua frase pronunciata, in punto di morte, al cappellano che lo assisteva: «Dite a Giuseppe che lo perdono». Ma Don Somma lascerà nel dubbio dicendo, testualmente: «Si tratta di un segreto professionale».

Per tutta la scuola italiana, e per l’intero Paese, quello che è accaduto è sconvolgente. Il professor Modugno, a detta di tutti, era un insegnante capace e comprensivo e, come diranno in una lettera aperta alcuni suoi studenti: «Un vero padre, una guida sincera e benevola... univa nell’insegnamento alla riconosciuta sapienza professionale un senso di profonda umanità... Gli studenti non erano per lui, né si sentivano, “alunni” ma quasi figli o amici.».

I suoi funerali, con un corteo che si snoda da Piazza del Popolo fino a piazza di Spagna, vedono la partecipazione di migliaia di persone. La famiglia Conte invia un cuscino di fiori e il maresciallo si confonde nella folla, vuole testimoniare da che parte sta.

Si ritroveranno il padre poliziotto e il figlio assassino, in una stanzetta del carcere minorile di San Michele Ripa. Anche qui ascoltiamo le parole del Corriere della Sera: «Il ragazzo chiedeva “Quando verrà mio padre a trovarmi?”. Né gli agenti di custodia né i compagni di detenzione sapevano cosa rispondergli. Allora crisi di pianto agitavano Giuseppe Conte: lo udivano singhiozzare anche la notte nella sua cella... Se fosse stato bocciato agli esami Giuseppe Conte avrebbe dovuto ritirarsi dagli studi, suo padre, col modesto stipendio di maresciallo, non avrebbe potuto sostenere altri sacrifici per lui.».

Sembra Rashomon. La stessa storia appare come un poliedro a seconda del luogo da cui la si guardi.

Ma c’è un ragazzo che ha sparato e un uomo che è morto, questo è il dato di fatto.

Si aprono discussioni alimentate dalla morbosità dell’informazione. Gian Carlo Pajetta, su l’Unità, stigmatizza il «circo mediatico» con toni che si potrebbero utilizzare ora: «I giornalisti si sono buttati sulla faccenda, l’aula insanguinata è stata vista soltanto come una fotografia ad effetto; una compagna di scuola, che avrebbe dovuto piangere impaurita e avere il pudore della sua pena, è diventata una divetta con fotografie e interviste, il preside, il bidello, i genitori, tutti hanno dovuto dimenticare che era morto un uomo e che un ragazzo aveva perso coscienza e senno e sono stati trasformati nei protagonisti di un fattaccio».

Ma quella settimana di febbraio finisce come era iniziata. La domenica 22 un ragazzo si getta dal quarto piano della sua casa per i cattivi voti riportati in greco. Filiberto, così si chiamava il ragazzo, era intelligente, sensibile, ma a scuola faceva molta fatica. Ripetente, a fine trimestre si vide consegnare una pagella piena di quattro e cinque. Filiberto aveva problemi di salute. Con una prosa spietata l’Unità così lo descrive: «Il ragazzo, piccolo di statura, magro, squallido, era di salute cagionevole; la sua acuta sensibilità era esacerbata da una malattia del sistema nervoso che si manifestava anche in attacchi epilettici».

Episodi accaduti anche in classe, più volte. Possiamo immaginare, povero ragazzo, con quale vergogna abbia vissuto quella condizione. Prima di lanciarsi dalla cucina della sua casa di via Sant’Ippolito lascia un biglietto di scuse al fratello e un altro in cui dice, secco: «Io non uccido il professore di greco, mi uccido.».

Culture e sensibilità si dividono, ieri come oggi. Lo scrittore Giovanni Mosca, commentando sul Corriere, con malcelata nostalgia per i tempi andati, i tragici eventi, li giudica: «l’ultima drammatica fase di dissolvimento dei rapporti di rispetto e soggezione che sino ad un tempo non molto lontano legavano fortemente i giovani ai loro superiori. Questi legami si son venuti rapidamente allentando e indebolendo e la figura del giovane sottomesso ai genitori, rispettoso per degli insegnanti, riverente verso i vecchi è ormai una figura da libro di lettura».

Pietro Ingrao commenta invece sul giornale dei comunisti: «Responsabilità delle famiglie che vedono nella scuola solo una fabbrica di impieghi? Responsabilità della organizzazione della scuola, dei programmi staccati dalla vita, del vecchiume che non si è saputo cancellare? Responsabilità delle cose, e cioè del sistema in cui viviamo e che trasforma la scuola in una lotta precoce e in un campo di spietata concorrenza per il diploma, dove il quattro e il sei decide del domani?».

Fatto sta, e qui Mosca ha ragione, che il sedicenne Giuseppe Conte «Non è il vendicatore degli scolari perseguitati, non è il giustiziere dei professori di matematica, non è l’eroe della lotta tra due generazioni: è un povero ragazzo con le mani sporche di sangue.».

La Columbine nella piccola Italia del 1953 sembra anticipare temi che accenderanno, quindici anni dopo, scuole, università, piazze. Erano passati allora solo otto anni dalla fine della guerra, i giovani che andavano al liceo erano stati bambini sotto i bombardamenti e avevano visto con i loro occhi la paura, il sangue, la morte.

Nella sua crudele durezza ci può essere utile oggi ricordare quell’episodio cruento, sangue tra i banchi, per ripeterci quanto la scuola sia fondamentale nell’esperienza umana di ragazzi e insegnanti.

La qualità di un Paese, il suo futuro, la si può misurare sempre, in primo luogo, dalla profondità e modernità del suo sistema formativo.

Tornano alla mente le parole di Piero Calamandrei a proposito della funzione della scuola: «La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica... ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie… A questo deve servire la democrazia, permettere ad ogni uomo degno di avere la sua parte di sole e di dignità (applausi). Ma questo può farlo soltanto la scuola, la quale è il complemento necessario del suffragio universale. La scuola, che ha proprio questo carattere in alto senso politico, perché solo essa può aiutare a scegliere, essa sola può aiutare a creare le persone degne di essere scelte, che affiorino da tutti i ceti sociali.».

“L’ombra sinistra della scuola” di Rino Cammilleri. Fiorenza Cirillo il 22 Ottobre 2021 su Nicola Porro.it. Laurea, specializzazione, master, tirocini, a volte dottorati, formazione continua, esperienze sul campo a nulla valgono di fronte al “secondo me”. Scardinare questo sistema di pensiero è a dir poco impossibile, visto che i genitori, in qualità di educatori, offrono gratuitamente il loro discretissimo contributo all’attività didattica. Vero è che questa didassi condivisa è un risultato inatteso dei venti di libertà del ’68 dai quali forse ci si sarebbe aspettato altro. Si aggiunga a tutto ciò un sistema sempre più teso alla compilazione di inutili scartoffie a dispetto dell’approfondimento di sane conoscenze, veri prodromi delle competenze necessarie per vivere. Capire fino in fondo il percorso umano e lavorativo di un insegnante è per pochi e come categoria spesso si è talmente demotivati che ci si rifiuta pure di chiarire e spiegare a chi non sa, perchè costa una fatica che non vale davvero la pena. Tuttavia, per chi voglia toccare un mondo che non conosce o per chi insegnante lo è e voglia guardarsi meglio, c’è una verace testimonianza che potrebbe iniziare chiunque ai misteri scolastici: L’ombra sinistra della scuola di Rino Cammilleri. Il Nostro racconta le sue avventure da liceale prima e da docente poi, in un confronto spassoso tra due epoche in cui il Sessantotto fa da spartiacque; cambiano dunque sia l’angolazione che il contesto storico-politico e il senso critico del lettore viene continuamente invitato a costruire intelligenti inferenze. Non nasconde nulla né le frustrazioni né le tentazioni né le intime decisioni e scrive a carte scoperte; vorrebbe proseguire con la carriera universitaria, è disposto a mettersi alla prova in mille altri lavori pur di non fare l’insegnante. Ma il destino è beffardo e insistente: «Tu che sei Figlio della Gallina Nera farai l’insegnante!» Questo è il leitmotiv a cui avrebbe voluto sfuggire, eppure il fato o Dio lo porta proprio là, in classe. “Dio o il destino? Meglio Dio. Sì, perché quando ci si accorge che la sorte è decisa è d’uopo fermarsi e riflettere. Il Destino? Se sì, è un Destino intelligente […] Allora tanto vale cambiargli nome e chiamarlo Dio. Perché Dio, dunque, voleva a tutti i costi che io diventassi Insegnante?” Avrà modo, mettendosi in gioco, di scoprire un’attitudine che mai avrebbe immaginato e cioè di essere naturalmente portato all’insegnamento: sa spiegare bene e coinvolgere i ragazzi. Non solo, ma porta nel mestiere quell’impostazione goliardica che nella sua testa era rimasta indissolubilmente legata all’idea stessa di scuola e così sperimenta strategie per tenere i ragazzi avvinti e farli sorridere un po’: “Scopersi presto che gli scherzi erano utilissimi per ravvivare l’attenzione nei momenti di «stanca». Una gag era l’ideale: prendeva poco tempo e iniettava adrenalina nella spenta scolaresca. […] Così mi interrompevo e magari dicevo loro: «Io ho sbagliato mestiere. Sapete cosa avrei dovuto fare anziché star qui ad angustiarmi con voi?». E loro: «Cosa?». E io: «L’attore». Poi, dopo una pausa: «Di film erotici». Detta con la faccia giusta, veniva facilmente presa per quel che era: una battuta. E creava simpatia senza far perdere d’autorità» Ma lo facevo per me. Volevo ricreare quel clima realmente studentesco che vigeva nel mio vecchio liceo: un posto dove la mattina andavi volentieri perché non sapevi mai cosa sarebbe successo”. Ma i tempi e le nuove sperimentazioni volute dal ministero trasformano la scuola in un immenso opificio in cui ciò che conta davvero è dimostrare un lavoro extra che poco o nulla ha a che fare con l’io dei ragazzi e, mentre questi rischiano l’apatia,  il professore è oberato da sterili compilazioni: “Guai a farsi scoprire senza qualcosa di importante da fare: immediatamente veniva inventato un compito proprio per te, perché se c’era una cosa che mandava in bestia le Single Sperimentali era vedere qualcuno che non faceva niente”. Per irrorare le sue passioni, il Nostro si ritaglia la partecipazione a convegni, in cui emerge per le sue qualità, ma non appena si trova con i luminari universitari il suo status sembra quasi un’onta: “In tali occasioni non era raro il caso di trovarsi fianco a fianco con Luminari Universitari, Saggisti di Rilievo Nazionale o addirittura Celebrità. Al pranzo o alla cena comune c’era sempre qualcuno che mi chiedeva coram populo di cosa mi occupassi. Io rispondevo, tacendo mezza verità, che insegnavo. E poi attendevo coi denti stretti, pregando con tutte le mie forze che non mi facessero la seconda domanda. Ma, implacabile come la sorte, arrivava: «Ah, lei insegna! E in quale Facoltà?». E io, con un filo di voce: «No, insegno al Geometra». Poi volevo sprofondare per non vedere la delusione mista a disprezzo dipinta sulle facce degli astanti. In quella delusione si leggeva come in un libro illustrato: ma questo chi è, e che ci fa qua dentro? Ahi, dura terra…” Con il passare del tempo, il gap generazionale tra docente e ragazzi si fa sentire sempre di più. “E arrivò il giorno in cui la differenza d’età tra me e i miei allievi cominciò a essere davvero troppa. […] Ma lo iato si rivelò in tutta la sua drammaticità quando non riuscii più a entrare nel loro mondo, a capire quali fossero i loro gusti o cosa passasse loro per la testa”. Cammilleri guarda quei ragazzi e si accorge che le sue risposte saporite nulla valgono di fronte a chi le domande non le ha. “La cosa veramente sconvolgente era questa: sembrava non volessero nulla. E quando uno non vuole nulla, cosa puoi dargli? Forse avrei potuto resistere ancora, forse avrei inventato qualcosa. Ma avevo davanti dei ragazzi a cui praticamente non sapevo più cosa dire”. Il professore si trova all’angolo, vinto. Si sente incompreso e, complice una disfonia, lascia. L’autore ci mette a parte di una sua scelta, grande e sofferta. È forse a quel punto del romanzo che avrei voluto fermarlo e ricordargli quel bellissimo imprevisto di qualche pagina prima che lo aveva avvolto e che, forse, aveva in nuce una risposta: l’opportunità dello stage con i colleghi. “Quel che si aspettava con tacita ansia, dello stage, era la sua fine giornaliera. Cioè, la serata, con cena e dopocena. […] Sì, perché quei notturni dopolavoro finirono col diventare davvero simpatici e giulivi. Gli ingredienti c’erano tutti: atmosfera amicale, distanza dai problemi quotidiani, trasferta tuttopagato. Ebbi la netta impressione che l’ultima volta in cui ci eravamo divertiti davvero risalisse agli ormai lontani tempi dell’università. Già: dopo qualche giorno, presa reciproca confidenza, ecco le battute goliardiche, le celie nonsense, le risate rumorose, i goffi accenni a passi di danza sulla pubblica piazza. Al ritorno, in albergo, una volta l’oste dovette rimproverarci apertamente perché all’una di notte ancora si cantava a squarciagola. Vedevo me stesso e gli altri in una luce inusuale. Mi veniva da chiedermi: dov’eravamo vissuti fino a quel momento, in una scatola? Non mi sarei aspettato un simile éclat de joie de vivre in persone fino a poco prima così sussiegose e riservate. Era stato il mestiere a comprimerci? Bella domanda”. In quella occasione la condivisione della sincera leggerezza risulta semplice, mentre nella quotidianità scolastica la fatica, alla lunga,  rischia di isolare e schiacciare i singoli; se entrambi gli aspetti venissero condivisi fraternamente, si rinascerebbe ogni giorno in un rapporto di complicità educativa e si potrebbe insegnare testimoniando vita. Fiorenza Cirillo, 22 ottobre 2021

Rapporto Eurydice: gli stipendi degli insegnanti italiani tra i più bassi d'Europa. Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2021. Il potere di acquisto è rimasto uguale negli ultimi cinque anni. Ma soprattutto in Paesi come l'Italia ci sono pochi scatti di carriera: lo stipendio raddoppia solo dopo 35 anni di servizio. Gli stipendi iniziali degli insegnanti italiani si collocano - insieme a quelli dei colleghi francesi, portoghesi e maltesi - nel range tra 22.000 e 29.000 euro lordi annui. Ancora più alti, tra 30.000 e 49.000 euro, sono quelli degli insegnanti in Belgio, Irlanda, Spagna, Paesi Bassi, Austria, Finlandia, Svezia, Islanda e Norvegia. Infine, stipendi superiori a 50.000 euro si registrano in Danimarca, Germania, Lussemburgo, Svizzera e Liechtenstein, tutti paesi con un alto PIL pro capite. È quanto emerge dall'ultimo rapporto Eurydice su stipendi e indennità di insegnanti e capi di istituto in Europa. Per quanto riguarda l'importo e il tempo necessario per gli aumenti di stipendio legati alla progressione di carriera, si registrano sostanziali differenze tra i paesi europei. Ci sono Paesi come l'Italia in cui gli insegnanti anche con una significativa anzianità di servizio raggiungono modesti aumenti di stipendio. In concreto, gli stipendi iniziali degli insegnanti possono aumentare di circa il 50% solo dopo 35 anni di servizio. Per fare un esempio pratico, di solito, uno stipendio per un insegnante delle superiori a inizio carriera si aggira attorno ai 1.760.88 lordi, che netti diventano 1.350 euro. A fine carriera, invece, si arriva fino a 2.625.78 lordi con 1.960 euro netti. Un docente di scuola media, invece, all’inizio di carriera prende 1.350 euro, poi alla fine ne prende 1.895. Per quanto riguarda, invece, i docenti della scuola dell’infanzia e della primaria, all’inizio della carriera prendono 1.262 euro, a fine 1.759 euro. Per quanto riguarda i cambiamenti negli stipendi tabellari durante gli ultimi anni, dal rapporto risulta che nel 2018/19 e 2019/20, gli insegnanti hanno visto aumentare i propri stipendi nella maggior parte dei sistemi educativi, anche se gli aumenti sono stati generalmente modesti o indicizzati all'inflazione. Tra il 2014/15 e il 2019/20, in un quarto dei sistemi educativi analizzati, gli stipendi iniziali degli insegnanti adeguati all'inflazione sono rimasti invariati o sono risultati addirittura inferiori. In Italia, così come in Francia, il potere di acquisto degli insegnanti è rimasto più o meno lo stesso negli ultimi cinque anni. In Italia lo stipendio minimo di base per i capi di istituto è il doppio dello stipendio di un insegnante con 15 anni di servizio. Gli stipendi dei capi di istituto, in Europa, spesso aumentano in base alle dimensioni della scuola. Inoltre, le responsabilità e l'esperienza dei capi di istituto determinano differenze significative nei loro stipendi nella maggior parte dei sistemi educativi. In alcuni casi lo stipendio minimo di base dei capi di istituto è inferiore allo stipendio degli insegnanti con 15 anni di esperienza. In molti altri, invece, è superiore in tutti i livelli di istruzione. La differenza è più marcata in Francia (per il livello secondario), Italia, Romania, Finlandia e Islanda (livello secondario superiore) e Svezia. Quello sugli stipendi degli insegnanti è un dibattito che si apre periodicamente in Italia, l'ultima volta partendo dalle pagine del Corriere. Il ruolo dell'insegnante in Italia risulta poco attrattivo: un professore guadagna la metà di chi, a parità di titolo di studio, sceglie un’altra professione (tra il 56 e il 64 per cento dello stipendio del collega), come testimonia l'ultimo rapporto sullo stato dell'istruzione nel mondo. Ma ovviamente raddoppiare lo stipendio agli insegnanti non è l'unica soluzione per migliorare le performance dei nostri studenti. 

Maleducazione civica. Così la burocrazia ha distrutto la scuola italiana. Claudio Giunta il 21 Settembre 2021 su L’Inkiesta. I nuovi programmi sono elefantiaci, gli obiettivi irrealistici e gli studenti sono obbligati a sapere troppo e male. Come spiega Claudio Giunta nel suo ultimo libro (Rizzoli) questo è uno dei mali del Paese, in un contesto in cui la qualità dell’istruzione è già in calo da tempo. Cosa dovremmo insegnare ai bambini? E agli adolescenti? Sono domande a cui si poteva rispondere con una certa sicurezza fino a qualche decennio fa, quando il mondo – e nel mondo specialmente la cultura – era immobile, o in lentissimo movimento. C’è senz’altro più di un modo per insegnare il latino, la matematica, la biologia, ma è chiaro che in tutti questi modi verranno contemplate le declinazioni, le equazioni e la fotosintesi. Ma nell’ultimo mezzo secolo il mondo non ha fatto che muoversi e complicarsi, e ora non siamo più veramente sicuri che su quell’insieme di saperi debba fondarsi la formazione dei giovani; e siamo quasi sicuri che il possesso di quell’insieme di saperi non spiani più automaticamente la strada a una carriera soddisfacente. Con l’educazione civica le cose si fanno ancora più spinose, perché l’educazione civica non è un corpus di conoscenze bell’e pronto, che in modi più o meno intelligenti si possano comunicare agli studenti. Per il modo in cui è stata disegnata, l’educazione civica è un contenitore di conoscenze e competenze che coinvolgono un po’ tutti i rami dello scibile: è il buono preso dove lo si trova. Abbiamo visto come una delle ragioni per cui la nuova legge appare sconnessa dalla realtà è che essa indica obiettivi mirabolanti, non commisurati né alla forza degli insegnanti né a quella degli studenti, un campionario di eccessi, un continuo esercizio d’irrealtà. Ma non è, questa smania di fare tanto (sorella di quella che porta a scrivere tantissimo), uno degli stigmi della scuola italiana? Bisogna fare tanto, o fingere di fare tanto, perché c’è tanto da sapere, e perché gli studenti sanno così poco… D’accordo. Ma è con questa congerie di materiali grezzi che si dovrebbero colmare quelle lacune? Si sa che lo stupore di fronte all’ignoranza degli studenti è quasi sempre un buon indizio di senilità, e deriva soprattutto da due circostanze, che il docente si è dimenticato quant’era ignorante lui alla loro età, e che il docente tende a identificare l’ignoranza nella sua disciplina con l’ignoranza tout court. Ciò premesso, è inevitabile che in una scuola frequentata da tutti e in un’università frequentata da molti la media dei saperi si abbassi; ed è inevitabile che, in un mondo così pieno di oggetti culturali alternativi a quelli che si studiano a scuola, il sapere scolastico, le materie insomma, finisca per essere solo una parte del bagaglio culturale di un adolescente, mentre fino a qualche decennio fa era praticamente tutto. Questo per dire che l’impressione che a molti studenti manchino quelle conoscenze che definiremmo «di base» – a cominciare dal leggere, dallo scrivere, dal parlare decentemente, o dall’orientarsi in temi, come la storia sacra, di cui un tempo si discorreva in casa o in chiesa – non è un’impressione illusoria. Ma tanto più, allora, si resta allibiti davanti alla vastità ingovernabile dei programmi scolastici e delle performance olimpiche che il Sistema (ministero, docenti, libri di testo) si aspetta da atleti così stenti. Fare bene, con calma, poche cose importanti che siano commisurate alla capacità e alla maturità degli studenti: non dovrebbe essere questa la ratio della buona scuola? E invece. Non c’è insegnante intelligente, fra quelli che conosco tra secondarie e università, che non trovi sproporzionato il carico dei programmi, il numero delle pagine dei manuali e in letteratura, per esempio, la quantità di autori che nelle antologie vengono imposti a brandelli a studenti che non hanno mai letto un libro per intero. Servirebbero diete severe, indicazioni mirate, per non peggiorare lo spaesamento di studenti e insegnanti già immersi, come tutti, nel gorgo dell’informazione continua, e invece non si fa altro che portare nuovi piatti alla mensa. Alla lettera: «tutela del patrimonio ambientale, delle identità, delle produzioni e delle eccellenze territoriali e agroalimentari»…Dall’altro lato, bisogna notare che quelle che secondo la legge dovrebbero essere insegnate nell’ambito dell’educazione civica non sono soltanto idee ma anche virtù, con il che si torna alla questione della predica e dell’intimazione. Io ingenuamente credevo che questa propensione a insegnare il Bene, a dire come bisogna vivere la vita, fosse soprattutto un difetto della sinistra. Invece, a giudicare dal testo di legge, è una tendenza bipartisan: evidentemente perché il semplice contatto con le leve del potere trasforma qualsiasi italiano in un Solone. Le trentatré ore di educazione civica, dice l’articolo 3 della legge, contemplano tra l’altro «l’educazione alla legalità e al contrasto delle mafie, l’educazione al rispetto e alla valorizzazione dei beni comuni, l’educazione al benessere e al rispetto delle persone, degli animali, dell’ambiente». L’educazione a essere buoni. Perciò non è solo l’ampiezza del programma a lasciare perplessi, è anche la sua pertinenza. In inglese, quando qualcuno sta dicendo a un altro cose che non dovrebbe dirgli perché non lo riguardano o non gli interessano, questo qualcuno può sentirsi rispondere: «Why am I hearing this?». Ecco: perché stiamo ascoltando, perché stiamo leggendo tutto questo? da “«Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?» L’educazione civica, la scuola, l’Italia”, di Claudio Giunta, Rizzoli, 2021, pagine 176, euro 15

Lorena Loiacono per leggo.it il 7 luglio 2021. Colpiti con una pugnalata alle spalle. Così si saranno sentiti i professori, quest'anno, ascoltando gli strafalcioni dei loro stessi studenti all'esame di maturità: sentendosi rispondere, ad esempio, che Hitler e Mussolini in realtà erano cugini, avranno avuto un capogiro anche perché quest'anno, ad esaminare i maturandi, erano i docenti interni alla classe. Li hanno preparati loro, insomma. A raccogliere la carrellata degli orrori della maturità 2021, svolta con una sola prova orale, è Skuola.net che ha avuto comunque un gran bel materiale da collezione.

STORIA DI FANTASIA La materia più vessata probabilmente è la storia che ha sfornato perle indimenticabili come, appunto, il fatto che i due dittatori del primo Novecento fossero cugini, praticamente oltre ad avere lo stesso obiettivo, avevano anche lo stesso sangue. Ma non è andata meglio con la Prima Guerra Mondiale iniziata, per l'Italia, nel 1918 (ovvero l'anno in cui si è conclusa). Chissà cosa avrà provato il professore di storia quando, ascoltando queste risposte, avrà capito che lo studente probabilmente non era mai stato a sentire una sua lezione.

AUTORI SCIPPATORI Stando alle interrogazioni dei maturandi, sembrerebbe che tra i poeti italiani si siano verificati veri e propri furti con destrezza. Visto che il Decameron di Boccaccio è stato accreditato addirittura a Dante Alighieri. Uno dei monumenti della letteratura italiana ha cambiato paternità. E non è l'unico. Un altro caposaldo della poesia italiana, come l'Infinito di Leopardi, è passato senza che nessuno se ne accorgesse dalla penna del poeta di Recanati a quella, ignara, di D'Annunzio. E che dire di Se questo è un uomo che, secondo qualcuno, sarebbe stato scritto da Italo Calvino e non da Primo Levi? Anche in questi casi per il docente non saranno state soddisfazioni da ricordare.

SORPRESE DELLA NATURA Nella carrellata di strafalcioni ce ne è per tutti, anche per le materie scientifiche. Una studentessa, infatti, avrebbe assicurato davanti alla commissione che l'essere umano è, di fatto, un anfibio, visto che è capace di stare sia sulla terra che nell'acqua. Ma qualcosa, decisamente, non torna. 

GLI AFFETTI Infine, preda dell'emozione, c'è stato anche chi è caduto in errore per un semplice momento di confusione. È il caso del candidato che, alla fine del colloquio, salutando tutti i suoi docenti si è rivolto alla presidente di commissione, l'unica esterna, con un «ciao mamma».

La vera “Buona scuola” è disciplinante e severa: il libro di Cammilleri, "L'ombra sinistra della scuola". Il fallimento completo dell'istruzione post'68. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 06 luglio 2021.  

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore. E’ incredibile come, nel 2021, resista ancora una mentalità secondo la quale, rendendo la vita facile ai ragazzi, a scuola, si farebbe loro un favore. Non si capisce in base a quale legge fisica, una preparazione a base di giuggiole e acqua di rose dovrebbe rendere idonei ad affrontare la vita che, come noto, è piena di dolori, difficoltà, frustrazioni, ostacoli. Ma che senso ha? Pensate che evitando un brutto voto a un ragazzino, “per non traumatizzarlo”, secondo la solita espressione beota ripetuta a ogni piè sospinto, gli si possa risparmiare, per dirla con Amleto, “le frustate e le ingiurie del tempo, il torto dell’oppressore, l’oltraggio del superbo, le angosce dell’amore disprezzato, le lentezze della legge, l’insolenza delle autorità e le umiliazioni che il merito paziente riceve dagli indegni…”? No. Anzi. Se non fosse chiaro, sul pianeta Terra la vita è dura e solo una scuola "tosta" e un’educazione severa - ovviamente evitando inutili eccessi e storture - rendono adatti e “resilienti” (per usare un termine oscenamente abusato) a questa avventura. Altrimenti, come succede oggi, si diventa “dislessici” a 8 anni, si va dallo psicologo a 12, e a 15 si prendono pillole per la depressione. Diciamola tutta: la tragica realtà è che l’istruzione italiana post-‘68 è un fallimento totale e dobbiamo ringraziare la scuola mollacciona, chioccia, mammona, inversiva e “inclusiva” di Lucignolo, tanto per cambiare, di sinistra origine, che ha devastato più generazioni di una guerra mondiale. Tra il prima e il dopo '68, un lucido spaccato è offerto dal volume “L’ombra sinistra sulla scuola” di Rino Cammilleri, appena ripubblicato dal musicista Aurelio Porfiri (Chorabooks editore), di cui si parlerà giovedi 8 alle ore 18.00 sul canale “Ritorno a Itaca”. Vi proponiamo qualche stralcio dall’introduzione. 

“Correva l’anno 1968 d.C. e io frequentavo la Quinta A del liceo scientifico di una città del Sud. Il Corso A era il fiore all’occhiello del Preside. Forse per questo in Prima partimmo in ventotto e arrivammo in Quinta in undici ben distillati. La sezione era rigorosamente maschile, laddove alle altre si concedeva il «misto». In quel liceo i maschi dovevano venire in giacca e le femmine in grembiule nero con collettino bianco. Chi non era vestito secondo la regola non era ammesso in classe, e a casa prendeva le busse dai genitori per aver perso un giorno di scuola (altri tempi). La ricreazione era rigorosamente separata per i due sessi che ne fruivano - per maggior sicurezza - in piani diversi dell’edificio, con i Bidelli talvolta disposti a barriera in mezzo alle scale. A scuola era tutto vietato, e quel che non era vietato era obbligatorio. Si fumava nei cessi, pronti a gettar via la sigaretta se arrivava il Preside a controllare i tabagisti. C’era sempre qualche idiota che a un certo punto lanciava: «Il Preside! Il Preside!». E noi buttavamo la cicca (a volte ancora dolorosamente intera) nel buco alla turca. Ma non era vero, e finiva in insulti. Per sicurezza, allora, prima di rinunciare all’unica sigaretta di mezza mattina si tirava una buona boccata, si gettava un’occhiata di controllo e, se l’allarme era falso, si continuava a fumare. Una volta il falso allarme fu vero e io, dopo aver buttato l’unica Marlboro che possedevo nell’orina, nel voltarmi mi trovai col Preside a un palmo di naso. «Lei fumava». E io, d’istinto: «No, signor Preside, io non fumavo!». Mentre dicevo così, il fumo di quell’ultima boccata mi tradì, uscendomi dalle nari e dalla bocca (non avevo fatto in tempo a espirare). Mi presi un giorno di sospensione e mio padre mi riempì di mazzate, Ci davano del «lei». Esempio: «Lei è interrogato in latino, venga». Io: «Ma Professore, mi ha interrogato ieri!». Lui: «E chi mi vieta di interrogarla anche oggi? Non vuol venire? Due! Si accomodi». 4 C’era la palestra (uno spiazzo all’aperto), ma non le docce. Eppure tutti ci iscrivemmo in massa nel Gruppo Sportivo (a quel tempo se non facevi sport le ragazze manco ti prendevano in considerazione). Il Gruppo Sportivo, però, era da frequentarsi fuori dall’orario delle lezioni. Cioè dalle sette e mezza di mattina fino al suono della campanella (otto e mezza). Naturalmente, se arrivavi in classe in ritardo erano guai, visto che l’attività sportiva era guardata dall’alto in basso da parte degli Insegnanti di materie «vere». Così, si cominciava la giornata già stanchi e sudati. E la giornata era invariabilmente del tipo descritto nell’esempio su riportato. I genitori anche quelli ricchi – ci davano una cifra settimanale (risibile) uguale per tutti, «sennò li si vizia». Qualcuno riusciva ad arrotondare coi nonni. Chi aveva i nonni poveri o morti, pazienza. L’uguaglianza di restrizioni era tuttavia benefica, perché impediva il sorgere di frustrazioni di classe (sociale) in classe (scolastica). Anche nelle gite vigeva lo stesso apartheid tra maschi e femmine (però c’era maggior possibilità di manovra). […] Eppure quella specie di Gulag, cioè il mio liceo, presentava qualche vantaggio. Innanzitutto la selezione e la pressione quotidiana ci avevano resi (quasi) tutti bravissimi in (quasi) tutte le materie. Lo stesso negli sport. Eravamo tra i migliori della città, e qualcuno di noi anche della regione. Temevamo i Professori ma li stimavamo. Il Preside esercitava la stessa occhiuta vigilanza anche su di loro e cercava di attirare come Insegnanti nella scuola i migliori neo-laureati. Era un’autorità culturale in città e in ogni circostanza ci proteggeva, specie contro i rivali dell’odiato liceo classico. Era, tra l’altro, Presidente del circolo più esclusivo della provincia, dove potevano entrare solo i VIP locali. E noi, purché debitamente incravattati. Ci incoraggiò a creare il giornaletto scolastico e me ne affidò la direzione. Grazie a lui, non fu il solito ciclostilato, ma un vero giornale patinato, stampato in tipografia e con tanto di foto e sponsor pubblicitari. La pressione congiunta delle famiglie e della scuola cementarono tra noi undici della Quinta A un’amicizia (che durerà nei secoli) costellata di avventure e incredibili goliardate. Poiché era tutto vietato, dovevi sempre fare i salti mortali per tutto. Ricordo quel periodo come il più allegro e selvaggiamente spensierato della mia vita”.    

Vittorio Feltri: "Tra sberle e somari, c'era una volta la scuola. E bocciare va fatto con giudizio". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 giugno 2021. Tornano le bocciature nelle scuole anche elementari? Aspettiamo tale decisione che comunque, se fosse presa, non ci coglierebbe impreparati. Perché ai nostri tempi la vita in aula non era bella come pensano i ragazzi di oggi. In certi casi era un inferno. Per dirne una quasi divertente: maschi e femmine si incontravano solo all'ingresso, poi erano soggetti a una netta separazione, le fanciulle nelle loro aule riservate, i fanciulli segregati in altre classi. Nessuno si stupiva. D'altronde pure in chiesa succedeva la stessa cosa: le donne a sinistra nella navata, gli uomini a destra. Ciò oggi fa ridere, allora, 50 anni orsono, era considerato pura normalità. Ma torniamo alla scuola. I maestri e le maestre erano autentiche autorità e non c'era chi osasse disobbedire ai loro ordini perentori. Chi sgarrava finiva dritto dietro la lavagna, praticamente esposto alla berlina come un malvivente. Un miracolo accadeva sempre: gli alunni erano costretti, volenti o nolenti, a imparare a leggere e a scrivere in un decente italiano, benché ai tempi, almeno in provincia, il linguaggio più diffuso era il dialetto che nella testa dei bambini creava una confusione notevole. Gli insegnanti badavano molto all'igiene personale degli alunni. Coloro che si presentavano nei pressi della cattedra in disordine, spettinati e con le mani sporche, venivano redarguiti alla stregua di criminali. Volava anche qualche schiaffone incassato con rabbia repressa, direi con dignità. Nelle valli bergamasche succedevano episodi incredibili. In un paesino, Bondo di Colzate, dove c'erano più mucche che cristiani, si registrò un fatto memorabile. Un bimbo, figlio di contadini che la mattina si alzavano presto per accudire al bestiame, soleva lavarsi poco o nulla giacché era solo in casa e si arrangiava da sé per prepararsi alle lezioni. La docente, trovandosi sempre davanti a un bimbo sporco, si irritava e compilava quotidianamente delle note di rimprovero destinate alla famiglia. Dopo aver ricevuto una decina di lagnanze, la mamma del ragazzino prese carta e penna e rispose in questo modo alla docente: signora maestra, mi pare che lei cominci a rompermi un po' troppo i collioni (sic), sappia che qui siamo sui bricchi e non sui marciapiedi di Milano. Frase storica. In quel villaggio infatti esisteva soltanto una fontanella dove gli abitanti avevano facoltà di lavarsi. La polemica si chiuse. Nella stessa zona alpina si verificò un'altra vicenda da segnalare. Tema in classe: descrivi la tua insegnante. Un alunno, non certo rampollo della borghesia, poiché la maestra era priva di un braccio, scrisse che questa era una povera disgraziata. Ovvio, dalle mie parti chiunque fosse zoppo o mancante di un arto veniva comunemente chiamato disgraziato in quanto vittima di una disgrazia. Ma la signora in questione, con l'unico braccio di cui disponeva, il sinistro, riempì di sberle il discente, essendosi sentita offesa. Botte da orbi. Lo scolaro, rientrato a casa, raccontò la sua disavventura al padre, il quale, imbarazzato, non sapendo che dire se ne uscì con questa battuta degna di Totò: avresti fatto meglio a dire che la tua maestra era costretta a essere mancina. Geniale. Ed ecco dimostrato che spesso i contadini hanno davvero il cervello fino, benché abbiano le scarpe grosse. Io alla scuola primaria non ero un fenomeno, me la cavavo vincendo la noia, facevo parte della nebulosa dei mediocri e non ho mai preso ceffoni perché ero abile a confondermi nella massa. La classe era composta da 32 alunni, tre o quattro dei quali venivano sistematicamente respinti in quanto poveri e privi di educazione famigliare. Ricordarli mi provoca ancora fitte di dolore al petto, non sapevano niente, erano smarriti, li avrei aiutati volentieri se non avessi avuto difficoltà ad aiutare me stesso. Quando il mio maestro, Natale Dolci, ci lesse alcuni brani del libro Cuore, un mio compagno, che si chiamava Gamba e ora fa il notaio, osservò: sarebbe meglio che certi racconti li ripassassero loro, quelli che insegnano a noi ragazzacci. In conclusione, bocciare gli asini può essere giusto, ma prima di farlo sarebbe opportuno sapere in quale stalla sono nati e cresciuti. 

Abbandoni in crescita, disagio e l’ossessione delle verifiche: come sta la scuola dopo due anni di chiusura. L’emergenza Covid ha stravolto un sistema gravato già da molti problemi. Ma per ripartire davvero bisognerebbe cambiare in profondità. “Invece molti istituti si preoccupano solo di recuperare i compiti in classe”. Francesca Sironi su L'Espresso il 4 giugno 2021. «Poi le giornate sono tutte ripetitive: dormi, studia, lava, lavati, mangia, dormi... Le facce sempre uguali...». Le quarantene sono il passato, ma per alcuni giovani le ombre di quella insofferenza avranno conseguenze lunghe sul futuro. Sta già accadendo. Le voci degli studenti raccolte dall’istituto comprensivo Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, sono infatti quelle di decine di migliaia di studenti in tutto il Paese, per i quali la scuola è stata in questi mesi una zattera di salvataggio. Ma anche una zattera la cui direzione resta tutta da capire. Sono uscite le prime ricerche: un sondaggio Ipsos per Save the Children che parla di un adolescente su tre fra i 14 e i 18 anni che ha visto almeno un proprio compagno smettere di frequentare la scuola dall’inizio della pandemia. Ci sono le segnalazioni in aumento alle procure minorili, a Napoli come in Lombardia, di alunni scomparsi dai registri, nel silenzio della famiglia, nella solitudine degli istituti di fronte alla continuazione dell’obbligo scolastico. C’è la preoccupazione di insegnanti e formatori davanti all’intermittenza delle presenze a distanza, con il loro corredo di incomprensioni da connessione, telecamera, wifi. Il rischio è quello di lasciare alla deriva migliaia di giovani. Giovanni Del Bene ne è sicuro, ed è preoccupato: «Dopo tanti anni di miglioramento delle statistiche sulla dispersione scolastica, mi aspetto un aumento del dieci per cento di abbandoni nel prossimo anno». Uno studente su dieci ha già compromesso la propria fiducia nell’istruzione, rinunciando a iscriversi a un nuovo anno di studio. Psicologo, già preside dell’Istituto comprensivo Cadorna di Milano, Giovanni Del Bene è collaboratore dell’ufficio Scuole aperte del Comune di Milano; insieme ad Angelo Lucio Rossi e Rossella Viaconzi ha appena scritto “La comunità educante” per la Fabbrica dei Segni editore. Nel libro, come nella chiacchierata con L’Espresso, Del Bene ripercorre i cardini che rendono le “scuole aperte”, a Milano ce ne sono 45, in rete con altri istituti dal Lazio alla Calabria, un modello potenzialmente cruciale per regalare futuro ai bambini e agli adolescenti, fuori dalle secche di questa pandemia. Le “scuole aperte” sono istituti che attraverso patti territoriali con associazioni dei familiari, realtà di volontariato, organizzazioni sportive e musicali, imprese e uffici, fanno sì che l’edificio-scuola non chiuda mai, mattina, pomeriggio estate, e fine settimana, e con l’edificio anche il suo ruolo educativo e soprattutto sociale. Bambini e ragazzi si trovano così al centro di una rete che possono navigare seguendo i propri interessi. «Per questo parliamo di comunità educante. È fondamentale che i ragazzi siano motivati a mettersi in gioco, a trovare e valorizzare le loro qualità creative, di movimento, di fantasia, non solo a rispondere a prove di carattere teorico». La scuola è infatti il primo luogo di socializzazione “obbligata” fuori dall’ambiente familiare, e quindi la prima porta dove decidere chi essere, e chi diventare. «Per andare in classe i ragazzi possono scegliere la propria immagine. Banalmente: si mettono in ghingheri, o meglio, indossano quello che gli piace per destare l’interesse del territorio. Adesso arrivano da un anno in cui sono rimasti per settimane a casa in ciabatte e pigiama. In questo modo un giovane si trova a contatto con la propria persona, senza più l’ancora dell’immagine. E non a tutti piace la propria persona. Senza confronto, depressione, autolesionismo e disturbi alimentari sono enormemente aumentati». Per cacciare questi fantasmi serve appunto il confronto. La possibilità di una relazione meno rigida con gli altri, con la cultura, con il divertimento. Una nuova modalità di scambio fra alunni e adulti.

Vivere insieme. Rossella Viaconzi è vicepreside dell’istituto Alda Merini di Milano. La pandemia «ci ha estenuati. Ha stancato tutti: studenti, genitori, professori e dirigenti», racconta: «Ci ha messo alla prova. Ma chi lavorava in rete con il territorio ha potuto in qualche modo contare su una forza in più». Sia nel bisogno, che nel rilancio della socialità. «L’anno scorso abbiamo iniziato la distribuzione dei pasti a trenta famiglie di nostri alunni, grazie a una catena di supermercati biologici e alle “brigate partigiane”». Quest’anno l’esigenza è stata quella di non far perdere agli adolescenti il contatto con i compagni. All’Alda Merini, con le sue sedi sparpagliate in vari canti della periferia Nord Ovest della città, gli alunni hanno potuto continuare ad andare a scuola attraverso il calcio come laboratorio, ad esempio, oppure per le attività legate alla webradio, o ancora passare il pomeriggio con le mani nella ceramica, oppure a dipingere gli esterni nel laboratorio di pittura murale insieme allo street artist Pao. «È stato possibile per la collaborazione con Fondazione Exodus di Don Mazzi», racconta Viaconzi: «Grazie alla quale abbiamo realizzato anche un’altra avventura, che mi ha colpita profondamente. Insieme a una classe di tempo prolungato che ho, dove su 18 studenti 17 sono stranieri, giovanissimi che hanno sofferto molto l’isolamento dei lockdown, e che rischiavamo di perdere, siamo stati per una settimana in barca a vela all’isola d’Elba, all’interno del progetto “Per educare ci vuole un villaggio”. È stata un’esperienza fortissima per tutti. Ho capito con un’intensità che non avevo conosciuto in tutti questi anni di esperienza come davvero la dispersione scolastica possa essere vinta solo se c’è condivisione di vita», racconta. «Abbiamo avuto quattro giorni di mare mosso, forza 4 nello stretto di Piombino. Tutti con il mal di mare. Eppure tutti trasformati dall’esperienza comune. Dopo esser stati nella stessa classe per tre anni, li ho visti tutti sotto altri punti di vista. Nei momenti di convivialità, nei confini della convivenza, sono emersi aspetti dalla loro personalità che non conoscevo, risorse che non avevano mai mostrato. Appartenevano a nove etnie, con cinque fedi diverse, ognuno con le sue abitudini e i suoi progetti, e un effluvio di domande continuo. Sulla vita, le scelte, il domani». «Personalmente credo che la scuola sia un bivio», riflette Viaconzi. «Purtroppo irrigidirsi può portare a non comprendere più i ragazzi. Soffrono tantissimo il fatto di essere tornati in presenza e di essere valutati soltanto, come se nulla fosse stato, sottoposti a verifiche continue, quando in realtà andrebbe fatto un altro tipo di valutazione». Che parta da loro, per tornare a loro.

Tornare per i voti? È andata diversamente. Se la prima volta è una sorpresa, la seconda è un macigno. Emersi dal doppio anno pandemico, doppia stagione di lezioni via zoom, mattinate davanti ad adulti che parlano dentro a uno schermo, migliaia di studenti italiani hanno terminato l’anno scolastico con un ritorno in presenza che sembrava segnato troppo spesso da una sola richiesta: verifiche, verifiche, verifiche. Priorità ai voti. «Lo temevo, e così è stato. Alcune scuole hanno capito l’importanza del rientro in presenza degli alunni. Altre hanno imbastito invece settimane di compiti in classe e interrogazioni a raffica. Non è questione di dibattere sull’opportunità o meno di bocciare in un anno così, ma di ricordarsi qual è il ruolo dell’istruzione. Se è una raccolta punti in vista del binomio promozione/bocciature, oppure se è un impegno per ascoltare e far crescere le competenze. Le competenze, più che le conoscenze». Matteo Lancini è uno psicologo, psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro e membro del gruppo di lavoro sulla dispersione scolastica della Regione Lombardia. E ha un’idea chiara: «In questi giorni di scrutini finali, verso la chiusura dell’anno l’8 giugno, tutti gli insegnanti dovrebbero ricordarsi cos’è una scuola inclusiva. E non gettarsi a recuperare un’autorevolezza perduta aggrappandosi a voti e bocciature, che mortificano i ragazzi e vanno ad aumentare le incertezze di quei due milioni e 400mila giovani che in Italia non risultano integrati né in un percorso formativo né lavorativo». Anche perché quell’autorevolezza di cui alcuni professori hanno nostalgia, dice Lancini, non è stata persa per un aumento indiscriminato di irriverenza casuale, quanto per i paradossi con cui gli adulti impongono ai ragazzi regole che nemmeno loro rispettano. «L’esempio principe per me è il cellulare. Gli unici che dovrebbero spegnerlo, nella nostra società, sono gli adolescenti. Per gli adulti è normale usarlo per ore, se lo fanno i ragazzi diventa dipendenza. Forse allora dovremmo partire da educare gli adulti, prima di parlare di internet come del male assoluto, e poi da un giorno all’altro obbligare i giovani ad accendere la telecamera nell’intimità della loro stanza per la videolezione». Insomma, «gli adulti perdono autorevolezza quando ripetono interventi stereotipati anziché insegnare a muoversi nella realtà contemporanea».

Territori e complessità. Da una parte quindi ci sono i fondamenti dell’esercizio di cittadinanza - socialità, capacità di esprimersi e capire, conoscere la storia - dall’altra la necessità di innovare gli insegnamenti per ascoltare di più le predisposizioni dei singoli ragazzi, i loro desideri. Se per questo obiettivo c’è ancora molta strada da fare, per il primo, anche. Secondo gli ultimi risultati Invalsi - che risalgono alle prove del 2019, l’anno scorso i test sono saltati, mentre a luglio usciranno gli esiti delle rilevazioni di quest’anno - in una regione come il Piemonte il 31 per cento degli studenti non raggiunge, in terza media, il livello base di italiano. Per matematica è il 35 per cento. Guardando al domani, le prospettive si allargano e distanziano ancora di più: fra i ragazzi dei licei l’11 per cento arriva al diploma con un italiano zoppicante secondo le griglie Invalsi, fra gli studenti dei professionali è il 54 per cento. Uno su due. A notare questi dati approfondendo i numeri della dispersione scolastica di Torino e dintorno è Luisa Donato, ricercatrice di Ires Piemonte, che ricorda come il problema dell’abbandono non sia drammatico solo nel Sud Italia, ma anche al Nord, soprattutto nella differenza fra centri e periferie. Un esempio? «Gli Elet (Early leavers from education and training), nel 2020 il Piemonte saliranno al 12% rispetto al 10,8 del 2019, dopo esser diminuiti costantemente negli ultimi 15 anni», riflette Donato: «Considerando che l’obiettivo stabilito dalla strategia Europa 2020 è di uno su dieci, il Piemonte, già prima della pandemia, era in una situazione che definiamo di “oscillazione”. Significa che resta una parte di giovani fra i 18 e i 24 anni, con al massimo il titolo di licenza media e non più in formazione o in percorsi di istruzione, che andrebbe intercettata con interventi il più possibile precoci. La Regione Piemonte sta provando a intervenire con un servizio di orientamento regionale. In questi due anni di scuola non in presenza, o alternata tra presenza e distanza, il numero di ragazzi e ragazze che si sono rivolti al servizio, per un supporto nella scelta dell’indirizzo di studi nel primo biennio delle superiori, è stato elevato. Questa è un’antenna sul territorio che fa capire il disagio dei giovani adolescenti nel vivere una situazione straordinaria che ha generato dubbi e insicurezze limitando di fatto anche il confronto tra pari, indispensabile nell’età in cui cambiano i gruppi di riferimento». Non solo. I dati mostrano un altro elemento: nelle province di Asti e di Alessandria la media degli abbandoni è più alta, arriva al 16 per cento, e in aumento rispetto a prima. «In genere la dispersione è sempre stata più elevata in quei contesti territoriali in cui i giovani avevano maggiori opportunità di entrare nel mercato del lavoro», riflette Donato. «Tuttavia, il sistema si fa sempre più complesso. Il lavoro diminuisce, in particolare per i più giovani, e cresce l’eterogeneità della popolazione. La presenza di persone con maggiori fragilità o difficoltà incide sui livelli di dispersione - persone con status socioeconomico basso e di origine straniera. Se anche nelle altre regioni italiane fossero disponibili dati disaggregati a livello territoriale inferiore alla regione, emergerebbe che non tutti i territori vanno alla stessa velocità né nella stessa direzione».

Il terzo salto. Orientamento, territorio, conoscenza. Pierpaolo Triani è professore ordinario di Pedagogia all’università Cattolica di Milano. Un mese fa ha commentato i risultati di una ricerca della consulta studentesca di Piacenza sull’impatto dell’orientamento nel prevenire (o causare) derive di abbandono scolastico. Fra gli studenti intervistati per il progetto «due su dieci hanno dichiarato di non essere particolarmente contenti del proprio percorso di studi, e quattro su dieci che l’orientamento in terza media non è stato utile». «Per quanto concentrate soprattutto fra licei - quando la dispersione, sappiamo, è un problema che si aggrava soprattutto a cavallo del primo biennio negli istituti tecnici e professionali - sono risposte che evidenziano come l’azione di orientamento in terza media sia importantissimo per contrastare la dispersione. Dovrebbe essere però un coinvolgimento pratico, un modo per sperimentare sul campo attitudini e interessi, non solo valutando gli aspetti cognitivi, dando informazioni astratte, ma permettendo ai ragazzi di sperimentarsi, rispetto al loro futuro. L’esperienza concreta potrebbe aiutarli a capire meglio interessi e attitudini». Il passaggio fra la terza media e le superiori è quindi un ponte cruciale e delicato. «Ma è anche il momento in cui le direzioni si polverizzano, perché dopo il passaggio da elementari a medie che avviene nello stesso contesto urbano, o addirittura nello stesso istituto comprensivo, ci si trova a partire per una classe che si trova anche a 40 chilometri di distanza», spiega Triani. Il problema non dovrebbero essere però i chilometri: «non è semplice organizzare un lavoro di rete che permetta di seguire le situazioni più difficili, o fragili, ma è necessario. Creando subito un legame fra scuola di partenza e d’accoglienza si può intervenire prima, e meglio, personalizzando l’azione didattica. Non basta sapersi approcciare, come molti insegnanti alle professionali già fanno, bisogna agire subito per fermare la deriva». Anche Triani condivide il timore di Del Bene: «Nei prossimi anni avremo i segnali statistici di quanto stiamo vivendo in questi mesi». Bisogna iniziare a prevenire. Irrobustendo le risorse migliori dei ragazzi, e dei territori dove vivono. Per una nuova presenza.

Da corriere.it il 24 aprile 2021. I carabinieri del comando provinciale di Ragusa, in due distinte operazioni hanno denunciato 146 genitori che non mandavano i loro figli alla scuola elementare; per tutti loro il reato contestato è evasione dell’obbligo scolastico. La prima ondata di denunce risale a due giorni fa e ha riguardato 48 persone residenti in maniera prevalente nella zona di Vittoria, grosso centro agricolo del ragusano; sempre a Vittoria si sono concentrati anche i successivi controlli che hanno portato alla segnalazione alla procura di 98 tra padri e madri di minorenni iscritti a istituti della scuola dell’obbligo. La duplice operazione è scaturita da segnalazioni partite dai dirigenti degli istituti. Analizzando i registri scolastici è emerso un numero elevatissimo di assenze ingiustificate da parte di numerosi bambini regolarmente iscritti durante l’intero anno scolastico. La dispersione scolastica continua a essere un problema rilevante in Italia. Secondo dati del Miur riferiti all’anno 2019 l’1,17% degli studenti non riusciva a completare il ciclo di studi tra elementari e medie. Dato relativamente basso ma che cresce se si prende in considerazione una fascia di età superiore. Tra i giovani di 18-24 anni il 13,9% non possiede un diploma di scuola media superiore (la percentuale supera il 16 nelle regioni del Sud) contro una media dei Paesi Ue del 10,2.

La scuola all’inferno e l’inferno della scuola. Marcello Bramati il 5/1/2021 su Panorama. La scuola superiore italiana nel 2020 ha toccato il fondo. O almeno c'è da augurarselo, perché peggio di così pare davvero oltre il tollerabile e l'immaginabile. Già... Nessun racconto di fantascienza aveva mai teorizzato un luogo di istruzione deserto con docenti all'interno impegnati nel fare lezione a studenti altrove, così come nessun racconto distopico aveva mai immaginato un luogo abitato da uomini con attività aperte e scuole, di fatto, chiuse. Solo l'oltretomba dantesco, tra discese, punizioni, ambientazioni allucinanti e ministri infernali potrebbe essere una suggestione percorribile. Nel 2020 l'abisso cui nessuno aveva mai dato forma è divenuto la nostra scuola, sotto gli occhi e nelle case di tutti: aule vuote, diari sostituiti da notifiche di Google Classroom, voti indecifrabili, docenti impalpabili come le loro lezioni, classi divenute francobolli digitali e soprattutto ragazzi spaesati, costretti come per un terribile contrappasso a ore e ore in casa davanti a schermi di computer, tablet, cellulari. A fare lezione, certo, o comunque impegnati in qualcosa di simile, probabilmente una lezione da contrappasso, con immagini nitide ma non sempre, con ascolto e interazione possibile ma non sempre, con una via d'uscita ipocrita comunque sempre a portata di mano, blandendo motivazioni reali o presunte a cui è ogni giorno più difficile avere la forza di ribattere. In tutto questo, l'incapacità da parte di chi fa scuola di avere uno sguardo univoco, magari condividendo riflessioni fondate sull'analisi e approfondimenti culturali per comprendere questo tempo presente, andando oltre la logistica spiccia e la sparata pro o contro il rientro a scuola: niente da fare, interi collegi docenti riuniti per far fronte alle varie scadenze e sempre più impegnati a autodistruggersi, come i capponi di Renzo di manzoniana memoria. Questo l'esito di un anno di pandemia, ma non bisogna compiere l'errore di concludere che il problema della scuola sia circoscrivibile a questo dramma della didattica a distanza, sempre meno emergenziale e sempre più tollerata come economico e necessario palliativo alla scuola superiore che comunque, nella sostanza, per chi governa serve a poco. Con buona pace delle dichiarazioni di tutti quei politici che la vogliono al primo posto senza se e senza ma, per poi dimenticarsene in sede di bilanci, investimenti, di decisioni da prendere. Guai a perdere la complessità dell'abisso del pianeta scuola fermandosi alla Dad: sarebbe come leggere il trentaquattresimo canto dell'inferno dantesco perdendosi i trentatrè precedenti. La realtà è che noi siamo al cospetto di una discesa agli inferi iniziata più di 20 anni fa, con un percorso strutturato e capace di mutare sempre, aumentando l'intensità delle sofferenze di chi la scuola la fa, in ruoli diversi, tanto che la metafora con l'oltretomba dantesco non stride. Anzi, è calzante. Le riforme sono state la costante della discesa verso l'abisso, dalla metà degli anni Novanta, con la riforma Berlinguer che ha equiparato le discipline, così un otto in scienze motorie in terza classico ha iniziato a far media matematica con un quattro in greco, totale sei. Passando per la riduzione dell'orario settimanale e per le maturità a commissione interna della Moratti, per l'operato della ministro Mariastella Gelmini, capace di levare ore al latino del liceo scientifico o dignità alle materie storia e geografia, fino alle prove Invalsi e all'alternanza scuola lavoro della Buona scuola di Matteo Renzi. Tassello finale, l'educazione civica dell'ultima stagione politica.

Argomenti, questi ultimi due, anche interessanti, ma organizzati senza approfondimento, senza fondi, senza lungimiranza, per cui gestiti come appesantimenti per ogni docente e per ogni materia costretta a fare un po' di posto a incombenze nuove, poco strutturate, spesso improvvisate anche nelle rettifiche e nei chiarimenti del legislatore. La scuola del 2020 ha messo in luce in modo plastico l'allergia che gli studenti hanno nei confronti dell'aliena scuola che ridotta così – al netto della pandemia – pare non più in grado di accogliere chi dovrebbe entrare in contatto con il sapere, con il confronto e anche con il silenzio, con i grandi libri, con i grandi maestri, con la storia, con docenti cultori della materia che spiegano in classe. Non bastano alcuni esempi virtuosi, non servono pochi dirigenti e docenti motivati e competenti. Il sistema scuola è al capolinea. Se serve toccare il fondo per rinascere, auguriamoci di essere giunti a questo punto drammatico e necessario insieme. Saremmo a metà del percorso.

Valentina Santarpia per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2021. Fingono connessioni discontinue, attaccano bigliettini sullo schermo per leggere indisturbati durante le interrogazioni, nascondono il telefonino sotto la scrivania, infilano gli auricolari bluetooth per farsi suggerire, scattano foto alla pagina del libro e se la piazzano a tutto schermo sul pc. Sono loro, i «copioni» della didattica a distanza, inventivi e fantasiosi, testardi e ingegnosi, che per portare a casa un buon voto progettano soluzioni a ogni verifica. Ma non sono soli a «combattere» la battaglia quotidiana della scuola online. Sul campo, sul fronte opposto, ci sono i docenti, che ogni giorno cercano nuove «armi» per accertarsi che il lavoro da remoto faccia fare progressi nei giovani discenti, che al mattino neanche si lavano il viso e indossano la felpa sul pigiama ma diventano iperattivi quando si tratta di «scopiazzare». In questi mesi le tecniche, da una parte e dall'altra, si sono affinate. Ragazzi e ragazze studiano video su TikTok, i prof si applicano su trattati pedagogici, consultano psicologi, si esercitano con algoritmi di valutazione. Il caso più «forte» è stato quello dell'insegnante che ha bendato gli alunni in un liceo di Scafati (Salerno), sollevando indignazione generale. Ma in guerra ci sono sempre morti e feriti. I docenti che hanno proposto di togliere il telefonino agli studenti hanno causato la protesta dei genitori che, dovendo lavorare, lo consideravano l'unico mezzo per mantenere un brandello di comunicazione con i figli a casa, e assolversi dall'assenza. Alcuni prof hanno provato a moltiplicare gli sforzi e assegnare verifiche ad personam: «Faccio tradurre un pezzo che non hanno mai visto prima, ovviamente scegliendo qualcosa che abbia un lessico base- spiega Patrizia Grima, professoressa di latino e greco del liceo classico Orazio Flacco di Bari -. È un'interrogazione all'impronta, che accettano volentieri, non come una punizione. Anzi, sono orgogliosi di dimostrare questa capacità». Sulla stessa linea Marco Fiorini, docente di grafica in inglese all'istituto tecnico Einaudi di Ferrara: «Punto molto sulla comunicazione: durante l'interrogazione li faccio parlare di esperienze personali, copiare non si può». E c'è chi ha deciso di adottare le tecniche dell'università, come Elena Gabbiani, prof di matematica al liceo Gioia di Piacenza: «Dopo averne parlato coi genitori, faccio installare agli studenti una webcam esterna che riprende la postazione. Appena inizia la verifica faccio partire la registrazione e se qualcosa non mi torna, la riguardo. Così ho scoperto un ragazzo che si era allontanato un attimo. L'ho invitato a spiegare il compito, visto che l'aveva fatto così bene, e ha confessato». Per i ragazzi può diventare ansiogeno: «Alcuni hanno adottato cose un po' maniacali, come farci mostrare i libri, ma la maggior parte dei prof ha puntato sui testi creativi: se dobbiamo fare valutazioni personali, non possiamo copiare», racconta Giuseppe Loria, studente 18enne del liceo Giulio Cesare di Roma. Ma è normale copiare? «Se vuoi fare valutazione con la Dad, ti trovi nei guai - spiega Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta -. Istruire e far apprendere sono cose diverse: in questo momento straordinario più che sul voto il docente dovrebbe portare avanti un processo di relazione e apprendimento». Allora, che copiassero tutti? «Io sono per open book e open internet: si fa in tutto il mondo, si chiama ricerca».

Miriamo Romano per "Libero Quotidiano" il 15 aprile 2021. Il caso è esploso nei giorni scorsi e prima di arrivare alle reazioni, che sono forse il nocciolo della questione, riepiloghiamo in breve i fatti. Sull'altare della cronaca è salita un'insegnante di tedesco di un liceo del centro storico di Verona, il Montanari, alle prese con la contestatissima Dad (didattica a distanza, per chi ancora non ha assimilato l'acronimo). La professoressa in questione, prima delle vacanze di Pasqua, si sarebbe macchiata della colpa di aver fatto bendare una studentessa durante un'interrogazione a distanza per verificare che non stesse "barando". L'alunna, rispondendo ai quesiti da casa, stava andando "troppo bene", dimostrandosi ben più capace e preparata rispetto alle performance a cui era abituata l'insegnante in classe. Da qui la richiesta della docente e la solerzia nel voler sondare con accuratezza la preparazione della studentessa. «Prenda una sciarpa e si bendi, voglio vedere se ha studiato davvero». La giovane ha obbedito: si è coperta gli occhi. Un'immagine, quella della quindicenne bendata di nero, che, solo pochi giorni fa, ha fatto il giro del web, dei social, arrivando a strappare commenti e giudizi anche dalla politica. Chi ha parlato di mancanza di rispetto, di lesione della dignità della giovane. La platea si è schierata quasi interamente contro l'insegnante, colpevole di aver provocato disagio nella ragazza. Dalle chat di classe, ai rappresentanti degli studenti, fino alla direzione generale della scuola. L'Ufficio scolastico regionale del Veneto ha avviato accertamenti mirati. La direttrice Carmela Palumbo ha contattato il preside del liceo veronese, chiedendogli di sentire i ragazzi e i docenti, per ricostruire l'accaduto e prendere provvedimenti: «Un eccesso di zelo che porta a una richiesta discutibile, il tutto dovuto dalla difficoltà a gestire i momenti di verifica con la didattica a distanza. Abbiamo aperto un procedimento, stiamo verificando». Carmela Palumbo ha perfino definito la pratica «lesiva della dignità umana», ribadendo però l'intenzione di conoscere il contesto in cui è maturata questa situazione, anche sentendo i compagni di classe della quindicenne. Addirittura i rappresentanti degli studenti hanno alzato l'asticella dell'allerta, parlando di altri episodi simili. «Riceviamo altre segnalazioni da chi viene interrogato con il viso contro il muro, chi con le mani alzate, chi con il viso schiacciato sullo schermo», hanno spiegato. La parte del coro stonato l'hanno fatta i genitori: questa volta, madri e padri hanno preso le distanze dai figli. Non solo non hanno partecipato alla "lapidazione" virtuale, ma hanno scritto una lettera in difesa dell'insegnante che «si è sempre preoccupata del bene dei nostri ragazzi». Gli unici ad aver posto l'attenzione sul dovere della docente, intenta a smascherare una furberia, come sono soliti fare gli insegnanti, per assegnare correttamente i voti. «In questo anno particolare, che ha messo a dura prova studenti e professori - si legge - anche noi ci siamo ritrovati a condividere spazi in casa con i nostri figli. Era proprio giovedì 8 aprile e quando si è collegata con la sua classe ha realizzato che doveva interrogare ben tre studenti, non una. Eravamo presenti e sappiamo che ha cercato di mettere a proprio agio gli studenti, pur chiedendo di chiudere gli occhi». Dunque per i genitori non si sarebbe trattato di un metodo "inquisitorio", ma di un modo "concordato" per evitare imbrogli. «Si era notata - spiega uno dei genitori a l'Arena, - una differenza sostanziale nel rendimento di alcuni studenti tra le interrogazioni in classe e quelle in Dad ma la richiesta di chiudere gli occhi era indirizzata a tutti». Nessun dubbio sulle qualità della professoressa. «È un'ottima insegnante e non ha teso tranelli - concludono - tant'è che anche quella di giovedì era un'interrogazione programmata».

Da "il Fatto Quotidiano" il 15 aprile 2021. Gentile redazione, sono rimasta quasi scioccata dalla foto della studentessa veronese bendata davanti al suo pc per evitare che sbirciasse durante l'interrogazione Mi chiedo: ma quello adottato dalla prof. - un'orrida benda sugli occhi - è ancora un metodo educativo? Cecilia Mazzucchelli

Risposta di Filippomaria Pontani. Gentile Cecilia, il gesto è stato senz'altro sgradevole in sé, e ovviamente nessun allievo va criminalizzato "ex ante" - meglio, alle brutte, chiedere a tutti gli studenti di rispondere a occhi chiusi, come so avvenire da tempo in diversi esami universitari italiani e nelle interrogazioni di alcuni licei durante la tanto magnificata "didattica a distanza"; del resto, in un caso simile mesi fa a Scafati il preside aveva sostanzialmente difeso l'insegnante. A Verona invece un delirio: gli studenti denunciano "metodi da inquisizione" e invocano "comprensione" per chi copia (!), si indignano i genitori (magari gli stessi pronti a lamentarsi perché al ritorno in classe i docenti osano somministrare verifiche ai poveri rampolli); la sottosegretaria all'Istruzione deplora la "cultura del sospetto", la dirigente dell'Usr Veneto mette in dubbio tout court che i docenti debbano saggiare l'apprendimento di nozioni. Gli occhi chiusi sono un gesto meno grave dell'esame-farsa in cui si risponde "a libro aperto" (pardon, open book), o con sotto Wikipedia, docsity, o gli appunti. Da sempre alcuni studenti (inclusi i miei, più volte) provano a copiare o ad "aiutarsi", un gioco più semplice davanti a uno schermo dove si trova tutto in un clic - versioni di greco, formule, date -. È una prassi non solo d'intralcio per chi deve valutare i ragazzi, ma anzitutto dannosa per loro stessi e la loro preparazione, e un insulto terribile all'etica della collettività. La scuola deve "innescare il desiderio", fornire "competenze", levigare curricula (il "curriculum dello studente", fatto di attività extrascolastiche e di abilità relazionali, entra ahimé da quest'anno nella valutazione dell'esame di Stato)? Primariamente la scuola pubblica deve dare a tutti l'opportunità di conoscere e digerire contenuti che altrimenti nessun altro offre o presidia. Se "tanto le nozioni sono tutte in Rete" allora smettiamo anche di insegnare l'ortografia tanto c'è il correttore automatico, o le tabelline, tanto c'è la calcolatrice. Ma non è solo il produrre somari: la scuola è per molti il primo luogo (se non l'unico) in cui si apprendono modelli di comportamento sociale condivisi: purtroppo tra le dinamiche sociali rientra anche che alcuni provino a fare i furbi, e se saremo tolleranti su questo tipo di inganni e frodi produrremo evasori, furbetti, saltafila.

Laura Berlinghieri per "La Stampa" il 13 aprile 2021. Una studentessa obbligata a sostenere l'interrogazione con gli occhi coperti da una sciarpa, perché sospettata di copiare: il caso eclatante del Liceo di Verona è stato l'innesco per le denunce dei ragazzi. «Mi hanno chiesto di girarmi, dando le spalle alla fotocamera, ed esporre l'argomento, in modo da non potere avere nulla sotto gli occhi» il racconto di uno studente. «Ci chiedevano di avvicinarci al computer, fino quasi a toccare la webcam, per essere sicuri che non guardassimo gli appunti sullo schermo o i bigliettini attaccati al monitor» la testimonianza di un altro. E poi, la più assurda: «Un professore della mia classe ha costretto dei miei compagni, sospettati di copiare durante le interrogazioni, minacciandoli di un'insufficienza, a tenere le mani davanti e unite, come in preghiera. Non ha mai detto esplicitamente la sua intenzione, ma ripeteva solo di "pregare" insieme a lui». Sono le testimonianze raccolte dalla Rete degli studenti medi veneti che, per primi, stigmatizzano quanto avvenuto nel liceo veronese. «La cosa che più ci spaventa è il fatto che non si tratti di un caso isolato» commenta Camilla Velotta, della Rete. «C'è chi è stato interrogato con il volto contro al muro, chi con le mani alzate, chi con il viso schiacciato sullo schermo. Sembra che un voto valga più della dignità e dell'apprendimento». Ma le "pratiche da didattica a distanza" non hanno confini geografici. A ottobre, aveva fatto scalpore il caso della docente di latino e greco di Scafati, nel Salernitano, che chiedeva ai ragazzi delle sue classi di sostenere le interrogazioni con una benda sugli occhi. Mentre a giugno, sul finire dello scorso anno scolastico, una ragazza di un liceo romano era stata valutata con un "3", perché aveva rifiutato di chiudere gli occhi durante l'interrogazione a distanza. «Mi sento preparata» la risposta della giovane, di fronte alla bizzarra richiesta dell'insegnante. Niente da fare. Episodi limite che riemergono ora, dopo quello eclatante accaduto al liceo Montanari di Verona. Del resto, sono molti gli insegnanti che, temendo che agli studenti possa "cadere l'occhio" sull'appunto scritto sul foglietto o direttamente sullo schermo del computer, hanno studiato le strategie più ingegnose da applicare alle interrogazioni. Dall'utilizzo di due device, per avere il massimo controllo sulla stanza dello studente, fino all'obbligo di sostenere l'esame in piedi, ben distanti dal computer, e con le spalle al muro. Nel caso di Verona, così come in quelli di Scafati e di Roma, si è andati veramente oltre, fino ad attaccare la stessa dignità degli studenti. «L'episodio non riguarda la sola ragazza di cui si sta parlando. La richiesta è stata avanzata dalla stessa professoressa agli alunni di diverse classi» sostiene Lorenzo Baronti, rappresentante degli studenti dell'istituto scaligero. «Contrariamente a quello che i professori possono pensare, noi comprendiamo bene le difficoltà del periodo, ma comportamenti come questo non sono la soluzione». Eppure sono comportamenti che sembrano fare proseliti, come testimoniato a stretto giro da un'altra ragazza della Rete degli studenti medi padovani, iscritta al Liceo Cornaro: «Quando eravamo a casa, in Dad, la professoressa di tedesco ci obbligava a tenere le mani davanti agli occhi, durante le interrogazioni, perché aveva paura che potessimo leggere i vocaboli sullo schermo del computer o sui bigliettini. A me personalmente non è mai capitato, ma è successo a diversi miei compagni di classe. Per questo non mi stupisce l'episodio di Verona».

Polemiche dopo quanto accaduto in un liceo di Verona. Studentessa bendata durante interrogazione, la prof non si fida: “Così vediamo se sei preparata”. Redazione su Il Riformista il 12 Aprile 2021. La studentessa si dimostra preparata durante l’interrogazione di tedesco ma la professoressa non si fida e invita la giovane, 15 anni, a proseguire la discussione con gli occhi coperti. “Si metta qualcosa per bendarli, così capiamo se ha davvero studiato”. E’ quanto accaduto giovedì 8 aprile, durante le lezioni di didattica a distanza, in una classe del Liceo Carlo Montanari di Verona. La povera malcapitata prende una sciarpa, si copre gli occhi e prosegue l’interrogazione tra lo stupore e l’indignazione dei compagni di classe. C’è chi fa lo screen dal pc di casa e segnala l’accaduto ai rappresentati d’istituto e agli esponenti della Rete degli Studenti Medi di Verona rappresentata da Camilla Velotta. “Mi sono sentita a disagio, come se mi stessero accusando di imbrogliare” ha raccontato la giovane studentessa scatenando la reazione di tanti coetanei. “Come Rete degli Studenti Medi di Verona siamo sconvolti e amareggiati dalle decisioni repressive prese della professoressa, ma purtroppo non sorpresi. Non è la prima docente che, durante le lezioni in didattica a distanza, decide di instaurare un clima del tutto inadatto per la nostra crescita e formazione” commenta Velotta. In realtà dopo oltre un anno di didattica a distanza episodi come quello accaduto la scorsa settimana nel liceo veronese si sono già verificati. Alla base di simili richieste ci sono i sospetti dei docenti sui trucchetti utilizzati dagli alunni nel corso di interrogazioni e verifiche scritte per aggirare l’occhio della telecamera utilizzata per il videocollegamento.  Anche un altro studente ha confermato alla Rete degli Studenti che un professore l’avrebbe obbligato, si legge in una messaggio whatsapp, “a tenere le mani davanti e unite come in preghiera” mentre un terzo parla di una interrogazione con “le mani sopra gli occhi” per evitare che lo studente leggesse dal vocabolario. “Ma la DAD è già di per se uno strumento che allontana lo studente dalla scuola e dal resto della comunità studentesca, non può diventare un pretesto per azioni intimidatorie nei confronti di chi sta sostenendo una prova di valutazione” osservano gli studenti che chiedono provvedimenti per la prof protagonista dell’episodio. Il preside del Liceo, contattato dal Corriere Veneto, ha spiegato che sono in corso delle verifiche. “Se ci sono conferme agiremo di conseguenza” aggiunge. L’Ufficio scolastico regionale del Veneto ha avviato accertamenti. Individuato l’istituto, la direttrice scolastica Carmela Palumbo ha contattato il dirigente che ha sentito i ragazzi e i docenti, per ricostruire l’accaduto ed eventualmente prendere provvedimenti. “In questo momento – ha detto all’Ansa- non possiamo esprimere giudizi su un episodio che pare un eccesso di zelo che ha portato a un comportamento discutibile, scaturito dalla difficoltà a gestire in dad la situazione delle verifiche”, ha concluso. Una situazione simile si è registrata lo scorso ottobre a Scafati, in provincia di Salerno, dove una docente del liceo Renato Caccioppoli ha costretto gli alunni a bendarsi per non sbirciare gli appunti durante le lezioni a distanza.

I danni della Dad più pericolosi del Covid. Si rischiano fobie, psicosi, disturbi alimentari. Denise Mele il 25 gennaio 2021 su Il Quotidiano del Sud. I lunghi mesi di didattica a distanza hanno messo a dura prova gli insegnanti che hanno dovuto riadattare metodi e programmi di insegnamento e studenti che si sono dovuti abituare ad uno stile di vita molto diverso perdendo la quotidianità scolastica e il contatto con i propri coetanei. Ho voluto parlarne con la psicologa e psicoterapeuta Caterina Bevacqua che svolge il ruolo di insegnante di sostegno in una scuola primaria.

Che difficoltà possono riscontrare i bambini che rientrano a scuola dopo mesi di Dad?

«I bambini tendenzialmente riescono ad adattarsi molto meglio degli adulti nelle più svariate situazioni. Quella che stiamo trattando, però, non riguarda solo il bagaglio di competenze e apprendimenti, sfidato da un lungo periodo di adattamento alla dad, ma anche il vissuto emotivo dei bambini che una volta rientrati a scuola continuano a districarsi fra regole rigide e impattanti. Sicuramente i bambini che stanno riscontrando maggiori difficoltà sono quelli che già prima della pandemia manifestavano stati d’ansia, da separazione dai genitori o nella relazione con i compagni. A questi si aggiungono anche i bambini con disturbi comportamentali, che nei mesi di chiusura si sono disabituati alle regole e il rientro fra i banchi ha innescato non poche ostilità. Senza dimenticare, inoltre, i bambini con disturbi specifici dell’apprendimento, che hanno subìto la complessità della dad per quanto riguarda tutti gli aspetti di organizzazione, carico cognitivo, uso delle tecnologie, ecc».

Quali comportamenti erronei potrebbero assumere e come potrebbero ripercuotersi nella loro vita a scuola?

«A livello emotivo e comportamentale l’impatto sui bambini risente sicuramente del filtro dei loro genitori, di come hanno vissuto e stanno vivendo loro questa situazione. Nei bambini più piccoli potrebbero manifestarsi delle regressioni, potrebbero voler tornare a vecchie abitudini e comportamenti come se avessero perso le autonomie acquisite al solo scopo di cercare rassicurazione e accudimento. I bambini un po’ più grandi invece possono soffrire maggiormente stati d’ansia e depressione, che quindi favoriscono condizioni di isolamento, ma anche disturbi del sonno, problemi di concentrazione, maggiore irritabilità. A livello comportamentale chi invece presentava già problemi di aggressività, il contesto può presentarsi particolarmente sfidante e aumentare le reazioni di collera. Occorre ricordare, però, che a supporto di tali disagi e traumi da covid, molte scuole italiane hanno disposto uno sportello di supporto psicologico tenuto da un consulente esperto a disposizione di studenti ed insegnanti».

C’è il rischio di psicopatologie in età adulta?

«La percezione del bambino di questo evento sarà senz’altro filtrata da sue componenti temperamentali, e qui tiriamo in ballo la sua vulnerabilità personale, e da ciò che l’ambiente familiare ha potuto offrirgli per riparare alla rottura di questi equilibri. Per molti questa condizione può essere stata vissuta in maniera traumatica soprattutto se consideriamo le famiglie colpite dalla perdita del lavoro di un genitore o l’aumento di abusi e violenza sui bambini fra le mura domestiche. Non è solo la minaccia a cui il bambino viene esposto, ma anche e soprattutto l’ambiente in cui il bambino affronta e vive tale minaccia a determinare il rischio di patologie in età adulta. Fra le varie psicopatologie i bambini potrebbero sviluppare con maggiore probabilità disturbi d’ansia, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, fobie, psicosi, disturbi alimentari e disturbo da stress post traumatico. Questi disturbi sono strettamente connessi alla condizione che abbiamo vissuto nell’ultimo anno».

La Dad e quelle cicatrici sulla pelle dei nostri ragazzi. Giuseppe Genna su L'Espresso il 07 gennaio 2021. In questi incredibili e patologici nove mesi la scuola è rimasta nel silenzio. E i cuori si sono infranti. Al punto che l'emergenza rischia di farsi norma. Scene dalla figlia unica, da marzo a oggi. Una ragazzina prova i solfeggi con il flauto, a favore dello schermo di un computer male in arnese, dal cui video si sporge un’insegnante, il volto distorto, i complimenti che arrivano come da un Max Headroom riadattato (se qualcuno non si ricorda di Max Headroom: era un’animazione degli anni Ottanta, un presentatore televisivo virtuale e grottesco, come la scuola oggi: virtuale e grottesca). La stessa ragazzina in tuta stantuffa il respiro, corre sul posto, mentre l’insegnante di “motoria” ritma l’ordine dei saltelli dallo schermo del pc.

Valentina Arcovio per "Il Messaggero" il 16 marzo 2021. Non è la qualità della formazione, o almeno non solo quella, che la Didattica a distanza rischia di compromettere. In gioco c'è di più. La lontananza dalla scuola, dagli insegnanti, dai compagni di classe e in generale dalla vita «normale» espone i bambini e i ragazzi a mali ben peggiori, quelli dell'anima. Ansia e stress sono solo il preludio, disturbi alimentari e autolesionismo le tragiche conclusioni. I dati che abbiamo sono piuttosto eloquenti e hanno dato alla nuova edizione della Giornata nazionale dei disturbi alimentari, che si è celebrata ieri, un'urgenza ancora più importante. Secondo il ministero della Salute, si è verificato un aumento del 30% dei casi di disturbi dell' alimentazione tra i ragazzi e i bambini. Sì, bambini anche di 9-10 anni. Per avere un'idea della grandezza del fenomeno, basta pensare che nel primo semestre del 2020 sono stati rilevati 230.458 nuovi casi, quando nello stesso periodo dell'anno precedente erano stati 163.547. Non solo. A fianco di anoressia, bulimia, ortoressia, binge eating e altre variazioni dei disturbi del comportamento alimentare, c'è il fenomeno dell'autolesionismo. «Spesso sono disturbi, quello del comportamento alimentare e l'autolesionismo, che si presentano insieme», spiega Simonetta Marucci, endocrinologa dell'AME (Associazione medici endocrinologi) ed esperta dei disturbi del comportamento alimentare. «È il risultato di un disturbo da stress post-traumatico, causato e alimentato dall'emergenza Covid-19 e da tutto quello che ne consegue, in primis l'isolamento sociale», aggiunge. Una subdola epidemia all'interno della pandemia. Il Numero Verde S.O.S. Disturbi Alimentari è: 800 180969. «La Dad allontana di fatto i ragazzi e i bambini dalla scuola, nel luogo dove solitamente le tensioni e lo stress si scaricano e hanno libero sfogo», spiega Marucci. «Pensiamo pure a tutti quei ragazzi e quei bambini che vivono in famiglie già con situazioni problematiche. La scuola - continua - rappresenta per loro una via d' uscita, un ammortizzatore delle tensioni». Ora tutto questo non c'è più. «Isolati nel proprio mondo da cui ci si affaccia solo tramite un computer, si iniziano a covare pensieri negativi», sottolinea Marucci. Terreno fertile per i disturbi dell'alimentazione. L'autolesionismo diventa molto spesso la via di fuga. «Ci si causa un dolore fisico per rendere più sopportabile quello mentale», spiega l'esperta. Stefano Vicari, responsabile di Neuropsichiatria dell'infanzia e dell' adolescenza dell'ospedale Bambino Gesù, segnala un aumento vertiginoso da ottobre degli accessi in Pronto Soccorso per disturbi mentali, in particolare tentativi di suicidio o atti di autolesionismo. «Per settimane - racconta - abbiamo avuto otto posti letto su otto occupati, e non era frequente, e tutti per tentativo di suicidio». Durante l'emergenza è mancata ed è ancora carente l'assistenza ai ragazzi e alle famiglie. «Purtroppo - aggiunge Vicari - la salute mentale e gli sportelli di neuropsichiatria infantile sul territorio sono stati man mano smantellati. Le famiglie che hanno un problema non sanno dove andare». Aggiunge Marucci: «Il web è stato d' aiuto per molti nel confrontarsi con gli specialisti tramite consulenze online, ma è anche il luogo dove i giovani vengono esposti a informazioni pericolose. Si possono trovare anche veri e propri tutorial su come vomitare il cibo o su come tagliarsi». In questa pandemia i genitori sono soli, gli unici a dover e poter intercettare i problemi dei propri figli. «Per questo è fondamentale fare attenzione - suggerisce Marucci - a una serie di campanelli d'allarme: drastici cambiamenti di comportamento, isolamento rispetto alla famiglia, eccessiva attenzione al corpo, abitudine a spezzettare il cibo nel piatto, rifiuto di mangiare a tavola con la famiglia, magari con la scusa di aver già mangiato». Nel dubbio diventa lecito anche «spiare» le attività sul web. Su questo una grande mano può arrivare da persone come Imma Venturo, un'operatrice sanitaria ed una ex paziente con disturbo dell' alimentazione, che oggi è una sorta di «cacciatrice» di trappole online. Venturo trascorre parte della sua giornata a scovare persone e siti che inneggiano alla magrezza estrema per aiutare le ragazze a non cadere nella rete. In maniera volontaria, offre ascolto e percorsi di auto aiuto sulla sua pagina Facebook e nel suo Blog.

Da blitzquotidiano.it il 14 luglio 2021. La pandemia e la dad al posto della scuola in presenza hanno fatto danni enormi sull’apprendimento degli studenti, soprattutto alle superiori. Il quadro emerge dal Rapporto Invalsi. Alle medie il 39% degli studenti non ha raggiunto risultati adeguati in italiano, il dato sale al 45% in matematica. Alle superiori il dato sale rispettivamente al 44% e al 51% con un + 9% (praticamente uno studente su due). In molte regioni del Sud oltre la metà degli studenti non raggiunge la soglia minima di competenze in Italiano. Campania e Calabria 64%, Puglia 59%, Sicilia 57%, Sardegna 53%, Abruzzo 50%. In Campania il 73% degli studenti è sotto il livello minimo di competenza in matematica, in Sicilia 70%, 69% Puglia.

Scuola, dad e studenti impreparati. Il calo è generalizzato in tutto il Paese e solo la Provincia autonoma di Trento rimane sopra alla media delle rilevazioni del 2018 e del 2019. La quota di studenti sotto il livello minimo cresce di più tra gli studenti socialmente svantaggiati e presumibilmente anche tra quelli immigrati. Sono il 9,5%, ovvero oltre 40 mila, i giovani di 18-19 anni, che escono da scuola senza competenze, impreparati. “Sono la metà della città di Ferrara – ha fatto notare Roberto Ricci, responsabile nazionale delle prove Invalsi – un terzo di Modena. La bocciatura non cambia le cose, è più funzionale all’organizzazione della scuola che alle competenze. I dati dicono che anche gli studenti che hanno avuto una bocciatura, continuano ad avere esiti sensibilmente più bassi di chi non è stato bocciato, dunque la bocciatura non è la soluzione. La sfida credo sia cercare risposte alternative, che sono già tutte nell’ordinamento vigente, non necessitano di particolari risorse le indicazioni nazionali”. 

Il caso della Puglia. “Il tempo che è trascorso – ha concluso il ricercatore – non lo recuperiamo con la bacchetta magica, ma usare questi dati può aiutare a prendere decisioni da calare nella realtà”. La Puglia, ha fatto notare, che per diversi anni è stata citata come esempio in controtendenza incoraggiante, rispetto al resto del Sud, si è giocata con la pandemia quel guadagno che aveva accumulato: “Questo ci deve dire quanto il miglioramento va coltivato con garbo e affetto, non va sciupato, una volta raggiunto”.

Danni gravi dalla dad, 1 studente su 2 termina le scuole impreparato: maglia nera per il Sud. Allerta dispersione. Invalsi: il 73% in Campania non sa la matematica. Male pure l’italiano. Nelle ultime posizioni anche la Puglia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Luglio 2021. La pandemia e la dad hanno fatto danni enormi sull'apprendimento dei ragazzi, soprattutto alle superiori. Il quadro emerge dal Rapporto Invalsi. Alle medie il 39% degli studenti non ha raggiunto risultati adeguati in italiano, il dato sale al 45% in matematica. Alle superiori il dato sale rispettivamente al 44% e al 51% con un + 9%. In molte regioni del Sud oltre la metà degli studenti non raggiunge la soglia minima di competenze in Italiano: Campania e Calabria 64%, Puglia 59%, Sicilia 57%, Sardegna 53%, Abruzzo 50%. In Campania il 73% degli studenti è sotto il livello minimo di competenza in matematica, in Sicilia 70%, 69% Puglia.

MALE ALLE MEDIE - La pandemia ha aumentato significativamente il numero degli studenti che non raggiungono risultati adeguati in italiano e matematica, ossia non in linea con quanto stabilito dalle Indicazioni nazionali. Sono infatti il 39% in Italiano (+5 punti percentuali rispetto sia al 2018 sia al 2019) e il 45% in Matematica (+5 punti percentuali rispetto al 2018 e +6 punti percentuali rispetto al 2019). Va meglio la situazione in Inglese-reading (A2): i ragazzi che non raggiungono un minimo di competenze sono il 24% , -2 punti percentuali rispetto al 2018 e +2 punti percentuali rispetto al 2019) in Inglese-listening (A2) sono il 41% (-3 punti percentuali rispetto al 2018 e +1 punto percentuale rispetto al 2019). In tutte le materie le perdite maggiori di apprendimento si registrano tra gli allievi che provengono da contesti socio-economico-culturali più sfavorevoli. Inoltre, tra questi ultimi diminuisce di più la quota di studenti con risultati più elevati. Si riduce quindi l’effetto perequativo della scuola sugli studenti che ottengono risultati buoni o molto buoni, nonostante provengano da un ambiente non favorevole (i cosiddetti resilienti). I divari territoriali tendono ad ampliarsi. In alcune regioni del Mezzogiorno (in particolare Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna) si riscontra un maggior numero di allievi con livelli di risultato molto bassi, che raggiunge il 50% e oltre della popolazione scolastica in Italiano, il 60% in Matematica, il 30-40% in Inglese-reading e il 55-60% in Inglese-listening. Emergono forti evidenze di disuguaglianza educativa nelle regioni del Mezzogiorno sia in termini di diversa capacità della scuola di attenuare l'effetto delle differenze socio-economico-culturali sia in termini di differenze tra scuole e, soprattutto, tra classi.

IL COMMENTO DEI PRESIDI PUGLIESI - «Il rapporto Invalsi indica la presenza in Puglia di un vero e proprio deficit formativo, chiaramente legato al ricorso massiccio alla didattica a distanza che si è consentito nella nostra regione rispetto ad altre nelle quali i rischi di contagio erano anche maggiori». Lo dichiara in una nota Roberto Romito, presidente regionale pugliese dell’Associazione nazionale presidi, commentando i "dati preoccupanti» resi noti oggi, soprattutto «sulle percentuali di alunni del quinto anno delle scuole superiori che non raggiungono la soglia minima di competenza: in italiano il 59%, in matematica il 69%»."Si è verificato, purtroppo, ciò che era stato da molti previsto - dice Romito - : un calo generalizzato, in particolare nella scuola superiore, dei livelli di apprendimento» e «un accentuarsi preoccupante della dispersione scolastica, in particolare nel mezzogiorno, Puglia inclusa». Per Romito «sicuramente ha pesato negativamente, in particolare negli ultimi due mesi di scuola, il messaggio di disincentivazione della frequenza scolastica che è stato lanciato a studenti e famiglie attraverso le ordinanze che hanno consentito la cosiddetta “didattica a scelta”. La nostra posizione contraria, in merito, è nota. Auspichiamo - conclude - che non si ripeta più questo errore, ma che in condizioni di rischio pandemico accettabile si mettano in campo, finalmente, tutte le misure atte a far sperare in un più regolare avvio del prossimo anno scolastico: dalle vaccinazioni degli studenti fra 12 e 18 anni di età al completamento di quelle dei docenti e del personale delle scuole, dal tracciamento dei contagi alle misure di prevenzione attuate nelle stesse scuole per mezzo del personale sanitario a loro dedicato (i TOSS), senza trascurare l'effettivo potenziamento del trasporto pubblico locale».

IL PARERE DELL'AZZOLINA - «La didattica a distanza amplifica le disuguaglianze, deve rimanere solo uno strumento di emergenza». Così l’ex Ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina commentando i risultati delle prove Invalsi. «I punteggi più bassi - prosegue - sono in Regioni del Sud o tra studenti che alle spalle hanno famiglie disagiate. Serve un impegno forte in vista di settembre per mandare ragazzi e ragazze in classe al 100%. Un impegno vincolante per tutti, Regioni comprese. Gli studenti di Campania e Puglia sono in fondo alle classifiche Invalsi a causa delle decisioni sconsiderate dei rispettivi Presidenti, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, che hanno sempre minimizzato l’impatto delle chiusure." «Non possiamo più permettercelo. La riprova di questa necessità - conclude - è nei punteggi della scuola primaria, pressoché identici alla situazione pre-Covid: un risultato frutto delle battaglie portate avanti per mandare circa 5 milioni di studenti più piccoli in presenza per tutto l’anno scolastico». 

Dagospia il 14 luglio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, Covid, Rapporto Invalsi, con la Dad uno studente su due con gravi carenze E allora perché poi agli Esami di Maturità vengono promossi tutti? Lucio Breve

Scuola, ecco i danni della didattica a distanza: gli studi riservati del ministero dell'Istruzione. Dalla precarietà allo stress, il dicastero è al lavoro da mesi sugli effetti psicologici sugli studenti della Dad. L'Espresso ha consultato i documenti riservati. Carlo Tecce su L'Espresso il 08 gennaio 2021. La didattica a distanza fa male. Si ha paura a dirlo, per non sovrapporre i drammi. Al ministero dell’Istruzione, però, lo sanno da mesi che quel rito digitale conosciuto con la sgradevole sigla di “dad”, nel lungo periodo, fa male agli studenti, riduce l’apprendimento scolastico, amplifica il disagio sociale, genera disturbi psicologi. Al ministero dell’Istruzione lo sanno perché da mesi, da agosto soprattutto, sono sopraffatti da tabelle, ricerche, documenti riservati che provengono anche dalla collaborazione col Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi. L’ultimo aggiornamento è di gennaio, riguarda un dettagliato sondaggio fra gli studenti. Così il ministero di Lucia Azzolina insiste fra le mura sorde del governo: a distanza, ma se necessario, se la pandemia infierisce ancora, non per pigrizia intellettuale, non per impreparazione amministrativa. Non sarebbe perdonabile. Il ministero dell’Istruzione, solo, si muove con ostinazione per i diritti degli studenti in un momento di doveri e il governo giallorosso, mai tanto compatto su un punto, reagisce infastidito. Come se non sopportasse questa ragionevole ostinazione. Allora si litiga e ci si confonde.

«Non diamo la colpa alla DaD: il problema è sempre la formazione». Il disagio dei giovani non è causato dalla didattica alla distanza in quanto tale. Perché è solo un metodo. E come tale non si improvvisa. Luigi Bruschi su L'Espresso il 18 gennaio 2021. «La DaD non funziona», «È una sciagura», «I ragazzi soffrono a causa della DaD», «Imparano meno», «Basta con la DaD». Di questo tenore è il coro di voci critiche che risuonano - sin dall’inizio - tra le mura di molti edifici scolastici nonché, negli ultimi giorni, tra quelle del palazzo ministeriale dell’Istruzione. Persino il Presidente dell’Ordine degli Psicologi ha dichiarato: «Stare in classe non è solo studiare, i giovani in casa diventano più apatici e irritabili. La didattica digitale è meglio di niente, ma è un palliativo. Il guaio è che è stata portata avanti troppo a lungo». Per di più, pare che i dati sull’apprendimento in mano agli esperti del Ministero non siano rassicuranti: i ragazzi avrebbero imparato meno e sarebbero particolarmente ansiosi. Dunque? Dunque, a sentire il Ministro Azzolina e il Presidente degli Psicologi, per l’appunto, «La DaD non funziona». Seppure mosso senz’altro da buoni propositi, questo tipo di conclusioni rischia di confondere il dibattito - troppo a lungo rinviato - sulle nuove tecnologie didattiche e sulla dimensione della formazione digitale e, in definitiva, distoglie da un importante quesito che in questa situazione drammatica, forzosamente sperimentale, dovrebbe alimentare le riflessioni in ambito scolastico (ma anche universitario): come funziona la DaD? Se non si discute su questo, diventa difficile trarre conclusioni su dati che potrebbero essere ricondotti a qualsiasi cosa, anziché all’inaffidabilità della DaD. Tanto per fare qualche esempio: non è verosimile che l’ansia e il minore apprendimento siano riconducibili piuttosto allo stravolgimento della vita quotidiana in sé, alla reclusione e alla privazione sociale, ai timori per il futuro? E paradossalmente: senza la DaD - cioè con la sola reclusione e la didattica completamente sospesa - i nostri ragazzi sarebbero stati meglio? Facile dubitarne. Ecco perché un conto è affrontare la tematica del disagio dei giovani, altro è attribuire il disagio alla DaD, che è nulla più che un metodo, con i suoi principi e i suoi strumenti, e che pertanto, come ogni metodo didattico, va conosciuto a fondo, saputo progettare, saputo gestire. E qui verrebbe da dire “hic sunt leones”. Perché la domanda è: come siamo arrivati all’appuntamento con la didattica digitale? Quando giocoforza si è scelto questo metodo come alternativa alla presenza, quanti docenti erano formati sulla didattica digitale? E quanti ne sono stati formati in itinere, una volta compreso che la situazione di emergenza sanitaria non sarebbe terminata così presto come tutti speravamo? La DaD, come ogni metodo didattico complesso e articolato, non si improvvisa, né tantomeno si inventa. I princìpi legati all’apprendimento digitale seguono le loro regole, gli strumenti vanno saputi usare. È lecito ad esempio fare a distanza la medesima lezione che si sarebbe fatta in presenza - nei tempi, nella quantità di contenuti, nella densità semantica degli argomenti - semplicemente mettendo tutti davanti a uno schermo? No, non è lecito, perché il ‘carico cognitivo’ degli studenti - cioè la quantità di informazioni che la memoria è in grado di elaborare - è profondamente diverso: per via del mezzo usato, per l’ambiente in cui ciascuno è (diverso per ciascuno), per la comunicazione "sfocata" dal punto di vista relazionale essendo a distanza. D’altro canto, se lo sforzo fisiologico-attentivo da un lato è maggiore nella Didattica a Distanza, questa può tuttavia favorire un ascolto che può addirittura essere più attivo e più riflessivo che in presenza se ben indirizzato. Questo significa che i contenuti della DaD vanno strutturati in modo differente, cioè soppesandone il carico cognitivo e alternando ad esempio sapientemente momenti di contenuto teorico a momenti collaborativi e lavori di gruppo con successivo confronto guidato dagli insegnanti. Se Roma non è stata fatta in un giorno, la trasformazione digitale della didattica richiede insomma formazione della classe insegnanti, competenze specifiche, tempi di progettazione dei nuovi percorsi e gestione consapevole dei rischi e delle opportunità, per riuscire a rendere quella che viene chiamata Didattica a Distanza, una vera «Didattica della Vicinanza, che non necessariamente vuol dire presenza», come ha affermato Daniela Luncangeli, esperta di Psicologia dello Sviluppo. La nostra naturale tendenza alla polarizzazione ci porta a radicalizzare il giudizio tra didattica che funziona (in presenza) e didattica che non funziona (a distanza), mentre dovremmo tutti insieme cercare di capire cosa e come i due contesti metodologici differenti ci consentono di fare più o meno efficacemente (e la risposta, non è così scontata come la si vuole far sembrare). Un’ultima riflessione sul disagio dei nostri giovani. Come ribadito a più riprese, negli ultimi tempi, da Massimo Recalcati, questa situazione drammatica può e deve essere trasformata in un’occasione di sviluppo, emotivo e cognitivo dei nostri ragazzi. «I maggiori effetti formativi si generano non a partire dai successi o dalle gratificazioni, dalle prestazioni mirabili o dalle affermazioni senza intoppi, ma dalle cadute, dai fallimenti, dalle sconfitte, dagli smarrimenti», dice Recalcati. Che rifugge dal concetto di “generazione CoVid” e rilancia per i nostri giovani la possibilità di ridisegnare mappe, ripensare confini, scoprire nuovi orizzonti. Naturalmente, oltre che grazie agli insegnanti, con l’aiuto fondamentale della famiglia, che in questa fase è cruciale, se vogliamo che i nostri ragazzi apprendano da quanto sta accadendo a governare la complessità crescente dei futuri contesti sociali. Ma anche grazie all’ausilio di qualsiasi metodo e strumento efficacemente gestito che può supportare questo processo di transizione. Incluso la DaD.

·        La Scuola di Sostegno: Una scuola speciale.

Una scuola speciale. Viaggio nella didattica che sostiene i disturbi dell’apprendimento a dieci anni dalla sua nascita. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo), Maria Novella De Luca, Enrico Franceschini, Viola Giannoli, Alessandro Oppes, Giulia Santerini, Alessio Sgherza, Valeria Strambi, Valeria Teodonio, Ilaria Venturi, Corrado Zunino e il contributo dei nostri corrispondenti e inviati Anais Ginori, Anna Lombardi e Tonia Mastrobuoni. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. Produzione Gedi Visual. La Repubblica il 16 settembre 2021. La scuola italiana è cambiata molto negli ultimi dieci anni. E dall'anno scolastico 2011-2012 hanno fatto ingresso in classe, grazie a una legge bipartisan, il termine Bisogni educativi speciali (Bes) e la didattica che quei bisogni soddisfa. Prima dislessia, discalculia e disortografia. Poi, con una serie di aggiustamenti normativi, circolari, direttive, la definizione di un nuovo sistema di diritti degli studenti...

La scuola italiana è cambiata molto negli ultimi dieci anni. E dall’anno scolastico 2011-2012 hanno fatto ingresso in classe, grazie a una legge bipartisan, il termine Bisogni educativi speciali (Bes) e la didattica che quei bisogni soddisfa. Prima dislessia, discalculia e disortografia. Poi, con una serie di aggiustamenti normativi, circolari, direttive, la definizione di un nuovo sistema di diritti degli studenti. Perché di diritti si parla. A non essere discriminati. A vedere riconosciuti i propri limiti ed essere per questo aiutati. Insomma, a non vivere la scuola come nemica. “Ricordo quando nei i consigli di classe si diceva: questo ragazzo è svogliato, fermarlo un anno gli farà bene”.

Antonio Matina, 57 anni, docente di inglese all’istituto tecnico-professionale Pier Crescenzi-Pacinotti-Sirani di Bologna, ha vissuto la scuola prima che la scuola si accorgesse dei ragazzi che avevano disturbi specifici di apprendimento e si parlasse di Bes. Una specializzazione nel sostegno lo ha aiutato negli anni ’90 a formarsi e ora è referente per il suo istituto per i Bes. “Ricordo che nel ’94, quando ho preso la specializzazione, i Dsa, disturbi specifici dell’apprendimento, erano praticamente sconosciuti. Io stesso non insegnavo con le mappe concettuali.

Ora ne faccio largo uso, le costruisco con gli studenti. Quando devo spiegare la grammatica inglese, per esempio, realizzo uno schema insieme ai ragazzi in aula. E poi tanto lavoro di gruppo e verifiche personalizzate, dove magari eviti le domande aperte, scegli quelle a risposte multiple, o fai leggere a un compagno a voce alta la traccia di una prova. Un giorno per presentare i monumenti di Londra ho usato Google Earth e poi ho chiesto di lavorare per gruppi fingendo di dover fare le guide turistiche”.

Continua Matina: “Cambia il modo di insegnare e, alla fine, capisci che serve a tutti. Sono cambiato io, ma anche tanti colleghi. Oggi abbiamo strumenti e conoscenze che hanno fatto capire cosa è un Dsa, soprattutto alle superiori dove, nella maggior parte dei casi, passava il messaggio che erano studenti somari. Ora nei consigli di classe senti la collega che interviene dicendo “questo ragazzo ha delle difficoltà, dobbiamo aitarlo”. 

Il designer Daniel Britton ha creato un font per aiutarci a comprendere meglio la dislessia 

Intanto, le diagnosi di Dsa aumentano vertiginosamente. Lo rileva l’ultimo report dell’ufficio scolastico dell’Emilia-Romagna. Si passa da 10.526 segnalazioni di Dsa nelle scuole, dalla primaria alle superiori, nel 2013, anno della prima rilevazione che fu pioniera in Italia, ai 32.966 dello scorso anno scolastico, il 2020-21. Con una crescita in questo arco di tempo del 213% e del 453% nei licei e istituti tecnici e professionali. Un dato che trova corrispondenza nei dati nazionali (ancorché fermi al 2019). Il numero degli alunni con Dsa sul totale dei frequentanti è salita dallo 0,8% dell’anno 2004/2005 al 3,1% del 2018-19 alla primaria, dall’1,6% al 5,9% alle medie e dallo 0,6% al 5,3% alle superiori.

“Anche noi assistiamo a un incremento di diagnosi”, osserva Simona Chiodo, direttrice della Neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Ausl di Bologna. “Significa che l’attenzione sui disturbi dell’apprendimento è cresciuta: si conosce di più, si stigmatizza di meno. Il dato in questo senso è da leggere in positivo”. Con alcuni caveat. “Bisogna distinguere tra una difficoltà e un vero e proprio disturbo. Ogni bambino ha una sua linea di sviluppo, intervenire sulle fasi precoci permette di evitare conseguenze funzionali”.

Di qui, l’importanza degli screening precoci anche rispetto al picco che si registra di diagnosi tardive, che arrivano cioè nel passaggio dalle medie alle superiori, quando i ragazzi, magari aiutati prima dalla famiglia, non riescono più a stare al passo rispetto alle richieste della scuola. “C’è un protocollo con l’ufficio scolastico nella nostra regione che porta le scuole a fare prove in prima e seconda elementare in modo da intervenire subito. Il Dsa è un disturbo del neurosviluppo, ma con un buon allenamento qualcuno riesce a recuperare, si può scongiurare che una difficoltà si trasformi in disturbo. Noi medici non dobbiamo limitarci a una mera somministrazione di test neuropsicologici, ma fare valutazioni psico-diagnostiche per non patologizzare ciò che è educabile. Mentre i genitori dovrebbero abbassare le proprie aspettative sui bambini, la competizione spinta non li aiuta”.

Dai principi alle regole

La legge 170 del 2010 che garantisce e tutela il diritto allo studio per tutti gli alunni con disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) e con bisogni educativi speciali (Bes), ha un prologo nei primi anni Duemila. È infatti del 28 marzo 2003 la legge (n.53) che, per prima, sancisce il principio della personalizzazione dell’insegnamento. L’obiettivo è, appunto, “favorire la crescita e la valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell’età evolutiva, delle differenze e dell’identità di ciascuno e delle scelte educative della famiglia”. Detta altrimenti, viene fissato l’obbligo che “l’apprendimento sia assicurato in tutto l’arco della vita e a tutti pari opportunità di raggiungere elevati livelli culturali e di sviluppare le capacità e le competenze, attraverso conoscenze e abilità, generali e specifiche, coerenti con le attitudini e le scelte personali, adeguate all’inserimento nella vita sociale e nel mondo del lavoro, anche con riguardo alle dimensioni locali, nazionale ed europea”. 

Solo qualche anno dopo, la legge 170 del 2010 declina il concetto di didattica inclusiva in una pratica effettivamente applicata nelle scuole. Vengono riconosciuti “la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa), che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana”. 

In particolare, la dislessia viene definita come una “difficoltà nell’imparare a leggere, nella decifrazione dei segni linguistici, nella correttezza e nella rapidità della lettura”, la disgrafia come una “difficoltà nella realizzazione grafica” e la discalculia come una “difficoltà negli automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri”. La legge 170 assegna inoltre alle scuole e alle università il compito di individuare sia le forme didattiche, sia le modalità di valutazione più adeguate affinché gli studenti Dsa possano raggiungere il successo formativo al pari degli altri compagni. Ma è attraverso il decreto attuativo del 12 luglio 2011 e le Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento che vengono piantati i paletti definitivi e date alcune istruzioni operative alle istituzioni scolastiche su come muoversi in materia.

Gli strumenti

Le linee guida ministeriali prevedono alcuni strumenti didattici e tecnologici che possono essere utilizzati dagli alunni Dsa per compensare, appunto, i propri deficit nell’esecuzione di determinati compiti. La sintesi vocale, ad esempio, trasforma una verifica di lettura in una di ascolto. Il registratore permette allo studente di non dover scrivere gli appunti della lezione, mentre i programmi di videoscrittura con correttore ortografico consentono la produzione di testi sufficientemente corretti senza la fatica della rilettura. La calcolatrice facilita le operazioni, le tabelle e le mappe concettuali aiutano il ragionamento. Le misure dispensative danno invece modo allo studente Dsa di non svolgere alcune prestazioni rese particolarmente difficoltose dal disturbo da cui è affetto. “Per esempio – si legge nelle Linee guida – non è utile far leggere a un alunno con dislessia un lungo brano, in quanto l’esercizio, per via del disturbo, non migliora la sua prestazione nella lettura”. Tra le misure dispensative, che devono comunque essere sempre valutate per non incidere negativamente sul percorso di apprendimento dello studente, ci sono le interrogazioni programmate, la concessione di tempi più lunghi per l’esecuzione di un compito o l’uso del vocabolario.

Nel dicembre del 2012, con una direttiva ministeriale, il Miur allarga il campo di applicazione della didattica inclusiva e introduce la definizione di alunni Bes (con bisogni educativi speciali). Tra di loro rientrano così anche tutti quegli studenti che hanno difficoltà di apprendimento non certificabili, ma comunque presenti.  “L’area dello svantaggio scolastico – si legge nella direttiva – è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”.

Tutti questi studenti hanno diritto ad accedere a una didattica personalizzata. E se nei casi di disabilità e Dsa sono richieste certificazioni o diagnosi, in tutti gli altri è compito dei docenti identificare eventuali bisogni educativi speciali, che possono manifestarsi con continuità o per determinati periodi, basandosi sul modello Icf (International classification of functioning) dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Modello che considera la persona nella sua totalità, in una prospettiva bio-psico-sociale. 

Per creare una rete di sostegno alle scuole sono stati istituiti anche i Cts, Centri territoriali di sostegno, istituiti dagli uffici scolastici regionali in accordo con il ministero dell’Istruzione e attraverso il progetto “Nuove tecnologie e disabilità”. I Cts rappresentano una rete pubblica e permanente di centri per gli ausili distribuita sul territorio (sono collocati all’interno di scuole polo e ce n’è almeno uno per provincia). Il loro compito è raccogliere e diffondere sia le conoscenze (buone pratiche, corsi di formazione) sia le risorse (hardware e software) a favore dell’integrazione didattica degli alunni Bes. La rete sostiene concretamente le scuole nell’acquisto e nell’uso delle nuove tecnologie per l’inclusione scolastica e offre consulenza sul tema a insegnanti, genitori e alunni. Infine, con la circolare ministeriale del 6 marzo 2013 vengono date ulteriori indicazioni operative alle scuole che estendono a tutti gli studenti in difficoltà il diritto alla personalizzazione dell’apprendimento. 

Un cambio di visione

La normativa sui Bes ha funzionato? Dario Ianes, docente di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano e co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento, non ha dubbi: “Ha funzionato, da un punto di vista ideale è stato introdotto nella scuola un concetto più equo, è stato fatto un passo nella direzione inclusiva. Ma ora occorre cambiare visione. Perché quello che occorre precisare è che siamo di fronte a non a una categoria clinica, ma politica. Si riconosce, cioè, una condizione di difficoltà che non ha solo origine biologica, ma che è condizionata dal contesto familiare e sociale e di cui la scuola inclusiva si fa carico. Insomma, ci si allontana da un modello bio-strutturale-medico”. 

Per essere ancora più chiari, il professor Ianes attinge alla sua casistica: “Ricordo il caso di una bambina al quinto anno delle elementari: bravissima a scuola, educata, collaborativa. Ma per le maestre qualcosa non andava comunque perché vedevano che non frequentava le feste della scuola e i compagni. Hanno scoperto che il padre era in carcere e la madre agli arresti domiciliari e che dunque, abitando fuori dal paese, non aveva nemmeno autonomia negli spostamenti. Il suo bisogno educativo speciale era poter funzionare nella socialità, partecipare alle feste. La scuola ha così organizzato il trasporto con una cooperativa e quel bisogno ha avuto una risposta. Insomma, quando si parla di Bes significa capire cosa manca a ciascun alunno, comprendere ogni singola situazione a 360 gradi e rispondere sul piano didattico ed educativo a difficoltà che nella scuola bambini e ragazzi possono avere anche per matrici che non sono biologiche”. 

Da BES a scuola – Ed. Erickson 

Qualcosa, tuttavia, non ha funzionato. “Ci sono state alcune derive di medicalizzazione, che poi si rifanno a un sistema del welfare dove il riconoscimento di diritti fondamentali è ancorato a una diagnosi medica. Così si è arrivati a famiglie e insegnanti che chiedono una diagnosi di Bes che non esiste. Con il rischio, per altro, di una maggiore etichettatura. Per questo ora trovo necessario avviare una riflessione per fare un ulteriore passo avanti”. E quale debba essere è lo stesso Ianes a indicarlo. “Le forme di sostegno nella scuola, in termini di organici e risorse, non dovrebbero passare attraverso le diagnosi appiccicate a un bambino, ma dovrebbe essere la progettualità di una scuola in riferimento anche alla complessità del quartiere, del paese o città in cui opera, a far potenziare l’organico. Trovo, insomma, che collegare le risorse alle diagnosi sia un fattore distorsivo. Auspico un cambio di paradigma, una legge quadro dove si affermi che la scuola inclusiva è di tutti. Occorre ora decategorizzare, togliere le etichette e andare verso l’affermazione del concetto di differenza. Per una scuola che riconosce e valorizza tutte le differenze perché ogni alunno è speciale con la sua identità e la sua storia”. 

“Non lasciamo soli questi ragazzi una volta finita la scuola”

Vittoria Franco, senatrice del Partito democratico per tre legislature, ricercatrice universitaria di filosofia, è stata la madre e prima firmataria della legge 170 del 2010.  E nessuno meglio di lei conosce la strada che è stata fatta in questi dieci anni e quella che resta da percorrere. “Come spesso accade – ricorda – l’Italia era molto indietro su questi temi rispetto ad altri Paesi europei. Fino ad allora, la questione degli alunni Dsa era demandata alla discrezionalità delle scuole e alla buona volontà dei singoli insegnanti, non esistevano obblighi e tanto meno corsi di formazione. Nella quindicesima legislatura, con il governo Prodi, mentre ero presidente della Commissione cultura del Senato, fu presentato un disegno di legge sui Dsa e lo stesso fecero altre forze politiche. Non c’erano grandi differenze di pensiero, anzi fu semplice ottenere il consenso dei vari gruppi, solo che purtroppo i tempi si dilatarono troppo e con la caduta anticipata del governo cadde anche la possibilità di portare in fondo il progetto. Ci riprovammo nella sedicesima legislatura riproponendo lo stesso testo in accordo con un senatore di Forza Italia. Finalmente arrivò l’approvazione sia al Senato che alla Camera e, nel 2010, fu promulgata la legge 170”. 

Dieci anni di applicazione della legge, conviene Vittoria Franco, hanno portato risultati importanti. “E – osserva – nel 2015, il libro Pensami al contrario di Daniela Conti e Anna Paris ce ne ha in qualche modo dato la riprova raccogliendo testimonianze di studenti e studentesse Dsa che hanno tratto vantaggio dalle nuove modalità didattiche. Oggi posso dire che sono due i principi fondamentali racchiusi nella legge che devono rimanere un faro: il diritto di tutti a raggiungere il successo formativo e il diritto al benessere. Mettere al centro lo studente, con la sua personalità e le sue differenze, valorizzandone le capacità”. Naturalmente, questi dieci anni di applicazione, non sono stati una passeggiata di salute. “Non è stato facile far passare nella scuola, per certi versi ancora molto ingessata e legata al passato, l’idea che l’utilizzo di strumenti compensativi o di misure dispensative non creasse un vantaggio per alcuni studenti rispetto ad altri, ma significasse invece uguaglianza delle opportunità. Alcuni insegnanti hanno continuato a non cogliere l’importanza della questione e a non voler dedicare tempo extra all’individuazione di piani didattici personalizzati. Penso, tuttavia, che sia solo un problema di cultura risolvibile con una maggiore diffusione di questi concetti e tanta, tanta formazione. Visto che i docenti sensibili e dediti a queste tematiche sono sempre di più”. 

Qualcosa manca ancora. “Nel 2010, abbiamo necessariamente dovuto tener fuori dalla legge alcuni aspetti che ritenevamo fondamentali. Qualche passettino, da allora, è stato fatto. Penso ad esempio all’ultima norma sui concorsi pubblici che prevede, per i Dsa, una prova orale e l’uso di strumenti compensativi e misure dispensative. Oppure la possibilità, per chi deve prendere la patente di guida e soffre di uno di questi disturbi, di avere dieci minuti aggiuntivi per lo svolgimento del test e un file audio nel caso abbia difficoltà nel leggere il testo. Quello su cui ora occorre andare avanti, a mio avviso, è una norma che disciplini l’inserimento lavorativo, perché una persona non smette di essere dislessica, anche se può apprendere tecniche per aggirare il problema. È importante non lasciare soli questi ragazzi una volta finita la scuola, perché potrebbero rivivere sul posto di lavoro lo stesso inferno che, qualche anno fa e prima della legge 170, avrebbero vissuto in classe”. 

Quelli che no, “mio figlio non ha un problema, è solo un po’ immaturo”

E poi c’è chi dice no. Sono le madri e i padri che non accettano gli esami clinici, le valutazioni pedagogiche, i test, le diagnosi, i certificati dei loro figli con disturbi specifici dell’apprendimento o plusdotati. O, ancora, che vivono situazioni di disagio sociale, economico o culturale. Latitano dai colloqui con la scuola, rifiutano i piani di apprendimento personalizzato perché convinti di un’equazione: speciale uguale diverso e diverso uguale sbagliato, uguale malato, e dunque emarginato, escluso. Come se una valutazione di un esperto o l’individuazione di un bisogno speciale da parte del collegio di classe anche in assenza di deficit certificati fosse una sentenza di condanna. Non succede spesso, ma succede. 

Racconta una maestra che vuol restare anonima per non violare la privacy del suo alunno: “Insegno in una scuola elementare e c’è un bambino che già dalla prima aveva qualche difficoltà nell’apprendimento e nella parola. Una difficoltà che non si sana, perché non è una malattia, non guarisce, ma se i bambini vengono aiutati possono avere risultati brillanti altrimenti i disturbi si accentuano davanti alla lettura e alla scrittura”.

I genitori vengono chiamati più e più volte a colloquio, fin dal primo anno. “Spiegare le fragilità dei figli a una madre e a un padre non è mai semplice, ma tra scuole e famiglie c’è un patto: dobbiamo aiutarci, altrimenti il sistema non funziona”, dice l’insegnante. A quella mamma e a quel papà gli insegnanti riferiscono le proprie osservazioni. Avendone in cambio questa risposta: “Nostro figlio è solo un po’ immaturo – ci dicono – non è ancora pronto, magari non è al livello degli altri ma insomma gli basterà esercitarsi un po’ di più”. 

Camilla, studentessa Bes: “Sto per laurearmi a pieni voti, al liceo mi dicevano stupida”

Camilla Coppola, 26 anni, responsabile del gruppo giovani dell’Aid (Associazione italiana dislessia) sta per laurearsi in giurisprudenza. Quasi nessuno a scuola si era accorto delle sue difficoltà, finché a 19 anni non le sono stati diagnosticati dislessia, discalculia e iperattività. Solo a quel punto, quando ha ricevuto la diagnosi di Dsa, ha trovato fiducia in se stessa e grazie a metodi alternativi di studio è uscita dall’incubo di nottate passate sui libri e brutti voti.

Intervista di Viola Giannoli e Giulia Santerini, riprese di Francis D’Costa e Leo Meuti, montaggio di Santiago Martinez

I maestri riescono a convincere i genitori a fare una valutazione da parte di un neuropsichiatra da cui emerge la necessità di un sostegno. Ma i genitori restano fermi nel loro “no”.  “Abbiamo redatto un piano personalizzato, ma la famiglia non ha voluto firmarlo. Intanto il bambino è perso, legge male, non riesce a scrivere. Ci siamo spesi per aiutarlo, la maestra di sostegno presente in classe per assistere una altra alunna ha iniziato a seguirlo ma quando la famiglia lo ha scoperto si è offesa”, continua la docente che non si dà pace. Secondo il collegio di classe non è la bocciatura la strada migliore per colmare il gap. Anzi, si rischia di umiliare inutilmente. Ma se la famiglia si mette di traverso, diventa dura.  “La scuola è questo: dare una mano a chi resta indietro più che promuovere solo i brillanti, quelli che ce la fanno da soli, ma ci siamo demoralizzati, non sappiamo come aiutarlo. Possiamo portare avanti il piano personalizzato comunque, ma le scelte della famiglia hanno conseguenze negative su loro figlio, è questo che io non posso accettare”, si sfoga ancora la maestra. 

Viviana Rossi, ex docente alle elementari e alle medie, poi dirigente scolastica e formatrice dell’Aid, l’Associazione italiana per la dislessia, ricorda: “Ero appena diventata dirigente scolastica di una direzione didattica in provincia di Torino, quando arriva un papà di una quinta elementare a tempo pieno e mi butta sul tavolo la diagnosi di Dsa di suo figlio. ‘Ne faccia quel che vuole di questa’ mi dice. Allora io ho risposto ‘Beh, ne farò fare delle fotocopie per gli insegnanti, in modo che possano preparare per lui dei percorsi didattici personalizzati’. Quando ha capito che volevo usare quella diagnosi medica e condividerla con i docenti del figlio, si è spaventato ed è andato su tutte le furie: nessuno doveva sapere. Solo dopo molti colloqui, con il tempo e la pazienza, e l’aiuto della psicologa della scuola, lo abbiamo convinto a collaborare con gli insegnanti”.

Non c’è mai cattiveria, ma, in alcuni casi, negazione delle difficoltà dei propri figli e una scarsa conoscenza del disturbo specifico. “I genitori devono accettare le diversità, trasmettere fiducia ai loro figli, capire anzi che ognuno è differente e che in una scuola ideale ognuno dovrebbe avere un programma didattico personalizzato, ce lo dicono l’esperienza, la normativa vigente e anche le neuroscienze. “Nessuno di noi è uguale all’altro – spiega Rossi – Non è nascondendo i problemi o trasferendo il bambino in un’altra scuola o cambiandogli classe che si fa il suo bene”. Eppure “ci sono alcune famiglie che rifiutano strumenti compensativi e dispensativi”. O ragazzi, specialmente alle superiori, che potrebbero usare “il 30% in più di tempo durante i compiti in classe, pc, vocabolari online… ma non lo fanno perché vogliono essere tutti uguali, sentirsi uguali ai propri occhi e a quelli dei propri compagni, non venir privilegiati (anche se non si tratta di un privilegio ma di un diritto) e non finire oggetto di chiacchiere e sguardi. Ma, purtroppo, ci sono anche alcune scuole che negano a questi ragazzi il diritto a usare gli strumenti adeguati al loro disturbo specifico, soprattutto mappe e registrazioni anche se previsti dalla normativa”. 

Voci contro. “Non si deve medicalizzare la scuola”

Daniele Novara, pedagogista, educatore, definisce la scuola italiana, “la scuola delle etichette”. “Non è possibile che oggi in una classe un terzo dei bambini abbia una diagnosi da legge 104, una certificazione per Dsa, oppure, ancora, un’etichetta di Bes. E soltanto un gruppetto venga definito “normale”. Vi rendete conto che c’è qualcosa che non funziona?”. Anche perché, attenzione, se qualcosa non va, e su questo Novara è categorico, “Non è colpa dei bambini” dal titolo di uno dei suoi libri più famosi. Educatore e saggista Novara ha fondato a Piacenza il “Cpp”, Centro psicopedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti. Da anni porta avanti una tesi controcorrente rispetto alla “medicalizzazione” della scuola. Per Daniele Novara, al di là delle disabilità gravi vere e proprie, tutta la galassia che dai Dsa ai Bes attribuisce, “ai bambini, addirittura fin dalle scuole d’infanzia, disturbi e problematiche dell’apprendimento e del comportamento” altro non è che una resa dell’insegnamento contemporaneo alla burocrazia, un’abdicazione rispetto alla “funzione inclusiva della scuola”.  

Spiega Novara: “L’Italia è il paese europeo che ha il maggior numero di alunni con diagnosi, il maggior numero di insegnanti di sostegno, un docente su quattro. Trecentomila ragazzi con handicap, 270mila con disturbi specifici dell’apprendimento, più un numero imprecisato di Bes. Questi numeri, che potrebbero far pensare ad una maggiore inclusività della nostra scuola, sono invece l’indice di una distorsione, di una sofferenza”. Piuttosto che aspettare lo sviluppo di un bambino immaturo, accogliere le difficoltà linguistiche di un’allieva immigrata, o la fatica nel concentrarsi di un adolescente, insomma, dice Novara, “si preferisce dare un’etichetta a quei bambini per non doversene occupare”, mentre la sfida dovrebbe essere portare avanti un gruppo classe nella sua interezza, anche se non tutti raggiungono lo stesso livello di competenze”. 

Un vero e proprio atto d’accusa quello di Novara (a lungo collaboratore del sociologo pacifista Danilo Dolci) i cui libri sono seguitissimi così le sue conferenze sull’educazione e la gestione dei conflitti. “L’Italia è stata un paese all’avanguardia sull’inclusione della disabilità nei percorsi scolastici. Le classi differenziali furono abolite nel nostro paese nel 1977, ancor prima della chiusura dei manicomi voluta dalla legge Basaglia del 1978. La nostra istruzione primaria era un’eccellenza mondiale. Poi però quella grande spinta si è perduta, via via sono stati reintrodotti i voti, la frammentazione delle competenze, sono state smantellate nelle università le facoltà di Pedagogia. Siamo diventati la scuola dei traguardi e della competizione, e chi non riesce a stare al passo deve per forza avere qualcosa, bisogna inscatolare la sua difficoltà”.  

Degli allievi ormai, ammonisce Novara, “non vengono valutati i progressi ma le mancanze, mentre è il percorso che dovrebbe essere premiati come diceva il maestro Manzi e prima di lui don Lorenzo Milani”. Nella scuola delle etichette, così la definisce Novara, l’ambito dei Bes, “è davvero quello più confuso, indefinito”. “Chi sono i Bes? Ragazzi in difficoltà per problemi linguistici, di inserimento. Non sono disabili, non sono Dsa, cioè dislessici, disgrafici o discalculici. E allora chi sono? Il bambino adottato che fa fatica a imparare l’italiano, quello che non riesce a concentrarsi, chi arriva da condizioni socioeconomiche sfavorevoli. C’era bisogno di una legge per definire questi alunni, con tutto il corollario di programmi personalizzati, verifiche facilitate, utilizzo di ausili in classe? Forse bastava l’intelligenza e la disponibilità di un corpo docente che non avesse abdicato alla propria funzione educativa”.

Già, ma chi li sopporta più i bambini difficili, quelli per cui ci vorrebbe più tempo, pazienza e tenacia perché imparino ad imparare? “Più facile mandarli dallo psicologo” dice amaramente Daniele Novara, che per queste sue tesi estreme e controcorrente si è fatto non pochi nemici. “Anche il mondo della neuropsichiatria sta facendo autocritica sull’eccesso di diagnosi. È un sistema che è andato ben oltre i giusti propositi inziali. Tra pochi anni, questo è il rischio, avremo classi dove ci sarà una minuscola élite di normali e tutti gli altri con una bella etichetta di Dsa, o Bes, appiccicata addosso”.  

Scardinare e innovare: la sfida della didattica per studenti Bes

Allargare lo spazio, scardinare il tempo, rivoluzionare il metodo. L’Indire (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa), con le sue ‘Avanguardie educative’ lanciate nel 2014, ha scosso la vecchia impostazione di fare scuola ancorata a un modello ancora Ottocentesco. E, facendolo, ha dato nuovi stimoli anche a tutti quegli studenti che soffrono di disturbi specifici dell’apprendimento o che hanno bisogni educativi speciali. Li ha coinvolti, ascoltati, sganciati dall’immobilismo di alcuni insegnanti. “Siamo partiti con 22 scuole fondatrici – afferma Elisabetta Mughini, dirigente di ricerca Indire sull’innovazione del modello scolastico – e oggi la rete delle Avanguardie ne conta oltre 1280. Ci siamo accorti che il classico rituale per cui avveniva tutto in aula con la lezione frontale e i corridoi servivano solo per transitare, con la socializzazione ristretta al gruppo classe, finiva per escludere tanti ragazzi. Con l’introduzione di nuovi approcci, accompagnati ma non dominati dalle tecnologie, abbiamo visto che anche gli alunni Bes o con altri tipi di difficoltà riuscivano finalmente a emergere”.  

Le metodologie non devono però essere intese come medicine, ma come interventi che il docente deve calibrare sugli studenti, magari alternandoli tra loro: “C’è il debate – spiega Mughini – strumento che permette di lavorare in gruppo e che sprona chi è più reticente nel parlare. Oppure c’è la routine Mltv (‘Making Learning and Thinking Visible, ovvero ‘Rendere visibili l’apprendimento e il pensiero nelle scuole) che attraverso una scansione del tempo coinvolge i ragazzi e li incoraggia a farsi delle domande in un approccio non trasmissivo ma collaborativo. O, ancora, c’è lo Spaced Learning (apprendimento intervallato) che parte dal principio scientifico per cui, soprattutto per ragazzi più fragili e che hanno fallimenti scolastici alle spalle, non si può creare un ‘overload cognitivo’ imponendo loro lunghe lezioni frontali, ma è preferibile alternare momenti di concentrazione ad attività pratiche che stimolano un’altra parte del cervello”.  Indire lavora con una serie di scuole che manifestano una volontà di trasformarsi, le supporta, fa osservazioni sul campo e raccoglie le esperienze più efficaci traducendole in casi di studio da mettere a disposizione di tutta la comunità. “Oggi esiste la ‘Biblioteca dell’innovazione, una piattaforma aperta nella quale stiamo catalizzando tutte le buone pratiche attive nei vari territori e stiamo anche aggiornando, insieme al ministero dell’Istruzione, il portale dedicato ai Bes”, conclude Mughini.

“Siamo tutti diversi”: l’esperienza di Firenze

C’è una scuola, a Firenze, che ha fatto una scelta dirompente. L’istituto alberghiero “Buontalenti” ha deciso di formare classi composte interamente da ragazzi con disturbi specifici dell’apprendimento o con bisogni educativi speciali, ai quali si aggiungono ragazzi che, per svariati motivi, hanno delle fragilità o non riescono ad andare avanti nel percorso dopo essere stati bocciati in altri istituti. Un’adesione volontaria, cercata dalle stesse famiglie. “Tutti noi siamo diversi – spiega la preside, Maria Francesca Cellai – e non è giusto omologare l’insegnamento. Ci siamo accorti che fare lezioni sempre uguali, con la canonica ora di spiegazione di storia o le equazioni alla lavagna, poteva non essere la giusta strategia per alcuni dei nostri studenti. Se tu docente pensi di insegnare le stesse cose nella solita maniera a tutti, rischi di danneggiare il ragazzo che non riesce a seguire, lo mandi incontro a insuccessi e frustrazioni. E certo non impara”. 

È allora qui che scatta il sistema dell’apprendimento intervallato: “Non c’è più la tradizionale ora di storia o inglese di 60 minuti, ma un momento formativo diviso in tre parti. Nella prima fase il docente spiega, ad esempio, la Prima guerra mondiale con il metodo classico frontale. Poi c’è una pausa di dieci minuti durante la quale i ragazzi si alzano liberamente e possono andare fuori a fare degli esercizi di educazione fisica, oppure compilare un cruciverba, fare degli origami con la carta o persino raggiungere la cucina per preparare un piatto. Questo stacco serve a stimolare una parte diversa del cervello rispetto a quella usata durante la spiegazione standard, ad abbinare all’ascolto alcune attività pratiche. Dopodiché è il momento di tornare a parlare della Prima guerra mondiale, ma tocca agli studenti prendere in mano la lezione e dire all’insegnante quello che hanno compreso per consolidare le informazioni ricevute all’inizio. Infine, è previsto un questionario aperto così che l’insegnante possa vedere immediatamente se il ragazzo ha compreso, ma i compiti in classe sono aboliti visto che nei ragazzi Dsa o Bes questi generano ansia e c’è il rischio di ottenere l’effetto contrario”. Non c’è però il timore che questi studenti si isolino sempre più e possano sentirsi ghettizzati? “Nella nostra scuola sono tanti quelli che rimangono indietro – afferma Cellai – e se prima non si sentivano capiti da nessuno, ora ci raccontano di essere valorizzati. Abbiamo visto risultati importanti, progressi significativi in materie come inglese e italiano, ma soprattutto li vediamo star bene, essere entusiasti di venire a scuola mentre prima avrebbero solo voluto che la sveglia la mattina non suonasse più”. 

“L’uno spalla dell’altro”: debate a Loreto

Addio competizione e stop alla solita didattica con il capo chino sul banco che può mettere a disagio chi ha difficoltà nello scrivere, nel leggere o anche semplicemente nel concentrarsi su un libro di testo statico. Gli insegnanti dell’istituto comprensivo “Giannuario Solari” di Loreto (Ancona) hanno trovato nel debate un ottimo strumento per migliorare il coinvolgimento di tutta la classe e soprattutto valorizzare gli alunni con bisogni educativi speciali. “I ragazzi (e i bambini visto che applichiamo questa tecnica fin dalla primaria) diventano l’uno la spalla dell’altro, collaborano e si ascoltano, abbattono le barriere e superano la frustrazione di non essere capaci in certe materie” spiega Giulia Monaldi, docente di italiano, storia, arte e inglese.  

Ma come funziona? “Di solito, per favorire il loro interesse, scegliamo di partire da un tema extra-disciplinare che sentono vicino, come possono essere le vacanze, il calcio, un videogioco, il paese in cui vivono. Poi proponiamo un ‘brain-storming’ durante il quale sono liberi di esprimere le proprie idee, sia i pro che i contro. A quel punto li dividiamo in piccoli gruppi di lavoro nel corso dei quali approfondiscono alcuni esempi pratici e poi organizzano un breve discorso. Dopo essersi esercitati per qualche minuto lo espongono alla classe e si arriva al momento finale del dibattito. È un sistema  – continua Monaldi – che aiuta soprattutto chi ha difficoltà nella scrittura o chi di norma ha timore nel prendere la parola, ma ne trae giovamento tutta la classe. In pratica trasformiamo l’esposizione di un concetto in un’attività ludica e senza giudizio e la cosa più bella è che si innesca sempre un forte processo empatico”.  Ma c’è un’altra strategia, anche questa estesa all’intera classe, che sta dando ottimi risultati in particolare sugli alunni dislessici: “Si tratta, in gergo, di un’attività routinaria, e consiste in esercizi propedeutici di tipo teatrale – specifica Monaldi – lavoriamo molto sull’aspetto non verbale e paraverbale, utilizzando la gestualità, la postura e lo sguardo. Incredibile osservare quanto bambini normalmente timidi e chiusi si lascino andare alla libera espressione”. 

A Udine con uno sguardo su Harvard

“Rendere visibili l’apprendimento e il pensiero nelle scuole”. È con questo motto che l’Istituto di istruzione superiore “Arturo Malignani” di Udine, condividendo esperienze dell’Università di Harvard e lavorando a stretto contatto con Indire, si impegna ogni giorno a scardinare le vecchie regole del fare scuola. Un modo per far emergere le potenzialità di tutti gli studenti, nella loro diversità di caratteristiche. “Come docenti siamo partiti da una domanda: ‘Che cosa vale la pena insegnare in un mondo complesso che sta cambiando?'”, spiega Raffaella Tomasini, professoressa al Malignan. Il metodo Mltv si concentra sul pensiero e su delle attività routinarie nelle quali gli studenti si attivano, osservano, raccolgono materiale, lo analizzano e lo restituiscono al resto della classe attraverso il confronto. Non a caso la scansione è questa: ‘See, think, wonder’ e cioè ‘Osserva, pensa e fatti delle domande’.  

Un esempio? “Mostriamo un’immagine agli studenti, che può essere un quadro, la copertina di un libro o la foto di un giornale, chiediamo loro di guardarla e di dirci cosa vedono, ma senza cercare di interpretarla o di fare ipotesi. Solo dopo arriva il momento di rivelare cosa pensano che stia accadendo, ma a questo punto si tratta di riflessioni basate su ciò che hanno visto e quindi fondate. Poi l’ultima parte consiste nel farsi delle domande su ciò che ancora non è chiaro lavorando in gruppo”. Ma come si realizza l’inclusione e soprattutto la partecipazione di tutti, anche degli alunni Bes? “C’è un’operazione preliminare, che consiste nello stabilire insieme le regole di lavoro del gruppo – sottolinea Tomasini – a decidere non è un unico studente o gli insegnanti, ma si innesca un vero processo di negoziazione. Chiediamo a ciascun ragazzo di pensare alle regole che, secondo lui, lo farebbero star bene in un lavoro collettivo. Poi li facciamo confrontare a due a due e ogni coppia, dopo averne parlato, deve scegliere tre regole condivise. E avanti così fino ad avere solo tre regole finali per tutta la classe. Questo metodo unisce e responsabilizza i ragazzi e, soprattutto, spinge ad ascoltare i bisogni di tutti”. 

La “Contamination School” 

L’istituto “Pavoniano Artigianelli” di Trento assomiglia più a un’università che a una scuola superiore. È una piazza nella quale tutti cooperano per generare apprendimento: c’è un istituto di istruzione professionale, un percorso di alta formazione grafica, un laboratorio accademico di innovazione, due cooperative, una multinazionale di cartoni animati e uno stretto legame con varie realtà aziendali e centri di ricerca e innovazione. Al posto delle classiche materie ci sono dei corsi, moduli che ciascun ragazzo sceglie e attraverso i quali ruota senza rimanere ancorato alla stessa aula. “Abbiamo notato che la catena di montaggio standard fatta dal suono della campanella, da classi chiuse, dalle lezioni frontali seduti davanti alla cattedra non riusciva più a rispondere alle esigenze di tutti i ragazzi e, soprattutto chi aveva delle difficoltà, veniva buttato fuori “, afferma il dirigente scolastico, Erik Gadotti. “Così abbiamo cercato di creare un nuovo paradigma non tanto per integrare qualcuno, ma per valorizzare tutti”.  

C’è il ragazzo che ha bisogno dell’approccio più tradizionale e quello che invece rende meglio con un insegnamento più interattivo e così ogni corso (alcuni sono opzionali, altri obbligatori) si differenzia sia per livello di complessità che per metodologia: “Ciascun alunno può così costruire il proprio curriculum in modo da sperimentare sempre il successo formativo – aggiunge Gadotti – chi è bravissimo in letteratura o scrittura ma fa più fatica in matematica frequenterà il modulo avanzato del primo e quello base per il secondo così da consolidare gli apprendimenti in un percorso personalizzato guidato dagli insegnanti”. Una tecnica, quella della ‘Contamination School’, che sta funzionando molto per gli alunni Dsa e Bes, i quali sperimentano approcci diversi nell’apprendimento di italiano, matematica e inglese e hanno modo di sviluppare anche altre competenze creative e pratiche: “I ragazzi risultano più motivati e anche i loro risultati migliorano progressivamente – conclude il preside – l’obiettivo è costruire una didattica equa per l’intero mondo studentesco e, grazie all’attenzione per chi ha più difficoltà, ci siamo ritrovati in una scuola che è risultata migliore per tutti, anche per i più bravi”. 

I portatori di handicap e l’importanza di coinvolgere tutti

La professoressa Cristina Maola, 55 anni, due figli, un marito primo trombone al Teatro San Carlo di Napoli, è da sempre una docente di sostegno. Per scelta. Romana, insegnante di Educazione fisica, dal 1997 è di ruolo. A Caserta. E negli ultimi 24 anni ha insegnato – “perché io, insegnante di sostegno, sono un’insegnante” – sempre nella stessa scuola: l’Isiss Righi Nervi Solimena di Santa Maria Capua Vetere. “Avrei potuto chiedere il passaggio di materia anni fa, ma questo, il sostegno, ormai è la mia professione”. La affianca allo sport. È stata nel Comitato italiano paralimpico, si è occupata dei disabili gravi. È vicina alla Cgil, che a scuola si chiama Flc. 

Ogni mattina un pensiero fisso accompagna la professoressa Cristina Maola in viaggio verso scuola: “Speriamo di portare un risultato positivo”. Significa: “Quando i ragazzi stanno bene, quando sorridono, noi dimentichiamo tutto. Nella quotidianità ci accompagna un continuo senso di solitudine, ma appena entriamo in classe dimentichiamo i problemi. Abbiamo la percezione che siamo la luce per loro, i nostri ragazzi fragili. Si affidano a noi”. Il risultato positivo, che precede il sorriso, è riuscire a insegnare una cosa, qualsiasi cosa – “un principio di libertà, la risoluzione in autonomia di un’equazione di primo grado” -, a studenti con un handicap. L’Istituto di istruzione secondaria superiore di Santa Maria Capua Vetere, insieme al liceo artistico, ospita più di 600 alunni: aspiranti geometri, odontotecnici, ottici, elettricisti, elettrotecnici, futuri donne e uomini della moda. Settanta di loro, uno ogni nove, hanno un Bes assegnato. I titolari del sostegno ci sono: trentadue di ruolo, più quelli che arriveranno per il potenziamento. “Ogni anno chiediamo un numero di ore che, puntualmente, ci viene tagliato”. 

La professoressa Maola nel 2021-2022 ha due casi assegnati, in due classi diverse. Più altre due copresenze: vuol dire che su questi studenti lei non è da sola. Tutti e quattro i ragazzi usufruiscono della Legge 104, quella varata nel 1992 “per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”. Sono comma 1: non hanno disabilità, motorie o intellettive, gravi. Ma vite da ricostruire. Lo studente da seguire con priorità, ora in seconda, la professoressa lo conosce: hanno fatto insieme già un anno. È inserito nella programmazione della classe di Meccanica, ma ha un difficile rapporto con i compagni. “Il nostro lavoro è fargli capire che esiste un’altra vita possibile oltre quella che ha conosciuto fin qui”. Non vive più con la famiglia naturale.  

Lei, l’altra ragazza assegnata, è al quarto anno di Moda, ma è a rischio dispersione scolastica. La Didattica a distanza ne ha sfiancati diversi. È poco interessata alla scuola, l’insegnante Maola già sa che non si presenterà in questo avvio di stagione. Se la studentessa seguita non si vede in classe, alla fine delle lezioni la docente di sostegno avverte la famiglia. Poi detta un fonogramma alla dirigente scolastica. Padre e madre vengono convocati, se non hanno il Green Pass per entrare a scuola si allestirà una videochiamata. No, l’insegnante di sostegno non va a casa delle famiglie: “Non sono un’assistente sociale, sono una docente. Un’altra cosa”. In aula Cristina Maola segue i due, ma in verità segue l’intera classe: “Tutti hanno bisogno di sostegno, anche noi docenti. Tutti abbiamo bisogno di assistenza psicologica, ma siamo spesso lasciati soli”. A proposito del senso di solitudine. “Servirebbe un centro d’ascolto per ogni istituto”. 

Con la docente di Moda c’è uno stretto rapporto: “Siamo amiche, dobbiamo accogliere tutta la classe, crediamo nella didattica di gruppo”. Con il docente di Educazione motoria, disciplina su cui Cristina Maola è specializzata, spesso si scambia il ruolo. La qualità di un insegnante di sostegno, è convinta, sta nella capacità di osservare senza far sentire il ragazzo da seguire al centro di un’attenzione controproducente. “Nelle classi io non ho la cattedra, non ho un banco fisso. Mi siedo dove c’è posto. Ascolto la lezione, prendo appunti: velocemente passo i concetti all’alunno che seguo. Se non ha problemi di comprensione, nel pomeriggio gli invio su WhatsApp contenuti e schede”. Se nel ragazzo coglie disinteresse, la professoressa Maola usa il cambio d’ora per parlargli: “Questo se il rapporto è consolidato”. Se c’era qualcosa che non andava, lo rivedono insieme. 

Quando deve sostituire una collega di materia assente – sì, ci sono anche le supplenze per un’insegnante di sostegno di ruolo – “faccio una lezione di sostegno a tutta la classe”. Durante Fisica o Meccanica, invece, Maola va alla lavagna e aiuta il collega che spiega disegnando schede, mappe, parole chiave. Poi condivide su WhatsApp. Se il ragazzo assegnato disturba? Si fa aggressivo? “Intervengo subito. Se la situazione mette a rischio lo studente, devo bloccarlo, calmarlo”. Ha avuto di recente un handicap grave da seguire, “ho preso più volte degli schiaffi”. Una ragazza usava le matite come coltelli, rompivetri. “Io la fermavo e iniziavo a parlarle nell’orecchio. Si calmava”. La docente romana offre il suo sostegno anche a chi non rientra nella sfera dell’handicap. “Quando sono in classe la mia professione si sdoppia. In generale il nostro atteggiamento è inclusivo e la nostra missione quella di combattere la dispersione scolastica”. C’è chi, tra i suoi alunni, ha una difficoltà titanica a concentrarsi, chi non riesce a mettere in fila i numeri – discalculia -, chi è accompagnato da forme lievi di autismo. “Creiamo gruppi di lavoro mettendo insieme chi è seguito e chi no, quello che va bene per gli alunni bisognosi di sostegno deve andare bene per tutti”. I ragazzi Bes più capaci fanno da tutor agli altri: “La priorità è quella di portarli, tutti, all’Esame di Stato”. La Maturità. 

Questi alunni sono concentrati negli istituti professionali, “i percorsi didattici dei licei sono più difficili per loro”. Le disortografie e le disgrafie non si possono correggere, sostiene: “Noi lavoriamo su come consentire un successo formativo con la presenza deficit, difficilmente eliminabile. Non siamo riabilitatori, noi lavoriamo sulle loro capacità residue. Se un alunno ha un problema di calcolo non insisto, userà la calcolatrice. Se ha problemi di lettura, devo aiutarlo con testi più grandi, ma non andrò mai a correggerlo. Si lavora su quello che sanno fare. Spesso questi ragazzi hanno un problema della memoria di lavoro, è molto breve: non bisogna sovraccaricarli se no cade la concentrazione”.

La storia di Giada: “Padre in carcere, famiglia assente. Così la scuola l’ha salvata”

Giada è una ragazzina della periferia nord di Roma. Suo padre è in carcere. Sua sorella ha 18 anni, ed è già mamma. Una famiglia complicata. A scuola Giada è aggressiva con professori e compagni, e non vuole studiare. I suoi insegnanti – dell’Istituto comprensivo Maria Montessori di viale Adriatico – decidono di aiutarla con un perscorso didattico personalizzato. Una scelta che la salverà. “Senza un programma speciale si sarebbe persa, avrebbe abbandonato la scuola”, raccontano i professori. Invece Giada è riuscita a prendere il diploma di scuola media e frequenta un corso professionale regionale. Oggi è più serena.

Servizio di Valeria Teodonio, riprese di Francis D’Costa, Leo Meuti e Alessio Pasquini, montaggio di Lorenzo Urbani

Nell’era di Tik Tok e dei video straripanti, il Bes più diffuso tra gli studenti è l’incapacità di concentrarsi. Si chiama Adhd: Disturbo da deficit di attenzione. “Gli alunni di oggi si stancano rapidamente, più rapidamente. Tutto e subito è il problema. Noi, da studenti, riuscivamo a leggere e memorizzare più pagine, loro hanno bisogno di continue pause. Non solo quelli del sostegno”. La dipendenza dal cellulare è diventata la priorità da affrontare, “non ne possiamo più”. All’Isiss di Santa Maria Capua Vetere sono arrivati a fare azioni di disintossicazione: “Mettiamo lo smartphone nella scatola e chiediamo ai ragazzi: “Vediamo quanto siete capaci di stare senza””. Cinquanta minuti senza, una sofferenza: “Sembravano in crisi di astinenza”. In questo racconto s’intravvede la caduta della parola, del suo significato, del suo utilizzo, in un mondo contemporaneo dominato dall’immagine: “I ragazzi scelgono un altro modo di comunicare, non passano per il linguaggio”.

Sono meno abituati al contatto fisico, e qui il discorso si allarga a un’intera generazione. “Sono molto timidi. Io parlo guardandoli negli occhi, loro non ce la fanno”. Il giudizio sui social è illuminante: “Noi adulti impariamo a usare il loro mezzo, lo smartphone, e riusciamo a dominarlo perché è l’ultimo di una serie, libri, giornali, radio, tv. Loro vengono soggiogati dai protagonisti di quello strumento, i social media. Il linguaggio povero che utilizzano, almeno questo riscontro nel nostro istituto professionale, lo testimonia. Dobbiamo allenarli ad argomentare i contenuti. Quando facciamo un’analisi del testo, la maggior parte dei ragazzi non riesce a capire qual è il messaggio. Allora frammentiamo le frasi, ma loro si stancano a seguirle”.

Lo studente border line, quello con il disagio della sfera emotiva e della relazione, è diventato il migliore della sua classe, in prima. “Gli abbiamo insegnato a partecipare”. Lei, quella che non vuole affrontare la quarta, ha una programmazione differenziata, diversa dal resto del gruppo: “Vorrei convincerla a integrarsi e a integrare i contenuti”. Essere docente di sostegno vuol dire subire il mobbing dei colleghi, a volte.

“L’atteggiamento snobistico di chi ha una materia piena, curricolare, esiste. Sono finita sotto consiglio disciplinare a mia insaputa, e sono stata assolta, per aver difeso la mia professionalità e prima ancora l’alunno. Una collega aveva messo su un film di fantascienza, poi la preside si è resa conto di come stavano le cose. Questa brutta esperienza è figlia dell’ignoranza del mio lavoro, spesso gli altri docenti contribuiscono a complicarlo”. Dopo cinque anni l’insegnante specializzato sul sostegno può passare sulla cosiddetta materia: “È un lavoro che non possono fare tutti e, certo, il sostegno non può essere un grimaldello per entrare a scuola, per fare punteggio. Lo si deve scegliere con convinzione”. 

Ci sono due problemi generali e centrali: un susseguirsi di normative e aggiornamenti di normative, “lo subiamo dal 1992 e siamo arrivati al dicembre 2020, decreto interministeriale discutibile”. E poi a scuola si vedono davvero poco i funzionari delle Aziende sanitarie locali. “Dovremmo fare riunioni almeno due volte l’anno, ne facciamo una e sempre sul finale di stagione”. Un bel problema: “Ci aggiorniamo da soli, ogni volta siamo noi che spieghiamo ai colleghi il Piano educativo individualizzato. Ogni anno partiamo e non abbiamo i profili di funzionamento, le Asl si vedono poco”.

·        I prof da tastiera.

Gianna Fregonara e Orsola Riva per corriere.it il 17 settembre 2021.

Il rapporto sullo stato dell’istruzione nel mondo: a parità di titolo di laurea un docente di scuola guadagna la metà di un ex compagno di studi che ha scelto un’altra professione. Il primato delle ragazze nei licei, il boom degli universitari cinesi. 

Agli uomini non conviene fare il prof. Fare l’insegnante in Italia non conviene, soprattutto se sei un laureato maschio e puoi scegliere un’altra professione più remunerativa. Lo dice l’ultimo rapporto Ocse sullo stato dell’istruzione nel mondo intitolato «Education at a glance». Paragonando gli stipendi di due laureate, una prof guadagna tra l’80 e il 92 per cento di quanto prende di una ex compagna di studi che ha scelto un’altra professione. Ma per gli uomini è molto peggio. Un professore guadagna la metà di chi, a parità di titolo di studio, sceglie un’altra professione (tra il 56 e il 64 per cento dello stipendio del collega). Non sorprende che in Italia l’83 per cento degli insegnanti sia femmina. Negli altri Paesi Ocse lo svantaggio dei docenti è molto meno pronunciato. In media gli insegnanti maschi guadagnano tra il 75 e l’86 per cento dello stipendio offerto da altre professioni che richiedono lo stesso titolo di studio. Per le donne la situazione è addirittura rovesciata: le insegnanti possono arrivare a guadagnare il dieci per cento di più che in altre professioni simili. 

La maglia rosa delle liceali italiane. La scuola italiana raramente primeggia nei confronti internazionali. Per questo fa una certa impressione leggere il nome dell’Italia in testa alla classifica dei Paesi con più ragazze in possesso di un diploma liceale. Non in termini assoluti, si badi, ma rispetto ai loro colleghi maschi che, in generale, un po’ ovunque sono più portati a scegliere un istituto tecnico o un professionale. Forse anche perché fin dalle medie faticano maggiormente a scuola. Non per nulla due bocciati su tre (il 65 per cento) sono ragazzi. Ma in nessun altro Paese lo sbilanciamento maschi-femmine è così netto. In Italia le ragazze rappresentano il 62 per cento dei diplomati liceali contro una media Ocse del 55 per cento. E non parliamo solo dei licei classici o dei linguistici che sono un tradizionale feudo rosa, ma anche dello scientifico (almeno di quello tradizionale, con il latino) dove ormai le ragazze rappresentano quasi la metà degli iscritti. Il primato delle ragazze prosegue anche all’università, visto che nella fascia d’età fra i 25 e i 34 anni più di un terzo delle donne ottiene la laurea (35 per cento), contro meno di un quarto degli uomini (23 per cento). Ma le buone notizie finiscono qui, perché poi le donne tendono ad autoescludersi da quegli indirizzi scientifico-tecnologici, matematici e ingegneristici che sono più ricercati dal mercato del lavoro (27 per cento degli immatricolati a ingegneria, 20% di quelli a un corso di laurea tecnologico-informatico). Mentre negli indirizzi che abilitano all’insegnamento ottengono una maggioranza bulgara (93 per cento). E quel che è peggio, quando poi cominciano a lavorare, hanno prospettive di carriera e guadagno molto più sfavorevoli dell’ex compagni di banco a cui passavano il compito o suggerivano le risposte. I loro stipendi in media sono pari al 71 per cento di quelli dei colleghi maschi. Paradossalmente sono meno svantaggiate le ragazze con un semplice diploma di scuola superiore in tasca, visto che il loro stipendio è pari al 79 per cento di quello dei loro colleghi. 

Università, quanto mi costi. Se, come dice il rapporto Ocse, la spesa annuale per studente è indice di quanto un Paese investa sul proprio futuro, l’Italia non può certo dirsi lungimirante, visto che uno dei dieci Stati che in assoluto investono di meno nell’istruzione. Nel 2018, il nostro Paese ha speso il 4,1 per cento del Pil sul sistema educativo, dalle scuole elementari all’università, contro una media Ocse che sfiora il 5 per cento. Se poi si va a guardare più nel dettaglio, si vede che i più svantaggiati rispetto ai loro colleghi di altre nazionalità sono gli studenti universitari, per i quali l’Italia (che - è bene ricordarlo - è penultima in Europa per numero di giovani laureati: peggio di noi solo la Romania...) spende 12.305 dollari all’anno contro i 17 mila e passa della media dei Paesi Ocse. In proporzione a quanto poco spendiamo per loro, chiediamo invece decisamente troppo, visto che le nostre tasse universitarie sono perfettamente in linea con la media Ocse (circa 2.000 dollari l’anno). ma fra le più alte d’Europa (subito dopo inglesi e olandesi), mentre sul fronte del diritto allo studio, borse, alloggi e quant’altro, restiamo fanalino di coda. 

Il boom degli studenti cinesi. Anche in Italia, come avviene da anni nel mondo anglosassone, gli studenti cinesi sono diventati gli stranieri più numerosi nelle università. Su 54.900 studenti non italiani che scelgono il nostro Paese non per un anno o un semestre ma come sede dei loro studi (sono il 3 per cento del totale degli studenti), ben 12 mila - oltre uno su cinque - vengono dalla Cina. Sono seguiti dagli studenti indiani che sono circa 3.000. Il boom di arrivi da Pechino è dovuto anche ad una politica molto attiva di piani per attrarre gli studenti che possono ottenere il visto universitario anche se non conoscono la nostra lingua ma aderiscono ai progetti Marco Polo o Turandot. 

Da «pagare attenzione» a «massimo 100%». Tutte le gaffe dei documenti scolastici. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 29 luglio 2021.

Pagare attenzione? No, prestarla semmai. La principale novità del prossimo rientro in classe riguarda il famigerato metro di distanziamento fra le «rime buccali» che tenne banco l’anno scorso. Il piano scuola elaborato dal ministero per il 2021-22 recependo le indicazioni del Cts fa quello che non si fece l’anno scorso: ovvero prende atto della realtà. Poiché soprattutto nei licei delle grandi città come Roma e Milano non ci sono aule abbastanza grandi per poter far stare tutti in classe a un metro l’uno dall’altro, gli esperti del Comitato tecnico scientifico, in considerazione anche delle «condizioni di rischio verosimilmente ridotto» create dall’avanzamento della campagna vaccinale, hanno deciso di «allentare» il metro, raccomandando solo «laddove possibile»; in alternativa, basta la mascherina. Detto altrimenti: i banchi possono essere messi anche un po’ più vicini della distanza di sicurezza ma in quel caso gli alunni devono tenere la mascherina davanti alla bocca per tutto il tempo. Bene: peccato che per dirlo il Cts abbia sentito il bisogno di usare un inutile anglismo, ripreso anche dal documento ministeriale per la riapertura delle scuole. E’ scritto infatti nel Piano scuola: « Il Cts, in considerazione della progressiva copertura vaccinale nella popolazione generale, “ritiene assolutamente necessario dare priorità alla didattica in presenza per l’a.s. 2021/2022” raccomandando, laddove possibile, di mantenere il distanziamento fisico, ma “pagando attenzione a evitare di penalizzare la didattica in presenza”». Ma in italiano non si dice «pagare attenzione» (traduzione letterale dall’inglese «to pay attention»), semmai «prestare attenzione». Nella lingua traviata della scuola al tempo del Covid, facendo il verso a Verdi, potremmo dire come Alfredo di Violetta: «Questa attenzione pagata io l’ho».

La scuola sartoriale e la Nazionale di calcio. Le indicazioni date dal Cts al ministero in vista della riapertura sono state girate la settimana scorsa ai presidi di tutte le scuole d’Italia con una nota introduttiva firmata dal capo dipartimento Stefano Versari. In questo documento non si riscontrano inciampi lessicali, semmai un gusto un po’ eccessivo per la metafora, soprattutto nella parte finale in cui di fatto si demanda alle singole scuole l’onore e soprattutto l’onere di attrezzarsi nel modo migliore per assicurare il ritorno in classe di tutti gli alunni. «Il compito che spetta a ciascuno di noi - si legge nel documento - è quello di “cucire per ogni scuola un abito su misura”, e, dentro ogni scuola, un abito su misura per ciascun allievo, come indicava Edouard Claparède già nel 1920, scrivendo de “La scuola su misura”: “Quando un sarto fa un vestito [...] lo adatta alla corporatura del cliente e se questo è grosso e piccolo, non gli fa indossare un abito troppo stretto ...”. Si chiude, l’immaginifico testo, con un inevitabile riferimento alla necessità di fare gioco di squadra perché «come ha dimostrato, tra il tripudio generale, la nostra Nazionale di calcio, soltanto formando una squadra in cui il Noi viene prima dell’Io, si potrà affrontare il difficile orizzonte che ci attende e a cui siamo chiamati». 

Massimo 100%. Di più, in effetti, è impossibile. Lo scorso aprile, in vista della riapertura delle scuole superiori di fine mese, sempre Versari aveva firmato un’altra nota esplicativa che rischiava di gettare ulteriore panico negli uffici di presidenza, proprio nel momento in cui «gli effetti della pandemia continuano a minacciare l’Io e il Sé di ciascuno di noi, di studenti e insegnanti» (così era scritto). Le scuole secondarie di secondo grado in zona arancione o gialla - si legge nel testo - devono «garantire le lezioni in presenza per almeno il 70% e fino a un massimo del 100% dell’intera popolazione studentesca» (di più, in effetti, sarebbe stato difficile!). 

Metro «statico» e «dinamico». Il Cts, già lo scorso luglio, aveva infilato un paio di perle assolute nella nota esplicativa di luglio sulle indicazioni per il rientro in classe. Com’è da intendersi il metro di distanziamento prescritto fra gli alunni?, chiedeva il ministero dell’Istruzione. Risposta degli esperti del ministero della Salute: come metro «statico», ovvero come la distanza minima fra un alunno seduto al banco e il suo compagno in analoga posizione. Quando sono in movimento, invece, in assenza del metro «dinamico» di distanziamento, gli alunni devono indossare la mascherina.

Le «rime buccali». Ma siccome temevano di non essersi spiegati bene, hanno precisato ulteriormente che il metro in questione andava inteso come la distanza fra le «rime buccali», dal latino rima oris che sta a indicare la parte della bocca che comunica con il mondo esterno ovvero «l’apertura delimitata dalle labbra (labia oris) a forma di fessura trasversale tra le due guance (buccae)» (Treccani). Tradotto in italiano, un metro da bocca a bocca.

Avere la febbre a propria insaputa. Ad agosto scorso, a scatenare l’ilarità generale era stata una risposta del ministero pubblicata sulla pagina online dedicata al rientro. Un inciampo logico, più che lessicale. Cosa dice la frase incriminata (oggi non più leggibile perché il sito è in continuo aggiornamento)? «Uno studente che ha la febbre e non sa di averla non deve salire sull’autobus». Detta così, è surreale: è chiaro infatti che lo studente ignaro di avere la febbre sull’autobus ci sale eccome e lo fa in perfetta buona fede proprio perché non sa di averla. In realtà, anche se la formulazione è a dir poco bizzarra, la frase ha un senso se letta come risposta alla domanda: perché il ministero ha scelto di non far misurare la febbre a scuola ma a casa? Risposta: per evitare che qualcuno salga sull’autobus senza sapere di avere la febbre.

Vietato cantare, anzi: «aerosolizzare». Sempre da una vecchia nota del Cts: i bambini possono tenere la mascherina giù finché sono seduti al banco, purché in assenza di «situazioni che prevedano la possibilità di aerosolizzazione (es. il canto)». Che tradotto in italiano vuol dire pretendere di far cantare dei bambini con la mascherina davanti alla bocca. Tanto valeva vietarlo, il canto, ops: l’aerosolizzazione.

Lorena Loiacono per “il Messaggero” il 26 febbraio 2021. Anita ha dodici anni, vuole studiare in classe e non online e per farlo è disposta anche a rinunciare alle vacanze estive: resterebbe infatti volentieri tra i banchi anche fino a fine giugno. Guai a dirlo però: le sue parole, riportate online, hanno infatti scatenato, sulle sue giovani spalle, una tempesta social. Ha ricevuto insulti e offese. L' aspetto peggiore di questa vicenda è che i soliti leoni da tastiera questa volta sono anche docenti. Ed ora interviene il ministero dell' istruzione per valutare eventuali responsabilità. Il ministero ha contattato la famiglia, ha espresso la sua vicinanza e ha chiesto elementi per attivare tutti gli approfondimenti del caso. Potrebbero insomma arrivare provvedimenti nei confronti dei docenti autori dei commenti più sgradevoli. Tutto nasce dall' idea lanciata dal premier Draghi, ma già tramontata, di poter lasciare le scuole aperte fino al 30 giugno per recuperare gli argomenti di studio, che più hanno risentito delle lezioni a distanza, e per riprendere quella socialità inevitabilmente sacrificata dalla pandemia. La scuola si è divisa tra favorevoli, pochi, e contrari. La necessità di svolgere gli esami di Stato a metà giugno ha poi complicato tutta l' organizzazione e così la scuola anche quest' anno seguirà il calendario tradizionale. Il progetto è sfumato ma quelle offese pesanti nei confronti di Anita, riportate da un sito online, restano: affidate ai social dalle mani di insegnanti evidentemente contrari al prolungamento dell' anno scolastico ma poco inclini all' educazione e a rispetto, ancora più grave che la destinataria di una simile attacco sia una ragazzina di 12 anni. Con l' unica colpa di voler studiare in classe: Anita seguiva le lezioni online, quando la sua scuola di Torino era chiusa, fuori dal portone dell' istituto e ora vorrebbe anche restare in classe in estate. È la sua idea, per esprimere l' amore per lo studio. Chissà che cosa avrà pensato allora nel leggere quelle parole scritte da docenti, una vera e propria valanga di insulti: fatti curare, mandiamola a pulire i bagni, disagio, assistenti sociali, malattia mentale. E così via. La denuncia arriva dall' ex ministra all' istruzione Lucia Azzolina che in un lungo post racconta di aver ricevuto una lettera dalla mamma di Anita in cui spiega che un sito di informazione scolastica ha pubblicato sui social un post con la dichiarazione rilasciata dalla ragazzina ad un giornale: «Preferisco la classe alle vacanze, abbiamo perso troppo tempo». Poche parole per scatenare l' ira di chi, contrario al prolungamento delle lezioni, non riesce a tenere a freno le mani sulla tastiera e si scaglia contro una ragazzina di appena 12 anni. E la Azzolina denuncia: «C' è anche chi - questo fa sorridere, ma neanche tanto accusa Anita di essere infantile. Ebbene sì, a 12 anni credo sia consentito. Agli adulti un po' meno. Tutto questo è vergognoso e desolante. Due brevi riflessioni. La maggior parte dei commenti è stata scritta da docenti. C' è qualcosa che non va, la scuola è il luogo in cui seminare i valori del rispetto e della tolleranza. Ho sempre difeso la categoria e lo faccio anche stavolta. A patto però che la maggioranza sana non sia anche maggioranza silenziosa. Messaggi come questi vanno rifiutati sempre. E condannati». La denuncia dell' ex ministra ha commosso anche la mamma di Anita che, commentando l' accaduto, ha spiegato che la figlia riceve attacchi sul web da novembre ma lei non se ne è mai curata più di tanto anche perché non ha nemmeno i social: «Quando, però, ho letto che gli insulti erano quasi tutti di insegnanti sono rimasta sconcertata. Ci sono rimasta male. Ho pensato: se ai miei figli capitasse un docente di questo genere? Per questo ho ritenuto di dover segnalare la questione al Miur. Ciò che mi chiedo, infatti, è come questi insegnanti possano permettersi di dire cose di questo genere ai loro alunni senza venir almeno segnalati, come credo debba avvenire per tutti quelli che si permettono di insultare sui social».

La ragazzina aveva protestato contro la Dad. La 12enne Anita insultata perché vuole andare a scuola a giugno, Azzolina: “Alcuni sono docenti”. Rossella Grasso su Il Riformista il 24 Febbraio 2021. “Vi ricordate Anita, la ragazzina di Torino che per settimane ha manifestato davanti alla sua scuola per chiedere di rientrare in classe? Due giorni fa la madre mi ha inviato una lettera. Che mi ha turbato profondamente”. Inizia così il post dell’ex ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina. Racconta che la mamma le ha segnalato che un sito di informazione scolastica ha pubblicato sui social un post con la dichiarazione rilasciata da Anita ad un giornale: “Preferisco la classe alle vacanze, abbiamo perso troppo tempo”. Il riferimento è al dibattito in corso sull’allungamento del calendario scolastico al 30 giugno. Tema spinoso che ha fatto storcere il naso a tanti. Sotto al post si è scatenata una raffica di proteste. “Insulti rivolti ad una ragazzina di 12 anni – scrive Azzolina – Fa male ripeterli, ma credo sia necessario. ‘Fatti curare, mandiamola a pulire i bagni, disagio, assistenti sociali, malattia mentale’. E così via. C’è anche chi, questo fa sorridere, ma neanche tanto, la accusa di essere "infantile". Ebbene sì, a 12 anni credo sia consentito. Agli adulti un po’ meno. Tutto questo è vergognoso e desolante”. Ma a far rabbrividire l’ex ministra è che “la maggior parte dei commenti è stata scritta da docenti. C’è qualcosa che non va, la scuola è IL luogo in cui seminare i valori del rispetto e della tolleranza. Ho sempre difeso la categoria e lo faccio anche stavolta. A patto però che la maggioranza sana non sia anche maggioranza silenziosa. Messaggi come questi vanno rifiutati sempre. E condannati”. “Penso anche un’altra cosa – continua Azzolina – di cattivi maestri questo Paese è pieno anche e soprattutto fuori da scuola. In questi mesi è stato consentito a chi ha grandi responsabilità, politiche o amministrative, di minimizzare, banalizzare e anche deridere il tema della scuola in presenza, il valore dello studio, la sofferenza di bambini e adolescenti. Questo è il risultato. Ad Anita e alla sua mamma mando un grande abbraccio”. Intanto i docenti si preparano a incrociare le braccia proprio contro la gestione dell’istruzione da parte del Governo. Il 1 marzo saranno in tanti ad aderire alla protesta che non garantirà lezioni né in presenza né in dad. Le motivazioni sono le seguenti: “Netta contrarietà alle politiche adottate dal governo durante l’intera fase pandemica (…) le politiche di stampo liberista avanzate dal costituendo governo di Mario Draghi, per altro deciso a disconoscere la DAD realizzata con enormi sacrifici di docenti e studenti, prolungando arbitrariamente le lezioni al 30 giugno, siano in totale contrasto con un progetto sociale, culturale e politico che, a partire dalla scuola sia coerente con la Costituzione nata dalla Resistenza, che invita all’inclusione sociale. Le politiche di rigore, tese a colpire lavoratori, disoccupati, pensionati, il ridimensionamento del reddito di cittadinanza, i tagli contro il pubblico impiego in generale e la scuola in particolare, al netto dei proclami sulle assunzioni dei precari, sono e saranno sempre respinti dalla nostra organizzazione sindacale”.

"Fatti curare", studentessa anti Dad insultata da prof sui social. Anita, studentessa di una scuola media di Torino, è stata insultata dai professori sui social per aver manifestato contro la didattica a distanza. Rosa Scognamiglio - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale. "Fatti curare". "Disagiata". E ancora: "Ci vuole uno bravo psicoterapeuta". Sono soltanto alcuni degli insulti rivolti sui social ad Anita Iacovelli, studentessa 12enne della scuola media Italo Calvino di Torino, "colpevole" di aver manifestato contro la Dad (Didattica a distanza). Ad attaccarla soprattutto professori che non hanno lesinato epiteti di dubbio gusto nei confronti della ragazzina. Sulla vicenda è interevenuta l'ex ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina: "Tutto questo è vergognoso e desolante", scrive in un post su Facebook.

La battaglia anti-Dad di Anita. Anita è una ragazzina di 12 anni che frequenta la scuola media Italo Calvino di Torino. Durante il periodo di sospensione dell'attività scolastica in presenza decide di manifestare contro la Dad. Per settimane campeggia con un banchetto davanti all'ingresso della scuola seguendo le lezioni da un piccolo tablet rosa che si è procurata per stare al passo con i compagni. Mamma Cristiana è dalla sua parte, così come molti dei suoi coetanei. Ma la causa virtuosa della giovane studentessa non riceve il sostegno dei professori che, invece, sembrano piuttosto contrariati. Nonostante le avversità del caso, Anita seguita con la sua nobile battaglia fino a quando non diventa bersaglio degli hater sui social. Nulla di cui sorprendersi, purtroppo. Ma c'è un'aggravante: si tratta di insegnanti.

"Fatti curare": gli insulti shock dei professori. Come ben riporta il quotidiano La Stampa, tutto nasce dall'ipotesi, nei giorni successivi alla nascita del governo Draghi, di allungare il calendario scolastico fino al 30 giugno. Il giorno dopo Anita rilascia un'ntervista al quotidiano torinese: "A scuola più a lungo? Credo sarebbe un'ottima cosa: recupereremmo il programma perso e sono felice dell'idea di stare di più in classe dopo questi mesi. Anche se significa rinunciare alle vacanze". Le parole di una ragazzina sempre fedele a se stessa, di una studentessa sinceramente appassionata agli studi. Su un sito di informazione studentesca dove successivamente viene ripresa la notizia, però, esplode una bomba. "I miei allievi sono differenti: sono adolescenti sani". "Tesoro di mamma vai da un terapeuta". Sono solo alcuni degli insulti che vengono rivolti alla 12enne da parte di alcuni professori evidentemente inferociti e fuori controllo. Gli epiteti si sprecano fino a quando Cristiana, la mamma di Anita, decide di scrivere una lettera all'ex ministra dell'Istruzione affinché intervenga sulla vicenda.

"Tutto questo è vergognoso". "Fa male ripeterli, ma credo sia necessario riportare gli insulti rivolti ad una ragazzina di 12 anni" scrive su Facebook Lucia Azzolina, che li cita: "Fatti curare, mandiamola a pulire i bagni, disagio, assistenti sociali, malattia mentale. Tutto questo è vergognoso e desolante". E continua: "Due brevi riflessioni. La maggior parte dei commenti è stata scritta da docenti. C'è qualcosa che non va, la scuola è il luogo in cui seminare i valori del rispetto e della tolleranza. Ho sempre difeso la categoria e lo faccio anche stavolta, a patto però che la maggioranza sana non sia anche maggioranza silenziosa. Messaggi come questi vanno rifiutati sempre. E condannati. Penso anche un'altra cosa: di cattivi maestri questo Paese è pieno anche e soprattutto fuori da scuola. In questi mesi è stato consentito a chi ha grandi responsabilità, politiche o amministrative, di minimizzare, banalizzare e anche deridere il tema della scuola in presenza, il valore dello studio, la sofferenza di bambini e adolescenti. Questo è il risultato. Ad Anita e alla sua mamma mando un grande abbraccio". A fare da eco alle parole dell'ex ministra ci sono quelle di mamma Cristiana. "Viviamo da mesi questa situazione, ma non ci abbiamo mai dato troppo peso - commenta - Quando ho scoperto che certi commenti arrivavano da insegnanti, però, mi sono sentita male e in dovere di fare qualcosa. Che ne pensa Anita? Lei è solo felice di poter andare a scuola. Non ha mai letto niente, le abbiamo solo detto che a volte succede e ci ha risposto dicendo che le fa ridere chi scrive cerca solo visibilità e like quando non ha neanche i social".

I prof da tastiera. Serena Coppetti il 24 febbraio 2021 su Il Giornale.

"- Fatti curare

– Mandiamola a pulire i bagni

– Disagio

– Assistenti sociali

– Malattia mentale".

Chissà cosa avrà pensato Anita quando ha letto questi commenti, solo per aver osato dire «Preferisco la classe alle vacanze, abbiamo perso troppo tempo». Perchè a dire quelle parole non sono stati quattro bulli della scuola da condannare, redarguire e sospendere, ma dei professori. Sì avete letto bene: professori che, lo ricordiamo, copiando e incollando dalla Treccani,  dal latino  professor-oris, derivato di profiteri (participio passato professus), che oltre al significato di «dichiarare» ha anche quello di «insegnare pubblicamente». Insegnare. Pubblicamente.  Questi, pubblicamente insultano una ragazzina di 12 anni che da mesi porta avanti la  sua battaglia: con un banchino, il computer rosa, il giubbotto e la sua amica davanti al portone della scuola chiede che sia fatta finita con questa dad, con le lezioni a distanza e i video e il pigiama e la camera. In sicurezza ma a scuola. Ora Anita ha osato dire che per lei, cioè a suo parere, quindi secondo il suo pensiero, in sintesi senza volere insegnare nulla a nessuno, sarebbe meglio andare a scuola fino a fine giugno. Condivisibile (io per esempio la penso esattamente al contrario…)  o meno, ha detto quello che pensa. Tanto è bastato a scatenare la reazione di alcuni professori, gli stessi che siedono dietro a qualche cattedra di qualche scuola per “educare” ragazzini come Anita. Prof da tastiera, professus del pensiero unico che tanto piace a chi non vuole mai mettersi in discussione. E dunque bravi, bravissimi a insultare, laureati fuori corso in turpiloquio per chiudere velocemente discorsi che altrimenti non saprebbero affrontare. D’altronde gli esempi eccellenti non mancano. Il professore Giovanni Gozzini, docente di storia all’università di Siena qualche giorno fa, ha offeso pesantemente Giorgia Meloni,  senza minimamente preoccuparsi delle parole, gravi, che stava pronunciando in radio. Bullismi adulti. Immaginiamo la mamma di Anita che si sarà dovuta prodigare a spiegare alla figlia di non badarci, che la gente è così, non sa quel che dice, gente ignorante anche se ha studiato, che sono grandi ma solo di età, che  non si deve far caso a chi fa il leone da tastiera, anche se già è difficile sopportarlo da un coetaneo, figuriamoci da uno che si definisce prof. Comunque… poi ha preso carte e penna e ha scritto all’ex ministro all’Istruzione Azzolina che ha raccontato tutta questa storia con un lungo post sul suo profilo Facebook.

Eccolo. Vi ricordate Anita, la ragazzina di Torino che per settimane ha manifestato davanti alla sua scuola per chiedere di rientrare in classe? Due giorni fa la madre mi ha inviato una lettera. Che mi ha turbato profondamente. Mi ha scritto segnalandomi che un sito di informazione scolastica ha pubblicato sui social un post con la dichiarazione rilasciata da Anita ad un giornale: “Preferisco la classe alle vacanze, abbiamo perso troppo tempo”. (Il riferimento è al dibattito in corso sull’allungamento del calendario scolastico. Non entro nel merito adesso, ne parlerò più avanti. Penso solo che il tema andrebbe trattato con meno approssimazione di come è stato fatto in questi giorni)

Sotto al post un fiume di insulti. Insulti rivolti ad una ragazzina di 12 anni. Fa male ripeterli, ma credo sia necessario. “Fatti curare, mandiamola a pulire i bagni, disagio, assistenti sociali, malattia mentale”. E così via. C’è anche chi – questo fa sorridere, ma neanche tanto – la accusa di essere “infantile”. Ebbene sì, a 12 anni credo sia consentito. Agli adulti un po’ meno. Tutto questo è vergognoso e desolante.

Due brevi riflessioni. La maggior parte dei commenti è stata scritta da docenti. C’è qualcosa che non va, la scuola è il luogo in cui seminare i valori del rispetto e della tolleranza. Ho sempre difeso la categoria e lo faccio anche stavolta. A patto però che la maggioranza sana non sia anche maggioranza silenziosa. Messaggi come questi vanno rifiutati sempre. E condannati. Penso anche un’altra cosa: di cattivi maestri questo Paese è pieno anche e soprattutto fuori da scuola. In questi mesi è stato consentito a chi ha grandi responsabilità, politiche o amministrative, di minimizzare, banalizzare e anche deridere il tema della scuola in presenza, il valore dello studio, la sofferenza di bambini e adolescenti. Questo è il risultato. Ad Anita e alla sua mamma mando un grande abbraccio. Non siamo stati sempre d’accordo con l’ex ministro, ma questa volta ci vogliamo unire all’abbraccio. ps. ma sarà mai possibile nel nostro sistema scolastico, accompagnare elegantemente alla porta chi dimostra di non essere un educatore? (da ex-ducere cioè tirare fuori, far venire alla luce qualcosa che è nascosto… così tanto per ricordare).

·        Università fallita.

Noemi Penna per “La Stampa” il 25 luglio 2021. Togliersi qualche sassolino dalla scarpa sull'università. Quando, se non durante il discorso per la consegna dei diplomi, in diretta YouTube? E' quello che ha scelto di fare un gruppo di studenti della Normale di Pisa, proprio perché «la Scuola ha significato così tanto per noi, vorremmo provare a spiegare come mai quando guardiamo noi stessi o ci guardiamo intorno ci è difficile vivere questo momento di celebrazione senza condividere con voi alcune preoccupazioni». A parlare è Virginia Magnaghi, in rappresentanza di un Collettivo formato da una dozzina di allievi del Corso di Lettere. Un J' accuse «appassionato e puntuale», come lo ha definito sulle pagine de La Stampa lo stesso professor Salvatore Settis, che è stato direttore della Normale dal 1999 al 2010, sulla trasformazione aziendalistica dell'Università che «mortifica la ricerca scientifica, propugna la valutazione quantitativa dei risultati a scapito della qualità, ostacola le carriere dei docenti e incrementa il precariato». «Dopo un confronto durato mesi, se non anni, vorremmo provare oggi a riassumere le contraddizioni che sentiamo quando pensiamo a dove siamo a come stiamo ora», afferma il gruppo, che proprio non si aspettava tutto questo clamore da quando il video della consegna dei diplomi è diventato virale sui social, anche se l'intenzione era esattamente questa: «Non vogliamo solo puntare il dito ma aprire un dialogo, quello era l'unico momento di visibilità che potevamo avere. In realtà non abbiamo detto niente di nuovo, questi sono temi che continuano a passare in sordina, non solo alla Normale di Pisa.  Sia ben chiaro, il nostro è un discorso indirizzato a tutto il sistema universitario». Il Collettivo non ha un nome, la dottoressa Magnaghi ne è diventata l'indiretta portavoce, essendo stata la prima a prendere la parola durante la consegna dei diplomi. I neolaureati lo definiscono «l'apice di un confronto che avevamo da tempo, che per cinque anni ci ha accompagnato mentre studiavamo e avevamo a che fare con un mondo universitario elitario che non ci piace, che vorremmo cambiare». Sì, perché i ragazzi che ci sono dietro al discorso sono in gran parte dottorandi, in Italia e all'estero, e proprio nel mondo universitario vedono il loro futuro. «Crediamo che sia necessario descrivere il contesto lavorativo, sociale e culturale in cui gran parte di noi è ormai inserita. Contesto che negli ultimi 13 anni è stato investito da cambiamenti profondi. Ci riferiamo al processo di trasformazione dell'Università in senso neoliberale, un'università-azienda in cui l'indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi. Un'università in cui lo sfruttamento della forza lavoro si esprime attraverso la precarizzazione sistemica e crescente, in cui le disuguaglianze sono inasprite da un sistema concorrenziale che premia i più forti e punisce i più deboli aumentando divari sociali e territoriali. Le disuguaglianze sono stridenti: divario di genere, divario territoriale Nord e Sud e tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei. Quale eccellenza c'è tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell'eccellenza se fuori da questa cattedrale nel deserto ci aspetta la desolazione che abbiamo descritto?». Parole forti, a cui è inevitabilmente seguita la replica dell'ateneo, a firma del direttore Luigi Ambrosio. «A livello normativo la legge italiana non consente a una istituzione accademica nei bandi di concorso di fare differenziazioni in base al genere di appartenenza. In altri paesi è possibile destinare una quota parte dei posti a categorie in quel determinato momento ritenute svantaggiate, a livello sociale, economico, di genere». Ma la Normale ha in qualche modo contattato il Collettivo? «Al momento no, ma forse è ancora presto - commentano i neolaureati -. Ci auguriamo di aprire un dibattito a livello nazionale, forti di tutto il supporto che stiamo ricevendo da tanti studenti e accademici. E' ormai chiaro che si tratta di un problema sistemico, dettato innanzitutto dal taglio silenzioso dei fondi all'istruzione e alla ricerca. Farne un discorso di genere è assolutamente riduttivo, anche se su questo tema c'è molto da lavorare». 

Gianna Fregonara e Orsola Riva per corriere.it il 9 giugno 2021. Niente da fare per le università italiane: anche quest’anno il ranking Qs celebra nella top 20 le solite note (16 fra università inglesi e americane, più 2 svizzere e 2 cinesi). Al top della classifica il Mit di Boston, seguito da Oxford e Stanford. A parte i due politecnici di Zurigo (ottavo posto) e Losanna (14esimo), l’Europa cala le sue carte migliori dal 50 esimo posto in giù, mentre per il miglior piazzamento nostrano bisogna scendere fino alla 142esima posizione del Politecnico di Milano. Da sempre i nostri atenei scontano la scarsa proiezione internazionale e il basso numero di docenti in rapporto agli studenti, ma quest’anno sono scesi anche nella considerazione dei loro colleghi, cioè in quello che è l’indicatore più significativo e controverso di questo ranking che basa il 40 per cento del punteggio finale proprio sulla cosiddetta reputazione accademica. Eppure le università italiane continuano a sfornare cervelli, come dimostrano i risultati sempre molto lusinghieri ottenuti dai nostri ricercatori nell’assegnazione dei finanziamenti europei per la ricerca: peccato che quei soldi nella maggior parte dei casi finiscano a dei laboratori stranieri perché, come stigmatizzato anche dal recente referto sull’università della Corte dei Conti, troppo spesso i nostri migliori talenti che qui sarebbero condannati a una vita da precari fanno le valigie e vanno a lavorare all’estero dove invece gli fanno ponti d’oro. Se a questo aggiungiamo il cronico sotto finanziamento del sistema universitario (0,9 per cento del Pil, contro l’1,2 delle università tedesche, l’1,5 di quelle francesi, il 2 di quelle inglesi) e del mondo della ricerca (circa l’1,45 per cento del Pil contro l’1,76 degli inglesi, il 2,2 dei francesi e il 3,17 dei tedeschi), c’è poco da sorprendersi se fatichiamo a scalare le classifiche. L’unico ranking dove riusciamo a prenderci qualche soddisfazione è quello fatto sempre da Qs sui migliori programmi di studio, in cui appena qualche mese fa la Sapienza - che nella classifica generale è solo 171esima - si è piazzata al top mondiale per gli studi classici, mentre il PoliMi al quinto posto in Arte e Design e al decimo in Architettura e la Bocconi al settimo in Business and Management.

Politecnico di Milano. Il Politecnico di Milano, nonostante abbia perso 5 posizioni rispetto all’anno scorso (era 137esimo, ora è 142esimo), resta la migliore università italiana in classifica, soprattutto per quanto riguarda la reputazione dei datori di lavoro (67esimo posto) e per l’alta percentuale di studenti internazionali.

Alma Mater di Bologna. Al secondo posto fra le italiane e al 166esimo posto al mondo l’Alma Mater di Bologna (era 160esima) che è in assoluto la più stimata dalla comunità accademica internazionale (71esima).

Sapienza di Roma. Al terzo posto la Sapienza, anch’essa in ottima posizione quanto a reputazione accademica (74esima). Nella classifica generale mantiene il 171esimo posto dell’anno scorso.

L’exploit della Bicocca. In tutto le italiane censite in questa edizione sono 41: tredici hanno mantenuto il posto, tredici sono scese e dieci salite. L’exploit più clamoroso è della Bicocca di Milano che passa dalla fascia 521-530 al 450esimo posto. Quasi tutte le altre prima di lei perdono terreno: Padova (242esima, era 216esima), la Statale di Milano (316esima, era 301esima), il Politecnico di Torino (334esimo era 308esimo), Pisa (388esima era 383esima), il San Raffaele (390esimo era 392esimo), la Federico II di Napoli (424esimo, era 392esimo) e Trento (440esimo, era 403esimo). L’Università privata Vita-Salute San Raffaele in particolare è prima in Italia e 36esima al mondo nel rapporto studenti-professori che tanto penalizza gli atenei pubblici.

L’eterna rivalità America-Uk. Per il decimo anno consecutivo il Massachusetts Institute of Technology si conferma al top del mondo, ma le altre super università americane perdono posti a vantaggio delle concorrenti inglesi: Stanford scende dal secondo al terzo posto, Harvard dal terzo al quinto, mentre Oxford passa dal quinto al secondo posto e Cambridge dal settimo al terzo (pari merito con Stanford).

Come funziona la classifica. Rispetto ad altre classifiche internazionali, come Times Higher Education o l’Arwu di Shanghai, il Qs ranking è quello che in assoluto dà il maggior peso alla «reputazione» di un’università, cioè al giudizio di colleghi (che pesa per il 40 per cento sul punteggio finale) e aziende (dieci per cento): nell’edizione di quest’anno sono stati intervistati in tutto 130 mila docenti e 75 mila datori di lavoro. E’ questo uno degli aspetti più controversi del ranking, anche perché gli stessi autori offrono servizi di consulenza agli atenei per aiutarli a promuovere la propria immagine e a scalare posizioni in classifica. Gli altri indicatori sono: le citazioni per docente (20 per cento), il rapporto docenti-studenti (un altro 20 per cento), la proporzione di docenti e studenti internazionali (5 per cento ciascuno).

Valentina Errante per "il Messaggero" il 9 marzo 2021. Si spostava su un jet privato e dall'inizio degli anni Duemila avrebbe incassato oltre 10 milioni di euro dalle sue aziende. Soltanto per consulenze, che non trovano alcun riscontro, 8 milioni 677mila euro. La politica aziendale di Francesco Polidori, umbro, classe 48, il signor Cepu, fondatore di un impero nel campo della formazione universitaria e scolastica, era vincente e consisteva nel non pagare le tasse. Nessun tipo di tributo al fisco. Sin dalla creazione del gruppo. Ma i debiti rimanevano sempre indietro rispetto all'attività che, invece, andava avanti: i rami d'azienda produttivi venivano ceduti, mentre le società decotte fallivano, l'ultima creazione è stata una fiduciaria di diritto lussemburghese. E nelle casse dell'erario non arrivava nulla. È così che si è arrivati a un debito monstre di 180 milioni con il fisco. Da ieri Polidori, su richiesta del pm Antonio Clemente, è ai domiciliari, un suo collaboratore è stato interdetto per un anno dall'attività di impresa e altri quattro sono indagati. Gli uomini del nucleo di polizia valutaria della Finanza, che hanno ricostruito la storia e le dinamiche di una galassia di società, hanno anche sequestrato beni per 28 milioni di euro, anche la sede di eCampus, società della galassia Cepu, in provincia di Como e le quote societarie di Studium ancora attiva. L'accusa è di bancarotta fraudolenta, autoriciclaggio e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. Il gip sottolinea la spregiudicatezza di Polidori «Dominus e regista di tutte le operazioni fraudolente e gli atti distrattivi». Sarebbe lui l'ideatore, il coordinatore e, in alcuni, casi l'esecutore di quello che viene definito «un sistema comportamentale sistematicamente adottato e che potrebbe ulteriormente ripetersi».

IL GRUPPO. Il Centro europeo per la formazione universitaria è attivo da oltre trent' anni. Cepu offre la preparazione agli esami universitari e proposte formative e di assistenza allo studio disponibili in 120 centri. Il gruppo controlla attualmente anche gli atenei online E-Campus e Link Campus University ed anche la storica Scuola Radio Elettra di Torino, rilevata sempre nel 1995 dopo il fallimento. Una vasta galassia che comprende altri marchi come Grandi Scuole per il recupero di anni scolastici, Cepu Web, impegnato in master di informatica e per approfondire strategie di web marketing, Gloschool per le lingue, Cepu International sul versante della formazione all'estero, Accademia del volo Cepu per gli aspiranti piloti. Un marchio che ha puntato tutto sull'immagine con sponsor d'eccezione. Al culmine della notorietà, negli anni 90, Bobo Vieri, Alessandro Del Piero, Valentino Rossi e perfino Antonio Di Pietro. A Sansepolcro il centro studi era ospitato nella palazzina del Borgo Palace Hotel, quattro stelle di proprietà dello stesso Polidori, che veniva utilizzato come quartier generale. E qui ogni anno veniva organizzato anche il Marcon day, con la partecipazioni di sportivi che si diplomavano con i percorsi promossi da Cepu. È qui che, nel marzo 98, nasce Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. L'ateneo online E-Campus, oggi ha il volto del calciatore Cristiano Ronaldo. Ma è all'inizio degli anni 2000 con il fallimento della Scil che, secondo gli inquirenti, Polidori mette in atto una strategia precisa «omettendo scientemente e sistematicamente il pagamento delle imposte dirette, delle ritenute previdenziali ai dipendenti e collaboratori e dell'Iva».

L'ORDINANZA. È il gip Ezio Damizia a spiegare il meccanismo che porta fino al Lussemburgo, sede della fiduciaria intestata a prestanome: «Attraverso nuove società sempre create ad hoc (quali meri contenitori giuridici riconducibili sempre al medesimo centro di interessi) per portare avanti e garantire continuità alla medesima gestione aziendale caratterizzata dai relativi marchi e licenze (tra cui evidentemente e soprattutto il noto e storico marchio Cepu) si realizza in modo continuativo un programma criminoso, in quanto si lascia la precedente società svuotandola di tutti gli asset produttivi, appesantita dall'ingente debito nei confronti dei creditori (in particolare dell'Erario).

Da Corriere.it l'8 marzo 2021. Francesco Polidori, fondatore del gruppo Cepu, è finito agli arresti domiciliari oggi nell’ambito dell’indagine della procura di Roma su una ipotesi, tra gli altri reati, di bancarotta fraudolenta. I finanzieri del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria hanno proceduto anche ad un sequestro preventivo per 28 milioni di euro.

L’inchiesta. L’inchiesta della Procura di Roma che vede coinvolti 6 soggetti responsabili, a vario titolo, dei reati di bancarotta fraudolenta, autoriciclaggio e sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte. I finanzieri del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria questa mattina hanno eseguito un’ordinanza di arresti domiciliari per l’imprenditore e una misura interdittiva del divieto temporaneo di esercitare attività di impresa per un anno nei confronti di un suo collaboratore risultato essere il depositario delle scritture contabili e incaricato della gestione finanziaria di alcune aziende del gruppo. I finanzieri hanno anche eseguito sequestri per 28 milioni di euro.

Chi è Francesco Polidori, fondatore di Cepu. Francesco Polidori, 73 anni, è un imprenditore umbro, noto soprattutto per aver fondato il Cepu (gruppo che si occupa di istruzione e formazione universitaria) e la Scuola Radio Elettra.

Dagonews l'8 marzo 2021. Francesco Polidori aveva ricevuto in affitto i ristoranti e il marchio “Assunta Madre”. Il suo obiettivo era creare una catena di ristoranti.

(ANSA l'8 marzo 2021) - La Guardia di Finanza ha proceduto oggi al sequestro della sede di E-Campus, società della galassia Cepu, a Novedrate in provincia di Como, nell'ambito dell'indagine che ho portato agli arresti domiciliari il fondatore di Cepu, Francesco Polidori, accusato di bancarotta fraudolenta. Il valore della struttura si attesta sui 6 milioni di euro. "Gli immobili sono stati acquistati con somme di denaro - è scritto nell'ordinanza del gip Ezio Damizia - provenienti dalle distrazioni in danno della fallita società Cesd e quindi costituiscono il diretto reimpiego del profitto del delitto di distrazione perché definitivamente entrati nella titolarità della società acquirente mediante le somme di denaro distratte dalla società fallita e impiegate per estinguere il mutuo/finanziamento acceso presso le banche per il loro acquisto".

(ANSA l'8 marzo 2021) - Si attesta intorno ai 140 milioni di euro, secondo quanto accertato dalla Guardia di Finanza, il valore dell'evasione fiscale messa in atto dal gruppo Cepu in oltre dieci anni. Nell'indagine svolta dai finanzieri del Nucleo Speciale di Polizia Valutaria e coordinata dal procuratore aggiunto di Roma Rodolfo Sabelli è emerso che i debiti accumulati raggiungono invece i 180 milioni di euro. Il gip di Roma nell'ordinanza cautelare afferma che Francesco Polidori, fondatore del gruppo Cepu e finito oggi ai domiciliari, ha "svolto un ruolo importantissimo sia sul punto di vista direttivo, organizzativo, anche operativo ed è stato in più occasioni persino destinatario diretto delle distrazioni di ingenti somme di denaro - si legge nel provvedimento -. Egli ha partecipato all'attività delittuosa operando da una cabina di regia in prima persona. Il ruolo di dominus evidentemente ancora ricoperto, l'esistenza attuale della Studium Srl", società riconducibile a Polidori, e "lo strettissimo rapporto che l'imprenditore ha con vari soggetti (collaboratori, familiari o persone a lui vicine), che ricoprono cariche sociali nella società del Gruppo, costituiscono elementi da cui desumere certamente l'attualità del pericolo di recidivanza", ossia di reiterazione del reato.

Estratto dell’articolo di Fabio Martini per ''la Stampa'' del 4 agosto 2020. A riflettori ben spenti, come è tradizione della casa, la Link Campus University ha cambiato padrone: a fine luglio nello studio di un notaio romano si è consumato il passaggio di proprietà di una delle più originali «creature» spuntate in Italia negli ultimi venti anni: università privata, ma anche crocevia di faccendieri di ogni fede. Di notabili della Prima ma anche della Seconda Repubblica. Di spie venute dall'Est ma anche dall'Ovest. E assieme a tutto questo anche fucina di classe dirigente per i Cinque stelle. Un cambio di proprietà accelerato dall'infittirsi delle indagini della magistratura e dai conti in disordine: la eterogenea società uscente Gem - che aveva il suo «vate» nell'ex ministro dc Enzo Scotti - ha ceduto tutto a Francesco Polidori, l'uomo che dopo aver inventato Cepu, la scuola di recupero esami, ha creato E-Campus, il più esteso ateneo telematico italiano. Personaggio legato al centrodestra e a Berlusconi, ma senza mai mischiare didattica e politica, Polidori si presenta con un'idea di business diversa da quella che ha imperato sinora alla Link. […] I conti sono andati sempre più in rosso e a quel punto alla porta del vecchio Scotti, ha bussato Polidori, un umbro di 72 anni, a suo tempo inventore del Cepu e di Radio Elettra. Parla come un filantropo: «In passato le famiglie ricche avevano il precettore. I nostri tutor svolgono lo stesso compito, calibrando l'intervento in funzione della capacità, del tempo a disposizione, delle esigenze. In assoluta trasparenza: il risultato finale, infatti, non lo decidiamo noi, ma l'esame, che è pubblico». Polidori vuole aggiungere un insegnamento frontale al suo «impero» di atenei telematici, con sedi in undici città e, a quanto pare, vuole riservare alla Link insegnamenti per l'élite. Poco si sa di quanto sia costato l'«avviamento» che la Link Campus ancora garantisce: Polidori si sarebbe fatto carico dei 22 milioni di debito e avrebbe corrisposto un milione cash ai vecchi proprietari. Immaginando di investirne un'altra ventina. Per ora ipotesi, anche perché l'annuncio ufficiale del passaggio di proprietà ancora non c'è stato. Ma si capirà presto se sia finita una volta per tutte la leggenda dell'ateneo romano «vortice di intrighi», come il New York Times ha definito la Link, l'università nella quale un giorno si incontrarono e simpatizzarono due campani così diversi come Enzo Scotti e Luigi Di Maio.

(ANSA) - PERUGIA, 1 luglio 1998. Usura ed estorsione: sono le accuse per le quali verranno processati dal tribunale di Perugia l' imprenditore Francesco Polidori, noto per essere il fondatore della ''Cepu'' (l' istituto tifernate per la preparazione universitaria in cui ha tenuto corsi anche Antonio Di Pietro), ed il suo collaboratore Flavio Nataloni. Lo ha deciso oggi il gip Giuseppe Petrazzini che ha rinviato a giudizio entrambi. La prima udienza del processo e' in programma il 10 maggio '99. Polidori e Nataloni sono stati indagati nell' ambito della loro attivita' di intermediazione finanziaria. Attraverso due societa' - secondo l' accusa - avrebbero infatti erogato mutui per centinaia di milioni, facendosi ''dare e promettere'' interessi usurari che avrebbero oscillato tra il 120 ed 250 per cento. Agli imputati vengono contestati due diversi episodi di usura, nei confronti di una coppia, marito e moglie, e di un altro imprenditore, tutti impegnati in agricoltura. Quest' ultimo, in particolare, si e' costituito parte civile attraverso l' avvocato Luca Maori ed ha chiesto un risarcimento di 600 milioni. Nataloni deve inoltre rispondere di avere minacciato la donna di far valere i diritti usurari, costringendola - sempre secondo l' accusa - a rilasciargli una procura per vendere terreni di sua proprieta' (valore 260 milioni) a Polidori. Di qui l' accusa nei confronti di entrambi anche di estorsione.

(ANSA) - BOLOGNA, 15 maggio 1998. Sono finiti nel mirino delle magistratura bolognese i conti del Cepu, il consorzio europeo preparazione universitaria che offre sostegno didattico a circa 20mila giovani: ieri su ordine dei Pm Valter Giovannini ed Enrico Cieri la Guardia di Finanza ha compiuto un centinaio di perquisizioni nelle sedi del consorzio sparse in tutta Italia. L' ipotesi della Procura e' che i redditi realizzati sul territorio italiano siano finiti nella Repubblica di San Marino senza sottostare alla tassazione italiana. Del consorzio Cepu fanno parte, infatti, anche società finanziarie con sede nel Titano. Gli indagati sarebbero una ventina, tutti per evasione fiscale, tra cui il presidente Francesco Polidori. Per gli inquirenti il Cepu ha una organizzazione societaria in Italia e di conseguenza deve essere assoggettato a tassazione in Italia.    ''Le indagini sono solo di carattere fiscale - ha precisato il Pm Giovannini - e non coinvolgono ne' il metodo ne' il merito del supporto didattico che il consorzio fornisce agli studenti''. Gli inquirenti hanno precisato che nelle perquisizioni e' stata ''acquisita una documentazione minima, che non blocca l' attività del consorzio''.