Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SESTA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Burocrazia Ottusa.

Il Diritto alla Casa.

Le Opere Bloccate.

Il Ponte sullo stretto di Messina.

Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Le Opere Malfatte.

La Strage del Mottarone.

Il MOSE: scandalo infinito.

Ciclisti. I Pirati della Strada.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Strage di Ardea.

Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Le Disuguaglianze.

Martiri del Lavoro.

La Pensione Anticipata.

Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Malasanità.

Sanità Parassita.

La cura maschilista.

L’Organismo.

La Cicatrice.

L’Ipocondria.

Il Placebo.

Le Emorroidi.

L’HIV.

La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

La siringa.

L’Emorragia Cerebrale.

Il Mercato della Cura.

Le cure dei vari tumori.

Il metodo Di Bella.

Il Linfoma di Hodgkin.

La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

La Miastenia.

La Tachicardia e l’Infarto.

La SMA di Tipo 1.

L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Sindrome dell’intestino irritabile.

Il Menisco.

Il Singhiozzo.

L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Vi scappa spesso la Pipì?

La Prostata.

La Vulvodinia.

La Cistite interstiziale.

L’Afonia.

La Ludopatia.

La sindrome metabolica. 

La Celiachia.

L’Obesità.

Il Fumo.

La Caduta dei capelli.

Borse e occhiaie.

La Blefarite.

L’Antigelo.

La Sindrome del Cuore Infranto.

La cura chiamata Amore.

Ridere fa bene.

La Parafilia.

L’Alzheimer e la Demenza senile.

La linea piatta del fine vita.

Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Introduzione.

I Coronavirus.

La Febbre.

Protocolli sbagliati.

L’Influenza.

Il Raffreddore.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Il contagio.

I Test. Tamponi & Company.

Quarantena ed Isolamento.

I Sintomi.

I Postumi.

La Reinfezione.

Gli Immuni.

Positivi per mesi?

Gli Untori.

Morti per o morti con?

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alle origini del Covid-19.

Epidemie e Profezie.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Gli errori dell'Oms.

Gli Errori dell’Unione Europea.

Il Recovery Plan.

Gli Errori del Governo.

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

CTS: gli Esperti o presunti tali.

Il Commissario Arcuri…

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

 

INDICE SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

2020. Un anno di Pandemia.

Gli Effetti di un anno di Covid.

Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

La Sanità trascurata.

Eroi o Untori?

Io Denuncio.

Succede nel mondo.

Succede in Germania. 

Succede in Olanda.

Succede in Francia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Russia.

Succede in Cina. 

Succede in India.

Succede negli Usa.

Succede in Brasile.

Succede in Cile.

INDICE SETTIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

La Reazione al Vaccino.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Furbetti del Vaccino.

Il Vaccino ideologico.

Il Mercato dei Vaccini.

 

INDICE NONA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Coronavirus e le mascherine.

Il Virus e gli animali.

La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.

Le Fake News.

La manipolazione mediatica.

Un Virus Cinese.

Un Virus Statunitense.

Un Virus Padano.

La Caduta degli Dei.

Gli Sciacalli razzisti.

Succede in Lombardia.

Succede nell’Alto Adige.

Succede nel Veneto.

Succede nel Lazio.

Succede in Puglia.

Succede in Sicilia.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Reclusione.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

Covid e Dad.

La pandemia è un affare di mafia.

Gli Arricchiti del Covid-19.

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        2020. Un anno di Pandemia.

Covid, un confronto con il 2020: siamo messi meglio o peggio dell’anno scorso? Chiara Nava il 20/12/2021 su Notizie.it. I contagi Covid sono in aumento e la situazione sta tornando ad essere preoccupante. Ma siamo messi meglio o peggio rispetto allo scorso anno?

Per quanto riguarda la situazione Covid è inevitabile fare un confronto con l’anno scorso.

La domanda sorge spontanea: siamo messi meglio o peggio? In realtà ci sono due versanti diversi, in cui i dati mostrano situazioni differenti. Il primo riguarda morti, malati gravi e ricoverati, il secondo riguarda contagi e tasso di positività. I dati del dicembre 2021, rispetto allo stesso periodo del 2020, sono migliorati se si tiene conto dei morti e dei ricoverati in terapia intensiva, mentre sembra essere peggiorata la situazione dei contagi.

Covid, un confronto con il 2020: i dati

Il numero dei casi complessivi quest’anno è superiore rispetto al 2020. La curva della crescita continua ad aumentare nelle ultime settimane, dopo un precedente calo. Questo conferma che per quanto riguarda i contagi la situazione è peggiorata. Questo può far pensare che il vaccino non stia funzionando, ma non è così. La prova sta nell’incrocio del dato dei contagi con quello dei morti e degli ospedalizzati, che sono diminuiti.

La differenza tra il numero di decessi e ricoveri in terapia intensiva è molto significativa tra il dicembre 2020 e il dicembre 2021. Ad oggi siamo intorno ai 100 morti, mentre un anno fa erano tra i 600 e i 700. Al momento ci sono poco meno di mille ricoverati nelle terapie intensive, un anno fa erano 2.794. I nuovi ingressi in terapia intensiva sono cresciuti del 23,35%.

Covid, un confronto con il 2020: il vaccino funziona

Nonostante ci sia un aumento dei contagi, rispetto allo scorso anno la situazione è migliorata, grazie al vaccino. A preoccupare ora è l’arrivo della variante Omicron. Il dubbio è che possa bucare i vaccini. Si tratta di una variante molto più contagiosa, ma meno letale.

Da adnkronos.com il 26 marzo 2021. Meno nascite e più morti per la pandemia. Un triste binomio quello di un 2020, flagellato dal Covid, che ha portato come calcola l'Istat a un calo della popolazione in Italia di 384mila persone. "È come se non ci fosse Firenze" spiega l'Istituto nazionale di statistica, aggiungendo come "il record negativo di nascite dall’Unità d’Italia, registrato nel 2019", sia stato "di nuovo superato nel 2020". Gli iscritti in anagrafe per nascita sono stati appena 404.104, quasi 16 mila in meno rispetto al 2019 (-3,8%).

Calo nascite 2020, la distribuzione territoriale. La geografia delle nascite mostra un calo generalizzato in tutte le ripartizioni, maggiore al Nord-ovest (-4,6%) e al Sud (-4,0%). I tassi di natalità pongono la provincia autonoma di Bolzano al primo posto con 9,6 nati per mille abitanti e la Sardegna all’ultimo con il 5,1 per mille. "In tutti i mesi del 2020 si registrano valori percentuali inferiori a quelli dello stesso periodo del 2019, a eccezione di febbraio con il 4,5% in più, in parte dovuto al giorno in più nel calendario 2020. Il calo delle nascite - spiega l'Istat - si accentua nei mesi di novembre e soprattutto di dicembre (-10,3%), il primo mese in cui si possono osservare eventuali effetti della prima ondata epidemica".

Record decessi dal secondo dopoguerra. "Il quadro demografico del nostro Paese ha subito un profondo cambiamento a causa dell’impatto che il numero di morti da Covid" scrive l'Istat nel suo report, "ha prodotto sia in termini quantitativi che geografici". "Nel 2020 i decessi in totale ammontano a 746.146, il numero più alto mai registrato dal secondo dopoguerra, con un aumento rispetto alla media 2015-2019 di oltre 100 mila unità (+15,6%)". "Nel corso della prima ondata dell’epidemia (marzo-maggio 2020) i decessi a livello nazionale sono stati 211.750, quasi 51 mila in più rispetto alla media dello stesso periodo dei 5 anni precedenti (+31,7%). Di questi, i decessi di persone positive al Covid-19 registrati dalla Sorveglianza integrata ammontano a 34.079 (il 67% dell’eccesso totale)". L’aumento dei morti, rileva l'Istat, "si è concentrato nelle regioni del Nord, dove si sono sfiorate punte del 95% a marzo e del 75% ad aprile".

Crollo dei matrimoni. "L’osservazione dei dati, seppure provvisori, dei matrimoni e delle unioni civili celebrate nei comuni italiani nel corso del 2020 rivela un crollo significativo: i matrimoni, già in calo nel 2019, si riducono del 47,5% nel confronto con l’anno precedente, attestandosi a 96.687. A diminuire sono soprattutto i matrimoni religiosi (-68,1%) ma anche quelli civili registrano una perdita di quasi il 29%". "Nella fase di transizione (giugno-settembre 2020) - aggiunge l'Istat - con la contestuale riapertura di tutte le attività commerciali e dei movimenti sul territorio nazionale, non si osserva un significativo recupero dei matrimoni rimandati a causa del lockdown".

Imprese. A marzo 2021 si stima una flessione dell’indice del clima di fiducia dei consumatori (da 101,4 a 100,9) e un aumento dell’indice composito del clima di fiducia delle imprese (da 93,3 a 93,9). Per quanto attiene ai consumatori, la diminuzione dell’indice è dovuta ad un diffuso peggioramento sia dei giudizi sia delle aspettative sulla situazione economica generale e su quella personale. Rimangono stabili le attese sulla disoccupazione.

L'andamento dei flussi migratori. Nel corso del 2020 si contano in totale 1.586.292 iscrizioni in anagrafe e 1.628.172 cancellazioni. Mettendo a confronto l’andamento dei flussi migratori nelle quattro fasi in cui si può dividere convenzionalmente il 2020 (pre-Covid, prima ondata, fase di transizione, seconda ondata) con la media dei corrispondenti periodi degli anni 2015-2019, emergono significative variazioni in particolare per i movimenti migratori internazionali. Le iscrizioni dall’estero (220.533 nell’anno 2020), già in calo nel 2019 per la componente straniera, mostrano una diminuzione nei primi due mesi dell’anno (-8,8%) per poi crollare durante la prima ondata (-66,3%) e recuperare lievemente (ma sempre con una variazione negativa) nel corso dell’anno (-23,3% nella fase di transizione e -18,2% nella seconda ondata).

Bandiere a mezz'asta in tutta Italia. Giornata nazionale per le vittime del Covid, Draghi a Bergamo per ricordare le 103mila vittime. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Esattamente un anno fa, per la prima volta, i camion dell’esercito furono utilizzati per il trasporto delle salme a Bergamo. Persone morte di Covid, tante, troppe, al punto da mandare in tilt i sistemi di cremazione e sepoltura. Con il via libera dato all’unanimità dalla commissione Affari costituzionali del Senato, riunita in sede deliberante, è stata istituita per la data del 18 marzo la giornata nazionale delle vittime del Covid-19. Il presidente del Consiglio Mario Draghi parteciperà oggi a Bergamo all’evento, deponendo in mattinata una corona di fiori davanti al Cimitero monumentale della città. Più tardi, al Parco Martin Lutero alla Trucca si svolgerà l’inaugurazione del Bosco della Memoria con la cerimonia per la messa a dimora dei primi 100 alberi. Tricolore a mezz’asta su tutti i municipi del Paese per tutta la giornata. Il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, ha infatti inviato una lettera a tutti i sindaci affinché partecipino alla ricorrenza facendo osservare alle ore 11 un minuto di silenzio, in concomitanza con l’arrivo a Bergamo del presidente del Consiglio Draghi. Dalla commissione è arrivato anche l’ok unanime ad un ordine del giorno per facilitare gli indennizzi ai familiari delle vittime del virus. Si cerca di impegnare il governo a misure di legge “non solo simboliche ma concrete”. “L’approvazione in Senato della legge che istituisce il 18 marzo la Giornata nazionale in memoria delle vittime di Covid è per me motivo di profonda commozione essendone primo firmatario e promotore”, ha affermato il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia.

Commemoriamo i morti, ma non impediamo che ce ne siano altri. Giampiero Casoni su Notizie.it il 18/03/2021.  Oggi è la giornata dedicata alle vittime del Covid e ci sta, ci sta tutta. Ma se commemori i morti con energia ma non metti la stessa energia nell’evitare che altri morti ci siano, hai fallito. A incasellare date, commemorazioni, flash mob e solenni post it sul calendario noi italiani siamo campioni mondiali su un podio che non dividiamo con nessuno. Non lo facciamo perché a nessuno interessa come a noi passare l’evidenziatore sui nostri afflati emotivi. Di solito agli altri interessa un filino più di noi evitare che si creino le condizioni per la gara. D’altronde siamo il Paese che ha inventato il melodramma e ancora non si è capito se siamo melodrammatici perché lo abbiamo inventato o se è vero il contrario, cioè che essendo già melodrammatici di nostro ci è venuto facile inventarlo. Sta di fatto che oggi è la giornata dedicata alle vittime del Covid e ci sta, ci sta tutta. Ci sta per un fatto crudo che abbiamo incluso nel novero delle motivazioni ma che abbiamo ricoperto di orpelli come piace a noi: i morti non vanno dimenticati, specie se sono tanti e ammazzati serialmente da una faccenda che piega nazioni e sfianca il pianeta intero. Nessuno che voglia derogare dal concetto di civiltà potrà mai dimenticare le foto delle bare, i respiri strozzati intuiti dai frames video del tg, i funerali senza cari e la morte che in Italia falciava ogni giorno a grandi curve da covone. Fissato il preambolo empatico però, che è preambolo vero, dobbiamo dirci una cosa lieve di lessico e greve di polpa. E cioè che se commemori i morti con energia ma non metti la stessa energia nell’evitare che altri morti ci siano hai fallito. Hai fallito nella forma di ciò che vorresti si facesse didattica per le generazioni future e nella sostanza di quello che più che piangere, dovresti impedire. E basta sgranare il rosario mainstream delle cose che come sistema sociale complesso e come stato di diritto abbiamo fatto maluccio per capire di cosa stiamo parlando. Abbiamo avviato la lotta al Covid con ritardi, omissioni e miopie da quarto mondo. Abbiamo scoperto che la marginalità voluta che avevamo dato alla Sanità ci si è ritorta contro come un boomerang di roba calda e marrò. Abbiamo vissuto l’amarezza che le tare di quel sistema erano ataviche, ma lo abbiamo fatto solo dopo aver incontrato i grandi numeri della pandemia. Questo perché prima un esame oncologico alla mammella fissato a una data in cui la mammella ti è già cascata non faceva notizia, ma faceva già storia meschina. Poi abbiamo avviato una campagna di vaccinazione bradipa e ansimante a cui ha messo pezza fortunosa lo stop ad AstraZeneca. Una sosta ai box che ci ha permesso di latrare che ci hanno fermati giusto prima dell’Armageddon vaccinale. Abbiamo visto la politica dividersi fra cazzeggio concettuale e ripicche partigiane usando il Covid come grimaldello di consenso. Abbiamo visto noi stessi pronti a invocare regole per tutti e più pronti ancora a violarle. Abbiamo visto il peggio di tutti noi mitigato dal meglio che alcuni di noi hanno saputo dare in questo spaventoso frangente di cui oggi celebriamo il compleanno sghembo e orribile. Sono quei medici e quegli infermieri a cui noi oggi diciamo grazie piangendo i nostri morti e quelli degli altri. Pensando a quelli che non hanno potuto salvare e a quanto duro sia stato non riuscirci. Perché sarà anche vero che è beato quel Paese che non ha bisogno di eroi, ma è verissimo che è strabeato quel Paese che, ad averne bisogno, poi gli eroi li trova. Pochi per vincere subito, abbastanza per riscattarci dal melodramma di frignare senza agire davvero.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

La retorica patriottarda. Italia travolta dal Covid, troppi peana e pochi mea culpa. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Marzo 2021. A un anno dal dilagare dell’infezione, quella rispetto alla quale eravamo “prontissimi” già un paio di mesi prima, è possibile fare un bilancio meno retorico di quelli correnti? La conta dei tanti morti da parte dell’autorità pubblica dovrebbe adempiere a importanti operazioni statistiche e di monitoraggio, e invece è quotidianamente adoperata a pietistica e ipocrita interfaccia con il dolore di amici e parenti superstiti. E così la celebrazione dei meriti istituzionali (“lo Stato c’è” ), buona quando ne ammette le mende e pessima quando, come spesso accade, serve a sottacerle e a mandarle assolte. A bilancio ci sarebbe da mettere la condizione della democrazia rappresentativa, una cosa infibulata da un’azione di governo che lavorava a inibirne qualsiasi funzione ed era adibita a infertile dépendance di “Chigi”, una platea ammutolita cui il capo del governo faceva la concessione di una visita un paio di volte al mese: e intanto la vita civile ed economica dei cittadini era consegnata al capriccio incensurabile delle sue decretazioni personali, la giungla di comminazioni illustrate nelle conferenze stampa dove la domanda scomoda incontrava la minaccia di querela. Di fronte a questa realtà, celebrare lo “spirito democratico” di cui avrebbe dato prova il Paese durante la pandemia, come ha fatto l’altro giorno il presidente della Repubblica, lascia a dir poco soprappensiero. Un pizzico di retorica patriottarda è pur concessa nelle ricorrenze, ma il perdonabile eccesso laudatorio diventa pericoloso quando c’è rischio che vada a far toppa su un buco di verità: e la verità è che magari in buona fede, ma senz’altro, i responsabili dell’azione pubblica hanno lasciato andare il Paese verso l’esperienza autoritaria e di involuzione civile più grave da che esiste la Repubblica; così come è vero che il caro popolo italiano non ha mostrato di risentire in modo apprezzabile di quel degrado e anzi ha partecipato quasi festosamente al lockdown delle libertà costituzionali, questi impicci lungo il corso impeccabile del modello prefettizio e commissariale che nelle rappresentazioni governative suscitava le ammirazioni universali. Nelle cose da mettere a bilancio ci sarebbe poi altro, che non a caso sfugge alla ricapitolazione comunemente snocciolata. I migranti, per esempio, quelli che non puoi lasciare che “vadino” a infettare la brava gente italiana, una bella propaganda discriminatoria legittimata dal contrappunto adesivo dell’impostazione progressista secondo cui tra Covid e immigrazione c’è “una correlazione evidente”. E i detenuti, l’altra materia passiva delle retoriche sicuritarie che facevano tredici morti in un giorno nelle carceri sottoposte all’imperio di Magistratopoli, la strage di cui non valeva la pena di occuparsi perché prima veniva la gente perbene, quella che siccome ha già tanti guai deve almeno star sicura che ai carcerati non siano concessi troppi privilegi, tipo quello di sopravvivere. Sono scampoli di verità neglette, che meriterebbero invece riconoscimento se avessimo davvero a cuore di uscirne migliori.

Io, paziente numero uno in Puglia e la rabbia per chi nega ancora la pericolosità del virus. L'intervista al torricellese Massimo Mezzolla, primo pugliese contagiato dal coronavirus. Nazareno Dinoi su La Voce di Manduria sabato 20 marzo 2021. Il 25 febbraio del 2020 era un martedì quando la Puglia fu scossa dalla notizia del primo pugliese contagiato dal coronavirus. Massimo Mezzolla, 43 anni, era rientrato da Codogno dove si era recato per far visita a sua madre, ricoverata in una struttura residenziale per anziani, in seguito una delle tante vittime di quel primo cluster italiano del virus. Mezzolla abitava nel minuscolo paese di Torricella, poco più di 4mila abitanti in provincia di Taranto. Quel giorno le autorità sanitarie lo avevano già preso in cura sin dal mattino recandosi al suo domicilio per il tampone molecolare che confermò il coronavirus. L'opinione pubblica fu informata solo nel tardo pomeriggio, quando dall'ospedale Moscati di Taranto, dove era stato ricoverato, filtrò la notizia che avrebbe dato il via all'emergenza pandemica pugliese con effetti e numeri inimmaginabili allora. Oggi Massimo, carpentiere in ferro, dopo aver superato la malattia e gli insulti degli odiatori social che in quei giorni lo hanno letteralmente sommerso di offese e accuse, vorrebbe rappresentare l'anti-negazionismo: «il vero male di questo secolo, ancora più pericoloso del virus stesso», dice.

Primo pugliese che ha contratto il Covid-19, primo ad essere guarito e primo ad aver portato nella sua regione il ceppo di Codogno. Che effetto le fa?

«Naturalmente avrei preferito non rappresentare tutto questo. Ho perso mia madre, ho visto ammalarsi mia moglie e mio fratello e altri miei parenti. Di tutto questo avrei fatto volentieri a meno. Avrei anche evitato tutte le accuse che mi sono vomitate addosso. Le assicuro che non è stato facile».

Di quale colpe è stato accusato?

«Di essere stato uno sprovveduto, di aver portato il virus in casa, di aver cercato di nascondere il contagio; e sono solo le cose che si possono raccontare, perché gli insulti e le accuse preferisco rimuoverle e non darne conto. Io con la coscienza mi sento apposto, ho seguito scrupolosamente quello che mi dicevano i medici e le autorità che ho informato sin da prima di tornare in Puglia. Ho fatto il mio dovere e credo che la stessa cosa abbiano fatto le persone e gli uffici con cui mi sono rapportato in quelle prime ore. Sull'accusa poi di essere stato a Codogno, quando ancora non si sapeva quello che sarebbe accaduto, meglio non replicare: ero andato a trovare la mia mamma che in quel periodo era ospite di mio fratello che abita a 45 chilometri da Codogno. Non ero andato a divertirmi e se mi hanno fatto entrare in quella Rsa è perché a quel tempo si poteva ancora. Infatti l'ultimo giorno che io e mio fratello abbiamo cercato di tornare in quella casa di riposo ci hanno fatti tornare indietro. Ma evidentemente il virus lo avevo già preso».

A distanza di un anno, ha notato dei cambiamenti nei comportamenti della gente nei suoi confronti?

«Fortunatamente no. La gente che mi rispettava prima, lo fa anche oggi. Nei primi giorni delle mie uscite dopo la negatività al virus, notavo un certo timore nell'avvicinarsi ma era comprensibile. Oggi no, la gente non è cambiata con me né con la mia famiglia. Sono tornato a lavorare mettendomi in proprio e non ho problemi da quel punto di vista. Cerco di dare il mio contributo per quello che posso. Mi ero anche proposto per donare il sangue per il plasma iperimmune, ma purtroppo avevo gli anticorpi bassi e non è stato possibile».

Cosa è cambiato da allora? Dopo di lei il contagio non si è più fermato ed è ancora drammaticamente tra noi. Nota delle differenze tra quello che è stata la sua esperienza con l'attualità?

«Vedo con dispiacere e rabbia tante persone che ancora non credono o minimizzano la pericolosità del Covid. Capisco anche la rabbia di chi sta perdendo il lavoro, ma credo che costoro nella loro battaglia sbagliano il nemico numero uno che è il virus. Se penso a quello che ho dovuto sopportare io allora mi chiedo cosa meriterebbero questi che oggi sfidano il virus non rispettando le regole contro il contagio e diventando loro stessi veicoli del Covid? Non so proprio a questo punto cosa meriterebbero». Nazareno Dinoi

LA MEMORIA. Bergamo e Valle Seriana, in prima linea nei giorni più bui del Covid. Genitori, figli, sanitari, politici, militari. Dodici mesi dopo, i racconti di chi ha vissuto il dramma durante la prima fase della pandemia da coronavirus. Armando Di Landro, Fabio Paravisi, Silvia Seminati, Giuliana Ubbiali su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2021.

La dottoressa: tanta paura, a casa dei malati però andavo. La dottoressa Arianna Alborghetti risponde di fretta. A 35 anni, da due è medico di base titolare. Il giovedì, riceve i pazienti fino alle 18 nell’ambulatorio in centro a Bergamo. «Come va? Rispetto allo scorso anno non siamo più così spaesati. Ma i casi stanno aumentando, ci sono di nuovo nuclei ammalati. Sono felicemente vaccinata, vorrei un’accelerata per i miei pazienti». Con la famiglia di Albino, nella Valle Seriana più colpita, l’anno scorso era anche guardia medica ad Alzano, sempre Valle Seriana. «Arrivavano anche 100 telefonate a notte — torna indietro —, le saturazioni erano incredibili, mancava l’ossigeno». Pensa di aver preso il Covid: «A febbraio non si facevano i tamponi, tra colleghi ci chiedevamo: anche tu non senti gli odori?». Comunque, a casa dei pazienti è andata, bardata: «Paura? Molta, non per me ma per loro e per i miei familiari. Ho una mamma di 65 anni e una nonna di 91». Non dimentica un uomo arrivato in ambulatorio, a Bergamo: «Ricoverato, è morto dieci giorni dopo. Aveva 50 anni». (Giuliana Ubbiali)

Medico del 118: ho capito i limiti delle nostre conoscenze. Il 18 marzo 2020 il dottor Oliviero Valoti era malato di coronavirus, come il 70% degli operatori del 118 di Bergamo che lui tuttora coordina. «Lavoravo da casa, ma volevo rientrare al più presto» ricorda. Erano giornate frenetiche e paurose: « C’era una valanga di richieste d’aiuto e la nostra preoccupazione era di non riuscire a soccorrere tutti. A volte davamo risposta anche 10 ore dopo. E poi mancavano i mezzi da mandare. Qui davanti, al Pronto soccorso del Papa Giovanni, c’era una fila lunga centro metri di ambulanze in attesa per ore, tanto che spesso finivano l’ossigeno per i pazienti». Dopo i primi giorni di paura, l’atteggiamento di chi chiamava era cambiato: «Ne abbiamo notato il livello di dignità. Quando spiegavamo le difficoltà di intervenire rispondevano: capisco». Questo anno ha cambiato lo stesso medico: «La pandemia ha fatto capire a me e ai miei colleghi che le nostre conoscenze non servivano a granché. C’è una consapevolezza dei nostri limiti che ci portiamo dietro da allora». (Fabio Paravisi)

La figlia: dopo un anno nessun funerale per mio padre. Chiara Invernizzi racconta che il papà Armando era sempre «pieno di energia. La mattina aveva una battuta per tutti, la sera quando rientrava dal lavoro ci chiamava a raccolta, la mamma, io, mia sorella, nostro fratello, i cani anche, sempre ad alta voce. È un vuoto a cui non ci si può abituare». Il padre, artigiano di Azzano San Paolo, è morto a 66 anni il 27 marzo dell’anno scorso all’ospedale Papa Giovanni. Aveva avuto la prima febbre circa un mese prima e per alcuni giorni aveva anche continuato a lavorare. «Un anno dopo la ferita resta aperta — prosegue Chiara — è come se il tempo si fosse fermato, senza funerale non c’è stato nemmeno modo di elaborare quello che è successo. La cosa più assurda è che anche adesso, dopo 12 mesi, avremmo voluto fare una cerimonia per ricordarlo, forse un momento al cimitero con i parenti e gli amici più cari, ma non possiamo, perché ci troviamo ancora in zona rossa. Fa davvero male pensare che il sacrificio di mio padre o di molti altri non sia servito a nulla». (Armando Di Landro)

L’assessore: cimitero pieno. Così feci portare le bare in chiesa. Quando ricorda ciò che è successo un anno fa a Bergamo, si commuove. Ma in quei giorni difficili, appariva distaccato. Giacomo Angeloni è l’assessore ai Servizi cimiteriali di Bergamo. «Ho impiegato un anno — racconta — per rielaborare quei momenti». Fu lui a decidere di usare la chiesa del cimitero come camera mortuaria: «Non sapevamo più dove mettere le bare». Solo adesso ha scelto di mostrare la foto della cappella piena di feretri. Uno scatto fatto da lui con lo smartphone. «Un anno fa sarebbe stato irrispettoso pubblicarlo. Adesso — dice — bisogna lasciare un segno di quello che è successo». Pensa alle giornate in cui stava anche 14 ore al cimitero: «Ero sempre al telefono, a cercare forni crematori disponibili ad aiutarci». Ricorda il trasporto delle bare fuori Bergamo. La prima volta si fece di notte, per non creare clamore (anche se poi una foto sui social cambiò tutto). «Quella sera — dice — ero lì, un dolore misto a sollievo: avevamo trovato un modo per dare dignità a quei morti». (Silvia Seminati)

Lo steward: «Il mio scatto dal balcone di casa». Dal balcone di casa, aveva immortalato con il telefonino la processione dei camion dell’Esercito che attraversavano Bergamo. Un anno dopo, per Emanuele Di Terlizzi, 29 anni di Napoli, assistente di volo di Ryanair, il dolore è lo stesso: «Mi chiedono tutti di commentare questa fotografia, ma mi sento a disagio nel forzare e ripercorrere un tema così triste».

Il militare: «Io, alla guida del camion simbolo». Guidare un camion militare carico di bare. Un incarico, quello di un anno fa Bergamo, che ha segnato il caporalmaggiore dell’Esercito Tomaso Chessa. «Il pensiero si posa sul loro ultimo viaggio — aveva scritto sui social, mentre ora preferisce non parlare —. Spero un giorno di poter conoscere i loro cari. Se così non fosse, sappiano che ci ho messo l’anima».

Il giorno del ricordo delle vittime di Covid. Bergamo un anno dopo l’inizio della pandemia ancora in trincea: “Cataclisma, arrivati a 4mila pazienti”. Redazione su Il Riformista il 18 Marzo 2021. Il Covid-19 come “un vero tsunami”. Con effetti che, a distanza di un anno, si vedono ancora. Bergamo è stata la prima città italiana a soffrire davvero per la pandemia di coronavirus. Eppure, la trincea non è stata ancora smontata. Tutt’altro. “La prima ondata è paragonabile veramente a un cataclisma naturale che ha colpito in modo improvviso e inaspettato il nostro territorio”, confida la direttrice generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, Maria Beatrice Stasi, dopo l’accensione della fiaccola benedettina nella chiesa dell’ospedale. “Nella prima ondata qui – fa i conti – abbiamo curato 2.500 pazienti gravi, ne sono arrivati oltre 3mila in pronto soccorso e oggi, che siamo di fatto nella terza ondata, siamo già a quota 4mila pazienti transitati dal Papa Giovanni”. Ma la situazione preoccupa ancora. “Abbiamo 42 pazienti di terapia intensiva, oltre il 50% dei posti disponibili, e 150 pazienti ricoverati nei reparti ordinari. Numeri di tutto rispetto – sottolinea Stasi – che dicono che bisogna tenere alta la guardia e che occorre affrettare la campagna vaccinale”. Le immagini del 18 marzo di un anno fa, con i camion dell’esercito carichi di salme usciti dal cimitero monumentale di Bergamo e diretti in altre città del Nord per la cremazione, hanno fatto il giro del mondo e rappresentano “un ricordo drammatico”. “In quei giorni – racconta Stasi – ero anch’io malata di Covid. È stato scioccante, perché il timore di non farcela a curare tutti è stato un timore vero. Fortunatamente, adesso sappiamo com’è andata. Forse per questo siamo stati anche tanto amati, perché penso che qui ci si sia prodigati oltre l’inverosimile e l’umano, per certi versi”. La caccia ai nuovi posti letto di terapia intensiva è stata febbrile. Alcuni pazienti sono stati trasferiti allora dal Papa Giovanni con aerei militari tedeschi in Germania. “Pazienti che erano qui e si sono svegliati dall’altra parte dell’Europa in gravi condizioni e che sono stati molto spesso salvati”, racconta con un filo di voce la dg, a pochi passi dalla chiesetta dell’ospedale, vicino alla Torre 4. “Questo luogo – sottolinea – mi ricorda una messa in solitudine, il Venerdì Santo del 2020, celebrata dal vescovo Francesco Beschi. Dopo la celebrazione, ha detto: ‘Ho qualcosa da darvi a nome del Santo Padre’. E abbiamo scaricato delle scatole di mascherine che sono arrivate dal Vaticano. Un momento proprio di commozione. Lì abbiamo capito di essere davvero nel cuore di molti”. Dal canto suo, Ave Vezzoli, coordinatrice infermieristica del reparto di pneumologia dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, in occasione dell’inaugurazione del Bosco della memoria nella prima Giornata nazionale per le vittime dell’epidemia da coronavirus, racconta: “Alcuni ricordi rimarranno per sempre” e “ci siamo trovati a fare fronte a un elevato numero di perdite che non potremo mai dimenticare”. “Sono molto orgogliosa – conclude – di far parte di un sistema che non mi ha fatto mai sentire sola: si lavorava tutti, spesso senza una sosta ma con grande senso di unità”. (Fonte:LaPresse)

"Chiedevamo l'ossigeno dei morti". Ecco l'orrore patito da Bergamo. La Val Seriana un anno dopo la carovana di bare. La corsa per trovare una bombola. E le salme lasciate in casa per giorni. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. In occasione della Giornata per le vittime del Covid, per gentile concessione dell'editore Historica, pubblichiamo un estratto del Libro nero del coronavirus di Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. «I ragionamenti, chiaramente, si fanno sui dati ufficiali – ci racconta una insegnante della zona – ma la situazione, qui a Bergamo, è stata molto peggiore di quei numeri». A Nembro e ad Alzano Lombardo, come in tutti i paesi della Val Seriana, a parte gli ospedalizzati, moltissime famiglie si sono chiuse in casa a lottare per la vita. «Anche se non ci hanno colpiti direttamente, sentiamo il peso di tutti quei lutti e, purtroppo, ora che la situazione sta lentamente migliorando e la mente è più lucida, iniziano a emergere grandi domande su come è stata combattuta questa emergenza». Il 15 maggio, dieci giorni dopo l’inizio della «fase 2», i pazienti Covid nelle terapie intensive delle Asst Bergamo Est e Bergamo Ovest si sono azzerati. Il peggio sembra passato. Nei giorni di picco i malati ricoverati erano circa duecento. Nessuno, però, può accantonare il dolore. «Abbiamo vissuto giorni tremendi a contare i morti nei nostri quartieri – racconta ancora l’insegnante – a vedere ambulanze e a chiederci per chi dei nostri condomini fossero venute...». Chi ha patito l’orrore di quei giorni ci racconta di quanto fossero poche le bombole di ossigeno a disposizione: «Ad un certo punto questo ha portato alcune persone a telefonare alle famiglie dei defunti per sapere se per caso gli era avanzata mezza bombola». E chi ha visto morire il proprio caro in casa, a volte ha dovuto attendere anche fino a quattro giorni prima di veder arrivare qualcuno a ritirare la salma. «Tutta l’Italia è stata colta impreparata dal coronavirus – ci raccontano – ma Bergamo è stata una terra abbandonata a se stessa». Molti, infatti, non riescono a «digerire» le campagne di certi politici che, a inizio epidemia, hanno invitato i concittadini a condurre una vita normale. O perché, dinanzi ai grafici in salita, gli impianti sciistici siano comunque rimasti aperti fino ai primi di marzo. Negli occhi dei bergamaschi sono ancora vivide quelle fotografie che immortalano le loro montagne, affollate di sciatori sotto il sole primaverile, nello stesso fine settimana in cui il governo dispone ulteriori restrizioni per evitare che il contagio dilaghi. Sono stati anche questi atteggiamenti sconsiderati a portare il virus nelle altre valli, la Val Brembana e la Val di Scalve? «Prima avevamo tutti paura, adesso abbiamo tanta rabbia – ci spiega l’insegnante – bisogna andare a fondo di questa vicenda: sicuramente non cambierà il nostro dolore né servirà a cercare un qualche responsabile da mettere in croce, ma abbiamo il diritto di sapere come è potuta accadere questa strage». I numeri, appunto, sono quelli di una strage. Sul calare estivo dell’emergenza L’Eco di Bergamo conduce un’attenta indagine tra i Comuni bergamaschi per cercare di svelare il numero esatto delle persone morte nel solo mese di marzo. «Sono 5.700, di cui 4.800 riconducibili al coronavirus – si legge – quasi sei volte in più di un anno fa. I numeri ufficiali, invece, dicono che al 31 marzo erano 2.060 i decessi certificati positivi al Covid 19». Un’ecatombe, insomma. Bergamo, Milano, Roma. È su questa direttrice che si gioca la drammatica partita bergamasca. «Ricordo quei momenti, ricordo una situazione comprensibilmente discussa. Maneggiavamo tutti delle incertezze: noi tecnici stavamo dando un consiglio che non avremmo mai voluto dare e chi ci governa doveva prendere decisioni che non avrebbe mai voluto prendere», racconta una fonte della task force di Regione Lombardia. Perché non è stata fatta alcuna zona rossa? Chi doveva agire, alla fine non si è mosso. «Se fossimo stati più convincenti, forse avremmo guadagnato anche solo tre o quattro giorni nella decisione del governo e avremmo limitato i danni».

Coronavirus, Mario Sorlini: «Ad Albino morivano come mosche. E noi medici non sapevamo da dove cominciare». Il decano dei dottori della cittadina: «In marzo ho perso 25 assistiti in 21 giorni. In coda dietro alla colonna dei camion dell’esercito che trasportavano le bare mi aggrappai al volante chiedendomi perché Dio ci stesse facendo tutto questo». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 18 marzo 2021. «In quelle bare portate via dai camion militari c’erano un mio assistito e un mio amico di infanzia. Tornarono a casa solo dopo quaranta giorni». Ricordare quel che non si potrà mai dimenticare. Mario Sorlini è il decano dei medici di base bergamaschi, quarant’anni di onorata professione nella sua Albino, che siccome è incastrata tra Alzano Lombardo e Nembro ne hanno parlato in pochi, ma è stato uno dei Comuni con il maggior numero di vittime per numero di abitanti.

«Due giorni dopo ci fu un’altra spedizione. Ero in auto e rimasi bloccato dietro una colonna di mezzi dell’esercito che sembrava infinita. Mi appoggiai al volante, chiedendomi perché Dio ci stesse facendo questo».

Quando ha capito cosa stava succedendo?

«Troppo tardi, come tutti. Mattina del 24 febbraio. Una telefonata dietro l’altra. Così, senza nessuna avvisaglia. I miei assistiti si ammalavano uno dopo l’altro. Cento chiamate al giorno. Avevo 1.600 assisiti. Ogni anno ne perdevo un paio per l’influenza. Lo scorso marzo ne sono morti 25 in 21 giorni, quasi cinquanta alla fine di quel mese. Quando si dice la strage di Bergamo, ecco, si tratta di questo. Per tre settimane i miei compaesani, la gente della nostra provincia, morirono come mosche».

Come affrontò questa tragedia?

«Al di là della Tachipirina, che era un po’ come fermare il mare con le mani, non sapevo nulla di questo virus. Cercavo di curare sulla base dell’esperienza, e della conoscenza dei miei malati. Mi sono sentito inadeguato, lo confesso».

Andava per tentativi?

«Abbiamo fatto medicina africana, nel senso che abbiamo provato cure artigianali. Oggi ne sappiamo di più ma ancora non esiste una terapia vera e propria. La strage di Bergamo insegna che alla gente si deve dire la verità, sempre».

Le foto dei camion militari davanti al cimitero cambiarono qualcosa?

«Dopo aver visto quelle immagini, la maggior parte delle persone cominciò ad avere paura di andare all’ospedale. I miei pazienti mi imploravano di lasciarli a casa. Avevano ragione. Un mio mutuato di 82 anni mi impedì di chiamare l’ambulanza. I suoi due amici che si erano contagiati con lui vennero ricoverati. E sono morti. Lui si è salvato».

Merito anche suo?

«No. Davvero. Io non sapevo cosa dare. Per fortuna, ho scelto di non somministrare ai miei pazienti l’idrossiclorochina, il famoso Plaquenil che allora andava per la maggiore. Meno male».

Si è sentito abbandonato?

«Era compito della Regione Lombardia dirci cosa dovevamo fare. Ma questo sempre con il senno di poi. In quei giorni non ci pensavo. C’era solo da tamponare, fare radiografie, mandare persone che curavo da una vita al Pronto soccorso, senza sapere se le avrei mai più riviste. Un mio anziano paziente di Albino andò in coma. Si svegliò un mese dopo, in una terapia intensiva di Catanzaro».

Quanto hanno pesato ritardi e indecisioni delle autorità?

«Qui è successo qualcosa di enorme. Impossibile da prevedere. Poi, certo, in quei giorni noi medici non avevamo alcun mezzo di protezione, alcun protocollo. Per dire, i saturimetri ce li siamo dovuti andare a prendere da soli, in Svizzera. Ma in me il fatalismo prevale su qualunque indignazione. È andata così».

Sono possibili paragoni con il presente?

«Per carità. Questa terza ondata è nulla rispetto a quel che è stato».

Ricorda quando finì?

«Il virus è andato via ad aprile inoltrato. E ancora non sappiamo perché. Quando vedo in televisione miei colleghi pieni di certezze sul Covid, cambio subito canale».

Se lei fosse Mario Draghi, oggi cosa direbbe?

«Vaccinare, e poi resistere, sempre, come abbiamo fatto noi. Perché nulla può essere peggio di quel che ha vissuto la gente di Bergamo».

La speranza che piega il male. Un anno fa, le immagini dell'esercito a Bergamo. Cosa è rimasto di quei giorni? Matteo Carnieletto - Gio, 18/03/2021 - su Il Giornale. "Signore - chiese don Camillo - se è questo ciò che accadrà, cosa possiamo fare noi? Il Cristo sorrise: 'Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede'". Così il Cristo dell'Altar maggiore risponde a un don Camillo preoccupato dal nulla che avanza. Bisogna salvare il seme: la fede. Che diventa speranza perché basata sulla certezza che il male non può vincere. Et portae inferi non praevalebunt, le porte dell'inferno non prevarranno, dice il Vangelo di san Matteo. "Andrà tutto bene", si diceva durante i primi giorni della pandemia. Così non è stato. In poche settimane i canti e i balli sui balconi hanno lasciato spazio alle lacrime e alle bare. Le città erano - e sono ancora oggi - vuote. Spettrali. Ciò che fino a pochi giorni prima dell'arrivo del Covid-19 era considerato normale (il socializzare) cominciava ad esser visto con sospetto. Si iniziava ad aver paura del prossimo, visto prima come potenziale untore, e solo in un secondo momento, come un essere umano. A furia di urlare "andrà tutto bene" abbiamo perso la speranza. La fede. Il culmine della tragedia, come è noto, è arrivato il 18 marzo scorso. Una notte impossibile da dimenticare. Quel giorno, infatti, i camion dell'esercito arrivarono a Bergamo per portar via i corpi di coloro che erano stati uccisi dal Covid-19. Il capoluogo orobico non aveva più spazio per dare riposo ai suoi stessi figli, che dovettero cercare il riposo eterno altrove. Questo è ciò che il 18 marzo rappresenta per il nostro Paese. Ed è per questo motivo che oggi il presidente del Consiglio, Mario Draghi, si recherà a Bergamo. Per ricordare che no, non è andato tutto bene. Che qualcosa è andato storto, che tante famiglie hanno perso delle persone che amavano. Per me, però, il 18 marzo è anche la speranza. Tutto è iniziato con una telefonata, nel cuore della notte: "Si sbrighi, sua moglie sta per partorire. Ci vediamo in sala parto". Una questione di minuti, la corsa in ospedale e le ostretiche di turno che ascoltano le notizie su questo strano virus arrivato da poco. Poi l'urlo improvviso di chi vuol prendersi la vita: "Ci sono anche io", sembra dire la piccola arrivata. Nonostante tutto. Nonostante il male e la sofferenza che avanzano. Perché non è vero che nella vita tutto va bene. Ci sono vittorie e sconfitte. Ci sono gioie e dolori. Ci sono salute e malattia. Ci sono amore e tradimenti. In quell'urlo c'è il vero "andrà tutto bene". Che non significa che nella vita non ci saranno sofferenza e dolori. Che le malattie scompariranno insieme alla morte. Significa che la vita e l'amore sono più forti di tutto. Come ha scritto John Ronald Reuel Tolkien: "Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l'amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte".

RADICAL CHIC - Un passo avanti e due indietro: il nostro anno di Covid. Eva Kant su Il Quotidiano del Sud il 14 marzo 2021. Un anno esatto. E siamo al punto di partenza. Praticamente tutta l’Italia in lockdown. Anzi no, ora si dice zona rossa. Cambiano nomi e definizioni, ma le restrizioni e i divieti sono gli stessi. Ricordate marzo 2020? Tutti a casa, attività chiuse salvo quelle essenziali. Si può uscire solo nel proprio quartiere, con l’autocertificazione e per motivi seri, necessari, tipo fare la spesa o andare in farmacia. Niente sport, nemmeno più lezioni di aerobica sui tappetini fitness comprati da Decathlon magari online. L’altro giorno passeggiavo in un parco vicino casa, bella mattinata con tanto sole. E ho visto una serie di persone, per lo più donne devo ammettere, sistemate in circolo su un prato verde, tutte a fare gli stessi esercizi indicati da un istruttore che evidentemente ha pensato di raggranellare così qualche spicciolo visto che le palestre è una vita che sono chiuse. Non si potrà più fare nemmeno questo, non in gruppetti anche se distanziati. Sport consentito vicino casa e individuale, con la mascherina. Mi aspetto di vedere di nuovo tanti padroni di cani portarli a fare i loro bisogni più volte al giorno, per la felicità (chissà) dei vari Fido. Spero di non dover fare più lunghe file fuori dai supermercati come accadeva regolarmente a marzo e anche aprile dello scorso anno. E, detto tra noi, spero di non sentire più le persone tutti i pomeriggi alle 18 in punto affacciate ai balconi per cantare ed esporre striscioni con scritto su “tutto andrà bene”. La prima volta fu una sorpresa (frequento poco i social e cosi l’ho scoperto sul momento), la seconda fu piacevole, la terza – mentre  ero davanti al mio pc – mi chiesi che cosa avrebbero cantato. La quarta ho chiuso la finestra per non sentirli, non riuscivo a concentrarmi sul lavoro. E poi adesso mi sembrerebbe tutto così retorico. È passato un intero anno, sono morte solo in Italia oltre centomila persone, 317 ancora oggi. Ci avevano detto: fate i bravi, seguite le nostre istruzioni/imposizioni e riusciremo a sconfiggere il nemico invisibile. In estate ci avevamo quasi creduto. Poi siamo ripiombati nell’incubo. Non ci dicono più: “buoni, state buoni, che a Natale  potremo riabbracciare i nostri cari”. Il 25 dicembre e poi il 26 e anche il 31 la maggioranza di noi li ha passati chiusi in casa, al massimo con i parenti conviventi e gli altri li abbiamo visti e salutati attraverso gli schermi dei telefonini e degli ipad. Pasqua sarà uguale. Ci siamo rassegnati. È passato un intero anno e sembra tutto uguale. Ma a pensarci bene non è così. Sono arrivati i vaccini e, a essere sinceri, nessuno ci credeva che li avremmo avuti a disposizione così presto. Ancora una volta gli italiani si sono dimostrati un popolo che impara subito e presto: Ptifzer, Moderna, Atrazeneca, Sputnik, Jhonson. E ancora una volta, come in una qualunque partita del campionato di calcio, siamo tutti “allenatori” esperti. Meglio questo che quest’altro, “mi raccomando  cerca di schivare quello” che tanto serve a poco. Da quando si temeva che bisognava “convincere”  gli italiani a farsi vaccinare siamo passati all’impazienza, ai soliti furbetti, che sono riusciti a farsi inoculare la dose prima di altri. Il Covid non è riuscito a prevalere sui soliti vizi italici. Gli esperti, quelli veri, hanno continuato ad azzuffarsi tra di loro in tv. Poi sono arrivate le notizie ferali: “morto poche ore dopo il vaccino”. Uno, due, tre in Italia e così in altri paesi. Sono morti collegate al vaccino?  No, non lo sono, assicurano. Ma c’è un lotto di Astrazeneca incriminato, che viene ritirato e bloccato praticamente  in tutta Europa. E noi, che non siamo esperti, che i virologi prima del marzo 2020 quasi non sapevamo manco chi fossero, noi che non siamo allenatori di niente se non della nostra mente, ora viviamo nella confusione più totale. Ci possiamo fidare davvero? Non abbiamo risposte e ci chiudiamo sempre più in casa, zona rossa o gialla o arancione. Non possiamo fare altro che prendere ad esempio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e aspettare , senza scalmanarci più di tanto,  il nostro turno. Quando arriverà faremo il vaccino. Incrociando le dita e sperando di non essere in quello 0,001 per mille che svilupperà un micidiale effetto collaterale. Le alternative d’altronde sono solo due: vivere sepolti nella nostra casa, o peggio ingrossare l’interminabile lista dei morti per Covid. E noi invece abbiamo un solo grande desiderio: ritornare a oltre un anno fa, alle nostre vite incasinate e a volte anche complicate. Ma erano le nostre. E le rivogliamo.

Il ricordo di Fontana ad un anno dalla foto simbolo dell’infermiera. Riccardo Castrichini su Notizie.it il 09/03/2021. Un anno fa la foto simbolo dell'infermiera che dorme: il ricordo di Fontana. Esattamente un anno fa, quando l’Italia intera entrava in lockdown, la Lombardia era già alle prese con l’emergenza coronavirus e nei suoi ospedali cominciava a verificarsi quello che da li a poco avrebbe riguardato l’intero territorio nazionale. Il 9 marzo dello scorso anno arrivava anche dall’ospedale di Cremona la foto dell’infermiera Elena Pagliarini che stremata dai pesanti turni di lavoro riposava poggiando la testa sulla scrivania. A scattare l’instantanea era stata la primaria Francesca Mangiatordi. Quell’immagine era servita a sensibilizzare i cittadini in merito a cosa stesse accadendo negli ospedali e aveva portato a quel senso di unione che aveva contraddistinto l’Italia durante tutto il lockdown di marzo e aprile. “Un anno fa – scrive il presidente lombardo su Facebook – questa foto dall’ospedale di Cremona faceva il giro del mondo. L’immagine immortalava la fine di un turno, oggi siamo alla fine di un intero anno di lavoro e restrizioni: la stanchezza si fa sentire con più intensità”. Un anno dopo il territorio lombardo e non solo è alle prese con la terza ondata della pandemia, resa ancora più virulente dalla circolazione delle varianti del virus, che riescono a diffondersi con maggiori facilità, ma attenzione a non commettere l’errore di pensare che tutto sia come lo scorso anno. È questo il monito che lancia Fontana scrivendo: “Sappiamo come proteggerci. I nostri medici e infermieri sono più consapevoli e, soprattutto, 400.000 dei nostri Operatori Sanitari sono vaccinati. Facciamo quasi 60.000 tamponi al giorno per tracciare e isolare. Siamo a 850.000 vaccini fatti e, dato che sicuramente ci fa ben sperare, constatiamo nelle categorie già vaccinate una drastica diminuzione dei contagi”. Una sfida lunga e tortuosa quella contro il covid, nella quale però il governatore leghista rivendica anche alcuni importanti posizioni raggiunte dall’Italia nella lotta alla pandemia. “I vaccini in uso – sottolinea Fontana – stanno dando ottimi risultati sia nella sicurezza che nell’efficacia e ciò va ben oltre le migliori aspettative di un anno fa. Ancora per questo mese i vaccini arriveranno a rilento, da aprile ci auguriamo che la storia cambi per partire con la campagna vaccinale aperta a tutti”. Poi l’invito a non mollare, a rimanere uniti anche in questa fase finale della battaglia: “Non molliamo all’ultimo miglio. Lottiamo per trovare la fine dell’emergenza e con essa la vera libertà”.

Riccardo Castrichini. Nato a Latina nel 1991, è laureato in Economia e Marketing. Dopo un Master al Sole24Ore ha collaborato con TGcom24, IlGiornaleOff e Radio Rock.

Un anno dal lockdown, come siamo cambiati. Giampiero Casoni su Notizie.it il 09/03/2021.

Quel 9 marzo del 2020 ognuno ce lo ha stampato a fuoco nel cervello e nell’anima. Nell'ultimo anno abbiamo declinato il concetto di paura in una gradazione di cui non conoscevano l’esistenza. Il calendario, che è giudice freddo e tignosamente legato ai numeri, ci dice che oggi è il compleanno del lockdown. Un anno intero passato a centellinare nella testa questa parola inglese di cui prima potevano fare benissimo a meno, e di cui faremmo volentieri a meno oggi, ma per altri motivi. Ma il calendario, che è bestia senz’anima e comiziante di numeri, non dice una cosa. Che in questi dodici mesi noi non ci siamo limitati a centellinare una parola, no. Nell’ultimo anno noi abbiamo declinato il concetto di paura in una gradazione di cui non conoscevano l’esistenza; una guerra la puoi guardare cinico, buonista o sinceramente empatico mentre miete vite di altri, una pandemia prima o poi sarà faccenda tua.

Quel 9 marzo del 2020 ognuno ce lo ha stampato a fuoco nel cervello e nell’anima. Con un’immagine, un frame di vita, una sfumatura emotiva tutta sua, una per ogni declinazione dell’essere uomini. Conoscevamo il virus ma non sapevamo ancora la portata infida della sua mission. Questo perché nei sistemi complessi e a casa nostra la percezione di un pericolo reale è stemperata da due fattori: la distanza guicciardiniana e meschinella fra ciò che accade agli altri e ciò che non accadrà mai a noi e il regionalismo, antica crepa italiana da cui mai ci affrancheremo, si accettano scommesse. I contagi erano "nordici" o territoriali e comunque noi ci sentivamo al sicuro, beotamente inquieti ma tutto sommato al sicuro. Ecco perché l’immagine catodica di Giuseppe Conte che ci ordinava di chiuderci in casa e che ci diceva che la nostra vita non l’avremmo pilotata più noi ci ghiacciò l’anima. Perché per noi covid non era fuffa, ma non era ancora mostro. Lo avremmo capito con altri due step: ammalandoci noi e iniziando a contare chi iniziava a morire a mazzi, non più ad unità. Le bare di Codogno, i giorni passati nella mistica dell’Amuchina prezzata in mood cocalero, gli step serali della Protezione Civile, i numeri, le percentuali, il panico se un genitore anziano iniziava a tossire. E poi quegli acronimi nevrili, Dpcm, gli affetti sparati via dalla nostra sfera di controllo dalle nuove geografie di profilassi. Arrivammo a Pasqua con una mascherina sul grugno e una sul cuore, a contenere la voglia irrefrenabile di urlare la paura. E quel concetto, “pandemia”, che ci dava la cifra di come il mondo su cui camminavamo fosse in bilico, in bilico davvero. Maggio ci colse stanchi, capelloni e sporchi, pronti ad uscire di casa divisi fra terrore di vederci attaccata in gola quella morula nana e schifosa e la paura che l’autocertificazione non fosse bastevole a sedare i carabinieri che ci guatavano. Abbiamo preso respiro con l’estate e ci siamo illusi, ma non fatecene una colpa: il virus aveva allentato la morsa e noi avevamo il sistema nervoso in pappa. Molti di noi si limitarono a qualche ora di benedetta luce in più, facemmo l’amore con le compagne, accarezzammo le madri e portammo i bimbi al parco. Altri esagerarono, nelle faccende umane va sempre così. Abbiamo riposto pinne, fucile ed occhiali giusto in tempo per vedere che no, non era finita. E siamo scivolati, fra decreti, ordinanze, nuovi contagi e una consapevolezza più affinata, verso un Natale bislacco e blindato. Volevamo, dopo 10 mesi, che quella Nascita fosse step da cui ripartire, eravamo davvero stanchi. Forse è stato per questo che mentre la politica terremotava i suoi asset e ci avviavamo a cambiare nocchiero la sola cosa che ci interessava era che finisse. Ambigui anche in questo, abbiamo sperato che le risposte ce le dessero le stanze dei bottoni. Mentre il lockdown si apprestava a spegnere la sua prima candelina qualcuno ci ha detto che forse quelle erano stanze dei bottini e che il mostro poteva essere affrontato meglio. Arrivarono i vaccini e conoscemmo la lentezza non come concetto, ma come totem da abbattere a roncolate, ma abbiamo ancora oggi un falcetto smussato. E oggi siamo qui, attorno al tavolo dove le nostre miserie di popolo soffiano sulla torta amara della nostra reclusione. Esattamente un anno dopo da quel televisore acceso siamo ancora chiusi dentro. Perché il calendario è una brutta bestia: ti dice che è passato un anno ma non conosce nessuno dei tormenti che in ogni singolo giorno di quell’anno ci hanno portato via la gioia. A qualcuno hanno portato via la vita, ed è a loro che dobbiamo la pazienza con cui, a vedere il lockdown che spegne la sua candelina, ci prepariamo ai nuovi cimenti. Forse migliori di prima, forse peggiori per sempre.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

L’Italia a un anno dal lockdown, alla vigilia della terza ondata. Lisa Pendezza su Notizie.it l'08/03/2021. Il reportage dagli ospedali Santi Paolo e Carlo a un anno esatto dal primo lockdown, in un'Italia sospesa tra lo spettro della terza ondata e la speranza di uscire dall'incubo grazie al vaccino. Ci sono momenti spartiacque che dividono la storia in un “prima” e un “dopo”. La liberazione del campo di Auschwitz, la caduta del muro di Berlino, il primo passo dell’uomo sulla Luna, l’11 settembre. Il coronavirus ha aggiunto un altro segno indelebile sul calendario: il 9 marzo 2020, quando l’allora premier Giuseppe Conte ha firmato il provvedimento “Io resto a casa” e ha tinto per la prima volta tutta l’Italia di quel rosso che da allora abbiamo imparato – tristemente – a conoscere. Quella che sembrava una serata come tante si è trasformata nell’inizio del primo lockdown nazionale. Le parole danno forma al nostro mondo, al nostro modo di pensare. In 12 mesi abbiamo dovuto aggiornare il nostro vocabolario e imparare a usare i termini lockdown e quarantena. Abbiamo ridotto la nostra tavolozza a tre colori: giallo, arancione e rosso, più o meno scuri (anzi, rafforzati). Abbiamo familiarizzato con bilanci, bollettini e conferenze stampa e imparato a leggere tabelle ministeriali che giorno per giorno ci dicono se stiamo andando verso la luce o verso il baratro. Abbiamo imparato la differenza tra decreti legge e Dpcm, tra sintomatici e asintomatici. Abbiamo soppesato tutti i nostri rapporti per decidere chi può essere considerato un congiunto. Il nostro mondo si è ristretto improvvisamente e oggi guardiamo agli altri Paesi non come mete di un viaggio ma per le varianti che producono: inglese, brasiliana, sudafricana, nigeriana. Ci siamo abituati a uscire di casa con timore, brandendo l’autocertificazione come fosse uno scudo e chiedendoci a ogni posto di blocco se il nostro è davvero un “valido motivo”. Abbiamo esultato per quello che sembrava un traguardo irraggiungibile, l’arrivo di un vaccino che rappresenta la sola via d’uscita da questa realtà distopica a cui abbiamo dovuto fare l’abitudine, o almeno provarci. “È passato un anno ma mi sembra che si stia ricominciando da zero“. Mentre pronuncia queste parole, gli occhi della professoressa Antonella D’Arminio Monforte – infettivologa e direttrice di Malattie Infettive all’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano – non riescono a nascondere la stanchezza e l’avvilimento “perché si sperava che il 2021 fosse l’anno della rinascita, ma per ora non è così“. La mente torna a un anno fa, ai primi di marzo, quando si è infranta l’illusione che questo nuovo male potesse restare confinato in Cina: “Abbiamo capito che la situazione era grave quando abbiamo iniziato ad avere 40 persone in pronto soccorso che non riuscivano a respirare. È stato uno shock“. Lì, in pronto soccorso, c’è anche Sergio, l’infermiere che ha accolto il primo paziente Covid dell’ospedale San Carlo. “Eravamo preoccupati fin da quando è stata proclamata la prima zona rossa a Codogno, ci aspettavamo che prima o poi l’emergenza sarebbe arrivata anche da noi” racconta. La situazione è precipitata una sera come tante, quando “è arrivata in ambulanza una signora residente a Milano ma che lavorava a Codogno, aveva febbre altissima e respiro affannoso. Non ce l’ha fatta, forse aveva aspettato troppo, ma il virus nella prima ondata era davvero aggressivo“. A partire da quel momento tutto è cambiato. La voce di Sergio si incrina: “Abbiamo dovuto stravolgere ogni piano, riorganizzare l’ospedale, improvvisare per contenere queste ondate di pazienti che arrivavano anche a 90-100 al giorno. Ho visto morire 11 persone in un turno di 7 ore“. Alla morte non ci si abitua mai, non esiste un anestetico che renda sopportabile pensare che in 12 mesi l’Italia ha visto morire oltre 100 mila persone, una media di poco meno di 300 al giorno (numeri che dovrebbero far rabbrividire qualsiasi negazionista). “All’inizio della mia carriera ho vissuto un’altra epidemia drammatica, quella dell’AIDS” ricorda D’Arminio Monforte. “Noi giovani medici, appena entrati in servizio, abbiamo visto gente della nostra età morire come mosche“. Oggi la sensazione di impotenza e turbamento è la stessa: “Allora morivano i giovani della mia età, ora muoiono gli ‘anziani’ della mia età. Trovarsi di fronte alla morte non smette mai di fare effetto“. Di quel marzo 2020 le è rimasto, indelebile, “il ricordo delle sirene delle ambulanze nel deserto della città, uno spettacolo lunare, post apocalittico. Mi è rimasto il volto delle persone che sono morte, ma anche i gesti di solidarietà verso medici e infermieri“, quegli eroi diventati troppo presto untori quando anche la voglia di cantare dai balconi e di dipingere arcobaleni si è esaurita. Per Matteo Stocco, direttore generale dell’Asst Santi Paolo e Carlo, il punto di non ritorno è stato una domenica in cui “avevamo difficoltà a garantire le protezioni per i nostri operatori. È stata una giornata terribile, abbiamo mandato i nostri fattorini a cercare protezioni in altri ospedali“. “Quello che più mi ha colpito di questo anno di pandemia sono le videochiamate, sia quelle belle che quelle brutte, quelle in cui i pazienti chiamavano a casa per dire addio” aggiunge Sergio. Ma anche “vedere i pazienti dentro i caschi CPAP che, pur sapendo che quel dispositivo era l’unica cosa che poteva salvarli, dovevano combattere continuamente contro se stessi e il desiderio di strapparselo. In quei momenti dovevamo mettere da parte tutto il resto, sederci accanto a loro e convincerli a resistere ancora un po’“. Vita professionale e personale si intrecciano in un groviglio di preoccupazioni che pesano ancora oggi come un fardello. Quando l’incubo è cominciato “mia moglie era al settimo mese, aspettava due gemelline” continua l’infermiere. “Non ho potuto assistere al parto né vedere mia moglie e le mie figlie per una settimana. Anche dopo, quando ho potuto riabbracciarle, ho vissuto con la preoccupazione di poter portare il virus dentro casa. È la cosa che più mi spaventa ancora oggi“. Un anno fa “ci sembrava di essere in guerra, anzi, eravamo in guerra. Ora lo siamo ancora ma non ci troviamo più al fronte, siamo in trincea: è diventata una situazione di routine, un deja-vu” spiega l’infettivologa. Anche l’adrenalina, quella che ha permesso a migliaia di medici e infermieri di trasformarsi in eroi, è finita. Ora a prevalere è la stanchezza. Per Sergio “questo ultimo anno è come un unico giorno che non finisce mai. La prima ondata non è mai finita, così come la seconda. Ora si parla della terza, ma la verità è che questa pandemia è come un’altalena con dei picchi e dei momenti di relativa calma, ma non c’è un solo giorno in cui non accogliamo almeno un paziente Covid”. Ai sanitari di ogni ospedale d’Italia è stato e viene ancora chiesto uno sforzo immane per permettere a tutti noi di vincere questa guerra. Ma come si fa a trovare la forza di continuare a combattere se, una volta tolta la tuta e lasciato alle spalle il reparto, ci si imbatte in gesti irresponsabili come gli assembramenti in Darsena, a Milano, alla vigilia della zona arancione? “Vedo ragazzini senza mascherina, che si passano la birra o la sigaretta. Tutti abbiamo avuto 14-16 anni, so che a quell’età ci si sente invincibili, ma se ognuno di noi non fa la sua parte sarà difficile venirne fuori rapidamente” commenta Sergio. “Non credo che i giovani siano totalmente insensibili, credo piuttosto che ci sia molta insofferenza” aggiunge la professoressa D’Arminio Monforte: “Il senso civico è stato molto forte all’inizio, in ogni fascia d’età, ma l’isolamento produce danni. C’è chi non ce la fa più“. A un anno esatto di distanza da quel 9 marzo 2020, si leva sempre più forte la voce di chi chiede un nuovo lockdown per scongiurare un ulteriore aumento dei contagi, ma anche tra i medici e gli esperti c’è chi invita alla prudenza. “Non si può paralizzare un Paese per un anno, non è solo una questione di economia e di lavoro ma anche di stabilità mentale” spiega la professoressa. “Le chiusure devono essere localizzate, come si sta facendo in questo momento. Ma soprattutto, più che di un lockdown, c’è bisogno di vaccinare“. L’unica speranza di porre fine rapidamente alla pandemia è racchiusa in una fiala di vetro non più grande di una falange. Se qualcosa è davvero cambiato rispetto a un anno fa, è proprio questo: ora abbiamo a disposizione un’arma contro il virus che ha messo in ginocchio il mondo intero. È il momento di usarla bene e in fretta perché, come ricorda il dottor Stocco, l’incubo “finirà solo quando saremo tutti vaccinati o quando avremo tutti contratto il virus e avremo sviluppato gli anticorpi“. In questa corsa contro il tempo sono ancora loro, medici e infermieri, i nostri eroi in prima linea. Come quelli in servizio al COM (Centro Ospedaliero Militare) di Milano dove a partire dal 4 marzo è stato aperto un nuovo padiglione in collaborazione con l’ASST Santi Paolo e Carlo. Alle 750 somministrazioni al giorno se ne aggiungono così altre 600, quasi raddoppiando l’offerta vaccinale tra le dosi Pfizer destinate agli over 80 e quelle Astrazeneca per il personale scolastico e le forze dell’ordine fino ai 65 anni (e presumibilmente oltre, dopo il via libera del Ministero). Non c’è timore, solo speranza e fiducia negli occhi degli over 80 che – al drive through o nel padiglione appena inaugurato – arrotolano la manica e porgono il braccio al medico. E, di riflesso, negli occhi di tutti noi si ravviva la speranza che presto lockdown e zone rosse appartengano solo ai libri di storia e di non dover mai più vedere l’esercito sfilare per le strade a portare via i nostri morti.

Lisa Pendezza. Giornalista pubblicista classe 1994, nata in provincia di Monza e Brianza, è laureata magistrale in "Lettere moderne" presso l’Università degli Studi di Milano. Ha scritto per la rivista Viaggiare con gusto.

Covid, un anno di confusione e fallimenti. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 5 marzo 2021. Era il 21 febbraio del 2020 quando è stato rilevato il primo caso di Covid in Italia a Codogno. Da quel momento tutto il Paese si è ritrovato a fare i conti con l’emergenza sanitaria. Dopo quella data la confusione e gli errori hanno preso il sopravvento in ogni aspetto della gestione dell’emergenza. Inutile girarci intorno: l’Italia nella lotta contro l’epidemia sta uscendo drasticamente ridimensionata e sempre più vulnerabile. In questa occasione tutte le falle del “sistema Paese” sono venute al pettine.

Quella sottovalutazione che ha aperto le porte al virus in Italia. Era il 2 febbraio del 2020 quando a Wuhan veniva consegnato il primo Covid hospital costruito appositamente per fronteggiare l’emergenza sanitaria. In Italia la Cina appariva lontana, il Sars-CoV-2  veniva visto come un problema che riguardasse solamente l’Asia orientale e di cui guardarsi solo se si fosse venuti in contatto con gente che provenisse da quel territorio. Una visione generale sbagliata della situazione ma che trovava giustificazione nel protocollo del ministero della Salute n.2302 emanato il 27 gennaio del 2020. Il documento infatti  prevedeva la possibilità di effettuare il tampone laringo faringeo solo “ per i casi sospetti” ovvero per quelle persone con “un’infezione acuta grave” con provenienza da “aree a rischio dalla Cina”. Sin dall’inizio è passato l’errato messaggio di un problema destinato a rimanere circoscritto nello stesso luogo in cui si era generato. Ad alimentare questa convinzione anche gli esperti del settore scientifico e i politici che prendevano parte ai talk dei salotti televisivi. In queste circostanze si è sempre parlato di un problema che poco avrebbe intaccato l’Italia. Dalla superficialità all’isteria è stato un attimo. Dopo il primo caso di Codogno del 21 febbraio è arrivato anche il primo decesso a Vo. Da quel momento l’Italia, colta di sorpresa, si è trovata nel mezzo della pandemia senza gli appositi strumenti per combatterla.

Le falle delle misure adottate. Dal momento in cui la pandemia ha corso velocemente in Italia, il primo strumento necessario per conoscere chi fossero le persone contagiate e potenzialmente infette erano i tamponi. Ma quanti tamponi si facevano al giorno? Quanti ne venivano processati? Pochi. Un numero non sufficiente a rilevare una buona fetta dei casi di contagio. Soltanto alla fine della prima ondata l’Italia ha iniziato ad aumentare il numero dei tamponi quotidiani, ma è rimasta indietro con il sequenziamento del virus. Un’attività molto importante che permette di conoscere le varianti del Sars-CoV-2 e quindi la sua evoluzione con le conseguenze che ne derivano. Mentre Regno Unito, Nuova Zelanda e Australia  hanno da subito lavorato per sequenziare il coronavirus, l’Italia non ha investito in questo settore rimanendo molto indietro: “Fino a dicembre nel nostro Paese – ha dichiarato il professor Marco Falcone su il Giornale.it – è stato sequenziato solo l’1% dei virus”. Solamente nel gennaio del 2021 è stato aperto un apposito consorzio di laboratori per arrivare al sequenziamento del virus. Il ritardo nei tamponi e nel sequenziamento, non ha permesso un deciso tracciamento dell’epidemia. E così, nel corso della prima ondata, invece di adottare azioni per combattere il virus partendo dalle basi, è stato semplicemente alzato uno scudo di difesa attraverso il lockdown: una volta finito, la situazione è tornata come prima o peggio. L’estate trascorsa ha lasciato tregua per pensare alle prossime misure di difesa da adottare in vista della preannunciata seconda ondata: se nella prima gli errori potevano essere giustificati da una situazione sottovalutata ma comunque nuova e grave, così non poteva essere nel suo ritorno in autunno. I fatti hanno invece dimostrato che l’Italia non ha imparato dagli sbagli commessi.

L’esempio dei monoclonali. C’è un ramo della ricerca di farmaci anti Covid che rappresenta l’emblema di come si è mossa l’Italia in questi faticosi 12 mesi. Riguarda l’uso degli anticorpi monoclonali: “Gli anticorpi monoclonali – ha spiegato su InsideOver il virologo Matteo Bassetti – sono importanti da utilizzarsi nella fase precoce della malattia per evitare che essa degeneri ed evolva verso forme più gravi. Essi hanno il compito di bloccare la cascata infiammatoria”. L’Italia è in prima linea nella produzione. A Latina infatti è presente la Bsp Pharmaceuticals, una società che opera anche per conto della Eli Lilly, azienda farmaceutica statunitense tra le più importanti nella produzione di monoclonali. Anche la tecnologia e la ricerca italiana quindi è arrivata con largo anticipo ad intuire le possibilità di questi farmaci. È stato il sistema Paese invece ad arrivare con grave ritardo: “Il dottor Guido Silvestri – ha ricordato Matteo Bassetti – era riuscito grazie alla sua interlocuzione con chi produce gli anticorpi ad avere 10mila dosi disponibili già nello scorso mese di ottobre”. Il via libera per l’uso dei monoclonali è arrivato però soltanto il 3 febbraio, quando il comitato scientifico dell’Aifa, l’Associazione Italiana per il Farmaco, ha dato il disco verde. L’iter sui monoclonali è soltanto uno dei tanti aspetti riguardanti l’attuale emergenza sanitaria. Ma che ben rappresenta il (mancato) funzionamento del sistema Italia nel primo anno di pandemia: ritardo nelle decisioni, incapacità di mettere a sistema ricerche e conoscenze, lentezza degli apparati burocratici. Sono tutti elementi questi che hanno contribuito a condannare a una sorta di affanno perenne il nostro Paese.

Una confusione da cui l’Italia non è più uscita. In poche parole, l’Italia il 21 febbraio 2020 si è risvegliata confusa. E da questa confusione non si è più ripresa: “Credo che questo sia dipeso anche da fattori culturali – ha commentato su InsideOver lo studioso e opinionista Pierluigi Fagan – Lo si può vedere su quanto è accaduto a livello mediatico: abbiamo portato in piazza conflitti, impressioni, divisioni, questo ha contribuito a dare alla popolazione maggiore sconcerto ed a rallentare anche la fase decisionale”. Gli italiani, impauriti dalle impennate dei contagi, si sono ritrovati al centro di una miriade di decisioni e opinioni che non hanno consentito di ridare una certa lucidità al Paese: “Da altre parti – ha proseguito Fagan – la comunicazione è stata più centralizzata e non c’è stata una pluralità di interventi così ampia da parte del mondo scientifico”. “Non crediate – ha aggiunto l’opinionista – che in Germania ad esempio non ci siano stati scontri. Ma tutto è stato gestito più internamente. Da noi invece si è avuto un eccesso di pubblicità su ogni decisione sia scientifica che politica. Con divisioni ben marcate in ogni ambito e una confusione che non ha aiutato il Paese”. Uno degli storici problemi dell’Italia è il non riuscire ad imparare dai suoi errori. A giudicare da come oggi, a distanza di un anno da Codogno, si sta continuando a gestire l’emergenza, è difficile credere che l’esperienza maturata in 12 mesi stia servendo a qualcosa.

Il 20 febbraio 2020 cominciava l'emergenza. Coronavirus anno primo, il paziente 1 di Codogno Mattia Maestri: “Voglio solo tornare a vivere”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 20 Febbraio 2021. Il 20 febbraio 2020 l’Italia entra nella più grande emergenza della sua storia repubblicana dal secondo dopoguera. E lo fa a partire da Codogno. Circa 16mila abitanti, provincia di Lodi, Lombardia, che diventa nel giro di poche ore la Wuhan italiana, la città dove è esploso il contagio. Il tampone per il coronavirus cui viene sottoposto Mattia Maestri, 38 anni, dà esito positivo: è il primo paziente italiano. Il Paese entra nell’emergenza covid. Un anno dopo, le vittime, dall’inizio della pandemia, sono più di 95mila. Sono le 20:00 del 20 febbraio 2020 quando arriva all’ospedale di Codogno l’esito del test. Maestri è uno sportivo, appassionato di maratone, ricercatore della multinazionale Unilever, con una pessima polmonite. L’intuizione di sottoporlo al tampone è della dottoressa Annalisa Malara, anestesista di turno di terapia intensiva. Il 39enne non era mai stato in Cina, dove nella città di Wuhan, era esplosa la pandemia. Forse il contagio a una cena con un amico tornato dall’Asia da poco, che però risulta negativo al tampone. Mattia, primo paziente cui viene diagnosticato il covid, è intubato e ricoverato in terapia intensiva. Codogno diventa osservato speciale, centro dell’Italia, protagonista delle cronache. Sono i giorni della Milano Fashion Week. Mancano, alla kermesse, buyer e stampa cinese. L’organizzazione pensa all’iniziativa di solidarietà virtuale: “China we are with you”. Si gioca intanto il campionato di serie A. L’epidemia è percepita ancora come qualcosa di estremamente lontano, anche se una ventina di giorni prima due turisti cinesi sono risultati positivi all’ospedale Spallanzani di Roma. Nel giro di una manciata d’ore cambia tutto: l’ospedale è circondato dai giornalisti, medici e infermieri che hanno curato Mattia risultano positivi, il pronto soccorso viene chiuso, le mascherine chirurgiche diventano introvabili. Il sindaco Passerini emette un’ordinanza di chiusura che sorprende anche il governo. L’esecutivo si dovrà ricredere subito visto che il contagio cammina, si è diffuso nel lodigiano. In Veneto, a Vo’ Euganeo, la prima vittima accertata, Adriano Trevisan, 77 anni. Le Zone Rosse scattano a Castiglione d’Adda, Casalpusterlengo, Fombio, Maleo, Somaglia, Bertonico, Terranova dei Passerini, Castelgerundo e San Fiorano. Negozi chiusi, scuole chiuse. L’esercito presidia i confini dei comuni. Le mascherine sono ormai introvabili, soprattutto in Lombardia, i supermercati assediati da file lunghissime. Si lanciano appelli a non avere paura e a prestare comunque attenzione. Il contagio intanto dilaga, soprattutto al Nord, nella bergamasca e in provincia di Brescia. La Regione diventa Zona Rossa l’8 marzo. È solo l’inizio della più grande emergenza, della pandemia che ha sconvolto vite ed economie e società per intero. A Codogno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha voluto nel cimitero una stele in ricordo ai caduti. Oggi sono una ventina i positivi. Un paziente ricoverato in terapia intensiva. I pazienti morti in Lombardia, la Regione più colpita, sono quasi 28mila da quel 20 febbraio 2020. Mattia Maestri è diventato suo malgrado un simbolo. Lo scorso gennaio, in uno studio pubblicato sul British Journal of Dermatology dall’Università Statale di Milano, la scoperta di un nuovo paziente 1: una 25enne con dermatosi atipica, il risultato da una biopsia del novembre 2019. Il simbolo resta però lui. Tutti facevano il tifo per Mattia, in quei giorni di malattia. In un anno è guarito, ha visto nascere la figlia Giulia, avuta con la moglie Valentina e nata all’ospedale Buzzo di Milano, ha perso il padre proprio per il covid-19. A un anno dal giorno che ha sconvolto la sua vita e quella di tutta Italia, respinge troppe interviste. Ha rifiutato anche soldi. Una dichiarazione al Corriere della Sera: “Da questa mia esperienza le persone devono capire che la prevenzione è indispensabile per non diffondere il virus. Io voglio dimenticare questa brutta esperienza e tornare alla normalità”.

Lockdown Italia: una storia di voci, suoni e silenzi. Audioracconto dei giorni in cui tutto è cambiato. Anna Silvia Zippel su La Repubblica il 17 febbraio 2021. "Siamo a Wuhan, al mercato del pesce da cui tutto è iniziato, dove per la prima volta il coronavirus è stato individuato e ha contagiato venditori e clienti". Così Filippo Santelli, corrispondente di Repubblica dalla Cina, parla dalla città che rappresenta il primo focolaio dell'epidemia del virus ancora misterioso, chiamato "2019-Ncov". Provoca una malattia simile alla polmonite e appare lontanissimo da noi. Siamo alla fine di gennaio 2020. Nell'arco di poche settimane, tutto cambia. Quello che ormai si chiama Sars-Cov-2 è arrivato anche qui. E il 22 febbraio, nelle aree del Lodigiano e di Vo' Euganeo, scattano le prime zone rosse d'Europa. L'effetto domino è inarrestabile. Le immagini di questo anno orribile le abbiamo davanti agli occhi, ci siamo ancora in gran parte dentro. Ma è stato anche un anno di annunci, bollettini, decreti, allarmi, opinioni. Di ospedali pieni e strade deserte. E di voci, suoni e grandi silenzi, mai ascoltati prima. Questo è l'audioracconto di quelle poche settimane che, tra febbraio e marzo del 2020, ci hanno fatto precipitare tutti in una nuova, imprevista e inevitabile dimensione.

Codogno, un anno dopo: quando il Covid si prese l'Italia - Il reportage. Daniele Alberti ed Edoardo Bianchi su La Repubblica il 20 febbraio 2021. "A distanza di un anno faccio tuttora fatica a ricordare quella notte". Ancora è incredulo Giorgio Milesi, infermiere, coordinatore della terapia intensiva dell'ospedale civico di Codogno, quando ripensa al momento in cui prese in mano il referto del tampone di Mattia, il paziente 1, e lesse 'positivo al sars covid 19': "da quel giorno cambiò tutto". Codogno fino a poco più di un anno fa era uno dei tanti paesi del lodigiano. Questa piccola città da 16.000 abitanti è improvvisamente diventata nota in tutto il mondo come uno degli epicentri di un virus che avrebbe segnato le nostre vite."All'interno della terapia intensiva sembrava scoppiato il mondo: pazienti per terra o sui lettini in corridoio, dottori isolati, pochi respiratori e noi che spesso dovevamo autogestirci - racconta emozionato Giancarlo Visigalli, uno dei primi residenti che si ammalò di Covid a febbraio - Da quest'anno festeggio il compleanno il 15 marzo, il giorno in cui sono stato dimesso dall’ospedale dopo un mese e mezzo di calvario e ho potuto riabbracciare la mia famiglia. Quel giorno è stato come rinascere". "Era una situazione irreale, queste cose le vedi solo nei film - aggiunge Massimo Rocca, volontario della croce Rossa in prima linea durante la pandemia - Era impensabile immaginare che da Wuhan il virus sarebbe arrivato a Codogno". A un anno di distanza da quel 21 febbraio 2020 il videoreportage che racconta una città ancora ferita con le voci di chi in quelle settimane decise di andare avanti e affrontare l'evento che ha completamente cambiato le vite di tutti.

"Un anno fa isolammo il primo caso. Fu uno shock, ma sapevamo cosa fare". La responsabile di Virologia del Sacco: "Ho sbagliato a parlare di una forma di influenza, ma attaccarmi è stato un atto di maschilismo". Marta Bravi, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale. Maria Rita Gismondo, responsabile del Dipartimento di Virologia e diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano dopodomani è un anno esatto dalla prima diagnosi di Covid in Italia. «Sì, merito del coraggio di Annalisa Malara, l'anestesista che diagnosticò il Covid a Mattia a Codogno e di Valeria Micheli, dirigente Biologo e aiuto reparto, che quella sera era di guardia al nostro laboratorio».

Ci racconta quella notte?

«Mattia era ricoverato a Codogno, la dottoressa Malara, grazie anche ai racconti della moglie sui contatti avuti da Mattia, fece la diagnosi di polmonite atipica da virus cinese. Non si sapeva bene ancora di cosa si trattasse, ci chiamò per un consulto perchè siamo laboratorio di riferimento regionale per le bioemergenze e siamo operativi 24 ore su 24. Decidemmo di fare un'analisi approfondita del tampone che era risultato positivo. Con un'ambulanza venne trasportato da noi il tampone, erano le 20, e lo sottoponemmo a PCR (test fabbricato in casa grazie alla mappatura del genoma del Sars-Cov -2 che arrivava dalla Cina). Un test tra i più attendibili perchè va dritto al genoma del virus. Ma eravamo perplessi, non si sapeva bene di cosa si trattasse...»

Poi cosa successe?

«Il test confermò la positività, chiamai Rizzardini, il responsabile del Dipartimento di malattie infettive con la voce tremante: sapevo che da lì sarebbe scattata l'allerta. Rizzardini andò subito a Codogno a visitare Mattia, che era in condizioni tali da non poter essere trasportato, e da noi venne ricoverata la moglie incinta».

Che cosa pensò?

«Nessuno di noi andò nel panico, siamo il Dipartimento di Bioemergenze, seguiamo continui corsi di aggiornamento e facciamo esercitazioni, siamo formati. Sicuramente lo choc sarebbe stato diverso se la scoperta fosse avvenuta in un altro ospedale».

Qualche giorno dopo, sotto stress, affidò a facebook un suo sfogo...

«Era il 23 febbraio, stanca di una serie di pressing, sommersa da tamponi da analizzare, vedevo intorno a me montare un panico crescente. Scrissi State calmi, sono solo 4 i ricoverati e la malattia è poco più di un'influenza. Non dissi nè più nè meno di quello che avevano detto i miei colleghi: Fabrizio Pregliasco, l'Oms, l'Iss, Ilaria Capua e Roberto Burioni. Purtroppo però io e la Capua siamo passate per essere state le uniche ad averlo detto».

Cosa ne ha ricavato?

«Credo si sia trattato di un'esternazione maschilista. In quel momento sbagliammo tutti, ci portavamo dietro l'esperienza della Sars e non potevamo prevedere una pandemia del genere».

Venendo a oggi, si sta profilando l'emergenza varianti anche se quella inglese circolava in Italia da novembre.

«Siamo parte di un network gestito dall'Iss che si occupa di sorveglianza: facciamo mappatura a spot con modelli statistici per studiare le varianti in circolazione. E questa è un'ottima arma per arginarne la diffusione. Basta isolare i mini focolai per tenere la situazione sotto controllo».

"Mi avvisò il prefetto: e mi venne freddo..." La telefonata di Cardona annunciò il primo caso. Poi arrivarono i militari. Redazione - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. La «prima immagine» è lo schermo del cellulare. Così ricorda all'Agi Francesco Passerini 35 anni , sindaco di Codogno e anche presidente della Provincia di Lodi. È mezzanotte e venti minuti del 21 febbraio 2020. mangia un panino e beve una birra in un bar assieme a un consigliere comunale dopo una lunga seduta in Municipio. Sul display il nome del prefetto, Marcello Cardona. «Ho pensato che fosse successo qualcosa sul sito del Frecciarossa deragliato a Lodi pochi giorni prima, che era sorvegliato dopo l'incidente: Francesco, ti chiamo per dirti che il primo caso di coronavirus in Italia è a Codogno». Respiro interrotto, poi la risposta con una domanda: »Ma davvero?». «No, uno scherzo non poteva essere - ricorda Passerini - chi mi parlava era il prefetto. Però mi ripetevo che non era possibile: le zone a rischio erano i porti, gli aeroporti, i confini. Non certo un paese nel cuore della pianura Padana». «Ti arriveranno delle chiamate, poi ci aggiorniamo» taglia corto Cardona che di lì a pochi giorni finirà ricoverato per Covid. «Ho salutato il consigliere, dicendogli che c'era un problema, sono andato a casa e mi sono attaccato al telefono. Alle 5 mi ha richiamato un sindaco di un paese vicino per chiedermi se gli avevo fatto uno scherzo annunciandogli la notizia. Da quel momento, per tre giorni non ho dormito». La consapevolezza arriva da un'informazione che quella notte gli dà il presidente del Croce Rossa Locale: «Abbiamo cento interventi in coda a Codogno: è impensabile, qualcosa non va». Il giorno dopo, il giovane sindaco firma l'ordinanza con cui chiude tutto, poi arrivano la prima zona rossa, i militari che sigillano Codogno e i paesi vicini. Il momento più duro arriva a marzo. «È stato quando assieme a cinque volontari della Protezione civile abbiamo svuotato la Chiesa per metterci le bare che non ci stavano più altrove. Volevamo evitare che i nostri morti finissero fuori, le scene che purtroppo poi abbiamo visto coi camion di Bergamo. Abbiamo tolto le panche, fatto spazio per loro. Non ci siamo detti nulla. Solo alla fine, abbiamo guardato tutti con gli occhi vitrei l'altare, tutti avevamo in ballo un discorso, un'interlocuzione tra noi e Dio o con noi stessi. Ho provato un freddo mai avuto. La percezione era quella di essere lo stremo e la parola che si ripeteva dentro era ancora, ancora... Sembrava non dovesse finire mai». A marzo a Codogno sono morte 154 persone, l'anno prima 46 nello stesso periodo. Ogni giorno nella Chiesa c'era una media di 18 bare che i familiari potevano vedere per pochi minuti, il tempo della benedizione. «Dovevamo controllare ogni giorno che non fossero troppe, per motivi sanitari. Allora si pensava che i morti potessero essere contagiosi». Tra il 21 febbraio e l'8 maggio i decessi saranno 224. «Impossibile dire se avessero tutti il Covid, quello che è certo è che sono nostri cari che non hanno potuto avere un funerale». Per loro, Codogno adesso ha un giardino della memoria sul modello di quello di Berlino per le vittime dell'Olocausto progettato con un concorso d'idee. «È per noi e per le future generazioni. Un luogo verde, di vita, di futuro».

"Non ci rendevamo conto a cosa stavamo andando incontro...". Così è iniziato l'incubo Covid. I primi contagi, i centralini intasati, le corse in ospedale e l'incubo dei familiari nelle terapie intensive: un anno fa l'inizio di tutto. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19. Quando il 27 febbraio Omar riesce a raggiungere l’ospedale di Lodi grazie al certificato della Prefettura, che gli permette di uscire dalla zona rossa di Castiglione d’Adda, non sa che quella sarà l’ultima volta che vedrà il padre. Giovanni inizia ad accusare i primi mal di testa il 16 febbraio. Due giorni dopo, quando arriva anche la febbre, decide di andare a farsi visitare dal medico di base, che gli prescrive l’antibiotico. «Ho fatto l’anti influenzale», fa presente. Ma il dottore gli spiega che altri pazienti si sono presentati in ambulatorio e che, pur avendo fatto il vaccino contro l’influenza, presentano gli stessi sintomi. Dopo due giorni, Omar si sente sempre peggio. Così chiede al medico di base di andare a visitare il padre a casa. Passano le ore, ma non si presenta nessuno. Anche il dottore è malato. Il contagio continua a correre senza che nessuno lo sappia. «Poi venerdì (21 febbraio, nda) scoppia il caso di Mattia – ci racconta il giovane – ci attacchiamo a chiamare la Croce Rossa ma i centralini sono tutti intasati». Anche quando riescono a prendere la linea, c’è un operatore che promette loro che saranno richiamati a breve. Tutto inutile. La situazione si sblocca solo la mattina del 22 febbraio quando arriva un’ambulanza a prendere Giovanni per portarlo in ospedale a Lodi. Ai familiari vietano di seguirlo, lasciandoli nell’incertezza. La stessa incertezza che piomba su di loro l’indomani quando si presentano al nosocomio per portargli il cellulare e un cambio di vestiti. «Senza mascherina e guanti qui non potete entrare», li ferma un addetto che fornisce loro i dispositivi necessari. All’interno regna la confusione. Solo in un secondo momento capiranno che tutti quei pazienti accalcati sono in attesa di fare il tampone o di ricevere l’esito del test. Dopo un paio d’ore, un’infermiera li rimanda a casa. «Non preoccupatevi – spiega – suo padre resta dentro anche oggi. Vi facciamo sapere noi qualcosa…». Per altre quarantotto ore, però, Omar e la madre brancolano nel buio. Il 25 febbraio riescono a mettersi in contatto con il reparto dove è stato ricoverato il padre. Quello che gli comunicano è una vera e propria doccia fredda: Giovanni è stato trasferito nel «reparto blu» dopo esser risultato positivo al tampone del coronavirus. Omar si muove, quindi, per ottenere dal prefetto il permesso per lasciare la «zona rossa», ma solo quando arriva a Lodi un’infermiera gli spiega che l’area, dove vengono curati i malati Covid, non è accessibile. È grazie alla sua insistenza che gli viene concesso di varcare quella soglia che divide i sani dagli infetti: gli fanno indossare la tuta di contenimento e lo portano da Giovanni che è attaccato alla mascherina di ossigeno. Da sabato è allettato e non mangia nulla perché gli antivirali, che gli vengono somministrati per combattere il virus, gli provocano la nausea. Per un quarto d’ora padre e figlio parlano «del più e del meno». «In quel momento – ammette – non ci rendevamo conto, né io né lui, a cosa stavamo andando incontro». Nella stanza di Giovanni ci sono altri tre pazienti. Alcuni di questi hanno il casco. «Ci vediamo domani», saluta Omar. «Io di qua non mi sposto…», gli risponde il padre. Nel giro di quattro ore, però, la situazione precipita. «Lo abbiamo dovuto sedare perché non passa la notte – gli comunica una dottoressa al telefono – purtroppo è una malattia che ancora non conosciamo». Probabilmente Omar è stato uno dei pochi, se non l’unico, ad essere riuscito ad entrare in un reparto Covid e a vedere il proprio padre prima che questo morisse. A tutti gli altri toccherà una gelida comunicazione. Alcuni medici usano cellulari e tablet per permettere ai pazienti un ultimo saluto ai propri parenti. All’ospedale San Carlo Borromeo di Milano, per esempio, come raccontato al Giornale, la dottoressa Francesca Cortellaro, primario del pronto soccorso, ha un lungo elenco di videochiamate da fare. Le chiama «lista dell’addio». «La sensazione più drammatica è vedere i pazienti morire da soli… ascoltarli mentre ti implorano di salutare i figli e i nipotini». Tutti i contagiati arrivano in ospedale da soli. «Quando stanno per andarsene lo intuiscono – continua la Cortellaro – sono lucidi, non vanno in narcolessia. È come se stessero annegando, ma con tutto il tempo per capirlo». A mano a mano che l’emergenza si farà sempre più dura, il governo si vedrà costretto a vietare persino i funerali. Le salme saranno direttamente portate dalle camere mortuarie ai forni crematori, in attesa di una sepoltura pianta a distanza. Omar seppellirà il padre il 28 mattina, una settimana dopo averlo salire sull’ambulanza per essere ricoverato. «Dall’ospedale lo hanno portato direttamente al cimitero – ci racconta – abbiamo fatto una funzione breve». Dopo la morte del padre, l’Asl contatta Omar e i suoi familiari per cercare di mappare le persone e i luoghi frequentati. Sono ancora i primi giorni e si cerca di provare a contenere il contagio risalendo ai «contatti stretti». Tra questi ci sono gli avventori di un bar frequentato da Giovanni. Almeno tre di loro moriranno nelle settimane successive. Ormai cercare di contenere l’onda è del tutto inutile. Il 3 marzo tocca alla sorella 86enne di Giovanni, Giuseppina, che si spegne al policlinico San Martino di Genova. L’anziana soggiorna all’hotel Bel Sit di Alassio insieme a una comitiva di Castiglione d’Adda. I primi sintomi sono del 25 febbraio. Provenendo da una delle «zone rosse» lombarde, la comitiva viene sottoposta a tampone. Giuseppina risulta positiva e viene ricoverata dapprima al San Paolo di Savona e successivamente al San Martino dove viene immediatamente messa in ventilazione assistita. Ben presto, però, le sue condizioni si aggravano e muore per «insufficienza respiratoria». Qualche giorno dopo il funerale di Giovanni, anche l’Ats prende contatti con i parenti stretti. Si limita, però, a comunicar loro che saranno «monitorati telefonicamente». Monitoraggio che va avanti per la prima settimana, poi vengono completamente dimenticati. Né a Omar né alla madre né al fratello viene fatto il tampone. Così, dopo i quindici giorni di quarantena imposta, possono tornare a uscire di casa. E sì che il 22 febbraio, proprio in considerazione dell'evoluzione della situazione epidemiologica e delle «nuove evidenze scientifiche», il ministero della Salute ha deciso di modificare, per l’ennesima volta, la definizione di caso «sospetto». L’obiettivo è evitare l’insorgere di nuovi focolai diagnosticando per tempo gli infetti. «C’è stata una non conoscenza dei sanitari che non sono stati in grado di riconoscere immediatamente i sintomi del virus», ammette in quei giorni il commissario all’emergenza Antonio Borrelli. «Le manifestazioni cliniche dei ricoverati erano quelle dell’influenza – conferma Fabrizio Pregliasco, ricercatore del Dipartimento di scienze biomediche per la salute dell’Università degli Studi di Milano – non si è pensato al coronavirus semplicemente perché in Italia non era mai stato segnalato se non per i due turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani». Come spiega il virologo, «le diagnosi differenziali vengono esguite quando c’è attenzione su un particolare patogeno». E questo, fino a pochi giorni prima che venga a galla il «paziente 1» a Codogno, non viene fatto. Dove vanno ricercate, dunque, le colpe? In parte nei ritardi del ministero della Salute. Perché, nonostante i campanelli d’allarme che arrivano dalla Cina, nessuno dota il sistema sanitario nazionale di linee adeguate per riconoscere il nemico contro cui si deve combattere? Quella diramata da Roberto Speranza il 22 febbraio è solo la prima di una lunghissima serie di disposizioni con cui medici e infermieri dovranno confrontarsi nelle settimane a venire. E, mentre a Roma sembrano tutti concentrati a «rincorrere» i primi focolai individuati, il virus è ormai diffuso in tutta la Regione: all’ospedale di Crema muore una 68enne, già ricoverata in terapia intensiva con una patologia oncologica, e dalla Bergamasca arrivano informazioni allarmanti (nella Val Seriana si moltiplicano i contagi e all’ospedale Papa Giovanni si conta il primo paziente morto arrivato dal nosocomio di Alzano Lombardo). «La progressione è rapida – ammettono dalla Regione Lombardia – è più veloce di quello che ci aspettavamo». Appare già chiaro che il decreto, annunciato dal governo la notte del 22 febbraio e che appunto si limita a «chiudere» il Lodigiano e Vo’ Euganeo, è insufficiente a limitare il dilagare di un virus che ormai arriva anche a lambire i confini di Milano. «Non ci sono evidenze da farci pensare alla chiusura dei servizi pubblici», ribadisce Sala. E così metro, tram e autobus continuano a portare avanti e indietro centinaia di migliaia di persone ogni giorno che vanno avanti a condurre la propria vita come se niente fosse, come se Covid-19 fosse ancora confinato in un Paese molto lontano.

"Se qui si scatena l'inferno...". Così scattò l'allarme in corsia. Maschere d'ossigeno, C-Pap, intubazione: quando poi il polmone si trascina dietro gli altri organi, non c’è più niente da fare. Così i malati di Covid muoiono nelle terapie intensive. Giuseppe De Lorenzo Andrea Indini - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale. Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19 durante la "fase 1". «Bergamo ha avuto il grandissimo problema di Alzano Lombardo, che è stata una bomba atomica. Poi, c’era Cremona. Noi sapevamo 13. Il focolaio al bocciodromo di Orzinuovi è stato denunciato anche dall’ex ct della Nazionale, Cesare Prandelli, ma è stato smentito categoricamente dal consigliere di maggioranza Tiziana Brizzolari che è anche la figlia del presidente della bocciofila che sarebbe arrivato a Brescia perché eravamo accerchiati». Il caos per Francesca Serughetti, anestesista degli Spedali Civili, inizia il 24 febbraio. È in sala operatoria con un politraumatizzato che ha la febbre. In quelle ore sono già scattate tutte le indicazioni di prevenzione. Il paziente va intubato, la mascherina Ffp3 sarebbe obbligatoria. Ma non ce n’è nemmeno una. «Non eravamo ancora preparati...», ammette. Il politrauma arriva, infatti, nel blocco operatorio seguendo un percorso normale, ma rimane bloccato lì per almeno un paio d’ore. Di mascherine ne servono ben due: una per l’anestesista e una per l’infermiera che la deve assistere. Lo stallo fa sì che ci sia il rischio di farlo incrociare con un altro paziente che deve essere operato nella seconda sala. «In quelle ore – ci spiega – non sapevamo ancora come gestire quella promiscuità. Quando, poi, sono tornata a casa ricordo di essermi chiesta: ‘Se qui si scatena l’inferno, cosa facciamo?’». L’inferno, nel giro di pochi giorni, si scatena con una potenza inaudita. Ma i medici, gli infermieri e il personale sanitario degli Spedali Civili di Brescia fanno un vero miracolo. E lo fanno nel giro di una sola settimana. La terapia intensiva viene interamente dedicata ai pazienti infetti. Nasce così la «Covid 1». I letti sono solo dodici e si riempiono all’istante. Gli studi dei medici vengono quindi smantellati e inglobati nel reparto. I letti salgono a venti, ma quelli liberi durano davvero poco. Così anche la cardiochirurgia viene riorganizzata e trasformata nella «Covid 2» che, a sua volta, si satura nel giro di poco tempo. Al picco dell’epidemia i reparti Covid saranno ben tre. La corsa, però, non è solo a recuperare nuovi posti letto. Servono anche i respiratori, la presa per l’ossigeno e quella per lo scarico del gas. È una corsa contro il tempo per salvare più vite possibile. Alcuni macchinari sono nuovi e non tutti hanno dimestichezza. «In una stanza in cui di solito mettevamo quattro letti, ce ne facevamo stare otto – spiega Serughetti – e il personale doveva saltare da un paziente all’altro, con un rischio di sbagliare altissimo dal momento che se ne vedevano tanti e tutti erano l’uno la fotocopia dell’altro». Le differenze tra un caso e un altro sono minime e, sin dall’inizio, appare chiaro che molto dipende dalla ventilazione del paziente e dalla pressione data alle vie aeree. «Il rischio di sbagliare era enorme – continua – il tempo di visitare l’ultimo paziente e il primo che avevi visto al mattino era già sconquassato». La pressione sugli Spedali Civili è altissima. Non solo da Brescia e provincia. A Bergamo non c’è più posto e pure a Cremona il sistema non regge più. Non c’è il tempo per spostare i pazienti a Milano o, ancora più difficile, trasferirli extra regione. Quando arrivano c’è giusto il tempo per decidere se vanno intubati o meno e come aggredire il virus per provare a sconfiggerlo. Sin dall’inizio appare chiaro che la ventilazione non invasiva non è la strategia giusta. «Il problema – ammette Serughetti – è stato che per la ventilazione precoce non avevamo i posti e non avevamo i ventilatori». Le maschere d’ossigeno e i caschi C–Pap servono solo a guadagnare tempo. Tempo in cui i medici riescono a reperire nuovi posti. «Sapevamo che la dovevamo usare a lungo – continua – ma era l’unico modo per dare ossigeno a chi non ne aveva». Col passare delle settimane i medici si accorgono che pressioni troppo elevate rischiano di danneggiare i polmoni e, quindi, viene tutto ricalibrato alla luce di questa nuova scoperta. Anche perché non c’è alcun farmaco che può aiutare i pazienti. Dal Tocilizumab all’idrossiclorichina, le risposte sono troppo differenti per riuscire a stabilire una cura. «La verità è che i pazienti sopra una certa soglia di età non ce la facevano, perché avevano polmoni più rigidi – spiega ancora – potevi dargli qualsiasi medicinale, ma non ce la facevano... di settantenni, ne ho visti uscire davvero pochi dalla terapia intensiva». Tutt’altro discorso per i giovani: quasi tutti riescono a cavarsela. La differenza non è solo l’età, ma la stoffa del polmone. Alla fine, però, i casi più gravi muoiono perché vanno in insufficienza multiorgano. «Finché sono in terapia intensiva, cerchi di inseguirli su tutto – ci racconta Serughetti – li insegui sulla parte polmonare finché non ha più spazio per aumentargli l’ossigenazione. Quando poi il polmone si trascina dietro gli altri organi, non c’è più niente che possiamo fare per salvarli». Quando i casi più gravi arrivano in ospedale, o sono già intubati e, quindi, non sono coscienti, oppure il medico deve spiegare loro che li addormenteranno per qualche giorno, in modo da far «riposare» i loro polmoni, per poi risvegliarli non appena staranno meglio. In quel momento puoi leggere nei loro occhi il terrore. Buona parte dei pazienti che si trovano nella «Covid 1» degli Spedali Civili di Brescia è in coma farmacologico. Non sente e non capisce nulla di quello che gli sta succedendo. Solo quando la loro situazione migliora i medici li fanno «riemergere»: li estubano e cercano di stimolarli per capire se riescono a interagire con il mondo esterno. Poco alla volta anche il paziente reagisce. «Immagina di essere sveglio e lucido, con una tracheo, cioè un buchino nella trachea, e non poter parlare...», continua Serughetti. Chi non ha voce, tenta di scrivere. Ma molti non hanno nemmeno la forza per prendere in mano una penna e mettere in fila qualche lettera che componga frasi di senso compiuto. Niente può descrivere a fondo quello che i medici e gli infermieri devono vivere in prima persona. Non bastano le parole, non bastano gli aggettivi. Persino le immagini, che qualche talk show è riuscito a trasmettere, non rendono la drammaticità vissuta nelle terapie intensive. E, mentre alcuni giornalisti impugnano la penna per getta- re fango su un sistema sanitario (quello lombardo) che, nonostante l’eccezionalità dell’evento, regge e reagisce, gli eroi in camice bianco danno il meglio di sé, vincendo la paura e mettendo da parte il timo- re di sbagliare. Solo quando tornano a casa, possono lasciarsi andare e fare i conti con i propri fantasmi. In ospedale non è ammesso. Devono tener duro per cercare di fare il miracolo e salvare più vite possibile. Anche Serughetti, nel rivivere quei momenti, rivede tutta la squadra combattere senza mai risparmiarsi. «Ho colleghi, prossimi alla pensione, che avrebbero potuto ammalarsi e morire – ci spiega – nessuno di loro ha mai saltato un giorno di lavoro. Io avrei ben capito se un sessantaquattrenne, impaurito dal fatto di prendersi il Covid, magari faceva un passo indietro... non è successo. Anzi, sono stati i primi a mettersi in prima fila». È proprio questo a dare forza all’intera squadra e a sostenere emotivamente il singolo. Certo, poi c’è un momento in cui si deve fare i conti con tutto questo male. E quel momento varia da medico a medico. «Io sono stata lontana dai miei figli per trenta giorni – racconta ancora Serughetti – quando giocavo con loro in giardino, tenendo su la mascherina, sorridevo sempre perché non volevo che capissero la gravità della situazione. La sera, nella casetta che mi hanno prestato, sola, senza marito per- ché ricoverato e i due bambini lontani, vacillavo... il giorno dopo, però, tornavo sempre a lavorare e dare il mio piccolo contributo. Probabilmente – conclude – lo pagheremo di più: quando calerà la tensione, magari salterà fuori qualcosa che per ora è sopito nell’inconscio».

Diario del virus/100: anniversario. Ragù di capra di Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 18 febbraio 2021. Martedì 18 febbraio 2020 Mattia Maestri, 38 anni, dipendente della multinazionale Unilever, si presenta al pronto soccorso della sua cittadina, Codogno in provincia di Lodi. Ha la febbre alta e altri sintomi compatibili con un'affezione delle vie respiratorie. Secondo le cronache, gli viene proposto di ricoverarsi ma l'uomo decide di tornare a casa. Si ripresenta poche ore dopo, nella notte fra il 18 e il 19 febbraio, perché le sue condizioni peggiorano. La sera di mercoledì 19 febbraio si gioca a San Siro l'andata degli ottavi di Champions league fra Atalanta e Valencia. Il club bergamasco ha ottenuto lo stadio milanese per accogliere un pubblico più che doppio (46 mila spettatori circa) rispetto alla capienza dello stadio Atleti azzurri d'Italia. La partita, vinta dal club italiano 4-1, sarà considerata uno dei veicoli di maggiore diffusione del contagio nella provincia di Bergamo, che sarà colpita duramente. Secondo l'assessore regionale al Welfare Giulio Gallera, anche la fiera del fieno di Orzinuovi, nella bassa bresciana, è stato un fattore. Mesi dopo sapremo che il Cov-Sars-2 circola almeno da novembre del 2019. Giovedì 20 febbraio il cosiddetto paziente 1 viene trasferito in rianimazione con la polmonite bilaterale interstiziale. Alle 21 l'anestesista Annalisa Malara sottopone il malato a un tampone che dà esito positivo. Per Maestri inizia un calvario che, per fortuna, si concluderà in modo felice il 24 marzo con le dimissioni dal San Matteo di Pavia. Inizia la ricerca spasmodica del paziente zero. Si individua l'untore in un collega con cui Maestri è stato più volte a cena e che è tornato da Shangai il 21 gennaio. L'uomo viene portato al Sacco di Milano, fa il tampone ed è interrogato a lungo dai medici. Come di solito accade agli untori, non c'entra niente ma dopo di lui il tracciamento del paziente zero andrà inutilmente avanti per settimane. Lo stesso 20 febbraio, intorno alla mezzanotte, l'assessore Gallera annuncia alla stampa che in Lombardia c'è un positivo al Covid-19, la malattia che si sviluppa dal virus Cov-Sars-2 e che ha colpito la città di Wuhan, messa in lockdown giovedì 23 gennaio, due giorni prima che inizi l'anno del Ratto, secondo il calendario cinese.

Venerdì 21 febbraio, mentre Gallera dichiara che ci sono quindici positivi in Lombardia, a Vo' Euganeo in provincia di Padova c'è il primo morto ufficiale di Covid-19. Si chiama Adriano Trevisan, di 78 anni, ed era ricoverato nell'ospedale di Schiavonia da dieci giorni. Sabato 22 febbraio un Dpcm del governo Conte chiude undici comuni fra la zona dei colli Euganei e il lodigiano. Due settimane dopo la conclusione del festival di Sanremo, inizia la storia del contagio più grave da un secolo in Italia. Il virus cinese, nella sua variante sviluppata in Germania, si chiama ancora epidemia e non pandemia perché resta a lungo limitato, all'apparenza, nel territorio della penisola. Il 18 febbraio 2021 si contano 94560 decessi ufficiali ai quali se ne devono forse aggiungere circa ventimila rilevati dall'Istat nel confronto della mortalità anno su anno. Ognuno si prenda un minuto oggi per pensare a loro.

Il giorno prima del Covid-19, un anno fa. Poi il virus ha inghiottito il nostro mondo.  Gigi Riva su L'Espresso il 17 febbraio 2021. C’erano le sfilate a Milano. I turisti a Ivrea. Parasite fresco di Oscar. Il no all’arresto di Carola Rackete. La notizia dall’ospedale di Codogno sul primo contagiato trapelò solo a tarda sera. Dopo, niente sarebbe stato più lo stesso. Il giorno prima, un anno fa, a Gibellina (Trapani) le preoccupazioni riguardavano la meteorologia. Il parroco aveva guidato una processione di cittadini col naso all'insù che cantavano: “Oh Dio dacci la pioggia”. Non pioveva da due mesi e le previsioni erano pessime, cioè ottime: anticlone su tutta la Penisola da Bolzano a Palermo, temperature miti, considerata la stagione. A Firenze, palazzo Strozzi, veniva inaugurata la mostra dell'artista argentino Tomàs Saraceno dal titolo che a posteriori sembra un'invocazione: “Aria”. Si andava ancora alle mostre, al cinema a teatro. A Roma, all'Ambra Jovinelli, si erano presentati tutti gli amici di Ferzan Ozpetek per la prima della trasposizione sul palcoscenico del suo film “Mine vaganti”. A Bologna Branciaroli portava “I Miserabili” di Victor Hugo al Duse. Nelle sale imperversava il Gabriele Muccino de “Gli anni più belli” e si contendeva gli spettatori col coreano “Parasite”, fresco di molti Oscar. Napoli annunciava sfilate di Carnevale dal Rione Sanità a Scampia dove le ruspe stavano abbattendo le Vele, il mostro di cemento, anche se gli abitanti, interrogati rispondevano: “Ma noi lì dentro ci siamo stati bene”. A Ivrea per la tradizionale “battaglie delle arance” si aspettavano “centomila turisti”. Già, c'erano ancora i turisti. Un italiano si era spinto sino alla meravigliosa Petra, in Giordania ed era stato ucciso da un masso staccatosi dalle rovine. All'Olimpico di Roma, per un assembramento che oggi ci sembra fantascienza, erano stati staccati 50 mila biglietti per la partita di rugby tra Italia e Scozia.

Tutto cominciò con una nave a Civitavecchia: 2020, il racconto di un anno di pandemia. Elena Testi su L'Espresso il 26 dicembre 2020. Il giorno prima del primo caso di coronavirus (allora lo chiamavamo così, Covid-19 sarebbe entrato in uso dopo), era il 20 febbraio 2020 e a Milano c'erano le sfilate di moda, Fendi e Prada vestivano donne “dalla femminilità potente e fiera” che di lì a poco avrebbero potuto sfoggiare solo fantastiche tute casalinghe. Il SuperMario delle cronache era Balotelli finito non nello sport ma nella cronaca perché una ragazza minorenne, con la complicità del suo avvocato, lo aveva accusato di stupro. Stupro molto presunto se il legale era finito indagato per estorsione. Aveva chiesto soldi al calciatore per evitare una denuncia. Nella stessa città del mancato campione, Brescia, una donna vittima di Revenge porn era disperata per essere stata licenziata ed aveva scoperto che le sue immagini intime erano finire pure nelle chat delle forze dell'ordine. Chiedeva aiuto ma i suoi datori di lavoro rispondevano: “Dobbiamo tutelare i clienti”. Insomma tutto era normale, tutto diverso da “dopo”. Un spartiacque. Tutto? Tutto il resto. Non l'immutabile, immarcescibile politica. Il SuperMario dei tempi attuali campeggiava sulla prima pagina de “La Stampa”. Titolo di apertura: “Il piano di Renzi punta su Draghi”. Ma dai! Sommario: “L'ipotesi di un governo costituzionale affidato al banchiere tenta pure la Lega. Ma Salvini è dubbioso”. Il leader di Italia viva, stando ai retroscenisti di pressoché tutte le testate, minacciava la crisi di governo sulla Giustizia, voleva sfiduciare il ministro Bonafede e “flirtava” con Forza Italia. Conte dal canto suo si preparava all'addio ai renziani per rimpiazzarli con i “Responsabili”. Se avete uno stordimento da deja-vu non avete le allucinazioni e siete in buona compagnia. “Il Fatto Quotidiano” sparava un titolo che, col senno di poi, sembra humour nero: “Chiamate l'ambulanza” per il fiorentino. E sintetizzava: “Via reddito di cittadinanza e Bonafede (lo dice da un mese). Conte lo ignora”. Seppur con tempi molto più lunghi avrebbe dovuto prenderlo parecchio sul serio. La direttrice del “Manifesto” Norma Rangeri gli dedicava un fondo al vetriolo: “Il piccolo cabotaggio di un ex leader”. Si sprecavano i paragoni con Bettino Craxi e l'uso spregiudicato della sua posizione da ago della bilancia. La “Repubblica” aveva il solito annuncio dell'anteprima di cosa si sarebbe trovato la domenica successiva su “l'Espresso”. In copertina una vignetta di Makkox con Renzi e Conte: “Gli illusionisti”. Spiegazione: “Si scambiano parlamentari. Si contendono il palcoscenico. Si fanno la faccia feroce, tra minacce e bluff. Così Renzi e Conte nascondono le loro debolezze. E spianano la strada a Salvini”. Ora sappiamo quanto. Negli altri richiami agli articoli più importanti. “Libia senza tregua. La guerra non si ferma. Tripoli è sotto assedio. La comunità internazionale proclama invano lo stop alle armi”. “Le nuove accuse per la strage di Bologna. Gelli e Ortolani “mandanti e finanziatori”, il prefetto D'Amato “organizzatore”, il killer nero Bellini che porta l'esplosivo ai Nar”. “Salviamo l'anima ai robot. La Chiesa e i big dell'informatica scrivono una Carta etica sull'intelligenza artificiale”. Al contrario di quasi tutti gli altri che avevano privilegiato il Palazzo, “Repubblica” quel giorno aveva guardato per la notizia principale all'estero. “Sterminio razzista. Quarantenne tedesco di estrema destra fa fuoco in tre bar in Assia frequentati da turchi. Muoiono otto uomini e una donna incinta”. Metteva in guardia dai “fantasmi dell'odio”. Le prime pagine non erano, come sarebbero state spesso “dopo” monotematiche. Il “Sole 24 ore” già lamentava una “Italia ferma, dilaga la cassa integrazione”. Niente al confronto dei milioni poi costretti sul divano. “Il Manifesto” dava conto delle motivazioni della Cassazione sul no all'arresto di Carola Rackete, la capitana della SeaWatch3 che aveva sfidato Salvini, il Capitano leghista in felpa (dismessa per un blu ministeriale quando ha capito che non funzionava più), irriso da Repubblica: “Io nel mirino dei Casamonica, la denuncia di Salvini che non risulta a nessuno”. Eugenio Scalfari salutava il suo amico Jean Daniel, giornalista e scrittore, fondatore del “Nouvel Observateur”, morto a 99 anni. E a proposito di scomparse, “Il Messaggero” dedicava un articolo a Larry Tesler, l'inventore del tasto “copia” e “incolla” e dunque da molti santificato, che se ne era andato a 75 anni. Nel taglio basso il “Giornale” dava conto del “Calciatore che va al Wuhan” a cui dedicava un commento: “Il fascino dei soldi batte la paura del coronavirus”. È Daniel Carrico, centrocampista portoghese del Siviglia, attratto dai soldi della Cina nonostante l'epidemia non ancora pandemia. Ah già, il virus. Per poche ore un problema non ancora troppo nostro. Relegato molto all'interno. E per segnalare un lieto fine: “A casa gli italiani di Wuhan. Quarantena finita”. E pare, letta oggi, una beffa se poco dopo in quarantena c'è finita l'Italia intera. A tarda sera, quando i giornali stanno chiudendo l'edizione, trapela una notizia dall'ospedale di Codogno. Il Corriere della Sera fa in tempo a infilarla su una colonna nel taglio della prima pagina: “Positivo al test del coronavirus, è un uomo di 38 anni”. La “Repubblica” lo inserisce in un sommario a pagina 23. “Un contagiato in Lombardia”. Dopo, niente sarebbe stato più lo stesso.

Un anno dopo. Viaggio per immagini e parole nel passato e nel presente di Bergamo, l'epicentro della pandemia Covid-19 che ha sconvolto le nostre vite. Carlo Bonini (coordinamento editoriale e testo), Fabio Bucciarelli (foto), Paolo Berizzi (testo). La Repubblica il 18 febbraio 2021. Non dimenticare è il solo modo per guardare avanti, per ricominciare. Per sostituire la parola “trauma” con “trasformazione”, la sola capace di forza rigeneratrice. La memoria è un ponte tra il prima e il dopo, è la malta che tiene insieme una comunità e ne alimenta la resilienza. È deposito di emozioni, consapevolezza, esperienza. Per questo, abbiamo pensato che ritornare lì dove tutto è cominciato, nel triangolo isoscele Codogno -Vo’- Bergamo che ha definito l’epicentro italiano della pandemia fosse la cosa da fare un anno dopo. E abbiamo deciso di affidarci agli strumenti primari di cui il giornalismo dispone. Le immagini e le parole. Abbiamo affidato le parole alle testimonianze dei sopravvissuti e al racconto dei luoghi, solo apparentemente immutabili. Abbiamo affidato le immagini a Fabio Bucciarelli, il fotoreporter che, nel marzo-aprile del 2020, fece conoscere al mondo, sulle pagine del New York Times, cosa si muoveva nel nostro Ground Zero del contagio, e che per Repubblica è tornato sui suoi passi. Ricominciando a scattare lì dove aveva scattato allora. Per una galleria fotografica del “prima” e del “dopo” di cui in questo longform trovate oggi un’anteprima (accompagnata da un diario dello stesso Bucciarelli) e che, domenica, troverete su carta e digitale nella sua completezza.

Il volto del Covid-19. Fabio Bucciarelli. Ci sono anni che più di altri rimangono nella nostra memoria, cambiano le nostre abitudini e segnano il corso della Storia. Che hanno scritto il nostro passato, condizionandone inevitabilmente il futuro. Il 2020 è sicuramente uno di questi. Definisce un tempo che oggi riconosciamo con fatica e che prima non avremmo mai immaginato. È uno spartiacque fra quello che è stato e l’incertezza di quello che sarà. Nel 2020, persino le coordinate con cui convenzionalmente si scandisce il tempo sono state alterate. Le settimane e i mesi sono stati sostituiti dai Decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dpcm) che hanno sancito nuove libertà e norme comportamentali. Come una maledizione, esattamente cento anni dopo l’influenza spagnola con le sue decine di milioni di vittime, il Covid-19 si è diffuso in tutto il mondo, scegliendo l’Italia come laboratorio globale del contagio. L’avvento dell’epidemia, presto diventata pandemia, ha trovato nella penisola il suo terreno più fertile, contagiando ad oggi più di 2,7 milioni di persone e causando oltre novantamila vittime. Solamente a marzo però, quando la prima ondata ci ha travolto e quotidianamente la Protezione Civile annunciava in televisione il bollettino dei contagiati e delle vittime, abbiamo realizzato l’entità della crisi pur non comprendendone il volto. In quel 2020, come fotogiornalista, fra le prime domande che mi sono posto ce n’è stata una: qual è il volto del Covid-19? E nel guardarmi intorno, mi sono sorpreso sospeso nel cercare una risposta. I siti internet e i giornali pubblicavano immagini di spazi vuoti, piazze deserte e di acqua pulita a Venezia. Molte delle fotografie ritraevano persone sconosciute, catturate a camminare con la mascherina sul volto in città fantasma. Ho passato questi ultimi dieci anni della mia vita professionale documentando guerre, rivoluzioni e violazioni dei diritti umani in molti Paesi in aree di conflitto. Ho assistito alla caduta di regimi totalitari, a esodi planetari e bombardamenti indiscriminati, provando sempre a riportare indietro una testimonianza umana, per non dimenticare. Ed ora che nel mio Paese si stava consumando la più grande emergenza della sua storia recente, non sapevo come approcciarmi. Sapevo però quello che la fotografia è capace di fare, la sua dote unica di informare e allo stesso tempo di trasmettere emozioni immediate e di provocare una reazione che, se si è fortunati, è collettiva. Durante gli anni, ho dato molte interpretazioni all’approccio che caratterizza il fotogiornalismo contemporaneo coniato da Robert Capa: “Se la fotografia non è abbastanza buona, vuole dire che non sei abbastanza vicino”. E tuttavia, nonostante molte volte convergano, quella che personalmente ho sempre preferito, non riguarda la vicinanza fisica bensì quella empatica con il soggetto fotografato. Questa volta mancavano solo pochi chilometri per raggiungere l’epicentro ma avrei dovuto immergermi nella malattia, entrare nell’intimità delle persone affette dal virus per raccontare le loro storie di resilienza. In quel 2020, con un Paese oramai in lockdown, la Lombardia, Bergamo e la sua provincia diventano il focolaio italiano di coronavirus. Mancano le mascherine di protezione, gli ospedali sono saturi di pazienti, scarseggia l’ossigeno e le persone muoiono in casa. I forni crematori si affannano nel seguire il numero delle vittime e serve l’aiuto dell’esercito per portare via i feretri. Il 15 Marzo decido così di partire alla volta di Alzano Lombardo, dove per diverse settimane ho documentato per il New York Times le conseguenze nell’epicentro della crisi. È stato l’inizio di un viaggio dentro l’epidemia durato un anno e non ancora terminato. Sono sempre stato convinto che per fare del buon giornalismo serva molto tempo, condicio sine qua non si rischia di cadere nel vortice della superficialità dell’informazione. È fondamentale avere il tempo necessario per studiare la cultura del Paese, per entrare in contatto con il suo popolo, per organizzare la giusta rete di contatti e per creare empatia con le persone che stai fotografando. È proprio questa empatia la chiave di una buona immagine capace di andare oltre la mera testimonianza fotografica.  Ora scrivo da Bergamo dove per Repubblica sono tornato sui miei passi, per raccontare attraverso la macchina fotografica l’umanità incontrata e documentare come in un anno la vita è cambiata per sempre. Attraverso le stesse strade, prima percorse solo da ambulanze e mezzi funebri, mentre oggi avvolte dal traffico: celano una realtà ancora presente ma nascosta da un’apparente normalità […]

Fabio Bucciarelli è un fotografo, giornalista e autore italiano apprezzato a livello internazionale per i suoi reportage in zone di conflitto. Negli ultimi dieci anni ha documentato gli eventi centrali della storia contemporanea, dalle Primavere arabe alle guerre in Medio Oriente, dai conflitti africani e quelli europei, all’esodo dei migranti lungo il confine fra Messico e Stati Uniti. I suoi lavori hanno conquistato i più importanti premi fotografici al mondo come la Robert Capa Gold Medal, il World Press Photo, il Visa d’Or di Perpignan, Il Lucie Award. Il libro “The Dream”(FotoEvidence, New York, 2016) è stato scelto fra i migliori libri fotografici dell’anno dalla rivista Time. Nel 2020 Bucciarelli ha documentato l’epidemia di Covid-19 in Italia per il New York Times. Le sue fotografie pubblicate il 28 marzo sul quotidiano americano sono state fra le prime immagini che hanno mostrato al mondo il volto della pandemia.

Testimoni dell’apocalisse. Paolo Berizzi. Il mostro ha piegato la linea del tempo. Un anno dopo, anche i luoghi simbolo - Bergamo, Codogno, Vo’ - sembrano avere cambiato faccia. Bergamo: stazione di servizio Esso in via Borgo Palazzo. Come una quinta nel teatro dell’assurdo (perché ogni cosa, a partire dalla morte, sembra priva di logica apparente) è questo il benzinaio che, dalla sera del 18 marzo 2020, fa il giro del mondo dentro l’immagine più iconica del coronavirus: la colonna di camion militari con a bordo centinaia di bare. Sfilarono qui davanti. Come in una traversata in territorio di guerra. La città muta del coprifuoco, marchiata per sempre. “Il giorno dopo, con mia moglie, vedendo la televisione, pensammo fosse un film. E invece era il negozio, che è anche un po’ la mia vita. Non riesco neanche più a rivederla quella foto. Mi coccolo mia nipote e guardo avanti”, ricorda Severo Cornago, mister Esso. Su ogni camion erano stati caricate fino a otto salme. In un mese, ultimo carico il 17 aprile, fanno 900. Novecento caduti di una “guerra” che, in queste terre, ne ha uccisi a migliaia, tra i 6.500 e i 10mila. Morti di tutti e di nessuno. In quei giorni che nel capoluogo della provincia più colpita d’Europa dalla prima ondata del Covid-19 trasformano gli uomini dell’esercito in Caronte in tuta mimetica, nel buio sparso dalla peste silenziosa, i familiari nemmeno sapevano che il loro morto fosse partito. Né quando, né per dove.

La notte in cui Bergamo cambiò per sempre. Edoardo Bianchi e Paolo Berizzi. “Quando ho visto i carri sfilare per Bergamo ho provato un vuoto e tanto dolore. Sembrava un film: la città era silenziosa e si sentivano solo le sirene che rimbombavano”. È una delle testimonianze raccolte a Bergamo a un anno da quelle immagini che sconvolsero il mondo intero: i carri militari lungo via Borgo Palazzo carichi di bare da portare altrove perché in città non c'era posto per tutti tante erano le vittime, la chiesa del cimitero monumentale trasformata in deposito e le terapie intensive e sub-intensive straripanti di pazienti. Per chi ha vissuto quello strazio, una cicatrice che rimarrà per sempre. Giuseppe Vellelonga è uno dei tre addetti dell’impianto crematorio del cimitero di Bergamo. Ricorda: “I soldati ci sono venuti in soccorso perché eravamo oltre l’overbooking. Ogni impresa funebre portava anche quattro salme per volta. Trenta imprese al giorno. Straripavamo”. A marzo e aprile dell’anno di disgrazia 2020 lui, la collega Giovanna Corriga e la responsabile Mariarosa Calderaro, hanno lavorato dalle 7 alle 22. Marzo: 650 cremazioni. Aprile: 681. “Per me il Covid è stato correre tanto”, dice Giuseppe. “La scena più straziante ce l’ho dentro e non la voglio ricordare”, Giovanna. Mariarosa: “Avevo il terrore di sbagliare a compilare gli elenchi con i nomi”. Dal forno crematorio alla Esso ci sono 500 metri in linea d’aria. “Siamo stati fermi un mese. È stata un’apocalisse”, dice Alessandro Tacana, meccanico. “Quando vai via la sera, col buio, ci pensi”. Figlio di boliviani, ormai bergamasco, bòcia da undici anni sotto i motori delle auto. “E quindi”, dice stringendo un bullone, “il posto dove lavoro resterà per sempre impresso in quella foto”. Il ricordo della luce sparata dai grossi fari tondi dei mezzi telonati nella notte più cupa si riaccende sotto il pallido sole di febbraio. Il nuovo febbraio dell’ex Wuhan d’Italia. Nell’auto-officina Alessandro ascolta il notiziario alla radio: variante inglese, ritardi della campagna vaccinale per gli over 80. “Siamo ancora dentro?”, chiede al suo capo. “Si - gli risponde Severo - siamo ancora dentro. Più che altro, Ale, sembra che non ne siamo mai usciti”. Quando tutto è cominciato, il mostro si è manifestato in un punto preciso. Ma, dodici mesi e 94mila morti dopo, il finale è ancora aperto. Come nei thriller. E allora, per capire la trama, quello di cui è stato capace e senza nemmeno la certezza che rinculi e molli la presa, ripercorri la prima mappa del Covid. In un tempo non ancora di pace ha senso tornare nei luoghi del debutto. Là dove il virus si è preso il campo e, per presentarsi, ha picchiato durissimo. Codogno, Vo’, Bergamo. L’innesco della pandemia ha la forma di un triangolo isoscele: la punta rivolta a est, verso Venezia un tempo porta d’Oriente, appunto. Vita e morte in un pezzo di profondo Nord: 518 km, se colleghi le tre linee rette. Cimitero di Codogno, primo pomeriggio. L’aria gelida spazza l’ingresso dove è posta la targa dedicata ai “caduti del Covid-19” (sulla facciata domina la scritta Resurrecturis, coloro che risorgeranno). La scoprì il presidente Mattarella il 2 giugno. Per arrivare al “campo nuovo”, come lo chiama il custode, Vincenzo, da Marsala, devi percorrere il portico a sinistra. Dopo una “elle” di marmo grigio, tempestata di lapidi, fiori e piante rovesciate dal vento, si apre il prato dei morti del coronavirus. Vincenzo indica la tomba di Giuseppe Vecchietti. Un codognese illustre. Fondatore della Protezione civile e della manifestazione ciclistica Ciclolonga delle Rose, gestore della storica Locanda San Marco. Vecchietti è una delle 186 vittime cadute sotto i colpi del virus (lui si è spento al policlinico di Pavia) – tra il 20 febbraio e fine maggio. “Ho ancora davanti agli occhi il pronto soccorso stipato di pazienti, e noi che lavoriamo di notte per aumentare le bocchette dell’ossigeno”, racconta Enrico Storti, all’epoca primario di terapia intensiva all’ospedale di Lodi (da cui dipende anche quello di Codogno). “Mi sembrava un punto di non ritorno. Siamo tornati. Ma la lotta non è finita”. Storti, che oggi è a Cremona, lavorava con Annalisa Malara. È l’anestesista che scoprì il Paziente 1, Mattia Maestri.

Raffaele Bruno, il medico che salvò il paziente 1. Andrea Lattanzi. "Eravamo come medici dell'Ottocento, non c'erano studi né terapie. Poi le cose sono migliorate, ma non è stato semplice". Raffaele Bruno, direttore del reparto Malattie Infettive al policlinico San Matteo di Pavia che il 21 febbraio 2020 si trovò ad affrontare la malattia di Mattia Maestri, passato alle cronache come il paziente 1 di Codogno. Il professor Bruno di quell'esperienza ha scritto, con il giornalista Fabio Vitale, un libro intitolato "Un medico". Tutto il ricavato verrà devoluto alle famiglie degli operatori sanitari deceduti per colpa del Covid. "Ho imparato che prima eravamo felici e forse non lo sapevamo. Uscire, andare a cena e abbracciare sono privilegi che adesso non ci sono concessi". A proposito. Dov’è, Mattia? “Sono partiti ieri, lui, la Valentina (Valentina Soldati, la moglie, insegnante di ginnastica, ndr) e la bambina - dice la suocera all’erboristeria Madre Natura a Casalpusterlengo -. Volevano staccare un po’, in questi giorni, sa, prevedendo le telefonate”. Un 38enne maratoneta. Una salute di ferro. Da quel corpo aggredito dal virus parte l’epidemia in Italia. Oggi Mattia ha ripreso a correre. Si gode la figlia Giulia nata quando lui era ancora intubato in ospedale. È tornato anche a bere centrifugati al bar “Manìa”, in piazza XX Settembre. Bentornati nella prima zona rossa d’Italia. Primo contagiato, primo lockdown totale. “Siamo rimasti vivi e oggi possiamo dire di essere stati un modello”. È il sindaco, non ancora 40enne, Francesco Passerini, a dividere il prima e il dopo. La città della mela cotogna, del biscotto e della raspadura. Qui, in mezzo alle nebbie della bassa lodigiana, i segni più tangibili della vita bloccata per 108 giorni resteranno la fiera del bestiame saltata dopo 200 anni e la soppressione del mercato in piazza. “Ma così abbiamo fermato il coronavirus. Senza tentennamenti, come fanno i nostri contadini per proteggere le vacche dal temporale”. I sopravvissuti, il sabato, fanno le vasche sullo struscio di via Roma; le sciure si fermano da “Cornali” a prendere i pasticcini. Dice Gigi Cornali, quarta generazione dolciaria: “La ferita deve ancora cicatrizzarsi. E tutte le volte che rialzi la testa, bam!, sembra arrivare sempre la nuova botta”. Nel lessico asciutto e concreto dei codognesi, l’abusatissima parola “resilienza” non entra. Però è quella roba lì. Quando la gente era tappata in casa e pochi si incontravano alle rotatorie dei posti di blocco per le consegne dei cambi per i familiari in ospedale. Nella chiesa del Cristo, che fu trasformata in obitorio, oggi si prega. La prece può anche essere laica. Piera Antarelli, negozio di abbigliamento Cincillà. Lei si è inventata una storia divertente: le donne qui erano diventate “regine”. Nasce il gruppo “Noi come regine…”. “Ognuna viene invitata a mandare un selfie. Aderiscono anche Chiara Ferragni, che a Codogno aveva la nonna, e Ambra Angiolini. Ogni volta postavamo la regina del giorno. Socialità leggera, per non far spegnere l’anima”.

Ti allontani di un niente: Casalpusterlengo. La morte qui è scolpita. Il memoriale del Covid è un monumento in pietra: “pietre della memoria” impresse in un tronco di cono con punta spezzata al Mortarino. Ogni sasso un defunto. Ce ne sono più di 200 (anche da Codogno). L’ultima pietra? È datata 25-01-2021: “Silvia…”. Sono stati un macigno anche per i sopravvissuti i mesi soffocanti della peste. E per chi era in prima linea. “Di notte stavamo attaccati al fax in attesa dell’esito dei tamponi - torna indietro con la memoria Andrea Filippin, direttore sanitario dell’ospedale di Codogno, appena 100 posti letto, evacuato tra il 20 e il 21 febbraio -Alla fine, però, sa cosa penso? Il Covid è stato un atto della natura. Ci sentivamo così forti e invece eravamo fragili. La natura ci ha detto: ‘occhio che non ci siete solo voi al mondo’”. Filippin incontra una persona molto cara. “Vede? Non ho sentito il bisogno di dargli la mano. Incredibile come il virus ci stia cambiando nel profondo”.

Spostiamoci a Vo. “Locanda al Sole”, in piazza Liberazione. Il tavolo a forma di botte dove Adriano Trevisan, detto “il moro”, e il suo amico Renato Turetta, alpino, giocavano a briscola, è l’ultimo in fondo alla sala. Sulla vetrina del locale, riaperto il 18 maggio del 2020, campeggia una vetrofania. “Noi abbiamo l’alcol che ci protegge”. Esorcizzare, certo. Ma non è che suoni proprio benissimo. Alla “locanda”, come la chiamano in questo Paese di 3.300 anime sul versante ovest dei colli euganei, scoppiò il focolaio che piantò la prima croce italiana. Il Morto 1: Trevisan. A 78 anni, il 21 febbraio. L’amico Turetta, che ne aveva 67, se ne va il 10 marzo. Anche lui contagiato. Entrambi ricoverati all’ospedale di Schiavonìa. Incontriamo Manuela Turetta, la figlia: “Lavoravo in enoteca a Torreglia, mi hanno chiamato. Papà era un leone, non aveva malattie. Ancora adesso non ho metabolizzato quello che è successo. Faccio una fatica enorme. È stata come una bomba a orologeria e ogni notizia sul Covid mi tiene aperta la ferita”. Passo indietro. Al “Sole” ci va anche Erik Granzon. Chi è? Uno dei più grossi produttori di fuochi d’artificio del nord Italia. Li importa dalla Cina. “Quando hanno chiuso il Paese ci è crollato il mondo addosso. Trevisan era mio vicino di casa. All’inizio pensavano tutti che il virus l’avessi portato io dalla Cina: invece ero stato a Dubai”. C’è un proverbio veneto che recita così: “Ci g’a paura del diaolo no fa schei”. Chi ha paura del diavolo non fa i soldi. È che il diavolo è arrivato davvero. “Dal 21 febbraio 2020 non ho fatto un lavoro - dice Granzon - I 17 dipendenti sono in cassa integrazione. Ho perso il 95% del fatturato”. Vo’ e Codogno sono stati i primi due comuni cinturati (nel lodigiano insieme a Codogno altri 9 paesi Comuni). La cintura che è mancata nella bergamasca, la provincia più colpita d’Europa. “Siamo stati uno stress test – spiega il sindaco del centro euganeo, Giuliano Martini, farmacista, in attesa della giornata del ricordo il 2 - Check point subito. Triplo tracciamento per 3mila persone grazie all’intuizione di Crisanti e Zaia. Volontariato straordinario. Alla fine, il virus è rimasto qua, non è uscito e abbiamo avuto solo 6 morti”. Merito anche dei medici. Camici bianchi più inclini al lavoro in corsia che alla tv. Jacopo Monticelli è l’infettivologo dell’ospedale di Schiavonìa (oggi è a Trieste) a cui viene l’idea di fare il tampone a Adriano Trevisan. “Mi sono sempre sentito un po’ in imbarazzo. Passerò alla storia come il medico del primo morto. Avrei voluto guarirlo. È andata così: chiedo alla figlia di Trevisan se il padre aveva avuto contatti con la Cina eccetera. No, mi dice. Poi il padre, stava già male, mi racconta che gli amici del bar avevano avuto tutti febbre e tosse. A quel punto mi è venuto il dubbio”. Sono passati dodici mesi. Ma se parli con la gente hai la sensazione che tutto sia accaduto ventiquattro ore prima. C’è come un blocco delle emozioni. Eppure la vita si è ripresa i suoi spazi. Il sabato e la domenica nei 43 ristoranti e agriturismi sui colli del buon vino e dei sentieri dolci non si trova un posto libero. Dimenticare, però, è impossibile. Giorgio Campanese, 63 anni, operaio in pensione. “Quando il 23 febbraio ci hanno chiuso, ho aperto una pagina Fb. Ci scambiavamo informazioni, cose di prima necessità. Prima a Vo’ c’era molto individualismo. Il Covid ha fatto nascere tante amicizie”. A settembre una corsa a staffetta ha unito le prime due zone rosse d’Italia. C’era anche Mattia. Ha corso le ultime due frazioni, da Caselle di Novella Vicentina a Vo’. “Sia benedetto”, dice Campanese. A proposito di fede: il patrono di Vo’ è San Lorenzo. “Crisanti – scherza Giorgio – potrebbe insediarne il titolo”. Da queste parti il direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia dell'Azienda Ospedaliera di Padova è considerato un salvatore. “Ha capito subito che la cosa era seria”, aggiunge il sindaco Martini. Il sottopancia di ogni discorso nei due angoli del triangolo del “primo Covid” è quasi sempre quanto successo nel terzo angolo: Bergamo. La provincia dell’ecatombe. L’effige drammatica delle bare. “È troppo presto. Dentro di noi avremo bisogno di molto tempo per realizzare che cosa è successo”, dice Luca Lorini, l’ormai noto primario della terapia intensiva del Papa Giovanni XXIII. Mentre il capoluogo con il suo mega ospedale provava a non annegare sotto la marea montante, Lorini si sdoppiava: medico sul campo e comunicatore. “Ho cercato di lanciare messaggi di buon senso a una popolazione disorientata di fronte alle incertezze e agli errori della politica. La gente moriva sola. A un certo punto ho fatto il medico, il prete e il familiare”. Un altro che di mestiere sta tra la vita e la morte è Roberto Cosentini: 60 anni, primario della Medicina d’urgenza dell’ospedale. “Nel flagello bergamasco, sembra un paradosso, mi sono sentito fortunato. Mi sentivo la persona giusta al momento giusto, non sempre capita”. Scherzo del destino: fino al 2016 Cosentini andava a Wuhan a insegnare ai colleghi come usare i caschi Cpap. Mostra la locandina di un convegno a Pechino. E da Wuhan, la pandemia tirato un filo che ha strangolato Bergamo. Per Cosentini “è stata la strage di un popolo”. Renata Colombi, responsabile del Pronto soccorso, si commuove ancora. E come lei tanti infermieri. “Sì, da medico e da donna, ho avuto paura di crollare”. Per fissare la “strage” a imperituro ricordo, per provare a trasformare il dolore in rinascita, a Bergamo sorgerà il “bosco della memoria”. Proprio lì, accanto al corpaccione del Papa Giovanni XXIII. Un albero per ogni vittima al Parco della Trucca. “Così non dimentichiamo”, lo ha benedetto Francesco Guccini. Un bosco nascerà, forse, anche a Nembro: il Paese più colpito della Val Seriana che nessuno, né il governo, né la Regione, ha mai chiuso, mentre la gente crepava. Centottantotto alberi nembresi, tanti quante le vittime Covid di marzo e aprile. “Come alberi, ci rialzeremo”, dice il sindaco Claudio Cancelli. Ma adesso, dopo tanto strazio, che volto ha il domani? La chiosa di Roberto Cosentini è puro realismo: “Siamo ancora sotto scacco. C’è voglia di voltare pagina ma non riusciamo ancora a farlo”. Il mostro non sente la fatica. E non ha scelta. Per vivere deve continuare ad aggredire corpi sani.

L'ora zero dell'incubo Covid. A distanza di un anno la notte in cui il coronavirus si svelò a tutto il Paese. Ecco cosa è successo all'ospedale di Codogno. Giuseppe De Lorenzo ed Andrea Indini, Sabato 20/02/2021 su Il Giornale. Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19. «Ventiquattro infermieri e nove medici: non mi dimenticherò mai il momento in cui mi sono reso conto che il personale, nessuno escluso tranne me, era da mettere in quarantena - racconta il direttore del pronto soccorso di Codogno, Stefano Paglia - improvvisamente erano diventati tutti contatti stretti di pazienti a cui avevamo appena scoperto il Covid-19. Non c’era alternativa alla chiusura. In diciotto ore abbiamo trasformato il dipartimento di emergenza di Lodi per reggere l’onda d’urto e lì ho trascorso i 104 giorni più lunghi e difficili della mia vita». L’Italia piomba nell’incubo il 20 febbraio quando, poco dopo la mezzanotte, l’assessore al Welfare della Regione Lombardia, Giulio Gallera, dà notizia del primo contagio: Mattia Maestri, un 38enne della provincia di Lodi, risulta positivo al tampone. «Sono stato ricoverato per una polmonite - spiegherà mesi dopo in una intervista a Sky Tg24 - solo quando mi sono svegliato mi hanno raccontato cosa c’era in giro, cosa stava succedendo… e neppure nel dettaglio. Solo dopo ho capito la gravità di quello che stava succedendo intorno a me». È da almeno una settimana che Mattia non sta bene. All’inizio pensa alla «solita influenza», ma presto capisce che c’è qualcosa che non va. La febbre, infatti, non passa. Il 18 febbraio, poco prima delle tre di pomeriggio, si presenta al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno e, quando le lastre evidenziano la presenza di una leggera polmonite, decide di tornare a casa. D’altra parte, il suo profilo non autorizza i sanitari a un ricovero coatto e così si limitano a prescrivergli un generico antibiotico. Nel frattempo, però, le persone con cui il giovane ricercatore dell’Unilever di Casalpusterlengo entra in contatto da quando ha contratto il coronavirus, continuano ad aumentare. Molte di queste sono proprio i medici e i pazienti dello stesso nosocomio. [...] Alle tre di notte del 19 febbraio Mattia torna a farsi vedere in pronto soccorso: la polmonite si è fatta gravissima e ormai fatica a respirare. Nessuno sa dargli spiegazioni e la preoccupazione inizia a farsi sentire. «Può essere un caso di coronavirus», chiede Maestri a un operatore sanitario di passaggio al pronto soccorso. La risposta, letta col senno del poi, fa strabuzzare gli occhi. «Ensà nianche addu stà», gli risponde in dialetto. I medici brancolano nel buio ma, grazie all’intuito dell’anestesista Annalisa Malara, si riesce a capire cosa sta succedendo. È lei a prendersi la responsabilità di effettuare il tampone anche se la situazione non lo prevede. Se decidesse di seguire il protocollo del ministero della Salute, non arriverebbe mai a capire che Mattia ha contratto Covid-19. La circolare in vigore allora, quella emanata il 27 gennaio, corregge un’altra emanata solo cinque giorni prima e che invita a considerare caso sospetto chi «manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato». Secondo le nuove linee del ministero della Salute, sono da considerarsi «casi sospetti» solo quelle persone con una infezione respiratoria acuta grave» che siano anche state in «aree a rischio della Cina», che abbiano lavorato «in un ambiente dove si stanno curando pazienti» colpiti dal coronavirus o che abbiano avuto contatti stretti con un «caso probabile o confermato da nCov». Alle prime domande dei medici, Mattia racconta di aver fatto soltanto «un viaggio a New York» e di non essere mai entrato in contatto con persone che hanno viaggiato in Cina. Solo il 19 gennaio la moglie Valentina, all’ottavo mese di gravidanza, racconta di una cena con alcuni colleghi di lavoro il primo febbraio. Uno di questi è il manager di una società di Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, che è rientrato dalla Cina il 21 gennaio. L’amico risulterà, poi, non essere il «paziente zero» che ha provocato il contagio nel Lodigiano, ma tanto basta alla Malara per decidere di battere strade eccezionali. «Quando un malato non risponde alle cure normali, all’università mi hanno insegnato a non ignorare l’ipotesi peggiore», spiega l’anestesista di Cremona in una intervista a Repubblica. «Per aiutarlo ho pensato che anche io dovevo cercare qualcosa di impossibile. Mi sono trovata al posto giusto nel momento giusto, o forse in quello sbagliato nel momento sbagliato». Sono «la rapidità e la gravità dell’attacco virale» a spingerla ad andare oltre. A metà mattina di giovedì 20 febbraio, quando ormai Mattia è in rianimazione, la 38enne decide di effettuare il tampone anche se, come abbiamo spiegato, il protocollo ministeriale non lo giustifica. Corre, quindi, a chiedere l’autorizzazione all’azienda sanitaria che le scarica addosso qualsiasi responsabilità. «Ho scelto di fare qualcosa che la prassi non prevedeva – ribadisce – l’obbedienza alle regole mediche è tra le cause che ha permesso a questo virus di girare indisturbato da settimane». Sin da subito l’impegno in prima linea non viene apprezzato da Roma che reagisce con piccata stizza a qualsiasi salto in avanti. Anche quando, come al nosocomio di Codogno, aiuta a bruciare i tempi e salvare vite in una situazione già di per sé drammatica. Succede così che, durante una trasmissione di Raiuno, il premier Giuseppe Conte riscrive completamente la realtà accusando «un ospedale» di aver così scatenato uno dei focolai. Il riferimento è appunto a Codogno. «C’è stata una gestione a livello di una struttura ospedaliera non del tutto propria, secondo i protocolli prudenti che si raccomandano in questi casi – è la denuncia del presidente del Consiglio – e questo sicuramente ha contribuito alla diffusione». Un attacco che non solo fa infuriare i vertici di Regione Lombardia, ma che manca di rispetto a medici, infermieri e personale sanitario che, soprattutto all’inizio, si trovano a combattere contro il virus ad armi impari. Lo schiaffo di Palazzo Chigi sarà «riparato» il 3 giugno quando il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nominerà la Malara cavaliere al merito. All’ospedale di Codogno non sarà la sola a ricevere tale onorificenza: toccherà anche a Laura Ricevuti, medico del reparto medicina. «Qui, all’ospedale di Codogno, abbiamo visto per primi il ‘paziente 1’ e il ‘paziente 2’, entrambi più giovani di me, in condizioni gravissime, intubati per sopravvivere - spiega Paglia - in quei momenti la nostra speranza era di contenere la diffusione della malattia e di blindarci per proteggere le grandi città, prima tra tutte Milano». È grazie a professionisti del calibro della Malara che si è riuscito a evitare che la pandemia dilagasse anche al Sud Italia e colpisse altre regioni. Grazie alla sua pervicacia, intorno alle 13 del 20 febbraio, il tampone di Mattia arriva agli ospedali Sacco di Milano e San Matteo di Pavia per essere analizzato e in serata, poco dopo le 20.30, una telefonata può fugare i dubbi dei medici dell’ospedale di Codogno che non riescono a curarlo con le medicine tradizionali. «Il paziente ha contratto il coronavirus», fanno sapere da Milano. In quel momento tutto cambia. In attesa che vengano effettuate le controanalisi da parte dell’Istituto superiore di sanità (Iss), i medici del piccolo ospedale di Codogno si fiondano a indossare le protezioni prescritte in caso di epidemia e gli accessi al pronto soccorso e tutte le attività programmate vengono interrotte «a livello cautelativo». «Medici e infermieri sono rimasti chiusi all’interno, in quarantena, continuando a lavorare», spiega il primario Stefano Paglia ricordando la decisione di rinunciare, «per tre giorni», a fare al personale sanitario i tamponi «perché erano esauriti e i laboratori del Sacco e del policlinico San Matteo di Pavia risultavano intasati». «Abbiamo deciso di considerarci tutti positivi, lasciando la precedenza dei test ai malati». «Ho pensato molto dove possa aver preso il virus ma non ho la benché minima idea di dove possa essere accaduto - spiegherà più avanti Mattia - sia io che mia moglie, nelle nostre ricostruzioni, non siamo venuti a capo di un possibile punto di inizio». Nessuno lo capirà mai, nonostante gli ingenti sforzi messi in campo per riuscire a ricostruire tutti i movimenti dei Maestri. La Regione Lombardia si fionda subito a diramare l’allarme a tutta l’Italia: «Le persone che sono state a contatto con il paziente sono in fase di individuazione e sottoposte a controlli specifici e alle misure necessarie». L’effetto domino è ormai partito e non può essere arrestato. Anche la moglie di Mattia risulta subito positiva al tampone. E con lei anche un amico che fa sport con il marito. I due vengono immediatamente ricoverati al Sacco di Milano. Altre quattro persone, arrivate all’ospedale di Codogno nella notte tra il 20 e il 21 febbraio, finiscono in isolamento perché presentano «quadri di polmoniti importanti». E ancora: i riflettori vengono puntati sul medico di famiglia che ha visitato il giovane il 17 febbraio dopo due giorni di febbre incessante e una collega dell’Unilever di Casalpusterlengo. Quest’ultima viene ricoverata nel reparto malattie infettive dell’ospedale di Piacenza. Sin dalle prime ore appare chiaro che riuscire a mappare i contatti avuti dal «paziente 1» negli ultimi diciannove giorni e, quindi, tentare di contenere l’epidemia appare impossibile. Si parte dall’Unilever, dove Mattia lavora al centro ricerche. Alle 3 di notte, durante il terzo turno, alcuni lavoratori si fiondano al mezzanino dello stabilimento per cercare Stefano Priori che, oltre lavorare al reparto separazione dove si produce la materia prima per fare i detersivi, è il vice sindaco di Castiglione d’Adda. «Sabato pomeriggio (22 febbraio, ndr) – ci spiega – gli impiegati, che erano entrati in contatto con Mattia, sono stati convocati in infermeria ed è stato fatto loro il tampone. Il giorno dopo è toccato a tutto il resto della fabbrica». Il 25 febbraio arrivano gli esiti: su 350 persone, dieci risultano positive. «Alcuni di questi, dopo pochi giorni, hanno avuto la febbre – continua – e almeno un paio di loro sono rimasti ricoverati in ospedale per oltre un mese. Fortunatamente nessuno ha perso la vita…». Oltre agli affetti e al lavoro, si cerca tra gli eventi sportivi a cui ha partecipato Mattia nelle settimane prima dell’esplosione della malattia: due gare podistiche (quella delle «Due Perle» tra Santa Margherita Ligure e Portofino il 2 febbraio e l’altra a Sant’Angelo Lodigiano il 9 febbraio) e una partita di calcio con la squadra «Il Picchio di Somaglia» (il pomeriggio del 15 febbraio dopo aver partecipato a un corso con la Croce Rossa di Codogno). E ancora: una serata in birreria a Casalpusterlengo (il 4 febbraio) allarga il contagio ad altre tre persone. È una corsa contro il tempo. Si lavora senza sosta, come degli agenti sotto copertura, fino a ricostruire gli ultimi contatti prima che il 38enne si ammali e si chiuda in casa. È il 15 sera, dopo una cena con un paio di amici in un ristorante di Piacenza: la febbre inizia ad alzarsi e per Mattia inizia l’incubo. Non appena il quadro è tracciato, sono 150 i «contatti stretti» da monitorare. Ma è uno sforzo del tutto inutile perché tutti i contagiati hanno avuto, a loro volta, una fitta serie di contatti da verificare. Per esempio Valenti, che fortunatamente è in maternità e non tiene più le lezioni nella scuola in cui insegna, frequenta un corso preparto e aiuta la madre in una erboristeria. Ben presto, ci si accorge, quindi, che il virus ha valicato non solo i confini della «zona rossa» nel Lodigiano ma anche quelli della stessa regione Lombardia. «Le indagini sul focolaio di Codogno sin da subito dimostrano che i casi si erano già propagati e che ormai erano arrivati troppo lontani», racconta una fonte all’interno della task force della Lombardia. «Ricordo ad esempio il caso della scuola agraria di Codogno, dove studiavano alcuni ragazzi della Valtellina e dove abbiamo trovato un gruppetto di casi positivi, sicuramente derivati dal basso lodigiano». Intanto un nuovo caso viene individuato all’ospedale civile di Cremona: si tratta di una paziente ricoverata cinque giorni prima nel reparto di pneumologia. A Vo’ Euganeo, un paesino in provincia di Padova, risultano positivi due anziani. Uno di questi, Adriano Trevisan, un 78enne ricoverato dieci giorni prima per altre patologie, muore all’ospedale di Schiavonia (Padova) la sera del 21 febbraio. E il giorno dopo si registra il primo caso a Torino, una persona che lavora in una azienda di Cesano Boscone. Sono giorni segnati dal caos. L’Italia si affida ancora ai dati forniti dalla Cina, che fanno segnare appena 2.360 morti su 77.662 contagi, e alle rassicurazioni del direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, che su Twitter parla di contagi lievi nell’80 per cento dei casi, di contagi critici nel 20 per cento e di una mortalità al due per cento. «Poco più di una banale influenza», si affrettano ad assicurare anche stimati virologi. Numeri e percentuali che ben presto saranno smentiti da quanto accadrà nel nostro Paese.

Marco Belpoliti per doppiozero.com il 24 febbraio 2021. Ero a Parma la mattina del 21 febbraio 2020 e tornavo a Milano la mattina presto. L’altoparlante ha annunciato che il treno in arrivo da Bologna non si sarebbe fermato nella stazione di Codogno. Non avevo mai sentito prima di allora che una stazione era stata chiusa ai viaggiatori in arrivo. Dopo poco è giunto il mio treno. Quando siamo passati per Codogno ho fatto in tempo a vedere il cartello che indicava la cittadina lombarda. Un cartello fantasma, come l’intera stazione. Arrivato in Centrale mi sono fermato a comprare il giornale e una ragazza in fila prima di me ha chiesto all’edicolante un biglietto per Codogno. Lui l’ha stampato e consegnato. La ragazza è corsa via di fretta. Sarà mai arrivata? Le note che seguono sono una sorta di diario minimo di quanto è accaduto dopo quel 21 febbraio. Sono state pubblicate nel corso dei mesi seguenti su “la Repubblica” in una rubrica intitolata “Effetti personali”. Li ripubblico come personale memoria, quasi rasoterra, di questo periodo. Non troverete nulla di particolarmente nuovo o eclatante. Sono state il mio modo di stare in attesa del meglio.

Febbraio-maggio 2020

CARTA IGIENICA. Appena l’emergenza Coronavirus è stata dichiarata a Milano, a Chinatown è scomparsa la carta igienica dagli scaffali dei supermercati. La stessa cosa era capitata qualche settimana prima a Hong Kong, dove i negozi erano stati presi d’assalto e la Tp (toilet paper) sparita. Non l’acqua, non il cibo, non i generi di conforto, ma proprio i rotoli per i gabinetti. Nella città asiatica poi si era diffusa la voce che la malavita locale stava speculando su questo prodotto. Cosa che poi si è rivelata in parte vera. La ragione di questo accaparramento resta misteriosa, tuttavia pare condivisa da un altro paese orientale che ha alcuni tratti in comune con la Cina: il Giappone. Ogni volta che in quella nazione accade un disastro di grandi proporzioni, ad esempio l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima, scatta il Tp Panic. Com’è possibile che proprio i rotoli di carta tengano il primo posto tra i beni per la sopravvivenza? La risposta non c’è. La carta igienica sarebbe stata inventata in Cina, anche se la prima ufficialmente registrata è la J. C. Gayetty’s Medicated Paper for the Water Closet in vendita in America nel 1857. Prima si usavano i fogli di giornale, ma l’inchiostro tipografico, le tracce di sbiancanti come il vetriolo, la calce viva e la potassa, tendevano a provocare o aggravare le emorroidi, come scrive Steven Connor nel suo libro Effetti personali (il Saggiatore), mentre le “medicazioni emollienti” del nuovo prodotto davano sollievo. Da quel momento la carta igienica è diventata un prodotto diffuso in tutto il mondo e ha conquistato paesi e popoli che in precedenza non vi facevano ricorso. La carta per i WC ha due vantaggi, se la si acquista in quantità enormi: costa poco e non deperisce. Si conserva a lungo e passata l’emergenza chi l’ha comprata la smaltisce pian piano. Nonostante tutto questo la spiegazione per la corsa compulsiva da parte dei cinesi che vivono in Italia non c’è. Neppure la psicoanalisi sembra venire in soccorso. Non bisogna dimenticare che lo scorso anno proprio a Pechino Bill Gates ha presentato un nuovo tipo di gabinetto privo di acqua corrente e alimentato da un pannello solare, per cui ha investito 200 milioni di dollari. La questione della defecazione non è infatti un problema da poco nei paesi che posseggono sistemi fognari poco efficienti. Una lunga storia che continua, carta igienica compresa.  

MANI. Quante volte ci laviamo le mani in questi giorni? Ho calcolato non meno di cinque o sei volte. Mi è venuto in mente Sigmund Freud e le sue riflessioni circa le ossessioni e le fobie, tra cui quella di lavarsi le mani molte volte al giorno come per un rito di purificazione da parte di soggetti afflitti da nevrosi di angoscia. Senza dubbio il coronavirus ha attivato in noi atteggiamenti fobici, per quanto il lavarsi le mani, a detta degli esperti, è una delle misure profilattiche migliori per non essere contagiati. Ora il continuo lavaggio delle mani però un effetto lo produce sulle nostre preziose estremità: le secca. Perciò via tutti, donne e uomini, a usare la crema per le mani. Questa è tra gli oggetti più ricercati in questi giorni, indispensabile anche per il fatto che siamo in inverno e le mani si screpolano già per via del freddo. Da dove vengono le creme per le mani? Dal mondo antico. Nella farmacopea egizia tra gli unguenti vari, come riportano i papiri, c’è anche la formula per la creazione di una efficace crema per la pelle e per le mani. La necessità di idratarle attraverso una pellicola che salvaguardi lo strato corneo è una costante di tutte le creme sia antiche che moderne. La loro base è costituita dai grassi che compongono una sorta di film superficiale che riduce la perdita d’acqua. Per questa ragione tutte le creme contengono già di loro acqua e poi oli vegetali come la mandorla o minerali come la paraffina, che è un derivato dalla raffinazione del petrolio, oppure prodotti sintetici come i trigliceridi. Tuttavia le sostanze umettanti più usate sono la glicerina e l’urea. La prima è anche una delle componenti più consuete di alcuni disinfettanti che si usano contro il temibile virus: la contengono in modo da non seccare troppo la pelle mentre la disinfettano. In realtà, per evitare di lavarsi sempre – metodo molto semplice ed efficace a cui ci hanno educati prima di metterci a tavola o toccare il cibo – basterebbe indossare dei guanti, come quando si lavano i piatti. Ma i guanti fanno molto massaia e operaio e, pur essendo un capo tecnico, non sono molto amati in genere dalle persone che non esercitano mestieri per cui sono indispensabili, dai carpentieri ai chirurghi. Inibiscono la cosa più immediata: toccare, palpare, accarezzare, sfiorare. I guanti sono ritenuti “innaturali”, eppure mai come oggi ci eviterebbero di screpolarci le mani con continui lavaggi che Covid-19 ci obbliga. Maledetto virus! 

ALCOOL. Caro vecchio alcol o alcool, con due o, come si diceva una volta, sei tornato di moda? Quanti tipi di alcol esistono? Almeno sei o sette: metanolo, etanolo, propanolo, eccetera. Il metanolo è l’alcol della strage di bevitori diversi decenni fa, nel 1986, quando vennero immesse in commercio bottiglie di vino in cui era presente il metanolo usato per addizionare gli zuccheri. Ne aveva parlato all’epoca Primo Levi in un suo memorabile articolo. L’alcol di oggi è l’etanolo, quello che si usa, o si usava un tempo, per disinfettare, il liquido di colore rosso che era sempre presente nelle case. Poi era stato superato da altri prodotti disinfettanti dai nomi commerciali sempre diversi. Ma sempre di disinfettanti si trattava. L’etanolo ha la prerogativa di uccidere i microrganismi denaturando, per cui è noto come “alcol denaturato”, che si compra nei negozi, oltre che nelle farmacie: denatura le proteine dei microbi, come si diceva una volta, prima che imparassimo la distinzione tra batteri e virus; così dissolve i loro lipidi e li mette fuori gioco. Uccide batteri, funghi e virus, compreso quello della SARS e anche il coronavirus. Ma anche lui ha dei limiti: non ce la fa con le spore dei batteri. Come dire che non c’è un disinfettante a effetto totale. Un tempo non c’era casa che non avesse nell’armadietto dei medicinali un bel flacone rossiccio. Era un oggetto ritenuto pericoloso, perché oltre a disinfettare – le ferite o sbucciature che ci si procurava da ragazzi bruciavano – era anche infiammabile, per cui ci intimavano di stare attenti. L’attrazione del fuoco è incredibile per i ragazzini, come dimostrano tanti racconti che hanno per protagonisti bambini piromani. Le mamme lo tenevano perciò nel ripiano in alto e minacciavano terribili punizioni se lo avessimo usato per scopi diversi da quello per cui era stato acquistato. Poi è stato sostituito dall’acqua ossigenata o perossido di idrogeno, che non brucia e riempie di schiuma biancastra le ferite. Oggi al supermercato la commessa sparge con un panno l’alcol sul ripiano della cassa e lo ripulisce dopo il mio passaggio. Tornato di moda? Necessariamente sì, come anche l’acqua ossigenato o l’ipoclorito di sodio, nota come candeggina, quella del bucato. Così tutti a comprarlo nei negozi e a usarlo per disinfettare, ad esempio il cellulare o la tastiera del computer dove si annidano batteri, e dove speriamo non ci sia il terribile coronavirus. Se c’è lo uccidiamo senza pietà con la soluzione al 70%.

VIDEOCHIAMATA. La videochiamata con il cellulare è diventata il modo con cui rompere la solitudine di queste giornate. Così anche gli anziani hanno imparato a vedere e farsi vedere da figli e nipoti. Il problema è come tenere la telecamera. Imitano i nipoti che tengono il cellulare vicino al viso e inquadrano la faccia con qualche taglio verso l’alto. Se il nonno e la nonna devono mostrarsi in coppia resta fuori quadro metà dell’uno e metà dell’altro. Quasi nessuno è munito della protesi telescopica, il selfie stick, che sarebbe assai utile per ritrarre la propria persona in modo adeguato. Alcuni avvicinano, forse per via della miopia, lo Smartphone al viso, così che sullo schermo dei nipoti si vedono solo gli occhi e il labbro superiore. Altri, non solo tra gli anziani, non riescono a scegliere tra la visione verticale e quella orizzontale, e gli interlocutori sono costretti a girare il loro cellulare per inseguire le diverse inquadrature. Ci sono poi quelli che appoggiano il cellulare a un sostegno, libro o altro oggetto, e si posizionano per entrare bene nel riquadro. Ma spesso si vede il soffitto e figli e nipoti sollecitano i nonni a rientrare nell’inquadratura. Insomma, la consegna a non uscire produce un’attività visiva nuova obbligando tutti a diventare esperti operatori video. Quando devono mostrare il piatto che stanno cucinando, o far vedere qualcosa della casa, invece di invertire la inquadratura usano lo schermo dello Smartphone come se fosse un occhio proteso verso ciò che vogliono ritrarre, mentre i loro figli e i nipoti, resi abili dalla attività dei selfie sanno come gestire adeguatamente il dispositivo elettronico. Alla fine tutti fanno della televisione usando lo Smartphone come se fosse una telecamera, perché tutto ora è live, parola che significa “dal vivo” ma anche “vissuto”, istante per istante, eppure sempre a distanza.

FAZZOLETTI. “No, i fazzoletti di carta non sono scomparsi, anche se ora ne vendiamo più del solito. Lo sa, col virus chi si soffia il naso, li usa spesso”, così mi dice un addetto al supermercato. Nei negozi dove si vendono i Kleenex e i Tempo, le due marche più diffuse, non sono spariti. Per strada si vede la gente che, invece di starnutire nel gomito in assenza di fazzoletto, come consiglia il Ministero della salute, usa i fazzolettini e poi li getta nei cestini; qualche volta anche per terra. Li fabbricano in diversi; quasi ogni brand della grande distribuzione ha le sue confezioni col proprio marchio. La prima a produrli è stata la Tempo nel 1920 in Germania, paese all’avanguardia tecnologica all’inizio del XX secolo, ma erano già in circolazione da prima. In Italia i fazzoletti usa-e-getta sono utilizzati soprattutto dai giovani, mentre il pubblico anziano ultrasessantenne utilizza ancora il tradizionale fazzoletto da tasca, che un tempo i genitori ricordavano ai propri figli prima di uscire di casa: “Hai il fazzoletto?”. Un oggetto che nasce lontano nel tempo, se già nel Duecento se ne parla in vari testi, in particolare a Venezia, dove era detto fazolus, parola che indica la faccia, la superficie che si deterge con questo ritaglio di tessuto già presente nella antica Roma. Per diventare uno strumento con cui spurgare il naso, bisogna probabilmente attendere il secolo successivo, quando lo usa il re inglese Riccardo II. Allo stesso re è attribuita l’invenzione del fazzoletto da taschino, con cui a volte, ma molto raramente, ci si può pulire anche l’organo dell’olfatto. Quale è più ecologico, il fazzoletto di cotone, che si conserva in tasca, e con cui ci si soffia il naso più volte, oppure quello di carta che si getta via? Probabile il primo, ma non è detto. Quanta acqua infatti serve per lavare il cotone? Ed è più igienico il secondo, dato che ci si libera dei bacilli gettandolo? Probabile, ma è pur sempre carta sbiancata con prodotti chimici. Produrla cosa comporta? E la si può riciclare? Nessuno sa bene calcolare i costi igienici e quelli ecologici di entrambi. Intanto cotone e carta continuano a convivere, perché nei giorni invernali del coronavirus non si può lasciare colare il naso anche se è un semplice raffreddore. In tram e in metropolitana la gente poi s’allontana, e anche chi usa il fazzoletto usa e getta lo ripone educatamente in tasca, come se fosse di cotone.    

NECROLOGI. Nei giorni più terribili dello scatenamento del Covid-19 a Bergamo e in Val Seriana, nel quotidiano locale, “L’Eco di Bergamo”, i necrologi sono passati da due a dieci pagine. Non c’era altro modo per manifestare il proprio cordoglio per la scomparsa di parenti e amici che quel saluto sulle pagine del giornale. Niente cerimonia funebre, niente sepoltura. Il necrologio è letteralmente l’elogio di un morto; può essere un articolo, oppure l’annuncio a pagamento della scomparsa d’una persona, entrambi presenti su un quotidiano. Nei giornali locali il secondo è un genere molto letto, perché finisce per informare, seppure con la sua laconicità, di eventi luttuosi che possono interessare la comunità locale. Le origini del necrologio sono molto antiche, poiché la parola viene dal greco, per quanto poi legata a un’espressione cristiana, quella del “martirologio”, ovvero elogio del martire. I defunti sono sempre stati celebrati oralmente e per iscritto, ma è con la nascita dei giornali a partire dall’Ottocento, che comincia il necrologio modernamente inteso. Un annuncio, ma anche un messaggio, a volte rivolto agli stessi defunti, più spesso ai vivi. Il necrologio è infatti un messaggio che contiene aspetti personali e persino intimi: manifesta il legame con chi è scomparso. Un estremo messaggio. Sembra che sia stato John Thadeus Delane, editore del Times di Londra, a creare nell’Ottocento la forma attuale del necrologio con la fotografia del defunto. Un grande successo commerciale. Secondo l’antropologo Géza Róheim, allievo di Freud, sarebbero l’ultima difesa contro l’angoscia, un modo “per rinvigorire l’Io contro la perdita dell’oggetto amato”. Una interpretazione probabilmente giusta, dato che il necrologio è una di quelle scritture ultime in cui si compendia il nostro modo di rapportarci sia con la morte che con la vita stessa: vita passata, presente e futura. 

SCALE. “La palestra è chiusa, lo stesso il parco, dove andavo a correre nei giorni scorsi. Allontanarsi da casa non è più possibile, perciò non mi resta che la discesa delle scale di casa”. Così le scale sono diventate una risorsa. Non gli ascensori, dove ora non si può salire in più di una persona per volta, bensì le scale: due, tre, quattro, cinque o più piani da fare passo dopo passo varie volte al giorno. Le vecchie scale di casa sono diventate un mezzo per mantenersi in forma in questo periodo di segregazione forzata a causa del virus. Un tempo le scale erano l’oggetto architettonico più importante degli edifici, insieme alla facciata. Imponenti, eleganti, maestose erano l’elemento intorno a cui ruotava tutta la casa, che si trattasse di una residenza patrizia o di un edificio pubblico. Il loro scopo era collegare il basso con l’alto, una funzione non solo pratica, ma anche simbolica, perché i simboli in architettura hanno un ruolo importante. Poi pian piano hanno cominciato a perdere di importanza, a stringersi, a ridursi, a diventare solo una struttura pratica priva di qualsiasi simbolismo. Il Movimento Moderno in architettura, a partire dai nipotini di Le Corbusier, le ha ridotte a un accessorio; quindi la diffusione dell’ascensore per salire ai piani alti le ha ancor di più declassate. Eppure fino a sessanta e settanta anni fa erano decorate con corrimano di legno, ringhiere di metallo ornate con motivi geometrici o floreali, e gradini di marmo o serizzo, perché non solo il piede vuole la sua parte, ma anche l’occhio e persino il tatto. Salendo e scendendo le scale per fare quel po’ di esercizio fisico che oggi serve per tenersi in forma, abbiamo riscoperto le scale di casa che chi abita al di sopra del secondo piano conosce ben poco preferendo la pulsantiera dell’ascensore. Perciò tante scale sono apparse a chi ha cominciato a percorrerle su e giù, modeste, realizzate con materiali dozzinali o addirittura scarsi, mal tenute nonostante la pulizia settimanale. Inoltre scale più vecchie, dell’inizio del XX secolo, o addirittura della fine del XIX, sono state nel passato tagliate per far passare l’ascensore riducendo scalini e pianerottoli, segando corrimano e balaustre. Senza gli ascensori non esisterebbero i grattacieli; lì ci sono ben poche scale. In questi giorni di autoreclusione mi sono chiesto: come faranno quelli che non possiedono le scale? Beati coloro che salgono e scendono a piedi, di loro sarà il Regno dei Cieli.  

CORVI. I corvi hanno fame. Calano dai tetti o dalle antenne dove stanno appollaiati e cercano nei cestini della spazzatura che ora sono vuoti. Nessuno in giro, perciò niente rifiuti da becchettare o con cui pasteggiare in città. Anche nelle campagne i corvidi – cornacchie, corvi, taccole, cornacchie grigie – si dirigono verso i sacchetti della spazzatura lasciati sulla strada per il passaggio degli addetti al ritiro. Ho visto un bell’esemplare i Corvus frugilegus intento a strappare un grosso sacchetto trasparente di plastica. Appena mi sono avvicinato è volato via. Ora un amico mi dice che in città sul suo balcone pieno di piante ornamentali invece dei merli arrivano loro, che prima stavano ben lontani. Il nutrimento scarseggia. I contenitori per l’immondizia prima straripavano di coni gelato, avanzi di pizze, scarti di merendine e altri resti, cibarie preziose per questi volatili neri e grigi resi famosi da un film di Alfred Hitchcock, Gli uccelli, e su cui circolano varie leggende metropolitane. Da alcuni decenni i corvidi hanno lasciato l’habitat naturale nelle campagne irrigue o nei pressi dei corsi d’acqua per risiedere come molti altri animali nelle città e nelle metropoli, dove è più facile approvvigionarsi. Animale intelligente come pochi il corvo – in particolare il corvo reale – è il protagonista di vari libri usciti da poco opera di etologi e ora anche di un custode di corvi che li cura nella celebre Torre di Londra (si veda il libro Il signore dei corvi di Christopher Skaife, edito da Guanda editore): la leggenda dice che, se vanno via da lì finisce la monarchia. I meno nobili corvi visti affamati in questi giorni alla ricerca del cibo potrebbero forse ritornare ai loro siti abituali e nutrirsi d’insetti, semi, cereali e ghiande. Dieta più sana delle schifezze che trovavano sino a ieri nelle nostre pattumiere.  

KM ZERO. Km 0 al Km 0,5? Sto parlando delle vacanze estive che inizieranno per forza con i primi caldi, in giugno o poco oltre. Km 0,5 significa località vicine, sufficientemente prossime. Sarà la riscoperta dei centri montani e balneari situati a non grande distanza dall’abitazione di residenza, in passato snobbati. Poiché l’Italia è attraversata da due catene montuose che l’innervano, Alpi e Appennini, non c’è quasi regione che non abbia alle proprie spalle siti in cui trovare refrigerio: prati, boschi, sentieri. L’Italia offre molto, dalle Prealpi alle colline che precedono gli Appennini. Naturalmente tutti a debita distanza. Per chi non ama la montagna, dove il distanziamento sembra più facile, si tratterà di trovare località di mare meno affollate, posti dove poter stendere la propria sdraio o l’asciugamano lontano dai propri simili. Sarà meno facile, ma le coste italiane, dal Mar Ligure sino all’Adriatico sono molto lunghe e qualche angolino dove fare il bagno non sarà impossibile trovarlo. Certo il problema rimane nei luoghi più ambiti e frequentati, ma c’è anche la soluzione del canotto, gommone o altra imbarcazione da mettere in acqua nel posto giusto. A remi o a vela o a motore i mari sono percorribili e ampi, e qualcosa di solitario si trova sempre, basta non concentrarsi tutti nel medesimo tratto di costa o di mare. Sarà l’estate dei brevi tragitti, non più le vacanze esotiche in paradisi lontani, dalle Maldive agli atolli del Pacifico. Già qualcuno ha cominciato a cercare affitti estivi entro i confini della propria regione, mentre chi possiede una seconda casa progetta di trasferircisi al più presto con bambini e ragazzi che, dopo due mesi di segregazione forzosa in città, non vedono l’ora di correre all’aperto. È l’autarchia vacanziera, e la ricerca del luogo intermedio. Ora, lo sappiano, tutto è diventato intermedio. Ma visto il virus, è bene così. 

FERRAMENTA. Se non ci fossero state le ferramenta non avrei saputo come fare. Appena isolata Codogno, dove pensate che abbia trovato le mascherine? Dal ferramenta. E i guanti usa-e-getta? Dal ferramenta. E il mio medico dove credete abbia trovato la visiera per proteggere il suo volto dal contagio? Dal ferramenta. Una di quelle visiere trasparenti con il copricapo che si usano insieme al decespugliatore per tagliare l’erba. Lì ha trovato anche la tuta per coprirsi e difendersi dal virus. Tutto materiale fai-da-te con cui ha potuto continuare il suo lavoro di medico di base. La parola “ferramenta” è ottocentesca ed è stata usata da Ugo Foscolo, l’autore di I sepolcri, nel 1807 per indicare il negozio in cui si vendono strumenti di ferro. Chiuse le ferramenta – sostantivo femminile secondo il dizionario – molte attività oggi non sono praticabili. Dove comprare altrimenti chiodi, martello, pinze, cacciaviti, ma anche la vernice per dipingere i muri di casa, i mobili e gli oggetti? Vero che i grandi magazzini e i supermercati sono forniti di queste attrezzature, ma volete confrontarle con la disponibilità di scelta che offre il ferramenta, inteso come il venditore maschio, anche se a volte è una donna, sua moglie? Sono tra i negozi più affascinanti che esistono, dove sono presenti merci molto diverse tra loro: dalle attrezzature per l’idraulica a quelle per il giardinaggio, dalle pentole per la cucina alle scarpe per uso tecnico, dalla viteria alle scale. Non si finisce mai di scoprire cosa si trova in vendita in questo tipo di negozi. In Italia non c’è paese o frazione che non possieda un ferramenta, oggi altrettanto importante di una farmacia, di un alimentari e di un fruttivendolo. Vero che coi farmaci ci si cura e con il pane e la verdura ci si nutre, ma vi assicuro che anche le ferramenta rientrano tra le rivendite di beni essenziali. Per favore riapritele!

METRO. Quello della sarta, del muratore e del fabbro; quello di legno, di metallo e di plastica; quello ripiegabile, quello avvolgibile e quello arrotolabile. Il metro è diventato uno strumento indispensabile di misurazione in questi ultimi mesi dopo essere stato per 228 anni un silenzioso servitore di milioni di persone. Jean-Baptiste-Joseph Delambre e Pierre-François-André Méchain, di professione astronomi, non pensavano certo alla distanza salvifica di un metro quando nel giugno del 1792, nel bel mezzo della Rivoluzione francese, si diressero uno a nord e l’altro a sud su incarico della Assemblea Nazionale per misurare l’arco di meridiano con cui avrebbero poi stabilito la nuova unità di misura universale. Lo scopo era quello di mettere fine al disordine che vigeva in Francia e in Europa riguardo alle varie misure. Furono loro a fissare in un decimilionesimo della distanza tra il Polo Nord e l’Equatore, la nuova unità di misura che “sarebbe stata patrimonio di tutti gli esseri umani”. La storia di quella spedizione attesta che occorsero sette anni ai due per viaggiare con i loro strumenti lungo il mediano che si estendeva da Dunkerque a Barcellona in mezzo a contadini superstiziosi e la diffidenza dell’Assemblea nazionale. Commettono persino un errore, o almeno così accade a Méchain. Se ne accorge e il conseguente senso di colpa lo porta alla follia e poi alla morte. Anni fa, in un libro intitolato La misura di tutte le cose, un professore americano, Ken Alder, ha raccontato la storia di questo semplice strumento cui affidiamo oggi la nostra salvezza rispetto a un organismo invisibile e pernicioso che ha provocato tanti morti in Italia e nel mondo. Il sistema metrico decimale contro il Coronavirus: una sfida che non possiamo perdere. Il nostro grazie ai due astronomi e alla Rivoluzione, che ci ha fornito lo strumento per starne alla larga. Basta solo un metro.

Virus, quella strage tenuta nascosta ​per colpire solo la Lombardia. Perché i media hanno preso di mira la Lombardia? Il racconto a senso unico dell'epidemia: ecco cosa hanno nascosto. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale. Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19. In città si vocifera che, per meritare la giusta attenzione, a Piacenza sia mancata un’immagine come quella dei camion dell’esercito che lasciano Bergamo carichi di bare. Non è il desiderio di fare una gara a chi ha sofferto di più, ci mancherebbe. È solo una constatazione. «Quello che ha passato Piacenza in termini di onda d’urto, non so se altre realtà lo hanno vissuto», sussurrano i medici. «Ma di noi si è parlato troppo poco». Forse ci siamo fissati a tal punto su Alzano Lombardo, Nembro e i paesi della Val Seriana che ci siamo dimenticati qualcosa. O qualcuno. «L’impressione che ho avuto è che per molto tempo Piacenza non venisse neppure menzionata. Nemmeno l’opinione pubblica aveva la percezione di quello che stava succedendo da noi». Patrizia Barbieri, sindaco della città emiliana, il contagio l’ha vissuto sulla sua pelle. Anche un mese dopo aver superato la malattia, la voce è provata da un’esperienza che lei stessa definisce «tutto tranne che una passeggiata». Si è contagiata il 4 marzo, una data che ritorna più volte nel suo racconto come se fosse uno spartiacque. Ci sono un «prima» e un «dopo» il Covid-19. «Un giorno ci siamo svegliati con la notizia che a Codogno era stato trovato il primo caso positivo e in poche ore siamo precipitati a combattere un nemico a mani nude. Molti ritenevano che il virus fosse poco più di una semplice influenza e che bisognava stare calmi, ma noi abbiamo capito subito che non si poteva affatto stare tranquilli». In fondo non potevano certo essere 16 miseri chilometri ad impedire ad un virus altamente contagioso di superare i confini provinciali e infettare ora questo, ora quel Comune. A dividere Piacenza da Codogno ci sono il Po e una ventina minuti di auto. «Superi il ponte e sei in città», ripetono i residenti. Troppo poco per un virus arrivato da un remoto mercato di Wuhan e in grado di diffondersi rapidamente in tutto il mondo. Per uno scherzo del destino, Sar–Cov–2 potrebbe essersi diffuso a Piacenza proprio per colpa del mercato cittadino. Qui il sabato si riversa tutta la bassa lodigiana. Le vie sono strette, le bancarelle si affiancano. La calca è inevitabile. La settimana precedente all’esplosione del primo focolaio italiano, centinaia di famiglie da Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini camminano spalla a spalla con i piacentini. Fanno compere. Probabilmente si contagiano a vicenda. (...) «Le due realtà vivono in maniera molto stretta, perché per socialità e motivi di lavoro siamo due comunità che si frequentano tantissimo», ci racconta Barbieri. Gli studenti lodigiani vanno a scuola nei licei piacentini. I malati preferiscono l’ospedale emiliano a quello di Lodi. È un fatto storico, di abitudini. Eppure per almeno un giorno, dal 21 al 22 febbraio, in attesa delle decisioni delle autorità, dai Comuni del focolaio ci si muove senza impedimenti. Quando quella stessa sera il governo annuncia finalmente la volontà di trasformare i dieci paesini lodigiani in «zona rossa» è ormai troppo tardi. Piacenza è già infetta. Quel fine settimana si sarebbe dovuta giocare Piacenza–Sambenedettese, valida per il campionato di serie C, e la Bekery Basket avrebbe dovuto sfidare Jesi. L’annullamento delle partite avrà forse salvato decine di vite. Ma non ha potuto evitare l’ecatombe. Il paradosso infatti è che qui, nonostante la poca attenzione mediatica concentrata sulla Lombardia, si è ripetuto l’identico copione di Alzano Lombardo e della Val Seriana, diventate, secondo la percezione comune, le zone più colpite dall’epidemia. Il 22 febbraio, lo stesso giorno in cui i medici dell’ospedale «Pesenti Fenaroli» scoprono che sta per arrivare loro addosso uno tsunami, il nosocomio di Piacenza riscontra il primo caso positivo. È una signora di 82 anni di Codogno. Quando arriva l’esito del test, l’onda si è ormai abbattuta sulla città. Il giorno dopo, una domenica, i casi saranno già nove tra cui due medici e un’infermiera. Nelle stesse ore, nella Bergamasca, gli infetti sono ancora soltanto quattro. «In 24 ore il nostro stato d’animo è cambiato drammaticamente – ricorda il primario Luigi Cavanna – Tutti avevamo la percezione che stesse succedendo qualcosa di importante. Giorno dopo giorno al Pronto Soccorso arrivavano pazienti con una grave insufficienza respiratoria, che dovevano essere attaccati all’ossigeno, ventilati oppure trasferiti in rianimazione. Erano sempre più numerosi, decine, anche 70 o 80 casi di broncopolmonite al giorno. L’ospedale era saturo di malati e dovevamo trovare un posto dove metterli». Come ad Alzano Lombardo, nemmeno l’ospedale di Piacenza verrà mai chiuso. Come giusto che sia. Il racconto lo fa un’infermiera, che chiede di rimanere anonima: «Fino a lunedì 24 febbraio non era stato realizzato alcun triage sicché al Pronto soccorso affluivano indistintamente persone che denunciavano febbre e tosse sia altri con differenti tipi di disturbi». I pm avviano quasi subito accertamenti per far luce sull’epidemia, in particolare sulla carenza di dispositivi di protezione individuale per i sanitari. È la prima procura a muoversi, ma non fa scalpore come in Lombardia. «Fatalmente in molti casi si sono verificati contagi sia tra il personale medico ed infermieristico, sia tra coloro che erano stati al pronto soccorso – continua l’infermiera – Molti di questi ultimi, dimessi magari poche ore dopo, se ne sono andati a casa e qui hanno finito per contagiare oltre a se stessi anche i familiari. E da lì che è iniziata la catena di Sant’Antonio. Per di più alcuni malati venivano inviati nella fase iniziale dal pronto soccorso al reparto di medicina interna e solo successivamente, a risultato del tampone noto, si scopriva che erano affetti da coronavirus». Basti pensare che il 26 febbraio le cronache registreranno già sette positivi tra medici, infermieri e operatori sanitari. Ed è solo la punta dell’iceberg. Ci vorranno due mesi prima che l’Italia si accorga del «caso piacentino». Succede quando media e scienziati iniziano ad osservare la curva dei contagi valutando non solo i numeri assoluti, ma anche l’incidenza che il virus ha sulla popolazione residente. A fine aprile il Piacentino conta oltre 3500 positivi e più di 800 decessi certificati Covid-19. Sembrano numeri distanti da Bergamo, che nelle stesse ore piange quasi 3mila morti e 11mila infetti. Ma se si osserva l’entità dell’epidemia in rapporto al numero di abitanti, allora il quadro cambia. Qui abitano solo 287mila persone, nella Bergamasca oltre 1,1 milioni. In tutte le statistiche Piacenza supera i territori di Alzano e Nembro per morti e contagi. Fuori dai freddi numeri significa che i piacentini hanno più probabilità di infettarsi, ammalarsi. Morire. A fine marzo i sindaci della provincia sfogliano i registri dell’anagrafe per scoprire che, se nel primo trimestre del 2019 erano spirate 1126 persone, quest’anno i cimiteri hanno accolto 2187 corpi. Il doppio. Solo a marzo se ne sono andati in 1428, di cui almeno 502 senza una spiegazione. Nessuno li ha mai sottoposti a tampone. «Un giorno – ci racconta Cavanna – mi ricordo di essere entrato in Pronto soccorso per visitare un mio amico che poi non ce l’ha fatta, un amico giovane, di 55 anni. Parlavo con i miei colleghi e il sibilo dell’ossigeno ci entrava nell’orecchio. Sembrava quasi di vedere una cortina di fumo. Era tutto molto difficile. Ho perso degli amici, amici che non avrei mai pensato potessero morire. Amici che magari vedi al mattino, parli con loro e poi al pomeriggio iniziano a non respirare più». Il primario è abituato alla morte, alla sofferenza che modella i volti dei malati oncologici. Eppure vedere cadere i pazienti uno dietro l’altro, uccisi come birilli dal virus, gli lascia un segno indelebile. «Ho avuto l’impressione che ci trovassimo di fronte a qualcosa mai visto prima. Faceva paura. Le ambulanze arrivavano in fila a portare altri malati, io mi guardavo intorno, incrociavo gli oc- chi dei colleghi: avevamo la percezione di non farcela, talmente tanti erano i ricoverati in quei lettini di fortuna. Un giorno era così, l’altro pure e quello dopo di nuovo. Piacenza ha subito un’onda d’urto che solo chi l’ha vissuta può capirla». Solo a fine aprile uno studio dell’Università Vita–Salute del San Raffaele di Milano dà forma alle lacrime versate dai cittadini e riconsegna un po’ di attenzione alla città dimenticata. Analizzando i dati della Protezione civile su Lombardia, Emilia Romagna, Piemonte e Val D’Aosta, gli analisti scoprono che in cima alla funerea classifica del tasso di mortalità cumulativa c’è proprio Piacenza con 258,5 vittime ogni 100mila abitanti. Seguono Bergamo con 255,9, Lodi con 247,8 e Cremona con 247,4 morti ogni 100mila residenti. A seguire Brescia (170,9), Pavia (150,9), Parma (132,6), Mantova (114,1), Alessandria (108,0), Lecco (105) e Sondrio (100,8). Se nella Bergamasca il rapporto contagio/popolazione è dello 0,98%, nel Piacentino si atte- sta all’1,25%. Per gli amanti delle statistiche, significa che la Val Seriana ha sepolto un cittadino ogni 382 residenti, Piacenza uno ogni 353. Ma sono nomi, non numeri. Tra le vittime ci sono Giovanni Malchiodi, sindaco di Ferriere; Nelio Pavesi, consigliere comunale leghista; don Paolo Camminati, 53 anni, uno dei tanti parroci diocesani richiamati dal Padre. È un lungo corteo di funerali mai celebrati. Nei primi venti giorni di marzo, il forno crematorio di Piacenza vede sfilare carri funebri ad ogni ora. All’interno non c’è spazio per le salme e la Croce rossa militare è costretta a montare celle frigorifere da campo poco fuori l’ingresso. Sul posto arriva anche il nucleo di recupero dei corpi senza vita, che normalmente si attiva per catastrofi e terremoti. Se non vi basta, sappiate che nel pieno dell’emergenza anche sui giornali locali piacentini ogni giorno si sfogliavano sette pagine di necrologi fitti. Proprio come a Bergamo.

Fontana: "Mascherine? Avevo ragione io Ora basta stillicidi settimanali". Attilio Fontana venne attaccato ferocemente per il video con la mascherina il 26 febbraio 2020: a un anno di distanza ricorda quel momento. Francesca Galici - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale.  Un anno fa, la Lombardia e l'Italia erano appena piombati nell'incubo del coronavirus. Ancora non si sapeva contro cosa si sarebbe dovuto combattere e, soprattutto, per quanto. Si viveva con l'incubo dell'aumento dei contagi e dei morti che iniziavano a essere segnati come Covid. Attilio Fontana e la sua giunta sono stati i primi in Italia ad attuare le misure di contenimento contro il coronavirus ed esattamente un anno fa faceva il giro del web l'immagine del governatore della Lombardia con indosso una mascherina chirurgica. Erano i giorni della confusione, degli esperti che sconsigliavano di indossarla. Attilio Fontana venne deriso per quel gesto simbolico e oggi, a un anno esatto di distanza, si toglie qualche sassolino dalle scarpe. "Il 26 febbraio 2020 una collaboratrice risultò positiva al Covid; annunciai di dover entrare in isolamento utilizzando anche la mascherina per proteggere me stesso e chi mi era vicino. Ricordate le critiche per quel gesto che, allora come oggi, era il semplice rispetto delle regole e del buon senso?", esordisce Fontana in un post condiviso sul suo profilo Facebook, dove ha caricato un'intervista video realizzata di recente. "Un anno fa mi ero reso conto della gravità di quello che rischiava di succedere, non perché avessi una particolare conoscenza ma perché avevo esaminato con attenzione le dichiarazioni del presidente della Cina, che aveva denunciato come il Covid fosse la più grave emergenza sanitaria della storia della Cina", ha proseguito il governatore, che poi sottolinea come "da sempre la mascherina è stata individuata come mezzo per proteggersi e per difendere gli altri dalla circolazione di qualunque tipo di virus, non era una prospettiva molto difficile da prevedere". Nonostante il gesto di buon senso, "si sono scatenati contro di me e si è scatenata una parte dell'opinione pubblica contro la Lombardia, in maniera del tutto gratuita". È passato esattamente un anno da quel momento, l'Italia è ancora stretta nella morsa del coronavirus, ma a differenza di quei drammatici momenti "abbiamo un grandissimo vantaggio, abbiamo delle cure migliori, più efficienti, più mirate a combattere il virus e soprattutto abbiamo la prospettiva di una vaccinazione che sarà l'unico mezzo attraverso il quale sconfiggere in virus". Tuttavia, la strada d'uscita della pandemia è ancora lunga e non certo semplice da percorrere. Attilio Fontana sottolinea che "dobbiamo avere più dosi di vaccini" e che "dobbiamo insistere perché il nostro Governo riesca a ottenere una maggiore quantità di vaccini per potere fare questa operazione su tutta la popolazione, che ci porterebbe alla vittoria sul virus". Non è finita, per questo il governatore chiede pazienza e attenzione ai suoi cittadini: "Finché non ci sarà la conclusione della campagna vaccinale, si dovrà sempre prestare molta attenzione". Oggi, Attilio Fontana ha comunicato il nuovo ingresso della Lombardia in zona arancione a causa dell'aumento dei contagi: "Prendiamo atto della decisione, ma è arrivato il momento che i tecnici e gli scienziati studino e poi ci dicano in modo chiaro e definito come superare questo stillicidio settimanale attraverso regole stabili e sicure. Le informazioni scientifiche ormai ci sono. I cittadini e le imprese devono essere garantiti nella vita quotidiana con un orizzonte più lungo della verifica settimanale". Il governatore sottolinea la necessità della programmazione di ampio raggio: "Il nuovo Governo può dare un importante segnale di discontinuità su questo tema e - sono certo - avrà al suo fianco le regioni, ha dichiarato Fontana". Un ulteriore sforzo per la Lombardia, anche se "sappiamo molto bene quali sono i comportamenti non pericolosi e quelli compatibili con le diverse attività sociali ed economiche, a patto di seguire le regole che tutti ci siamo dati. Auspico quindi che si lavori su questo trovando un equilibro tra la necessità di garantire da un lato la sicurezza sanitaria e, dall'altro, la tenuta del sistema economico".

Rivincita di Fontana (dopo un anno). Sulle protezioni aveva ragione lui. La prudenza del governatore fu distorta da Pd, 5s e virologi. "Avevo capito la gravità". Alberto Giannoni - Sab, 27/02/2021 - su Il Giornale. Milano Una «sceneggiata» «totalmente inappropriata», una cosa «mai vista», un «errore marchiano». Compie un anno oggi il primo linciaggio contro Attilio Fontana, ed è una ricorrenza che dovrebbe far impallidire tanti. Il governatore lombardo fu demonizzato per la scelta (dovuta) di indossare la mascherina. Ora si prende una amara rivincita: aveva totalmente ragione lui, quasi da solo. Eppure fu fatto bersaglio di una campagna ostile scriteriata. Massacrato dalla sinistra chi non voleva fermare le città, delegittimato da esperti tanto confusi quanto assertivi, deriso da opinionisti e influencer. Sono gli stessi: allora si divertivano a fare battute sulle precauzioni, sui timoni, sulla «paura degli involtini primavera», poi sarebbero diventati i fustigatori massimi degli italiani accusati di non avere abbastanza paura. Un enorme abbaglio per cui nessuno ha chiesto scusa. «Mi ero reso conto della gravità di quello che stava per succedere - ha rivelato ieri Fontana - perché avevo esaminato con attenzione le dichiarazioni del presidente della Cina». Fontana aveva capito che la cosa «non si poteva prendere sottogamba». «Non era una prospettiva difficile - minimizza oggi - eppure si sono scatenati contro di me, come una parte dell'opinione pubblica si è scatenata contro la Lombardia, in maniera un po' gratuita». Era il 26 febbraio 2020, 5 giorni dopo il paziente 1, una sera delle più drammatiche fra tante giornate nere segnate dal Coronavirus come allora si chiamava. Una conferenza stampa fu prima rinviata e poi annullata per «alcune verifiche sanitarie su un dipendente regionale». Adesso sta bene, ma quel giorno era risultata positiva. Si trattava di una stretta collaboratrice di Fontana e il governatore, pochi muniti prima delle 22, con una breve diretta video annunciò la sua quarantena: «Mi atterrò a quelle che sono le prescrizioni date dall'Istituto Superiore di Sanità». E alla fine indossò una mascherina chirurgica, oggi normale per milioni di persone. «Quando mi vedrete così non spaventatevi» disse. Apriti cielo. Quel messaggio che voleva essere trasparente e - per quanto possibile - anche rassicurante, fu distorto. E quella scelta di prudenza fu letteralmente fatta a pezzi. «Totalmente inappropriata» la definì il consulente ministeriale Walter Ricciardi in un tripudio di applausi televisivi. «Le mascherine alla persona sana non servono a niente» avvertiva. Subito gli faceva eco l'incauto Danilo Toninelli, 5 Stelle: «Assolutamente da evitare» scandiva esaltato con tono professorale. Ma si scatenò anche Carlo Calenda («Quello gioca con la mascherine - diceva il leader di Azione - in una situazione del genere è delittuoso»). «Ma l'avete mai visto in un Paese normale un governatore di Regione che si mette lì con la mascherina?» chiedeva con la consueta sicumera Andrea Scanzi. «Trova le differenze», recitava uno sciagurato «volantino» del Pd ancor oggi visibile in rete. Raffigurava da un lato Fontana con la mascherina e dall'altro il sindaco Giuseppe Sala illuminato da un sorriso sornione e ottimista, e dal motto «Milanononsiferma». Il capogruppo lombardo Fabio Pizzul dichiarò che Fontana aveva «amplificato in modo incalcolabile i danni economici dell'emergenza»), il consigliere Pietro Bussolati parlò di «errore marchiano». E intanto i sindaci dem mettevano a punto iniziative per aprire i musei «contro la paura», o per promuovere le visite in città o per «abbracciare i cinesi». E il segretario Nicola Zingaretti sbarcava sui Navigli per l'aperitivo. «Il virus è il razzismo» diceva un partito intero. «La sola mascherina è la cultura» sentenziavano le cosiddette «Sardine». Giudizi affrettati, ideologici, superficiali. Gigantesche cantonate firmate da chi non avevano capito niente di ciò che stava accadendo e dava lezioni. Avrebbero continuato a farlo anche dopo, in senso opposto. Continuano a farlo oggi e lo faranno probabilmente anche quando si tratterà di scrivere (o meglio riscrivere) la storia del Covid in Italia.

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 25 febbraio 2021. Era il 19 febbraio 2020 e l'Atalanta dominava il Valencia negli ottavi di Champions. L' entusiasmo dei tifosi bergamaschi, al Meazza di Milano, era alle stelle e altrettanto, si è accertato dopo, la diffusione del virus. È passato un anno, stessa scena. Con l' aggravante che in mezzo ci sono stati 6.000 morti in due mesi in provincia di Bergamo, un' inchiesta della Procura e le bare portate via dai camion dell' esercito. La sera del 18 marzo la città era in quarantena da ormai dieci giorni, le strade deserte e silenziose e una dozzina di mezzi militari sfilavano da un ingresso laterale del cimitero. A bordo c' erano le salme portate a cremare in altre regioni, per ritrovare i loro cari le famiglie hanno impiegato settimane. Ricordi che sembrano cancellati. Alle cinque di ieri pomeriggio, a quattro ore dall' inizio della partita di Champions contro il Real Madrid, nei pressi dello stadio si sono radunati circa 200 tifosi dell' Atalanta per una manifestazione non autorizzata. E questo nonostante gli appelli a essere «vicini alla squadra ma davanti alla televisione» lanciati dal direttore dell' Agenzia per la tutela della salute della città, Massimo Giupponi.

BOMBA EPIDEMIOLOGICA. I sostenitori nerazzurri, tra cori, bandiere e striscioni, si sono concentrati al Baretto di viale Giulio Cesare, di fronte alla tribuna Rinascimento, abituale luogo di ritrovo della tifoseria organizzata, anche dopo che la società nel primo pomeriggio ha esortato alla calma: «Atalanta-Real Madrid: questa sera seguiamo la nostra squadra del cuore da casa, per proteggere noi e gli altri dal contagio del Covid-19 e della sue varianti». Il raduno è stato innescato da un tamtam della vigilia sui gruppi whatsapp ed è il secondo in epoca di restrizioni anti Covid dopo quello a Zingonia il 10 febbraio scorso, alla partenza del pullman sociale verso lo stadio prima della semifinale di ritorno di Coppa Italia con il Napoli. Adesso si replica, con due ali di folla che accolgono l' Atalanta al suo arrivo al Gewiss stadium, fumogeni e petardi compresi. Senza distanziamento, naturalmente, e non tutti con la mascherina. Eppure, tra gli accertamenti svolti dalla Procura di Bergamo che indaga sulle eventuali responsabilità sulla strage causata in provincia di Bergamo dal coronavirus, c' è la partita fotocopia di un anno fa. «Una bomba epidemiologica», l' hanno definita i virologi. Gli investigatori hanno tracciato i luoghi a rischio da cui potrebbe essere partita la devastante catena di contagi e l' incontro a San Siro del 19 febbraio di un anno fa è stato messo sotto osservazione. I pm hanno acquisito l' elenco dei tifosi per ricostruire chi era allo stadio, a bordo di quali mezzi è arrivato e da dove proveniva, mettendo a confronto i dati con quanti contagi si sono verificati nelle aree di origine dei sostenitori della squadra. L' Atalanta ha fornito informazioni sulla composizione di circa 40 pullman che hanno raggiunto lo stadio milanese da varie zone della provincia orobica, ma le indagini hanno preso in esame anche il flusso di persone in arrivo all' aeroporto di Orio al Serio che giungevano da numerosi Paesi esteri prima del lockdown.

Mattia Maestri, il «Paziente 1» un anno dopo: «Voglio solo vivere e dimenticare». Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 20/2/2021. Ritratto di Mattia Maestri, 39 anni, a lungo considerato il «paziente 1» della pandemia in Italia: risultò positivo al virus il 20 febbraio 2020. «Voglio solo dimenticare». A un anno dalle ore 20 del 20 febbraio 2020, il momento esatto in cui all’ospedale di Codogno arriva l’esito del tampone ed è positivo, Mattia Maestri lo ripete come un mantra: «Verso i dottori che mi hanno salvato ho un debito di riconoscenza enorme, ma io ora voglio solo dimenticare». Il 39enne accetta qualche giorno fa un collegamento su Zoom solo per discutere dell’idea di girare un video sul suo ultimo anno, nessuna intervista si raccomanda, presente anche Raffaele Bruno, l’infettivologo del San Matteo di Pavia che per lui ormai è un secondo padre (anche se il medico, 54 anni, preferisce considerarsi un fratello maggiore, per non rimarcare troppo la differenza d’età). La proposta sarà rifiutata. «Tutti mi cercano — dice —. Mi offrono persino eventi a pagamento. Ma l’unico mio desiderio è tornare una volta per tutte alla mia vita normale». 22 febbraio 2020, due persone con la mascherina nel centro di Codogno, vicino a Lodi. Nella città del paziente 1 l’allerta è massima. Anche la moglie (incinta) e un amico sono positivi. Dopo di loro, vengono confermati altri casi in Lombardia e in Veneto. Il giorno successivo, il governo istituisce le prime “zone rosse”: Codogno, altri dieci centri del lodigiano e Vo’ Euganeo, in Veneto, vengono isolati. Il sindaco di Codogno, Francesco Passerini, dichiara di non avere ancora ricevuto istruzioni logistiche da Roma: «Chi si occuperà delle provviste e dei trasporti medici?». Proprio il bisogno di essere lontano dai riflettori lo spinge adesso, nelle ore di una ricorrenza maledettamente scolpita nel calendario della storia, ad allontanarsi per un po’ dall’abitazione di Codogno, a 10 minuti d’auto da Casalpusterlengo, dove lavora come ricercatore della multinazionale Unilever: «In questi giorni non sono a casa», sottolinea ieri nell’ultimo WhatsApp a cui risponde. Anche se in più di un’intervista nei mesi passati Mattia assicura che non gli dà fastidio essere definito come il «paziente 1», evidentemente a lungo andare questa etichetta gli sta pesando come un macigno: «Io sono la prima persona in Italia a cui il Covid è stato diagnosticato — dice —. Non il primo infetto». È un po’ come se volesse prevenire l’accusa insensata di qualcuno che lo può ingiustamente identificare come colpevole di chissà che cosa. L’ultima apparizione in pubblico la fa il 3 febbraio insieme con la moglie Valentina e la figlia Giulia di dieci mesi nel suo Comune, per la celebrazione del patrono cittadino san Biagio, occasione in cui tutti gli anni il sindaco Francesco Passerini consegna le benemerenze civiche. Stavolta la medaglia d’oro e la pergamena è dedicata «a tutta la comunità di Codogno per la resilienza individuale durante l’emergenza Covid-19». A ritirarle per tutti non può essere che lui, Mattia. Nel corso dei mesi tutto quel che lo riguarda è oggetto di articoli e servizi tv per un semplice motivo, che gli spiega per la prima volta Roberto Rizzardi, il rianimatore del San Matteo ammalato di Covid, con cui Mattia condivide la stanza una volta uscito dalla Rianimazione: «Tutti hanno fatto il tifo per te, sei diventato un simbolo». Ma ricordargli oggi, per l’ennesima volta, che è il simbolo di chi ce l’ha fatta non serve a smuoverlo dalla voglia di dimenticare. Nell’Italia di quei giorni, perfino i bollettini medici che riportano che le sue condizioni sono stazionarie fanno sperare che andrà tutto bene. Chissà se qualcuno ancora ci crede. «Vivo le cose della vita con un po’ più di distacco», confessa Mattia ad Annalisa Malara una delle ultime volte in cui i due si sono sentiti. Oggi Mattia è un sopravvissuto che desidera soprattutto dare serenità alla sua famiglia. Riflette la Malara, da qualche giorno anche lei assunta al San Matteo: «Ha ben chiaro quali siano i veri valori». Il ritorno alla vita ha il nome di Valentina e Giulia, ma allo stesso tempo non è facile superare la morte per Covid-19 del padre Moreno, scomparso proprio alla Festa del papà, lo scorso 19 marzo, dopo settimane in cui quattro componenti della famiglia Maestri, contando anche la piccola Giulia, si trovano in tre diversi ospedali della Lombardia. Un incubo che, come in ogni famiglia che in questo lungo anno piange morti o teme per la vita delle persone più care, Mattia vuole solo buttarsi alle spalle. 8 marzo 2020: Viale Forlanini, a Milano, (quasi) completamente deserto. Sullo sfondo l’aeroporto di Linate. Nella notte tra il 7 e l’8 marzo il governo ha blindato la Lombardia e le altre zone del Nord Italia più a rischio contagio e immagini come questa - strade, piazza, viali e parchi vuote di traffico e persone - iniziano a diventare la triste normalità. Certo, lui è nato per correre. Con il pallino per le maratone e la passione per il calcio a cui gioca con gli amici (e guarda in tv tifando Milan). Così, se esistesse una colonna sonora nella vita di ognuno di noi, la sua sarebbe Born to Run di Bruce Springsteen. È la convinzione di Bruno che, nel libro Un medico scritto con il giornalista di Sky Tg24 Fabio Vitale, racconta numerosi retroscena sulla ripresa di Mattia. Il 4 settembre il giovane torna a giocare su un campo di calcio in un triangolare tra la nazionale dei sindaci, politici della ex zona rossa e volontari della Protezione civile. «Oggi può fare tranquillamente sport», assicura Bruno. Di certo, Mattia avrà anche gustato il piatto di gnocchi con gorgonzola o la pizza con cipolla e salamino piccante tanto desiderati subito dopo essere uscito dalla terapia intensiva. Ma alla fine, oggi come allora, la sua lezione è racchiusa nel messaggio diffuso il 21 marzo all’uscita dall’ospedale: «Da questa mia esperienza le persone devono capire che la prevenzione è indispensabile per non diffondere il virus. Io voglio dimenticare questa brutta esperienza e tornare alla normalità». In fondo è quello che vogliamo tutti noi.

Coronavirus, Simona, l'infermiera che curò il paziente 1: "Volontaria per l'emergenza in Umbria. Qui la mia mia nuova Codogno". Antioco Fois su La Repubblica il 24/2/2021. Simona Ravera,53 anni, l'infermiera che curò il paziente 1 a Codogno, un anno fa, ora volontaria in Umbria. Assegnata alla "terapia intensiva 2" del Covid hospital di Spoleto, è tra i 19 sanitari lombardi, veterani della prima ondata, arrivati di rincalzo a Perugia e al San Matteo degli Infermi la sera del 21 febbraio, a un anno dalla notizia dell'esordio del virus. "La mia nuova Codogno è l'Umbria, a un anno esatto da quando tutto è cominciato". È un fiume in piena Simona Ravera, 53 anni, infermiera dell'ospedale che ha vissuto l'innesco della pandemia in Italia, appena smontata dal primo turno di servizio sul nuovo fronte caldo del Covid. Nell'Umbria zona rossa per tre quarti, diventata epicentro delle varianti, dove otto infezioni su dieci sono attribuite a "brasiliana" o "inglese" e una rete ospedaliera piegata dall'ondata anomala di contagi ha chiesto personale in prestito alle altre regioni. La volontaria assegnata alla "terapia intensiva 2" del Covid hospital di Spoleto è tra i 19 sanitari lombardi, veterani della prima ondata, partiti col camice in valigia e arrivati di rincalzo a Perugia e al San Matteo degli Infermi la sera di domenica scorsa, il 21 febbraio, a un anno dalla notizia dell'esordio del virus a Codogno.

Lei ha vissuto il pieno della prima ondata. Perché affrontare un'altra emergenza in Umbria?

"Quando ho saputo dell'esigenza di personale sanitario non sono riuscita a sottrarmi al senso del dovere. L'Umbria è la mia terra d'origine, sono nata a Perugia, e quando l'ho saputa sofferente mi è sembrava naturale rispondere".

Siete arrivati il 21 febbraio, a un anno esatto dalla notizia del "paziente uno" a Codogno. Crede nelle coincidenze?

"Non sono potuta rimanere indifferente all'anniversario di un evento che ho vissuto in prima persona. Ricordo il caos e l'incertezza di quei giorni, ho sentito che a distanza di un anno la chiamata per l'Umbria mi riguardava. Non poteva essere un caso".

Cosa ricorda di quella giornata?

"Il 20 febbraio era un normale giovedì, ero di turno il pomeriggio. Sono arrivata in anticipo e ho visto la porta antipanico stranamente sbarrata e il segnale di emergenza in corso. Ho approfittato per prendere un caffè ed è finita che sono uscita dall'ospedale due giorni dopo".

Cos'è successo quel pomeriggio?

"Appena entrata in reparto, il nostro responsabile ci ha detto di vestirci e tenerci pronti. C'era un caso fortemente sospetto, un giovane affetto da sindrome respiratoria in insufficienza acuta. Abbiamo blindato l'ospedale, bloccato la turnazione e richiamato in servizio il personale del mattino. È iniziato così un turno di 48 ore. In serata è arrivata la conferma del tampone: Mattia era positivo al Covid. Dopo mezzanotte la notizia è uscita sulla stampa".

Quindi ha curato il "paziente uno"?

"Sì, ero tra quegli infermieri che da subito se ne sono occupati e hanno garantito il turnover a oltranza. Poi un'équipe del Sacco di Milano ci ha confermato che le procedure da noi adottate erano giuste".

Nella prima ondata non si conosceva niente del Covid, adesso l'incognita è un nemico che muta. Ha paura delle varianti? 

"Ho fatto il vaccino, dovrei essere coperta almeno per quella 'inglese'. Le varianti sono altamente contagiose, ma non significa altamente letali. Utilizzo i dispositivi di protezione e non dovrei infettarmi. Quindi non devo nemmeno avere paura".

La sua famiglia era d'accordo per la sua partenza?

"I miei genitori hanno fatto di tutto per dissuadermi, sono terrorizzati dalle varianti. Mio marito e mia figlia adolescente, Bianca, non ci hanno nemmeno provato, sanno che la mia missione adesso è in Umbria. Prima che partissi abbiamo scritto assieme una guida su come amministrare la casa, dalle pulizie all'utilizzo della lavatrice. Bianca mi ha scattato una foto mentre salivo sul treno e mi ha mandato un messaggino: 'Sono orgogliosa, sei un esempio di vita per me'. Sarà un mese molto lungo. Ma basta adesso, non mi faccia commuovere".

Come ha trovato la situazione in Umbria?

"La crisi c'è e si sente, ma se penso a quello che abbiamo vissuto nel Lodigiano nelle prime settimane, al viavai continuo di ambulanze, qua mi sembra una condizione tutto sommato affrontabile".

E in ospedale a Spoleto?

"C'è una piccola terapia intensiva, come a Codogno. Il carico assistenziale è notevole, ma non posso entrare nel merito delle criticità".

In Umbria la curva negli ultimi giorni sembra rallentare, mentre in Lombardia proclamano zone arancioni "rafforzate". Non ha paura che riaccada tutto da capo?

"Sono molto preoccupata, la pandemia sembra ripercorrere lo stesso ciclo 'stagionale' dell'anno scorso, ma adesso siamo più preparati e abbiamo i vaccini. Un mese è lungo, intanto per questi 28 giorni la mia casa è l'Umbria, la mia nuova Codogno".

La rivolta contro Oms e governo. Così Zaia svegliò l'Italia sul Covid. Un anno fa il primo decesso a Vo'. Il governatore e i suoi scienziati rompono i protocolli: gli sms da cui è nato tutto. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini - Mar, 23/02/2021 - su Il Giornale. Per gentile concessione della casa editrice Historica pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo Codogno, l'incidente della storia tratto da Il libro nero del coronavirus - Retroscena e segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia, scritto da Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini. L'opera, pubblicata l'anno scorso, è un viaggio a ritroso che svela al lettore tutti gli errori commessi nella lotta al Covid-19. Si dice che la storia, beffarda e imprevedibile, tenda a ripetersi nel corso dei secoli. Era il 1423 quando la Repubblica di Venezia aprì il primo lazzaretto della storia. Si trovava su un’isola nella laguna centrale della città, vicina al Lido e di fronte al bacino di San Marco. Due ettari e mezzo, 8.500 metri quadri edificati, il primo e vero ospitale nel mondo dedicato esclusivamente all’isolamento e alla cura dei malati di peste. Dal nome dell’isola, dedicata a Santa Maria di Nazareth, derivò prima il termine Nazaretum poi trasformato dal senso comune in Lazzaretto, forse a causa della vicina isola dedicata a San Lazzaro. Una parola che entrerà nella storia, simbolo delle tante battaglie contro le pestilenze che città, Stati e continenti si troveranno via via a combattere. Pochi anni dopo, nel 1468, il Senato della Serenissima fece edificare su un’altra isola anche il lazzaretto nuovo, per distinguerlo dal vecchio, con il compito di prevenire i possibili contagi della peste. È proprio qui che venne inventata la «quarantena», cioè quaranta giorni di isolamento, per le navi che da tutti i posti del Mediterraneo portavano le merci all’ombra di San Marco. Il paragone col presente potrà apparire audace, forse addirittura forzato. Ma le coincidenze con le scelte «innovative» fatte dal Veneto nella battaglia al coronavirus sono più di una. Innanzitutto dalle parti di Padova non esitano neppure un secondo a «mettere in quarantena» Vo’, riducendo contagi, infetti e decessi. Poi la Regione avvia una vera e propria sfida al mondo scientifico, all’Oms e ai consulenti del governo sulla realizzazione dei tamponi. Mentre a Roma e a Ginevra si predica il Vangelo secondo l’Oms di fare test per il coronavirus solo ai sintomatici con una storia epidemiologica a rischio, Zaia decide di disobbedire. I virologi dicono che i tamponi a tappeto sono «inutili» se non «dannosi»? Il Veneto li implementa. In tutto il mondo governa lo scetticismo sulla possibilità che il virus cinese arrivi in Occidente? Le aziende sanitarie regionali si attrezzano acquistando reagenti per il test a prezzi stracciati, prima che la corsa al tampone li trasformi in beni di prima necessità e ne faccia lievitare il costo. In Italia criticano la strategia di sottoporre tutti agli esami diagnostici? Il governatore risponde «me ne frego» e va per la sua strada. Ne nascono critiche, scomuniche scientifiche, baruffe politiche. Poi il morbo dilaga, l’Italia finisce in lockdown, gli esperti cambiano parere e al «Modello Veneto» viene pian piano riconosciuta una certa validità. Numeri alla mano, pare proprio che abbia portato risultati. Quando sull’Italia si abbatte prima il ciclone Codogno e poi quello di Vo’, il governatore Zaia prende subito una decisione controcorrente: «Decisi, di fare i famosi tamponi a tutti i tremila abitanti di Vo’. Tutti dicevano che non bisognava farli, ho avuto un sacco di attacchi nei giorni successivi, però pensai subito che siamo davanti a un virus che non conosciamo, abbiamo i primi due cittadini contagiati...». Nell’immediato vengono realizzati 2.812 test e i risultati sono inaspettati: 73 positivi, il 2,6% della popolazione, ma non tutti conclamati. «Con i tamponi – spiega Zaia – abbiamo trovato alcuni positivi al coronavirus asintomatici, molti dei quali non conoscevano neanche i famosi primi due contagiati, ammesso e non concesso che fossero i primi due». Tradotto: tra gli infetti, 30 persone, il 41.1%, non presentano alcun sintomo. La squadra di Crisanti si mette allora al lavoro per ricostruire legami personali, parentele, contatti, nella speranza di poter contenere la diffusione. «È stata una scoperta straordinaria, perché se noi avessimo lasciato quelle persone a piede libero e non in isolamento fiduciario avremmo avuto degli untori inconsapevoli». La scoperta veneta inficia le convinzioni fino a quel momento radicate nel mondo scientifico, soprattutto italiano (ma anche della sanità veneta). Nei primi giorni tutti sono concentrati a indagare lo stato di salute di chi presenta tosse, febbre o congiuntivite. Nessuno invece si preoccupa degli asintomatici, ovvero la massa di persone positive al virus, potenzialmente contagiose, ma abbastanza fortunate da non sviluppare i sintomi dell’infezione. Nessuno pensa di fare una mappatura di massa, per capire se ci siano a «piede libero» individui senza sintomi, ma comunque infetti e potenzialmente contagiosi. Qualche giorno dopo, il cellulare di Zaia inizia a squillare e dall’altra parte della cornetta sente per la prima volta la voce di Crisanti. «Non me l’ha presentato nessuno, mi sono fatto dare il suo numero e l’ho cercato io – ha raccontato il virologo – Fu una lunga telefonata. La fortuna non esiste: chiamiamo così l’incrocio delle persone giuste, al momento giusto, nelle condizioni giuste». Crisanti chiede al governatore di ripetere l’esperimento dei Covid–test su Vo’ alla fine della quarantena, convinto che servano dati più precisi per poter decidere quali politiche intraprendere. Zaia si convince rapidamente e mette a disposizione del virologo 150mila euro per ripetere l’esperimento. La decisione permetterà di creare un caso unico al mondo: Vo’ è infatti il solo cluster chiuso con casi di infezione che sia stato sottoposto a tamponi di massa per due volte consecutive, a 14 giorni di distanza. I risultati diranno che la decisione di controllare tutti e isolare gli infetti ha funzionato: vengono trovati 29 positivi, di cui solo 8 «nuovi» casi e il 44.8% ancora asintomatici. Ma intanto la maggior parte dei contagiati si è negativizzata. «Noi a differenza di Codogno abbiamo potuto fare i tamponi a tutti», ci spiega il sindaco Martini. «Così scovando gli asintomatici e mettendoli in isolamento fiduciario siamo riusciti ad abbassare l’indice di contagio». Crisanti lo annuncia «in via confidenziale» al governatore via sms, spiegando che in una prima fotografia «il tasso di reinfezione» è sceso «all’1 per mille dal 3 per cento iniziale». «La sorveglianza attiva funziona», afferma il virologo annunciando entro un paio di giorni i dati completi. «Ma è un successo senza precedenti, un modello che può essere esportato a tutti i focolai senza necessariamente chiudere tutto». Zaia è raggiante e risponde con la sola emoticon con la freccia in alto e la scritta «TOP». Visti i risultati di Vo’, a metà marzo il Veneto decide allora di adottare la stessa, identica strategia per tutta la regione: tamponi, tamponi, tamponi. «Al fine di interrompere la circolazione del virus Sars-CoV-2 nella popolazione generale – si legge nella direttiva regionale – si intende avviare un piano che attraverso l’individuazione di soggetti "positivi" paucisintomatici ed asintomatici consenta l’allargamento dell’isolamento domiciliare fiduciario attorno al caso "positivo"». Gli obiettivi sono ambiziosi: individuare tutti i casi sospetti, probabili e confermati; effettuare un’approfondita indagine epidemiologica per individuare tutti i possibili contatti, anche quelli definiti «non stretti» o a basso rischio; disporre poi le misure di quarantena e isolamento domiciliare fiduciario; individuare positivi in «categorie di lavoratori dei servizi essenziali», come gli addetti alle casse dei centri commerciali, i vigili del fuoco e le forze dell’ordine; e, soprattutto, realizzare uno screening completo di tutti i dipendenti del Sistema Sanitario Regionale, farmacisti e operatori delle strutture per non autosufficienti. «Non abbiamo fatto entrare nessun paziente in nessun reparto, anche se aveva l’appendicite, l’ictus, finché non era stato testato per il coronavirus, perché non volevamo che infettasse gli altri pazienti e i medici nel reparto», racconta a Le Iene Crisanti. Il risultato è che, tra le zone d’Italia con più casi, il Veneto risulterà essere quella con il più basso tasso di operatori sanitari infettati. Per riuscire a tenere il ritmo, la Regione investe 350mila euro e acquista dagli Stati Uniti una macchina in grado di realizzare ogni giorno 9mila tamponi. Il risultato è che al 3 maggio l’Emilia Romagna, che ha un numero simile di abitanti, realizzava in media settimanale 113 tamponi al giorno ogni 100mila abitanti, contro i 180 del Veneto. In termini assoluti, vuol dire che in circa due mesi Bologna ha effettuato 197mila tamponi. Venezia oltre 378mila. Oggi la scelta del governatore può apparire logica e forse addirittura scontata. Eppure nelle ore calde dell’epidemia appariva come una vera e propria ribellione. Basta tornare indietro nel tempo e rileggere le dichiarazioni di governo, esperti e virologi per capire la portata dello strappo veneto. All’inizio dell’epidemia le autorità sanitarie sottopongono a tampone tutte le persone con cui i positivi sono stati a contatto e i casi iniziano così a emergere un po’ ovunque. «Le inchieste sul focolaio di Codogno – ci spiega una fonte nella task force lombarda – ci avevano dimostrato la presenza di casi propagati che ormai erano arrivati molto lontani. Una cosa che ormai ci è chiara, ma in quei giorno lo era un po’ meno, è che la velocità con cui noi raccoglievamo le informazioni sulla catena di contagio era insufficiente rispetto a quella del virus». Nel mondo inizia a farsi strada l’immagine di un’Italia «lazzaretto». Alcuni Paesi arrivano addirittura a sbarrare i confini col Belpaese e così la politica si ribella: c’è chi va a fare aperitivi (vedi il segretario del Pd Nicola Zingaretti) e chi propone di far ripartire Milano (leggasi il sindaco Beppe Sala). Per mettere ordine nella confusione, e forse nella speranza di «ridurre» l’impatto dell’epidemia, il governo decide di dettare una linea unica e di sottoporre al tampone solo le persone sintomatiche. Il motto sembra essere: «meno test si fanno, meno se ne scovano». Uno stratagemma che può aiutare a nascondere la polvere sotto il tappeto, ma non impedisce certo al virus di circolare. Il 27 febbraio, il consulente del ministero della Salute e membro dell’Oms, Walter Ricciardi, dichiara che in alcune parti d’Italia «i tamponi sono stati fatti in maniera inappropriata». Due giorni prima il premier Conte in conferenza stampa aveva sposato la stessa linea: «La prova tampone non va fatta diffusamente. Non è che oggi uno avverte di avere la febbre, anche alta, e fa la prova tampone. Assolutamente non sono queste le raccomandazioni della comunità scientifica». In effetti le linee guida dell’Oms, e a cascata quelle dell’Istituto superiore di sanità, non prevedono test di massa. I tamponi, ribadisce Ricciardi, vanno fatti «soltanto ai soggetti sintomatici e con fattori di rischio legati al contatto o alla provenienza geografica». (...) Numeri alla mano, in effetti, il modello Veneto sembra aver funzionato: nonostante Vo’ sia uno dei due focolai iniziali, nella regione i contagi al 1° maggio erano 18.318 contro i 26.016 dell’Emilia Romagna, nonostante il triplo dei tamponi realizzati. La sua prevalenza (numero di casi ogni 100mila abitanti) nell’ultima settimana di aprile era di 373, contro il 583 dell’Emilia e il 771 della Lombardia. Il merito va dato al sistema sanitario, che vanta un’ottima integrazione tra ospedali e medicina del territorio. Ma forse anche all’intuizione di predisporre i test a tappeto. «Il virus qui è stato isolato – dice orgoglioso il sindaco di Vo’ – Ed è rimasto all’interno del paese. Non si è espanso. Il nostro sistema ha salvato Padova, Vicenza, Verona, Treviso e Rovigo. Il virus isolato a Vo’ è rimasto a Vo’». Una «operazione chirurgica» tutt’altro che scontata. Il Veneto è stata la prima Regione in Italia a sposare i test a tappeto. Un po’ come per il lazzaretto nella Serenissima.

"Una coppia cinese con la febbre": così un anno fa il Coronavirus sbarcava a Roma. Lorenzo D'Albergo su La Repubblica il 29 gennaio 2021. Il 29 gennaio del 2020 il Covid muoveva i suoi primi passi in città. Un esordio da incubo partito con la telefonata di una turista proveniente da Wuhan alla reception dell'hotel Palatino di via Cavour: "Mio marito ha la febbre". L'ambulanza parcheggiata davanti all'hotel Palatino. I sanitari bardati di tutto punto, da astronauti. I primi video dell'intervento del 118 condivisi migliaia di volte social, a tarda sera. Così, un anno fa, il coronavirus muoveva i suoi primi passi a Roma. Un esordio da incubo partito con la telefonata di una turista cinese alla reception dell'albergo di via Cavour: "Mio marito ha la febbre". Così, con una manciata di parole pronunciate in un inglese stentato e tra i singhiozzi, il 29 gennaio 2020 è entrato nella storia della Città Eterna. Quel giorno una coppia di Wuhan, provincia simbolo della pandemia, sbarcava nella capitale ignara di aver portato con sé il Covid. Un ospite sgradito, disinnescato dallo Spallanzani. A seguire marito e moglie, 67 e 66 anni, è stata l'unità di Malattie infettive ad alta intesità di cure dell'istituto. Ed è il suo direttore, Emanuele Nicastri a ricordare quei giorni: "Abbiamo accolto la coppia e l'abbiamo isolata. Poi il test ci ha confermato quello che sospettavamo: coronavirus. Il primo problema fu come comunicarlo ai pazienti". Una piccola impresa: "Erano di un livello culturale alto, ma parlavano poco inglese. Furono decisivi WhatsApp e le videocall con la figlia, che lavora negli Stati Uniti. La reazione alla diagnosi? Per loro fu una sorpresa". E non delle migliori. Nicastri ricorda ogni passaggio, ogni piccolo aggravamento o miglioramento del quadro clinico dei due cinesi. Compresa la notte tra il 4 e il 5 febbraio, 12 ore terribili: "Prima finì intubato lui e poi lei. Il peggiormento fu sensibile, inaspettato. E fu un'altra videochiamata ad aiutarci a uscire fuori da quel caso". Ecco il ponte 2.0 allestito dall'ambasciata cinese con i pneumologi di Wuhan: "Ci si poteva attendere reticenza da parte loro. Invece ci spiegarono subito come affrontare la situazione. Ossigeno e cortisone da subito, anche se l'Oms lo riteneva dannoso. Poi il Remdesivir, un antivirale. Sono le armi che utilizziamo ancora oggi". Con i primi casi di coronavirus si sono rivelate particolarmente efficaci: "Il 95% dei pazienti Covid non presenta sintomi così gravi. A loro poteva andare malissimo, ma ne sono usciti sulle loro gambe", ricorda ancora Nicastri. Poi un flash: "La figlia, certo. Quando venne a sapere che la madre e il padre erano in rianimazione prese il primo volo per Fiumicino. La andammo a prendere noi in aeroporto. Dovevamo accorciare i tempi, non eravamo certi di cosa potesse accadere ai genitori". Ore di attesa e di ansia, fino alla notizia: "Prima lui, poi lei. Guariti e finalmente capaci di comunicare con noi, grazie all'aiuto dei ragazzi del consorzio Confucio della Sapienza. Ricordo la prima boccata di aria fresca del nostro paziente cinese, con tutta la nostra squadra. È stato un momento emozionante". Tanto quanto quello in cui ha potuto rivedere la moglie: "Lei era ancora intubata - racconta Nicastri - e lui si è commosso. La nostra politica è stata sempre quella di separare le famiglia. Se peggiora uno, lo fa anche l'altro di solito. Certe notizie sono insostenibili. Loro, pur stando lontani, peggiorarono assieme. Come se ci fosse una connessione psicologica". Telepatica. E oggi? A distanza di un anno il virus è una realtà, è entrato nel quotidiano. "La paura è stata nostra compagna per tutti questi mesi. Ma ora c'è il vaccino. È difficile far capire a chi non lavora in ospedale il senso di sicurezza che può fare. È il nostro vestito di Superman. Da noi non esistono no-vax, ma solo medici, infermieri, biologi, ausiliari e amministrativi forgiati dalle precedenti pandemie, dall'Ebola fino alla Chikungunya. Eravamo pronti al coronavirus, come team. E i due coniugi cinesi sono stati la nostra palestra".

Confessioni sulla pandemia. Luigi Iannone il 27 gennaio 2021 su Il Giornale. Da pochi giorni nelle librerie, La vita quotidiana ai tempi del coronavirus (Solfanelli editore, p. 175, euro 12),  l’ultimo libro di Giuseppe De Ninno, saggista e traduttore che, in passato si era cimentato su lavori di taglio storico (Risorgimento e Controrivoluzione) e di critica cinematografica (Piombo, sogni e celluloide) e che, adesso, in un quadro più intimistico, volge la sua attenzione a timori, aspettative, paure provocate da questo anno claustrofobico segnato dalla pandemia globale. Un racconto tra indignazioni e speranze, pubbliche e private, di cui – qui di seguito – anticipiamo le prime pagine. 

Premessa. Si può “fare storia” a partire da un diario? Molti precedenti, ben più illustri di questo, consentono di rispondere affermativamente, e qualche esempio si troverà anche nelle pagine che seguono. Dunque, si può scrivere la storia come testimonianza privata, specialmente quando ci si trova di fronte ad un avvenimento grandioso e imprevisto, come una guerra o, nel nostro caso, una pandemia. Si può “fare letteratura”, sempre adottando la forma narrativa del romanzo? Anche qui gli esempi si moltiplicano e anche di questo riporteremo qualche esempio nel libretto che, se non aureo, aspira ad essere “argenteo” (e speriamo non di bronzo, come le facce di certi personaggi che nel racconto incontreremo). Nel diario, si troverà di tutto: sensazioni intime e pubbliche indignazioni, gusti e disgusti per questo o quel libro, questa o quella serie tv, questo o quel protagonista delle cronache. Ci saranno “pensierini” sulla politica e la religione, la famiglia e la scuola, lo sport e l’amore, i giovani e i vecchi, le piante, gli animali e le stagioni; ci sarà persino un accenno alla poesia, ma la protagonista in assoluto sarà la casa, dimora eletta della quarantena, assurta a microcosmo protettivo, ma claustrofobico per molte settimane. Parlerò dunque della mia casa, della mia famiglia e della mia città, perché fin dai banchi del liceo mi hanno insegnato che se vuoi essere universale, devi parlare delle cose che conosci bene, e quindi del tuo “particolare”. Spero di esserci riuscito, aldilà delle drammatiche circostanze che sono all’origine di queste pagine.

Prologo a Venezia, Febbraio 2020. Questo diario di una lunga limitazione della mobilità comincia, paradossalmente, con un viaggio: torniamo in una delle nostre città del cuore, grazie a nostro figlio Alessandro, che riprende il suo insegnamento alla Ca’ Foscari. La sua prima lezione è fissata domani, in concomitanza con l’inizio del Carnevale, e noi lo seguiamo ben volentieri. Non lo sappiamo ancora, ma proprio in questi giorni ci sarà l’avvio della pandemia da coronavirus, in particolare in Lombardia e Veneto. Usciamo dalla Stazione di S. Lucia in una classica serata veneziana, umida e affollata. Mentre aspettiamo d’imbarcarci per l’appuntamento con la ragazza dell’agenzia, che dovrà consegnarci le chiavi dell’appartamento preso in affitto, ci assale l’altrettanto classica nostalgia tipica di questa città e di chi la visita; ma la nostra non si può riferire agli “amori morti”, come cantava Aznavour: piuttosto alle “amicizie morte”, cioè a quegli amici veneziani già compagni di lontane avventure intellettuali e poi persi di vista da anni. E dunque, nostalgia di tempi andati. Ben presto ci facciamo ammaliare dal fascino della sera veneziana, con lo sguardo che dal vaporetto vaga tra canali, ponti e luci a illuminare facciate aristocratiche, anonime dimore, il mercato del pesce. Poche fermate fino a Cannaregio, dove ci aspetta l’addetta dell’agenzia che ci mostrerà la bella casetta su due livelli, dove alloggeremo per tre giorni, in una stretta calle che si apre sul campo, “drio la chiesa” dei SS. Apostoli. Qui però, aldilà degli spunti diaristici, voglio soffermarmi sul mio primo carnevale nella città delle acque e della Repubblica marinara. Ho sempre avuto del Carnevale l’idea di una squallida coazione al divertimento, nel migliore dei casi di una festa per i bambini e solo in funzione loro sopportabile. So bene che vi è tutta una cultura simbolica, che nella scelta di una maschera vede una dionisiaca assunzione degli stati di coscienza più profondi e nascosti nonché, in chiave sociologica, l’eccezione ad una generale regola condivisa, magari con un rovesciamento dei ruoli sociali. E poi… semel in anno licet insanire… Tuttavia, nella mia personale interpretazione di questa festa, restavano e restano a spiegarne il mio infastidito distacco la trasandatezza di travestimenti arrangiati e l’inconsapevole nevrosi del divertimento ad ogni costo (e — perché no? — una diffusa tendenza a prendersi troppo sul serio…). Qui non è così. Fin dalla prima sera, eccoci in un flusso di maschere in movimento su ponti, campielli e calli; e tutti i costumi mi appaiono curati nei minimi dettagli e sono perlopiù ispirati al Settecento, il secolo d’oro della Repubblica dei Dogi, l’ultimo dell’eleganza maschile associata ad una sia pur superficiale sicurezza di sé ed alla gioia di vivere. Veniamo quasi trascinati in un tripudio di ricami e spadini, tricorni e calzamaglie, fibbie, parrucche e alamari, in una festa di blu e di avori, di rossi e di verdi, dove perfino il nero colpisce per il suo insolito vigore cromatico, esaltato com’è da nastri e bordure d’oro e d’argento. Qui poi ancor oggi la maschera appare, come tre secoli fa, come strumento di misteriosa seduzione, ma anche di gioco, di rimescolamento sociale e generazionale (molti dei volti intravisti sono probabilmente di maturi e agiati commercianti e professionisti, ma anche di giovani commesse e garzoni) e di sfida alle forze maligne della vita, sorriso beffardo in faccia all’età che avanza e finanche alla morte, esorcizzata nei teschi di cartapesta e nelle maschere dei “dottori della peste”, quelle col naso lungo (nella memoria collettiva veneziana, è rimasta la peste del 1700, quella che diede luogo, per la prima volta dopo quella evocata dal Manzoni, al lazzaretto). E le dame? Le più attempate non temono di mostrare maquillagee sorrisi, sotto ardite parrucche, e le vedi passeggiare, nei loro variopinti abiti di velluti e broccati, compiaciute e incuranti dei paragoni con le più giovani e avvenenti, che sfoggiano gli stessi generosi décolletésdelle antenate, tutte pronte e disposte, con i loro cavalieri, a offrirsi all’avido obiettivo dei mille telefonini (compresi i nostri). Soltanto a Venezia poi il carnevale assume anche le sembianze di un sorridente orgoglio identitario: si prende un po’ in giro la storia, che conobbe delazioni e ingiustizie — come nel caso del famoso fornaretto — ma anche i trionfi dell’abilità mercantile e della potenza marittima, che portò il nome di Venezia in tutto il Mediterraneo, le cui coste sono ancora costellate delle sue architetture militari, civili e religiose. Certo, il tono del carnevale era, e solo in parte è, dato dall’esaltazione dell’eros — praticato dal se- duttore principe, Casanova, e cantato dal suo con- temporaneo Giorgio Baffo, poeta licenzioso — e del corteggiamento, che vedeva in prima fila le figure del “cavalier servente” e degli abati cicisbei. Ma quella Venezia conosceva pure atti di generosità pubblica verso i più sfavoriti, legati alle gioiose solennità carnevalesche: ne rimangono tracce ancor oggi, sia nel linguaggio che nella salvaguardia di certe consuetudini. Una per tutte: il concorso delle “Mariette”, cioè delle fanciulle più bisognose, per le quali il Doge offriva un lauto pasto alla cittadinanza (il “bagordo”), provvedendo alla necessaria dote per la vincitrice. A costei era poi riservato, l’anno successivo, il volo dell’Angelo o della Colombina, e cioè l’acrobatica discesa lungo un cavo dalla cima del campanile di S. Marco giù fino alla piazza (una cerimonia che anche ai nostri giorni apre le celebrazioni carnevalesche). Insomma, ancor oggi qui si avvertono gli echi del secolo di Goldoni e Mozart, Casanova e Cagliostro, felice con tutte le sue contraddizioni, almeno fino a quando questa felicità non fu soffocata nel sangue della ghigliottina e poi nel tradimento napoleonico. In questi giorni, tuttavia, si rievocano soltanto scherzi, feste e banchetti, e i sospiri non sono più quelli dei condannati ai Piombi, ma quelli degli innamorati, di un giorno o di una vita. Così anche noi ci abbandoniamo alla corrente dei cento affluenti che s’infrangono contro le barriere dei “tutori dell’ordine”, per poi sfociare nell’unico accesso consentito nella piazza, sotto le cupole della basilica ispirata all’Oriente e i merletti marmorei del Palazzo ducale: da un lato il mare, che fondò la ricchezza e il potere di quella Repubblica, dall’altro le possenti Procuratie, che delimitano la piazza, tutti col naso in su, a seguire il volo della Colombina. E alla nostra mente, di tanto in tanto, si affacciano le immagini di un’altra basilica, che ci attende lunedì a Roma: quella di Santa Teresa d’Avila, teatro di tante cerimonie familiari, tristi e allegre, e che stavolta ospiterà i funerali di Prisca, zia carissima di mia moglie, che abbiamo appreso averci lasciato proprio in nostra assenza. In fondo, dietro ogni maschera di Carnevale, c’è Lei, la Signora in nero con la falce, con la quale, per brevi momenti, si riesce anche a giocare, un po’ come fece il Cavaliere del Settimo Sigillo nel capolavoro di Bergman.

2020: un anno in ostaggio di Covid-19. Simone Valesini su La Repubblica il 30 dicembre 2020. Da Wuhan a Codogno. I mesi del lockdown. E oggi, i vaccini con la uce in fondo al tunnel. 12 mesi terribili, ma da non dimenticare. E chi se lo dimenticherà, questo 2020. Un anno strano, scandito da preoccupazioni, sacrifici, paure, distanze e nuove abitudini. Un anno di vita sospesa, che in molti vorremmo solamente lasciarci alle spalle e dimenticare al più presto. E che invece sarà importante ricordare, non solo per rispetto verso le tante vittime di questa pandemia, ma anche per assicurarci di aver imparato qualcosa dai successi e dagli errori fatti negli scorsi mesi. Così da farci trovare pronti quando il prossimo, maledetto, virus epidemico tornerà a colpire le nostre società. Per aiutare la memoria, ecco una timeline degli eventi più significativi in questo anno dominato da Covid-19.

31 dicembre 2019, prime avvisaglie. In questa data l’Oms comunica ufficialmente la comparsa dei primi casi di polmoniti anomale nella città di Wuhan, dopo che per giorni il governo cinese ha cercato di silenziare le voci di una possibile nuova malattia diffuse dall’oculista Li Wenliang (che a febbraio morirà proprio a causa di Covid). Si tratta di 41 infezioni riconducibili ad un mercato cittadino, uno dei cosiddetti wet market dove si vendono pesci e animali vivi, che diviene così l’epicentro del primo focolaio della nuova epidemia (anche se le ricerche successive hanno iniziato a mettere in dubbio la questione), e sarà chiuso dalle autorità il primo gennaio del 2020.

9 gennaio, il mondo riscopre i coronavirus. L’Oms annuncia che le autorità sanitarie cinesi hanno identificato il patogeno responsabile delle misteriose polmoniti di Wuhan: si tratta di un nuovo coronavirus ancora sconosciuto, battezzato inizialmente 2019 nCov (nuovo coronavirus del 2019). Il virus inizia subito a fare paura, perché appartiene alla stessa famiglia di Sars e Mers, due delle più pericolose malattie infettive diffusesi negli ultimi decenni. Ma in questa fase i timori sono contenuti, non ci sono ancora conferme che il virus possa trasmettersi da uomo a uomo e anzi, il 14 gennaio il governo cinese (con l’appoggio dell’Oms) annuncia che le indagini svolte sembrano negare il rischio. Il 10 gennaio viene pubblicata la sequenza genetica del virus, e nei giorni successivi in tutto il mondo iniziano gli sforzi per produrre kit diagnostici basati sulla Pcr (i famosi “tamponi”).

21 gennaio, si inizia a parlare di epidemia. Dopo aver smentito per settimane i rischi, il 21 gennaio il governo cinese ammette che il virus è trasmissibile tra esseri umani, e risulta anzi anche particolarmente infettivo. A questo punto ha già ucciso 4 persone e i casi confermati sono saliti a circa 200. Diversi casi sono ormai stati identificati anche fuori dal paese (in Thailandia, Giappone, Corea, Stati Uniti e Francia). Il 23 gennaio il governo cinese decide di agire, e sceglie la linea dura: arriva il primo lockdown, che chiude a casa oltre 18 milioni di cinesi a Wuhan e nelle città limitrofe.

30 gennaio, primi pazienti in Italia. Il presidente del Consiglio Conte e il ministro della Salute Speranza annunciano che sono stati identificati i primi pazienti anche in Italia. Si tratta di una coppia di coniugi cinesi in viaggio nel nostro paese, ricoverati il 29 gennaio in isolamento allo Spallanzani di Roma. Il ministro Speranza annuncia la chiusura del traffico aereo da e per la Cina. Il giorno seguente, 31 gennaio, l’Oms dichiara che la nuova malattia, ancora senza nome, è ora classificata come emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale. Il Consiglio dei Ministri dichiara lo stato di emergenza sanitaria in Italia. 

10 febbraio, la malattia ha un nome. I decessi in Cina superano ufficialmente quelli provocati dalla Sars nel 2003, raggiungendo quota 908 (contro le 774 morti registrate durante la precedente epidemia). L’11 febbraio l’Oms annuncia che il nuovo virus, e la malattia che provoca, hanno finalmente un nome: sentiamo parlare per la prima volta di Covid 19 (Coronavirus disease 2019) e del suo agente eziologico, il virus Sars-Cov-2. Il 12 febbraio viene confermata l’infezione di 175 persone a bordo della nave da crociera Diamond Princess, attraccata nel porto di Yokohama, in Giappone. Nelle settimane seguenti 700 passeggeri isolati a bordo della nave verranno contagiati da Sars-Cov-2, e 14 moriranno a causa della malattia.

20 febbraio, inizia l’epidemia italiana. Il paziente italiano numero uno si presenta all’ospedale di Codogno il 17 febbraio con i sintomi di una leggera polmonite. Viene rimandato a casa con una prescrizione di antibiotici, perché in quel momento i criteri per sottoporre i pazienti ad un tampone richiedevano un contatto sospetto con qualcuno proveniente dalla Cina. Nei giorni seguenti le sue condizioni peggiorano, viene sottoposto a tampone molecolare nonostante le prescrizioni contrarie del Ministero e viene trovato positivo. Si iniziano a sottoporre a tampone altri casi sospetti, e il 20 vengono confermati 16 casi autoctoni di Covid 19, 14 in Lombardia e 2 in Veneto. Il 23 marzo arriva il primo decreto legge che impone l’isolamento nei comuni colpiti dall’epidemia: sono 10 nella provincia di Lodi e uno in provincia di Padova. Inizia ufficialmente la stagione dei dpcm: il 5 marzo viene sospesa la didattica nelle scuole e nelle università di tutta la penisola, l’8 marzo si estende la zona ad altre 26 province del Nord Italia, e il 9 marzo viene annunciato il primo lockdown nazionale, che andrà avanti fino al 3 maggio.

11 marzo, Covid è ufficialmente una pandemia. Dopo settimane di attesa e di critiche, l’11 marzo il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, annuncia che Covid 19 è stata dichiarata ufficialmente una pandemia. Dall’inizio dell’epidemia nel mondo sono già morte più di 4mila persone, e i casi registrati sono quasi 120mila.

18 marzo, il giorno peggiore. L’Italia finisce sulle prime pagine di tutto il mondo. A fare scalpore è la foto dei camion militari che sfilano per il centro di Bergamo, carichi di bare dirette verso i forni crematori di altre regioni perché la camera mortuaria cittadina non è più in grado da giorni di accogliere nuovi feretri. I morti nel nostro paese hanno quasi raggiunto quota 3mila. Per la fine del mese i morti italiani raggiungeranno la cifra record di 12mila, i casi totali saliranno a 105mila. Non a caso, il 23 luglio il governo decide di istituire la Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia, da celebrare il 18 marzo di ogni anno.

2 aprile, il mondo è in ginocchio. In questa data viene superata ufficialmente la soglia del milione di contagi in tutto il mondo. I morti sono oltre 53mila, e il virus ha raggiunto ormai i quattro angoli del globo. Dal 27 marzo gli Usa hanno superato i 100mila casi, diventando il nuovo epicentro dell’epidemia: l’11 aprile i morti americani raggiungono quota 20mila, strappando al nostro paese il triste primato dei decessi legati a Covid 19, che detenevamo da metà marzo quando i morti italiani hanno superato quelli cinesi. Entro la fine del mese nel mondo si superano i 200mila morti per Covid 19.

29 aprile, il primo farmaco. Un trial dell’Nih suggerisce l’efficacia del remdesivir, farmaco che dai dati dell’agenzia americana velocizzerebbe del 31% i tempi di dimissione dei pazienti Covid. Il primo maggio il farmaco è il primo (e attualmente ancora l’unico) a ricevere l’approvazione di emergenza dell’Fda per il trattamento dell’infezione da Sars-Cov-2. L’Europa segue a stretto giro, e il farmaco viene approvato dall’Ema a luglio. Nonostante l’alto prezzo deciso dall’azienda produttrice (che in America supera i 3mila dollari per paziente) il medicinale non ha mostrato però benefici sulla sopravvivenza dei pazienti all’interno dello studio solidarity dell’Oms, e l’agenzia mondiale della sanità al momento non ne raccomanda l’utilizzo nei pazienti ospedalizzati.

4 maggio, finisce il lockdown. Con l’ennesimo dpcm il 4 maggio l’Italia esce dal lockdown. Il calo dei contagi permette finalmente di allentare le regole, anche se il ritorno alla normalità è lento, e progressivo. Inizialmente riaprono solamente le attività essenziali, e si torna a poter uscire di casa per incontrare parenti e amici, previo il rigido rispetto delle regole di distanziamento sociale. Il 18 riaprono negozi, musei, bar e ristoranti, e si tornano a celebrare le funzioni religiose. Il 25 è la volta dei centri sportivi, dal 3 giugno si torna a circolare tra regioni.

4 giugno, la ricerca traballa. Due delle principali riviste mediche del pianeta, Lancet e New England Journal of Medicine, annunciano il ritiro di due studi sull’efficacia dell’idrossiclorochina, il farmaco delle meraviglie sponsorizzato dallo stesso presidente Trump. Il problema riguarda i dati, forniti da un’azienda privata, la Surgisphere, che non è in grado di offrire garanzie sufficienti sulla loro accuratezza. È la prima avvisaglia dei problemi che funesteranno la ricerca scientifica su Covid19: conciliare rigore e velocità non è facile, e non è un caso se per la fine dell’anno le ricerche di peso ritirate sul tema dell’epidemia siano arrivati quasi a 40.

15 giugno, arriva Immuni. Voluta dal governo, e presentata come asset strategico per gestire la fase 2 dell’epidemia, il 15 giugno viene finalmente lanciata su tutto il territorio nazionale Immuni, la app per il contact tracing realizzata gratuitamente dalla società Bending Spoons. Nonostante la pubblicità la app stenta però a decollare: ad agosto sono appena 5 milioni gli utenti che l’hanno installata sul proprio smartphone.  A ottobre siamo a circa 7 milioni. Si scopre inoltre che le Asl non avevano l’obbligo di inserire i codici dei pazienti positivi nel database, rendendo di fatto inutile l’applicazione. Conte pone rimedio al problema il 18 ottobre, ma ormai la app si era rivelata un fallimento, almeno per prevenire l’arrivo della seconda ondata epidemica nel nostro Paese.

17 luglio, l’epidemia indiana. Dopo aver superato la prima ondata, iniziata a marzo, senza troppi danni, l’India ha visto risalire l’indice dei contagi durante il periodo estivo. Il 17 luglio i casi nel paese hanno superato quota un milione, con oltre 25mila decessi. Molte aree della nazione tornano in lockdown, e il mondo assiste impotente mentre l’epidemia fa il suo corso chiedendo un costo altissimo in vite umane: ad oggi l’India è il secondo paese più colpito al mondo, con oltre 10 milioni di casi confermati e più di 140mila decessi.

21 luglio, arriva il recovery fund. Dopo giorni di trattative tesissime, il 21 luglio i leader Ue hanno trovato l’accordo sul piano straordinario di aiuti per i paesi maggiormente colpiti dall’epidemia. Una vittoria per l’Italia, che si vede destinare oltre 200 miliardi sui 750 messi a disposizione dal piano.

22 agosto, nuovo record di morti. L’estate ha visto l’epidemia procedere a singhiozzo, con nazioni in cui la situazione è migliorata fino a spingere i più ottimisti a ritenerla storia passata (come in Italia) e altre in cui il virus non ha mai lasciato la presa. Il 22 agosto nel mondo si è superata la soglia degli 800mila morti, soprattutto sulla spinta dell’alto numero di decessi registrati in Usa, India, Sud Africa, Brasile e altre nazioni del Sud America.

28 settembre, un milione di morti. A 10 mesi dall’inizio della pandemia il mondo ha raggiunto il milione di morti per Covid 19. Una soglia psicologica importante: il nuovo coronavirus ha ucciso più persone di quante ne abbiano uccise influenza, Hiv, dissenteria, malaria e morbillo sommate assieme.

2 ottobre, si ammala anche Trump. Dopo aver annunciato che la first lady è risultata positiva a Sars-Cov-2, anche il presidente degli Stati Uniti si ammala e viene ricoverato. Viene dimesso dopo appena tre giorni, dopo aver ricevuto un cocktail di farmaci sperimentali tra cui spiccano gli anticorpi monoclonali della Regeneron (che in Usa hanno ricevuto l’approvazione emergenziale a metà novembre). Non è il primo né l’ultimo uomo politico colpito dalla malattia: prima di lui era capitato a Boris Johnson nel Regno Unito (finito anche in terapia intensiva) e al presidente brasiliano Bolsonaro, e nei mesi seguenti succederà anche a Emmanuel Macron in Francia.

8 ottobre, seconda ondata. Dopo un’estate tranquilla, molti paesi europei hanno visto tornare alla carica il virus con l’inizio dell’autunno. L’Italia inizialmente ha sembrato reggere meglio dei vicini, ma la curva epidemica ha iniziato a impennarsi verso i primi di ottobre. Dall’8 ottobre si corre ai ripari, imponendo l’utilizzo delle mascherine anche all’aperto sull’intero territorio nazionale. Non è sufficiente: la corsa del virus continua inarrestabile, e verso  primi di dicembre si arriva al nuovo record di decessi, con quasi mille morti al giorno.

3 novembre, l’Italia a zone. Per cercare di arginare la seconda ondata epidemica, il nuovo dpcm del 3 novembre stabilisce un sistema di semafori regionali che divide il paese in zone rosse, arancioni e gialle, in ordine decrescente di gravità dell’epidemia. In tutta la nazione viene instaurato un coprifuoco notturno tra le 22:00 e le 5:00 di mattina.

9 novembre, arrivano i dati sui vaccini. Finalmente, novembre riserva anche le prime buone notizie dell’anno. Pfizer annuncia infatti i risultati del trial di fase 3 per il suo vaccino anti covid. L’efficacia sembra aggirarsi attorno al 90%. Pochi giorni e arriva anche l’annuncio della rivale Moderna: vaccino efficace oltre il 95%. È quindi la volta di Astrazeneca, produttrice del vaccino realizzato in collaborazione con l’Università di Oxford su cui l’Europa (e l’Italia) puntano maggiormente per uscire dall’epidemia. In questo caso l’efficacia sembra minore, vicino al 70%, ma durante lo studio è emerso, grazie ad un errore, che un dosaggio minore del preparato potrebbe risultare ben più efficace di quella prevista, raggiungendo una protezione vicina al 90%. Un risultato promettente, che obbliga però a nuovi trial, e ritarda l’approvazione del vaccino.

8 dicembre, il Regno Unito si smarca. Bandendo gli indugi e le precauzioni seguite dal resto dei paesi europei, il Regno Unito decide di approvare il vaccino anticovid della Pfizer senza attendere il parere dell’Ema. Il 9 dicembre è la prima nazione occidentale a iniziare la campagna di vaccinazioni di massa contro Covid 19. Seguono gli Usa, che l’11 dicembre concedono l’approvazione emergenziale al vaccino di Pfizer, e danno inizio alle somministrazioni il 15 dicembre.

21 dicembre, arriva l’ok dell’Europa. A pochi giorni da Natale arriva finalmente l’annuncio della Commissione Europea: a seguito del parere positivo espresso dall’Ema il vaccino di Pfizer riceve l’autorizzazione (condizionale) per l’immissione in commercio nei paesi Ue. Le danze si aprono il 27 dicembre, con una grande giornata di vaccinazioni in tutta Europa. In Italia vengono effettuate le prime 9.700 iniezioni. Dal 29 dovrebbero iniziare ad arrivare le altre 459mila dosi previste per il nostro Paese dal contratto sottoscritto dall’Unione Europea con Pfizer. Il 4 gennaio 2021 si attende quindi l’approvazione del vaccino Moderna, e l’arrivo di nuove dosi e nuove vaccinazioni. La strada è ancora lunga, e se tutto andrà come sperato i vaccini dovrebbero arrivare a garantire l’immunità di gregge (e quindi la fine dell’epidemia) per il prossimo autunno. Ma se non altro, sembra che finalmente il vento stia cambiando.

2020, l’anno da dimenticare che non cancelleremo mai dalle nostre vite. Francesco Leone su Notizie.it il 26/12/2020. Dalla terza guerra mondiale alla pandemia: il 2020 è stato un anno difficile, da dimenticare ma il cui segno rimarrà indelebile sulla nostra pelle. Lo schiaffo del Papa nella notte di San Silvestro, l’uccisione nel raid statunitense a Bagdad del generale Qassem Soleimani e l’alba di una fantomatica terza guerra mondiale. Il 2020 iniziava così, non con il migliore dei presupposti, e avanzava nelle vite di tutto il mondo insinuando lentamente la minaccia di un’emergenza di cui ancora oggi stentiamo a definirne la natura, gli effetti e la capacità di intimorire intere popolazioni, governi ed economie. Era il tempo dell’elezioni regionali, quelle in cui la sfida era tra centrodestra e centrosinistra: una partita a scacchi nel nome delle nuove amministrazioni locali, quelle che ancora in un immaginario dal retaggio democristiano erano considerate come territori da conquistare in vista di instillare il declino del governo centrale. E chi se lo dimentica Salvini che citofona a Yaya nella periferia di Bologna. O ancora il cavaliere Berlusconi che rassicura gli elettori ai banchetti della Santelli a suon di “Lei in 26 anni che la conosco non me l’ha mai data”. Eppure quella corsa elettorale ci aveva fatto provare un non modesto interesse. Le sardine sono solo un esempio. Piccoli pesci in un mare di giovani vecchi che per la prima volta, o di nuovo, carpivano l’importanza del voto, quella che avrebbero successivamente perso più tardi: più precisamente nel referendum costituzionale di settembre quando a fare da padrona del seggio è stata la rabbia, sapientemente mixata nei pregiudizi populisti verso la casta parlamentare promossa da chi voleva aprire il parlamento come una scatoletta di tonno, ma che alla fine un po’ la figura del tonno l’ha fatta. Viaggiava come sempre tutto rapidamente. Il processo Gregoretti prendeva forma, l’Australia soccombeva al maltempo dopo i grandi incendi che ne avevano devastato gran parte del territorio, Kobe Bryant si spegneva insieme alla piccola Gianna Maria in un incidente in elicottero prima di una celebrazione sportiva provocando l’estremo cordoglio di tutto il mondo dello sport. Scorreva tutto così, rapidamente. Una sequela di vicende, cronaca, politica, lotta per i diritti e battaglie contro il cambiamento climatico. A fare da sottofondo moderato c’era ciò che stava accadendo in Cina: troppo lontano per impensierirci, troppo tardi per poterne comprendere il fenomeno in modo tale da non soccombervi. Così mentre da Wuhan, Nancino e Hong Kong ci arrivavano le immagini di una delle epidemie più bestiali di sempre, noi dichiaravamo lo stato d’emergenza, discriminavamo prima e poi difendevamo la comunità, la ristorazione e la cultura cinese. La verità è che eravamo troppo intenti a non perderci la faida sanremese di Morgan e Bugo e pensavamo (come Zingaretti) che in fondo fare un aperitivo a Milano non era poi un’idea così malvagia, nonostante nella gara alla sicurezza sanitaria, i primi casi e l’allerta del contagio fossero già in pole. L’Italia non si ferma, Milano non si ferma. Poi è stata la volta di Vo’ Euganeo e di Codogno, prima la zona rossa localizzata poi il lockdown generalizzato. Italia zona protetta. Mentre si consumava una strage silenziosa all’interno delle Rsa di tutto il paese, a Bergamo, Alzano Lombardo e Nembro i morti non si contavano più. L’esodo dei fuorisede viaggiava sulle rotaie delle ferrovie di stato, in barba ai commenti dei governatori del sud che mai come allora hanno desiderato la fuga dei cervelli indigeni. Dalle carceri di tutta Italia giungeva il primo presentimento della tolleranza zero nei confronti delle norme anti-covid. Col tempo abbiamo imparato (chi più, chi meno) a conoscere la schiettezza dei termini "assembramento", "quarantena", "restrizioni". Abbiamo assistito alla politica dei decreti del presidente del Consiglio dei Ministri mentre cercavamo in mascherine il lievito sugli scaffali dei supermercati a entrata contingentata. Abbiamo cantato sui balconi, scoperto lo smart working e le atrocità della pandemia di coronavirus. Ci eravamo fermati, e fermandoci abbiamo scoperto che la nostra non è una società che sopravvive in stasi. La quarantena passa così, tra un fuorionda di Mattarella, una gaffe di Fontana e Gallera e il dolce augurio di Vincenzo De Luca di una vampata di lanciafiamme durante qualche festa di laurea. Quello che è venuto dopo è stata la caccia in elicottero al rider occasionale, al passeggiatore di cani domenicale, al nostalgico dell’aperitivo. L’era dei “governatori sceriffo”. Di seguito la corsa alle terapie intensive, gli eroi in corsia, le storie dalla prima linea e la gara delle regioni al “chi contiene meglio vince e non può essere contestato”. I casi raggiungevano il picco della curva epidemiologica, le vite spezzate erano diventate numeri nel continuo aggiornamento del bollettino della Protezione Civile. La cassa integrazione, i posti di lavoro a rischio e intere categorie abbandonate prima e soccorse poi da provvedimenti in continuo emendamento. Il plateau, il tempo per ragionare sulla riapertura, sull’accesso al Mes per sostentare la crisi economica che veniva alimentata, erta sulle colonne rette dall’emergenza sanitaria vestita da Atlante. Quel 4 maggio sembrava che tutto fosse passato. Silvia Romano era stata liberata e riportata in Italia e con lei era tornata anche la polemica sterile all’italiana. Trascorsi i mesi più bui, la falsa partenza italiana si muoveva in un’estate di sana perdizione (a confronto col tenore di vita osservato in lockdown) giustificata dalle scelte del governo e alternata al caldo delle piazze italiane infervorate dalle proteste di innumerevoli categorie e rappresentanze dei lavoratori. Tra questi balenava in sordina anche il pensiero negazionista: un complottismo che altro non poteva che far scivolare la disperazione dei tanti nel calderone del fanatismo scellerato dei molti. Dall’altra parte del mondo intanto cresceva il movimento Black Lives Matter. Oltreatlantico dopo la morte dell’afroamericano George Floyd, avvenuta per mano di un agente di polizia, si mobilitavano attivisti per i diritti civili, folle che facevano scricchiolare la poltrona di Donald Trump prossimo alle nuove elezioni presidenziali. Un tema complesso quello dell’uguaglianza negli Stati Uniti, che vedeva dibattere le parti attorno a scogli generazionali che affondano ancora oggi le radici in differenze culturali appartenenti a epoche ormai abbandonate. Qualcosa di stupidamente difficile. In Italia invece, nella grande complessità situazionale della pandemia, la fase 2 era riuscita a rendere tutto più stupidamente semplice. Distanziamento a scuola? Bando del ministero per i banchi a rotelle. Distanziamento nei locali? Plexiglass, massimo 6 persone al tavolo ma nessuna mascherina indossata una volta seduti. Sostentamento alle partite iva? Assegno da 600 euro da corrispondere con qualche mese di ritardo. Nota bene: nessuna di queste è stata una soluzione, ma col senno di poi, in effetti, è troppo facile asserirlo (o forse no?). C’è chi aveva detto che il virus era morto, clinicamente s’intende. C’era anche chi aveva detto che ci sarebbe stata una seconda ondata nel periodo autunnale. Al tempo erano solo opinioni, voci stampate sulle pagine cartacee e digitali che si sfogliavano di tanto in tanto in vacanza. Settembre ha sancito il crocevia di quella che doveva essere la vera rinascita. Di fatto, mentre inorriditi ascoltavamo la storia di Willy, giovane ragazzo capoverdiano ucciso in una rissa a Colleferro, assistevamo alla volontà dell’elettorato sul taglio dei parlamentari, alla poco preparazione di alcune regioni nella campagna vaccinale e ai mancati controlli sui trasporti, lì dove brulicava il contagio. Distratti, magari dall’incredibile vittoria di Joe Biden e Kamala Harris alle presidenziali in Usa, passavamo i nostri giorni attorniati dall’ombra di un nuovo lockdown mentre i contagi continuavano a crescere a dismisura. Scontavamo le colpe di un’estate passata all’insegna di quella libertà che ci era stata limitata in primavera. Le regioni prendevano colore, le nuove restrizioni richiamavano gli appuntamenti dei dpcm alle luci della ribalta e le piazze delle città pativano il nuovo coprifuoco. L’incubo della Dad è tornato, così come la chiusura dei ristoranti e il timore di doversi ritrovare a contare ancora nuovi morti per covid in Italia. Così è stato. Di nuovo in prima linea, ancora una volta a rincorrere una curva epidemica che ormai c’era sfuggita dalle mani. Ci siamo fermati di nuovo. Abbiamo salutato due eterni campioni come Diego Armando Maradona e Paolo Rossi, ricordandoci che questo poco poetico 2020 ci ha portato via anche Ezio Bosso, Ennio Morricone, Franca Valeri e Gigi Proietti. Adesso tiriamo le somme e attendiamo di capire se almeno a Natale non dovremmo sentirci dei criminali mentre sediamo al tavolo del cenone con le nostre famiglie, nonostante vestiremo una mascherina e stringeremo in mano il referto di un tampone covid negativo.

C’è rimasta una speranza, quella del vaccino, che di certo non redimerà niente di quanto terribilmente inaccettabile sia accaduto in questo 2020. Però magari, stigmatizzando il passaggio di quest’anno nefasto, sorrideremo. E alla domanda che chiede se il 2021 potrà mai essere peggiore dell’anno che lasciamo alle nostre spalle, amaramente risponderemo “Dobbiamo dircelo chiaramente, questo rischio c’è“.

Nel 2020 i morti sono diventati solo un numero. Natale Cassano su Notizie.it il 28/12/2020. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. Un numero. Fredde cifre che a volte fatichiamo a ricollegare a vite reali, affetti, sentimenti, problemi e gioie della vita quotidiana. Com’è cambiata l’idea della morte in questo difficile 2020, da quando la pandemia è entrata nella nostra vita? Finché la parola “Covid” era ancora estranea al nostro vocabolario, finché questa infezione misteriosa sembrava circoscritta a qualche lontana città d’oriente, la perdita di una vita è sempre stata vissuta in maniera empatica, anche quando la persona coinvolta non era strettamente legata a noi. Leggendo i giornali o navigando sui social network, era facile immedesimarsi nel dolore dei parenti e provare noi stessi quella sofferenza, sempre consapevoli del classico “poteva accadere a noi”. Eppure da quando a marzo la parola “pandemia” ha cominciato a entrare, silenziosa, nella nostra quotidianità, quel meccanismo si è lentamente spezzato. Con un risultato tragicamente noto: oggi, a quasi un anno di distanza, si nota una maggiore difficoltà nel provare empatia davanti a un decesso che non ci tocca direttamente. E questo è legato direttamente a come la gestione del Covid-19 ha trasformato la nostra percezione della morte. Sembrano infatti lontane anni luce quelle immagini strazianti della fila delle camionette dell’Esercito che attraversano Bergamo con all’interno le salme dei deceduti della prima ondata. Un’immagine che è stata riproposta ciclicamente da TG e giornali, anche per mantenere l’attenzione alta sulla pericolosità del virus, quando al termine della quarantena è scattato il “liberi tutti”. Improvvisamente il Covid non sembrava più un pericolo, bensì un dramma del passato da esorcizzare. Ma dopo i bagordi dell’estate la seconda ondata del virus ci ha investito come un tifone, obbligandoci a tornare a quelle restrizioni a cui così difficilmente ci eravamo abituati. Al contempo, però, diversamente da quello che si diceva (tutti ricordiamo il “ne usciremo migliori”, motto della prima fase, vero?), si è assistito a una deumanizzazione della morte, perché questa si è trasformata in un freddo numero. Lo vediamo ogni giorno nel bollettino, regionale e nazionale, che leggiamo sulla stampa. Le vite diventano cifre, senza indicazioni di storie, di nomi e cognomi, di situazioni; si trasformano in pura statistica per definire un incremento o decremento in quelle tabelle. E in questo marasma, l’unico elemento che ci preoccupa è il capire se la curva è in discesa o in risalita. Torniamo così a pensare a noi stessi e a non provare empatia. Un ragionamento che si ritrova anche nelle dichiarazioni pubbliche. Pensiamo alle parole di Domenico Guzzini, presidente di Confindustria Macerata, che davanti alle telecamere ha ricordato la necessità di aprire, perché “le persone sono un po’ stanche e vorrebbero venirne fuori, anche se qualcuno morirà, pazienza”. Ecco, in quel “pazienza” si rivede perfettamente il quadro della situazione: il bene della popolazione che supera quello del singolo; la morte giustificata come danno collaterale alla vita di altri.Una situazione che da molti viene accettata, anche a causa dell’effettiva sciatteria che si ritrova nei famosi bollettini della Protezione civile: i decessi direttamente legati al virus non vengono distinti da quelli legati anche ad altre patologie e finiscono nel calderone della statistica, facendo inevitabilmente crescere le fila dei negazionisti, che cercano continui appigli per confermare la confortante ipotesi del “virus che non esiste, è tutto un complotto“. E neppure il Natale ci ha reso, se non più buoni, almeno più empatici. Il gigantesco dibattito sulle aperture che ha preceduto le festività si lega a doppio filo a questo triste risultato: del rischio della morte (soprattutto degli altri) ci interessa poco, l’importante era (ed è) poter respirare un istante di normalità, almeno in un periodo che da sempre è sinonimo di felicità. Doveva essere un Merry Christmas, a tutti costi, in attesa di brindare a un (si spera) felice anno nuovo. E se questo comporta conseguenze per la salute degli altri? Il pensiero comune si riassume in quell’unica parola: “Pazienza”. E allora come si inverte la tendenza, in vista del 2021 ormai alle porte? Difficile dirlo, ma un buon punto di partenza sarebbe tornare a legare quei numeri dei morti a un viso, a una storia, a un particolare che possa nuovamente renderli umani. Qualcuno ci sta provando, ripercorrendo questo 2020 da dimenticare ma che mai cancelleremo dalla nostra memoria, raccontando quelle vite spezzate dalla malattia, nonostante i commenti poco empatici di chi continua imperterrito a sottolineare che “la persona era anziana” oppure che “soffriva di patologie pregresse”. Dimenticandosi che la perdita di un affetto fa male comunque, qualunque sia la causa che l’ha allontanato da noi per sempre.

Il contagio, la quarantena, la morte. E la speranza. Il racconto di un anno di pandemia. Tutto cominciò con una nave a Civitavecchia. E poi Codogno, Nembro, Bergamo, Jesolo, Milano. Nel diario di una cronista l’Italia in zona rossa. Ognuno con la sua linea di confine. Elena Testi su L'Espresso il 26 dicembre 2020.  Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il...

Una madre guarda la nave da crociera. È ferma. In lontananza si vedono solo alcune persone che si muovono. «Sto cercando di contattare mio figlio», dice. Le telecamere puntano la flotta galleggiante, tutti riprendono il ponte in un’inquadratura a caccia di sensazioni. Dentro c’è un sospetto caso di Coronavirus. Arriva la chiamata del figlio. Raccontano di gente ammassata all’interno del grande ristorante, dell’altoparlante che chiede a tutti di isolarsi nelle proprie cabine. Arrivano informazioni sconnesse di tamponi, di reagenti, di 72 ore. Di risultato negativo e di altri virus che devono essere esclusi per poter dire che il Covid-19 non fluttua in una nave attraccata a Civitavecchia. È il 30 gennaio. Sono le 22.00 dello stesso giorno, di fronte all’hotel Palatino di Roma, due turisti cinesi vengono messi dentro a un’ambulanza e portati all’ospedale Spallanzani. Entriamo nella grande hall dell’albergo. Il direttore fa cenno con una mano che non può parlare. Un gruppo di inglesi entra e nascosti tra loro ci infiliamo nell’hotel. Tutto è normale, tutto è placido. La notizia del Covid -19 arrivato in Italia è un timido accenno che si disperde in una manciata di ore. C’è vita, c’è normalità, ci sono le persone ammassate per strada. C’è la crisi di Governo con un Matteo Renzi intento a scarnificare il ministero della Giustizia Alfonso Bonafede. C’è Matteo Salvini con i selfie. C’è la prescrizione. Ci sono i bambini che vanno a scuola. C’è una Wuhan lontana che mormora con gente affacciata ai balconi. C’è un mese. Nulla accade. I treni sono bloccati, la stazione di Bologna è persa in un vociare di persone che tentano di raggiungere Milano. A Casalpusterlengo un macchinista è risultato positivo al Covid-19, hanno deciso di bloccare quella tratta per precauzione. È il 24 febbraio, tre giorni fa un ragazzo di Codogno, paesino di 15mila abitanti è il primo positivo accertato. «La prego mi faccia salire», urla una ragazza a un controllore di Trenitalia, l’uomo fa cenno con la testa. Ci infiliamo tutti dentro l’unico treno pronto a partire per il nord. Non c’è spazio, non c’è aria. Alcuni sono seduti dove si impilano le valigie. È un’Italia schizofrenica. Quando il treno parte ci sentiamo vittoriosi. Passiamo per il Veneto, Casalpusterlengo è ancora chiusa, qualcuno si chiede se il virus non sia nell’aria, ma il pensiero da guerra batteriologica viene schizzato via dalla mente. Le forze dell’ordine in quei tre giorni si sono già piazzate. Nessuno deve uscire. C’è un fuori e un dentro. Un noi e un loro. Sono 47mila quelli in area rossa, l’area del lodigiano. Gli “infetti”, c’è chi li chiama così. Per raggiungere i check-point basta prendere Google maps. I segni rossi nella mappa sono il confine invalicabile. I militari non parlano, rimangono con il mitra a metà. I “quarantenati” si affacciano alla frontiera, una donna ferma l’auto, attende le provviste. Un altro gruppo di persone ha una ruspa, sulla pala viene caricato cibo per animali portato da un paesino vicino, libero dalle restrizioni. Ai check-point arriva di tutto: detersivi, sigarette, cibo. Viene lasciato a pochi metri e poi preso da chi è bloccato dentro. Un ragazzo si nasconde, esce fuori quando vede arrivare un’auto, è la fidanzata. Si scambiano un abbraccio. Lei piange, lui la bacia. Le ambulanze corrono dentro. Sono tante. Non sono ambulanze normali, dentro hanno tutti una tuta bianca che li copre. La gente muore mentre fuori si parla di banale influenza. Una bambina di 14 anni di Codogno rimane sola con la sorella di 12, i genitori sono in terapia intensiva. Ha paura degli assistenti sociali. C’è caos, rimangono sole per dieci giorni. Senza cibo. La protezione civile è sopraffatta, deve consegnare le mascherine che non ci sono, deve organizzare, trovare ossigeno per salvare chi ha crisi respiratorie. Dopo dieci giorni c’è chi si accorge di loro, mentre la vita scivola via. Sono denutrite ma si salvano. Un miracolo nella tragedia. Sembra un paese spezzato da verità diverse. Milano si sente intoccabile, il sindaco Beppe Sala invoca normalità. Arriva il segretario del Pd Nicola Zingaretti da Roma, lo accogliamo circondandolo, tutte le domande sono su Matteo Renzi e la tenuta del Governo. Il simbolo della normalità è uno Spritz, mentre la morte silenziosamente miete centinaia di lodigiani. Ci rendiamo conto che il virus è diffuso più di quanto non si voglia credere quando iniziamo a schivare quarantene. Parte la conta degli incontri. Le distanze e la diffidenza. Ad Alzano Lombardo e Nembro, comuni a pochi chilometri da Bergamo, un’ondata si porta via anime inconsapevoli. Si discute se fare una cinta di protezione per evitare che Bergamo diventi un focolaio. I giorni passano e nulla viene fatto, ancora è da capire il perché, visto che le forze dell’ordine sono già schierate per chiudere l’intera area. Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano, ha uno schema nel suo ufficio. Su un cartellone di carta bianca ci sono le frecce che indicano cosa fare ogni volta che mancano le bombole d’ossigeno. Nell’unica agenzie di pompe funebri di Alzano, le urne sono una accanto all’altra. «Questi fogli – dice la proprietaria – dove c’è data di nascita, luogo e riferimenti, sono persone che noi conosciamo personalmente. Hanno avuto una vita e una storia». Le ceneri sono in barattoli ovali neri con sopra il nome di chi non c’è più. Sono stati messi nei forni crematori dentro un sacco nero. Nudi e con i segni della malattia cicatrizzati sui propri corpi, a cancellare quei segni sono le fiamme. Donne e uomini, giovani e anziani. Sono passati attraverso la malattia. Sono caduti, si sono rialzati, ma anime e corpi sono ancora prigionieri del virus. Le loro storie, gli incubi e le speranze. È il 7 marzo, un sabato, sono le 18. Trapelano notizie di una Lombardia quarantenata. Milano scopre di essere in mezzo a un focolaio. La gente corre verso la Stazione Centrale. È l’inizio del domani e la fine improvvisa dell’oggi. Dopo un giorno l’Italia intera viene dichiarata zona rossa. Alcuni giorni dopo la serrata generale sul Pirellone le luce accese delle finestre scrivono “Restate a casa”, mentre davanti al cimitero di Bergamo c’è la fila di carri funebri. Non ci sono parenti. Il cancello si apre, entrano dentro, lasciano la bara e ripartono. Quel giorno in un’ora ne arrivano dodici. Dodici corpi. In una chiesa non distante uomini con le tute di bio-contenimento disinfettano i feretri. Il sole si è già eclissato, i carri dell’esercito si fermano, i militari escono composti e silenziosi, prendono le bare. Non c’è più spazio nella piccola cappella, sono oltre sessanta. Nessuno in quel momento sa chi ci sia dentro, neanche le famiglie. Non hanno un nome i morti che lasciano la città. Si percorrono chilometri di autostrada senza incontrare nessuno. Le uniche vite che incroci guidano ambulanze o carri funebri. Sono così tanti da farti venire la nausea. Il covid in Lombardia si è infilato ovunque, anche a Milano. La gente alza il volume dei televisori, dello stereo. Ogni casa ha una colonna sonora per coprire il suono della paura. Tutto è avvenuto all’improvviso, senza preavviso. Un frangente che segna il prima e il dopo, ma ognuno ha il suo frangente. Per alcuni è la morte di un parente, per altri è la quarantena, per altri ancora la fine della libertà avvolta dal terrore del contagio. E quei contagi arrivano in corsia. Fuori dall’ospedale di Cremona ci sono dei tendoni bianchi. I malati scendono dalle ambulanze sopra una barella. Fissiamo i loro visi che spariscono nella zona sporca allestita all’aperto, prima di entrare nella tensostruttura riscaldata. Se rimani in silenzio senti la loro tosse e credi di morire con loro. Per istinto ti allontani. Una signora sui sessanta anni arriva, attende e fa cenno a un medico. Poco dopo un uomo con un sacchetto dell’immondizia in mano le si avvicina. «Finalmente», dice la donna all’uomo. Il marito è lì da un tempo infinito: quaranta giorni. «Lo riporto a casa», fa cenno con la mano e vanno via abbracciati. Non capiamo, difficile farlo. Sappiamo che l’ossigeno è finito. Conosciamo le procedure perché le vediamo. Le ambulanze arrivano impacchettano i malati dentro delle coperte termiche dorate. Un colore strano per il dolore, ti viene da pensare ogni volta che i soccorritori li portano via. Poi ci sono i vigili del fuoco che vanno a sfondare le porte delle persone morte da sole in casa. Sono tante e noi lo sappiamo perché vicino casa c’è una caserma dei vigili del fuoco. Stanno proprio davanti. Sulla finestra c’è scritto “FORZA GIACOMO” a lettere grandi e colorate. Dicono che è in terapia intensiva, ma che ce la farà. Dicono tante cose, ma sono terrorizzati negli occhi, nelle smorfie della bocca. Entrano nelle case vuote, avvertiti da qualche vicino. Entrano nei ricordi. La maggior parte sono sui loro letti. Intorno il vuoto. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera.  Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. I contagi sono iniziati a calare mentre il numero dei medici morti è salito. Giacomo Grisetti vive a Como, lui il Covid lo ha preso per visitare un paziente, parla dalla taverna dove è stato confinato. La moglie gli lascia un vassoio con il cibo. Ricorda l’amico, medico anche lui, prima di essere intubato ha spedito un messaggio nella chat whatsapp «Si mette male, saturo poco». Quando parla di lui la voce si strozza. A volte ti capita di tornare negli ospedali, di cercare alcuni medici per salutarli e di scoprire che non ci sono più. Hanno perso la loro battaglia con il Covid, ma prima ne hanno vinte tante altre salvando la vita dei loro pazienti. Abbiamo capito che la prima ondata se ne stava andando quando il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è apparso a Lodi. Dopo, l’estate è passata senza che nessuno si fermasse. Non c’è stato un momento di silenzio per le perdite. Eppure ricordiamo quei medici mentre percorrono i corridoi bianchi. Il momento in cui riuscivano a staccarsi la mascherina dal viso, non avevano segni ma solchi. I vestiti zuppi di sudore per le tute. I turni infiniti. Tutto cancellato, coperto dal suono delle discoteche. Ma il covid è un virus subdolo. Cammina con noi. E lo abbiamo tenuto per mano fino a ottobre. Vicino al Michelangelo, il covid hotel della prima ondata, sulla ringhiera di una terrazza c’è un cartello, c’è scritto “andrà tutto bene”. È sbiadito, la luce dell’appartamento è sempre spenta. Abbassi lo sguardo e vedi le auto circolare. Le persone camminano per strada, ammassate in metro arrivano al lavoro. Per un attimo ricordi i corpi degli anziani portati fuori da una Rsa con un telo bianco sopra. La gente sui balconi. La protezione civile che con il megafono intima a stare in case, a indossare la mascherina. Tempi dimenticati. È metà ottobre quando fuori dall’ospedale Niguarda di Milano i pazienti covid-19 iniziano ad essere troppi. Il responsabile del Pronto Soccorso, Andrea Bellone, ha la faccia preoccupata: «Dobbiamo limitare gli spostamenti o non ce la faremo». Il responsabile della terapia intensiva Roberto Fumagalli si commuove pensando a quando avevano chiuso ai covid il suo reparto, perché non ce ne erano più. All’ospedale Sacco, sempre di Milano, Pietro Olivieri, direttore medico, ha già riconvertito metà struttura «e il peggio se continuiamo così, deve ancora arrivare». Il peggio alla fine è arrivato. All’ospedale di Magenta il reparto di terapia sub-intensiva, gestito dal primario Nicola Mumoli, è stracolmo, dentro ci sono 240 pazienti. Se la terapia intensiva è impressionante quello che accade dentro una sub-intensiva è agghiacciante. Il casco che li aiuta a respirare fa un rumore assordante, sono sempre coscienti. Stanno a pancia in giù nella speranza di far entrare più aria possibile nei polmoni. La sensazione è tentare di respirare con il getto della doccia sparato in bocca. Quando chiedi a un medico cosa provano i pazienti che dalla sub-intensiva passano all’intensiva, in molti ti rispondono: «Sollievo, così possono avere una tregua». I reparti si riempiono, i medici per alcuni diventano degli aguzzini, accusati di esagerare. «Tutta una montatura, il Covid non esiste». E così capita che qualche negazionista entri in una farmacia e dica a Cristina Longhini: «I carri dell’esercito non esistono», proprio a lei che ha visto il padre dentro un sacco e che ha saputo qualche mese dopo che quei carri avevano portato via il suo papà a Ferrara. È successo anche a Diego Federici che ha perso entrambi i genitori: «Coppia inseparabile». Soccorritori, volontari che sacrificano la propria vita, inseguiti e insultati perché accusati di creare allarmismo. Presidenti di Regione impegnati a farsi colorare la regione con una tinta che non metta a repentaglio la propria reputazione, il tutto mentre noi contiamo i morti della seconda ondata che superano quelli della prima. È successo in Lombardia, è successo in Veneto, nel Lazio. Nell’Italia intera che parla di vite “non indispensabili” per poi scusarsi. Non c’è solo il Covid, c’è la mancata prevenzioni, le persone morte d’infarto perché non vogliono andare in ospedale. È successo anche a Tonina, portiera a Milano. Sempre sull’attenti appena arrivava un estraneo nel palazzo. Il cuore le si è fermato, ma lei di andare in ospedale con questo covid non voleva proprio saperne. Di Tonina rimane il ricordo della pasta al forno appena sfornata e un cartello con su scritto compianta. L’emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell’ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Non abbiamo atteso la fine della seconda ondata, siamo a dicembre, e in provincia di Verona montano i container per stipare le salme. Dentro la terapia intensiva dell’ospedale di Jesolo si sente una voce: «Urgente, terapia intensiva». Un medico entra con una barella. Con poche mosse la paziente viene intubata, mentre un’altra, la “numero 1”, forse non ce la farà, perché come spiega il direttore Fabio Tuffoletto: «Con il covid il 50% vive, l’altro muore. La verità è che ancora non si è capito bene il motivo». È come tirare una monetina per aria. Per quasi 70mila italiani quella monetina è caduta dalla parte sbagliata. Alle loro famiglie dimenticate dalle Istituzioni un felice anno nuovo. Seppur difficile.

I nostri morti non se ne sono mai andati. Le immagini delle vittime del Covid rimangono con noi. E compongono un’elegia, una preghiera.  Che chiede giustizia, memoria, vicinanza. Giuseppe Genna su L'Espresso il 22 dicembre 2020. L'immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece...

L’immagine più grande è la morte spiegata a noi bambini. Sono i camion militari. Noi bambini (perché ora siamo bambini anche se siamo adulti) li vediamo dall’alto, sappiamo tutto di tutti e ancora non abbiamo disimparato a sorprenderci, ad angosciarci e piangere. Più in là col tempo, mesi e mesi di virus alle spalle, matureremo un’anestesia impensabile, non sentiremo più nulla perché saremo stanchi di tutto: dei conteggi, degli annunci vaccinali, dei dpcm, dei volti elucubranti dei virologi, della fine delle economie, dell’insistenza dei preti per le messe, perfino di chi sta accanto a noi gomito a gomito in casa. Nella notte tra il 18 e il 19 marzo, nell’anno di disgrazia 2020, siamo invece resi inermi nei nostri appartamenti italiani. Noi non sappiamo come ma dobbiamo fare la penitenza, perché la storia che ci punisce si fa vivida e ci spaventa, mediante un’immagine più grande del tempo che abbiamo finora vissuto. Nelle strade esuberanti di buio e luce artificiale, nella città muta Bergamo, nel cuore della Lombardia, la regione con l’indice di mortalità per virus più alto al mondo, una fila di convogli militari trasporta le bare respinte dal forno crematorio, che non può più ricevere cadaveri e ci espone, finalmente, all’orrore della morte che non vediamo. Le immagini della morte per virus le abbiamo intercettate per qualche secondo nella televisione, si intuivano i corpi nudi dei pazienti pronati, l’azzurro elettrico dei tubi per la respirazione assistita. Quella maniera della luce di far tremare le cose, gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male dentro il reparto Covid. Ma questo dolore no, questi camion con la tela mimetica e le oscure sagome alla guida, un collassare della materia tutta, accecarci mentre vediamo la scena – questo no, non ce lo aspettavamo. Non dimenticheremo il 2020: dodici mesi segnati dal contagio, dalla paura e dalla solitudine. Ma anche dalla consapevolezza che se cambiamo ripartiremo. «L’immagine dei mezzi militari che escono dal nostro cimitero è stata e continua ad essere più grande di me», dice il sindaco di Bergamo. È stata e continua a essere più grande di tutti noi e non soltanto di Giorgio Gori, un uomo che nelle prime settimane del virus è andato piagandosi e rovesciandosi per il dolore e ha trasformato nell’incrinatura umana l’astratta reazione che ebbe a inizio della pandemia. Quel sindaco, in qualche modo, ha fatto la storia, perché l’ha davvero subita in nome di tutti noi: noi che abbiamo continuato a vivere, noi i morti, noi che non eravamo fisicamente lì, ma c’eravamo, perché Bergamo era comunque dappertutto, era il rischio ubiquitario nel pianeta. I camion atterriscono il pianeta. Questa immagine ci annichilisce. Come è diversa dalle grandi immagini che l’hanno preceduta! Con le immagini istantanee abbiamo appreso a rapportarci con la storia. Quando è accaduto sul pianeta che tutti avvertissimo nello stesso istante lo stesso pericolo di morte? Noi annaspiamo nella storia. Fatichiamo a prendere respiro tra un’immagine e l’altra. Ogni cronaca infittisce il trionfo del dolore a cui abbiamo assistito da spettatori privilegiati. L’uomo che cade, geometrico e minuscolo, newyorkese, lanciatosi da una delle Torri Gemelle – ci ha riguardato e infatti lo abbiamo guardato e riguardato, più volte. Ma non era l’immagine che implicava il rischio per tutti. Era forse la fine di un’idea di occidente o di un capitalismo, il tabù infranto della guerra su suolo americano, una scena in qualche film. Ricaricavamo il video, l’uomo tornava a cadere. Potevamo godere oscenamente di questo spettacolo di morte, perché anzitutto era tale: c’era una dose di spettacolarità. Chi aveva ideato ed eseguito quell’attentato aveva pensato alla risonanza spettacolare. Il che non accade qui, a Bergamo, seconda metà di marzo, nella notte che sa di neve schiacciata nella mota dai pneumatici. Qui non c’è spettacolo. I camion militari non desiderano farsi vedere, agiscono in silenzio. Sono mimetici, perché non si deve essere notati. Le bare in legno chiaro vengono stipate senza pubblico preavviso. Questo sconvolgente corteo funebre impartisce un monito definitivo, perché conferma la nostra impotenza e dimostra le ragioni della nostra disperazione. Esiste qualcuno che abbia visto continui replay queste immagini? Le immagini più prossime ai camion militari a Bergamo sono piuttosto le foto delle ombre umane stampigliate su marciapiedi e muri di Hiroshima. Donne uomini bambini evaporati, una morte istantanea mai prima sperimentata, il potere sovrannaturale della radiazione, la letalità di una nuova era imposta da un dispositivo tecnologico. Morti non visti, cadaveri inesistenti ma eternati, identità sconosciute, anonimato e perentorità del tempo, rattrappitosi in un istante. Quel flash atomico faceva sentire chiunque a rischio nel pianeta. Inaugurava un’epoca diversa dalle precedenti, un’economia planetaria hi-tech, una storia di accelerazioni e di vita progressiva delle macchine, la biologia confusa con il metallo. La paura globale cominciava qui a manifestarsi con i caratteri della modernità. L’Espresso ha scelto come protagonisti del 2020 la vita e la morte. Quest’ultima è stata rimossa dalla cultura, ma l’anno della pandemia l’ha riportata al centro. Ma avere paura del morire significa sapere che c’è qualcosa che trascende la nostra esistenza individuale. Un Fine. E gli Eredi. La bomba ieri, come il virus oggi, diviene il soggetto della storia. I camion militari a Bergamo sono l’istantanea di questo passaggio d’epoca. Tutti gli istanti culminati in uno. È un’immagine di involucri che nascondono dentro di sé altri involucri. I corpi dei respinti al forno crematorio sono ora occultati nelle bare zincate male, sarcofaghi spogli dentro cui si nasconde ciò che non vogliamo vedere. E non vediamo nemmeno questi feretri: essi giacciono nei camion dell’esercito, i quali paiono grossi sarcofaghi. I mezzi militari fendono la città, diventata essa stessa un abnorme sarcofago, Bergamo in forma di sepolcro, la lombardità nella sua cifra più lugubre e gelida. E infine l’ultimo sarcofago: è tutta l’immagine in sé, che mostra nascondendo ogni cosa, il male silente, le salme radioattive per il virus, le anime dei monatti. Qui non c’è più spettacolo, la realtà, pur rivestita a strati per nascondere i corpi affilitti dal male, è nuda. E un’ultima idea: forse è un sarcofago anche chi guarda il sarcofago dell’immagine, dentro cui si muovono i sarcofaghi di camion che nascondono i sarcofaghi dei deceduti…Tutto ciò che è nascosto, sarà in evidenza. Tutto ciò che è in evidenza, viene occultato. I morti li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Ovunque nel mondo è questa immagine e regna lo sconforto, la paura. Prima che cada la tunica della dimenticanza. E poi si rovescia tutto: l’anno, la disperazione, la morte. I camion militari si arrestano, i nosocomi si svuotano, sono scordati tutti i crematori e l’aria nuova entra nei pertugi e loro, che sono morti, ritornano a noi restaurati. Sono viventi, sono ritornati viventi. Non se ne erano mai andati. Con parole di poesia possiamo abbracciare chi non c’è più perché ci sarà sempre.

Esclusivo - Troppi morti in Veneto. Si riempiono i container.

L'emergenza covid travolge il Nordest: in provincia di Verona gli obitori sono pieni e le salme vengono spostate in celle frigorifere per merci nel cortile dell'ospedale pubblico. Dopo i camion militari di Bergamo, ecco le terribili immagini della seconda ondata: nella regione di Zaia record di contagi e vittime, medici e infermieri allo stremo. Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 17 dicembre 2020. Dopo il triste corteo dei camion militari in marzo a Bergamo, le foto choc della seconda ondata arrivano dalla provincia di Verona: un container frigorifero sistemato nel cortile di un ospedale, per accogliere le salme delle troppe vittime del covid. Succede a Legnago, la cittadina di 25 mila abitanti dove ha sede il secondo polo sanitario pubblico della provincia. L'ospedale non riesce più a gestire il record dei contagi, ricoveri e decessi: l’obitorio è pieno, per cui le bare vengono spostate nel contenitore d'acciaio collocato all'esterno. Verona è la provincia più colpita dal coronavirus, con più di 1.300 morti e quasi 20 mila persone attualmente positive. E gli ospedali scoppiano, come testimonia il il chirurgo Ivano Dal Dosso, segretario veronese del sindacato dei medici Anaao: «Siamo in una situazione di estremo stress, a Legnago l’altro giorno in pronto soccorso c’erano 49 pazienti, di cui 20 in attesa di un letto. Ormai si gestiscono i malati direttamente lì, con il casco Cpap, come se fosse una terapia semi-intensiva. E questi pazienti non risultano nemmeno censiti nei bollettini della Regione, perché tecnicamente non sono ricoverati». Non va meglio nelle altre province venete, come raccontano gli altri rappresentati degli operatori sanitari ormai stremati. Stefano Polato, medico dell’ospedale dell’Angelo di Mestre, registra una «situazione decisamente preoccupante: sia le terapie intensive che i reparti attualmente disponibili sono pieni, basta un soffio di vento perché tutto precipiti». Anche a Vicenza, conferma l’ematologo Enrico Di Bona, «il quadro è grave e se continua così si arriverà al collasso, perché tutti gli ospedali dovranno essere riconvertiti esclusivamente al covid». A Treviso il chirurgo ortopedico Pasquale Santoriello, dell’ospedale cittadino Ca’ Foncello, parla di «personale distrutto, sfinito dai turni di 12 ore nelle tute di plastica, e sempre più soggetto al contagio. Poco fa ho incrociato un amico infermiere che mi ha riferito di essere appena risultato positivo al test: stava scappando dall’ospedale passando per gli scantinati, per cercare di non contagiare nessuno». In Veneto si era registrata, il 21 febbraio, la prima vittima italiana della pandemia. Nei mesi successivi della prima ondata questa regione, grazie alla massiccia campagna di controlli con tamponi molecolari avviata dall'ospedale universitario di Padova, ha limitato i contagi e i decessi rispetto al resto del nord Italia. Le riaperture incontrollate di questi mesi in zona gialla, però, hanno fatto esplodere i contagi e i decessi nella seconda ondata. E anche oggi, come ormai da settimane, il Veneto registra il record nazionale di nuovi contagiati (oltre 4.400) e delle vittime: altri 92 morti in 24 ore. Il primo a lanciare l’allarme era stato il segretario regionale dell’Anaao, il dottor Adriano Benazzato, che aveva contestato i criteri utilizzati dalla Regione Veneto per conteggiare i posti disponibili nelle terapie intensive: «In realtà sono soltanto 639, per attivarne 500 in più bisognerebbe assumere almeno 400 anestesisti rianimatori e oltre 1200 infermieri dedicati e preparati, che in Veneto non ci sono». Gli fa eco il suo vice, Andrea Rossi, geriatra dell’ospedale Borgo Trento di Verona: «In Veneto iniziamo a raschiare il fondo del barile. Qui o la regione cambia colore, oppure rischiamo di trovarci in un'emergenza ancora peggiore. Tra poco il covid potrebbe sommarsi al picco dell’influenza. E se non si corre subito ai ripari, la nave andrà a picco come era successo a Brescia e a Bergamo nella prima ondata».

Coronavirus, tutti i personaggi famosi contagiati e quelli che sono morti. Redazione su Il Riformista il 31 dicembre 2020. Il coronavirus come tutte le grandi infezioni e malattie non discrimina in base alla classe sociale. Il covid 19 non guarda in faccia a nessuno ma anzi è arrivato a colpire tutti, poveri e ricchi, anche i volti più noti dai calciatori ai politici passando per gli attori più celebri. Considerata ormai da settimane una pandemia, il virus è arrivato a coprire ogni parte del pianeta costringendo milioni di persone a stare in quarantena, vip compresi. Anche se tra i più colpiti troviamo gli esponenti politici, i quali anche per i loro impegni non sono riusciti a sottrarsi al virus.

POLITICI 

Nicola Zingaretti – Il segretario del PD e governatore del Lazio ha annunciato di aver contratto il coronavirus ed è in isolamento. Le sue condizioni di salute sono buone e ha dichiarato di stare bene. Infatti il 30 marzo ha dichiarato di essere guarito.

Alberto Cirio – Il governatore della Regione Piemonte ha annunciato di aver contratto il coronavirus. Il 23 marzo ha dichiarato di stare bene e di essere guarito.

Alessandro Mattinzoli – L’assessore della Regione Lombardia ha contratto il covid 19 ma ha dichiarato di essere in buona condizioni di salute.

Raffaele Donini – Assessore per la salute della Regione Emilia Romagna è risultato anche lui positivo al covid ma sta bene.

Barbara Lori – L’assessore regionale per le aree montane dell’Emilia Romagna è risultata positiva al tampone del coronavirus, ma è in buone condizioni.

Gianluca Galimberti – Il sindaco di Cremona ha annunciato di aver contratto il coronavirus ma di stare bene.

Claudio Pedrazzini – Primo parlamentare  italiano ad essere stato contagiato dal covid, scaturendo così una serie di controlli e precauzioni anche a Montecitorio.

Edmondo Cirielli – Il deputato campano di Fratelli d’Italia, il quale alla camera svolge il ruolo di questore, ha annunciato di essere positivo al coronavirus ma di stare bene.

Luca Lotti – L’ex ministro e deputato del Partito Democratico è risultato positivo al coronavirus, anche se ha dichiarato di stare bene.

Anna Ascani – La vice-ministra dell’Istruzione è risultata positiva al coronavirus, ma ha annunciato con un messaggio sui social di stare bene.

Pierpaolo Sileri – Anche il vice-ministro della salute ha dichiarato di essere positivo al coronavirus ma di essere in buone condizioni di salute.

Nelio Pavesi – Non ce l’ha fatta il consigliere comunale di Piacenza della Lega, che dopo aver contratto il coronavirus è morto il 10 marzo all’età di 68 anni.

Mohammad Mirmohammadi – Tra le vittime che l’Iran sta mietendo per il coronavirus c’è anche un membro dell’organismo di consiglio della Guida Suprema Ali Khamenei, dell’età di 71 anni.

Masoumeh Ebtekar – La vicepresidente dell’Iran con delega alle donne e gli affari familiari, è il terzo esponente politico ad aver contratto il coronavirus e le sue condizioni di salute sono buone.

Iraj Harirchi – Ha fatto il giro del web il video che vedeva protagonista il vice-ministro della salute in Iran mentre sudava in diretta. E’ stato il primo a contrarre il covid 19 nella politica persiana ma le sue condizioni appaiono stabili.

Mahmud Sadeghi – Anche un parlamentare eletto in Iran è stato contagiato dal covid 9 ed è il secondo politico colpito nella terra persiana.

Alberto II di Monaco – Anche il sovrano è risultato positivo al coronavirus, diventando così il primo monarca contagiato.

Santiago Abascal – Leader politico della destra spagnola a capo del partito Vox è risultato positivo al covid 19 ma le sue condizioni sono buone.

Principe Carlo d’Inghilterra – Il Principe Carlo è risultato positivo al coronavirus. Oltre ad essere il secondo caso nel mondo monarchico, è anche il primo contagiato della Royal Family. Il 30 marzo ha dichiarato di essere guarito e di essere in buona salute.

Franck Riester – Il ministro della cultura francese è risultato positivo al tampone ma sta bene.

Nadine Dorries – La ministra della salute inglese è risultata positiva al coronavirus ma le sue condizioni sono buone.

Michael Wos – Il ministro dell’ambiente in Polonia è risultato positivo ma sta bene.

Michel Barnier – Il negoziatore francese dell’Unione Europea per la Brexit è risultato positivo al coronavirus, essendo così il primo della governance europea ad aver contratto l’infezione.

Begona Gomez – La moglie del premier spagnolo Pedro Sanchez ha contratto il coronavirus anche se il primo ministro non risulterebbe contagiato.

Sophie Grégoire – Ex conduttrice televisiva e moglie del presidente canadese Justin Trudeau è risultata positiva al coronavirus, anche se Trudeau non risulterebbe essere stato contagiato sebbene sia in isolamento. Il 30 marzo ha annunciato di essere ufficialmente guarita.

Guido Bertolaso – L’ex capo della Protezione civile è risultato positivo al coronavirus. Si stava occupando dell’allestimento della Fiera di Milano in un ospedale per il covid. E’ ricoverato ma le sue condizioni non destano preoccupazioni.

Boris Johnson – Il premier britannico è risultato positivo al coronavirus. Dopo essere stato ricoverato in ospedale per l’aggravarsi delle condizioni di salute, ha affermato di stare in auto-isolamento e di essersi ripreso.

Mikhail Mishustin – Il primo ministro russo ha contratto il Covid-19 e ha trasferito le sue mansioni al vice premier Andrei Belusov.

Otavio Rego Barros – Il generale portavoce del presidente brasiliano Jair Bolsonaro è risultato positivo al coronavirus. Da quando è scoppiata l’epidemia in Brasile oltre venti funzionari di Bolsonaro sono stati contagiati, ma il suo test è risultato negativo.

Jeanine Añez Chavez – La presidente ad interim della Bolivia è risultata positiva al test per il coronavirus ed è sottoposta all’isolamento per due settimane.

Robert O’ Brien – Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca è risultato positivo al coronavirus. Uno dei più stretti collaboratori del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha sintomi lievi ma resta in isolamento.

Silvio Berlusconi – Il Presidente di Forza Italia è risultato positivo al tampone da coronavirus. L’imprenditore è asintomatico ed è in isolamento ad Arcore.

Donald Trump – Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è risultato positivo al coronavirus insieme alla moglie Melania, entrambi asintomatici. Solo a seguito del contagio il Presidente americano ha avvertito sintomi simil influenzali ed è posto ad isolamento.

Nunzia De Girolamo – L’ex deputata di Forza Italia ha comunicato sui social di essere risultata positiva al coronavirus e sintomatica. Un lungo decorso per la politica che, dopo 15 giorni è guarita.

Beatrice Lorenzin – La deputata del Partito Democratico ed ex ministro della salute è risultata positiva al coronavirus.

Principe William – Duca di Cambridge e membro della famiglia reale britannica, avrebbe nascosto la sua positività al coronavirus. Il contagio sarebbe avvenuto ad aprile, e quindi in piena prima ondata.

Virginia Raggi – La sindaca della città di Roma è risultata positiva al coronavirus dopo essere stata in contatto con una persona contagiata. E’ in isolamento e asintomatica.

Volodymiyr Zelensky – Il presidente dell’Ucraina è risultato positivo al Covid-19. A dare la notizia è stato lo stesso governatore che sui social ha rassicurato sulle sue condizioni. Per ora sta rispettando la quarantena con l’isolamento e una cura di vitamine.

Francesco Samengo – Il presidente dell’Unicef è morto il 10 novembre all’ospedale Spallanzani a causa del contagio da Covid-19. Ad annunciarlo è stata la stessa associazione con un comunicato ufficiale.

Saeb Erekat – Il segretario generale dell’Olp, Organizzazione per la liberazione della Palestina, è morto il 10 novembre per complicanze da Covid-19. Il politico era stato ricoverato in ospedale a seguito del contagio ed era in coma dallo scorso 19 ottobre.

Stefano Bonaccini – Il governatore dell’Emilia Romagna è risultato positivo al Covid-19 l’1 novembre. Dodici giorni dopo, ha annunciato sui social di aver sviluppato una polmonite bilaterale allo stadio iniziale e di essere in cura presso la propria abitazione.

Giulia Bongiorno – L’avvocata penalista e senatrice della Lega è risultata positiva al Coronavirus. La politica ha annunciato in un’intervista di essersi contagiata all’inizio di novembre con lievi sintomi ed essere rimasta in isolamento come da protocollo, ma ora sta bene.

Valéry Giscard d’Estaing – È morto a 94 anni l’ex presidente della Repubblica, nella sua proprietà di Authon nel Loir-et-Cher. Era risultato positivo al coronavirus, hanno fatto sapere i familiari. Giscard d’Estaing è stato presidente dal 1974 al 1981.

Lidia Menapace – Risultata positiva al coronavirus, la partigiana e politica è morta il 7 dicembre all’età di 96 anni. Qualche giorno prima era stata ricoverata in ospedale in gravi condizioni.

Emmanuel Macron – Il presidente francese è risultato positivo al Coronavirus. La diagnosi è stata stabilita in seguito a un test Rt-Pcr realizzato subito dopo l’apparizione dei primi sintomi. E’ posto in isolamento anche se continuerà le sue attività a distanza.

Iacopo Melio – Lo scrittore, giornalista e consigliere regionale della Toscana ha annunciato sui social di essere risultato positivo al Covid-19. E’ sintomatico ma in isolamento domiciliare e sotto stretto controllo medico.

CINEMA

Lucia Bosè – E’ morta il 23 marzo ad 89 anni l’attrice icona del cinema italiano per complicanze da coronavirus.

Giuliana De Sio – La famosa attrice adesso è negativa, ma ha annunciato di aver contratto il coronavirus in una delle sue tournèe teatrali ed è stata ricoverata per due settimane all’ospedale Spallanzani a Roma. Ora è guarita.

Tom Hanks – La celebre star hollywoodiana ha annunciato di essere positivo al coronavirus insieme alla moglie Rita Wilson. In questo momento l’attore si trova in Australia ma ha dichiarato di stare bene.

Harvey Weinstein – Anche il produttore cinematografico è risultato positivo al coronavirus. Dopo la recente condanna a 23 anni di carcere, ora è in una cella di isolamento nella prigione di New York.

Idris Elba – Il celebre attore è risultato positivo ma ha annunciato di stare bene.

Itziar Ituno – L’attrice star della serie tv La casa di carta ha annunciata di essere stata contagiata dal coronavirus ma di stare bene. Ha dichiarato però di non sottovalutare questa infezione e di rimanere a casa.

Kristofer Hivju – Anche un’altra serie tv è stata colpita dal coronavirus. Ad essere risultato positivo al coronavirus è l’attore norvegese di Game of Thrones.

Nick Cordero – L’attore canadese è morto il 6 luglio. Era ricoverato in ospedale da oltre 90 giorni, a seguito del risultato positivo al coronavirus. Le complicanze dopo la trasmissione del virus lo avevano sottoposto ad un’amputazione della gamba destra, una tracheotomia facendo apparire subito gravi le sue condizioni.

Mel Gibson – Il famoso attore americano è risultato positivo al coronavirus lo scorso aprile. Ricoverato e curato con il trattamento del farmaco remdesivir, è risultato negativo al virus e positivo agli anticorpi dando così conferma della sua guarigione.

Antonio Banderas – Il famoso attore spagnolo è risultato positivo al test per il coronavirus. Il 10 agosto, giorno del suo 60esimo compleanno, ha annunciato di essere rimasto contagiato dalla pandemia che sta piegando nuovamente la Spagna.

Dwayne Douglas Johnson – Il celebre attore hollywoodiano, conosciuto anche come The Rock, ha annunciato sui social di essere stato contagiato dal Covid insieme alla moglie e al figlio. L’ex stella del wrestling ha rassicurato i fan affermando di essere riuscito a sconfiggere il virus, anche se con la sua famiglia ha dovuto affrontare tre settimane difficili.

Robert Pattinson – Il celebre attore 34enne è risultato positivo al test del coronavirus. In isolamento come da protocollo, le riprese per il film di Batman di cui è protagonista sono state sospese.

Gabriele Salvatores – Il celebre regista è risultato positivo al coronavirus, è asintomatico e ha rassicurato sulle sue condizioni.

Lillo Petrolo – Il celebre Lillo del duo comico Lillo & Greg ha contratto il covid-19. Ad annunciare la positività al virus è lo stesso attore che in una conferenza da remoto ha raccontato di essere in quarantena e di avvertire tutti i sintomi dell’infezione.

Rocco Siffredi – Il celebre pornoattore è risultato positivo al coronavirus insieme alla sua famiglia, la donna di servizio e l’autista.

Christian De Sica – Il celebre attore in un’intervista ha annunciato di essere stato positivo al Covid-19. L’ultimo tampone eseguito ha dato esito negativo, ma è stato in cura domiciliare ed era sintomatico.

Michele La Ginestra – L’attore è risultato positivo al coronavirus. Ad annunciarlo è stato lui stesso sui social, rassicurando sulle sue condizioni. E’ in isolamento insieme alla sua famiglia, tutti contagiati ma sotto controllo medico.

Franco Giraldi – ​È morto nella serata del 2 dicembre il regista, sceneggiatore e critico cinematografico. Era ricoverato da un paio di giorni perché affetto da Covid-19. Aveva esordito nel filone western ed era stato anche aiuto regia di Sergio Leone in Per un pugno di dollari.

Kim Ki-duk –  Il regista sudcoreano è morto l’11 dicembre in Lettonia, in seguito a complicazioni legate al Covid-19. 

CALCIATORI E SPORTIVI

Daniele Rugani – Il calciatore della Juventus è stato il primo giocatore ad essere risultato positivo al coronavirus seppur asintomatico, facendo partire così l’isolamento di tutta la squadra. Ha dichiarato di stare bene e di essere in buone condizioni.

Manolo Gabbiadini – Il calciatore della Sampdoria è risultato positivo al covid 19, a annunciarlo è stata la società blucerchiata. Lo stesso Gabbiadini ha rilasciato poi un messaggio sui social dichiarando di stare bene.

Paulo Dybala – Il giocatore della Juventus è risultato anche lui positivo al coronavirus insieme alla sua fidanzata, anche se dichiarano di stare bene ed entrambi erano asintomatici.

Paolo Maldini – Il dirigente del Milan è rimasto positivo al coronavirus e con lui anche il figlio calciatore della squadra milanese Daniel Maldini.

Antonino La Gumina – Anche il calciatore della Sampdoria è risultato positivo ma in buone condizioni.

Morten Thorsby – Insieme agli altri cinque compagni, anche il calciatore della Sampdoria Thorsby è risultato positivo al tampone del coronavirus.

Fabio Depaoli – L’altro giocatore della Sampdoria ad essere stato contagiato dal virus è Depaoli.

Dusan Vlahovic – Il giocatore della Fiorentina è risultato positivo al coronavirus, il primo della squadra a contrarre l’infezione.

German Pezzella – Anche Pezzella della Fiorentina è rimasto contagiato ma è in buone condizioni.

Patrick Cutrone – Il calciatore della Fiorentina è rimasto contagiato dal coronavirus, ma sta bene.

Blaise Matuidi – Il calciatore francese della Juventus è risultato anche lui positivo al tampone sebbene asintomatico, ma sta bene.

Mattia Zaccagni – Anche il centrocampista del Verona è rimasto contagiato dal covid 19.

Fatih Terim – L’allenatore del Galatasaray è risultato positivo al coronavirus ed era stato ricoverato in ospedale. Il 30 marzo è stato dimesso in quanto in buone condizioni, anche se non è ancora vista la sua rinnovata positività al virus.

Mikel Arteta – Anche gli allenatori non sono risultati immuni al coronavirus. L’allenatore dell’Arsenal è risultato positivo ma le sue condizioni sono buone.

Callum Hudson-Odoi – Il giocatore del Chelsea è rimasto contagiato anche lui in Inghilterra dal coronavirus.

Ezequiel Garay – Il difensore argentino militante nel Valencia è risultato positivo.

Wu Lei – Anche il calciatore cinese dell’Espanyol è rimasto contagiato e ha contratto il coronavirus.

Rudy Gobert – L’altra stella cestista dell’NBA ha annunciato di essere stato contagiato dal covid 19 ma di stare in buone condizioni.

Donovan Mitchell – Il famoso cestista dell’NBA è risultato positivo al coronavirus ma sta bene.

Timo Hubers –  Il calciatore dell’Hannover è rimasto contagiato insieme ad un atleta dell’Herta Berlino.

Marco Sportiello – Il portiere dell’Atalanta è il primo caso in squadra ad essere risultato positivo al covid19, ma è asintomatico e sta bene.

Pape Diouf – L’ex presidente dell’Olympique di Marsiglia è scomparso l’1 Aprile all’età di 68 anni a causa delle complicanze da coronavirus.

Donato Sabia – L’atleta è morto l’8 Aprile all’età di 56 anni a causa del coronavirus. Due volte finalista olimpico degli 800 metri piani, il mezzafondista aveva perso pochi giorni prima anche il padre.

Novak Djokovic – Il numero uno al mondo di tennis è positivo al coronavirus. Il fenomeno serbo classe 1987, è risultato positivo al tampone dopo aver partecipato all’Adria Tour. In totale sono cinque, tra tennisti e membri dello staff, coloro che sono stati contagiati.

Anton Khudayev – Il 48enne medico della nazionale di calcio ucraina e membro dello staff del ct Andry Shevchenko, ex attaccante del Milan, è morto di coronavirus il 27 luglio.

Alyssa Milano – La famosa attrice americana ha raccontato la sua brutta esperienza con il coronavirus. Nonostante avesse tutti i sintomi dell’infezione, soltanto al quarto test, del sangue e non il tampone, è risultata positiva lo scorso aprile. E’ stata male per oltre due settimane, ma dopo qualche mese ha dichiarato di stare meglio.

Angel Di Maria, Leo Paredes, Neymar e Mauro Icardi – I quattro calciatori militanti nella squadra del Paris Saint-Germain sono risultati positivi al test del coronavirus. I primi due giocatori hanno passato insieme le vacanze in Spagna, così come il brasiliano che però era in compagnia dei suoi amici a Ibiza. Il club francese ha annunciato di continuare i controlli all’interno del team prima dell’inizio del campionato 2020/21, dove si è scoperto che anche l’argentino Icardi è risultato contagiato.

Thibaut Courtois – Il portiere del Real Madrid è risultato positivo al tampone del Covid-19. La conferma è arrivata dopo aver sostenuto gli esami con la nazionale belga.

Aurelio De Laurentiis – Il presidente dell’Ssc Napoli è risultato positivo al coronavirus. Nei mesi precedenti il patron del Napoli ha subito una forma non leggera di polmonite e sembra essere non asintomatico. Come da protocollo, sono stati presi tutti i provvedimenti del caso. Poche ore prima aveva partecipato all’assemblea di Lega della Serie A per l’inizio del campionato 2020/21.

Zlatan Ibrahimovic – L’attaccante svedese del Milan è risultato positivo al coronavirus dopo l’esito dei tamponi cui sono stati sottoposti i calciatori rossoneri. Il giocatore è stato prontamente posto in quarantena a domicilio.

Cristiano Ronaldo – Il calciatore della Juventus è risultato positivo al coronavirus ed è asintomatico. L’attaccante è volato in Portogallo, violando le regole dell’isolamento dopo i casi di contagio nella squadra bianconera, per giocare una partita con la sua Nazionale.

Valentino Rossi – Il celebre pilota ha comunicato di essere risultato positivo al Covid dopo essersi sottoposto ad un secondo tampone che ha confermato il contagio. Ha fatto sapere di avere una leggera influenza. Le sue condizioni sono costantemente monitorate.

Federica Pellegrini – La celebre nuotatrice ha fatto sapere attraverso il suo profilo Instagram di essere risultata positiva al Covid. E’ sintomatica con mal di gola e debolezza, ed ora è in isolamento.

Danielle Frédérique Madam – La campionessa di atletica nella specialità del lancio del peso, residente a Pavia, ha fatto sapere di essere risultata positiva al coronavirus attraverso una stories sul suo profilo Instagram. Ha detto di soffrire sintomi come la perdita dell’olfatto.

Ronaldo de Assis Moreira, Ronaldinho – L’ex calciatore brasiliano, fenomeno di Paris Saint Germain, Barcellona e Milan è risultato positivo al coronavirus. Lo ha fatto sapere attraverso i social. È asintomatico.

Irma Testa – La prima pugile italiana alle Olimpiadi (era Rio 2016) ha fatto sapere all’Ansa dell’esito del tampone. Ha perso gusto e olfatto. “Non si deve mollare – ha detto la campionessa di Torre Annunziata – e occorre continuare ad allenarsi, sempre rispettando le regole. Le restrizioni sono importanti per tenere a bada il virus ma noi senza preparazione e match non possiamo stare”.

Urbano Cairo – L’imprenditore e presidente del Torino Football Club è risultato positivo al Covid-19. E’ stato ricoverato all’ospedale San Paolo di Milano ed è sotto osservazione.

Francesco Totti – Nei giorni scorsi l’ex campione giallorosso ha avuto la febbre e sintomi riconducibili al virus confermati dall’esito del tampone arrivato nelle scorse ore. Le sue condizioni sono in miglioramento. In isolamento la moglie Ilary Blasi e i figli.

Roberto Mancini – L’allenatore della Nazionale di calcio italiana è risultato positivo al coronavirus e asintomatico. La notizia del suo contagio ha destato molto scalpore in seguito alle sue dichiarazioni negazioniste sulla malattia Covid-19.

Diego Armando Maradona Junior – Il figlio del Pibe de Oro è risultato positivo al Covid-19 insieme a sua moglie. A dare la notizia è stato lo stesso Diego che sui social ha raccontato di essere sintomatico con tosse e febbre e di stare isolamento.

Mohamed Salah – Il calciatore del Liverpool è risultato positivo al coronavirus ed è asintomatico. Ad annunciarlo è stata la Federcalcio egiziana ed è in buone condizioni.

Stefano Pioli – L’allenatore del Milan è risultato positivo al coronavirus dopo aver effettuato il test rapido. Il tampone molecolare ha confermato l’esito ed è stato posto in isolamento.

Lewis Hamilton – Il pilota di Formula 1 è risultato positivo al coronavirus.  La Mercedes fa sapere che Lewis è in isolamento come previsto dai protocolli covid-19, e che fatta eccezione per lievi sintomi, sta bene ed è in forma.

PERSONAGGI TV

Nicola Porro – Il popolare giornalista e conduttore di Quarta Repubblica è risultato positivo al covid ed è in isolamento anche se sembrerebbe in via di guarigione.

Renato Coen – Il giornalista di SkyTg24 è risultato positivo al coronavirus ma è in buone condizioni.

Piero Chiambretti – Il celebre conduttore televisivo è risultato positivo al coronavirus e le sue condizioni appaiono buone. Il 30 marzo ha dichiarato di essere guarito. Mentre non ce l’ha fatta sua mamma Felicita, la prima tra i due ad aver contratto il virus spegnendosi il 21 marzo all’età di 84 anni.

Floyd Cardoz – Il famoso cuoco indiano è il primo chef al mondo ad essere risultato positivo al covid 19. Si è spento il 25 marzo all’età di 59 anni.

Sergio Rossi – Il famoso re delle scarpe di lusso è morto il 3 Aprile all’età di 85 anni a seguito di complicanze da coronavirus. Nei giorni precedenti alla sua scomparsa aveva donato 100mila euro all’ospedale Sacco.

Richard Quest – Il noto giornalista della CNN ha rivelato durante uno show di essere positivo al coronavirus.

Giacomo Poretti – Il famoso comico del trio Aldo, Giovanni e Giacomo ha confessato di aver contratto il coronavirus a fine marzo, insieme a sua moglie Daniela Cristofori. Poretti ha però aggiunto di esserne guarito ed ha intenzione di riprendere a lavorare il prima possibile con il suo nuovo spettacolo.

Alba Parietti – La nota showgirl ha confessato di essere stata contagiata dal coronavirus nei primi giorni di marzo. Ad oggi sta bene ed è guarita.

Flavio Briatore – L’imprenditore e celebre proprietario del Billionaire in Sardegna è risultato positivo al tampone per il Coronavirus. Recatosi in ospedale per una prostatite, ha scoperto di avere il virus. Subito sono scattate le misure di protocollo, come l’isolamento, e la procedura di rintracciamento di tutti i contatti avuti scoprendo così un focolaio.

Fabrizio Corona – Il noto ex paparazzo ha annunciato sui social di essere risultato positivo al Covid e di avere sintomi quali febbre alta e debolezza.

Antonio Ricci – Il noto creatore della trasmissione satirica Striscia la notizia è stato ricoverato in ospedale a scopo precauzionale dopo essere risultato positivo al coronavirus. Le sue condizioni si presentano stabili a seguito di una cura mirata ed è in netto miglioramento.

Gerry Scotti – Il celebre volto della televisione è risultato positivo al coronavirus. Ad annunciarlo è stato lo stesso presentatore sui social che ora si trova in isolamento sotto controllo medico.

Carlo Conti – Il celebre presentatore della Rai è risultato positivo al Covid-19. A comunicarlo è stato lo stesso conduttore sui social, che è asintomatico e sotto controllo medico.

Alessandro Cattelan – Il conduttore di X-Factor è risultato positivo al coronavirus. A dare l’annuncio è stato lo stesso Cattelan che sui social ha fatto sapere di stare in isolamento e sotto controllo medico.

Valentino Picone – Il comico e attore del duo Ficarra e Picone è risultato positivo al test rapido da coronavirus. Dopo un mese in isolamento e in condizioni stabili, il tampone ha dato esito negativo ritornando in tv per la conduzione di Striscia la Notizia accanto all’amico e socio Salvatore Ficarra.

Aurora Ramazzotti – La figlia di Eros e Michelle Hunziker è risultata positiva al coronavirus. A dare la notizia è stata la stessa 23enne durante un collegamento telefonico in una rete televisiva affermando di aver avuto sintomi come tosse e sinusite e di stare in isolamento insieme al fidanzato Goffredo Cerza. Anche se adesso le sue condizioni sono migliorate.

Alena Seredova – L’ex modella è risultata positiva al Covid-19. Ad annunciarlo è stata la stessa showgirl sui social che è sintomatica e in isolamento.

Emilio Fede – L’ex direttore del Tg4 è risultato positivo al tampone da coronavirus. E’ asintomatico ed in buone condizioni di salute. La prima parte dell’isolamento l’ha trascorsa in un hotel del lungomare di Napoli, mentre per le festività natalizie verrà trasferito al Covid residence.

MUSICA E LETTERATURA

Luis Sepùlveda – Lo scrittore cileno è risultato essere positivo al coronavirus insieme alla compagna poetessa Carmen Yanez. Anche se le sue condizioni sembravano inizialmente stazionarie, il 16 Aprile è scomparso all’età di 70 anni.

Placido Domingo – Il celebre tenore spagnolo ha dichiarato di essere positivo al coronavirus, le sue condizioni per ora appaiono stabili.

Manu Dibango – E’ morto il 24 marzo in Francia il sassofonista camerunense e leggenda dell’afro-jazz dopo aver contratto il coronavirus.

Vittorio Gregotti – E’ morto il 15 marzo 2020 il grande architetto di fama internazionale, anche lui vinto dal coronavirus.

Jackson Browne – La celebre star americana ha annunciato di essere risultato positivo al coronavirus dopo essersi sottoposto al test, ma ha dichiarato di stare bene.

Till Lindemann – Il celebre cantante tedesco del gruppo metal Rammstein non soltanto ha manifestato tutti i sintomi della malattia, ma a causa del coronavirus è stato ricoverato in terapia intensiva.

Raffaele Masto – Scrittore e giornalista milanese, Masto è morto a 66 anni il 28 marzo dopo aver contratto il coronavirus.

Joe Diffie – Il cantante country, vincitore di un Grammy Award,  è scomparso all’età di 61 anni il 30 marzo per complicanze da coronavirus.

Ellis Marsalis jr – Il musicista leggenda del jazz a New Orleans è scomparso il 2 Aprile per complicanze legate al coronavirus. Aveva 85 anni.

Adam Schlesinger – Il cantante e musicista della band americana Fountains of Wayne è morto l’1 aprile all’età di 52 anni dopo essere stato ricoverato per complicanze da covid-19.

Fiordaliso – La celebre cantante Marina Fiordaliso è risultata positiva al coronavirus insieme alla sua famiglia. L’artista ha annunciato di essere guarita dal covid 19 insieme alla sorella e al padre, ma la madre invece non ce l’ha fatta.

Pink – La celebre cantante ha lasciato un messaggio sui suoi social annunciando di essere positiva al covid-19 insieme a suo figlio. La star ha poi rassicurato i suoi fan dichiarando di essere guarita e ha donato 1 milione di dollari a due fondi per la ricerca contro il coronavirus.

John Prine – Il cantautore americano si è spento all’età di 73 anni il 7 Aprile a seguito di complicazioni da coronavirus. L’artista ha vinto due Grammy Award, nel 1991 e nel 2005.

Fred The Godson – Il rapper statunitense si è spento all’età di 35 anni il 24 Aprile, a causa delle complicanze da coronavirus.

Madonna – La famosa cantante ha lasciato un messaggio sui social informando i suoi fan di essere risultata positiva al Covid-19. La star americana non ha specificato quando ha scoperto di essere stata contagiata, ma ha spiegato di aver sviluppato gli anticorpi.

TY- Il rapper britannico, il cui vero nome è Ben Chijioke, è morto a 47 anni l’8 maggio a seguito delle complicanze sorte dopo aver contratto il coronavirus.

Andrea Bocelli – Il noto tenore ha confessato di essere stato contagiato dal coronavirus insieme alla sua famiglia. Dopo il tampone effettuato lo scorso 10 marzo, dopo vari mesi dopo essere guarito ha donato il plasma per poter contribuire alla ricerca sulla cura da covid-19.

Nina Zilli – La cantante ha annunciato sui social di essere risultata positiva al covid, nonostante i primi test avessero dato esito negativo.

Ornella Vanoni – La celebre artista è risultata positiva al coronavirus. A comunicarlo è stata la stessa cantante sui social rassicurando sulle sue condizioni.

Mara Maionchi – La produttrice discografica è stata ricoverata in ospedale dopo essere risultata positiva al coronavirus. Dopo pochi giorni è stata dimessa ed ora è sotto controllo medico a casa.

Iva Zanicchi – La celebre cantante è risultata positiva al coronavirus. Ad annunciarlo è stata la stessa artista sui social, rassicurando sulle sue condizioni di salute.

Stefano D’Orazio – Lo storico batterista del gruppo musicale dei Pooh è venuto a mancare il 7 novembre. Ricoverato da una settimana a causa del contagio da Covid-19, aveva malattie pregresse.

Marco Santagata – Lo scrittore e docente all’Università di Pisa è morto il 9 novembre a seguito di un come irreversibile. A patologie pregresse si è aggiunta anche la positività al covid-19, infezione che gli è stata fatale.

Damiano David e Victoria de Angelis – I due musicisti del noto gruppo musicale Maneskin sono risultati positivi al coronavirus. Ad annunciarlo sono stati gli stessi membri della band sui social che hanno rassicurato i fan sulle loro condizioni, stanno bene e sono in isolamento. Ma hanno voluto lanciare l’appello, soprattutto ai più giovani, di rispettare le regole anti-Covid.

PARENTI DEI VIP

Mamma di Alex Baroni – E’ deceduta il 22 marzo a causa del coronavirus la madre del noto cantante Alex Baroni, morto in un incidente stradale nel 2002.

Suocero di Adriana Volpe – Il Grande Fratello Vip continua nonostante il virus, ma ad essere stata colpita da un lutto è stata proprio una delle concorrenti del reality che ha perso suo suocero a causa del coronavirus ed ha abbandonato la casa prima della fine del programma.

Madre di Fiordaliso – L’artista piacentina ha comunicato di essere risultata positiva al coronavirus insieme alla sua famiglia, ma l’unica a non essere sopravvissuta è stata sua mamma scomparsa il 2 aprile.

Nonno di Fabio Rovazzi – Il giovane cantante ha postato un lungo messaggio su suoi social per ricordare suo nonno scomparso il 3 Aprile proprio a causa del coronavirus.

Mamma di Pep Guardiola – L’allenatore catalano del Manchester City ha perso sua madre di 82 anni a causa del coronavirus il 6 Aprile. Nelle settimane precedenti Guardiola aveva donato un milione di euro alla Fondazione Angel Soler Daniel per l’acquisto del materiale utile a fronteggiare l’emergenza covid-19.

Zindzi Mandela – La più piccola delle figlie di Nelson Mandela è scomparsa lo scorso 13 luglio all’età di 59 anni. Famosa per aver letto in mondovisione una lettera ribellandosi all’apartheid, è risultata positiva al coronavirus ma non c’è nessuna certezza sul fatto che il virus abbia provocato la sua morte.

Papà di Francesco Totti – Ricoverato all’ospedale Spallanzani dopo essere risultato positivo al coronavirus,  il 14 ottobre Enzo Totti si è spento all’età di 70 anni. L’ex capitano della Roma ha ricordato il suo papà con un commovente messaggio sui social.

·        Gli Effetti di un anno di Covid.

Covid, morti e contagi: cosa è cambiato rispetto a ottobre 2020. Fabio Savelli su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. 

Primo clic: 13 ottobre 2020. «Il virus oggi circola in tutto il Paese». L’incipit del rapporto settimanale dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblicato quel giorno, è l’epitaffio sulle speranze di evitare la seconda ondata. La curva dei contagi sta crescendo esponenzialmente. Stabilmente sopra i 5mila casi quotidiani, il 13 ottobre sfioriamo i 6mila (5.901). 

Secondo clic: «Si osserva un’accelerazione del progressivo peggioramento dell’epidemia». Incidenza cumulativa a 75 casi per 100mila abitanti, ben al di sopra del limite dei 50. Numero di casi (sintomatici) quasi raddoppiato. Scende la quota di contagi segnalati da attività di tracciamento: è il segnale che la curva del Covid è partita e abbiamo perso la capacità di monitorarla. L’Rt, l’indice di trasmissibilità, schizza a 1,17, facendo scattare l’allarme. Le scuole hanno riaperto, in presenza, da poco più di tre settimane. Veniamo da un’estate tranquilla, al netto di alcuni focolai in Spagna e Sardegna. Con pochi controlli alla frontiera e la mancanza del Green Pass, allora illustre sconosciuto. 

Terzo clic: il 13 ottobre 2020, giusto un anno fa, il governo Conte vara il primo di una lunga serie di Dpcm autunnali per evitare altre migliaia di morti. Proposito vano per quello che vedremo dopo. Obbligo di mascherina all’aperto, le attività di ristorazione vengono ristrette alle 24, vengono vietate le feste, pubbliche e private, c’è una prima stretta sulle palestre.

A distanza di un anno assistiamo al cambio di direzione di tutte le curve epidemiologiche: casi, deceduti, tasso di positività, terapie intensive. È un giorno chiave per capire l’effetto dei vaccini sull’epidemia. Perché l’anno scorso non c’erano, oggi sì. Con oltre 43,4 milioni di coperti a ciclo completo e 2,44 milioni in attesa del richiamo. Siamo all’inizio della stagione autunnale, le temperature cominciano a scendere, si restringe la vita sociale all’aperto e cresce quella al chiuso, in cui, converge la comunità scientifica, il virus ha maggiori possibilità di propagarsi. Soprattutto quest’anno abbiamo la variante Delta, dominante al 99,8%, con una trasmissibilità superiore tra il 40 e il 60% rispetto a quella dello scorso anno. 

Ieri, 12 ottobre, 2.494 casi e 49 morti. L’anno scorso oltre il doppio dei casi, quasi lo stesso numero dei morti (41), ma perché la dinamica dei decessi ha uno scostamento temporale di tre-quattro settimane rispetto al momento del contagio. Il tasso di positività dei tamponi molecolari era al 5,21%, quello attuale al 3,10% (nel calcolo ora ci sono anche gli antigenici che un anno fa non venivano contabilizzati). Soprattutto stava decollando verso l’alto la curva-chiave: i posti letto occupati in terapia intensiva (514 il 13 ottobre 2020, ieri erano 370) uno dei parametri decisivi per le misure di contenimento perché misura la sofferenza del sistema sanitario.

Che cosa accadde nel mese successivo vale forse la pena di ricordarlo. Ora che abbiamo solo 4 regioni a rischio moderato (Basilicata, Valle d’Aosta, le province autonoma di Trento e Bolzano), tutte in fascia bianca per un’incidenza settimanale al di sotto dei 50 casi ogni 100mila abitanti (34 su base nazionale). Diciotto giorni dopo, il 31 ottobre 2020, sfondiamo quota 30mila casi al giorno. Col picco di 40.902 del 13 novembre, appena un mese dopo. Il tasso di positività s’impenna. Già il 19 ottobre 2020 sale ben oltre il livello di guardia, al 9,45%. Fino al picco del 16 novembre: il 17,92% dei tamponi molecolari positivi. Quasi uno su cinque.

L’andamento dei decessi è quello che fa più impressione. Il 31 ottobre dell’anno scorso il numero comincia a impennarsi: 297 vittime. Fino a decollare tra novembre e dicembre: il 24 novembre 853, il 3 dicembre saranno 991 in un solo giorno, picco della seconda ondata, il 10 dicembre 887, il 15 dicembre 846, il 29 dicembre ancora 659 morti. Due giorni prima, il 27 dicembre, le prime iniezioni Pfizer ai fragili. Non riusciremo però ad evitare la terza ondata, di marzo 2021, con un altro pesante conto di vittime. Quel che vediamo oggi è chiaro: l’Istituto superiore di Sanità registra che l’incidenza tra i non vaccinati di nuovi casi Covid ogni 100mila contagi è di dieci volte superiore rispetto ai vaccinati (822 contro 85). E la probabilità di nuovi decessi tra chi non è coperto è di sei volte superiore (87 contro 15 per milione di morti).

(ANSA il 5 ottobre 2021) - Più di un adolescente su 7 tra i 10 e i 19 anni convive con un disturbo mentale diagnosticato e tra questi 89 milioni sono ragazzi e 77 milioni ragazze. Un disagio che a volte può diventare insopportabile e che porta quasi 46.000 adolescenti ogni anno a togliersi la vita ogni anno, più di uno ogni 11 minuti. A lanciare l'allarme è l'Unicef attraverso il rapporto "La Condizione dell'infanzia nel mondo - Nella mia mente: promuovere, tutelare e sostenere la salute mentale dei bambini e dei giovani", presentato oggi. L'ansia e la depressione rappresentano il 40% dei disturbi mentali diagnosticati e i tassi in percentuale sono più alti in Medio Oriente e Nord Africa, in Nord America e in Europa Occidentale. In alcuni casi il disagio mentale è tale che da lasciare i giovani con la sensazione di non avere una via di uscita. E così il suicidio è, nel mondo, una fra le prime cinque cause di morte fra i 15 e i 19 anni ma in Europa occidentale diventa la seconda, con 4 casi su 100.000, dopo gli incidenti stradali. Le problematiche di salute mentale diagnosticate, tra cui ADHD, ansia, autismo, disturbo bipolare, disturbo della condotta, depressione, disturbi alimentari e schizofrenia, danneggiano i bambini e anche la società nel suo insieme. Una nuova analisi della London School of Economics presente nel rapporto indica che il mancato contributo alle economie a causa dei problemi di salute mentale che portano a disabilità o morte tra i giovani è stimato in quasi 390 miliardi di dollari all'anno. A fronte di questo, "i governi stanno investendo troppo poco per affrontare questi bisogni fondamentali", ha dichiarato il direttore generale dell'Unicef Henrietta Fore. A livello globale, infatti, agli interventi per la salute mentale viene destinato circa il 2% dei fondi governativi per la salute. "Troppo poco rispetto alle necessità", mette in guardia il rapporto.

Dagotraduzione dal Guardian il 6 ottobre 2021. Secondo un nuovo rapporto delle Nazioni Unite, quasi una persona su cinque tra i 15 e i 24 anni in tutto il mondo afferma di sentirsi spesso depresso. L'agenzia per i bambini, l'Unicef e la Gallup hanno condotto interviste in 21 paesi durante i primi sei mesi dell'anno. Quasi tutti i bambini in tutto il mondo sono stati colpiti da restrizioni, chiusura delle scuole e interruzione delle routine. Il rapporto, pubblicato martedì, spiega che insieme alla preoccupazione per il reddito e la salute della famiglia, molti giovani si sentono spaventati, arrabbiati e incerti per il futuro. Quasi un terzo dei bambini in Camerun ha affermato di sentirsi spesso depresso o di avere scarso interesse nel fare le cose, mentre un bambino su cinque nel Regno Unito e un bambino su 10 in Etiopia e Giappone si sentivano così. I risultati non riflettono i livelli di depressione diagnosticata, ma mostrano come si sono sentiti bambini e giovani durante la pandemia di Covid-19. La mancanza di raccolta di dati e di monitoraggio di routine significava che il quadro dello stato di salute mentale e dei bisogni dei giovani nella maggior parte dei paesi era estremamente limitato. Il rapporto ha evidenziato come si stima che più di un bambino su sette di età compresa tra 10 e 19 anni (13%) conviva con un disturbo di salute mentale diagnosticato: 89 milioni di ragazzi e 77 milioni di ragazze. «Sono stati 18 mesi lunghissimi per tutti noi, specialmente per i bambini. Con i blocchi a livello nazionale e le restrizioni di movimento legate alla pandemia, i bambini hanno trascorso anni indelebili della loro vita lontano dalla famiglia, dagli amici, dalle aule, dal gioco, elementi chiave dell'infanzia», ha affermato Henrietta Fore, direttore esecutivo dell'Unicef. «L'impatto è significativo, ed è solo la punta dell'iceberg. Anche prima della pandemia, troppi bambini erano gravati dal peso di problemi di salute mentale non affrontati», spiega il documento. Che riporta un dato: nel mondo ogni 11 minuti un bambino si ammazza. Ogni anno circa 45.800 adolescenti muoiono per suicidio, la quinta causa di morte più diffusa per i bambini di età compresa tra 10 e 19 anni. Per i giovani di 15-19 anni, è la quarta causa di morte più comune, dopo l'incidente stradale, la tubercolosi e la violenza interpersonale. Secondo il rapporto, è la terza causa di morte per le ragazze in questa fascia di età, e la quarta per i ragazzi. «È davvero brutto», ha detto Ann Willhoite, specialista in salute mentale e supporto psicosociale all'Unicef. I problemi di salute mentale diagnosticati, tra cui ansia, autismo, disturbo bipolare, ADHD, depressione, disturbi alimentari e schizofrenia, possono danneggiare in modo significativo la salute, l'istruzione e il futuro dei bambini e dei giovani. Inoltre i problemi di salute mentale non trattati hanno un impatto sulle economie mondiali. Una nuova analisi della London School of Economics, inclusa nel rapporto, ha mostrato che il prezzo economico di tale negligenza è di 387,2 miliardi di sterline (circa 285 miliardi di euro) all'anno. Nonostante la richiesta di sostegno, la spesa pubblica per la salute mentale rappresenta globalmente il 2,1% dell'importo totale speso per la salute in generale. In alcuni dei paesi più poveri del mondo, i governi spendono meno di 1 dollaro a persona per curare le condizioni di salute mentale. Il numero di psichiatri specializzati nel trattamento di bambini e adolescenti è inferiore allo 0,1 per 100.000 in tutti i paesi tranne quelli ad alto reddito, dove la cifra è di 5,5 per 100.000. Gli investimenti nella promozione e nella protezione – diversi dal trattamento e dalla cura dei bambini che affrontano gravi sfide – della salute mentale sono estremamente bassi. La mancanza di investimenti significa che le persone che lavorano in una serie di settori, tra cui l'assistenza sanitaria di base, l'istruzione e i servizi sociali, non sono in grado di affrontare i problemi di salute mentale. «La salute mentale è una parte della salute fisica - non possiamo permetterci di continuare a considerarla diversamente», ha affermato Fore. «Per troppo tempo, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, abbiamo visto troppa poca comprensione e troppo poco investimento per un elemento fondamentale che serve a massimizzare il potenziale di ogni bambino. Questo deve cambiare».

Benedetto Saraceno per “la Repubblica - Salute” l’1 ottobre 2021. È molto probabile che anche da noi, come dimostrato da studi epidemiologici negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ci sia una correlazione fra livello socioeconomico e mortalità da Covid-19. Certamente i morti nelle Rsa non erano anziani benestanti. Certamente i più poveri, i più socialmente vulnerabili, hanno sofferto in misura maggiore e pagato i prezzi più alti. Certamente chi, durante il lockdown, viveva in appartamenti microscopici e a volte affollati ha sofferto in maniera particolare. Chi aveva un’autonomia economica di breve durata o era già in difficolta ha patito le conseguenze più pesanti. In uno studio sulla distribuzione di contagi e sui tassi di mortalità in differenti contee degli Stati Uniti gli indici più elevati si sono registrati fra le popolazioni urbane che vivevano in povertà o estrema povertà, e dove si riscontra l’incidenza più alta di neonati a basso peso alla nascita. Un altro studio, partendo da un’analisi storica della pandemia di Spagnola del 1918, sottolinea quanto le misure di lockdown adottate per limitare l’attuale pandemia da Covid-19 avranno un impatto diverso a seconda delle differenze di condizione socioeconomica delle popolazioni colpite, con un aumento futuro delle diseguaglianze dello stato di salute. Le persone più vulnerabili, si e detto, sono più esposte al rischio di contagio e hanno inoltre un rischio più elevato di decorsi gravi e letali. Non si e pero sottolineato abbastanza che la vulnerabilità non si riferisce soltanto a condizioni biologiche (obesità, diabete, cardiopatie), ma anche sociali. E quello che emerge in uno studio di Amaia Calderon-Larranaga e colleghi, che a partire da dati svedesi mostra che gli anziani più gravemente colpiti dal virus non siano soltanto portatori di malattie croniche importanti ma anche socialmente fragili, ossia soli, poveri o isolati. L’adozione di un modello esclusivamente biomedico che non tenga in debito conto i fattori sociali può rivelarsi fallimentare e determinare un aumento dell’esposizione al contagio e tassi più elevati di mortalità da coronavirus. Infatti, le persone in condizioni socioeconomiche svantaggiate vivono sovente in abitazioni sovraffollate e sono dunque esposte al rischio di infezioni respiratorie (del 20% dei poveri in Gran Bretagna, il 7% si trova ad affrontare questa situazione). Inoltre, il sovraffollamento impedisce il distanziamento fisico e molto spesso le persone in una situazione sociale ed economica sfavorevole svolgono lavori che non possono essere eseguiti a casa in smart working. Sono queste infine le categorie che utilizzano maggiormente i mezzi pubblici. La precarietà lavorativa di molti induce elevati livelli di stress e ansia, con conseguente indebolimento del sistema immunitario: dunque la povertà non solo aumenta il rischio di esposizione al virus, ma diminuisce la capacita di combatterlo. I più poveri e vulnerabili arrivano generalmente all’attenzione dei servizi sanitari in stadi più avanzati della malattia, quando gli esiti dell’infezione si rivelano più pesanti se non letali. Infine, stigma e discriminazione dovuti ad appartenenza a minoranze etniche o religiose possono indurre queste categorie a evitare il contatto con i servizi sanitari, spesso vissuti come fonte di umiliazione e di incomprensibili procedure burocratico-amministrative. Tutto questo e descritto in uno studio condotto in Gran Bretagna, ma certamente rispecchia situazioni analoghe in Italia o in altri Paesi europei. Il virus non ha colpito soltanto le classi sociali più deboli, ma anche la gigantesca forza lavoro costituita dalle donne. risposte intelligenti Secondo i dati ufficiali della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, in un confronto tra il secondo trimestre 2019 e lo stesso periodo del 2020, su un totale di 841.000 posti di lavoro perduti, 470.000 appartenevano a donne, ossia più di cinquantacinque su cento. Sono loro, infatti, ad avere in misura maggiore contratti meno stabili o part-time, a essere impiegate nei settori più colpiti dalle restrizioni, dove e impossibile svolgere telelavoro. Si parla di 707.000 donne inattive in più, specialmente nelle fasce giovanili. Il lavoro di gestione e di sostegno psicosociale dei bambini, degli adolescenti, degli anziani e dei disabili e svolto quasi esclusivamente dalle donne e impedisce loro di cercare o mantenere un impiego retribuito. Secondo i dati Eurostat relativi al 2019, il 15,2% delle donne in Italia non lavora per poter prendersi cura di figli o parenti anziani: e la percentuale più alta tra i Paesi dell’Unione Europea, dove la media si attesta al 9%. Si tratta molto spesso di un secondo lavoro che non solo non è retribuito, ma nemmeno riconosciuto in termini professionali, tantomeno in ambito sindacale. Vi è una sorta di complicità di genere che fa sì che il fondamentale ruolo svolto dalle donne nel gestire, sostenere e assistere milioni di minori, vecchi e disabili sia assunto come “dovuto e implicito”, mentre non e ne dovuto dalle donne alla società maschile ne implicito nella “natura femminile”. Dev’essere considerato invece una questione collettiva, di interesse pubblico e istituzionale, e non relegato alla dimensione e alla negoziazione individuale e privata. La pandemia ha reso questa grave e insopportabile diseguaglianza ancora più evidente e urgente. Abbiamo sentito molto spesso la frase: “Il virus non discrimina, siamo tutti uguali di fronte alla malattia”. Ebbene, non è così. Dobbiamo dircelo e dirlo a voce alta che il virus non è democratico e colpisce chi sta peggio. Sembra banale, ma di questo aspetto non si parla granchè. Tuttavia, non è il virus che deve diventare più democratico, sono le risposte dei sistemi sanitari e di welfare che devono ristabilire la democrazia. L’emergenza ha consentito la clamorosa evidenziazione di due principali criticità storiche dei nostri sistemi di salute pubblica: a) lo smantellamento della medicina di prossimità e del welfare di territorio e di comunità; b) lo sviluppo incontrollato del modello residenziale per le popolazioni fragili e vulnerabili. Partiamo dalla prima criticità. Alcuni sistemi sanitari regionali, primo fra tutti quello lombardo, si sono sviluppati negli ultimi anni in accordo con una precisa visione promossa da politici e amministratori. La strategia e stata chiara: disinvestire dal- la medicina di comunità e dei territori, incentivare esclusivamente il polo ospedale e promuoverne la privatizzazione. Il neoministro dello Sviluppo economico nonchè dirigente della Lega Giancarlo Giorgetti, nell’agosto 2019 al Meeting di Comunione e Liberazione di Rimini affermava, testuali parole: «E vero, mancheranno quarantacinquemila medici di base nei prossimi cinque anni. Ma chi va più dal medico di base, senza offesa per i medici di base anche qui presenti in sala? Nel mio piccolo paese vanno ovviamente per fare le ricette mediche, ma quelli che hanno meno di cinquant’anni vanno su Internet, si fanno fare le autoprescrizioni su Internet, cercano lo specialista. Tutto questo mondo qui, questo mondo del medico di cui ci si fidava anche, quella roba lì e finita». «Quella roba lì» in realtà dovrebbe essere l’asse portante di un moderno sistema sanitario: la medicina di base e di territorio. E tale asse e stato smontato, irriso, definanziato. Si tratta, al contrario, di ripensare molti dei comparti del welfare e della sanita. Innanzitutto e urgente superare la separazione fra sociale e sanitario, che conduce a interventi sociali miseri in ambito sanita- rio e a interventi sanitari di bassa qualità in ambito sociale. E necessario potenziare le reti dell’assistenza sociosanitaria previlegiando la struttura Distretto, che deve esser in grado di organizzare i servizi in funzione delle persone e della co- munita (e non delle malattie), realizzando una forte integrazione fra professionisti e istituzioni, fra socia- le e sanita, con la partecipazione della popolazione. [...] E ciò va ben al di là del semplice ambulatorio di un medico di base. risposte intelligenti Passiamo ora alla seconda criticità. Le patologie croniche e disabilitanti hanno bisogno di risposte più intelligenti di quelle fornite dal modello residenziale. E ben noto come l’incremento significativo delle malattie croniche non trasmissibili (per esempio obesità, diabete, tumori), delle malattie mentali e più in generale di tutte le malattie croniche (dunque anche quelle infettive come l’Aids o la tubercolosi) ponga la necessita di superare il modello preponderante di assistenza sanitaria a beneficio di un’assistenza territoriale in grado di abbinare interventi sanitari e di sostegno psico -sociale. Le patologie croniche hanno una durata talvolta indefinita e la loro persistenza richiede trattamenti medici e psicologici, interventi di sostegno psicosociale e assistenza che si protraggano nel tempo con intensità variabile. La tradizionale risposta rappresentata dall’intervento biomedico erogato in ambiente ospedaliero risulta ovviamente molto parziale, se non inadeguata e talora addirittura controindicata. Oggi, con la pandemia, abbiamo a che fare con una situazione acuta che necessita di risposte altrettanto acute. Una risposta acuta non è automaticamente sinonimo di letto ospedaliero. Una risposta acuta si declina in molteplici dispositivi di cui il letto in ospedale e uno e non necessariamente il più importante. [...] Anche prima della pandemia il termine “residenzialità” e divenuto dominante in quasi tutti i sistemi sanitari regionali ove abbondano forme diverse di residenze, più o meno protette, più o meno manicomiali, pubbliche o private, o private convenzionate. Ma la residenzialità non rimanda necessariamente a una vita sociale, a un luogo che sia parte integrante della comunità circostante, ma alla semplice disponibilità di letti utilizzati secondo una tipica logica ospedaliera. L’adozione di un modello innovativo per rispondere alla sfida delle patologie croniche bene si adatta a un insieme di interventi che si compiono essenzialmente al di fuori dell’ospedale e non necessitano del letto come asse portante, perchè hanno luogo nei centri di salute territoriali o nel domicilio del paziente. Potremmo definirli “comunitari” sia perchè predisposti nel territorio ove vive il paziente sia perchè frutto di sinergie fra differenti attori e risorse di cui dispone la comunità che sta al centro del modello psico-sociale di lunga durata nella duplice accezione di “luogo” in cui i cittadini e il singolo utente vivo- no, e di “insieme di cittadini e risorse” di cui quella comunità dispone.

Gianni Santucci per il “Corriere della Sera - Edizione Milano” il 20 agosto 2021. L'ipotesi, per lo più in forma di battuta licenziosa, circolava con una certa frequenza durante il lockdown. Tanto veniva ripetuta, che venne citata anche in un articolo pubblicato su Science, nel luglio 2020, da un gruppo di eminenti studiosi, tra cui Arnstein Aassve della «Bocconi» e Massimo Livi Bacci dell'università di Firenze: «Si sente spesso dire che la pandemia provocherà un baby boom, perché le coppie passeranno più tempo insieme e sarà più probabile che concepiranno un figlio». In realtà, già in quella pubblicazione, l'ipotesi veniva citata per essere subito smentita, in quanto, almeno nei Paesi più sviluppati, sarebbe accaduto proprio il contrario. La conferma di quella previsione arriva oggi con uno studio sul trend delle nascite nelle maggiori città del Nord Italia. In una tendenza generalizzata alla riduzione, a Milano s'è verificato un tracollo: tra novembre 2020 e gennaio 2021 (nel periodo in cui sono nati i piccoli concepiti durante il lockdown, nel trimestre marzo-maggio 2020) le nascite sono state 2.325. Negli stessi tre mesi di un anno prima, tra novembre 2019 e gennaio 2020, quando la pandemia non era ancora scoppiata, l'anagrafe di Milano aveva registrato 4.187 neonati: oltre il doppio. La recente contrazione «causa Covid-19» è stata massiccia: meno 55 per cento. Esaminando i dati raccolti nell'articolo "Impact of Covid-19 on birth rate trends in the metropolitan cities of Milan, Gena and Turin", elaborato dai medici del policlinico «San Martino» di Genova, si scopre che il calo delle nascite a Milano è stato molto più marcato rispetto alle altre due città prese in esame: a Torino infatti la riduzione è stata del 33 per cento (1.043 neonati a cavallo tra 2020 e 2021, contro i 1.579 dello stesso trimestre pre-pandemia); a Genova la tendenza è stata ancora più labile (meno 12 per cento). Le statistiche sono in linea con lo scenario complessivo che il presidente dell'Istat, Gian Carlo Blangiardo, aveva già definito nell'autunno scorso: «I 420mila nati registrati in Italia nel 2019, che già rappresentano un minimo mai raggiunto in oltre 150 anni di unità azionale, potrebbero scendere, secondo uno scenario aggiornato sulla base delle tendenze più recenti, a circa 408 mila nel bilancio finale del 2020, a causa di un calo dei concepimenti nel mese di marzo, per poi ridursi ulteriormente a 393 mila nel 2021». Il primo punto che gli studiosi mettono in evidenza è la ricorrenza storica di un calo delle nascite in seguito a grandi sconvolgimenti catastrofici (guerre, pandemie, eventi naturali). Il tasso di fertilità rimase ad esempio abbastanza stabile negli anni 1913-1918, ma ebbe un forte declino nel 1919, dopo che l'influenza «spagnola» dell'anno prima aveva ucciso circa 50 milioni di persone. Per spiegare il crollo della natalità dopo il Covid-19, nel recente articolo pubblicato sulla rivista Public health vengono chiamati in causa diversi fattori: «Il lockdown ha avuto un fortissimo impatto sul benessere della popolazione, portando un grave stress psicologico. Ansia, frustrazione e noia potrebbero aver compromesso l'attività sociale, ma anche la motivazione ad avere un figlio, così come potrebbero aver influenzato la sessualità». Gli stessi analisti riprendono però quel che appare l'aspetto decisivo, già ampiamente definito su Science nel luglio 2020: «Le chiusure causeranno pesantissime perdite economiche che avranno conseguenze per milioni di famiglie. E data l'irreversibilità della scelta di mettere al mondo un figlio, e i forti costi ad essa collegati, la disoccupazione e la riduzione delle risorse economiche ridurranno necessariamente il numero delle nascite. Tutto ciò è accaduto già con la grande recessione del 2008. In più, il grande senso di incertezza porterà molte coppie a posticipare la scelta di avere un figlio». Così è accaduto. Resta una domanda: cosa avverrà dopo? Ci sarà una ripresa? Dopo la «spagnola» e il seguente calo delle nascite, nel 1920 ci fu un baby boom, ma è difficile spiegare se furono gli effetti della ritrovata fiducia per la fine della pandemia o della prima guerra mondiale. 

Dagospia il 29 marzo 2021. Simon Kuper per “FT Weekend”. Sabato scorso ho preso un caffè con un amico che ho visto a malapena durante tutta la pandemia. Subito dopo esserci dati il gomito, ha orgogliosamente preso il telefono per mostrarmi i risultati delle sue analisi più recenti: il colesterolo era crollato perché aveva smesso di mangiare fuori; era contento di non socializzare, e quando la sera precedente era stato invitato a due cene “illegali” ha detto di non poter partecipare perché doveva rimanere a casa a guardare Netflix. È stato piacevole incontrarci, ma in meno di un’ora avevamo finito gli argomenti e ci siamo inventati delle scuse per tornare a casa e goderci la beata solitudine. Durante la pandemia al centro dell’attenzione ci sono state giustamente le persone che hanno sofferto: i morti, le persone in lutto, quelle lasciate sole, i depressi, disoccupati, impoveriti, le donne malmenate dai propri partner, i genitori intrappolati dalle infinite lezioni online dei figli e i ragazzi che vedono la loro gioventù passare senza poterla utilizzare. Ma c’è anche una verità nascosta che raramente si vuole scoprire: molti di noi sono molto più felici grazie alla pandemia. Ora, mentre i vaccini promettono un ritorno alla vita normale, non siamo più sicuri di volerla. Il sondaggio annuale sulla felicità globale di Ipsos, che nel periodo tra lo scorso luglio e agosto ha intervistato 20.000 adulti in 27 paesi diversi, ha riportato delle conclusioni interessanti: il 63% delle persone hanno detto di essere felici, solamente un punto percentuale in meno rispetto al 2019. Questo è in linea con il solito declino annuale: la percentuale di persone che dicevano di essere felici è calato di 14 punti globalmente tra il 2011 e il 2020; con cali vertiginosi in Messico, Turchia, Sud Africa, Argentina, Spagna e India. La perdita dell’anno scorso non sembra essere molto determinante, visto che le fonti di felicità più citate provenivano dal privato: “la mia salute/benessere”, “la mia relazione con il partner” e “i miei figli”. Allo stesso modo, Meike Bartels, professoressa di genetica e benessere alla VU di Amsterdam, ha paragonato i dati di sondaggi condotti su 5.000 persone pre-pandemia con i dati circa 18.0000 persone durante il periodo Covid-19 e ha trovato una considerevole minoranza, circa una persona su cinque, che riportavano “livelli incrementati di felicità, ottimismo e significato nella vita”. La pandemia ha semplificato molte vite “impegnate e complicate” ha rivelato Bartels a Horizon, la rivista Europea sulla ricerca e innovazione: “alcune persone hanno realizzato che probabilmente non conducevano la vita che volevano [e hanno] passato più tempo a casa con le proprie famiglie – ricevendo un po’ di sollievo dallo stress quotidiano”. Il gruppo dei “felici” potrebbe essere anche più grande di quanto riportato, visto che ammettere di essere felici durante una pandemia è considerato socialmente inappropriato. Sarebbe troppo facile elencare tutti quelli felici come “privilegiati” o accusarli di far parte di una “elite”, ed è un ragionamento contestabile. Pensate a tutti i dipendenti che sono stati liberati da lavori e capi che odiavano e – specialmente in Europa – che ora sono pagati per restare a casa. Nel sondaggio sullo stato della felicità globale di Gallup del 2017, solo il 15% degli impiegati in 155 paesi diversi dichiaravano di sentirsi appassionati nei propri lavori; due terzi non erano appassionati, e il 18% erano attivamente disinteressati e “risentiti del fatto che i loro bisogni non fossero soddisfatti, aumentando la loro infelicità”. La pausa di un anno potrebbe essersi rivelata un sollievo per tutti coloro che l’antropologo David Graeber chiama “bullshit jobs” che non contribuiscono alla società in modo significativo: i “tirapiedi” il quale compito è solo di far sentire gli altri importanti, o “scagnozzi” dei call center che vendono prodotti inutili. Queste persone sono state liberate dal compito di programmare la vita di altri, senza contare le vittime di una fonte di miseria speso sottovalutata: fare il pendolare. Secondo il Britain’s Office for National Statistics, in un sondaggio del 2014 su 60.000 persone “i pendolari hanno un livello di soddisfazione di vita più basso della media, un minor senso del valore delle proprie attività giornaliere, livelli inferiori di felicità e livelli di ansia più elevata rispetto ai non pendolari.” Però coloro che continuano a fare i pendolari durante la pandemia stanno traendo benefici dalle strade vuote e dai treni meno affollati. Molte persone nei paesi più sviluppati hanno tagliato i costi dei pasti fuori e delle vacanze. Il tasso di risparmio personale negli Stati Uniti ha raggiunto il picco record del 32.2% lo scorso aprile, e da allora in poi è rimasto considerevolmente più alto rispetto al periodo pre-pandemia. Coloro che non devono avere a che fare con la didattica a distanza o lavorare in terapia intensiva hanno soprattutto ricevuto il dono del tempo. Quest’anno ho occasionalmente provato una nuova sensazione poco familiare: il non dover fare niente di urgente. La vita in società è innaturale, complicata e sovrastimolante. Per la prima volta abbiamo a disposizione delle alternative quasi completamente virtuali: lavoro, socializzazione, shopping, consegne di cibo e anche sesso. Alcune persone non vorranno mai più tornare indietro. L’altra sera ho dovuto attraversare Parigi dopo il coprifuoco per un evento di lavoro. Risentito di avere alterato la mia piacevole routine serale, mi sono reso conto di essere diventato un animale abitudinario. Quando sono stato costretto a condividere lo spazio con sconosciuti in metro mi sono autodiagnosticato con una leggera forma di agorafobia e quello che gli psicologi stanno chiamando “ansia da rientro”. Vorrei mantenere certe abitudini prese durante la pandemia, come passare un giorno intero del weekend dentro casa. Ma ho il sospetto che presto ricascherò nel vortice pre-Covid.

Un anno di Covid: i danni ad oggi e quelli che vedremo nel tempo. DATAROOM di Milena Gabanelli e Giuditta Marvelli su Il Corriere della Sera l'1/3/2021. Dopo un anno esatto di pandemia l’azienda Italia tira le somme. Il Prodotto interno lordo nel 2020 è diminuito dell’8,8%, dice l’Istat. Sono circa 160 miliardi di euro in meno rispetto al 2019. Vuol dire che ognuno di noi ha «perso» 2.600 euro di Pil. Se tutto va bene nel 2021 la ricchezza nazionale risalirà del 3-4%. La più ottimista è Standard & Poor’s: +5,3%. In ogni caso non basta per tornare dove eravamo prima. Ci saremo forse nel 2023. Tutto il mondo ha perso vite umane e Pil, ma, nota Ref ricerche, c’è chi ha preso la botta in una situazione di forza e chi paga debolezze antiche. La ricchezza della Germania, pandemia compresa, negli ultimi 25 anni è cresciuta comunque del 30%, il nostro incremento dal 1995 ad oggi è zero.

Famiglie, meno reddito e più risparmio. Nel 2020 per le famiglie mancano all’appello 29 miliardi di euro di reddito e 108 di consumi. Chi invece non ha perso reddito ha risparmiato, visto che molte spese sono «vietate» dal distanziamento fisico. Così la propensione a «metter via» è passata dal 9 al 16%: sui conti correnti delle famiglie sono finiti 84 miliardi in più rispetto al 2019 (un record storico) e ora il totale viaggia a 1.200 miliardi (Direzione Studi e Ricerche di Intesa Sanpaolo). Dentro questi dati medi si nascondono disagi e disuguaglianze in aumento. Un terzo delle famiglie dichiara di aver subito una diminuzione di reddito, il 15% denuncia decurtazioni delle entrate pari al 25%. E crescono le situazioni di grave indigenza: secondo l’indagine Caritas il peso dei nuovi poveri è passato dal 31 al 45% nell’ultimo anno.

Come è cambiata la spesa nei lockdown? Con meno occasioni di stare in pubblico non si comprano vestiti e scarpe, e questi tagli hanno comportato per il settore un meno 23%. Si rinuncia ai viaggi (-63%), alberghi (-47%), tempo libero (-46%). Per le città d’arte, orfane dei turisti, i cali degli scontrini battuti nei negozi sono vertiginosi, con punte del 56% a Firenze e del 53% a Venezia (osservatorio Cofimprese Ey). È invece salita del 18,9% la spesa per tablet e computer e del 4,7% quella per piccoli elettrodomestici, +2,8% per gli alimentari e +2% quella per telefonia e servizi digitali (stime Prometeia su 192 settori).

Imprese, la resistenza della manifattura. Le imprese italiane, tra servizi e manifattura, fatturano circa 3.100 miliardi euro. Ne hanno persi circa 400, di cui 200 a carico delle imprese chiuse per decreto (Cgia di Mestre). Nella classifica c’è un segno meno anche sui settori più resilienti, dove ai primi posti troviamo alimentare (-3,4%) e farmaceutico (-1,2%). Nella distribuzione c’è un vincitore assoluto: il commercio di beni online: +34% (Prometeia). Chi in assoluto invece ha perso di più è il settore della musica dal vivo (concerti): -97% (Assomusica). I ristoranti hanno lasciato sul piatto il 34% del fatturato mentre cinema, teatri, agenzie di viaggio, palestre, ben il 70% (Cgia Mestre). Qualche segnale positivo arriva dalla manifattura, dopo aver perso il 9% nell’intero 2020, l’export è in crescita del 3,3% soprattutto nei metalli, autoveicoli e alimentari. A gennaio di quest’anno l’indice Pmi, che misura le intenzioni dei manager addetti agli acquisti per il manifatturiero, mostra un’attività in espansione. Nel terziario, invece, la notte resta buia. Ora le aziende, anche le meno colpite, sono più indebitate. Hanno chiesto un 8,5% di prestiti in più rispetto a dicembre 2019 (stima Csc), non per fare investimenti ma per arginare l’emergenza. E così hanno gonfiato, come le famiglie, conti e depositi: 88 miliardi in più rispetto a un anno fa. Tra il 2018 e il 2019 l’incremento era stato di 20 miliardi (stima Intesa Sanpaolo).

Lavoro, più colpite le donne. La disoccupazione è al 9% contro il 7,6 medio dell’Ue, un dato «drogato» dalle misure per evitare il peggio. Il blocco dei licenziamenti, insieme al dispiego di 4 miliardi di ore di cassa integrazione – venti volte la media degli ultimi tre anni per un totale di 7 milioni di lavoratori coinvolti (uno su tre) – ha aiutato soprattutto i contratti a tempo indeterminato. Penalizzati precari, giovani e donne. Gli occupati tra i 25 e i 34 anni sono in calo del 4,4% e gli inattivi, categoria anticamera della disoccupazione, crescono dell’8,3. L’Istat ha certificato che il 70% dei 444 mila posti scomparsi nel 2020 sono femminili. Perché si concentrano tra alloggio, commercio ristorazione e tempo libero, ambiti ad alta occupazione rosa (Ref Ricerche). Una nota positiva: lo smart working (+82% nel 2020) ha limitato (o escluso) il ricorso alla Cig nelle aziende che hanno potuto utilizzarlo.

Gli effetti a lungo termine. Anche sbagli e lentezze hanno un valore nel grande bilancio della pandemia. Confcommercio calcola che la settimana in più in «rosso» della Lombardia, dovuta a errori statistici, sia costata 200 milioni di giro d’affari in meno per Milano e 600 per la Regione. Poi ci sono i danni che si vedranno tra qualche tempo, con la fine delle moratorie. Banca d’Italia mette in guardia da un rischio di crescita dei fallimenti: 2.800 in più entro il 2022, a cui se ne potrebbero aggiungere 3.700 stoppati nel 2020 dagli aiuti pubblici. Tra le più vulnerabili ci sono le imprese molto piccole, di cui l’Italia è piena: quelle in crisi nera sono 292 mila (indagine Istat). Tolto il divieto di licenziare, il bilancio dei posti di lavoro sacrificati potrebbe aggirarsi su cifre ben più alte: tra 1,2 e 1,4 milioni (stime Ey su dati Ocse). E ancora il crollo del Pil, che è il parametro di rivalutazione delle pensioni calcolate con il metodo contributivo, peserà sugli assegni dei futuri pensionati: 99 euro al mese per chi oggi ha 50 anni (stime Progetica). Mentre i ragazzi della didattica a distanza rischiano che eventuali deficit formativi si trasformino in un handicap reddituale. Secondo una stima della Fondazione Agnelli parliamo di 21 mila euro a testa di reddito in meno per 8,4 milioni di studenti nell’arco dei futuri 40 anni di vita lavorativa.

Che cosa ha fatto lo Stato. Il governo ha potuto accollarsi più spese, grazie alla sospensione dei vincoli di bilancio Ue. Il debito pubblico è salito di 160 miliardi e vale il 157% del Pil, un anno fa era al 134%. La spesa pubblica nel 2020 è stata pari a 870,74 miliardi, il livello più elevato degli ultimi dodici anni. Nell’audizione davanti alle Camere del 20 gennaio il Mef ha riepilogato i sostegni a famiglie e imprese nel 2020: 108 miliardi di euro a cui aggiungere 150 miliardi di prestiti garantiti e 300 miliardi di crediti sospesi. Cifre su cui riflettere: in tempi «normali» una manovra finanziaria mette sul tavolo 30 miliardi. Ogni mese di eventuale slittamento della campagna vaccinale (...) vale 4,7 miliardi di mancato recupero dei consumi.

Quando il debito aiuta. All’orizzonte, ora, ci sono i 209 miliardi del Next Generation Ue. In gran parte, 127 miliardi, si tratta di altri debiti. Che però potrebbero raddrizzarci, essendo subordinati a progetti di crescita: dalla digitalizzazione alla transizione verde, dalla modernizzazione delle infrastrutture strategiche all’istruzione. Per sboccare questi soldi l’Europa impone anche le note riforme di cui l’Italia ha bisogno da decenni (giustizia, pubblica amministrazione, fisco), ma che non ha mai fatto. Al netto di una guerra efficace al virus. Ogni mese di eventuale slittamento della campagna vaccinale, calcola Confesercenti, vale 4,7 miliardi di mancato recupero dei consumi, fondamentali per rimettere in moto l’economia.

·        Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

Alessandro Mondo per "la Stampa" l'11 novembre 2021. Aumentano i contagi e i ricoveri. Un rilancio, quello del virus mai domato, che ha implicazioni non soltanto sanitarie, dirimenti, ma economiche. Vale per le degenze nelle terapie intensive, nelle subintensive e nelle Medicine di urgenza degli ospedali. Nessun confronto con le prime, devastanti ondate della pandemia: certo. Ma nelle rianimazioni e nei reparti tornano ad affluire i malati. Non pazienti «normali»: pazienti Covid, più e meno gravi, bisognosi di trattamenti sofisticati, con costi proporzionali. Singapore - dove dall'8 dicembre chi non si vaccina per scelta, e si ammala, dovrà pagare di tasca propria le spese mediche - è lontana. Distanza culturale, più che geografica. Così pure la Turingia, dove il presidente, Bodo Ramelow, ha minacciato di non curare più chi non accetterà la somministrazione del vaccino, se dovesse salire eccessivamente la pressione sulle strutture sanitarie. Una scelta precisa, nel primo caso, una minaccia nel secondo. Nessun dubbio, invece, che i trattamenti per strappare alla morsa del Covid chi ne è stato colpito impattano in termini di spese, oltre che per la pressione sulle strutture sanitarie. Una breve ricognizione sui costi delle degenze in terapia intensiva alla Città della Salute di Torino, tra le maggiori aziende ospedaliero-universitarie in Italia e in Europa, rende l'idea. Come riferimento per stimare il costo medio dei ricoveri è stato preso il periodo marzo-maggio 2020, quando le rianimazioni erano completamente assorbite dai pazienti Covid. Numeri validi anche oggi. La differenza sta nel quadro assai più favorevole, che sovente si sostanzia in degenze più brevi. Maggioranza di non vaccinati Restando al dato dell'anno scorso, e prendendo come base una degenza di 9-10 giorni, è stato calcolato un costo medio pari a circa 2.800 euro al giorno. La cifra, scorporata, rimanda al costo del personale (circa 1.108 euro), ai farmaci e al materiale sanitario (circa 624 euro), ad attività sanitarie di supporto (circa 724 euro), più 320 euro di altri costi. Tutto questo, al giorno. Complessivamente parliamo di poco più di 28 mila euro. Moltiplicate questa somma per i 24 pazienti attualmente ricoverati nelle terapie intensive del Piemonte, 423 in Italia, e avrete una stima attendibile dell'impegno economico. «Naturalmente la durata del ricovero varia da paziente a paziente in base all'età, al quadro clinico e a un'altra serie di fattori - precisa il dottor Giovanni La Valle, direttore generale della Città della Salute -. La durata della degenza può arrivare a 25 giorni, così come risolversi in meno di una settimana». Resta la sostanza. A maggior ragione, considerato che il costo delle terapie intensive, dove oggi approdano prevalentemente persone non vaccinate, si somma a quello delle subintensive e dei ricoveri nei reparti ordinari. «Ogni livello ha un costo, in proporzione - aggiunge La Valle -: anche nelle Medicine di urgenza». Personale, farmaci, apparecchiature. Un altro capitolo, sempre per quanti hanno contratto il Covid, rimanda alla terapia con anticorpi monoclonali (a proposito: quelli di nuova generazione, in distribuzione nei centri di riferimento, sono stati testati in vitro per coprire anche le varianti). «Vanno somministrati in fase precoce, entro cinque-sei giorni al massimo dall'insorgenza dei sintomi, e in alcuni casi, ad esempio gli immunodepressi, a scopo preventivo - spiega il professor Giovanni Di Perri, primario di Malattie infettive all'ospedale Amedeo di Savoia di Torino -. Il fattore-tempo è imprescindibile. Si ricorre a questo genere di terapia proprio per evitare il ricovero: con una sola infusione il rischio si riduce dal 50 all'80 per cento». Il costo varia dai 1.500 ai 2 mila euro: 450 i pazienti già trattati in Piemonte, oltre 200 all'Amedeo.

Il Covid dietro le sbarre: dal panico alla rabbia delle rivolte. Sandra Berardi, attivista di Yairaiha Onlus, nel suo libro “Carcere e Covid” ha ripercorso puntualmente le condizioni di vita preesistenti nelle carceri, fino ad analizzare il ruolo dei media sulle rivolte di marzo 2020. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 novembre 2021. Tutto comincia dalle prime notizie di strani contagi, con tanto di morti, che avvenivano nella megalopoli cinese di Whuan. Ci sembrava una situazione lontana dai nostri occhi, un qualcosa che riguardava altrove. Esattamente come le carceri, quelle notizie apparivano come qualcosa che riguardassero altri. Ma poi quel qualcosa ha avuto dapprima un nome, il Covid 19, e infine ha riguardato anche noi. E come ogni cigno nero, la pandemia ha messo a nudo tutte le nostre fragilità e, nello stesso tempo, ha fatto emergere e poi “scoppiare” tutte quelle contraddizioni che riguardano le cosiddette istituzioni totali, tra le quali le nostre patrie galere.

“Carcere e Covid” il libro di Sandra Berardi

Ebbene, Sandra Berardi, attivista di Yairaiha Onlus che si occupa quotidianamente delle condizioni di vita dei detenuti, nel suo libro “Carcere e Covid”, da poco anche in versione cartacea edito da “stradebianchelibri”, ha ripercorso puntualmente le condizioni di vita preesistenti all’interno delle carceri, fino ad analizzare il ruolo dei mass media in merito alle rivolte del marzo del 2020.Interessante, per capire il vero motivo delle rivolte, è il capitolo relativo alla paura del virus dietro le sbarre. Sandra Berardi ricorda che le informazioni riguardo al Covid-19 sono entrate nei 189 istituti penitenziari italiani attraverso gli unici media disponibili e presenti in tutte le celle: radio e televisione e, in minima parte, quotidiani. «Immagino – scrive Berardi nel libro – l’ingresso delle prime, frammentarie, notizie tra gennaio e febbraio essere state seguite con disattenzione dalla popolazione detenuta. E immagino l’attenzione aumentare via via che le notizie divenivano più insistenti. E, assieme all’attenzione, immagino la paura trasformarsi in panico. Paura per i propri cari, innanzitutto. Paura per sé stessi e per i compagni di cella. Paura perché drammaticamente consapevoli della precarietà della sanità penitenziaria».

Le lettere dei detenuti ricevuti dall’associazione Yairaiha Onlus

Per aiutare alla comprensione del dramma psicologico dei reclusi, questo fondamentale capitolo del libro viene alternato dalle lettere dei detenuti che riceveva l’associazione Yairaiha Onlus. La maggior parte delle lettere sono denunce riguardante l’assistenza sanitaria e i tanti detenuti malati, con patologie che – una volta contratto il Covid – diventeranno mortali». Sandra Berardi spiega esattamente il panico in cui vivevano i detenuti. Il ruolo dell’informazione che creava allarme, le inevitabili restrizioni per ridurre i contagi. Chiusure totali. E per chi viveva dentro, inevitabilmente la paura si era amplificata a dismisura. Lo spiega bene. A differenza delle autorità elvetiche che hanno puntato al dialogo con i detenuti, evitando così il prevedibile acuirsi della tensione nella condizione eccezionale che si stava determinando, quelle italiane hanno imposto, di punto in bianco, le restrizioni.

La sospensione dei colloqui ha fatto precipitare la situazione

La goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le sospensioni dei colloqui. «L’unica relazione umana e affettiva concessa a chi è in carcere, con l’aggravante – sottolinea Berardi nel libro – di averlo comunicato quando i familiari erano già fuori i cancelli in attesa di entrare, con tutte le implicazioni anche emotive che tale attesa comporta già in condizioni normali. «Una notizia che ha aggiunto al panico provocato dalle notizie sul Covid senso di impotenza di fronte a eventi incontrollabili. E dal panico, dal senso di impotenza è sfociata la rabbia», chiosa l’attivista di Yairaiha Onlus.Per chi è a digiuno di carcere, è difficile comprendere quanto sia fondamentale questo passaggio del libro. In mancanza di conoscenza, è stato facile sfociare nella dietrologia, il complotto.

I media hanno rappresentato una situazione distorta

I soliti giornali, al servizio di taluni magistrati che dei teoremi giudiziari ne hanno fatto fonte di carriera, hanno parlato di rivolte organizzate dalla mafia per ricattare lo Stato. Il complottismo funzionale allo Stato di polizia. Nascondere i veri problemi, per ridurre i diritti. Forse, anche per questo gli stessi agenti d polizia penitenziaria si sono sentiti legittimati a reagire – a sangue freddo- con manganellate e pestaggi. Rivolte dove sono scappati i morti, dove giorni dopo si sono verificate le “mattanze” come a Santa Maria Capua Vetere. Tutto questo – tranne alcuni giornali come Il Dubbio, e ringraziamo Sandra Berardi per averlo sottolineato nel libro – è stato sottaciuto, mentre le trasmissioni come, ad esempio, “Non è l’Arena” di Giletti hanno creato le indignazioni sulle cosiddette “scarcerazioni”. Un capitolo, quest’ultimo, affrontato dal libro “Carcere e Covid”. Sandra Berardi ha ripercorso la dinamica di quella trasmissione, scandendo ogni particolare, facendo capire al lettore che si trattava di una vera e propria commedia, ma molto amara. Il messaggio fuorviante che è passato è stato questo: 300 boss di elevato spessore criminale appartenenti al circuito del 41 bis sono stati scarcerati! Il Dap non è in grado di gestire le carceri, i mafiosi sono tornati a casa, siamo tutti in pericolo! Una bufala, che però ha costretto l’ex ministro Bonafede a reagire con decreti emergenziali e restrittivi. Diversi detenuti malati sono rientrati in carcere. Alcuni di loro, hanno poi contratto il covid e sono morti. Il libro di Sandra Berardi va letto tutto, utile per la conoscenza. Un libro che racconta i fatti, evocando anche le parole di Fiammetta Borsellino, figlia del giudice ucciso brutalmente dalla mafia, dove parla di giustizia e non di vendetta. La verità è sempre rivoluzionaria, e in questo libro se ne comprende il motivo.

Il Covid dietro le sbarre. Giustizia all’italiana: agenti penitenziari vaccinati, detenuti no. Francesca Sabella su Il Riformista il 3 Febbraio 2021. «In considerazione dell’elevato stato di promiscuità che caratterizza la vita negli istituti penitenziari, cronicamente sovraffollati, e del conseguente pericolo di diffusione del contagio da Coronavirus, scrivo per sottolineare la necessità eminente di inserire la popolazione carceraria tra le categorie che dovranno ricevere per prime il vaccino». È la richiesta contenuta della lettera firmata dal presidente della onlus Carcere Possibile, Annamaria Ziccardi, e indirizzata al Ministro della Salute Roberto Speranza, al governatore della Campania Vincenzo De Luca, al commissario straordinario per la gestione dell’emergenza epidemiologica Domenico Arcuri, al guardasigilli Alfonso Bonafede e al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia. Il virus è entrato da mesi dietro le sbarre e la sua avanzata non pare arrestarsi. Nonostante ciò i detenuti non sono contemplati nel piano di vaccinazione. Dall’inizio della pandemia a oggi, in Campania sono stati registrati più di 600 casi di Covid tra i reclusi, solo 6.022 i tamponi eseguiti tra Secondigliano e Poggioreale dove le persone in cella ammontano rispettivamente a 1.147 e 2.019. I detenuti morti di Covid sono stati quattro. Tra gli agenti di polizia penitenziaria, invece, ci sono stati più di 800 contagiati e una vittima, mentre tra gli operatori sanitari (medici, infermieri, operatori socio-sanitari), si è registrato un solo morto a fronte di decine di casi di infezione. Sono questi i dati raccolti dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Attualmente in Campania ci sono attualmente i positivi sono 23: uno a Poggioreale, due a Santa Maria Capua Vetere e 19 a Secondigliano; a loro se ne aggiunge uno ricoverato al Cotugno. Inoltre ci sono circa 70 contagiati tra agenti di polizia penitenziaria e personale sanitario. Negli istituti di pena italiani, invece, sono circa 600 i detenuti positivi al virus e 652 i contagiati tra il personale dell’amministrazione penitenziaria. È notizia di questi giorni anche il focolaio scoppiato nel carcere romano di Rebibbia: sono 104 i detenuti positivi di cui cinque ricoverati in ospedale. I numeri crescono e i reclusi non sembrano avere alcuna priorità, al contrario degli agenti della penitenziaria. «Incredibilmente – scrive Ziccardi – è stata predisposta la vaccinazione solo per il personale delle carceri. Il non aver attribuito alla vaccinazione dei detenuti alcuna priorità appare estremamente grave poiché è stato affermato che la vaccinazione è ispirata a principi di equità, reciprocità, legittimità, protezione e promozione della salute». Nulla da fare, quindi, per i reclusi, almeno per il momento: «In ragione di quanto esposto – conclude la Ziccardi – si invita alla modifica e implementazione del piano strategico dei vaccini. Implementazione improcrastinabile per i detenuti over 60. Ricordando che la popolazione carceraria è sotto la custodia dello Stato che ha l’obbligo di salvaguardarne l’integrità fisica con tutte le conseguenze che ne derivano in termini di responsabilità politica e giuridica».

Il rapporto sullo stato dei diritti. Carcerati, stranieri e rom: quanto è costato il Covid agli emigrati. Angela Stella su Il Riformista il 15 Ottobre 2021. Presentato ieri da A Buon Diritto e dalla Chiesa Evangelica Valdese il “Rapporto sullo stato dei diritti in Italia”, che traccia una panoramica sullo “stato di salute” dei diritti nel nostro Paese. Diciassette capitoli, ognuno dei quali racconta un diritto e una storia di donne e uomini che si sono battuti per affermarlo. Nell’aggiornamento di quest’anno, i ricercatori e le ricercatrici si sono concentrati sull’impatto del Covid-19 sulla vita quotidiana e sulla sfera dei diritti, con ripercussioni in ambito sociale, educativo, economico, lavorativo. Un capitolo di interesse è quello dal titolo “Prigionieri” e fa riferimento a tutte le persone private della libertà personale nelle carceri e nei centri di permanenza per i rimpatri. In particolare «l’emergenza pandemica è intervenuta in una situazione penitenziaria già “strutturalmente emergenziale”, caratterizzata cioè da un grave sovraffollamento protrattosi ormai almeno dal 2015. Come ben ricostruito da Antigone, a fine febbraio 2020 le 190 strutture penitenziarie italiane contavano 61.230 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 50.931 posti, con un affollamento superiore al 119,4%». Poi grazie al Decreto Cura Italia e alla circolare del Dap del 21 marzo 2020 si è determinata una «riduzione non irrilevante della popolazione detenuta, che a fine aprile raggiungeva la quota di 53.904, scesa poi a luglio – per effetto dell’applicazione a giugno delle misure provvisorie – a 53.619, con un tasso di affollamento del 106,1%». Alla circolare del Dap è dedicato un sotto paragrafo: «diversamente dal d.l. Cura Italia prescindeva dal titolo del reato ai fini della concessione del beneficio, muovendosi dunque in una logica essenzialmente sanitaria» e «ha suscitato forti critiche, soprattutto a seguito della scarcerazione di Pasquale Zagaria», di cui avete letto molto su questo giornale. «Le polemiche scaturite da questa decisione giudiziale – criticata anche dal presidente della Commissione antimafia – hanno indotto il DAP al ritiro della circolare. In realtà, l’infondatezza delle critiche ben può apprezzarsi considerando che la circolare altro non disponeva se non l’applicazione di una disciplina di ordine generale, una norma di civiltà, che coniuga il diritto fondamentale alla salute – che fa parte di quell’irrinunciabile “bagaglio di diritti” che, come ha precisato la Consulta, il detenuto non dismette». In conclusione, «nessuna condizione più di questa emergenza pandemica, ormai destinata a durare lungo, potrebbe insomma motivare una revisione, tanto radicale quanto strutturale (e perciò da acquisire al sistema a regime e al di là della contingenza del momento) dell’ordinamento penitenziario (e dello stesso sistema penale), fondata su di una visione meno carcero-centrica e meno panpenalista, che sappia scommettere su misure extramurarie». Le difficoltà di gestione della pandemia hanno aggravato anche il settore del governo del fenomeno migratorio «che già precedentemente soffriva di carenze ed emergenze ormai cronicizzate. Una delle misure maggiormente critiche adottate nel contesto pandemico è quella del trasferimento coattivo su “navi quarantena” di migranti già titolari di protezione umanitaria, richiedenti asilo o comunque regolarmente soggiornanti da tempo sul territorio, per effetto del solo dato della positività al virus. I tempi dell’isolamento su queste navi «sono stati spesso ingiustificatamente protratti fino a un mese», e i tentativi di fuga sono «costati la vita ad almeno tre migranti». Anche nel 2020 l’Unione Europea resta la grande assente per quanto riguarda le questioni migratorie e il diritto di asilo. «Le proposte di Bruxelles illustrate nel Patto europeo su immigrazione e asilo sono un compendio di tutte le scelte fallimentari degli ultimi vent’anni. Al contrario, il Parlamento italiano ha approvato una serie di modifiche interessanti al quadro normativo su immigrazione e asilo che meritano attenzione: il 21 ottobre il Consiglio dei Ministri ha licenziato il Decreto Legge 130/2020 che ha modificato alcune disposizioni dei due Decreti Sicurezza». Tra le persone particolarmente colpite dagli effetti della pandemia anche i cittadini di origine rom e sinta «che già vivevano in situazioni alloggiative, lavorative e sanitarie svantaggiate. Molte non sono in possesso di mezzi di trasporto hanno avuto difficoltà anche solo a effettuare il minimo approvvigionamento di beni di prima necessità». In condizioni ancor peggiori si sono trovati coloro che vivono negli insediamenti irregolari, dove già mancano le condizioni minime di igiene e non c’è accesso all’acqua potabile. Contesti in cui il diritto alla salute era già precluso prima della pandemia. Ai problemi sanitari si sono sommate le difficoltà scolastiche, visto che molti bambini e ragazzi che vivono nei campi hanno scarso accesso a supporti tecnologici». Angela Stella

·        La Sanità trascurata.

Gianna Fregonara per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2021. Neppure l'emergenza Covid ha convinto i giovani medici a scegliere per la loro vita professionale specialità come la medicina d'urgenza e la rianimazione, che in questo ultimo anno e mezzo sono state fondamentali per limitare i danni della pandemia e salvare molte vite. Quest'anno c'erano a disposizione 17 mila borse di studio quinquennali per gli specializzandi che cominceranno i corsi il primo novembre. Un numero molto maggiore rispetto al passato - quasi il doppio se paragonato a due o tre anni fa. Ne sono rimaste 1.300 non assegnate o rifiutate. Una parte verrà probabilmente recuperata scorrendo la graduatoria tra gli esclusi e i posti che ancora rimarranno vuoti verranno messi a bando di nuovo il prossimo anno. Ma il dato che più colpisce è che il maggior numero di «buchi» riguardi le specializzazioni del Covid: per i medici di pronto soccorso su 1.077 borse ben 456 sono rimaste senza titolare; per gli anestesisti e rianimazione ce n'erano 2.100, ne sono rimaste 166 e persino per microbiologia e virologia ne sono avanzate 76. Se a questo si aggiunge che anche tra chi ha accettato il posto di medicina d'urgenza c'è un 15 per cento che lo ha fatto per fare esperienza e il prossimo anno proverà a passare ad un altro campo, la situazione è drammatica. È ormai da qualche anno che al momento di scegliere, i giovani medici preferiscono cardiologia, oftalmologia, otorinolaringoiatria, professioni «ambulatoriali». Un tema che è ben noto anche alla ministra dell'Università Cristina Messa, che è medico e aveva già lanciato l'allarme su questo nuovo fenomeno che rischia di lasciare vuoti molti posti chiave negli ospedali già nei prossimi anni, quando tra l'altro è attesa un'ondata di pensionamenti senza un adeguato numero di specializzati per garantire il turn-over. «I giovani sono disincentivati a scegliere la specializzazione in pronto soccorso o rianimazione perché è un lavoro molto gravoso che non è riconosciuto. Anzi - spiega Salvatore Manca presidente della Società italiana della medicina di emergenza-urgenza (Simeu) - negli ultimi tempi sono aumentate le aggressioni da parte dei malati e dei parenti che costituiscono un preoccupante rischio per tutti noi». In più, ad ascoltare i rianimatori, non c'è un riconoscimento che si tratti di una professione «usurante»: «E per giunta i medici di medicina d'urgenza - continua Manca - sono gli unici che non possono fare libera professione intramoenia». Responsabilità, pressione, fatica, difficoltà a fare carriera: sarà anche tutto questo ma già lo scorso dicembre lo studio dell'Anaao-Assomed segnalava che negli ospedali mancavano 3.000 anestesisti rianimatori per garantire la normale attività.

Sanità, dove rischia il piano Marshall. Gloria Riva su L'Espresso il 10 agosto 2021. Centinaia di nuovi ospedali e presidi territoriali da costruire. Decine di migliaia di infermieri da assumere. Ma ammodernare il sistema vuol dire rivoluzionarlo. La rivoluzione sanitaria italiana passa attraverso la realizzazione di 1350 presidi territoriali e 381 nuovi ospedali. Un gigantesco investimento edilizio che, se non sarà accompagnato dall’assunzione di almeno 33 mila infermieri, sarà totalmente inutile. Il problema è che i nuovi ingaggi non potranno essere effettuati sfruttando i 20,23 miliardi messi a disposizione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, Pnrr, così come impone l’Europa, al contrario dovranno essere a carico del bilancio pubblico che (per il momento) non ha a disposizione il denaro necessario. Ma andiamo con ordine. Il piano Marshall sanitario ha due obiettivi: trasformare i servizi territoriali e modernizzare la rete ospedaliera. La parte più semplice del piano dovrebbe essere proprio la riqualifica degli ospedali, ma non sarà facile capire su quali puntare: «Se due ospedali su tre hanno raggiunto un sufficiente livello di specializzazione, utile ad affrontare nel modo più corretto le patologie e le urgenze sanitarie, non si può dire lo stesso del restante 30 per cento, che non raggiunge una casistica minima di interventi. Questo significa che il venti per cento della popolazione viene curato in ospedali privi della competenza minima per affrontare, ad esempio, un infarto, un carcinoma, un parto», spiega Francesco Longo, ricercatore del Cergas Bocconi, centro di ricerca sullo stato di salute del Servizio Sanitario Nazionale. I più alti livelli di specializzazione, che si traducono in una maggiore qualità delle cure, si collocano per lo più al centro Nord, lasciando pressoché scoperto il Sud Italia, il che spiega anche l’elevata mobilità sanitaria di pazienti in fuga dai nosocomi del meridione. Nel Pnrr si punta a riqualificare i piccoli ospedali, dotandoli di nuove strumentazioni, senza però considerare le casistiche minime. In particolare vengono stanziati 1,19 miliardi per il rinnovo di 3.133 grandi apparecchi tecnologici - cioè tac, risonanze magnetiche, angiografi, macchinari per scintigrafie, radiografie, ecografie e mammografi - ma senza assicurare che queste nuove macchine offrano alcun miglioramento in termini di efficacia clinica. Perché se è vero che l’Italia ha un indice di obsolescenza dei macchinari fra i più alti d’Europa (il 79 per cento delle apparecchiature è vecchio), è altrettanto vero che possiede un numero di risonanze magnetiche e tac spropositato (il 160 per cento in più rispetto alla media europea, stando ai dati della Corte dei Conti) e che è anche il paese che le usa meno. «È quindi importante che questa nuova allocazione di risorse contribuisca ad aumentare la casistica minima degli ospedali e a sostenere la nascita di hub specialistici al Sud per accrescerne le competenze e contrapporsi alla mobilità ospedaliera. Al contrario, spalmando questi macchinari in modo orizzontale sulla struttura esistente si rischia di non far evolvere il sistema e di sprecare miliardi in tecnologie e nuovi padiglioni che non servono ad aumentare la qualità delle cure e la produttività del Ssn. Dovremmo avere meno apparecchiature tecnologiche, da usare di più», spiega Longo. In concreto questo vorrebbe dire sfruttare le apparecchiature fino a sedici ore al giorno per le visite nel regime di Servizio Sanitario Nazionale, stravolgendo i perimetri della pratica dell’intramoenia, ovvero la possibilità per i medici di fare diagnosi in attività libero professionale utilizzando le strumentazioni degli ospedali pubblici: «È uno scempio, macchine che costano milioni vengono usare solo per poche ore al giorno, di conseguenza gli ospedali le tengono per parecchi anni, diventando obsolete», commenta il professore. Rivoluzionare il sistema significa cambiare i modelli organizzativi e i turni di lavoro, i sistemi di incentivazione e le retribuzioni professionali per far funzionare i macchinari più ore al giorno. E questo si scontra con la scelta del 45 per cento dei medici - sono 11.616 professionisti - di esercitare la professione privata, sottraendo tempo alle visite per il Ssn e impedendo quindi di abbattere le liste d’attesa, che in epoca Covid-19 sono ulteriormente lievitate. I medici, dal canto loro, già lamentano di essere troppo pochi per sostenere i nuovi ritmi. Ad esempio, i radiologi hanno lanciato l’allarme, avvertendo che l’età media del personale è di 57 anni e c’è poca dimestichezza nell’utilizzo dei nuovi macchinari, mentre servirebbe assumere giovani che abbiano già le competenze per l’utilizzo delle apparecchiature: «Acquistare macchinari senza avere il personale medico per utilizzarli al meglio è come avere una fuoriserie senza un pilota capace di portarla in pista», avverte Corrado Bibbolino, segretario del Sindacato Nazionale Area Radiologica. A complicare ulteriormente la situazione, c’è il dato di fatto che nessun giovane medico vuole lavorare in un contesto periferico e infatti i concorsi negli ospedali di montagna e nelle aree interne vanno deserti. Risultato: si rischia di attrezzare presidi ospedalieri con strumentazioni potentissime, senza il personale in grado di farlo funzionare. Dunque, resta da districare il nodo di come rimettere sui giusti binari 270 piccoli e piccolissimi ospedali, tutti con meno di 120 posti letto e che, per altro, in base al Decreto ministeriale 70 del 2015, non dovrebbero neppure esistere: «Dovrebbero chiudere, per legge, soprattutto perché sono pericolosi», continua Longo. «Chi vi opera non ha una casistica minima di pazienti e non può assicurare cure efficaci per trattare un infarto, un cancro. Prima di stanziare finanziamenti a pioggia per riqualificare gli ospedali, sarebbe utile definire un nuovo modello organizzativo, raggruppando quelli esistenti in ospedali a rete (quindi senza chiudere alcun nosocomio, ma permettendo alle equipe di medici di ruotare tra le varie sedi per specializzarsi negli interventi) oppure accorpandoli e riducendoli in numero, come è successo in molte regioni, dall’Ospedale della Versilia in Toscana ai Castelli Romani in Lazio». Tuttavia la razionalizzazione non sembra essere una priorità del Pnrr, che al contrario punta a costruire nuove strutture senza relazionarle a quelle già esistenti. Ad esempio, in programma c’è la costruzione di 1.350 case della comunità e altri 1.200 ospedali di comunità, stando all’ultima versione del piano inviata a Bruxelles. Le Case della Comunità si ispirano al modello emiliano, veneto e toscano e sono pensate per rispondere a quel 38 per cento di italiani (23 milioni di cittadini) affetti da malattie croniche, come ipertensione, diabete, problemi respiratori, nefropatia e scompenso cardiaco: «L’idea forte del Pnrr è costruire una casa della comunità ogni 33mila abitanti, per farle diventare il perno della presa in carico dei pazienti cronici. All’interno di queste strutture operano il medico di medicina generale - che imposta la terapia - e gli infermieri di comunità, che monitorano costantemente i pazienti, avendo a disposizione dati e referti per verificare che le cure avvengano nel modo più corretto. La rivoluzione dovrebbe essere lo sviluppo di competenze digitali per gli infermieri, che si troveranno a maneggiare un’infinità di dati e informazioni utili per l’efficacia clinica», spiega il professore della Bocconi. Dovrebbero inoltre essere realizzati 1.200 ospedali di comunità con 24 mila posti letto territoriali, utili a rispondere ai bisogni sociosanitari degli anziani fragili. Si tratta di strutture a gestione infermieristica, con un medico presente per non più di tre ore al giorno: «L’investimento edilizio è significativo, ma rischia di essere inutile se non sarà affiancato dalla presa in carico orizzontale del paziente. Entro cinque anni il 25 per cento della popolazione avrà più di 65 anni, serve un sistema in grado di accompagnare le persone anziane e fragili da un nodo all’altro del sistema di assistenza, per evitare che, come spesso succede oggi, il paziente dimesso dall’ospedale venga abbandonato a se stesso». Infatti 280 milioni di euro del Pnrr sono stanziati per la creazione di 602 Centrali operative territoriali, dette Cot, composte da sei infermieri che accompagnano l’anziano alla riabilitazione, alla lungodegenza o verso le cure domiciliari: «Ma se si costruiscono soltanto i muri e non si crea una rete strutturata, allora si rischia di aggiungere soltanto una struttura a quelle già esistenti, creando ulteriore confusione, senza rispondere alle esigenze di sei milioni di cittadini, fra non autosufficienti, anziani e fragili». Resta poi da risolvere il nodo delle assunzioni, dal momento che Agenas, l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari, ha stimato che, per far funzionare gli ospedali di territorio e le Case della Comunità, sarà necessario assumere oltre 33mila infermieri (numero simile ai 36mila nuovi dipendenti assunti a tempo determinato per far fronte all’emergenza Covid-19), aumentando di un quinto il costo del personale infermieristico. In realtà, proprio gli stipendi dei dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, che complessivamente si aggirano attorno ai 35 miliardi l’anno, sono già ben oltre i limiti previsti dal tetto di spesa (ovvero 29 miliardi), che non sono comunque sufficienti per garantire cure di qualità, visto che il numero dei sanitari assunti con contratti precari è aumentato del 60 per cento nell’ultimo decennio. Inoltre le previsioni di Agenas potrebbero essere sottostimate, poiché, stando a un’analisi del Crea, Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità che fa capo all’Università Tor Vergata, bisognerebbe assumere fra i 162 mila e i 272 mila infermieri per stare al passo con la richiesta di cure sanitarie del paese: «Le prospettive di assumere e formare più personale nei prossimi anni, senza un’efficace politica retributiva, potrebbe rivelarsi un flop, determinando la fuga dei migliori professionisti verso sistemi sanitari che meglio li remunerano», commenta Federico Spandonaro, economista e presidente del Crea, che continua: «Dal punto di vista delle politiche sanitarie da mettere in atto per alleggerire la sofferenza del Ssn, potrebbe rivelarsi necessario trasferire alcuni compiti dal medico all’infermiere». Ma queste figure professionali, al netto del problema di dover aumentare le risorse annuali correnti per il Ssn, non sono oggi disponibili sul mercato. Pertanto il sistema universitario dovrà aumentare significativamente la propria capacità formativa, tema che a sue volte richiederà importanti investimenti nel sistema educativo, non ancora chiaramente disponibili. Infine c’è da definire l’utilizzo degli otto mila poliambulatori territoriali, sono uno ogni settemila abitanti, pochissimo usati, aperti due o tre giorni la settimana, che offrono pochi servizi, per nulla digitalizzati e in stato manutentivo precario. La scelta è fra costruire nuove strutture, consumando suolo verde e impattando ulteriormente su territori già cementificati, o riutilizzare i presidi, decidendo quali abbandonare e quali riqualificare. «Potrebbe essere l’occasione per fare un po’ di chiarezza nella rete dei poliambulatori, ma perché questo avvenga serve un mandato chiaro da parte del ministero della Salute per stabilire chi e come dovrà agire per riqualificarli, se le Regioni o le aziende sanitarie locali, anche per contrapporsi alle inevitabili spinte campanilistiche che invocano frammentazione delle strutture». 

Sanità: tac, risonanze ed ecografi obsoleti. Cosa si rischia e quali macchine evitare. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 30 giugno 2021. Per la diagnosi delle malattie gravi i macchinari andrebbero sostituiti dopo 5 anni. Dall’ultimo rapporto del ministero della Salute risulta che in Italia in media negli ospedali pubblici e privati convenzionati il 36% dei macchinari ha più di 5 anni e il 32% oltre 10. Le ragioni sono note: attrezzature obsolete espongono il paziente a più radiazioni e a diagnosi meno precise. L’obsolescenza incide anche sui tempi di indisponibilità delle apparecchiature per l’aumento dell’incidenza dei guasti e malfunzionamenti con tac, risonanze e mammografi: ambulatori che si fermano e costi di manutenzione che crescono (il documento della Corte dei Conti del 2017). 

Macchina vecchia e macchina nuova: differenze

L’Associazione italiana degli ingegneri clinici precisa che non esiste un riferimento univoco su quella che dovrebbe essere l’età di riferimento dei macchinari e che, per ciascuna tipologia, occorre fare valutazioni specifiche. In ogni caso da una lunga lista di esempi elaborati dall’Aiic per Dataroom emerge che:

1. la differenza di radiazioni fra una Tac con meno di 10 anni di vita e una di ultima generazione arriva fino all’80%; l’esame si svolge più rapidamente per la velocità di rotazione del tomografo e la diagnosi è più approfondita per la capacità del macchinario di vedere meglio il cuore tra un battito e l’altro, come pulsa il cervello (neuroperfusione) e di individuare con estremo dettaglio le lesioni oncologiche.

2. Una risonanza magnetica all’avanguardia dà una migliore qualità di immagini in tempi inferiori e un maggiore comfort perché diminuisce il senso di claustrofobia del paziente.

3. Un mammografo con meno di 5 anni permette di effettuare biopsie in 3D più precise perché l’immagine viene ottenuta con la tomosintesi, ossia la mammella viene vista da diverse angolazioni grazie a un’acquisizione a strati: ciò consente di esaminare parti di tessuto che altrimenti rischiano di essere nascoste.

4. I nuovi acceleratori lineari per la radioterapia irradiano la parte malata con più precisione salvando i tessuti sani. Inoltre permettono di utilizzare le nuove tecniche di radioterapia a intensità modulata, che significa subire una minore dose di raggi e una netta riduzione dei tempi di trattamento nelle sedute. 

Oltre 3 000 macchinari da sostituire

Una parte dei soldi del Recovery Fund, 1,19 miliardi, saranno investiti proprio nel rinnovo parco-macchine. Il ministero della Salute ha chiesto alle Regioni quanti e quali macchinari con oltre 5 anni d’età hanno bisogno di sostituire negli ospedali pubblici. Il quadro venuto fuori? Da cambiarne complessivamente 3.162 fra tac, risonanze magnetiche, angiografi, macchinari per scintigrafie, radiografie, ecografie e mammografi. Nel dettaglio di tratta di 1.284 grandi apparecchiature su 7.753 (17%) presenti negli ospedali pubblici, che è il numero complessivo che risulta dai dati 2021 dell’Inventario nazionale delle grandi apparecchiature. E sono: 344 nuove tac su 2.219, 191 risonanze magnetiche su 1.330, 83 acceleratori lineari per la radioterapia su 575, 197 angiografi su 1.020, 82 macchinari gamma camera per le scintigrafie su 443, 55 apparecchiature uniche per Tac e scintigrafie su 183, 34 pet su 208, e 298 mammografi su 1.775. Vanno aggiunte 947 macchine per le radiografie e 931 per le ecografie. 

Praticamente quasi l’intero fabbisogno indicato dalle Regioni sarà finanziato dal Pnrr (3.133 su 3162). Circa la metà sarà sostituita entro settembre 2023, il resto entro la fine del 2024. In Lombardia saranno finanziate 423 nuove apparecchiature, in Veneto 301, in Emilia Romagna 207, in Lazio 400, in Sicilia 214, ecc. Per comprare bene, a trattare gli acquisti per tutte le Regioni dovrebbe essere una sola centrale: la Consip.

Diagnosi con macchina vecchia o nuova, i rimborsi non cambiano

Intanto, che fine fanno le macchine vecchie? Normalmente le ritira chi consegna il nuovo. Oggi, dai dati Consip 2017-2020, su 1.934 apparecchiature consegnate, quelle vecchie rottamate sono state solamente 105. Che fine abbiano fatto le altre 1.829 è un’informazione non disponibile. Come non è disponibile dai dati ufficiali il numero di macchinari vecchi che stanno dentro alle strutture accreditate, e se li cambieranno. Pagando di tasca loro nessuno gli chiede di render conto. E questa è una inadempienza dell’erogatore, che rimborsa le prestazioni con denaro pubblico. E i rimborsi sono sempre gli stessi, sia che la diagnosi venga fatta con una macchina top di gamma, che una vecchia di 15 anni. In concreto: una risonanza magnetica fatta con un apparecchio obsoleto viene rimborsata circa 200 euro, esattamente come quella fatta con una macchina di ultima generazione. Questo vale per il privato quanto per il pubblico. Eppure non sarebbe complicato fare in altro modo, basterebbe copiare. La Francia, per incentivare l’adozione di tecnologie più avanzate, rimborsa di meno l’ambulatorio o l’ospedale che fa esami con strumenti di bassa gamma rispetto alla cifra definita. 

Macchine nuove, ma a pieno regime

L’occasione è storica, ma per non buttarla via gli ospedali devono organizzarsi meglio di come fanno ora. Nel convegno organizzato dall’associazione Dossetti e dedicato a questo tema, è emerso che le potenzialità di queste apparecchiature non sono sfruttate appieno: oggi ci sono reparti dove vengono fatte 2 risonanze magnetiche all’ora e altri dove se ne fa una ogni due. E in più i medici devono essere formati all’utilizzo di attrezzature molto sofisticate dal punto di vista tecnologico. Per avere una grande resa, occorre saperle far funzionare. Ma come fa un paziente a sapere se la sua risonanza o mammografia è stata eseguita con uno strumento obsoleto? Per ora può solo chiedere al medico o all’ospedale al momento della prenotazione dell’esame. Sarebbe utile creare delle mappe trasparenti di qualità delle strutture sanitarie sulla base delle tecnologie disponibili. Visti i costi alti (per una tac in media sono 500 mila euro, per una risonanza fino a 900 mila e per un mammografo fino a 300 mila) è irrealistico pensare di installare macchinari di ultima generazione nel piccolo ospedale che la utilizza una volta alla settimana. Di qui l’importanza delle scelte di chi decide cosa bisogna comprare, a che prezzo e dove metterlo. Vuol dire attuare quanto prevede la legge 53 dell’aprile 2021: l’istituzione di un Osservatorio nazionale che monitori e coordini gli acquisti nelle loro diverse declinazioni. Va fatto subito però, non dopo aver fatto gli acquisti.

Paolo Russo per "La Stampa" il 26 marzo 2021. Negli ospedali italiani come al Jurassic Park. Si perché con le sue 18 mila apparecchiature diagnostiche obsolete siamo tra i peggio messi in Europa. Ed è un bel problema per i pazienti che si sottopongono ad un accertamento con una tac o una risonanza troppo in là negli anni e per questo meno precisa di quelle di ultima generazione. Ma anche per quelli in lista di attesa, già rese interminabili dal Covid che ha fatto saltare il 37% degli esami programmati, ma ulteriormente allungate dai nostri macchinari arrugginiti. Che finiscono spesso per andare in manutenzione a tutto danno dell'offerta di prestazioni diagnostiche da parte di asl e ospedali. Ma anche dei loro bilanci, visto che alla lunga i costi di riparazione finiscono per superare quelli di acquisto. Lo sa bene il governo che nelle bozze del Recovery plan stanzia circa 3 miliardi per il rinnovo tecnologico delle strutture sanitarie, pubbliche e private. Ma lo percepisce anche il popolo degli assistiti, visto che l'84% ritiene "di primaria importanza" rinnovare il parco macchine e tecnologico ospedaliero, come rileva un'indagine condotta da "Community Research & Analisi". Perché i nostri ospedali sono vecchi fuori, visto che hanno in media più di 70 anni, ma anche dentro, come dimostra la fotografia scattata dall'indagine condotta dall'"Osservatorio parco installato" di Confindustria dispositivi medici. Nonostante qualche leggero miglioramento rispetto agli anni passati i dati mostrano quanto la modernità non sia ancora di casa nel nostro parco tecnologico ospedaliero. Prendiamo i mammografi. L'età media di quelli convenzionali è di 13,4 anni, quando non dovrebbero superare i sei, secondo gli standard di sicurezza e adeguamento tecnologico. Ma solo il 9% ha meno di 5 anni e l'84% supera comunque il limite anagrafico che darebbe diritto al pensionamento. Va un po' meglio per gli angiografi, le apparecchiature che servono a valutare lo stato dei nostri vasi sanguigni e delle coronarie. Insomma un esame importante, che nel 61% dei casi affidiamo a una strumentazione ormai obsoleta. La risonanza magnetica sappiamo tutti a cosa serve e quanto sia importante per diagnosticare in alcuni casi malattie che prese per tempo possono ancora essere sconfitte. Peccato che ben il 74% di queste apparecchiature abbia superato il limite di età che le rende non più al passo con i tempi. Anche perché parliamo di risonanze magnetiche con minor livello di precisione, secondo l'unità di misura Tesla, che in questo caso è pari a 1, mentre quelle tecnologicamente più avanzate arrivano anche oltre il valore di 3. Qui la percentuale di obsolescenza scende al 41%. Ma le risonanze "4.0" sono una rarità dei nosocomi italiani. Le Tac sono troppo in là negli anni in un caso su due (il 51% per l'esattezza). Anche in questo caso la percentuale si abbassa quando si va a contare l'età delle apparecchiature multistrato, capaci di vedere più in profondità dentro ossa e organi. Ma anche qui le tac più avanzate sono anche quelle meno diffuse. A volte per fare una diagnosi corretta basta una semplice radiografia. Peccato che se parliamo degli apparecchi radiografici tradizionali l'81% abbia superato il limite dei 10 anni di anzianità, oltre i quali si farebbe bene a sostituirli, mentre obsoleto è il 48% di quelli digitali, che più raramente si trovano nei nostri centri diagnostici. Quando pensiamo a una sala operatoria ci vengono in mente bisturi e chirurgo ma non immaginiamo quanta tecnologia ci sia. Ad esempio per monitorare i nostri parametri vitali con quei grandi macchinari, definiti in termini tecnici "sistemi mobili ad arco", obsoleti nel 57% dei casi. «Le tecnologie all'avanguardia - afferma Aniello Alberti, presidente di Elettromedicali e Servizi integrati - consentirebbero non solo una migliore capacità diagnostica, ma anche una maggiore velocità di refertazione, che potrebbe rivelarsi fondamentale una volta che i cittadini saranno meno impauriti dal Covid e riprenderanno a fare prevenzione e a curarsi senza timore di contagiarsi». Che è poi la vera sfida post-pandemica da vincere lanciando verso il futuro i nostri ospedali fermi all'era jurassica.

Il debito sanitario monstre che ingrassa le cliniche. Ecco il sistema Calabria. Walter Molino su L'Espresso il 9 marzo 2021. Bilanci truccati e contenziosi con i fornitori lasciati lievitare, così l’Asp di Cosenza sprofonda. Un metodo che ha fatto scuola, dice il procuratore. Coinvolti manager e politici. E la salute è una lotteria. Falsificavano i bilanci e quando potevano, neppure li presentavano. Sistemavano nei posti dirigenziali amici e clientes senza titoli. E chi doveva controllare, anche se era un commissario del governo mandato da Roma, preferiva girarsi dall’altra parte. Così il debito è cresciuto negli anni a dismisura, nessuno più è in grado di dire esattamente quanto. Benvenuti a Cosenza: l’Azienda Sanitaria Provinciale più grande della Calabria, che dovrebbe prendersi cura di quasi 700 mila cittadini, è ben oltre il limite del fallimento. Il buco è indefinibile, si aggira tra i 750 milioni e 1 miliardo di euro. Un altro mezzo miliardo pesano i contenziosi legali con aziende farmaceutiche, cliniche private e laboratori di analisi che prima fatturano senza autorizzazione prestazioni extra budget, ovvero oltre i tetti di spesa annuali stabiliti dalla Regione, e poi seppelliscono le tesorerie di ingiunzioni legali. Il procuratore Mario Spagnuolo lo ha chiamato “Sistema Cosenza” in un’inchiesta che fa tremare i polsi a un blocco di potere opaco e parassitario che da decenni succhia risorse vitali sottratte ai cittadini calabresi e demolisce un pezzetto alla volta il welfare sanitario della terra più dimenticata d’Italia. Spagnuolo ha lavorato due anni con un solo sostituto e due finanzieri e l’indagine non è ancora finita. Oltre ai massimi dirigenti dell’Asp sono indagati anche i controllori: l’ex commissario alla Sanità calabrese Saverio Cotticelli, licenziato in tronco nel novembre scorso perché neppure sapeva di dover fare il piano anti-Covid; il suo predecessore Massimo Scura, che davanti al Gip ha confessato di non aver mai visto un bilancio dell’Asp di Cosenza; Antonio Belcastro, per anni figura chiave della sanità calabrese, ex capo dipartimento e delegato regionale all’emergenza Covid. Sono stati tutti interdetti dai pubblici uffici, in attesa che si arrivi al processo. "Il sistema Cosenza è il sistema Calabria", dicono due degli indagati in un’intercettazione. Perché i protagonisti cambiano nel tempo e nei luoghi, ma le modalità rimangono le stesse. “L’Asp di Cosenza muove qualcosa come 2 miliardi l’anno e i bilanci che abbiamo esaminato sono falsi – spiega il procuratore Spagnuolo – Più andiamo avanti e meglio si delineano i profili dei protagonisti: oltre alle strutture private che vendono prestazioni sanitarie, ci sono politici, dirigenti e funzionari pubblici ma anche professionisti, importanti studi legali e società finanziarie fuori dalla Calabria”. Già perché il Sistema sazia anche i palati più raffinati, come quelli della finanza milanese: decine di società di factoring con sede in eleganti palazzi tra il Duomo e piazza Affari (e cassaforte rigorosamente nei paradisi fiscali) acquistano i crediti dalle strutture private a prezzo di saldo e lucrano interessi a due cifre approfittando del cronico ritardo nei pagamenti che all’Asp di Cosenza arrivano fino a 800 giorni. Secondo Bruno Santamaria, avvocato milanese che si è occupato a lungo delle truffe ai danni del sistema sanitario, “Il ritardo è il bene principale. Quando il credito rimane fermo matura degli interessi che nessun Bot o titolo azionario è in grado di garantire, con la certezza assoluta che quei soldi prima o poi li prendi. Con interessi anche del 50%”. Una clinica privata magari non può aspettare due anni per il pagamento di una fattura ma una società che si occupa di cartolarizzazioni, sì. È quello che ha pensato l’avvocato Enzo Paolini, politico di lungo corso e più volte candidato a sindaco della città, ma soprattutto presidente regionale di Aiop, l’associazione italiana dell’ospedalità privata. È lui che ha messo in contatto molte case di cura private con la 130 Servicing, società di intermediazione finanziaria che offre servizi a investitori istituzionali come banche, assicurazioni e fondi pensione. Negli uffici di via San Prospero, a Milano, hanno sede legale una galassia di società che hanno acquistato montagne di crediti dalle cliniche private calabresi. Alcune di queste cliniche fanno riferimento a politici come il Gruppo San Bartolo della famiglia del consigliere regionale Luca Morrone o la Casa di cura Cascini, di proprietà del sindaco di Belvedere Marittimo. Il Tribunale di Palmi ha stabilito che c’è incompatibilità tra le due cariche, ma lui ha vinto il ricorso e continua a indossare la fascia tricolore al mattino e il camice da dottore nel pomeriggio. In ogni caso il Municipio e la Casa di Cura distano poche decine di metri. “È venuta da noi una società milanese. Ci ha detto: vi compriamo le fatture che non vi sono state saldate. Ve le paghiamo al 50% - racconta Cascini sul filo dell’indignazione – Pochi, maledetti e subito. Lo capite o no che noi ci perdiamo un sacco di soldi?». Sarà, ma così le cliniche private incassano comunque una parte degli extra budget che non avrebbero potuto fatturare e le società di factoring vedono moltiplicarsi il più sicuro degli investimenti. Ricostruire il rapporto tra prestazioni erogate e fatture è quasi impossibile. Negli uffici dell’Asp di Cosenza nessuno sa dove (e se) vengono conservati i documenti contabili degli anni passati. Poi magari qualcuno – per dolo o per errore – chiede lo stesso pagamento due o tre volte di fila: la tesoreria non se ne accorge e l’ufficio legale non si presenta neppure in tribunale quando l’Asp viene citata in giudizio. Nella teoria dei giochi si chiama “win-win”, vincono tutti. Argo, Arrow, Astrea quattro, Tocai, Toro 1: i nomi delle società di factoring milanesi non dicono nulla, ma tutte hanno come rappresentante legale la stessa persona. Si chiama Antonio Caricato e da mesi sta tempestando l’Asp di Cosenza reclamando 19 milioni di euro di crediti acquistati dalle cliniche private. Ma a Cosenza non si raccapezzano: nella contabilità aziendale per 12 di quei 19 milioni di crediti non c’è traccia neppure di una fattura. La Corte dei Conti lo ha messo nero su bianco: “L’Asp di Cosenza non è in grado di identificare la matrice sulla cui base i pagamenti vengono liquidati. C’è il rischio di remunerare più di una volta lo stesso importo per il medesimo debito”. Intanto il totale dei pignoramenti ammonta a circa 300 milioni di euro. Ed è tutto legale. Anche che in poche settimane un debito dell’Asp da poche migliaia di euro cresca fino a 15 milioni. “E’ accaduto anche questo. Ma il vulnus è giuridico – spiega il procuratore Spagnuolo - Quando a un creditore è riconosciuto un titolo esecutivo si apre una procedura a cui possono accodarsi altri creditori, anche se il loro titolo non è stato ancora riconosciuto dal tribunale. Ma se l’Asp non si difende, il giudice le ordinerà di pagare tutti i creditori. Indistintamente”. Sarebbe curioso sapere chi c’è dietro quella galassia di sigle societarie che girano intorno alla 130 Services di Milano, ma gli investitori istituzionali preferiscono non comparire e la legge glielo consente. Lucrare sulle inefficienze della sanità calabrese non è un reato e neppure farlo a volto coperto. Le conseguenze dell’orrore però sono tutte sulla pelle di quei 700 mila calabresi che vivono nella provincia di Cosenza, la quinta per estensione territoriale in Italia, affacciata ai lati sul Tirreno e lo Jonio. Per esempio: se ti becchi un infarto a Praia a Mare, sul versante tirrenico, devi resistere per cinquanta chilometri di strada statale verso Sud fino all’ospedale di Cetraro, oppure puoi sperare di arrivare vivo fino a Castrovillari, che in linea d’aria sarebbe anche più vicino ma di mezzo c’è il massiccio del Pollino e i chilometri su e giù tra i tornanti di montagna diventano ottanta. Praia a Mare l’ospedale ce l’avrebbe anche, c’è perfino un Pronto soccorso, ma funziona a singhiozzo perché quello è uno dei diciotto ospedali che l’ex governatore Scopelliti decise di chiudere nel 2010. Per risparmiare. Cinque anni prima erano stati avviati tre grandi progetti per gli hub ospedalieri della Sibaritide, nella Piana di Gioia Tauro e a Vibo Valentia. Non ne è stato realizzato neppure uno anche se i lavori per quello della Sibaritide, a pochi chilometri da Rossano, sono stati inaugurati quattro volte, l’ultima nel novembre dell’anno scorso, con tanto di firme e foto di rito. Il provvedimento di chiusura di gran parte dei vecchi ospedali è stata giudicata illegittima dal Tar e dal Consiglio di Stato ma quelle sentenze sono da anni lettera morta. Sufficienti però ad organizzare una nuova inaugurazione in pompa magna. Era il 2017, l’allora Governatore Mario Oliverio tagliò il nastro benedetto dal vescovo e a braccetto con Raffaele Mauro, al tempo direttore dell’ASP e oggi tra i principali indagati del “Sistema Cosenza”. Poi, più nulla. Ma chi gode i frutti di questa desertificazione? A pochi chilometri da Praia a Mare c’è una bellissima clinica privata con Pronto soccorso, rianimazione e cardiologia. Si chiamava fino a poco tempo fa “Tricarico-Rosano”, ancora nel 2020 ha preso 13 milioni di euro dalla Regione per rimborsi di prestazioni sanitarie. Ma era già fallita con 100 milioni di euro di debiti. Gli storici proprietari sono stati condannati in primo grado per bancarotta fraudolenta: distraevano i finanziamenti regionali per acquistare beni di lusso. Adesso si chiama “Tirrenia Hospital”, l’ha comprata all’asta per appena 3 milioni Giorgio Crispino, noto imprenditore della sanità cosentina e unico offerente. Ma non c’è solo Praia a Mare. A Cariati un comitato civico occupa da mesi l’ospedale vuoto da più di dieci anni. Camere perfettamente integre, letti puliti, lenzuola profumate e perfino i riscaldamenti accesi. L’estate scorsa, per qualche imperscrutabile ragione, è stato rifatto anche l’impianto per la distribuzione dell’ossigeno. Tutto inutilizzato. Eppure, quando è iniziata la seconda ondata del Covid, a Cosenza è arrivato l’esercito per montare un ospedale da campo sul piazzale dietro la stazione. A Trebisacce il sindaco Franco Mundo esibisce una galleria di sentenze che ordinano la riapertura dell’ospedale ma poche settimane fa lui stesso ha dovuto impedire con la forza che portassero via i letti dai reparti. Li voleva requisire il commissario dell’ASP di Cosenza per portarli in una struttura Covid che ne era sprovvista. Di soldi per comprarne di nuovi non ce n’erano.

Come sta il nostro sistema sanitario nazionale a un anno dall’inizio della pandemia Covid-19. Il rapporto tra anestesisti e terapie intensive è sceso nonostante le assunzioni. Le malattie oncologiche e cardiache sono un disastro a sé. E molto altro ancora: radiografia della nostra sanità. Gloria Riva su L'Espresso il 18 febbraio 2021. Esattamente un anno fa, il 21 febbraio 2020, a Codogno, nel lodigiano, il primo italiano risulta positivo al Coronavirus. La notte si segnala il primo decesso, a Vo’ Euganeo, in provincia di Padova. Il giorno successivo il conto sale a sessanta infetti. Mentre la cronaca s’affrettava a tenere il passo della quotidiana diffusione, l’Espresso anticipa con la copertina “Sanità distrutta, Nazione infetta” quello che di lì a pochi giorni sarebbe stato palese: a causa di una dissennata e decennale politica di tagli, il Servizio Sanitario Nazionale non sarebbe stato in grado di reggere l’urto. Già prima della pandemia scarseggiavano medici e infermieri. Era chiaro che i posti letto, per via di una eccessiva politica di razionalizzazione, sarebbero stati insufficienti a rispondere all’emergenza. Oggi alcuni economisti sostengono che il primato di vittime registrato in Italia (siamo prossimi ai 100mila decessi, peggio di noi ha fatto solo il Regno Unito con 112mila morti) sia dovuto a uno scarso finanziamento del Ssn: 2.989 dollari per abitante, contro i 4.690 di Francia e 5.472 della Germania. Un anno dopo L’Espresso torna a esaminare il Servizio Sanitario Nazionale, sfiancato da dodici mesi in prima linea, rivelando che negli ospedali «l’emergenza è tutt’altro che finita», come racconta un medico pneumologo dell’Ospedale San Gerardo di Monza: «A settembre, quando nessuno avrebbe previsto una seconda ondata tanto tempestiva e violenta, i posti letto dedicati al Covid-19 erano quasi tutti vuoti. Oggi che la Lombardia si trova in zona gialla, e quindi con ampia libertà di movimento, i posti letto Covid sono per metà occupati. E la variante inglese - soprattutto quella, ma c’è da considerare anche quella brasiliana e sudafricana - ci preoccupa: temiamo una terza ondata». Il livello di saturazione delle terapie intensive è al 24 per cento, mentre la soglia critica stabilita dal ministero della Salute è del 30 per cento. Insomma, manca pochissimo. Ecco perché Walter Ricciardi, il consigliere scientifico del ministro della Salute Roberto Speranza, invoca un nuovo lockdown totale, mentre il governo ha stoppato in zona Cesarini la riapertura della stagione sciistica e Giorgio Palù, il presidente di Aifa, l’agenza italiana del farmaco, ha preannunciato altri tre mesi di sacrifici. Lo scenario non muta: si deve ancora scegliere se salvaguardare la vita degli italiani o l’economia. A cambiare invece è il livello di stress del Servizio Sanitario Nazionale: «Il Ssn e il management delle 191 aziende sanitarie stanno affrontando un momento di intensa pressione perché gestiscono in parallelo quattro cantieri strategici - la cura dei pazienti Covid-19, quelli non Covid-19, la vaccinazione di massa e la programmazione degli investimenti per il Recovery Fund -, con risorse e mezzi sufficienti per affrontarne uno solo», spiega Francesco Longo, professore di Scienze Politiche e Sociali alla Bocconi e ricercatore del Comitato Scientifico del Cergas, Centro di Ricerca sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale. Del resto le risorse del Ssn scarseggiano: in base all’ultima indagine della Corte dei Conti, nel 2021 la maggior spesa prevista è di 3,856 miliardi di euro, ma i finanziamenti stanziati sono di 945 milioni di euro, portando la spesa sanitaria complessiva a 121,370 miliardi. Il primo cantiere è l’emergenza Covid-19 che conta 14mila contagi e 400 morti al giorno, con le varianti in aumento e la terza ondata dietro l’angolo. «Non si tratta solo della cura dei pazienti gravi nelle terapie intensive e nei reparti di subintensiva, ma anche del contact tracing, i tamponi e la cura domiciliare dei malati, un’attività che da sola impegna una quota significativa della capacità produttiva del Ssn», continua Longo. Dice la Corte dei Conti che sono state attivate solo metà delle 1.200 Usca previste, ovvero le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, istituite a marzo e composte da un medico e da un infermiere per monitorare i pazienti Covid-19 ai domiciliari o dimessi. In alcune regioni il tasso di attivazione è elevato, come in Basilicata, Liguria, Emilia Romagna; in altre è particolarmente ridotto, come in Campania (15 per cento), Lombardia (27 per cento), Lazio (34 per cento). C’è anche un enorme divario fra Regioni nell’attivazione di nuovi posti letto di terapia intensiva, come riporta l’ultima analisi di Agenas, Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, con cinque regioni che non sono riuscite a raggiungere la soglia minima di sicurezza di 14 posti letto per 100mila abitanti: fra queste Lombardia, Calabria e Campania. Il rovescio della medaglia è la carenza di medici anestesisti e rianimatori proprio nelle regioni che più si sono attivate per far spazio ai malati Covid-19. In base ai dati forniti da Altems, Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari, il rapporto tra anestesisti e posti letto di terapia intensiva era di 2,5 prima della pandemia e, nonostante l’assunzione di personale tramite bandi, il rapporto è sceso a 1,9. Il valore più basso si registra in Veneto (1,4), quello più alto in Calabria. «Per dieci anni si è fatta una programmazione delle scuole di specialità al di sotto delle esigenze. Il Covid-19 ha spinto il governo ad aumentare le borse di studio per la formazione di nuovi medici e gli effetti positivi li vedremo solo fra cinque anni», dice Alessandro Vergallo, presidente del sindacato degli anestesisti rianimatori Aaroi-Emac, che continua: «Nel frattempo c’è da gestire la pandemia, rispetto alla quale siamo poco ottimisti e ci preoccupa la cura di tutte le altre patologie, che non può essere costantemente rinviata». Il secondo cantiere è proprio la gestione ordinaria di tutte le altre malattie. Come spiega Antonio Gaudioso, segretario generale di Cittadinanzattiva, onlus per la tutela dei diritti di assistenza sanitaria: «Sono saltati due milioni di screening oncologici e l’associazione Gise, la società italiana di Cardiologia Interventistica, ci fa sapere che ci sono enormi ritardi nella gestione di patologie cardiologiche e cardiovascolari. C’è una pandemia parallela, con un aumento esponenziale delle morti oncologiche e cardiache, che già oggi sono le maggiori cause di decesso in Italia». Rispetto al totale delle segnalazioni giunte a Cittadinanzattiva, oltre il 70 per cento riguarda le attività ambulatoriali bloccate e l’annullamento di visite già prenotate prima che esplodesse la pandemia (49,9 per cento). Nel 34,4 per cento si segnala la difficoltà di prenotare nuovi esami a causa del blocco delle liste d’attesa. La seconda ondata di Covid-19 non ha consentito di recuperare le prestazioni sanitarie rimandate e ha generato un effetto valanga, tanto che a inizio dicembre Lombardia, Puglia, Calabria e Campania hanno sospeso i ricoveri per i pazienti in classe A, ossia da garantire entro 30 giorni. Questo perché se sommiamo il personale sanitario impegnato nella gestione Covid-19 a quello impegnato nella vaccinazione, le energie da dedicare a tutti gli altri pazienti si è ridotto del 30 per cento rispetto al periodo pre pandemia. I ritardi non sono tutta colpa del Coronavirus, «il male maggiore deriva da 20 anni di scelte non fatte. Pesa l’assenza della telemedicina e di banche dati digitali che, ad esempio, obbligano i pazienti a portarsi lastre ed esiti da casa, perché il medico non è in grado di accedere ai documenti digitali», sentenzia Gaudioso di Cittadinanzattiva, che evidenzia come il fascicolo sanitario elettronico è attivo in 19 regioni e in cinque non viene usato dai medici. Il terzo fronte aperto è quello della vaccinazione di massa, con l’obiettivo di immunizzare il 90 per cento degli italiani entro l’anno. Questo significa individuare i centri vaccinali di massa, così come quelli piccoli decentrati, allestire spazi, individuare e formare il personale, organizzare la logistica distributiva dei vaccini, reclutare i pazienti, chiamare chi non si è iscritto o presentato. «Non è facile vaccinare 40 milioni di persone in poco tempo, in massima sicurezza, sia dal punto di vista vaccinale, sia per evitare assembramenti e contagi», spiega Longo. Il quarto cantiere è la predisposizione di piani di utilizzo dei finanziamenti provenienti dal Recovery Fund: «Alla sanità sono stati dedicati 19,7 miliardi di euro, ovvero 12 volte più di quanto era stato stanziato in conto capitale fino al 2019. Questo significa un grande sforzo di programmazione per investire nel modo più corretto e rapido quel denaro che deve essere speso entro cinque anni, pena la perdita del finanziamento». I quattro cantieri poggiano su fondamenta fragili, sia perché cambia costantemente lo scenario di riferimento (dalla numerosità dei contagi, alla disponibilità di vaccini) sia perché i governi - centrale e regionali - cambiano continuamente le proprie decisioni. Ad esempio, i finanziamenti alla sanità dal Recovery Fund da un’ipotesi iniziale di 68 miliardi, sono poi stati ridimensionati a 9 e successivamente a 19,7 miliardi: «È chiaro con quanta difficoltà le aziende sanitarie si apprestano a presentare i progetti, visto che da un giorno all’altro il budget per la propria struttura può passare da 500 a 100 milioni l’anno», afferma il professore della Bocconi, che continua: «Lo stesso vale per la campagna vaccinale, dove il commissario Domenico Arcuri un giorno chiede di estendere la vaccinazione a cinquemila persone al dì, quello successivo a tremila, in base alle informazioni che arrivano sulla capacità produttiva di vaccini. E l’incertezza è alimentata dalla difficoltà di comprendere chi detta le regole: è il commissario nazionale o le singole regioni? Restando sulla campagna vaccinale, ad esempio, da un lato il commissario Arcuri ha promesso di creare entro maggio i Padiglioni Primula Vaccinali, mentre tutte le regioni stanno predisponendo i loro spazi di vaccinazione di massa fin da marzo». Da tempo l’incertezza tra accentramento e decentramento istituzionale alle Regioni che caratterizza il paese nella prassi e nel dibattito culturale, determina una stratificazione decisionale fra amministrazione centrale, regionale e locale che non aiuta a offrire risposte adeguate e in tempi certi: «Siamo di fronte a un bivio: o si sceglie di rafforzare gli organismi ordinari del Ssn, che sono regionalizzati, oppure di sostenere quelli emergenziali e straordinari, che sono accentrati, altrimenti si rischia di sprecare tempo e risorse». Per aumentare la produttività del sistema pubblico il governo Draghi dovrà scegliere tra funzioni centrali e regionali. Non farlo significherebbe sprecare i finanziamenti del Recovery Plan, perché già nel 2020 si è osservato che il problema non è l’extra stanziamento di risorse, bensì la capacità di investire correttamente quel denaro e di monitorare la spesa, azioni rese difficili dal sovrapporsi di diverse strutture di controllo. La soluzione la offre l’Europa, che chiede all’Italia di rafforzare le proprie istituzioni, dare autonomia e responsabilità al management pubblico locale, evitando di creare corpi speciali centrali che poi verranno smantellati al finire dell’epidemia.

Andrea Bassi per "Il Messaggero" il 21 gennaio 2021. Lavori lumaca, risorse non spese, controlli mancati. Alla vigilia del Recovery plan, la relazione della Corte dei conti sugli «interventi di riorganizzazione e riqualificazione dell'assistenza sanitaria nei grandi centri urbani», è un macigno per le già labili convinzioni sulla capacità italiana di spendere soldi per realizzare opere. Lo si potrebbe considerare un manuale degli errori da non commettere, ma che invece sono stati inanellati uno dopo l'altro in un comparto, la sanità e la costruzione ristrutturazione degli ospedali, sul quale nei prossimi anni saranno concentrate notevoli risorse, 21 miliardi. La storia raccontata nella relazione firmata da Mauro Oliviero, inizia 22 anni fa, nel 1999, quando furono stanziati 1.176.386.762,60 euro (1,76 miliardi) per migliorare l'assistenza sanitaria nei grandi centri urbani. E passi che «grandi centri urbani» è stato interpretato non come grandi Comuni, ma come «centro territoriale di riferimento dalle caratteristiche comuni dei problemi e dei bisogni», definizione che ha permesso di finanziare ospedali anche a Mestre, Budrio e Bazzano. Ma il punto centrale è che il programma di riqualificazione doveva funzionare esattamente come funzionerà il Recovery plan. Leggere per credere: lo Stato avrebbe anticipato il 5% delle risorse alle Regioni per progettare gli interventi; nei sei mesi successivi, le Regioni avrebbero presentato i piani e un cronoprogramma e ottenuto un altro finanziamento; ogni sei mesi, poi, il ministero avrebbe dovuto verificare l'avanzamento dei lavori e, solo se questi ultimi avessero raggiunto almeno il 70% di quelli programmati, avrebbe erogato altre risorse. In caso contrario il progetto sarebbe stato stoppato e i finanziamenti revocati. Risultato? Dopo 22 anni degli 1,76 miliardi restano da spendere ancora 315 milioni di euro. Dei 258 interventi programmati, spiega la Corte dei Conti, ce ne sono ancora 52 da realizzare. Per 23 di questi i lavori sono in corso, per 10 sono sospesi, per altri 19 non sono mai iniziati. I ritardi ci sono al Nord come al Sud. Il Piemonte conta 19 interventi rimodulati ancora da completare, e nove non sono stati nemmeno avviati; in Calabria non è partito nessun progetto; nel Lazio erano previsti due interventi, l'Ospedale Sant'Andrea (completato) e l'Umberto I, rimasto al palo prima perché la sovrintendenza ci ha messo lo zampino e poi per le continue modifiche al progetto. La Lombardia fa storia a sé. Ha completato tutti gli interventi previsti, solo che poi si è scordata di chiedere i fondi al governo (ha pagato di tasca propria). Lo stesso ministero ha dovuto sollecitare il Pirellone, altrimenti i soldi sarebbero finiti in prescrizione. C'è anche questo. Ma la verità è che la vera responsabilità per i 315 milioni non spesi, la Corte dei conti l'attribuisce proprio al dicastero della Salute. Questi fondi, spiegano i magistrati contabili, sono andati in «perenzione» da oltre 10 anni. Significa che sono stati cancellati dal bilancio pubblico e, momentaneamente trasferiti tra le passività dello Stato. L'anticamera della prescrizione. Il ministero avrebbe dovuto controllare i cronoprogrammi presentati dalle Regioni per gli investimenti. Ma quando la Guardia di finanza si è presentata, dei cronoprogrammi non ha trovato traccia. Insomma, scrive la Corte dei Conti, il ministero è stato alla fine «un mero finanziatore» per le Regioni e non ha stimolato in queste ultime, «anche con poteri sostitutivi», la «corretta applicazione delle procedure di spesa». La conseguenza, conclude la Corte, è «ad oltre 20 anni dal suo avvio, l'attuale stallo per molte opere, che sono ancora incompiute o mai realizzate». C'è infine un altro punto analizzato dalla Corte: la diffusione territoriale dei ventilatori polmonari. Il 75% di questi dispositivi (ce ne sono 18.500 in tutto) sono ubicati nelle strutture sanitarie del Centro Nord. In rapporto alla popolazione residente c'è un ventilatore ogni 3 mila abitanti nel Centro-Nord e uno ogni 4 mila nel Sud. Una disparità, in tempi di Covid, inaccettabile.

·        Eroi o Untori?

Morto di Covid Graciliano Diaz Bartolo, uno dei medici cubani che aiutarono l’Italia durante la prima ondata. Asia Angaroni il 22/07/2021 su Notizie.it. È morto Graciliano Diaz Bartolo, uno dei medici cubani arrivati in Italia per offrire il proprio prezioso aiuto durante la prima ondata di Covid. Era la primavera 2020, nel pieno dell’emergenza coronavirus, quando medici e infermieri cubani esperti in malattie infettive atterrarono a Malpensa per poi dirigersi verso l’ospedale di Crema, al tempo una delle zone più colpite dalla pandemia. Erano arrivati in Lombardia carichi di coraggio, forza, determinazione e tanta speranza, quell’ingrediente speciale che sembrava smarrito durante giorni grigi e tormentati. Così avevano offerto il proprio prezioso contributo, avevano messo a rischio la propria salute, si erano messi in gioco con dedizione per aiutare chi era in maggiore difficoltà, in un periodo in cui ancora appariva complicato destreggiarsi nell’incertezza del momento e nella pericolosità di una malattia che in larga parte era del tutto sconosciuta. A distanza di oltre un anno, è morto Graciliano Diaz Bartolo, uno dei medici cubani volati in Italia durante la prima ondata. Il medico è risultato positivo al Covid-19, poi le sue condizioni di salute pare siano peggiorate e per lui non c’è stato nulla da fare. In un messaggio condiviso su Facebook, il sindaco di Crema Stefania Bonaldi ha comunicato la triste notizia. “La vita talvolta può essere beffarda. Graciliano Diaz Bartolo, uno dei sanitari cubani accorsi a combattere il Covid nella nostra città nella primavera del 2020, e che altre battaglie sanitarie aveva combattuto nella brigata Henry Reeve, è mancato a causa del virus. Ci stringiamo ai suoi familiari, ai suoi amici e ai suoi compagni della Brigata Henry Reeve, mandando a tutti loro un abbraccio forte e un pensiero di vicinanza”, si legge. Molti colleghi del medico cubano hanno espresso il proprio dolore per l’accaduto e piangono la scomparsa dell’amico. Tra i molti messaggi, sui social si legge: “Ti ricorderemo mentre lottavi contro l’ebola e contro tanti mali in giro per il mondo e a Cuba. Ti ricorderemo sempre”. “Abbiamo perso un altro guerriero”, scrivono alcuni. Cuba aveva aiutato Haiti, sconvolta dal terremoto e in seguito dal colera. Poi la Sierra Leone, aiutando chi lottava disperatamente contro l’ebola. Questa volta è stata l’Italia a ricevere l’aiuto dei medici cubani, mostrando l’alto livello del sistema sanitario locale e dando prova di straordinaria solidarietà. Il governo di Miguel Díaz-Canel aveva accolto l’appello lanciato dall’Italia e predisposto una brigata di 52 medici e infermieri specializzati nel trattamento di pazienti colpiti da virus. Si è trattato di un gesto di profonda umanità e massima professionalità. Solo dopo tre mesi i medici sono tornati in patria. Tra i 52 esperti giunti in soccorso all’Italia in un periodo di massima difficoltà, c’era anche Graciliano Diaz Bartolo, che ha offerto il suo contributo nella lotta al Covid, quella stessa malattia che un anno dopo lo ha portato alla morte.

Rinaldo Frignani per corriere.it il 19 giugno 2021. Nella convocazione di qualche giorno fa agli iscritti all’Ordine dei medici di Roma doveva tenersi un’assemblea per le comunicazioni del presidente Antonio Magi e l’approvazione del bilancio di previsione del 2022. C’erano poi varie ed eventuali, ma nessuno poteva immaginare che la riunione in programma domenica mattina all’Hotel Pineta Palace in via San Lino Papa, non lontano dal Policlinico Gemelli e dall’ospedale Cristo Re, zona Pineta Sacchetti, si sarebbe trasformata in una bolgia: una cinquantina di medici no vax, alcuni dei quali già sospesi e altri in via di sospensione, hanno interrotto l’assemblea gridando insulti ai colleghi partecipanti («Buffoni, mafiosi, disgraziati») con i quali poi c’è stato anche un contatto fisico, con spintoni e qualche schiaffo, interrotto dall’intervento della polizia e di alcune pattuglie dei carabinieri. Adesso la posizione di alcuni medici coinvolti nel tafferuglio è al vaglio di chi indaga: rischiano una denuncia, oltre a provvedimenti disciplinari da parte dell’Ordine ancora più severi. Non è chiaro se l’iniziativa di protesta fosse stata organizzata in anticipo e poi messa in atto. Alcuni dei medici no vax sono anche intervenuti nel corso dell’assemblea, salendo sul palco e strappando il microfono dalle mani di cui stava parlando in quel momento, manifestando il loro dissenso sull’obbligatorietà del vaccino e anche sulla sospensione stessa del personale sanitario che rifiuta il siero a fronte di altri medici per i quali non sono state adottate le stesse misure nonostante siano morosi rispetto al pagamento delle quote dell’Ordine o coinvolti in procedimenti di altro genere. Alla fine la seduta per il bilancio è stata rinviata a data da destinarsi. Fra i no vax intervenuti anche una dottoressa del San Camillo-Forlanini: «Nell’Ordine dei medici ci sono professionisti che non pagano la tassa annuale - ha detto -, ma invece ci si sbriga a sospendere i medici che non sono vaccinati. Per il fatto di non essere vaccinata sono stata demansionata: ora il mio compito è contattare i pazienti per fissare gli appuntamenti sull’assistenza medica». Il ministro della Salute Roberto Speranza ha sentito telefonicamente il presidente Magi dopo quanto accaduto, esprimendogli «solidarietà oltre che gratitudine per il lavoro quotidiano svolto a tutela del diritto alla salute». Solidarietà anche da parte del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti: «Un medico deve combattere le malattie non trasmetterle e chi non ha fiducia nella scienza e nella medicina non può fare il medico. Solidarietà a tutto il personale sanitario e ai medici oggi contestati da no vax». Un episodio «inaccettabile, e intollerabile nei tempi e nei modi», secondo il presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici, Filippo Anelli, per il quale «gli Ordini sono organi sussidiari dello Stato e hanno il dovere e l’obbligo di dare attuazione alle norme stabilite per legge - spiega -. Fermi restando i risvolti disciplinari e giudiziari di alcuni comportamenti come quelli visti oggi, gli Ordini avvieranno immediatamente la procedura per rilevare i medici non vaccinati. Le sospensioni, con questa nuova norma che riporta in capo agli Ordini le responsabilità, arriveranno in pochi giorni». «Mi dispiace - aggiunge proprio Magi - come medico e presidente dei medici assistere a queste manifestazioni di degenerazione della categoria. In questi mesi ho sempre cercato il dialogo con chi non la pensa come me. Credo che però la situazione sia sfuggendo di mano un po’ a tutti. Continuo a chiedere e a sperare in un’azione che in questo grave momento di pandemia tuteli la salute di tutti i cittadini. Seppur amareggiato per quanto accaduto stamattina ribadisco che l’Ordine di Roma è, e resta aperto ad ascoltare la istanze di tutti i suoi iscritti, nessuno escluso».

(ANSA il 22 dicembre 2021) - Da novembre ad oggi i carabinieri dei Nas hanno scoperto 308 medici e operatori sanitari non vaccinati irregolarmente al lavoro. Durante i servizi di controllo, i militari hanno monitorato 6.600 posizioni. Deferiti alle procure 135 tra medici, odontoiatri, farmacisti, infermieri e altre figure ritenute responsabili di esercizio abusivo della professione per aver proseguito lo svolgimento delle proprie attività nonostante fossero oggetto di provvedimenti di sospensione. Eseguite anche chiusure e sequestri di 6 studi medici e dentistici nonché di 2 farmacie, al cui interno svolgevano l'attività professionisti già sospesi. Durante l'attività investigativa, i carabinieri hanno sequestrato anche farmaci e dispositivi medici fraudolentemente utilizzati nel corso di attività e pratiche mediche da parte di soggetti non aventi titolo alla loro detenzione ed impiego. Il lavoro dei Nas proseguirà con ulteriori servizi di controllo sull'osservanza delle varie tipologie di Green pass ed il rispetto degli obblighi vaccinali. Le operazioni che hanno portato all'identificazioni di medici e sanitari non vaccinati al lavoro hanno riguardato in particolare Piemonte, Sicilia, Trentino, Emilia-Romagna, Veneto e Campania. 

Da quotidiano.net il 3 dicembre 2021. Medici non vaccinati ugualmente al lavoro, i carabinieri del Nas ne hanno trovati almeno 281, nei controlli effettuati in questi giorni in tutta Italia per individuare il personale sanitario che nonostante tutto continua a violare la normativa anti Covid. Dei 281 non in regola, 126 erano anche stati sospesi dagli ordini professionali perché no vax. Senza certificato sanitario anche otto medici di famiglia e pediatri, scoperti in Abruzzo, Sardegna, Campania e Lazio. Controlli anche nelle Asl di Calabria, Sicilia, Molise e provincia di Bolzano, in questo caso s'indagava perché non erano stati presi provvedimenti amministrativi e disciplinari nei confronti dei no vax. Verifiche effettuate in oltre 1.600 strutture pubbliche e private e circa 4.900 posizioni di medici, odontoiatri, farmacisti, veterinari, infermieri e fisioterapisti. 

Nas Campobasso 

Sono 21 i dipendenti dell'Azienda Sanitaria Regionale Molise, tra questi 3 dirigenti medici, 1 puericultrice, 3 tecnici sanitari, 2 assistenti sociali/amministrativi, 11 infermieri e 1 O.S.S., deferiti all'Autorità giudiziaria per aver continuato ad esercitare la professione, nel periodo aprile-novembre 2021, non avendo ancora ricevuto la vaccinazione obbligatoria. Informati i rispettivi ordini professionali e l'Azienda Sanitaria Regionale competente. In un reparto dell'ospedale di Termoli (CB) un medico svolgeva la propria attività sprovvisto di certificazione verde perchè non aveva fatto la seconda dose. 

Nas Latina

A Latina, durante verifiche in una farmacia, trovate le ricette di un medico di medicina generale con studio in Aprilia, risultato non in regola con l'obbligo vaccinale. Il dottore è stato segnalato all'Asl che ha emesso un provvedimento di sospensione a svolgere prestazioni o mansioni che implichino contatti interpersonali. Ma non è bastato, infatti i Nas lo hanno sorpreso mentre continuava ad effettuare visite nel suo studio. Nella rete dei militari anche due medici di medicina generale, titolari di due studi in provincia di Latina: entrambi lavoravano senza il certificato vaccinale. Deferito anche un odontoiatra a Priverno (LT). 

Nas Pescara

A Città Sant'Angelo (PE) è finita nei guai una pediatra convenzionata con la ASL di Pescara. In corso verifiche su sospensivi già emessi dalla ASL o dall'ordine di appartenenza del medico. In due presidi sanitari ad Avezzano (AQ) sono state trovate 7 persone non vaccinate al lavoro: 1 dirigente veterinario, 3 infermieri, 3 operatori socio assistenziali.

Nas Cagliari

In Sardegna non aveva smesso di fare visite un medico di medicina generale con studio nella provincia di Cagliari. Il dottore era sospeso ufficialmente dall'impiego e dall'ordine professionale per omessa vaccinazione. 

Nas Napoli

Un dottore, sospeso dall'Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Napoli, continuava ad esercitare professione sanitaria di medico di base in uno studio a Casoria (NA). 

Nas Bologna

A Bologna in un'unità operativa pediatrica di un nosocomio è stata sorpresa una dottoressa, sospesa dal proprio Ordine, mentre svolgeva visite ambulatoriali. 

Nas Trento 

A Bolzano nel mirino è finito uno studio odontoiatrico dove erano all'opera un'assistente alla poltrona, già sospesa perché non vaccinata, e la segretaria senza green pass valido. Sempre in uno studio dentistico, ma a Bressanone (BZ) i carabinieri hanno deferito un odontoiatra e l'assistente alla poltrona (già sospesa). Deferito anche il legale rappresentante di uno studio odontoiatrico di Lavis (TN), per aver omesso di comunicare all'Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari di Trento che una dipendente assistente alla poltrona non era vaccinata. 

Nas Catania

A Messina nei guai un medico esterno in convenzione presso l'Inps e anche membro di una Commissione di Valutazione dell'Invalidità Civile, continuava ad eseguire visite sebbene già sospeso. In un ospedale in provincia di Catania i militari hanno trovato in servizio un infermiere professionale ed un'ostetrica a cui era già stata notificata la sospensione. Nel medesimo nosocomio sono risultati non vaccinati altri 4 tra infermieri e operatori assistenziali.

Nas Palermo

A una farmacia privata di Bagheria (PA) notificato un provvedimento di sospensione perché il titolare, sospeso per inottemperanza all'obbligo vaccinale, non aveva designato un nuovo direttore tecnico. Stesso provvedimento per una farmacia di Bompietro (PA) perché il direttore tecnico responsabile della struttura non aveva lasciato la cariva sebbene non vaccinato. Inoltre era stato sospeso dall'Ordine dei Farmacisti di Palermo.  

Nas Parma

Uno studio medico di Modena è stato sottoposto a sequestro penale preventivo perché la responsabile, un medico chirurgo specialista in medicina interna, continuava ad esercitare la professione senza aver ricevuto il vaccino. Sequestrato penalmente anche uno studio (da 250.000 euro) di un odontoiatra per gli stessi motivi. 

Nas Torino 

Deferito un odontoiatra scoperto all'opera nel proprio studio dentistico di Novara, sebbene sospeso dall'albo dei medici chirurghi odontoiatri a seguito della mancanza di immunizzazione. Sequestrato un box odontoiatrico del valore di euro 80.000. Sempre in Piemonte deferita una farmacista di Carmagnola (TO), già sospesa dall'ordine professionale. 

Nas Udine

Una segnalazione al Dipartimento di prevenzione ASL ed all'Ordine per una laureata farmacista, in provincia di Udine, sorpresa sul posto di lavoro non in regola con gli obblighi vaccinali.  Anche il titolare di una farmacia della provincia di Udine è stato segnalato all'ASL competente ed all'Ordine dei Farmacisti. 

Nas Firenze 

A Firenze un altro odontoiatra, sospeso dall'ordine professionale per mancata sottoposizione agli obblighi di vaccinazione, continuava ad esercitare in alcuni locali abusivi. Scoperte anche 12 fiale di anestetici scadute.

Nas Brescia 

In provincia di Lecco scoperta una farmacista intenta a svolgere la professione benchè sospesa dall'ordine. Stessa cosa in una farmacia di Leno (BS): il farmacista titolare della struttura esercitava sebbene sospeso. Inoltre deferiti 13 farmacisti, tra titolari e dipendenti, tutti operanti in farmacie della provincia di Brescia. 

Nas Perugia

Due veterinari deferiti alla competente A.G., per esercizio abusivo della professione in un ambulatorio a Corciano (PG). Uno dei due, era già stato sospeso dal proprio ordine professionale.

Nas Bologna 

Due titolari di una farmacia di Cesena (FC) e di una parafarmacia di Rimini deferiti per aver dispensato medicinali ai clienti, nonostante fossero sospesi dall'Ordine.  

Nas Livorno

Scoperti i titolari di due farmacie, nella provincia di Livorno, al lavoro ma sospesi. 

Nas Aosta

Nella rete dei cc una psicologa che continuava ad effettuare prestazioni professionali nel suo studio, ma era già stata sospesa dall'albo professionale per non aver ottemperato all'obbligo di sottoporsi a vaccinazione. 

Nas Lecce

Non vaccinati sorpresi in una clinica di riabilitazione convenzionata di Lecce. Segnalati il titolare ed una fisioterapista dipendente. Quest'ultima era già stata sospesa e continuava ad esercitare con il consenso del datore di lavoro.  

Nas Taranto

In una farmacia di Fasano (BR), il farmacista titolare ed un dipendente, già sospesi dall'ordine professionale, sono stati trovati intenti ad operare con mansioni diverse da quelle di farmacista. Sprovvisti di green pass, hanno esibito ai militari un tampone scaduto di validità. 

Nas Viterbo

Due medici chirurghi specializzati impiegati presso un poliambulatorio di Civita Castellana (VT), sono stati segnalati all'Ordine dei Medici-Chirurghi e all'ASL per avere esercitato la professione medica presso la struttura sanitaria senza essere stati sottoposti a vaccinazione obbligatoria. 

Nas Caserta 

In provincia di Caserta scovata una cardiologa in uno studio medico polifunzionale della provincia di Caserta, no vax e già sospesa dal proprio Ordine: è stata segnalata alla competente Autorità Giudiziaria. Una fisioterapista ed una O.S.S trovate al lavoro, senza essere vaccinate, in un centro di riabilitazione della provincia di Caserta.

Controlli a tappeto: trovati medici no vax in tutta Italia. Alessandro Ferro il 3 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il blitz dei Nas: scoperti 281 tra medici e sanitari no vax ancora sul posto di lavoro. Ora per loro si ipotizza il reato di esercizio abusivo della professione sanitaria. Nonostante fossero ancora senza alcuna dose vaccino continuavano a esercitare la loro professione. I carabinieri del Nas hanno scoperto e denunciato 281 tra medici e sanitari no vax presenti irregolarmente sul posto di lavoro.

L'operazione è stata possibile grazie ad un accordo con il ministero della Salute: sono state controllate ben 1.609 strutture sul territorio nazionale oltre a innumerevoli Centri sanitari privati e pubblici. Nel complesso, sono state veriticate quasi cinquemila posizioni di varie figure professionali quali medici generici, farmacisti, odontoiatri, infermieri e altri ancora. Durante questi controlli, sono emerse ben 281 persone non in regola con quanto stabilito dalla legge (vaccino anti-Covid obbligatorio) che continuanavano a esercitare come se nulla fosse.

Esercizio abusivo professione sanitaria

Tra questi, ben 126 erano già stati sospesi dall'Ordine professionale di appartenenza ma hanno comunque continuato la loro attività come liberi professionisti negli studi privati, in ospedali pubblici e cliniche private sperando di farla franca. Per queste figure, l'autorità giudiziaria ipotizza il reato dell'esercizio "abusivo della professione sanitaria" perché in servizio nonostante la sospensione. Come riporta Il Messaggero, sono stati segnalati otto medici di famiglia mai vaccinati di Abruzzo, Sardegna, Campania e Lazio. Oltre alle denunce, l'operazione dei Nas non è ancora finita perché sono tutt'ora in corso altri accertamenti verso le Asl di altre Regioni quali Molise, Calabria e Sicilia e la Provincia Autonoma di Bolzano "per possibili condotte omissive e di inerzia nella regolare predisposizione dei provvedimenti amministrativi e disciplinari nei confronti del personale risultato non vaccinato".

Per altri sanitari no vax sospesi, ce ne sono stati due che hanno deciso di tornare sui propri passi, vaccinarsi e l'Asl, preso atto del loro adempimento all'obbligo vaccinale, ha comunicato la fine della sospensione: è accaduto a Latina dopo i provvedimenti decisi nell'ultima riunione della commissione aziendale istituita dall'Azienda sanitaria proprio per vigilare sul rispetto dell'obbligo vaccinale da parte degli operatori sanitari e scovare eventuali "furbetti" che, puntualmente, sono stati scoperti.

"Ferma determinazione per i non vaccinati"

"Un’iniziativa di questo genere ribadisce la nostra ferma determinazione nel dire che la vaccinazione è lo strumento più efficace per uscire dal Covid”, ha affermato il presidente della Fnomceo (Federazione degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), Filippo Anelli. "Un medico non vaccinato, se non per motivi di salute, dovrà essere sospeso e lo farà il suo Ordine - spiega Anelli in un comunicato pubblicato sul sito. "La Federazione sarà protagonista perché interrogherà la piattaforma nazionale sui green pass da cui estrarrà i nominativi di coloro che non sono vaccinati e li invierà ai singoli Ordini”, conclude.

Attualmente, medici e camici bianchi sospesi in Italia per non essersi sottoposti alla vaccinazione anti-Covid sono 1.614, lo 0,3% del totale secondo gli ultimi numeri aggiornati dalla Fnomceo dopo aver ricevuto dalle Asl. In realtà, i sanitari sospesi inizialmente erano 2.113, ma di questi 499 (quasi uno su quattro) si sono convinti a vaccinarsi potendo così rientrare a lavoro.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Da ilfattoquotidiano.it il 2 dicembre 2021. “Per legge, e ancor prima per il giuramento di Ippocrate“, il personale sanitario è “tenuto in ogni modo ad adoperarsi per curare i malati, e giammai per creare o aggravare il pericolo di contagio del paziente con cui nell’esercizio della attività professionale entri in diretto contatto”. È un passaggio della decisione con cui il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di un medico abruzzese contro la sospensione dall’ordine professionale dovuta al suo rifiuto di vaccinarsi. Un rifiuto motivato, scrivono i giudici amministrativi, “sulla base di dubbi scientifici certo non dimostrati a fronte delle amplissimamente superiori prove, con l’erogazione di decine di milioni di vaccini solo nel nostro Paese, degli effetti positivi delle vaccinazioni sul contrasto alla pandemia e alla sue devastanti conseguenze umane, sociali e di deprivazione della solidarietà quale principio cardine della nostra Costituzione”. Il decreto – firmato dal presidente della terza Sezione, l’ex ministro Franco Frattini – riafferma “la prevalenza del diritto fondamentale alla salute della collettività rispetto a dubbi individuali o di gruppi di cittadini sulla base di ragioni mai scientificamente provate”, dubbi che riguardano anche i medici, “malgrado l’imponente quantità di studi che indicano la netta prevalenza del beneficio vaccinale anti Covid-19 per il singolo e per la riduzione progressiva della pandemia ancora gravemente in atto”. “Del resto – si legge ancora – soltanto la massiva vaccinazione anche e anzitutto di coloro che entrano per servizio ordinariamente in contatto con altri cittadini, specie in situazione di vulnerabilità, rappresenta una delle misure indispensabili per ridurre, anche nei giorni correnti, la nuovamente emergente moltiplicazione dei contagi, dei ricoveri, delle vittime e di potenzialmente assai pericolose nuove varianti”. 

Lodovico Poletto per "La Stampa" il 6 dicembre 2021. L'effetto surreale in questa storia è garantito. Allora: c'è un medico - un medico di famiglia del Torinese - che qualche mese fa rilasciava a valanga certificati di esenzione al vaccino Covid. Così tanti che la Procura della Repubblica di Torino lo ha indagato per falso ideologico e ha pure indagato per truffa ai danni dello Stato decine di persone che hanno ricevuto quel documento su basi considerate false. Dall'altro c'è il fatto che quello stesso medico ha chiesto - e «ottenuto» - l'attestato di medico vaccinatore. Contro il Covid. E al telefono giura che di vaccini ne ha già fatti. Quanti, però, il medico di famiglia di Borgaro, Giuseppe Delicati, di anni 61, da 35 iscritto all'Ordine dei medici, non lo dice. «Ho più di 1.540 assistiti, e questo è segno che sono un medico coscienzioso. Vado a fare le visite a casa ai miei pazienti e li seguo passo dopo passo». Ma resta il fatto che non crede alla pandemia. E al virus. O meglio: per lui quella in corso è una «pseudo pandemia» e il virus è stato modificato. Basta? No. Sul vaccino ha le solite posizioni complottiste già sentite mille volte dal popolo No Vax: «Dietro a tutta questa storia c'è big pharma. E mi hanno fatto tutto quel che mi hanno fatto perché hanno trovato in me un medico che resiste». Stavolta però, il fatto che al dottor Delicati - indagato a Torino e con un'altra inchiesta in corso presso la procura di Ivrea - sia stato concesso lo status di vaccinatore fa storcere il naso a tanti e sa di cortocircuito. Tanto che il presidente della Regione, Alberto Cirio dice: «Immaginare, oggi, che un soggetto del genere possa essere considerato idoneo come vaccinatore Covid lo trovo personalmente incredibile». E ancora: «Per questa ragione ho chiesto domani una audizione in Unità di Crisi del direttore dell'Asl, in modo da avere una relazione chiara sulla vicenda e valutare giuridicamente quali siano gli effettivi poteri di intervento diretto ed immediato della Regione». Delicati, invece, punta il dito contro tutti. Contro l'Ordine dei medici, contro i media, contro chiunque lo abbia in qualche modo criticato. Dice: «Hanno travisato le mie parole. Hanno scritto sulle relazioni frasi che non ho mai detto». Ma l'indagine? «Io ho sempre fatto tutto per bene. Ho curato decine di malati a casa loro, evitando ricoveri. Ho seguito i protocolli di Ippocrate e sono tutti guariti». Ma Ippocrate.org è l'associazione che è stata chiusa qualche giorno fa, che adoperava nelle cure contro il Covid farmaci off label, e medici che agivano da remoto. Ma c'è di più. Contro Delicati è attualmente in corso un procedimento disciplinare a Macerata, l'ordine provinciale dei medici al quale è iscritto. È stato sentito a fine novembre: il giudizio sarà emesso tra qualche giorno. E non filtrano indiscrezioni.

Covid, chiude Ippocrateorg: troppi medici sospesi perché non vaccinati. La Repubblica il 4 dicembre 2021. Il sito è stato un punto riferimento dei No Vax. Proponeva cure alternative mai riconosciute dalla scienza. L'annuncio del fondatore Mauro Rango: "Riapriremo a gennaio, stiamo cercando nel frattempo altri medici che siano ancora iscritti all'Ordine e che possano prendere in mano il servizio assistenza". Era nato nel marzo del 2020, all'inzio della pandemia, col supporto di medici volontari. Ma ora Ippocrateorg, la contestata rete di camici bianchi legata a un gruppo Facebook e a un sito diventato un riferimento per alcune terapie domiciliari alternative ai protocolli ufficiali contro il Covid, la cui validità per la malattia non è stata riconosciuta dalla scienza, ha chiuso i battenti: niente più assistenza. Troppi medici No Vax. La maggior parte dei volontari, in realtà quasi tutti, sono stati infatti sospesi, non possono più esercitare neppure in telemedicina, perché non vaccinati. Ippocrateorg lo scorso anno era giunto agli onori delle cronache per un convegno in Senato sulle cure domiciliari che aveva scatenato un acceso dibattito politico. Ma anche per un possibile collegamento col decesso di un uomo No Vax di 68 anni all'ospedale Sant'Anna di Ferrara, ricoverato in condizioni già critiche per Covid che si sarebbe inizialmente "curato" a casa con l'assistenza via mail e telefono di un medico volontario legato all'associazione. Ora ad annunciare la chiusura della rete è stato, sul canale YouTube, il fondatore Mauro Rango, che, come lui stesso aveva chiarito in passato, non è un medico ma uno studioso di "scienze sociali e diritti umani", che ha raccolto l'esperienza terapeutica "messa a punto presso le isole Mauritius (dove viveva durante la pandemia, ndr) e quella di altri medici in Germania e in Italia in cui si era usata l'idrossiclorochina a domicilio e il plasma iperimmune in ospedale". I medici volontari della rete sono stati sospesi perché "non si sono vaccinati e perché - attacca Rango - hanno curato più di 60mila persone a casa, lasciate sole, con Tachipirina e vigile attesa, che non avevano nessun altro a cui rivolgersi se non a uno dei nostri medici per telefono". L'auspicio di Ippocrateorg è riaprire a gennaio. "Siamo stati costretti a chiudere - dice - ma abbiamo chiuso fino al 31 dicembre, perché stiamo cercando nel frattempo altri medici che siano ancora iscritti all'Ordine e che possano prendere in mano il servizio assistenza". "In passato - aggiunge - a dei volontari che dopo il lavoro o nelle pause chiamavano pazienti gratuitamente e li assistevano sarebbe stato dato un premio. Oggi sono persone che vengono perseguitate. Di cui sui giornali, sulle tv, non si fa altro che dire le peggiori cose". Netta è invece la posizione della Fnomceo, Federazione degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri che sul tema deicamici bianchi che se non vaccinati non possono esercitare la professione rimarca chiaramente: "I medici che non si vaccinano contro il Covid non possono esercitare. Lo dice la Legge, che considera la vaccinazione quale requisito essenziale della professione - sottolinea infatti il presidente Filippo Anelli - lo ha ribadito, il Consiglio di Stato, che ha affermato che 'per legge, e ancor prima per il giuramento di Ippocrate',  il personale sanitario è 'tenuto in ogni modo ad adoperarsi per curare i malati, e giammai per creare o aggravare il pericolo di contagio del paziente con cui nell'esercizio della attività professionale entri in diretto contatto". "Invitiamo i pazienti - conclude Anelli - a continuare a fidarsi e ad affidarsi, anche per le cure domiciliari del Covid, ai propri medici di famiglia, che hanno seguito, nelle loro case, oltre 4 milioni e mezzo di pazienti con questa malattia. Inoltre, ricordiamo che nessuna terapia per il Covid può sostituire la vaccinazione, che rappresenta lo strumento di prevenzione, affiancato dalle cure nel caso in cui il cittadino si ammali".

Covid, chiude il centro di assistenza IppocrateOrg: «Troppi medici no vax sospesi». L’annuncio sui social del fondatore Mauro Rango. Nell’associazione «operava» anche Daniele Giovanardi. Benedetta Centin su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2021. «Abbiamo chiuso l’assistenza perchè la maggior parte dei medici è stata sospesa e non possono più esercitare nemmeno in telemedicina, perchè non si sono vaccinati e perchè hanno curato oltre 60mila persone a casa, lasciate sole con tachipirina e vigile attesa. Persone che non avevano nessun altro a cui rivolgersi se non a un medico nostro». L’annuncio attraverso un video su YouTube e i canali social, ha spiazzato anche più di qualche medico che aderisce a IppocrateOrg. A dare la notizia della chiusura (temporanea, fino al 31 dicembre) dell’assistenza il dottor Mauro Rango, fondatore della rete di medici che ha fornito aiuto ai pazienti attraverso la telemedicina e (contestate) terapie domiciliari anticovid. Della rete di medici sospesi faceva parte anche Daniele Giovanardi, fratello gemello dell’ex ministro Carlo

I procedimenti disciplinari

«Questa è la nostra grande colpa. Fino a qualche anno fa a volontari come noi si sarebbe dato un premio, oggi sono perseguitati» ancora le parole di Rango. Tra questi Alberto Dallari, il medico di Reggio Emilia che la procura di Ferrara ha iscritto sul registro degli indagati per omicidio colposo e omissione di soccorso in merito alla morte di Mauro Gallerani, il pensionato centese no vax, 68 anni, morto il 7 ottobre all’ospedale Sant’Anna per Covid e “comorbidità multiple”. Tra il 25 agosto e il 3 settembre, scoperto di essere positivo al Covid, si era affidato alla telemedicina, al medico che sposa la linea di Ippocrateorg (Rango aveva comunque smentito che il centese avesse richiesto assistenza all’associazione). Ora, Dallari non è sospeso ma, a quanto si apprende, ha due procedimenti disciplinari aperti nei suoi confronti dell’ordine dei medici di Reggio Emilia. Per un paziente di Reggio Emilia finito all’ospedale e che avrebbe curato per settimane, quindi per Gallerani, altro caso per cui il camice bianco era stato chiamato a fornire delucidazioni, come risulta dagli atti nel fascicolo della procura.

Fabrizio Caccia per il Corriere.it il 5 dicembre 2021. «Già mi hanno sospeso, volete farmi proprio radiare?». Il dottor Daniele Giovanardi, 71 anni, gemello dell’ex senatore Carlo, dice che anche adesso che IppocrateOrg, assoluto punto di riferimento dei no vax italiani, ha chiuso il servizio di accettazione dei pazienti Covid, lui comunque continuerà «a dare dei consigli...». La rete, composta da circa 200 (discussi) medici volontari, di cui Giovanardi fa parte, si è vista costretta a sospendere l’assistenza per mancanza di terapeuti: più della metà degli aderenti, infatti, sono stati fermati dall’Ordine perché non vaccinati. E così ora per legge non possono più esercitare la professione, neppure attraverso la telemedicina. «Invitiamo i pazienti a continuare ad affidarsi, anche per le cure domiciliari del Covid, ai propri medici di famiglia», ha tuonato Filippo Anelli, presidente di Fnomceo, la Federazione degli Ordini dei medici. Nata nel marzo 2020 IppocrateOrg, legata a un sito e a un gruppo Facebook, nel settembre scorso era arrivata perfino a mettere piede al Senato con un convegno sulle cure domiciliari alternative grazie all’iniziativa di alcuni esponenti della Lega che aveva scatenato un putiferio. E c’erano state anche molte polemiche per un possibile collegamento col decesso di un uomo no-vax di 68 anni all’ospedale Sant’Anna di Ferrara che si sarebbe inizialmente «curato» a casa con l’assistenza via mail e telefono di un medico volontario legato all’associazione. Giovanardi, che non si è vaccinato, eccepisce: «Già, i medici di famiglia. L’80 per cento consiglia ai propri assistiti alle prese col Covid tachipirina e vigile attesa! In caso di complicanze rivolgersi alle Usca o correre in ospedale. Ma col cavolo che vanno a casa a visitarli, cosa che io invece ho sempre fatto. Sono un medico in pensione». Ma non vaccinato a causa - dice lui - di una tromboflebite: «Tutta la documentazione l’avevo spedita alla Asl di Modena, ma quelli manco hanno risposto alla mia Pec». «Ora resteremo chiusi fino al 31 dicembre perché stiamo cercando nel frattempo altri medici che siano ancora iscritti all’Ordine e che possano prendere in mano il servizio assistenza», ha annunciato il fondatore della rete, Mauro Rango, che non è un medico ma uno «studioso di scienze sociali» che ha raccontato di aver basato IppocrateOrg sull’esperienza terapeutica «messa a punto presso le isole Mauritius» dove lui viveva nel 2020 durante la pandemia. Terapie domiciliari alternative ai protocolli ufficiali, la cui validità è duramente criticata dalla scienza: «Ci hanno accusato di essere una setta, perfino di curare il virus coi suffumigi di zenzero o le code di rospo», si difende Laura Campanelli, coordinatrice delle risorse umane della rete, non vaccinata anche lei «per motivi di salute» ma «con tutti vaccinati in famiglia». Fabio Burigana, coordinatore scientifico di IppocrateOrg, taglia corto: «Io sono vaccinato e non sono stato sospeso. Nessuno ha mai messo in discussione le cure classiche, ma molti di noi preferiscono attendere i nuovi vaccini, quelli a virus inattivato, mentre nutrono riserve verso quelli attuali a Rna. E comunque i suffumigi con lo zenzero nella prima fase del virus fanno bene». Di quest’ultima affermazione, ovviamente, nei protocolli per la cura del Covid non c’è traccia...

Da adnkronos.com il 3 dicembre 2021. Il medico Daniele Giovanardi, fratello dell'ex senatore Carlo, è stato sospeso dall'Ordine dei medici perché non si è ancora vaccinato contro il Covid. L'ex parlamentare e ministro lo difende: ''Io ho fatto la terza dose, sono assolutamente convinto che bisogna vaccinarsi perché questa è la strada giusta. Mio fratello, invece, ha sempre sostenuto di non essere un no vax, ma è molto critico rispetto ad alcuni aspetti del green pass, rispetto alla vaccinazione sui bambini e sulla questione che i vaccini siano ancora definiti sperimentali". ''Detto questo -racconta Giovanardi all'Adnkronos- mio fratello, ex primario al pronto soccorso di Modena, aveva scritto una raccomandata all'Asl locale spiegando di avere determinate patologie. Da qui la sua richiesta di verificare se poteva essere esentato dal vaccino o meno''. "L'Asl di Modena - sottolinea l'ex senatore - avrebbe dovuto, per correttezza e trasparenza, rispondere nel merito. Se l'Asl diceva che non si doveva vaccinare, la questione era risolta, vista la presenza delle sue patologie. Se invece, diceva no questa patologia, comunque, è tale per cui mio fratello deve vaccinarsi, allora a quel punto l'Ordine dei medici, legittimamente, come fa con tutti, lo avrebbe dovuto sospendere. Ma la scelta di sospenderlo senza avere una risposta, non mi sembra una cosa corretta. E questo, sia chiaro, vale sia per mio fratello che per qualsiasi cittadino. Rinnovo, ancora, il mio appello a vaccinarsi tutti''.

Suo fratello ed senatore Carlo lo difende: "Non è no-vax". Daniele Giovanardi sospeso dall’Ordine dei medici perché non vaccinato: “Non ho paura di morire di Covid”. Redazione su Il Riformista il 2 Dicembre 2021. Daniele Giovanardi, fratello dell’ex senatore Carlo, è stato sospeso dall’Ordine dei Medici perché non si è sottoposto alla vaccinazione contro il Coronavirus. L’ex primario del pronto soccorso dell’ospedale di Modena avrebbe però inviato una documentazione all’Ausl che lo esenterebbe dalla profilassi.

In sua difesa si è espresso l’esponente politico di centro destra: “Mio fratello ha sempre negato di essere un no vax. Ha espresso perplessità sul Green pass e sul vaccino ai bambini, questo sì, ma – ha sottolineato Carlo Giovanardi – ha indicato di avere una patologia all’Ausl che lo ha portato a decidere di non vaccinarsi e credo che in un rapporto di trasparenza l’Ausl avrebbe dovuto rispondergli nel merito, dicendogli se doveva comunque vaccinarsi o meno”. L’ex senatore e fratello del medico punta quindi il dito sull’Ausl che non avrebbe inviato alcuna comunicazione, inviando invece la richiesta di provvedimento all’Ordine dei Medici. La sospensione è arrivata qualche giorno fa ed è stata confermata dal medico al quotidiano online ‘La Pressa’. Daniele Giovanardi ha specificato di aver fatto avere all’Ausl di Modena la documentazione, certificati medici, che lo esenterebbe dalla vaccinazione. Giovanardi, che non ha mai nascosto la sua contrarietà al Green pass, a metà ottobre ha partecipato insieme ad altri medici a una manifestazione in piazza contro il certificato. E si è espresso persino sui vaccini, sottolineando che per Ema e Aifa “sono pienamente sperimentali, potranno esprimersi su sicurezza ed efficacia solo nel dicembre 2023. Mentre per alcuni commentatori non se ne può parlare perché dicono che non lo è”. Proprio sui vaccini aveva posto alcune domande all’Ausl chiedendo informazioni con alcune raccomandate sul punto. Anche in altre occasioni ha insistito sul fatto che “il consenso informato è alla base di tutto e per vaccinarsi uno deve essere informato bene e chiaramente”. La sua contrarietà al vaccino, nel suo caso specifico, l’aveva espressa più volte pubblicamente, anche in contrasto con la scelta dell’ex senatore di centrodestra di vaccinarsi. “Un vaccinatore – ha detto in un’intervista – mi deve scrivere due cose: che da vaccinato non infetterò nessuno e che non è un farmaco sperimentale e c’è certezza che non avrò effetti collaterali. Deve firmare”, è la bizzarra proposta del medico. Ma a confermare i dubbi sulla sua contrarietà ai vaccini è un’affermazione di Giovanardi: “Io non ho paura di morire di Covid, se sono sopravvissuti al virus Silvio Berlusconi e Boris Johnson perché io dovrei avere paura?” così l’ex direttore del pronto soccorso del Policlinico di Modena, Daniele Giovanardi, ha continuato a difendere la sua scelta di non sottoporsi a vaccino anti covid anche di fronte all’obbligo imposto ai medici come lui”.

Coronavirus, la proposta di Ilaria Capua contro i no vax: "Quanto dovete pagare per ogni giorno di ricovero". Libero Quotidiano il 21 luglio 2021. Chi non si vaccina paghi: è la proposta avanzata dalla nota virologa Ilaria Capua che, sulle colonne del Corriere della Sera, ha detto la sua: "A chi non si vaccina per scelta, si potrebbe immaginare di addebitare una piccola franchigia in caso di ricovero Covid. Si tratterebbe di una sorta di ticket che vada a coprire almeno i costi non sanitari dell'ospedale: letto, biancheria, mensa, servizio di pulizia, utenze". Parole che hanno subito acceso la polemica. "In cambio della libertà di scegliere se vaccinarsi o no, si potrebbe chiedere un piccolo contributo rispetto al costo totale del ricovero in terapia intensiva - ha continuato la virologa direttrice dell'One Health Center of Excellence dell'Università della Florida -. Si tratterebbe solo di 1000-2000 euro al giorno. Il resto, ovvero i costi di medici, infermieri, medicine e altro necessario alla cura, sarebbero esclusi dal compito perché quelli ce li passa lo Stato, visto che la sanità è pubblica. Per ora, e fintanto che il sistema non finisca dissanguato". La Capua ha spiegato di aver fatto questa proposta perché "ogni malato di Covid, ricoverato in terapia intensiva o subintensiva, costa decine e decine di migliaia di euro". Poi ha aggiunto: "Le vittime di oggi, e dei tempi a venire, saranno individui che non hanno iniziato o completato il ciclo vaccinale. Sono solo i non vaccinati a finire in ospedale e a prescindere dall'età anagrafica, saranno solo i non vaccinati a incidere sul bilancio degli ospedali".

Ilaria Capua per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2021. Che brutto momento. Le voci incontrollate sulle proprietà trasformate della variante Delta si oppongono all'esercito di illusi che credono che questa crisi sanitaria scomparirà per miracolo spazzata via dai venti estivi. Già, perché se così non fosse, appena si ricomincia a frequentare più i luoghi chiusi invece degli spazi aperti il nostro Sars-CoV-2 si troverà nella condizione di nuocere ancora alla nostra salute e alla nostra economia. Ricapitoliamo gli ultimi sei mesi: abbiamo iniziato e portato avanti una campagna vaccinale con risultati straordinari. I vaccini di nuova generazione, messi a regime, hanno praticamente azzerato le morti in tutti i Paesi che sono riusciti a immunizzare le fasce a rischio ospedalizzazione. La scienza ha fatto il suo dovere. I vaccini funzionano e i dati raccolti indicano che sono molto più sicuri di qualsiasi altro vaccino utilizzato sino ad oggi. I grandi numeri parlano chiaro: il rischio di subire i danni che il virus può provocare anche in soggetti che sviluppano la forma asintomatica è di gran lunga maggiore degli eventuali effetti associati alla vaccinazione. I dati di tutti i Paesi occidentali sono concordi: i nuovi vaccini registrati presso le Autorità Ue e Usa sono pienamente efficaci nei confronti della forma grave provocata dalle varianti esistenti. Ma cosa possiamo volere di più? Vi ricorderete che all'inizio, anche nei Paesi occidentali, il vaccino non si trovava e sembrava che ce l'avrebbero fatta solo gli americani. Adesso che ce n'è in abbondanza per noi europei (a neanche 8 mesi dalla produzione del primo flacone) c'è una parte di noi che fa i capricci. Non parlo degli estremisti, di quelli che mai e poi mai si farebbero inoculare un preparato biotecnologico come un vaccino (o come molti fermenti lattici o l'insulina, peraltro) perché temono di diventare creature geneticamente modificate. Sto parlando di quelli che fra chiacchiere da bar, cose sentite in tv e una sana dose di egoismo miope oltre che insopportabile si sono trasformati in dei convinti sostenitori del «ma io anche no» e stanno creando i presupposti per un altro inverno di chiusure e di ambulanze a sirene spiegate, di esami di screening o controllo oncologico posticipati che si porteranno via ancora vite oltre ad aggiungere dolore e sofferenza a questi anni durissimi. Ma davvero. Basta pensare che tanto a me non (mi) viene, basta voltarsi dall'altra parte mentre i nuvoloni si caricano di pioggia e di tempesta. Basta credere che ci penserà qualcun altro a vaccinarsi e che ci si può sentire esonerati o giustificati da un atto di responsabilità civile che serve a fermare l'emorragia di vite ma anche di soldi dal nostro sistema sanitario. Perché c'è anche un aspetto che sfugge ai più. Ogni malato di Covid ricoverato in terapia intensiva o subintensiva costa decine e decine di migliaia di euro. I pazienti Covid del nostro recente passato - il mondo prima dei vaccini - hanno gravato inevitabilmente, loro malgrado, sulla Sanità europea in termini di centinaia di milioni euro. Le vittime di oggi, e dei tempi a venire, saranno individui che non hanno iniziato o completato il ciclo di vaccinazione. In altre parole, sono solo i non vaccinati a finire in ospedale. E a prescindere dall'età anagrafica saranno soltanto i non vaccinati a incidere sul bilancio degli ospedali. Ma allora ai non vaccinati per scelta - ovvero coloro che rifiutano di assumere una misura di salute pubblica necessaria a tenere l'emergenza sotto controllo, e di conseguenza uno strumento essenziale per mantenere in equilibrio il sistema sanitario nazionale - si potrebbe immaginare di proporre una piccola franchigia, per non dire ticket, in caso di ricovero Covid che vada a coprire almeno i costi «non sanitari» dell'ospedale: letto, biancheria, mensa , servizio di pulizia, utenze. In cambio della libertà di scegliere se vaccinarsi o no, si potrebbe chiedere un piccolo contributo rispetto al costo totale del ricovero in terapia intensiva. Si tratterebbe soltanto di 1.000-2.000 euro al giorno. Sì, al giorno. Il resto, ovvero i costi di infermieri, medici, medicine ed altro necessario alla cura, sarebbero esclusi dal computo perché quelli ce li passa lo Stato. Per ora, e fintanto che il sistema non finisca dissanguato.

Quasi 1200 i camici bianchi sospesi. Alessandro Meluzzi come De Mari, sospeso dall’Ordine dei Medici: “Non vaccinato contro il Covid”. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Non solo Silvana De Mari. L’Ordine dei medici di Torino ha provveduto a sospendere un secondo membro noto al pubblico televisivo e social: si tratta di Alessandro Meluzzi, criminologo, psichiatra, psicoterapeuta e volto dei salotti televisivi, noto ai più per le sue teorie complottiste e per le sue posizioni No-Vax. Meluzzi, esattamente come la De Mari, non si è vaccinato contro il Covid e per questo è stato sospeso per “inosservanza dell’obbligo vaccinale” non potendo più avere contatti con i propri pazienti fino al 31 dicembre prossimo. Sulla questione Meluzzi, che solo pochi giorni fa durante la trasmissione “Controcorrente”, su Rete4, condotta da Veronica Gentili, aveva parlato di “gestione poliziesca della pandemia”, tiene il punto. “Ho fatto una scelta consapevole quella di non vaccinarmi”, ha detto commentando la sospensione all’AdnKronos.  Meluzzi, laureato in Medicina e Chirurgia a Torino, non accusa però il proprio Ordine, a cui è iscritto da 41 anni: “Credo abbia fatto quello che doveva fare sulla base delle normative vigenti. D’altra parte – aggiunge – sino cresciuto nella cultura di Socrate, le leggi della polis si rispettano qualsiasi cosa se ne pensi, quindi va bene così”. Sul vaccino però nessun passo indietro: “Assolutamente no, per il momento me ne guardo, le ragioni che mi hanno spinto a non farlo non le vedo modificate ad oggi modificate”.

I MEDICI SOSPESI – Sono attualmente 1.187 i medici e gli odontoiatri sospesi in Italia in quanto non immunizzati, un numero in lieve crescita rispetto alla scorsa settimana, quando erano 1.100. Una statistica raccolta dalla Fnomceo, Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, che ha ricevuto gli aggiornamenti da parte degli Ordini provinciali. Un numero tronco: i dati sono stati comunicati alla Fnomceo solo da 60 Ordini su 106. Inoltre le sospensioni dall’entrata in vigore del decreto legge sono state in realtà 1.507, ma 320 sono state poi revocate “perché i sanitari hanno comunicato l’avvenuta vaccinazione”, precisa la Federazione.

No vax tra i medici, la denuncia dell’Ordine: «Non riusciamo a radiarli». Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 19 settembre 2021. Il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli: «La Commissione che esamina i ricorsi è scaduta nel 2020 e non è stata più rinnovata». Le sanzioni, così, rimangono in sospeso. Il ministero della Salute: «Al lavoro per sanare la situazione». ROMA - «I medici No Vax possono dormire sonni tranquilli, ma quando mai riusciremo a radiarli? — sospira Antonio Magi, presidente dell’Ordine dei medici di Roma —. Il fatto è che la Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie (Cceps), che dovrebbe pronunciarsi sui ricorsi, è scaduta da oltre 7 mesi e già all’epoca aveva un arretrato di 2-3 anni di pratiche. Il giorno che si occuperà dei No Vax, saremo già passati al prossimo virus...».

«Quando si riunirà la nuova Ceeps, saremo alle prese con un altro virus»

Magi è consigliere della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) e insieme al suo presidente, Filippo Anelli, qui lancia un appello al premier Draghi: «È diventato un mistero glorioso il fatto per cui ancora non si sia insediata la nuova Commissione, il nostro potere disciplinare così, per un fatto burocratico, rimane monco...».

Quei medici e magistrati nominati da Palazzo Chigi

La Cceps è l’organo di giurisdizione speciale istituito presso il ministero della Salute, i cui componenti, medici e magistrati, vengono scelti dal Ministero della Salute e dal ministero della Giustizia e poi nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

1500 camici bianchi ancora non vaccinati

Ieri Anelli, all’Huffington Post, ha rappresentato bene la situazione: «Ad oggi — ha detto — abbiamo circa 1.500 medici ancora non vaccinati. Ma non sono tutti No Vax, attenzione. Almeno un 30% di questi si è già prenotato per ricevere la vaccinazione. La quota di duri e puri esiste ma è residua, parliamo di circa lo 0,1-0,2%. E l’assurdo è che non riusciamo a radiarli, per esempio quelli che fanno propaganda contro i vaccini sui social e in televisione. Perché fanno ricorso e la sanzione si sospende automaticamente, non diventa mai effettiva».

La sanzione dell’Ordine si sospende perché dovrebbe essere la Commissione Cceps a decidere sui ricorsi dei medici, ma nel 2020, in piena pandemia, ha terminato il suo quadriennio di lavori e non è stata più rinnovata.

Fonti del ministero della Salute, presso cui la Cceps è istituita, assicurano che già da tempo «si sta lavorando per sanare questa situazione». Ma il dottor Magi sembra saperne qualcosa in più: «La Salute ha già fornito i nomi dei medici per la nuova Commissione — dice —. La cosa si sarebbe bloccata al ministero della Giustizia».

«Abbiamo già provato — aggiunge il presidente Anelli — a interpellare sia il ministro della Salute Speranza che la ministra della Giustizia Cartabia ma per adesso non ci sono novità».

Il dottor Magi, Ordine di Roma: «Le sanzioni bloccate dalla burocrazia»

I 1500 medici ancora non vaccinati costituiscono appena lo 0,3% dei medici italiani. Una percentuale esigua. E se è vero che le radiazioni appaiono come una chimera, sono attualmente 728 le sospensioni in tutta Italia già scattate per mancata vaccinazione, in base alle legge 44 dell’obbligo vaccinale per i sanitari. Ma i provvedimenti sono stati anche di più, ben 936, 208 però sono stati poi revocati perché i medici in questione si sono vaccinati. «Anche qui da noi a Roma - conclude Antonio Magi - abbiamo avuto casi di professionisti che, una volta sospesi dallo stipendio, sono corsi a vaccinarsi . C’è stata però qualche lentezza da parte delle Asl nel comunicarci i nomi dei non vaccinati, perciò è successo anche che per mesi in tanti hanno potuto continuare tranquillamente a lavorare nei reparti».

Un altro sabato di proteste da Milano a Roma. Anelli: "Non riusciamo a radiare i medici no-Vax". Cristina Bassi il 19 Settembre 2021 su Il Giornale. In 5mila nel capoluogo lombardo. Allarme del presidente dell'ordine dei dottori. Milano. «Saremo milioni», annunciava l'amministratore del canale Telegram «Basta Dittatura!» in vista delle manifestazioni contro i vaccini e contro il Green pass che ieri alle 18, come ogni sabato da alcune settimane, sono tornate in diverse città. In realtà da Milano a Roma i partecipanti alle singole proteste sono stati poche centinaia. «Ricordate: niente interviste per i leccac... dei canali di manipolazione», continua il capopopolo rivolto ai ribelli nella chat punto di riferimento dei No vax. L'amministratore «raccomanda una serie di regole nei rapporti con la stampa», invitando a non rilasciare interviste «alle testate che lavorano per il sistema». E aggiunge: «Se vedete che impostano la solita intervista-teatrino con qualche soggetto ridicolo per delegittimare tutta la piazza, invitateli vivacemente ad allontanarsi (in modo non-violento, non dategli il pretesto di fare le vittime)». A Milano i circa 5mila manifestanti hanno violato l'ordine della Questura di limitarsi a un presidio statico all'Arco della Pace e hanno sfilato da piazza Fontana al Duomo, prima in alcune centinaia, fino al punto prestabilito. Qui li aspettavano altri No pass riuniti dal primo pomeriggio. Tra loro, al presidio dell'associazione Genesi, Francesco Maria Fioretti, ex presidente di sezione della Cassazione. Poi tutti sono ripartiti, non autorizzati e scortati dalle forze dell'ordine, verso la sede Rai di corso Sempione. I partecipanti hanno anche inscenato un blocco stradale spontaneo all'altezza di via Canova. Poliziotti e carabinieri in assetto antisommossa si sono spostati a presidiare la sede Rai. Sono partiti insulti proprio verso le forze dell'ordine («Buffoni», «vergognatevi») e cronisti e cineoperatori («Giornalisti terroristi»). A Torino c'era un migliaio di persone. In piazza anche gli anarchici che a un certo punto sono passati alla testa del corteo con furgone e microfono. A Trento invece hanno sfilato per il centro, contro il Green pass e l'estensione del certificato verde ai lavoratori, circa 200 persone. E l'Ordine dei medici solleva un nuovo problema: «È l'assurdo, non riusciamo a radiare» i medici No vax, «neanche quelli che fanno propaganda contro i vaccini». Il motivo: «Ci proviamo ma loro fanno ricorso e la sanzione si sospende, non diventa mai effettiva». A bloccare il procedimento è un problema burocratico. La Commissione chiamata a esaminare il ricorso e decidere sulla radiazione proposta dall'Ordine competente «è scaduta nel 2020». A spiegarlo all'Huffington Post è Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo). La Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie è un organo di giurisdizione speciale istituito presso il ministero della Salute, i cui componenti vengono nominati con decreto del presidente del Consiglio dei ministri. Con la Commissione scaduta i procedimenti restano nel limbo. Anelli ricorda che a oggi sono circa 1.500 i medici non vaccinati, ma almeno il 30 per cento di questi ha già prenotato la vaccinazione. Cristina Bassi

La bomba dei medici No Vax. Almeno mille lavorano ancora. Enza Cusmai il 7 Settembre 2021 su Il Giornale. Sono sospesi solo sulla carta, ma restano al lavoro perché le Asl e gli ordini territoriali non dialogano. A Palermo, medici non vaccinati sono in servizio attivo: visitano, curano e operano, magari assistono i pazienti nei reparti Covid, senza che siano immunizzati. Salvatore Amato, presidente dell'Ordine dei medici locale, conferma che su 11mila iscritti, i 250 No Vax rimangono al lavoro perché le Asl non hanno predisposto alcuna delibera di allontanamento e l'Ordine non può cancellarli dall'albo. In Calabria, invece, l'Ordine non ha ricevuto neppure una sola segnalazione dal Dipartimento di prevenzione, quindi non si conosce neppure il numero dei medici non vaccinati. Sono esempi significativi e allarmanti. I medici No vax sono una bomba a orologeria. L'obbligo vaccinale è scattato, per legge, lo scorso primo di aprile. Ma sono tanti gli ordini provinciali che si lamentano delle lungaggini delle Asl che non trasmettono i dati per inerzia, inefficienza o forse evitare di restare senza personale in questo periodo di crisi. Però, l'ostruzionismo è evidente. A Torino, le prime comunicazioni di sospensiva sono arrivate dalle Asl a fine agosto e le cancellazioni dell'Ordine sono scattate solo a settembre. A Roma, ad oggi, nessuna Asl ha comunicato i nominativi dei medici No Vax. Nella provincia di Venezia, i medici sospesi sono stati una ventina, ma dall'Ordine spiegano che molte altre comunicazioni tardano ad arrivare. Non sono messi meglio gli infermieri. Anche qui circa duemila no vax circolano liberamente con la sospensiva sulla testa ma senza che l'Ordine abbia potuto spedirli a casa senza stipendio. Sulla legge della obbligatorietà, la situazione è caotica. Tanto che il presidente della Fnomceo, ieri ha lanciato l'allarme: solo 529 medici sono stati sospesi, 120 riammessi perché «pentiti» ma gli altri mille sembrano intoccabili per mancanza di comunicazione tra Asl e Ordini territoriali. «Questi colleghi spiega Filippo Anelli - stanno lavorando senza essere immunizzati ma se vengono meno all'obbligo vaccinale devono cambiare lavoro. È una situazione inaccettabile». Anelli spiega il perverso meccanismo di allontanamento del lavoro. La legge 60 dice che il sanitario che non si vaccina, deve essere segnalato alla Asl di riferimento e andrebbe immediatamente sospeso. Ma il condizionale è d'obbligo. Affinché medici o infermieri, possano essere allontanati dal servizio, occorre un atto formale del rispettivo ordine che ne dichiari la sospensiva ufficiale. Risultato: ad oggi molti casi di non vaccinati tra gli operatori sanitari sono sospesi solo sulla carta. Ordini e Asl non comunicano o lo fanno con mesi di ritardo, così chi non ha diritto di esercitare prosegue tranquillamente. In barba alla legge sulla obbligatorietà dei vaccini per i sanitari. Ed è un insorgere di proteste. «Le Asl non ci comunicano i dati», confermano alla Fnopi, la federazione degli operatori sanitari. Da Roma, il presidente dell'ordine dei medici Antonio Magi tuona: «Non sono riuscito a sospendere ancora nessuno». Eppure su 46mila medici ci sarà sicuramente qualcuno non vaccinato. Purtroppo, se l'Asl non fa l'accertamento io ho le mani legate. Non ci è permesso entrare nell'anagrafe vaccinale. Ho protestato più di una volta ma spero che non sia una mossa per non perdere personale. Noi come medici pretendiamo il green pass per chi entra in ospedale e non ci vacciniamo? Inammissibile». Magi è scoraggiato. «Ho inviato a marzo scorso l'elenco dei nostri medici iscritti al Dipartimento di prevenzione, siamo a settembre e ancora non sappiamo niente. Probabilmente avremo i dati il 31 dicembre, quando scade la legge sull'obbligo vaccinale. E tutti saranno rimasti al loro posto, vaccinati e non». E intanto arriva una lettera firmata da circa trecento accademici contro il green pass. Il firmatario più celebre è lo storico Alessandro Barbero, che definisce discriminatorio il passaporto vaccinale: «Un conto è dire Signori, abbiamo deciso che il vaccino è obbligatorio perché è necessario, e di conseguenza, adesso introduciamo l'obbligo: io non avrei niente da dire su questo. Un altro conto è dire No, non c'è nessun obbligo, ma non puoi più andare all'università senza il Green Pass». Enza Cusmai

No vax, negli ospedali di Milano 120 medici e 300 infermieri non vaccinati. In tutta l’Ats Milano - Lodi sono tremila gli operatori non ancora immunizzati. Via a 420 lettere di sospensione. Stefania Chiale su Il Corriere della Sera l'8 settembre 2021.

Stafania Chiale per il "Corriere della Sera" l'8 settembre 2021. Ci sono ancora tremila operatori sanitari non vaccinati contro il Covid-19, è in grado di rivelare il Corriere, tra le corsie delle strutture sanitarie o attivi come liberi professionisti nella città metropolitana di Milano e nel lodigiano. Un terzo di questi sono medici, un terzo infermieri e un terzo altri professionisti come tecnici di laboratorio, fisioterapisti, veterinari o psicologi. L’Ats Milano invierà oggi le prime 420 lettere di sospensione di questo enorme gruppo (oltre ai 941 già sospesi a fine luglio): si inizia con i 120 medici e i 300 infermieri ancora non vaccinati e operativi nelle strutture sanitarie pubbliche e private. Poi si procederà con tutti gli altri. La domanda sorge spontanea: avendo l’obbligo di vaccinazione, i sanitari non dovrebbero essere tutti vaccinati o, se contrari, già sospesi dall’incarico? No. Il motivo? La fisarmonica dei tempi nell’iter di verifica. Con la conseguenza che in diversi reparti oggi lavorano ancora medici, infermieri o tecnici non immunizzati e anche dichiaratamente contrari alla profilassi. Andiamo con ordine: l’Ats Milano, su un totale di circa 100mila operatori sanitari, aveva a inizio estate una lista di 17mila professionisti che risultavano non aver aderito alla campagna. Con le successive verifiche si è arrivati a 9.861 lettere di richiamo da inviare. La legge prevede che dopo la prima ne venga inviata una seconda: se il lavoratore non risponde neanche a questa, scatta il provvedimento di sospensione. L’Ats invia l’atto di accertamento (che porta alla sospensione) a lui, all’ospedale e all’ordine professionale. Tutta questa procedura avviene in due modi possibili: via pec, per chi ne è in possesso, o via raccomandata. È questo secondo gruppo che, per i ritardi che si accumulano, è rimasto indietro. Per le 3.591 persone contattate via pec, l’iter si è concluso a fine luglio: si è arrivati a inviare 941 atti di sospensione. Tra i destinatari, pochissimi lavoravano negli ospedali (100 nelle strutture sanitarie e altrettanti nelle socio-sanitarie), e pochissimi erano medici: appena 16. Tra gli altri, si contavano 21 infermieri, 92 biologi, 68 veterinari, ma soprattutto 335 psicologi e 391 tecnici di radiologia, laboratorio, fisioterapisti. Su 941, ne sono stati riammessi tra i 200 e i 300, perché si sono vaccinati o per altri validi motivi. L’iter con raccomandata (che coinvolgeva 6.270 operatori) è molto più lungo: appena a fine luglio si stava mandando la seconda lettera di avviso. Circa la metà di questo gruppo ha proceduto a vaccinarsi o ad offrire all’Ats una legittima esenzione. Oggi, quindi, i primi atti di sospensione: 420 di 3.000 in arrivo. I medici questa volta sono circa un migliaio: 120 nelle strutture ospedaliere, gli altri sono liberi professionisti e qualche medico di medicina generale. Tra i dipendenti del Fatebenefratelli, che a fine luglio ha proceduto a sospendere 5 lavoratori (4 già rientrati), si attendono nuovi provvedimenti: in un reparto dell’ospedale addirittura metà degli operatori attivi si dichiarano, tra i corridoi e nelle chat con i colleghi, apertamente no vax. Non hanno alcuna intenzione di vaccinarsi, dicono per ora.

Gabriele Pipia per ilmessaggero.it il 12 agosto 2021. «Comunicazione urgente: la dottoressa è sospesa dal servizio da mercoledì 11 agosto fino a nuova comunicazione. Gli assistiti possono rivolgersi al proprio distretto di competenza per effettuare la nuova scelta del medico di medicina generale». Cervarese Santa Croce (Padova), piazza don Rino Brasola, porta d’ingresso dell’ambulatorio medico. Il cartello affisso dai vertici dell’Ulss Euganea non esplicita le motivazioni del provvedimento, ma in paese il passaparola corre veloce: Dina Sandon è la prima dottoressa di base della provincia di Padova sospesa dall’Ulss perché non vaccinata. L’Ordine dei Medici procederà poi alla sospensione dall’albo: ieri, martedì 9 agosto, il presidente Crisarà si è subito preso carico della pratica. Da oggi i suoi 1.300 pazienti dovranno dunque cambiare medico e lei non potrà esercitare nemmeno come libera professionista, fino al 31 dicembre oppure fino a quando deciderà di vaccinarsi. Sempre ieri sono stati sospesi anche un dottore di guardia medica e tre dipendenti dell’Ulss, infermieri e operatori sociosanitari. 

I numeri. Sale a undici, dunque, il numero totale dei sanitari padovani finora sospesi. La scorsa settimana erano scattati i provvedimenti per tre oss e tre infermieri, ieri invece le Pec sono state inviate ad altri cinque lavoratori tra cui appunto i primi due medici. In tutta la provincia il mese scorso risultavano oltre quattromila sanitari non vaccinati: dai medici agli infermieri, dai farmacisti ai veterinari, dai biologici ai fisioterapisti. Il decreto numero 44 firmato dal premier Mario Draghi lo scorso aprile prevede per il personale No Vax il demansionamento oppure, nel caso in cui il cambio di ruolo non sia possibile, la sospensione. L’Ulss Euganea è competente dei procedimenti per tutti i sanitari residenti in provincia di Padova, sia che operino nel pubblico sia che lavorino nel privato. Attualmente i fascicoli aperti per gli accertamenti sono 2.500 e un’apposita commissione deve valutare se le giustificazioni presentate sono valide o meno.

Il caso. A far più clamore è la sospensione dei primi due medici. L’Ulss ufficialmente non diffonde i nomi, ma il caso della dottoressa Dina Sandon a Cervarese è inevitabilmente sulla bocca di tutti. «Ci ho parlato anche io, ma l’ho vista ferma sulle proprie convinzioni - spiega il sindaco Massimo Campagnolo - Io sono favorevole al vaccino e già vaccinato con doppia dose, ma rispetto le scelte di tutti e so che non si può obbligare nessuno. Stiamo facendo il massimo per far capire alla gente che è meglio vaccinarsi e abbiamo messo a disposizione di una nuova giovane dottoressa un ambulatorio negli spazi del Comune». Su questa nuova dottoressa, da poco di ruolo a Cervarese, confluiranno molto probabilmente diversi pazienti della professionista sospesa. I 1.300 cittadini potranno procedere al cambio del medico rivolgendosi al Distretto socio-sanitario Terme Colli diretto dal dottor Piero Realdon. Nessun disagio invece per i pazienti dove lavorava l’altro dottore sospeso, impegnato nel servizio di guardia medica nella cintura urbana di Padova. Nelle sedi di guardia medica si lavora a turnazioni e quindi l’attività verrà svolta dai colleghi.

Chi cambia idea. Oltre alle sospensioni, però, dalla direzione Ulss di via Scrovegni arrivano anche notizie ritenute «molto positive». Nelle ultime due settimane oltre un centinaio di sanitari si è convinto a fare il vaccino: solo l’altro ieri ben 40 lavoratori (tutti del comparto privato) si sono prenotati. E tra i dipendenti Ulss i non vaccinati ora sono 490 ma un mese fa erano 573. Il numero è ancora molto alto ma continua a calare. Per fare il punto su una situazione così delicata ieri sono intervenuti Michela Barbiero (direttrice amministrativa), Aldo Mariotto (direttore Sanitario) e Ivana Simoncello (responsabile del Dipartimento di Prevenzione). È proprio Ivana Simoncello a gestire i fascicoli con i vari accertamenti dei presunti No Vax. Ma quando terminerà la procedura per tutti? «Non so dare una data certa - risponde lei - Abbiamo dato gli ultimatum fino al 30 luglio e quindi abbiamo iniziato da pochi giorni. Faremo il prima possibile». Al direttore sanitario Mariotto spetta la patata bollente dell’eventuale carenza di personale se ci sarà una raffica di provvedimenti: «Ma abbiamo un piano pronto per affrontare ogni situazione», assicura. Per ora l’Ulss non ha eseguito alcun demansionamento. Solo sospensioni, con la netta sensazione che non sia finita qui.

Pistoia, infermiera no-vax contagia 5 pazienti: rischia delle sanzioni. Chiara Nava il 20/08/2021 su Notizie.it. Un'infermiera no-vax di Pistoia ha contagiato 5 pazienti. La Asl Toscana sta valutando a quali sanzioni andrà incontro la donna. Un’infermiera no-vax di Pistoia ha contagiato 5 pazienti. La Asl Toscana sta valutando a quali sanzioni andrà incontro la donna. Per lei potrebbero arrivare presto dei provvedimenti molto seri. Un’infermiera ha deciso di non sottoporsi alla vaccinazione anti-Covid. In seguito, avrebbe contagiato 5 pazienti del suo reparto. Questa è la storia di un’infermiera no-vax che lavora nel reparto di chirurgia dell’ospedale San Jacopo di Pistoia. I cinque pazienti sono risultati positivi all’interno del reparto, dopo che sono stati sottoposti ad un tampone in seguito alla positività dell’infermiera. In questi giorni la Asl Toscana Centro valuterà la posizione della donna, che potrebbe subire dei seri provvedimenti.

Infermiera no-vax contagia pazienti: sanzioni. La posizione della donna è sotto osservazione della Asl Toscana Centro, che sta valutando come procedere. Probabilmente l’infermiera andrà incontro a delle sanzioni, come previsto dalle regole, e ci saranno delle conseguenze che potrebbero anche essere pesanti. Cinque pazienti del reparto hanno ricevuto l’esito del tampone positivo dopo che la scoperta della positività dell’infermiera. Le condizioni di questi pazienti, come riportato da La Nazione, sono buone e sono tutti stati trasferiti in isolamento, come da protocollo. In reparto ci sono altri 32 pazienti, che sono risultati negativi al tampone, ma che ogni giorno continuano ad essere monitorati quotidianamente. Gli operatori sanitari hanno l’obbligo di essere vaccinati contro il Covid.

Infermiera no-vax contagia pazienti: le parole di una senatrice di Forze Italia. La vicenda è stata definita di “estrema gravità” dalla senatrice Barbara Masini, di Forza Italia. “Ora l’azienda sanitaria minaccia provvedimenti nei confronti dell’operatrice eppure da aprile esiste un obbligo vaccinale, pena la sospensione per gli operatori sanitari, perché quest’infermiera era ancora in servizio? Questo è l’ennesimo esempio di come la sanità toscana sia mal gestita. È dall’inizio della pandemia che l’operato della giunta regionale è inadeguato. Ora la misura è colma, il presidente Eugenio Giani dia risposte concrete su cittadini” ha dichiarato la senatrice di Forza Italia Barbara Masini, che ha sottolineato che sarebbe necessario un intervento del presidente di Regione Eugenio Giani, per dare delle risposte concrete a tutti i cittadini. Secondo la donna questo sarebbe un esempio di pessima gestione della sanità toscana.

B.L. per “Il Messaggero” il 13 agosto 2021. Non si può stare in corsia negli ospedali senza vaccino. La regola vale per tutti, medici, infermieri, oss: senza doppia dose scatta la sospensione e si azzera la retribuzione. Non c'è appello alla Costituzione che tenga: a Cagliari, all'ospedale Brotzu, i carabinieri hanno ricordato a una dipendente ribelle che si era presentata al lavoro senza vaccino, l'esistenza delle nuove disposizioni anti Covid. L'operatrice, di fronte alle contestazioni dei superiori, aveva mostrato di non essere d'accordo. E per convincerla sono stati chiamati i militari. Scene che potrebbero in teoria ripetersi, perché sono partite le prime 57 lettere di Ats Sardegna per la sospensione dal servizio dei medici e dei sanitari senza vaccino. Ma tra il personale che opera nelle strutture pubbliche e private accreditate nell'isola, sono oltre 700 coloro che ancora non hanno ricevuto il siero anti Covid-19. Non solo Sardegna. In Veneto, l'Ulss 3 Serenissima sta definendo in queste ore la sospensione di 40 sanitari, dopo i 30 sollevati dal servizio nei giorni scorsi. Si tratta perlopiù di infermieri che hanno rifiutato senza motivazioni plausibili di sottoporsi alla vaccinazione obbligatoria. Il direttore generale dell'azienda sanitaria, Edgardo Contato, non ha escluso che tra i no vax più convinti ci possano essere anche medici di base, rimasti fermi nelle proprie convinzioni nonostante i richiami inviati nelle scorse settimane. E anche in Liguria sono scattate le prime sospensioni: in 71 i sanitari no vax del sistema regionale sospesi senza stipendio o spostati a servizi non a contatto con i malati. Sono 34 all'ospedale San Martino di Genova, che ha oltre 5000 dipendenti, due al pediatrico Gaslini, 16 nella Asl3 di Genova, 17 nella Asl4 del Tigullio e 2 nella Asl della Spezia. Le prime statistiche in Sardegna parlano di diverse posizioni. Dai no vax convinti ai non vaccinati per problemi di salute o altri pericoli. E ci sono ora delle apposite commissioni che stanno esaminando le certificazioni sanitarie per le esenzioni. C'è anche chi - tra il vedere e non vedere - non sta ritirando la posta: in tanti si sono rifiutati di prendere la raccomandata. Per loro ora scatta il sollecito, come previsto dalla normativa vigente: vale come ultimatum prima della sospensione con decorrenza immediata. I trasgressori saranno sottoposti a sanzioni ancora più pesanti nel caso in cui dovesse nascere in corsia un eventuale focolaio legato alla mancata vaccinazione.

Fabio Giuffrida per "open.online" il 20 agosto 2021. Continuano a fare rumore le azioni e i destini dei medici che si oppongono alla vaccinazione anti Covid. In Sicilia, dove la situazione si fa sempre più critica, l’ordine dei medici di Siracusa ha sospeso – fino al 31 dicembre – ben 49 medici non ancora vaccinati contro il Covid. «Il medico che può e non si vaccina – ha detto il presidente Anselmo Madeddu – è un pessimo esempio per la società. Le regole si rispettano, così come le indicazioni della comunità scientifica accreditata, altrimenti è meglio cambiar mestiere. Vaccinarsi non è solo un atto di attenzione per la propria salute, ma anche un dovere civico e una necessaria tutela che ogni medico deve garantire ai propri pazienti e assistiti». La sospensione comporta il divieto di lavorare a qualsiasi titolo sia come medico dipendente che come libero professionista: vengono esclusi dalla sospensione coloro che nel frattempo dovessero decidere di vaccinarsi. «Non faremo alcuno sconto ai colleghi che dovessero fare propaganda No vax. Il vaccino è l’unica arma che possediamo. Questa è una battaglia di civiltà e di corrette conoscenze scientifiche, che possiamo vincere solo tutti insieme», ha tuonato il presidente Madeddu. 

1.000 sanitari ricorrono al Tar contro l’obbligo vaccinale. In Toscana, invece, 1.000 sanitari a rischio sospensione, tra medici e infermieri, stanno ricorrendo al Tar contro l’obbligo vaccinale, chiedendo di fatto la sospensione dei provvedimenti nei confronti di coloro che non si sono ancora vaccinati, come riporta Repubblica. «Abbiamo già notificato ed è in corso di deposito del ricorso con circa 1.000 ricorrenti ma stiamo raccogliendo altre firme, circa 200, per un altro ricorso uguale», dice l’avvocata Tiziana Vigni che segue i medici insieme al collega Daniele Granara, docente di diritto costituzionale. Uno dei passaggi del ricorso, come riporta Repubblica, recita: «Un ordinamento che voglia definirsi libero e democratico non può imporre ai propri consociati trattamenti sanitari dei quali non vi sia certezza in ordine alle garanzie di efficacia e sicurezza, né esporli ad alcun tipo di rischio per la salute che non sia temporaneo e/o di lieve entità».

Cosa contestano i sanitari. Granara ha presentato ricorsi simili in altre regioni d’Italia per un totale di circa 6.500 operatori della sanità. Secondo i legali, infatti, i loro assistiti qualora dovessero seguire queste norme – che, di fatto, li costringono a vaccinarsi – si vedrebbero «costretti a sacrificare il proprio diritto alla salute e la propria libertà di autodeterminazione, piegandosi a un obbligo liberticida e oppressivo delle opinioni differenti da quelle maggioritarie». In altre parole, proseguono, si violerebbe l’articolo 32 della Costituzione che recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge». Per Granara e Vigni, la “disposizione di legge” sarebbe viziata perché un trattamento sanitario obbligatorio è ammesso solo in presenza di cure che prevedono effetti collaterali lievi o per i quali sono garantiti eventuali risarcimenti, non previsti invece per il vaccino anti-Covid. E ancora: «La vaccinazione per la prevenzione da Covid-19 – si legge nel ricorso – dato il suo carattere, allo stato, sperimentale, come dimostra la determina di Aifa, Agenzia del Farmaco Italiana, del 23 dicembre 2020, con cui sono imposti studi fino al dicembre 2023 “per confermare l’efficacia e la sicurezza” del vaccino Pfizer, importa una serie di danni e rischi di natura permanente e di grave entità, senza contare che potrebbe arrecarne di ulteriori ancora, tuttavia, allo stato ignoti». Un obbligo vaccinale che, secondo i legali, si esplica in un «consenso informato che non è né un consenso, essendo estorto con la minaccia della sospensione dalla professione e della retribuzione, né informato, in quanto non sono note le controindicazioni a lungo termine». Gli avvocati, infine, citano il passaggio di una sentenza della Corte Costituzionale (la 118 del 18 aprile 1996): «Nessuno può essere semplicemente chiamato a sacrificare la propria salute a quella degli altri, fossero pure tutti gli altri». 

Covid, diecimila in Lombardia, cinquemila in Veneto: i numeri potenziali dei daspo ai medici no vax.  Michele Bocci su La Repubblica il 14 agosto 2021. Tutte le posizioni sotto esame e adesso le Asl fanno partire le lettere. Molti si è pentono e fanno l’iniezione per rientrare in servizio. C’è il medico di base che lascia un intero paese senza assistenza, c’è il camice bianco ospedaliero che sguarnisce un reparto di trincea e l’infermiere che interrompe il lavoro in clinica privata. In piena estate le Regioni stanno arrivando in fondo alle complicate procedure dettate dalla legge sull’obbligo per sospendere il personale sanitario che non si vuole vaccinare.

50 sanitari no vax: scattano le prime sospensioni. Giuseppe Spatola il 27 Luglio 2021 su Il Giornale. I provvedimenti dopo che Ats ha inviato all’ordine gli elenchi dei sanitari che non si sono prenotati. Un settantina tra medici e operatori sanitari bresciani da domani mattina saranno sospesi dal lavoro perché non vaccinati contro il Covid. In tutto si tratta di una quindicina di camici bianchi richiamati dall’Ordine dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri della provincia di Brescia per "l’inosservanza vaccinale". Stessa sorte per altri 50 iscritti all’Ordine dei Tecnici sanitari di radiologia medica, delle professioni sanitarie tecniche, della riabilitazione e della prevenzione (TSRM-PSTRP).

La sospensione. Il Consiglio direttivo dell’Ordine provinciale delle professioni sanitarie di Brescia, primo in Lombardia, questo pomeriggio ha preso atto dei primi atti di accertamento inviati da Ats deliberando le sospensioni che rispettano le indicazioni del Decreto legislativo 44/2021. "La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l'esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative - ha rimarcato il presidente dell'ordine Luigi Peroni -. Da pubblico ufficiale devo ottemperare la legge e non posso discuterla". Non solo. "Ai sospesi - ha proseguito Peroni - lasceremo una porta aperta annullando il provvedimento se l’iscritto si vaccinerà".

Tra "no vax" e pentiti. Nelle scorse ore solo due operatori sanitari hanno inviato all'ordine di appartenenza le prenotazioni agli hub vaccinali, per tutti gli altri, invece, solo silenzio e nessun passo indietro. Tra i sospesi la maggior parte lavora in ospedali pubblici o privati convenzionati ma non mancano i liberi professionisti. Questi durante tutto il periodo di sospensione non potranno svolgere attività ambulatoriali. "Chi lavorerà essendo sospeso dall'ordine - ha precisato Peroni - rischia di essere denunciato per esercizio abusivo della professione".

I presidenti degli ordini danno l'esempio. “Seguo la legge e personalmente sto con la scienza – ha spiegato Peroni –: con i colleghi ci siamo vaccinati il 27 dicembre 2020 e non è stato facile visto che eravamo i primi e non sapevamo ancora a cosa saremmo andati incontro. Alla fine tra i nostri 6 mila iscritti un centinaio ha manifestato dubbi sul vaccino. Nella lettera di sospensione inviata agli iscritti sospesi chiederemo di ripensarsi e li inviteremo alla vaccinazione". Intanto il fronte "no vax" divide anche i sanitari. Giuseppe Spatola

Daniela Lauria per blitzquotidiano.it l'11 agosto 2021. Aveva rifiutato il vaccino per l’influenza e per questo era stata sospesa dal lavoro, ma il Tribunale le ha dato ragione. Succede in Sicilia dove una infermiera no vax ha presentato ricorso contro il decreto regionale che prevedeva l’obbligo della vaccinazione antinfluenzale per tutti i medici e gli operatori sanitari. Per far fronte alla pandemia da Covid, con una ordinanza, la Regione Sicilia aveva sancito l’obbligo di immunizzazione contro l’influenza per il personale sanitario. Ragion per cui l’azienda sanitaria aveva esortato l’infermiera a vaccinarsi entro il 20 dicembre, pena la sospensione temporanea dal servizio per tutta la campagna vaccinale. Ma secondo il Tribunale di Messina, tale obbligo sarebbe illegittimo. L’infermiera, iscritta al sindacato Nursind aveva fatto ricorso contro il decreto regionale: il sindacato aveva contestato che un atto amministrativo come quello regionale, non potesse prevalere sul diritto al lavoro e sul principio “di autodeterminazione del cittadino e del lavoratore”. 

Infermiera no vax reintegrata, la sentenza. Per il giudice del Lavoro l’introduzione dell’obbligo del vaccino non rientra tra le competenze regionali. “La normativa volta a contrastare la diffusione del Covid 19 – si legge nella sentenza – non ha introdotto un obbligo vaccinale per il personale sanitario il cui mancato assolvimento determina inidoneità al lavoro”. Al di la della ragionevolezza o meno del provvedimento l’obbligo “può essere imposto solo con una legge dello Stato” e non con una ordinanza regionale. Secondo la legge nazionale sulla vaccinazione anti Covid, invece, gli operatori no vax vanno assegnati ad altri compiti, ma non sospesi dal lavoro.

Congelata la sospensione dei medici No-Vax. Zaia: "Senza di loro gli ospedali veneti in tilt". Nino Materi il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. E contro il certificato verde le discoteche pronte a presentare ricorso al Tar. Ieri gli aggiornamenti «in diretta tv» del governatore Luca Zaia hanno squarciato il velo su uno scenario inquietante. Che, se risulta tale in una regione come il Veneto all'avanguardia nella lotta al Covid, figuriamoci nel resto del Paese. Le parole di Zaia evidenziano almeno quattro gravi criticità: 1) l'impossibilità di dare corso alle «sospensioni» previste per il personale sanitario che rifiuta di vaccinarsi, perché ciò rischierebbe di mandare in crisi l'operatività degli ospedali; 2) la mancanza di norme chiare rispetto ai profili, (giuridici e sindacali) che regolamentano il rapporto di lavoro tra azienda sanitaria e medici e infermieri no-vax; 3) la presenza quasi totale dei pazienti ricoverati in terapia che risultano tutti non vaccinati. «Dieci giorni fa - sottolinea Zaia - avevamo una giornata con 40 nuovi casi, oggi 669, un +150% di casi. Sono quasi tutti asintomatici. Qual è il rischio? Quello vero è che i giovani asintomatici possano contagiare genitori non vaccinati. Dei ricoverati in terapia intensiva solo uno era vaccinato con una sola dose, gli altri non erano vaccinati. Su 160 pazienti ricoverati che abbiamo monitorato, 144 non erano vaccinati, 16 con una dose, con due dosi non ce n'era nessuno». E poi: «La variante Delta è oggi predominante. Un dato: su 280 campioni sequenziati, 226 sono Delta e 22 Alfa (inglese). L'Rt è 1,6 in Veneto». Ma, per certi versi, l'aspetto più paradossala è quello dei medici che dovrebbero curare i malati di Covid, ma hanno la pretesa assurda di farlo senza sottoporsi («per una questione di libera scelta») alla vaccinazione. Casi sporadici? Tutt'altro. Fino al mese scorso i camici bianchi «oppositori» erano 45mila. Nei loro confronti le aziende sanitarie avrebbero dovuto avviare le «procedure per la sospensione». Ma privarsi di 45 mila professionisti tra medici e infermieri significherebbe - e le parole di Zaia lo confermano - mettere a repentaglio la piena funzionalità degli ospedali proprio nel momento in cui ne serve invece la massima efficienza. E allora non c'è da meravigliarsi se 45.753 operatori sanitari attualmente non vaccinati, la percentuale delle pratiche di «procedimento di sospensione» riguarda solo il 2,36% del totale. Insomma, l'ennesima riprova di come alle «minacce» non si vogliano - o meglio, non si possano - far seguire i fatti concreti. Emblematica la resa del governatore Zaia: «Le sospensioni dei sanitari che non si sono ancora vaccinati sono state congelate perché manca personale per sostituirli». Ma a soffrire non è solo il comparto sanitario. Ieri i gestori delle discoteche hanno presentato ricorso al Tar contro la decisione del Consiglio dei ministri di mantenere chiuse le piste da ballo. In questo settore sono 2.500 le imprese per un totale di 50 mila dipendenti e un fatturato complessivo di 5 miliardi di euro (nel 2019). Dal 2020, invece, zero incassi e tutti disoccupati. Nino Materi 

Vaccino obbligatorio per i sanitari? I no vax presentano una raffica di ricorsi al Tar: "Rischio paralisi". Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. Da quando si è deciso di rendere obbligatoria la vaccinazione per il personale sanitario è partita una raffica di ricorsi al Tar da parte di chi non ha alcuna intenzione di immunizzarsi. Molti ne sono arrivati, come scrive il Tempo, ai Tribunali di Firenze e Torino, ma non solo. Ciò fa presagire un caos che rischia di compromettere il completamento del piano vaccinale. Il Tar di Bologna, per esempio, ha accolto l'istanza di fissazione del ricorso contro la decisione delle Asl di sospendere il personale che rifiuta il vaccino anti Covid. La data dell'udienza non è ancora stata fissata ma, secondo l'avvocato che li rappresenta, i sanitari non vaccinati potranno continuare a esercitare la professione senza alcuna limitazione, in attesa del giudizio di merito. In Italia gli operatori sanitari "no vax" o "ni vax" sono ancora oltre 45mila, più del 30 per cento, e i ricorsi fanno pensare a uno scenario piuttosto preoccupante: qualora le Asl sospendessero l'intero personale non vaccinato, "si rischierebbe la paralisi dell'intera sanità", scrive il Tempo. Diversa l'interpretazione della Regione Emilia Romagna, che in una nota ha precisato che in realtà non c'è stato alcuno stop ai procedimenti di sospensione. Dunque, i procedimenti avviati dalle Aziende sanitarie per ottemperare all'obbligo vaccinale dei sanitari previsto dalla legge nazionale "sono oggi pienamente efficaci ed operativi". Adesso, inoltre, si teme che lo stesso meccanismo possa scattare anche per il personale scolastico che non si vuole vaccinare. Basti pensare che il generale Figliuolo ha già chiesto di avere entro il 20 agosto l'elenco di "tutti coloro che non possono o non vogliono vaccinarsi". E il sottosegretario Costa ha fornito questa interpretazione: qualora a entro quella data il problema dovesse persistere, scatterà l'obbligo vaccinale anche per il personale della scuola, misura ritenuta indispensabile per garantire la didattica in presenza.

Estratto dell’articolo di Michele Bocci per “la Repubblica” il 5 giugno 2021. Qualche caso c' è stato, sporadico. A Ragusa pochi giorni fa la Asl ha sospeso 30 suoi dipendenti, tra medici e infermieri. Il 20 maggio 18 addetti di una Rsa della provincia di Verona sono stati allontanati dalla direzione e più o meno negli stessi giorni a Brindisi l'azienda sanitaria ha fermato 5 operatori fino al 31 dicembre. […] Pochi, pochissimi episodi a fronte a migliaia di lavoratori della sanità che secondo le stime non avrebbero copertura vaccinale anti Covid, quindi non starebbero rispettando l'obbligo introdotto dall' articolo 4 dal decreto legge 44 del primo aprile. […] Il punto è che per far valere l'obbligo vaccinale, la norma dovrebbe essere applicata mentre praticamente nessuna delle Regioni italiane ha concluso l'iter preliminare indicato dal decreto scritto dagli uffici della ministra della Giustizia Marta Cartabia e presentato dal presidente del Consiglio Mario Draghi e dal ministro alla Salute Roberto Speranza il 26 marzo scorso in conferenza stampa. L' atto è stato approvato il primo aprile e convertito in legge il 28 maggio. Le Regioni avevano chiesto, attraverso la commissione sanità della loro Conferenza, di fare delle modifiche al testo. La norma stabilisce scadenze precise, tutte saltate. […]

Da tgcom24.mediaset.it il 3 agosto 2021. Un'operatrice sociosanitaria di Terni è stata sospesa dal lavoro e dallo stipendio per aver rifiutato il vaccino contro il Covid-19. Non d'accordo con il provvedimento, ha fatto ricorso al giudice del lavoro che ha, però, ritenuto la misura "adeguata e proporzionata". La donna, addetta all'assistenza di anziani non autosufficienti, si era detta contraria al siero perché "è un trattamento sanitario ancora di natura sperimentale". In un primo momento, l'operatrice socio-sanitaria aveva fatto ricorso alla Usl competente che aveva confermato lo stato di inidoneità, limitando però la sospensione fino al 31 dicembre, salvo un ulteriore protrarsi dello stato d'emergenza. A quel punto la donna si è rivolta al giudice del lavoro, ottenendo anche in questo secondo caso esito negativo. Nell'ordinanza si legge infatti che "il dipendente è tenuto a osservare precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell'integrità psico-fisica e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto". La sentenza del giudice evidenzia inoltre "l'obbligo di prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui possono ricadere effetti di azioni negligenti. È quindi da ritenersi prevalente, sulla libertà individuale di non sottoporsi al vaccino, il diritto alla salute dei soggetti fragili che entrano in contatto con chi esercita professioni sanitarie. 

"Così a Lodi e a Codogno abbiamo evitato la strage". Alberto Giannoni il 7 Giugno 2021 su Il Giornale. I ricordi del responsabile dei pronto soccorso: "Un disastro se avessimo chiuso. Ma sono rimasti tutti".

Stefano Paglia è il medico che per primo in Occidente ha affrontato il Covid. Responsabile del Pronto soccorso di Lodi e Codogno, ha dormito per 38 giorni in ospedale, ha probabilmente salvato Milano e se c'è una dimensione eroica nella resistenza alla pandemia, si incarna nella sua storia.

Dottor Paglia, Codogno non ha più pazienti Covid, qual è il quadro?

«Rassicurante, l'andamento è simile a quello dell'estate scorsa, ma la speranza è che grazie alle vaccinazioni non ci sarà la ripresa. È anche una ragionevole previsione, la verità la avremo a ottobre».

Conte la definì un eroe.

«È una cosa strana, ma chi ha detto sventurati i Paesi che hanno bisogno di eroi ha detto una verità. Chi fa il proprio dovere a volte viene vestito con quest'abito: gli altri ne hanno bisogno per affrontare meglio ciò che spaventa».

Ha vissuto qualcosa di incredibile.

«Siamo stati catapultati in una situazione inimmaginabile. Sapevamo che una pandemia sarebbe tornata: esiste una ciclicità, ma non potevamo certo sapere che saremmo stati noi a trovarcela faccia a faccia, svegliandoci a Wuhan».

Il riconoscimento che l'ha colpita?

«In Vaticano. Il Papa ci passa in rassegna, saluta tutti uno a uno. Mi presento e mi dice: Che Dio la benedica».

Lei ha fede?

«Non sono un buon cristiano, ma sì».

Cosa ha pensato?

«All'inizio di tutto, quella notte concitata in cui abbiamo chiuso Codogno, troppo piccolo per essere difeso, arroccandoci su Lodi. Al quinto tampone positivo in 12 ore venne fuori che 25 infermieri e 10 medici erano contatti non protetti».

Lei ha avuto paura?

«Io ho dato per scontato per ci avrei lasciato la pelle, e temevo che alcuni dei miei sarebbero morti. Abbiamo avuto molti contagiati ma non è successo. È stato... Siamo stati fortunati».

Stava dicendo un miracolo?

«Non è nostro merito. In altri contesti hanno avuto caduti. Avevamo accettato l'idea che accadesse. Lì dentro vedevamo solo un pezzo di realtà».

Il modello Codogno? La prontezza?

«La prontezza sì. E pure Lodi era una situazione paradossale. Si doveva chiudere anche lì: un gruppo di sanitari avrebbe dovuto mettersi in quarantena, ma se fosse caduta Lodi non ci sarebbe più stato argine. Ci fu un intervento e la deroga. Inviai una mail ai miei per precisare che, se sani, eravamo autorizzati a lavorare. Scrissi proprio: Che Dio vi benedica».

Chiamava i suoi medici «fratelli».

«Quella sera è successo tutto velocemente. Abbiamo evacuato Codogno, testato tutti, bloccato gli accessi. Mi spostai a Lodi per presidiarla con l'unica infermiera. Il 21 è arrivata la prima ondata di pazienti, drammatica. E una direttiva ci imponeva la quarantena, pena reato».

Cosa successe fra voi?

«Tanti operatori si rivolgevano a me come dirigente: Cosa dobbiamo fare?. Bastava una telefonata al medico per ottenere la quarantena come contatti. Non mi sento di dirvi cosa dovete fare - rispondevo - ma cosa farò io. Sono rimasti tutti. Come sarebbe andata se 20 o 30 si fossero segnalati come contatti?».

Sarebbe caduta Milano.

«Sarebbe stata la strage. Come Bergamo, ma con le dimensioni di Milano».

Ha scritto: «La paura ci renderà migliori». Lo siamo?

«Dico cosa è stata per me. Ha messo a nudo molto, ha fatto vedere di quante non-verità era infarcita la nostra esistenza, come la convinzione di essere intoccabili e controllare tutto».

Ha due figlie. La racconterà come una vicenda che l'ha segnata?

«Dobbiamo farci ancora i conti. Mio padre diceva che l'esperienza nasce dalla somma degli errori. Io vedo la tentazione di un colpo di spugna, come se fosse tutto una parentesi da dimenticare. Non penso che sarebbe saggio farlo. Anzi».

Si riposerà?

«Nel 2020 ho accumulato 900 ore di straordinario non retribuito. Dopo Ferragosto, vediamo».

Bergamo, il messaggio choc: "Basta notizie sui contagi". Felice Manti il 6 Giugno 2021 su Il Giornale. Alzano, ipotesi insabbiamento per alcuni mancati tracciamenti. E l'ex dirigente Asst di Bergamo lascia. Nascondere alcune notizie per non creare panico ha scatenato l'epidemia nella Bergamasca? La domanda rimbalza dall'altra sera, dopo lo speciale Tv7 su Raiuno che ha rivelato una chat, in mano alla Procura di Bergamo che indaga per epidemia colposa, che chiama pesantemente in causa Carlo Alberto Tersalvi, 58 anni, direttore sanitario dell'Agenzia di tutela della salute di Bergamo. Il 23 febbraio 2020 avrebbe infatti chiesto di «togliere, se riuscite» la notizia dei primi casi di contagio nell'ospedale di Alzano che stava circolando tra i dirigenti degli ospedali lombardi. Il manager si è dimesso appena prima della messa in onda del servizio. Secondo i documenti esclusivi di fatto il primo positivo venne certificato già il 22 febbraio 2020 al Papa Giovanni di Bergamo, ma a lui e ai familiari venne detto di non dire niente. Nessuno comunicò il rischio alla cittadinanza, aggravando così il contagio. Alcuni sanitari con sintomi sarebbero stati lasciati senza tampone, come scrive disperato in una mail il medico del Lavoro dell'ospedale, Marino Signori, morto un mese dopo. «Se fosse provato che Ats Bergamo abbia omesso di comunicare la positività del primo paziente Covid sarebbe un atto consapevole gravissimo - dice al Giornale l'avvocato Consuelo Locati, che difende i familiari di 500 vittime della Bergamasca - Siamo purtroppo abituati ad assistere a silenzi e negazione di responsabilità da parte delle istituzioni lombarde ma questo fatto, se confermato, rappresenterebbe anche forse un tentativo di insabbiamento ancor più grave». Le ripercussioni penali a carico di Tersalvi, già al centro di un caso dopo il decesso per Covid dell'ex responsabile dell'ufficio Igiene e Sanità Pubblica, Vincenza Amato, sono affare dei pm, che potrebbero anche sentire i familiari del paziente positivo mai tracciato. Ma intanto si apre uno squarcio ancora più inquietante sui quei giorni decisivi per la diffusione del virus. Si sa che il 27 febbraio l'allora assessore alla Sanità Giulio Gallera e i suoi chiesero tramite la Prefettura al Cts di chiudere Alzano e Nembro, inutilmente. Le indagini devono stabilire di chi fu la colpa della mancata chiusura della zona rosa tra Alzano e Nembro (gli indagati sono già cinque) alla notizia delle prime positività e chi decise di riaprire l'ospedale di Alzano, innescando di fatto il cluster nella Bergamasca. Non certo l'ex direttore dell'ospedale Giuseppe Marzulli, «Mi opposi soprattutto per tutelare la gente della Valseriana - dice al Giornale - Pensai tra me e me, o chiudi qui la carriera o rischi l'incriminazione per epidemia colposa». E lui disse no, coraggiosamente. «Da pensionato - aggiunge - mi sono letto tutta la documentazione ufficiale, verbali del Cts eccetera e ho capito che le colpe di questo caos sono anche del ministero, che ha le stesse responsabilità del Pirellone, se non addirittura maggiori». Nei guai c'è anche Ranieri Guerra, funzionario Oms, indagato per false dichiarazioni ai magistrati sul report sparito che inguaiava il ministro della Salute Roberto Speranza. Sul tavolo infatti c'è sempre la questione del piano pandemico, il cui mancato aggiornamento potrebbe costare un avviso di garanzia per Speranza ma anche per i suoi predecessori Giulia Grillo e Beatrice Lorenzin, per i dirigenti del ministero dal 2014 a oggi e per alcuni esponenti politici di primissimo piano, da Gallera al sindaco di Bergamo Giorgio Gori. «Quando ho visto Speranza vantarsi di aver fatto un piano pandemico con 100mila morti ho provato molta rabbia», sottolinea Marzulli, che ripete: «Siamo stati mandati a morire...».

Fa.Ro. per "il Messaggero" il 17 maggio 2021. Tremila medici in tutta Italia, di cui 195 solo nel Lazio, si sono dimessi volontariamente dal loro lavoro in ospedale, in appena un anno, prima di aver maturato il diritto ad andare in pensione. Lo rivela l' associazione di medici dirigenti Anaao-Assomed. «Il lavoro in ospedale, infatti, non è più attrattivo - si spiega in una nota - Pochi decenni fa, essere assunti a tempo indeterminato in un reparto ospedaliero era un traguardo, l'obiettivo. Era il posto fisso di prestigio, che dava soddisfazione professionale, opportunità di carriera, una certa sicurezza economica. Ci si realizzava. A nessuno sarebbe mai venuto in mente di dimettersi dagli ospedali. Oggi non è più così». E così nel Lazio, oltre ai pensionati, lo scorso anno il 2,4 per cento dei medici ospedalieri ha lasciato il posto per scelta. A spingere i medici a lasciare volontariamente il lavoro in ospedale, secondo Anaao-Assomed, sono diversi motivi: «Il taglio del personale e la carenza di specialisti hanno creato organici sempre più ridotti rendendo insostenibile il carico di lavoro». Quindi «la presenza delle donne in sanità è in progressivo aumento, e i turni disagevoli previsti dal lavoro in ospedale non consentono, soprattutto a loro, di dedicarsi alla famiglia come vorrebbero». In queste condizioni, «il privato diventa sempre più attrattivo, anche per la possibilità di un trattamento fiscale agevolato del reddito prodotto - si legge nella nota - La medicina di famiglia o specialistica ambulatoriale per il fatto di non conoscere il lavoro notturno e festivo. La speranza è soprattutto di avere un lavoro meno burocratico, più autonomo, con orari più flessibili». I medici ospedalieri «si sentono semplici pedine per coprire i turni, prestatori d' opera ai quali mandare ordini di servizio, chiedere di sopperire alle carenze del sistema o pretendere sempre maggiore produzione ed efficienza. Non parte di un progetto, ma elementi marginali, sostituibili, che pesano sul bilancio quando sono malati, in gravidanza o in congedo, anche per motivi formativi».

A cura di Francesco Cofano per video.repubblica.it il 5 aprile 2021. Victor Aparicio è un infermiere che lavora nel reparto di terapia intensiva all’ospedale Gregorio Maragñon di Madrid. Ha condiviso sui social due immagini del suo volto: la prima scattata un anno fa, all’inizio dell’emergenza sanitaria, e la seconda del marzo 2021. In un anno il suo viso è profondamente invecchiato. Le foto sono subito diventate virali.

Lisa Clark ha sottoscritto la candidatura. Medici e infermieri italiani candidati al Nobel per la Pace: “Per primi in occidente in trincea contro il Covid”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 17 Marzo 2021. “Il personale sanitario italiano è stato il primo nel mondo occidentale a dover affrontare una gravissima emergenza sanitaria, nella quale ha ricorso ai possibili rimedi di medicina di guerra combattendo in trincea per salvare vite e spesso perdendo la loro”. È questa la motivazione che ha spinto la Fondazione Gorbachev ad avanzare la candidatura per il Premio Nobel per la Pace 2021 per i medici e gli infermieri italiani. Oslo ha espresso il suo benestare. Una candidatura simbolo nella lotta contro il Covid. A sottoscrivere la candidatura è stata Lisa Clark, statunitense che vive in Toscana, già Nobel per la Pace nel 2017 per il suo impegno per il disarmo atomico. Il protocollo del prestigioso Premio prevede infatti che la proposta sia sottoscritta da un altro Nobel per la Pace. Clark, da volontaria, ha prestato assistenza durante le fasi più critiche della pandemia ed è co-presidente dell’International Peace Bureau. “Ho candidato il corpo sanitario italiano al premio Nobel per la Pace – ha dichiarato Lisa Clark – poiché la sua abnegazione è stata commovente. Qualcosa di simile a un libro delle favole, da decenni non si vedeva niente del genere. Il personale sanitario non ha più pensato a se stesso ma a cosa poteva fare per gli altri con le proprie competenze”. Il testimonial dell’iniziativa promossa dalla Fondazione Gorbachev di Piacenza è Luigi Cavanna, primario di onco-ematologia all’ospedale di Piacenza, noto per essersi impegnato personalmente nel prestare aiuto ai malati di Covid a domicilio. Nel 2020 il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato al World Food Program.

Da liberoquotidiano.it il 19 marzo 2021. Ormai è quasi un format, a Dritto e Rovescio, il programma condotto da Paolo Del Debbio su Rete 4. Quale format? Lo scontro tra Giuseppe Cruciani, il conduttore de La Zanzara, e il piddino Andrea Romano, tornati a scornarsi anche nella puntata di giovedì 18 marzo. Tema della contesa, il vaccino contro il coronavirus. O meglio, l'obbligo vaccinale, che non esiste: è stato solo ventilato ma nessuno lo ha proposto in Parlamento. E sul tema, Cruciani ha le idee chiare: "È evidente che, senza essere tecnici e medici, è abbastanza assurdo paragonare il morbillo o la poliomelite al Covid. Sono due cose completamente diverse e i vaccini sono completamente diversi. Non capisco perché attaccate sempre questi infermieri e gente che lavora negli ospedali che non si vuole vaccinare - rimarca Cruciani -. Delle due l'una: o c'è l'obbligo o non c'è l'obbligo. O avete il coraggio di mettere l'obbligo per il personale sanitario e per gli altri, oppure uno ha la libertà di farsi iniettare nel proprio corpo quello che vuole. La libertà di avere il trattamento sanitario che uno vuole", insiste mentre Romano si spende in faccette di dissenso. A quel punto, Cruciani aggiunge: "O avete il coraggio... è inutile protestare, sono responsabili o irresponsabili". E qui lo scontro divampa, con il piddino che si inserisce: "Sono irresponsabili". Mister Zanzara a quel punto scatta: "Caro Romano, lei dice che sono irresponsabili? Allora perché non avete il coraggio di imporre in Parlamento l'obbligo di vaccinarsi?". E l'esponente del Pd: "Ma le sembra responsabile un infermiere che non si vaccina e può infettare in reparto?". "Chi si vaccina può infettare lo stesso", ricorda Cruciani, tanto che per i vaccinati resta l'obbligo di mascherina. Ma per Romano non è così: "Non dica stupidate". Infine, l'ultimo affondo di Cruciani: "Non  è questione di responsabilità o no, è chiaro che le persone vanno convinte. Ma allora perché lei non ha proposto in Parlamento un provvedimento per introdurre l'obbligo vaccinale", conclude. Impeccabile. Consueto ko tecnico per Romano.

Flavia Amabile per "la Stampa" il 22 giugno 2021. Avviate le prime procedure da parte delle aziende sanitarie di varie Regioni per la sospensione degli operatori sanitari non vaccinati per la Covid-19. Saranno, infatti, sospesi i medici che scelgono di non vaccinarsi. Lo ha sottolineato la Federazione degli ordini dei medici (Fnomceo) in una comunicazione inviata ai presidenti degli ordini provinciali riportando la risposta ufficiale del ministero della Salute a una loro richiesta di chiarimento sul decreto di aprile che ha introdotto l'obbligo vaccinale per gli operatori sanitari.  È un provvedimento che può interessare un numero limitato di professionisti. «In totale, secondo le stime della struttura commissariale, sarebbero circa 45.753 gli operatori sanitari attualmente non vaccinati per la Covid-19, rispetto ai quali varie aziende sanitarie starebbero avviando provvedimenti di sospensione, sono il 2,36% della categoria. Si tratta, complessivamente, di medici, infermieri, professioni sanitarie e assistenti socio-sanitari», rileva Carlo Palermo, segretario del maggiore dei sindacati dei medici ospedalieri, l'Anaao-Assomed. In particolare, per quel che riguarda i medici, si tratta di circa 200-300 persone, pari a «non più dello 0,2%». Sul totale, quindi, «la percentuale di medici che non si sono vaccinati è comunque molto bassa». Le Regioni con soggetti non vaccinati per questa categoria sono Emilia Romagna (14.390: il 7,87% rispetto al numero di operatori sanitari in tutta la Regione, dove a giorni dovrebbero concludersi le istruttorie), Sicilia (9.214 - 6,52%), Puglia (9.099 - 6,50%) e Friuli Venezia Giulia (5.671 -11,91%), Piemonte (2.893 - 1,90%), Marche (1.181 - 2,58%), Umbria (928 - 3,02%) e Liguria (172 - 0,29%). Alti anche i numeri nella Provincia di Trento (2.205 - 11,03%). Per questi operatori sanitari, spiega Carlo Palermo, «in prima istanza, la legge prevede che possano essere addetti allo svolgimento di altre mansioni non a contatto con i pazienti, ma ciò solo ove possibile; in secondo luogo, l'operatore o il medico può essere messo in ferie forzose. In ultima istanza, si ricorre alla sospensione dalla professione senza il recepimento dello stipendio. Non è però contemplata la possibilità di licenziamento e la norma ha comunque validità fino al 31 dicembre 2021». «Nelle strutture pubbliche quasi tutti gli infermieri sono vaccinati, e siamo sopra al 95%, mentre nelle strutture private e nelle Residenze sanitarie assistite Rsa per anziani la percentuale è purtroppo più bassa», afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (Fnopi). A chiarire modalità e procedura della sospensione è stata la Fnomceo in una circolare inviata a tutti gli ordini territoriali perché possano sapere come procedere». Il controllo dell'avvenuta vaccinazione spetta all' Azienda sanitaria che deve effettuare «l'accertamento della mancata osservanza dell'obbligo vaccinale dalla quale discende la sospensione ex lege dall' esercizio della professione sanitaria e dalla prestazione dell'attività lavorativa». L'esito della verifica viene poi comunicato dalla Asl «all' interessato, al datore di lavoro e agli Ordini professionali perché ne prendano atto e adottino i provvedimenti e le misure di competenza». A quel punto «la sospensione è comunicata immediatamente all' interessato dall' Ordine professionale». E, come precisa il presidente della Fnomceo, Filippo Anelli «è giusto e doveroso che tutti in medici si vaccinino. Va detto chiaramente che il vaccino è diventato oggi più che un obbligo il requisito stesso per poter svolgere la professione medica». E' quello che sostiene Licia Ronzulli, vicepresidente di Forza Italia al Senato. «I medici che rifiutano il vaccino sono come dei militari che non vogliono difendere il loro Paese, dei disertori» .

Da ansa.it il 15 luglio 2021. Sono 177 gli operatori sanitari residenti in provincia di Pordenone che non hanno adempiuto all'obbligo vaccinale e che ora sono stati sospesi. Tra questi ci sono 46 infermieri. Ne danno notizia i quotidiani locali. L'Azienda sanitaria Friuli occidentale (Asfo) ha pubblicato l'atto di accertamento dell'obbligo vaccinale - redatto dal Dipartimento di prevenzione - il quale determina la sospensione dell'attività che comporta il rischio di diffusione del virus. Il provvedimento stabilisce la sospensione immediata fino ad avvenuta vaccinazione o al 31 dicembre. "Questa azienda - si legge nel documento ufficiale - ha provveduto ad invitare formalmente 177, tra esercenti le professioni sanitarie e operatori di interesse sanitario, a sottoporsi nel mese di giugno alla somministrazione del vaccino anti Sars-Cov-2, indicando termini e modalità, ma i medesimi non si sono presentati agli appuntamenti programmati". Dell'accertamento dell'inosservanza dell'obbligo vaccinale "sarà data immediata informazione all'interessato, al datore di lavoro (ove noto) e all'ordine professionale di appartenenza (ove presente), comunicando contestualmente la sospensione dal diritto di svolgere prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da Sars-Cov-2".

Padova, sono 110 i medici non vaccinati. Crisarà: stop alle visite. Il Mattino di Padova il 14/7/2021. Sono 603 i dirigenti medici che hanno deciso di astenersi (pari al 5,8% del totale) e di questi 74 esercitano nel territorio padovano (38 all’Usl 6, 30 all’Azienda Ospedale Università e 6 allo Iov). A loro si aggiungono altri 223 sanitari tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, Continuità assistenziale (guardia medica) e altri convenzionati Usl. «Può essere anche un luminare, il migliore nel suo campo, ma se decide di non sottoporsi al vaccino anti-Covid non deve e non può in alcun modo venire a contatto con i pazienti». Con queste parole Domenico Crisarà, presidente Ordine dei medici e degli odontoiatri di Padova, commenta i dati che mettono nero su bianco l’ammontare dei “dissidenti vaccinali” tra i medici della regione Veneto.

I numeri dei dissidenti. Sono 603 i dirigenti medici che hanno deciso di astenersi (pari al 5,8% del totale) e di questi 74 esercitano nel territorio padovano (38 all’Usl 6, 30 all’Azienda Ospedale Università e 6 allo Iov). A loro si aggiungono altri 223 sanitari tra medici di medicina generale, pediatri di libera scelta, Continuità assistenziale (guardia medica) e altri convenzionati Usl: in questa seconda categoria i numeri nel Padovano calano a 36 medici dell’Usl 6 (risultano infatti tutti vaccinati sia all’Azienda, sia allo Iov). Ne risulta che di 826 medici veneti contrari a porgere il braccio, 110 praticano la professione nella nostra città, con un’incidenza sul totale del 13,32%.

Principi incompatibili. Ma qual è la ragione che spinge un medico a non vaccinarsi? «Spesso ci si dimentica che la formazione di chi fa questo lavoro s’intreccia inevitabilmente con il percorso personale del singolo individuo – spiega il dottor Crisarà, che aggiunge – Per questa ragione esiste in primis un’abilitazione che dev’essere ottenuta attraverso l’esame di Stato, ma anche una quotidiana dimostrazione di integrità professionale direttamente sul campo. L’articolo 32 della Costituzione dice che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Non credere nel vaccino è incompatibile con i cardini deontologici sanitari: lavoriamo con persone che vengono da noi per essere curate, non per essere messe in pericolo. La decisione di un medico di non tutelare sé stesso equivale a una scelta consapevole di non garantire la sicurezza ai suoi pazienti in quanto possibile veicolo di trasmissione del virus. La prova del nove ce la sta offrendo il fatto che l’Italia rischia di tornare in zona gialla per il contagio da parte di persone non vaccinate».

Imparare dal passato. Per comprendere meglio la situazione attuale e l’importanza del contributo del singolo per il bene suo e della comunità, il presidente dell’Ordine suggerisce di trarre insegnamento da esperienze passate: «Pensiamo alla poliomielite, al tetano, alla rabbia, o anche solo al morbillo. Se oggi non se ne sente più parlare è proprio grazie ai vaccini. Con questa certezza è giusto che chi sceglie questo mestiere rispetti non solo la salute dei suoi pazienti, ma anche i progressi e i risultati stessi della scienza e della medicina».

«Sono numeri davvero troppo alti, mi auguro che quanto prima vengano presi provvedimenti contro chi, senza valida motivazione, insiste nel rifiutare il siero», aggiunge la vicepresidente della commissione Sanità in Regione Anna Maria Bigon, esponente del Pd.

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 23 giugno 2021. «Meglio morire di fame che di vaccino». Non ha dubbi la signora al telefono. Ha poco più di 50 anni e lavora come operatrice socio-sanitaria in una Rsa privata vicino a Ivrea, in Piemonte. O meglio lavorava, visto che da due mesi è stata sospesa dal servizio e lasciata a casa senza stipendio. Dopo l'entrata in vigore della legge sull' obbligo vaccinale, ad aprile, la direzione della struttura ha intimato a tutti i dipendenti di vaccinarsi: «La metà delle colleghe non voleva, ma poi per paura hanno ceduto, io sono l'unica ad aver resistito», racconta a «La Stampa». Ora l'operatrice no vax ha dato mandato al suo avvocato di contestare il provvedimento, ma non arretra di un millimetro dalle sue convinzioni: «Il vaccino fa male, non è sperimentato, la lista dei morti è molto più lunga di quanto ci dicono - spiega - Hanno provato a convincermi a vaccinarmi, per tornare a lavoro, ma io non ci penso nemmeno». E non è certo l'unica. Secondo i dati della struttura commissariale, in Italia sono più di 45mila gli operatori sanitari non ancora vaccinati e, nella maggior parte dei casi, si tratta di operatori socio-sanitari di strutture private, in misura minore di infermieri, ancora meno di medici. Va precisato che non tutti e 45mila hanno scelto di non vaccinarsi, perché nel mucchio ci sono anche quelli che hanno avuto il Covid negli ultimi sei mesi e quelli che hanno problemi di salute incompatibili con la vaccinazione. L' Emilia-Romagna è la Regione che, in numeri assoluti, ha il record di operatori sanitari no vax, oltre 14mila, ma dall' assessorato alla Salute smentiscono: «Dalle nostre verifiche, i segnalati e a rischio sospensione sono circa 5mila: per ora non è scattato nessun provvedimento, perché l'iter è lungo e complesso». In Liguria, invece, l'agenzia sanitaria Alisa ha fatto sapere che dalle varie Asl sono state inviate 11mila lettere di invito alla vaccinazione e che più di mille non hanno ricevuto risposta. Mentre in 2mila, tra le Asl di Imperia, Savona, Chiavari e La Spezia, hanno regolarizzato la propria posizione. Poi ci sono i 26 operatori sanitari (4 della Asl di Savona e 22 della Asl di Genova) che rifiutano il vaccino. L' Usl della Valle d' Aosta ha inviato le diffide, e le relative prenotazioni a luglio, a circa 220 sanitari non ancora vaccinati: 80 infermieri e 140 oss. Le eventuali sanzioni partiranno dopo aver verificato chi non avrà ricevuto il vaccino nella data prenotata. Secondo Angelo Minghetti, coordinatore del Migep, la Federazione delle professioni sanitarie e socio-sanitarie, «tra gli oss oggetto di accertamento, la maggior parte si rifiuta di farsi vaccinare, un 5% a livello nazionale è già sospeso e senza stipendio». Molti lavorano in strutture private medio-piccole, «dove non c' è alcuna possibilità di spostarli ad altra mansione e dove non vengono mai sostituiti, acuendo la carenza di organico». Lasciare a casa i no vax incalliti, dunque, rischia di pregiudicare l'assistenza e danneggiare, tanto per cambiare, i pazienti. Lo conferma Antonio De Palma, presidente del sindacato degli infermieri "Nursing Up": «La mancanza di infermieri è di 90mila professionisti, acuita in alcune realtà che hanno sperimentato piani di rientro - spiega - motivo per cui l'ulteriore mancanza di piccole percentuali corre il rischio di mettere a repentaglio il sistema». Anche perché siamo a inizio estate, «la grande maggioranza chiederà di andare in ferie e ne ha diritto, perché in periodo Covid, per decreto, non ha potuto beneficiarne». Il rischio è che tra luglio e agosto, in assenza di infermieri e operatori, saltino le attività ordinarie. «Le Asl sono costrette a sospendere i professionisti che non si sono vaccinati - avverte De Palma - ma devono garantire i servizi in una condizione di criticità».

Da leggo.it il 17 marzo 2021. «Lavoro in un ospedale in cui ci sono quasi 500 persone, il 20%, che hanno deciso di non vaccinarsi, siamo su numeri impressionanti. Su questo bisognerebbe avere un'azione rapida, una legge per cui se non ti vaccini non sei idoneo al lavoro. Abbiamo il rischio grandissimo che i nostri cari, le persone che portiamo in ospedale, entrino sani per uscire malati per qualcuno che non si è vaccinato». Lo ha affermato il dottor Matteo Bassetti, primario della Clinica di Malattie Infettive del Policlinico San Martino di Genova, nel corso del suo intervento alla trasmissione Quarta Repubblica su Rete4. «Su questo - ha precisato parlando della necessità di interventi legislativi - siamo in ritardo, dovevamo pensarci ad aprile. La politica si deve prendere delle responsabilità. Deve dire "volete lavorare in ospedale? Vi vaccinate"».

Covid, tredicimila in Toscana, diecimila nel Lazio: la mappa dei medici no-vax. Michele Bocci su La Repubblica il 25 aprile 2021. Non si sa ancora quanti siano i sanitari che dicono no alla somministrazione. La legge sull'obbligo vaccinale è al palo, ma se ritarda la sua utilità rischia di diventare minima. Le mail stanno ancora arrivando, le Regioni fanno i conteggi, confrontano le liste dei vaccinati con i nomi ricevuti dagli Ordini, dalle Asl, dalle strutture private grandi e piccole. Manca ancora tanto a finire il lavoro, così la legge sull'obbligo vaccinale per gli operatori sanitari è ferma. Non si sa ancora quanti sono i medici e gli infermieri no-vax. Intanto sono già saltati tutti i primi termini indicati dalla norma e quelli successivi lo saranno a breve.

Alessio Ribaudo per il "Corriere della Sera" il 25 giugno 2021. Sono scattate le prime sospensioni per medici, infermieri, Oss che hanno rifiutato nei mesi scorsi di essere vaccinati contro il coronavirus. A quasi tre mesi dall' approvazione del decreto che lo impone agli operatori sanitari, secondo gli ultimi dati forniti dalla struttura del commissario per l'emergenza Covid-19, sono 45.753 mila gli operatori sanitari che, a venerdì scorso, erano «in attesa di prima dose o unica»: il 2,3 per cento. Il numero più elevato è in Emilia- Romagna: sono 14.390 (il 7,9% del totale). Poi c' è la Sicilia (9.214, 6,5%), la Puglia (9.099, 6,5%), il Friuli-Venezia Giulia (5.671, 11,9%), il Piemonte (2.893, 1,9%), le Marche (1.181, 2,6%), Umbria (928, 3%). Alto anche il dato nella Provincia di Trento (2.205, 11%). Ieri in Alto Adige è scattata la procedura di sospensione per 333 operatori sanitari. Altri 15 dell'Asp di Reggio Calabria e un veterinario di quella di Catanzaro sono stati sospesi per aver rifiutato le dosi. A Ragusa, nei giorni scorsi, l'Asp aveva avviato la procedura per 25 professionisti. In dieci hanno deciso di vaccinarsi e sono stati reintegrati. A Messina sono state spedite 98 lettere con richiesta di chiarimenti e si attendono le risposte. All' interno delle professioni sanitarie sono partiti i distinguo. «Stimiamo che i medici non vaccinati siano circa mille, ovvero il 2% - dice al Corriere il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici (Fnomceo) Filippo Anelli - ma dubito che i colleghi no vax possano essere considerati medici: è come se un ingegnere non credesse alla matematica e non si può affidare la salute a chi non crede nei vaccini. Oggi immunizzarsi è un requisito professionale e lo condivido». Per Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione degli Ordini delle professioni infermieristiche, «da noi solo un numero sparuto non si è immunizzato, diverso è per gli operatori di interesse sanitario con mansioni meno qualificate, privi di un Ordine: qui la percentuale è del 10-15: molti purtroppo lavorano nelle Rsa con gli anziani». Da Nord a Sud, le Aziende sanitarie stanno procedendo alla «conta» di chi manca all' appello e, come prevede la legge, hanno fatto partire migliaia di lettere con l'invito a presentare, entro 5 giorni, la documentazione che attesta l'inoculazione, la prenotazione o l'esenzione per patologia. Chi non risponde o invia prove insufficienti, è invitato formalmente a vaccinarsi. Se non lo fa, sono informati sia l'Ordine sia il datore di lavoro e scatta la sospensione dalle prestazioni o mansioni con «contatti interpersonali o, in qualsiasi forma, a rischio di diffusione del contagio». In Valle d' Aosta, l'Usl ha inviato le lettere e le relative prenotazioni a 220 sanitari. Duro anche il governatore del Piemonte Alberto Cirio: «Applicheremo la legge, con l'attribuzione di mansioni diverse e, in estrema ratio, con l'interruzione del rapporto di lavoro». In Veneto, mercoledì sono partite le missive, poi si procederà alle eventuali sospensioni. In Emilia-Romagna sarebbero circa 5 mila gli operatori per cui è già stato attivato l'iter. In Toscana Renzo Berti, direttore dell'Asl Centro, rassicura che almeno duemila «ritardatari» hanno prenotato l'appuntamento per l'inoculazione della prima dose. Su 4.891 sanitari segnalati nell' Aretino, Senese e Grossetano oltre 1.260 hanno preso appuntamento. Nelle Marche è stata spedita la lettera a 1.181 professionisti mentre, in Campania, le Asl convocheranno i 700 camici bianchi che non hanno aderito alla campagna. In Italia, a oggi, si sono infettati 29.282 sanitari: 402 nell' ultimo mese. E il Covid ha ucciso 359 medici.

Profili social e allerta tensioni: il faro degli investigatori sul movimento dei medici no vax. Forze dell'ordine attive: attesa per il corteo del 21 aprile. La lettera al Giornale: "Non ci possono imporre il siero". Chiara Giannini - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Nessuna indagine aperta sui 17mila operatori sanitari «No vax» che si oppongono al vaccino per il Covid 19, ma fonti delle forze dell'ordine fanno sapere che il movimento, attivissimo sui social, è monitorato. Soprattutto per ciò che ci sarebbe dietro. All'attenzione i fatti di Brescia, dove sono state lanciate due molotov contro centri vaccinali. Gli inquirenti stanno indagando sui responsabili del gesto (per ora ignoti), perché se da una parte la legge italiana rende legittimo dissentire sulla possibilità di vaccinarsi o meno, dall'altra punisce i reati contro le istituzioni. Come raccontato ieri sul Giornale, «in Italia ci sono almeno 16.900 dottori, infermieri, operatori socio sanitari e professionisti in ambito medico che non intendono vaccinarsi contro il Covid». Una posizione sicuramente legittima, perché ognuno fa della propria salute ciò che crede, fatto dimostrato anche da alcune sentenze. Diversa è l'imposizione di ideologie e metodiche di trattamento. Insomma, si guarda a chi dissente, senza condannare, ma con un occhio puntato a eventuali azioni violente. Si segue l'organizzazione via web di una manifestazione «convocata» per il 21 a Montecitorio. C'è persino chi consiglia di rivolgersi a un avvocato contro il temuto vaccino «che crea problemi di salute». Ma è tutto da dimostrare. In una lettera inviata al Giornale i «No vax» chiariscono: «Noi vogliamo lavorare. Il Decreto dice che, se non si vuole essere vaccinati, si deve essere demansionati e collocati ad un incarico non a contatto coi pazienti, e che se questo non sia possibile, si viene sospesi senza paga, ma secondo voi, noi vorremmo rimanere senza paga? Quello che voi non avete capito è che noi non vogliamo che ci venga imposta la vaccinazione, con un farmaco che non dà sicurezze (chissà perché parlano tanto degli effetti collaterali di Astrazeneca, ma non dicono nulla di quelli dati da Pfizer e Moderna?)». E proseguono: «Se sospendi 17mila operatori sanitari, la sanità si blocca per forza. Come li sostituisci (con i lego, coi Playmobil)? Sparano su di noi per distrarre la gente dalle questioni più importanti: perché in un anno non hanno potenziato gli ospedali e le rianimazioni, perché non hanno assunto e addestrato personale, perché mantengono il numero chiuso per la facoltà di medicina, perché le scuole non vengono fatte funzionare in sicurezza, perché i ristoranti non sono aperti la sera?». Finora è stato dimostrato che il vaccino salva dal Covid. Ma i «No vax» sembrano dissentire. Per il momento nessuna Procura si è attivata sulla questione, anche perché il nostro ordinamento prevede che ognuno possa disporre liberamente della propria salute. Ma un conto è fare informazione, un conto imporre posizioni come è accaduto a Brescia, dove gli inquirenti ora indagano su eventuali responsabili del tiro di molotov. Insomma, l'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma molti della democrazia e del libero pensiero sembrano sempre più infischiarsene. Cosa certa è che, al di là delle singole e legittime posizioni, gli inquirenti stanno continuando a monitorare i profili di quegli estremisti che per imporre il proprio pensiero «No vax» sono disposti a tutto. Persino a mettere a rischio la salute di moltissime persone. Tra i «No vax» ci sono anche medici di famiglia che stanno tentando di disincentivare i pazienti a prendere il vaccino anti Covid.

Il governatore Toti: "Valutiamo legge per obbligo sanitari". “Il vaccino non lo faccio”: scoppia focolaio in ospedale, infermiera contagiata dopo il rifiuto. Redazione su Il Riformista il 14 Marzo 2021. Infermiera rifiuta di vaccinarsi e nel reparto dell’ospedale dove è in servizio, il San Martino di Genova, è stato registrato un cluster con dieci positivi alla variante inglese al primo piano del Padiglione Maragliano. Tra i positivi anche la sanitaria che si era opposta alla vaccinazione. Sulla vicenda è intervenuto duramente il presidente della regione ligure Giovanni Toti: “Un ennesimo campanello d’allarme che ci spinge a un’importante e urgente riflessione sull’opportunità di rendere obbligatorio il vaccino per medici, infermieri, operatori e personale sanitario”. Toti poi si dice pronto ad approvare una nuova legge regionale per obbligare la categoria del personale sanitario a vaccinarsi: “Oggi, con più di 100mila morti in Italia a causa della pandemia – spiega -, sapere che qualcuno che ricopre un ruolo così importante nella lotta al virus, pur potendo vaccinarsi sceglie di non farlo, rappresenta un problema in più che avremmo preferito evitare e di cui il Governo dovrebbe farsi carico. Ma – aggiunge – visto che non si va verso questa direzione, ho dato mandato ai miei uffici di valutare la possibilità di intervenire con una legge regionale per obbligare questa categoria a vaccinarsi”. “Chi fa questo lavoro e rifiuta di proteggere se stesso con il vaccino di fatto non protegge i pazienti di cui dovrebbe prendersi cura. E questo non è accettabile” conclude.

Tiziana Paolucci per "il Giornale" il 15 marzo 2021. La Liguria potrebbe diventare la prima regione d' Italia a introdurre una legge per rendere obbligatoria la vaccinazione per il personale sanitario. L' annuncio è stato fatto ieri dal governatore Giovanni Toti dopo che tredici persone sono state contagiate al San Martino di Genova a causa di un' infermiera, che aveva rifiutato di sottoporsi al vaccino anti-Covid. Si tratta di 11 pazienti e 2 infermieri del reparto di Malattie respiratorie e allergologia, al primo piano lato del padiglione Maragliano, un zona «pulita», dove si può accedere solo con tampone negativo. Non c' è dubbio, quindi, che responsabile del cluster di variante inglese sia stata la dipendente no-vax. Subito è scattato il protocollo di sicurezza per individuare altri contagi tra i ricoverati, secondo le direttive delle strutture complesse di Igiene, del professore Giancarlo Icardi, e di Malattie Infettive, del professor Matteo Bassetti. E si lavora per reperire in fretta nuovi letti, dove spostare chi ha contratto il virus perché il Maragliano torni Covid-free. Il caso ha sollevato diverse polemiche e molti primari, insieme al presidente Toti, chiedono l' obbligatorietà del vaccino per medici, infermieri e operatori sanitari. «Oggi con più di 100 mila morti in Italia per la pandemia - tuona Toti - sapere che qualcuno che ricopre un ruolo così importante nella lotta al virus, pur potendo vaccinarsi sceglie di non farlo, rappresenta un problema in più che avremmo preferito evitare e di cui il Governo dovrebbe farsi carico». Il trattamento sanitario obbligatorio, infatti, può essere disposto solo da una legge dello Stato. «Ma visto che non si va verso questa direzione - spiega il governatore - ho dato mandato ai miei uffici di valutare la possibilità di intervenire con una legge regionale». La Regione Puglia ha adottato un provvedimento che vieta agli operatori non vaccinati l' accesso ad alcuni reparti «a rischio». La Liguria potrebbe intraprendere lo stesso percorso, ma ci sono però problemi pratici, con i quali bisogna fare i conti. «Al San Martino gli infermieri non vaccinati sono 400 su 2.600. Come faccio a tenerli tutti fuori da determinati reparti? Senza l' obbligo non si va da nessuna parte», sottolinea il direttore generale Giuffrida, che a febbraio si era rivolto all' Inail per sapere come comportarsi con 15 infermieri, contagiati senza essersi voluti immunizzare. «Un infermiere non vaccinato farebbe meno danni in un reparto sporco aggiunge. Ma non si possono assegnare soltanto ai reparti Covid, anche perché sono più a rischio degli altri. E si entra in un circolo vizioso. Si è scelto di non affrontare il problema a livello nazionale e ne paghiamo le conseguenze». Il direttore di Malattie Infettive nel nosocomio, Matteo Bassetti, lancia un appello a Draghi: «Ci vuole una legge assolutamente urgente, anche questo rappresenta un cambio di passo che chiediamo al nuovo governo».

Andrea Bucci per lastampa.it il 13 aprile 2021. La barista e l’infermiera contro il vaccino. Tutti insieme appassionatamente un sabato pomeriggio all’aperitivo disobbediente (e recidivo) del bar La Torteria di Rosanna Spatari, a Chivasso. Tra i trenta multati c’era anche lei, Barbara Squillace, 57 anni di Rondissone, dove è consigliere comunale. Da sempre in lotta per l’ambiente e da 25 anni infermiera e sindacalista presso l’ospedale di Chivasso. Insomma, una persona che dovrebbe dare il buon esempio. E invece i suoi comportamenti vanno in netto contrasto con l’etica professionale. Perché a lei i carabinieri, davanti a quel bar, hanno contestato il fatto che fosse fuori dal Comune di residenza, in piena zona rossa. E senza mascherina. «Io la mascherina la indosso solo quando sono in ospedale, perché rispetto i protocolli imposti dal mio datore di lavoro. Fuori no. Perché a forza di lavorare nei reparti Covid sono immunizzata» si giustifica il giorno dopo il blitz delle forze dell’ordine. E dalle parole di Squillace emergono dichiarazioni che fanno acqua da tutte le parti. Sostiene che gli «untori» siano proprio i vaccinati. Teorie complottiste che vanno contro a ogni principio scientifico, anche se lei ritiene che la scienza sia quella da lei raccontata. È infermiera dunque, ma sul suo profilo Facebook porta avanti la lotta contro il vaccino e nei confronti della pandemia: «Nessun dubbio. Non mi vaccino» scrive. E dice che non lo consiglierà nemmeno ai suoi figli. Ma guai a chiamarla no vax: «Io i vaccini li ho fatti tutti, ma questo contro il virus non può ancora essere considerato tale» prosegue nel portare avanti le sue teorie cercando di spiegare la scienza: «Si tratta di un farmaco che fino al 2023 sarà in fase sperimentale e che non ha avuto la certificazione dall’Ema». Ripete: «Io non mi farò inoculare il farmaco perché non voglio fare da cavia. Piuttosto utilizzino i topi o gli animali per la sperimentazione». Come si pone, però, con il suo ruolo di infermiera? Al lavoro le sarà arrivata la richiesta di pre adesione alla campagna vaccinale? «Sì, ma non ho mai risposto alla mail, perché quel consenso che ci viene chiesto è lo stesso nato con le leggi naziste che obbligavano le persone a vaccinarsi». Sostiene di non essere la sola: «Almeno una trentina, tra medici e amministrativi non hanno aderito alla campagna». Per Squillace quella che stiamo vivendo è tutta una montatura, salvo poi correggersi quando invece racconta di aver lavorato nei reparti Covid e di aver visto gente intubata. Ma quando le viene ricordato che a tutti gli operatori sanitari viene imposto l’obbligo vaccinale lei risponde che «quel decreto 44/2021 del primo aprile, che ci impone l’obbligo, viola apertamente tutti i trattati internazionali sui diritti umani». E ancora: «I trattati internazionali citano la libertà di scelta terapeutica». Conclude giustificando ancora la sua presenza, sabato, fuori dalla Torteria ai Chivasso: «Io sono amica della signora Rosanna. E la sosterrò sempre».

Focolaio di coronavirus al policlinico di Genova: tra i contagiati un'infermiera che ha rifiutato il vaccino. Ancora un focolaio a Genova: 10 contagi all'ospedale San Martino. Tra gli infettati anche un'infermiera che ha rifiutato la dose di vaccino. Sconcerto di Toti. Francesca Galici - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. C'è preoccupazione per il focolaio di coronavirus causato dalla variante inglese al policlinico San Martino di Genova. A renderlo noto è stata la direzione sanitaria dell'ospedale. Tra i 10 contagiati finora registrati, una è un'infermiera che nelle scorse settimane ha rifiutato la sua dose di vaccino. Tutti i protocolli sono stati attivati presso le cliniche complesse di Igiene e di Malattie infettive per far fronte all'improvviso aumento dei contagiati all'interno della struttura ospedaliera. Il professor Icardi della clinica di Igiene e il professor Matteo Bassetti della clinica di Malattie infettive stanno ora agendo di concerto per far fronte all'emergenza. Il governatore della Regione Liguria, Giovanni Toti, è intervenuto immediatamente per commentare quanto accaduto nel più grande ospedale del capoluogo della regione: "È discutibile che ci siano operatori sanitari che si sono rifiutati di proteggere loro stessi con il vaccino non proteggendo così neanche i degenti". La questione degli operatori sanitari che rifiutano la dose di vaccino è tra le più attuali nel Paese. Il caso di Genova ha riportato alla ribalta un tema importantissimo nella lotta al coronavirus. Nel Paese in cui prolificano i furbetti del vaccino, che cercano di saltare la fila pur di accedere alla somministrazione anche se non ne hanno diritto, esistono anche operatori sanitari che, invece, si rifiutano di ricevere quella a loro dovuta. Per quanto concerne il cluster all'ospedale San Martino di Genova è impossibile stabilire chi abbia innescato il focolaio. Tra i dati certi c'è che tra i contagiati risulta un'infermiera che nelle scorse settimane non si è sottoposta alla vaccinazione. "Credo che chi fa l'infermiere abbia il dovere di vaccinarsi visto che ci sono tante persone che stanno in coda per farlo", ha proseguito Giovanni Toti nel suo commento a quanto accaduto al policlinico di Genova. "Francamente sentire di personale altamente specializzato che rischia di infettare un reparto, è qualcosa che lascia l'amaro in bocca, credo che il Governo dovrebbe prendersene carico", ha proseguito il governatore della Regione Liguria. Toti ha riacceso i riflettori sulla necessità di trovare una soluzione per casi come questi. Per il momento non è in programma l'obbligatorietà vaccinale, nemmeno per il personale sanitario operativo. Tuttavia alcuni direttori sanitari stanno lavorando per risolvere la questione nel miglior modo possibile. Si cerca la quadra di una questione che deve mettere d'accordo le libertà individuali ma anche la necessità di tutelare la popolazone, soprattutto quella più fragile.

Liguria, nove contagi in ospedale da operatore no vax. Dopo il caso del San Martino di Genova, un altro cluster all’ospedale di Lavagna. Valentina Dardari - Mer, 24/03/2021 - su Il Giornale. Un nuovo cluster di Covid-19 è stato registrato in Liguria, questa volta all'ospedale di Lavagna, e anche in questo caso il cluster avrebbe avuto inizio da un operatore sanitario che non si era vaccinato. A dare la notizia è stato il governatore della Regione Liguria Giovanni Toti durante la conferenza stampa.

Un altro cluster in Liguria da operatori no vax. Il presidente Toti ha infatti spiegato che "all'Ospedale di Lavagna ci sono 9 positivi e un caso analogo si sta verificando a Tiglieto, per fortuna è un cluster di dimensioni più ridotte. Quello del personale non vaccinato a contatto coi pazienti è un tema molto delicato di cui si è parlato a lungo anche col Governo. Mi sono confrontato più volte anche col ministro Speranza, mi auguro che il legislatore intervenga al più presto dando un'interpretazione univoca". Nella Rsa di Tiglieto, comune in provincia di Genova, sarebbero due gli operatori che lavorano all'interno della struttura che hanno provocato il contagio di tre pazienti che hanno dovuto ricorrere alle cure ospedaliere. Toti ha poi comunicato che "fortunatamente uno è già stato dimesso e nessuno è in pericolo di vita". Il governatore della Liguria ha tenuto a sottolineare che si tratta di un tema molto delicato che necessita l’intervento del legislatore. Secondo quanto emerso dalle prime indagini sarebbe stato il personale ospedaliero che non ha ricevuto il vaccino a portare il virus all’interno di un reparto trasmettendolo a ben nove pazienti che sono poi stati ricoverati all’ospedale di Lavagna. I nove pazienti in questione erano già ospedalizzati per altri motivi, oggi però sono risultati anche positivi al coronavirus in seguito a un incontro con lo staff della struttura ospedaliera che probabilmente aveva rifiutato l’inoculazione del siero. Tutto il personale sanitario aveva infatti ricevuto da diverso tempo il vaccino.

Obbligo vaccinale. Come ha sottolineato Toti, “questo è un tema evidentemente molto delicato sull'obbligo vaccinale e sulla gestione del personale sanitario a contatto delle persone più fragili che non vuole vaccinarsi. È un tema di cui si è parlato con il governo, mi sono confrontato a lungo anche con il ministro Speranza. Mi auguro che il legislatore corra ai ripari al più presto dando una interpretazione univoca". La procura di Genova sta valutando anche la sentenza del tribunale del lavoro di Belluno che ha accettato le ferie forzate di 10 operatori di Rsa che si erano rifiutati di ricevere il vaccino. Il procuratore Francesco Cozzi ha spiegato che "ovviamente si dovrà valutare caso per caso, capire perché si rifiuta il vaccino. Occorrerebbe una normativa specifica per risolvere il problema". Un datore di lavoro che non solleva dal suo incarico un dipendente no vax per spostarlo in un altro, che non sia a contatto con il pubblico, rischia di venire sanzionato con l’accusa di omissione sulle norme della sicurezza del lavoro.

Focolaio in una Rsa di Fiano Romano: l'operatrice "no vax" contagia 27 anziani. E in Abruzzo muore una donna di 31 anni colpita dalla variante inglese. Luca Fazzo - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Ha rifiutato il vaccino. E ha finito per infettare molti ospiti della Rsa in cui lavorano. Una storia esemplare quella che arriva da Fiano Romano, cittadina a Nord di Roma. Un'operatrice socio-sanitaria ha deciso di non immunizzarsi, e ha contagiato due colleghi, scatenando un focolaio nella struttura. Risultato: 27 ospiti sono risultati positivi al Coronavirus. Nessuno per il momento è in condizioni critiche, anche grazie al fatto che molti di loro si erano vaccinati e sono quindi al riparo dalle conseguenze peggiori dovute all'evolversi del virus. Ma resta la preoccupazione per i non vaccinati, tutti di età avanzata. Roberto Agresti, responsabile della Rsa, è moderatamente ottimista: «Sono in corso le valutazioni dei medici della Asl, che sono ancora sul posto, e delle persone contagiate solo due necessitano di ricovero». Agresti ricostruisce la vicenda: «Quando è venuta la Asl per la prima dose, anche io ho fatto il vaccino proprio per dare l'esempio. Credo che chi fa l'operatore sociosanitario, l'infermiere o opera in questi contesti dovrebbe proteggere se stesso ma anche gli altri. Spero che il presidente Draghi faccia questo decreto (quello sull'obbligo di vaccino per gli operatori sanitari, ndr) al più presto». Agresti si dice «arrabbiato, anche perché sto vivendo un momento di pressione intensa» ma non se la prende con i dipendenti No Vax. «Gli operatori qui lavorano tanto e ora sono molto dispiaciuti per l'accaduto». Provoca non rabbia ma solo dolore la storia che arriva da Avezzano, in Abruzzo. Qui Sonia Pantoli, architetto di appena 31 anni, è stata uccisa dalla variante inglese del Covid. La giovane donna, che aveva contratto il Covid assieme al padre, alla mamma e alla sorella, è morta nell'ospedale di Pescara, dove era stata trasferita in terapia intensiva per l'aggravarsi delle sue condizioni. È la seconda vittima più giovane provocata dal virus in Abruzzo. Sonia, originaria di Paterno, frazione di Avezzano, viveva a Francavilla e lavorava a Pescara per una nota azienda di engineering internazionale. Appassionata di teatro, aveva un bellissimo sorriso ed era sempre allegra. La malattia l'ha sfibrata anche perché soffriva di una malattia che le provocava già prima difficoltà respiratorie. La sua morte ha provocato molta commozione sui social, non solo tra i suoi amici ma anche in chi non la conosceva, grazie al commovente messaggio postato su facebook dalla sorella Gina: «Sonia avrebbe voluto salutare i suoi angeli con questo sorriso. Loro che l'hanno accudita in questi difficili giorni. Infermieri, Ota, medici e tutto il personale medico del Reparto Rianimazione Covid di Pescara! In particolare a Francesco, Federica e Stefano! Loro che sono stati in grado di rianimarla, vederla con gli occhi aperti per due giorni, farla ballare su un letto di ospedale ascoltando musica dentro una stanza piena di persone appese tra la vita e la morte, farla sorridere! A loro in questo mare di dolore va il nostro più grande ringraziamento».

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 27 marzo 2021. Ai medici dell'Asl Roma 4 avevano detto di no: grazie tante, ma il vaccino non lo vogliamo. Ora hanno infettato 27 anziani dell'ospizio in cui lavorano. «Avevo provato a convincere i miei operatori socio-sanitari in tutti i modi, ma non ne hanno voluto sapere di fare la puntura», racconta sconsolato Roberto Agresti, il titolare della Casa di riposo e riabilitazione di via Venezia, a Fiano Romano, comune a 20 chilometri dalla Capitale. Ieri pomeriggio al cancello di legno della struttura si sono presentati i medici dell'unità speciale dei tamponi, per controllare gli anticorpi dei contagiati e capire se qualche paziente ha bisogno di essere trasferito d'urgenza in ospedale. Al momento no, ma trattandosi di persone molto anziane (l'età media degli ospiti della casa è 85 anni, molti hanno diverse patologie) la situazione andrà controllata costantemente. «Abbiamo paura che il virus evolva, che la situazione si aggravi, speriamo di no», continua il titolare dell'ospizio. Per fortuna 24 ospiti su 36 avevano accettato la puntura del siero anti-Covid. In 15 si sono re-infettati lo stesso, ma come hanno dimostrato gli studi scientifici sul vaccino, il farmaco evita che il virus evolva, che la malattia diventi grave, non scongiura il contagio. Infatti i 15 vaccinati trovati positivi erano tutti asintomatici. Altri 12 ospiti invece non avevano fatto il vaccino. Sono loro ad essere tenuti d'occhio con particolare attenzione dall'equipe arrivata sul posto. Altri esami saranno svolti probabilmente in giornata. Il focolaio è stato innescato da un'operatrice socio-sanitaria, che ha contagiato altri 2 colleghi. Da lì, il virus ha viaggiato di letto in letto, trasformando questa bella struttura immersa nel verde, tutta cipressi e piante rampicanti, vetrate e pannelli d'acciaio, in un cluster impazzito di Covid-19. Fino all'arrivo dei camici bianchi dell'Asl Roma 4. Per paradosso, sono intervenuti gli stessi medici che si erano presentati solo un paio di mesi fa con siringhe e boccette per l'iniezione del vaccino. Quella volta, mentre gli ultra-ottantenni si mettevano in fila ordinatamente per ricevere la dose, gli infermieri si comportavano all'opposto. Si scansavano: noi non lo facciamo. Inutili gli inviti, sia dei vaccinatori che del titolare. «Io mi sono vaccinato per primo, figuriamoci - racconta Agresti - l'ho fatto proprio per dare l'esempio, per far capire a tutti l'importanza dell'operazione». Ma non è bastato a convincere il resto della truppa. «Succede spesso nelle case di riposo, tanti rifiutano. Per fortuna finora nessuno degli ospiti è stato mandato in ospedale, ma molti hanno più di 80 anni, speriamo che la situazione non evolva... la paura nostra è questa, siamo preoccupati». Viene da chiedersi: l'operatrice no-vax che ha dato origine al cluster verrà messa alla porta, insomma licenziata, magari con una richiesta di danni? Il gestore dell'ospizio lo esclude: «Credo di no, non la licenzierò. Però è dura, il danno lo ricevono in prima battuta i nostri ospiti, poverini, noi pensiamo sempre prima di tutto al loro bene. Se si fossero vaccinati tutti quanti eravamo più tranquilli».

DiMartedì, Concita De Gregorio inchioda Landini e Cgil: "Gli infermieri no vax? Neanche sotto tortura". Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. "Il personale non ha voluto vaccinarsi, e ora non posso nemmeno licenziarli sennò rischio le vertenze oltre al danno per gli ospiti". Il caso di maxi-contagio in una Rsa arriva a DiMartedì ed è Concita De Gregorio, giornalista di Repubblica, a leggere le parole del direttore sanitario della struttura e a porre la domanda delle domande al segretario della Cgil Fausto Landini. "Il sindacato che lei rappresenta come si orienta in un caso come questo? Ventisei infermieri su 27 che non si vaccinano e hanno contagiato gli anziani di questa Rsa. Sono censurabili? Licenziabili?", chiede la De Gregorio, con molto garbo. "Io sono perché tutti si vaccinino, ma è il governo che deve fare una legge per rendere obbligatori i vaccini, si assuma la responsabilità di farla a partire dal settore sanitario e faccia rispettare le regole, io non ho nulla in contrario". Risposta "svicolona", e infatti la De Gregorio non demorde e chiede conto delle possibili conseguenze di quel gesto: "L'infermiere che non si vaccina? Fa male - risponde Landini, in evidente imbarazzo -, ma se vuole che le dica che deve essere licenziato non glielo dico nemmeno sotto tortura". E al direttore della Rsa assicura: "Non gli farò nessuna vertenza, io dico un'altra cosa: il governo faccia una legge. Aggiungo che penso che sia una cosa di buonsenso: ho la sensazione che non è che ci vacciniamo una volta e basta, questa cosa andrà avanti per un po' di anni e come con l'influenza c'è un problema di sicurezza generale".  "Ma il sindacato tutelerà o no gli infermieri che non si vaccinano?", cerca di arrivare al dunque Concita. "Non mi faccia dire cose che non ho detto - leva gli scudi Landini, forse preoccupato di scatenare un polverone tra gli iscritti del comparto sanità al primo sindacato d'Italia -. Se c'è la volontarietà c'è la volontarietà, facciano le leggi che devono fare e io non mi opporrò. ma non mi prendo la responsabilità di leggi che non ci sono".

Negli ospedali i no-vax sono 35 mila: “Chi rifiuta la dose, sarà trasferito”. di Michele Bocci, Liana Milella su La Repubblica il 26 marzo 2021. Il nuovo decreto sull’obbligo di vaccinarsi conterrà anche lo scudo penale per il personale sanitario: tre i ministeri al lavoro. Allarme nelle Rsa, un operatore su tre senza copertura. Giornata record per le somministrazioni, ieri quasi 364 mila. Il grande problema sono le Rsa, le residenze per anziani. È qui che si concentra il maggior numero di operatori sanitari non coperti dal vaccino. Che siano apertamente no-vax, semplicemente scettici o che il problema stia nella capacità del sistema sanitario regionale di vaccinarli, il risultato non cambia: il 40% di loro non hanno avuto la somministrazione. Si tratta di circa 100 mila persone, anche se il dato è solo una stima, visto che i numeri di alcune Regioni non sono completi. C’è poi un altro fattore di cui tenere conto. Molti di questi lavoratori hanno avuto il Covid e quindi potrebbero aver spostato nelle prossime settimane la vaccinazione. È lo stesso problema che riguarda il personale sanitario, quello che lavora negli ospedali a contatto con malati. Soprattutto per loro, ma anche per i colleghi delle Rsa, è pensata la legge che impone la vaccinazione e sulla quale sta lavorando il governo. L’idea che anche un solo paziente, magari colpito da una malattia grave, possa essere infettato in ospedale è considerata insopportabile. E purtroppo la cronaca di questi giorni racconta che casi di questo tipo stanno avvenendo. È molto più difficile calcolare il numero di operatori degli ospedali che non si sono vaccinati. Riguardo ai medici ospedalieri i sindacati ipotizzano circa il 2% di mancate adesioni alla campagna. Cioè tra 1.150 e 2.300 camici bianchi su 114.000. Gli infermieri danno dati ancora più bassi, nell’ordine di qualche centinaia di non vaccinati. Sono poco credibili visto che nella sanità pubblica italiana di questi professionisti ce ne sono 255 mila. Agenas, l’agenzia sanitaria nazionale delle Regioni sta preparando per il ministro alla Salute Roberto Speranza una ricognizione. Oltre ai dati delle Rsa ha provato a raccogliere quelli degli ospedali, utilizzando come fonte anche i numeri dei dipendenti comunicati dalle Regioni. Ebbene, la copertura rilevata è più o meno del 96,5%. Ci sono cioè circa 35 mila persone che non hanno fatto nemmeno la prima dose. Il dato comprende tutti coloro che lavorano in sanità, anche i dipendenti delle cliniche convenzionate e private. Anche la presidenza del Consiglio ha pubblicato i dati di copertura del sistema sanitario sempre basandosi su quanto comunicato dalle Regioni e ottenendo numeri assoluti ancora più alti, quasi doppi, evidentemente perché vengono ricomprese altre categorie di lavoratori, come gli amministrativi. In questo caso la copertura rilevata con la prima dose è 86,2%. Ieri, giornata record per la campagna in cui si sono toccate le 363.984 vaccinazioni, gli uffici legislativi dei ministeri della Giustizia, della Salute, del Lavoro e della presidenza del Consiglio si sono confrontati sulla nuova norma. L’idea è quella di introdurre l’obbligo ma anche di prevedere una parte dove si prevede lo scudo penale per i medici e gli infermieri che fanno i vaccini. È una cosa che gli operatori chiedono da alcuni giorni. Si tratta di inserire un’esclusione di punibilità nel caso di effetti collaterali pesanti del farmaco. La protezione non varrebbe solo in caso di colpa grave. Riguardo all’obbligo, intanto la legge dovrebbe prendere in considerazione solo il personale che è a diretto contatto con i pazienti. Quindi non tutti i lavoratori sui quali si basano i calcoli sulla copertura. Del resto l’intento è di proteggere le persone fragili che si rivolgono al sistema sanitario pubblico o privato. E negli ospedali e nelle Asl ci sono molti medici e infermieri che non vedono i pazienti. A chi non si vuole vaccinare potrebbe essere chiesto di cambiare funzione, uno spostamento che richiede anche, nella stesura della legge, la presenza dei tecnici del ministero del Lavoro. Come ha ricordato anche il premier ieri, la ministra della Giustizia Marta Cartabia quando era giudice alla Corte Costituzionale, nel 2018, si era occupata proprio dell’obbligo vaccinale, previsto dall’allora ministra Beatrice Lorenzin per i medicinali destinati ai bambini. Lo giudicò legittimo, facendo prevalere il diritto di garantire la salute pubblica sul principio di libertà di cura .

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 26 marzo 2021. C'è un' epidemia di deficienza in alcuni ospedali della Liguria, ma trovare i colpevoli è più difficile del previsto: perché il vaccino fornisce l' ago, ma il pagliaio è l' insieme degli appigli legislativi che impediscono la cosa più semplice: impedire che dei malati siano curati da altri malati, impedire che tu possa entrare in ospedale per una malattia e restarci per un' altra, o restarci proprio. Secco. Ma cominciamo dalle notizie o dai loro aggiornamenti: in Liguria, appunto, si è verificato un secondo cluster ospedaliero (cluster vuol dire grappolo, perché non chiamarlo grappolo?) legato a un operatore sanitario che non si era vaccinato. Dovrebbe essere un no-vax dichiarato, ma la certezza assoluta non c'è. Il caso si è verificato questa volta a Lavagna (Genova) dove si sono registrati - dato aggiornato - 14 positivi, ossia alcuni ricoverati del reparto di Medicina più l'operatore che li avrebbe contagiati. A rivelarlo è stato il presidente della Regione Giovanni Toti. C'è anche un altro grappolo più contenuto che riguarda una Rsa (Residenza sanitaria assistenziale) che sta a Tiglieto (Genova) dove due operatori che lavorano all'interno hanno contagiato tre pazienti che hanno dovuto ricorrere alle cure ospedaliere. «Fortunatamente, uno è già stato dimesso e nessuno è in pericolo di vita», ha detto Toti, secondo il quale «dalle indagini dell'Asl, personale ospedaliero non vaccinato ha portato il virus all'interno di un reparto e ha provocato nove pazienti positivi che sono ricoverati a Lavagna». Era tutta gente già ospedalizzata per altri motivi, ma ora ha preso il virus dopo aver incontrato lo staff «che evidentemente ha rifiutato il vaccino», dice, «visto che il personale sanitario è già stato vaccinato tutto da tempo».

LA RICHIESTA DI TOTI. In sostanza uno va in ospedale per curarsi e si ammala di Covid, e la tentazione, facile, sarebbe quella di indirizzare alcuni calci nel deretano dei responsabili no-vax: che non hanno una coscienza ma purtroppo neanche una legislazione univoca e chiara che ce li tolga dai reparti. Sul problema - la gestione dei deficienti che sono a contatto con persone fragili ma non vogliono vaccinarsi né levarsi di torno - Toti dice di aver già discusso col ministro della Salute, nella speranza (perdonate il pasticcio) che il legislatore corra ai ripari al più presto con un'interpretazione univoca. Nell'attesa, la deficienza fa danni. Sui morti del reparto Maragliano dell'ospedale San Martino di Genova (almeno tre) sta indagando la Procura perché è lo stesso reparto dove si è acceso un focolaio con 17 positivi, e dove c'era un'infermiera positiva che aveva rifiutato il vaccino: c'è un nesso causale? Lo vedremo, ma colpisce che l'infermiera - e altri come lei - non si siano posti preventivamente il problema. Intanto la Procura ha cercato di stabilire che il datore di lavoro che non sposta il no vax a un'altra mansione (non a contatto con il pubblico) potrebbe essere sanzionato per omissioni sulle norme della sicurezza del lavoro. È un'interpretazione che al solito occupa, con giurisprudenza improvvisata, una vacatio legis: c'è anche stata la sentenza del tribunale del lavoro di Belluno che ha approvato le ferie forzate per dieci operatori di una Rsa che avevano rifiutato il vaccino. Ma resta un casino, perché bisognerebbe valutare caso per caso: sta di fatto che a oggi non c'è un obbligo di fare un vaccino e al contrario c'è il diritto di rifiutarlo in virtù dell'articolo 32 della Costituzione, che a sua volta però cozza con l'articolo 2087 del codice civile, secondo il quale il datore di lavoro deve tutelare l'integrità dei lavoratori e di chi entra in contatto con loro. Come se ne esce? Forse stabilendo che un vaccino è un dispositivo di sicurezza, come molti suggeriscono. E non solo in ambito ospedaliero. Intanto il consiglio regionale ha approvato un documento che stabilisce il «vaccino obbligatorio per il personale sanitario», da riproporre in sede di Conferenza Stato-Regioni; Toti aveva anche pensato a una legge regionale per l'obbligo vaccinale di chi lavora negli ospedali, ma i costituzionalisti hanno fatto capire che senza una legge dello Stato non si può fare.

LA DIFESA DEI SINDACATI. Rimanendo in Liguria, c'è lo sbotto di Matteo Bassetti, che al San Martino ci lavora: «Fuori dagli ospedali i sanitari no vax». Ma il direttore generale dello stesso ospedale, Salvatore Giuffrida, dice che destinare a mansioni diverse i sanitari che non si vaccinano è addirittura «impossibile, bisognerebbe capire cos'è un ospedale prima di fare certe affermazioni». Cos' è un ospedale? Nel suo caso, è un posto dove «ci sono 400 infermieri no-vax, è impossibile toglierli dai reparti non sapremmo come sostituirli». 400? In effetti, nel policlinico genovese, quasi il 17 per cento ha rifiutato l'iniezione: un'enormità, ma anche un promemoria per ristabilire nuovi criteri di assunzione in futuro. Infine, siccome ci vogliamo tanto male, ascoltiamo anche il verbo del sindacato degli infermieri (Nursing Up) che dice «Basta gogna mediatica su chi ha rifiutato il vaccino». Ha ragione: gogna e basta, non solo mediatica. Il segretario sindacale, che non vogliamo citare, ha detto che moltissimi infermieri nel tempo sono risultati positivi e che è la categoria più esposta e che paga il prezzo più alto. E dunque? E dunque il segretario ricorda che, secondo le indicazioni dell'Organizzazione mondiale della sanità, chi è stato positivo nei sei mesi precedenti può «scegliere di ritardare la vaccinazione fino alla fine di questo periodo». Capito. Non sono dei no vax: sono dei ligi esecutori dei protocolli dell'Oms che poi si vaccineranno in massa. Tutto molto probabile. L'amico del Nursing Up ci ricorda inoltre che «il datore di lavoro non può e non deve conoscere la situazione vaccinale dei propri dipendenti perché solo il medico competente è tenuto a conoscerla». Se nella tua officina hai un malato contagioso, cioè, non hai il diritto di saperlo. Molto logico. Molto attuale. Il lavoro non si tocca. L'Italia è una repubblica fondata sul contagio.

A Brindisi 400 operatori sanitari no vax, l’Asl non farà sconti. «Ora cambino lavoro». Il direttore generale Pasqualone parla della situazione in tutta la Asl: «Un primo elenco conteneva 400 dipendenti non vaccinati, ma credo che questo numero si sia ridotto della metà. «Vadano via, rischiano di contagiare i pazienti». Antonio Della Rocca su Il Corriere del Mezzogiorno il 28 Marzo 2021.

Asl Brindisi: provvedimenti per gli operatori sanitari no vax. Di Francesco Santoro su noinotizie.it il 28 Marzo 2021. Ferie forzate nei confronti del personale sanitario che ha deciso di non vaccinarsi contro il Covid. È la linea del direttore generale dell’Asl di Brindisi, Giuseppe Pasqualone, contro medici, infermieri e operatori sanitari No vax. A darne notizia è il Corriere del Mezzogiorno. Pasqualone parla del caso del reparto di Cardiologia dell’ospedale di Francavilla Fontana, dove il 50 per cento dei medici in servizio non vogliono farsi somministrare il siero anti-Covid. Per sostituire i professionisti il manager ha dato mandato al direttore sanitario di chiamare in causa i professionisti del “Perrino” di Brindisi.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 28 marzo 2021. Servirà una legge, non un Dcpm o un altro strumento più sbrigativo: ma l'obbligo di vaccinarsi contro il Covid-19 «è perfettamente compatibile con la Costituzione». A spiegarlo al Giornale è Giovanni Maria Flick, che della Corte Costituzionale è stato presidente dopo avere fatto il ministro della Giustizia. Altrettanto certo, spiega, è il diritto a chi dovesse subire dei danni dal vaccino a vedersi indennizzato dallo Stato: «L'obbligo di vaccino è una forma di solidarietà del singolo verso la collettività. Reciprocamente lo Stato deve essere solidale con il singolo nel caso che incontri a causa dell'obbligo delle conseguenze che lo danneggiano».

La Costituzione dice che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà. Perché il vaccino dovrebbe fare eccezione?

«La Costituzione è stata scritta quando si era appena usciti dalla tragedia degli esperimenti pseudoscientifici nazisti, dalla soppressione dei disabili. Su questi temi era ovvio che ci fosse una sensibilità particolare. Ma recentemente per due volte, nel 2017 e nel 2018, la Consulta ha stabilito che dalla raccomandazione del vaccino si può passare all'obbligo quando serve a tutelare la collettività. É indubitabile che oggi la situazione sia questa, quindi l'obbligo ci sta, il problema semmai sono le sanzioni».

Senza le sanzioni, l'obbligo rimane lettera morta.

«Ci vogliono, ma devono essere proporzionate e ragionevoli».

Il licenziamento per chi si rifiuta di vaccinarsi è ragionevole?

«Una persona che non accetta il vaccino può non essere ritenuta in condizioni di svolgere attività che svolgeva prima, per esempio a contatto con i malati o gli anziani. Vanno previste sanzioni specifiche che possono portare a una modifica del rapporto di lavoro o alla sua cessazione se non c'è la possibilità di adire il dipendente a altre mansioni».

Sono vaccini nuovi, elaborati in tutta fretta. Il cittadino non ha diritto di avere paura?

«Tutti i timori sono legittimi ma la collettività e lo Stato a un certo punto hanno il diritto di accettare le conclusioni cui è arrivata la scienza. E le conclusioni della scienza dicono che il vaccino è assolutamente necessario, non ha conseguenze dannose per l individuo salvo casi eccezionali ed è l'unico modo per combattere questa pandemia».

Per le scuole come si fa? Se i genitori non lo vaccinano si esclude un bambino?

«La scuola è un diritto fondamentale che si svolge in una comunità che va presidiata. Il bambino deve poter andare a scuola, se i genitori non lo vaccinano un giudice tutelare deve poter decidere per lui».

Si parla di uno scudo penale per proteggere dai processi medici e infermieri che vaccinano, e che oggi si tirano indietro per paura degli avvisi di garanzia.

«Gli scudi penali in genere mi fanno paura. Se concediamo lo scudo ai sanitari, ci saranno altre categorie ad invocarlo. Capisco i timori del personale sanitario e vedo due rimedi: una maggiora prudenza dei pm nello spedire informazioni di garanzia quando non sono necessarie, e una attenzione dei media a non riferire degli avvisi di garanzia come se fossero già delle condanne».

Lei si è fatto vaccinare?

«Avendo purtroppo superato gli ottanta sono stato messo in lista. E non ho avuto esitazioni».

"La cura ai sanitari no-vax? Via lo stipendio e vedrete". Il dg del S. Martino di Genova: qui il primo focolaio. Spostarli un problema: ne ho 400, chi li sostituisce? Enza Cusmai - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. Salvatore Giuffrida, siciliano di sangue e ligure nella formazione, è direttore generale dell'ospedale S. Martino di Genova, polo sanitario con circa 5mila dipendenti. È l'ospedale in cui un sanitario no vax ha infettato 17 pazienti.

Oggi arriva in Liguria il generale Figliuolo e il capo della Protezione civile Curcio. Messaggi per loro?

«A loro chiedo solo di accelerare sui vaccini. E vorrei mandare a dire al premier Draghi di fare presto».

Riguardo a cosa?

«Al decreto sugli operatori no vax. Noi datori di lavoro abbiamo le mani legate. Siamo costretti a tenerci in corsia gente che può trasmettere il virus ai pazienti e rischia a sua volta di ammalarsi. Inaccettabile».

Perché non li spostate come suggeriscono in molti, compreso il governatore Bonaccini?

«Non so se sentirmi annoiato o infastidito da queste chiacchiere. Persino in Procura si dice che sono sanzionabili i datori di lavoro che non spostano i non vax».

Dunque?

«Chi lascio in corsia se trasferisco gli operatori che rifiutano il vaccino? Se allontano 30 infermieri di rianimazione io tolgo 6 posti letto. E questi pazienti dove li mando? Con gli spostamenti faccio un dispetto al sistema ospedaliero: i posti letto sono in proporzione al numero dei dipendenti».

Da voi quanti sono i no-vax?

«L'adesione al vaccino tra i medici è pressoché totale, ma tra infermieri, oss, tecnici la percentuale dei vaccinati si ferma all'85%».

Quindi il 15% è scoperto?

«Esatto. Circa 400 operatori sanitari che fanno parte della catena assistenziale nei reparti e negli ambulatori rifiutano di vaccinarsi. Che faccio, li mando tutti al centralino?».

Cosa propone?

«L'obbligo della vaccinazione per tutti coloro che lavorano in ospedale o nelle rsa che sono a contatto con gli ammalati. Del resto, c'è già il decreto 465 che ha introdotto l'obbligo vaccinale antitubercolosi per il personale sanitario».

E se questi dipendenti si rifiutano?

«Licenziamento o allontanamento dal lavoro ma senza stipendio, sia chiaro».

Ma non c'è penuria di personale?

«Esatto. Ecco perché sostengo che l'unica soluzione sia l'obbligo vaccinale. Un sanitario non si improvvisa, e quelli che dicono di trovare un altro incarico ai non vax si dimenticano che qualche mese fa tutti gli ospedali erano in grave carenza di personale. E spostare una persona non è semplice».

Come mai?

«Per la Società italiana di medicina del lavoro, al momento, l'essere non vaccinato non è titolo idoneo per cambiare prestazione lavorativa. E in ospedale l'unico che può visionare le cartelle cliniche di un lavoratore è il medico del lavoro».

Vuol dire che lei non sa chi sono gli operatori non vaccinati?

«No. Il datore di lavoro non può avere l'elenco né dei no vax né di quelli vaccinati. Lo dice espressamente il garante della privacy».

E come controllate la situazione?

«Ci basiamo sulle percentuali. Quando c'è un contagio, mi arriva una segnalazione dalla medicina del lavoro, anonima, in cui c'è scritto: infermiere positivo nel reparto tal dei tali E scatta la copertura Inail come infortunio sul lavoro. È un sistema assurdo. Ci sono dei buchi normativi enormi. Bisogna colmarli al più presto».

È vero che ci sono anche operatori già vaccinati che risultano positivi?

«Certamente. Nel nostro ospedale sono una decina, l'ultimo ieri mattina: vaccinato con Pfizer e coperto con doppia dose a gennaio. E ora è positivo».

Dunque mai abbassare la guardia sulle protezioni?

«Sempre mascherine per tutti come da protocollo. Ma un vaccinato che si ricontagia si ammala in forma lieve. Se si ammala un no vax, rischia di trasformarsi da operatore a paziente. Con grave danno per tutti».

Graziella Melina e Francesca Pierantozzi per "Il Messaggero" l'11 marzo 2021. Fabrizio Rocchetto, psicologo, piscoanalista e psicoterapeuta, il virus comincia a conoscerlo bene: ha partecipato al primo servizio di ascolto gratuito Covid organizzato all'inizio di marzo di un anno fa, «nella fase micidiale di smarrimento dell'inizio», poi ha continuato a lavorare con i suoi pazienti, molti adolescenti, e alla fine il Covid lo ha avuto. Ricorda tutte le date: contagiato il 17 ottobre da un familiare con cui era andato a fare un'escursione in montagna, testato il 21, ricoverato due giorni dopo con polmonite e grave insufficienza respiratoria. «Senza l'ospedale ci avrei lasciato le penne», dice. E il familiare che lo ha contagiato? Come si è sentito? Vittima di quella «sindrome dell'untore» che in Francia dicono riguardi un numero sempre più importante di persone? «Quello che ho imparato, dalla mia esperienza personale e clinica, è che il Covid è un virus subdolo, che conosciamo ancora troppo poco. Non abbastanza per poterci dire capaci di stabilire una responsabilità», dice Rocchetto. «Il vero rischio è innescare un sentimento di persecuzione o di paranoia nelle persone». È questo che sta succedendo? Difficile dirlo, visto che l'argomento «è totalmente tabù», come spiega Marc Leone dell'ospedale di Marsiglia, e «tende a restare all'interno delle famiglie». Alla Pitié Salpetrière di Parigi, l'unità di sostegno psicologico si è arricchita di una «cellula etica» per aiutare «gli untori». Anche in Italia, le strutture che si occupano di supporto psicologico post Covid si ritrovano a doversi prendere cura di pazienti che soffrono di disturbi legati alla paura di aver contagiato una persona cara. «Normalmente quando uno fa del male involontariamente ad un'altra persona - spiega Gabriele Sani, professore di psichiatria dell'Università Cattolica di Roma - c'è grande dispiacere. Laddove si sviluppa un senso di colpa è giusto andare ad indagare la presenza di un vero e proprio quadro di alterazione psicopatologica, verosimilmente di tipo depressivo». Al policlinico Gemelli di Roma, dove è attivo un servizio nel quale vengono valutati in modo multidisciplinare i pazienti che hanno sofferto di patologie legate al Covid, le conseguenze della pandemia sull'equilibrio psichico sono frequenti. «Le persone che manifestano il disturbo post traumatico da stress - riflette Sani - sono circa il 30 per cento, inoltre il 50 per cento dei pazienti sviluppa sintomi di ansia e depressione». I primi a manifestare i disturbi legati alla paura di contagiare sono stati gli operatori sanitari. «Svolgendo un lavoro a rischio, medici e infermieri hanno paura di portare il virus, senza rendersene conto, in un ambiente casalingo - ricorda Alberto Siracusano direttore di Psichiatria e psicologia clinica del Policlinico Tor Vergata di Roma - C'è stata un'ansia e una preoccupazione molto diffuse soprattutto l'anno scorso, nel momento in cui l'esperienza pandemica era ancora nuova e per noi sconosciuta».

DEFUSING EMOTIVO. Da una ricerca realizzata a Tor Vergata è emerso che la maggior parte degli operatori sanitari soffriva di un'angoscia fortissima di contagiare gli altri, tanto che evitavano addirittura di rientrare a casa dopo il turno di lavoro. «Ci sono famiglie che hanno vissuto un doppio stress - rimarca Siracusano - di una separazione per proteggere i propri congiunti e in più quella di svolgere un lavoro estremamente a rischio». Per superarla, per molti operatori si è dovuto ricorrere al cosiddetto defusing emotivo. «Si tratta di una tecnica mediata da esperienze di guerra fortemente stressanti che consente di elaborare questo tipo di tensione e di ansia». Anche a Tor Vergata cresce la domanda di assistenza psicologica. «Stiamo vedendo che c'è una fortissima emersione di una manifestazione somatica dell'ansia, dovuta all'incertezza e alla preoccupazione che oggi stiamo vivendo». Per chi poi cerca aiuto perché vive nel dubbio di poter essere stato l'untore di una persona cara, «il senso di colpa viene affrontato grazie a colloqui psicologici che aiutano ad elaborarlo». Secondo Alessandra Simonelli, direttrice del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell'Università di Padova, «i movimenti psicologici legati alla pandemia sono tantissimi. La sindrome dell'untore, ossia di paura prima e di colpa dopo, si è verificata in particolare sui sanitari che sono stati i più esposti percentualmente al rischio. Ma ricordiamo che in molte persone è evidente anche la sindrome dei sopravvissuti: chi guarisce da una parte è contento, ma dall'altra vive un senso di angoscia che porta a chiedersi per esempio perché io non sono morto e un mio vicino di letto sì? Sono fenomeni osservati quando la nostra psiche è esposta a eventi estremi che perdurano a lungo».

L’orgoglio di "pulire culi", lo sfogo dell’infermiera diventato virale. Elisabetta Panico su Il Riformista l'8 Marzo 2021. Sono tante le professioni che vengono sempre di più sottovalutate e denigrate dalla società moderna. Una delle figure professionali che spesso e volentieri viene collegata a connotati negativi è quella del tecnico nella cura di persone non autosufficienti. Le persone che lavorano in questo campo si dedicano ad aiutare pazienti con disabilità fisiche o malattie mentali e il tecnico offre assistenza sanitaria per tutte le attività quotidiane necessarie per far vivere il paziente nel migliore dei modi, rispettandolo e offrendogli tutte le attenzioni che servono. Molte volte le persone chiamano questa professione “fare le pulizie di culo”. Una donna di origine spagnola di nome Babi Gòmez stanca di sentire dire questa frase e di vedere il suo lavoro associato ad  un lavoro da disprezzare, spiega su Twitter quanto sia fondamentale questa figura professionale. Babi twitta: “Oggi ho sentito di nuovo “lavorare anche se si tratta di pulire culi” e non è la prima né l’ottava volta che lo sento. E sento il bisogno di rivendicare il mio lavoro e di gridare al mondo quanto ne sono orgoglioso. Sì signore e signori, orgogliosi di pulire culi, tagliare unghie, lavare teste, vestire, fare la doccia, nutrire e prendersi cura di persone, sì sì sì PERSONE, che non possono farlo da sole e hanno bisogno di aiuto“. Successivamente, il tweet è diventato virale e molte persone hanno supportato la ragazza e cogliendo anche l’occasione per ringraziare tutti gli assistenti che come lei si prendono cura dei propri cari. Su Facebook un’altra donna di nome Sara Rodriguez Martinez pubblica una sua foto con la didascalia scritta da una sua amica. Il post inizia con la frase di Babi e continua: “… ma riassumiamolo come “pulizia dei culi”. Sono già un po’ stufa dei connotati negativi di questa espressione che è strettamente legata alla mia professione. È chiaro che non tutti siamo bravi in tutto. Ad esempio, non potevo lavorare in qualcosa che mi richiedesse di mentire, come un banchiere o qualcosa del genere. Eppure quella è una professione molto apprezzata, al contrario affrontare la mia è come l’ultima delle ultime. Beh, io dico a voi / e utenti di Facebook, che nella vostra grande maggioranza non avete mai avuto bisogno che nessuno vi “pulisca il culo” e spero che non abbiate mai bisogno di qualcuno ve lo faccia. Ma dico alla maggior parte di coloro che ci classificano in quel modo che se arriverà il momento necessario, io o i miei colleghi professionisti saremo disposti ad aiutarvi e farvi avere la migliore qualità di vita possibile, sempre con buon umore e amore. Ora decidete voi qual è il lavoro davvero importante per le persone come me o voi ma per favore, non usate l’espressione “culi puliti” con disprezzo, perché forse un giorno qualcuno dovrà farlo per voi e credetemi che ne sarete grati. Firmato: una pulita“.

La replica, piccata, di una infermiera del Giannuzzi alle offese ricevute dalla collega Alessia salita sul palco di Sanremo.  Manduria Oggi il 04/03/2021. «Quella divisa, che molti si permettono di insultare e infangare, all’origine era di colore celeste. Dopo qualche ora, dentro i presidi anti-Covid, era diventata blu per il sudore. Ricordatevelo quando vi sentite in diritto di insultare una di noi» La replica, piccata, di una infermiera del Giannuzzi alle offese ricevute dalla collega Alessia salita sul palco di Sanremo. Alessia, l’infermiera-simbolo della prima ondata della pandemia, è stata sul palco di Sanremo, intervistata da Amadeus. Un’occasione per ricordare i sacrifici compiuti dal personale sanitario durante la prima ondata di pandemia e che, purtroppo, sono ripresi dall’autunno e proseguono da qualche mese. Dopo questa sua presenza, utile anche a 5/3/2021 MANDURIA - La replica, piccata, di una infermiera del Giannuzzi alle offese ricevute dalla collega Alessia salita sul palco di Sanremo ricordare la necessità di far fronte comune per arginare il diffondersi del virus attraverso il rispetto delle prescrizioni anti-Covid, Alessia è stata oggetto di offese attraverso i social. Offese indegne, sinonimo, a nostro avviso, di inciviltà. A sua difesa prende posizione, sempre attraverso i social, una infermiera del “Marianna Giannuzzi” di Manduria, Fortunata Barilaro. Ecco la sua replica decisa e piccata: un post e due foto. «Queste foto le ho scattate io. Quella divisa, che molti si permettono di insultare e infangare, all’origine era di colore celeste. Dopo qualche ora, dentro i PRESIDI ANTICOVID, era diventata blu. Quello che vedete non è acqua, E’ SUDORE. I bellissimi capelli ricci della mia collega, grondavano gocce. I suoi occhi erano cerchiati e stanchi. Ricordatevelo quando vi sentite in diritto di insultare una di noi. Com’è accaduto ad Alessia, la collega salita sul palco di Sanremo. Definita con tutti gli aggettivi più dispregiativi per una donna. Quella ragazza è un’infermiera. Ha una laurea, ed anche un cuore “da infermiera” devolvendo il suo compenso in beneficenza ad un’associazione per le cure palliative. E se qualcuno pensa ancora che “ci stiamo arricchendo”, non ho problemi ad esibirgli la mia busta paga, dove neppure 10 euro in più sono riconosciuti per chi lavori in un reparto Covid».

Riccardo, dottore di base in prima linea anti Covid a Nembro: ora è senza lavoro. Le Iene News il 02 marzo 2021. Riccardo Munda non si è mai fermato in questa pandemia e ha sempre continuato a visitare anche a casa i suoi pazienti come medico di famiglia nella Val Seriana epicentro dell’epidemia di coronavirus. A dicembre abbiamo passato una giornata con lui tra visite e pazienti. Ora il periodo di sostituzione è finito e Riccardo tra pochi giorni si troverà senza lavoro. Ha passato un anno a lottare in prima linea contro il Covid e tra pochi giorni non avrà più un lavoro. Stiamo parlando di Riccardo Munda, il medico di base di 39 anni che abbiamo conosciuto nel dicembre scorso con il servizio di Alice Martinelli che potete vedere qui sopra. Riccardo è stato uno dei nostri medici-eroi: durante la pandemia ha continuato a visitare anche casa i suoi pazienti, nonostante le limitazioni e la paura del coronavirus. “Secondo me il ruolo della medicina territoriale è fondamentale ora più che mai”, ci aveva detto. Abbiamo passato una giornata di lavoro con lui. Riccardo è un medico sostituto non specializzato e durante la pandemia ha preso il posto di colleghi ammalati. Ma ora, come riporta Repubblica, il suo periodo di sostituzione sta per finire. Il 19 marzo sarà il suo ultimo giorno di servizio a Nembro, mentre è già terminato il periodo a Selvino. Così questo medico, che ha dato tutto se stesso assistendo senza sosta i pazienti affetti dal Covid, tra pochi giorni sarà senza lavoro. “Sia a Selvino sia a Nembro sono stati nominati i titolari”, ha detto a Repubblica, aggiungendo che la storia finisce “un po’ con l’amaro in bocca”. Avevamo visto il lavoro incessante di questo medico di famiglia che ha seguito circa 1.400 pazienti in piena pandemia. Abbiamo visto il suo telefono intasato di messaggi mentre instancabile continuava a fare le sue visite. “Lavoro 18 ore al giorno tutti i giorni”, ci aveva raccontato."Ho fatto una scelta di vita. Diversa dai miei colleghi che si sono specializzati", dice a Repubblica. "E dunque prima o poi doveva arrivare il momento di cedere il posto ai colleghi titolari. Ho detto ai pazienti che sono gli ultimi giorni, molti si sono messi a piangere  e io con loro”. Quando a dicembre gli abbiamo chiesto se non avesse paura di contagiarsi, ha risposto: “Non ci penso, se mi contagio mi curo. Sono giovane e non ho patologie”. Non aveva dubbi: “Ho visitato centinaia di persone. Tornassi indietro lo rifarei e lo farò ancora. Finché ho la forza spero di poter continuare il più possibile così”. 

"Non abbassiamo la guardia, uniti ce la faremo" dice la giovane 24enne. Alessia Bonari, l’omaggio del Festival di Sanremo all’infermiera: “Sei il simbolo della lotta al covid”. Redazione su Il Riformista il 3 Marzo 2021. Un anno dopo la foto-simbolo dell’inizio della pandemia è sul palco del Festival di Sanremo a ricordare a tutti che “bisogna continuare a stare attenti e uniti, tutti insieme ce la faremo”. Alessia Bonari, 24enne infermiera originaria di Grosseto e in servizio in un ospedale di Milano, è una delle protagoniste della prima serata di un Festival di Sanremo atipico, senza pubblico ma con tanta carica emotiva. La sua immagine, pubblica il 9 marzo scorso su Instagram con i segni della mascherina sul volto, fece il giro del web. Un anno dopo è stata fortemente voluta da Amadeus che ha ricordato il suo impegno in prima linea nella lotta al coronavirus. All’Ariston Alessia arriva per lanciare il suo appello: “La situazione è sempre la stessa, ci tengo a mandare il messaggio che non bisogna abbassare la guardia. Bisogna continuare a stare attenti e uniti, tutti insieme ce la faremo”. Un monito lo lancia anche Amadeus: “Ho sentito il ministro Speranza al telefono, mi ha chiesto di ricordare che non ne possiamo più ma che c’è solo un modo, al di là dei vaccini, di uscire dalla pandemia: usare la mascherina, lavarci le mani, stare attenti. Non possiamo andare avanti così, dobbiamo tornare alla normalità”. Alessia è “una ragazza che abbiamo voluto fortemente. Fino a un anno fa quando uscivi di casa non dovevi dimenticare le chiavi e il cellulare” ricorda Amadeus. Con la pandemia “c’è un’altra cosa che non bisogna più dimenticare quando usciamo di casa, la mascherina” sottolinea il conduttore del Festival. “Sono fortunato perché quelli come me non la indossano tutta la giornata. Non la indosso quando lavoro. Qualcuno invece questa mascherina l’ha dovuta indossare per 12-15 ore al giorno. Questa ragazza (Alessia, ndr) ha mostrato i segni cutanei delle 15 ore in cui ha dovuto indossare la mascherina”. Un selfie dopo un turno massacrante di lavoro che fece il giro dei social.

IL POST DEL 9 MARZO 2020 – “Sono stanca fisicamente perché i dispositivi di protezione fanno male, il camice fa sudare e una volta vestita non posso più andare in bagno o bere per sei ore. Sono stanca psicologicamente, e come me lo sono tutti i miei colleghi che da settimane si trovano nella mia stessa condizione, ma questo non ci impedirà di svolgere il nostro lavoro come abbiamo sempre fatto. Continuerò a curare e prendermi cura dei miei pazienti, perché sono fiera e innamorata del mio lavoro. Quello che chiedo a chiunque stia leggendo questo post è di non vanificare lo sforzo che stiamo facendo, di essere altruisti, di stare in casa e così proteggere chi è più fragile. Noi giovani non siamo immuni al coronavirus, anche noi ci possiamo ammalare, o peggio ancora possiamo far ammalare. Non mi posso permettere il lusso di tornarmene a casa mia in quarantena, devo andare a lavoro e fare la mia parte. Voi fate la vostra, ve lo chiedo per favore”.

Medici di base morti per il Covid, la petizione per chiedere giustizia. Le Iene News il 23 febbraio 2021. Sono 328 al momento i medici morti combattendo in trincea contro il Covid. Di questi 121 erano medici di famiglia a cui però non viene riconosciuto l’infortunio sul lavoro. Giulio Golia incontra i loro familiari che ora hanno avviato una petizione per chiedere giustizia. Sono 328 al momento i medici caduti dall’inizio della pandemia. Di questi 121 erano medici di famiglia, ma a quanto sembrerebbe sono stati dimenticati rispetto ai loro colleghi. Per i medici ospedalieri viene riconosciuto l’infortunio sul lavoro non è così per quelli di base. Giulio Golia incontra i figli, le mogli e i colleghi di chi non ce l’ha fatta nell’ultimo anno. Questa disparità molti di loro la stanno scoprendo solo adesso. Tra loro ci sono i familiari di Mario Avano, 66 anni, medico di base nel quartiere di Barra (Napoli), il Covid se l’è portato via il 20 dicembre. I suoi figli Gennaro e Laura hanno trovato una sua lettera scritta proprio nelle settimane in cui combatteva contro il coronavirus. Chiedeva al presidente della Repubblica di interessarsi “per modificare questa ingiustizia contro una categoria esposta a così alto rischio”. Ma non ha avuto tempo di portare avanti questa battaglia di uguaglianza che ora è diventata dei figli. “Abbiamo pensato di contattare tutte le altre famiglie per far sentire la nostra e la loro voce”, raccontano Gennaro e Laura che hanno cercato uno a uno i familiari dei medici di base morti. Insieme hanno messo in piedi una rete che attraversa tutta Italia con un grande obiettivo: il riconoscimento dell’infortunio sul lavoro come vale per i medici ospedalieri. Per far sentire ancora di più la loro voce hanno aperto una petizione su Change.org per far riconoscere il Covid come infortunio sul lavoro. 

Striscia la Notizia svela lo scandalo-ambulanze: ecco come guadagnano sulla pelle dei malati di Covid. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. Uno scandalo ai danni dei malati di coronavirus. Striscia la Notizia manda in onda il costo dell'ambulanza nella provincia di Napoli. Il servizio di Luca Abete, mostra come alcune onlus di ambulanze richiedono dei prezzi esorbitanti per il trasporto di pazienti Covid nonostante i pochi chilometri da percorrere. Quali? Ben 250 euro per fare giusto 10 km. Questo però solo per chi è infetto, perché alle persone che non hanno il virus costa meno, 100 euro. Ma ci sono onlus che chiedono anche di più. Dimenticate infatti i 250 euro, perché alcune ambulanze arrivano a costare anche 300. Ancora più assurdo - spiega Abete - è la modalità di pagamento che avviene "senza alcuna tracciabilità". Solo ed esclusivamente in contanti. Finita qui? Neanche per sogno c'è chi chiede 500 euro "con contanti da consegnare in ambulanza" e chi addirittura 550. Peccato però che sia Giuseppe Galano, direttore centrale operativa "118" di Napoli, a fare chiarezza sui veri costi: "Un trasporto normale non dovrebbe arrivare ai 100 euro. Tutte le altre cifre sono venute ai tempi del Covid. Quando si parla di fattura, per le onlus non si deve ricaricare con l'Iva". Un vero e proprio scandalo di chi si approfitta della situazione emergenziale. Il tg satirico di Antonio Ricci non si occupa solo di ospedali. Sempre sul coronavirus girano da tempo fake news. Una a caso è quella smascherata dall'inviato Max Laudadio che ha parlato con un esperto, il nutrizionista Dario Vista. La fake news che gira sottolinea che bisogna mangiare cibi col ph superiore all'8,5 perché il ph del coronavirus varia da 5,5 a 8,5. Nulla di più falso.

Il "premio" di Emiliano agli eroi: operatori sanitari tutti precari. Sono centinaia gli operatori socio sanitari in Puglia che hanno affrontato la prima e la seconda ondata Covid e che adesso, ad un passo dalla stabilizzazione, si vedono precari o mandati a casa. Roberta Grima - Dom, 21/02/2021 - su Il Giornale. Li hanno chiamati angeli, poi eroi, adesso sono semplici Operatori socio sanitari. Pure precari. Un esercito di centinaia di lavoratori in Puglia, che dopo aver affrontato la prima e la seconda ondata del Covid nei vari reparti ospedalieri, si vedono ancora con contratti a tempo. I più fortunati hanno ottenuto la proroga dei contratti sino a marzo, ma c'è anche chi è stato già mandato a casa. Come gli Oss delle Asl di Brindisi e della Bat, in tutto circa trecento persone. "Così ci ricompensa il governo pugliese - dice a "ilGiornale.it" un Oss di Brindisi - non vogliamo alcuna medaglia, ma ci aspettavamo che venissimo confermati ai fini dell'assunzione definitiva". I lavoratori in servizio a tempo determinato speravamo nella riconferma. Sopratutto ci sperava chi avrebbe raggiunto i trentasei mesi di servizio nel giro di poche settimane, conquistando il requisito necessario per l'assunzione stabile, così come previsto dal mille proroghe. Invece oltre al danno, la beffa. Eppure da anni nelle corsie dei noscomi pugliesi, i sindacalisti e le stesse Asl registrano una grave carenza di organico: mancano circa 3500 unità in tutto il territorio regionale. Con la pandemia poi c'è maggior bisogno. "Solo chi é stato dentro un ospedale e ha vissuto da vicino questa pandemia, può capire ogni nostro sforzo - ci dice Mariella, Oss del pronto soccorso dell'ospedale "Perrino" di Brindisi e a casa dal primo febbraio. - Quando una persona moriva, eravamo noi a chiudere quel sacco nero, senza poter dare niente ai familiari, se non la triste notizia. Quelle povere persone ricoverate che stavano male, avevano come unico riferimento gli infermieri e noi. Non credo che io potrò arrivare tra venti, trent'anni a dimenticare quello che ho vissuto. Non riesci, non puoi dimenticare. Io non voglio una medaglia, ho fatto il mio lavoro, amo il mio lavoro, ho fatto tanti anni nell'emergenza, ma mai mi sarei immaginata di trovarmi in questa guerra silenziosa, sconosciuta. Io mi sono ritrovata a montare il turno di notte in pronto soccorso, rientrare dopo lo smonto e non riconoscere più il mio reparto, perché erano stati fatti percorsi nuovi, zone chiuse, aree isolate, dall'oggi al domani non si riconosceva più". Gli Oss sono coloro che hanno un rapporto più diretto con l'ammalato, che si avvicinano a lui quando ha bisogno, per pulirlo, che hanno dato anche un supporto psicologico ai pazienti, oltre che mantenere il movimento che evita lesioni o piaghe. Erano gli unici che potevano dare conforto. Tante volte si sono trovati a rispondere ai cellulari dei pazienti, per dare notizie ai familiari, perché chi era ricoverato non poteva parlare. "Ricordo ancora - racconta a "ilGiornale.it" Mariella - quando ho assistito alla dipartita di un anziano signore, il cui figlio era un medico. Quando il padre ha contratto il Covid ed é deceduto, era uno strazio dover chiudere quel sacco e vedere il figlio dall'altra parte che non si dava pace. Per mesi aveva rinunciato a far visita a suo padre quando stava bene. Voleva evitare come medico, di esporre l'anziano genitore a possibili rischi di infezione. Invece poi si è contagiato e il figlio non si capacitava a doverlo lasciare senza averlo salutato per l'ultima volta, avendo rinunciato per mesi a stare con lui quando ancora poteva farlo". Anche Mariella ha rinunciato ai suoi figli e ai suoi nipoti durante la pandemia, per mesi e mesi. Tra loro c'è anche un paziente oncologico e non poteva permettersi di contagiare nessuno. La donna ha fatto la sua parte andando al lavoro a dare una mano, ma nello stesso tempo non poteva darla a chi ne aveva bisogno nella sua famiglia. Adesso per Mariella e i suoi tanti colleghi, vedersi mandare a casa è un pugno allo stomaco. "Tante volte mio nipote mi ha detto di non andare in ospedale e di cambiare lavoro. Ho quattro nipoti: il più grande di 17 anni e il più piccolo di cinque. Ho rinunciato a vederli per tutelarli. È una vita che faccio sacrifici per questo lavoro, pensavo di essere arrivata finalmente al punto di svolta. Dopo 11 anni di 118 come volontaria, tanti anni nelle strutture private che non sempre hanno pagato, alla fine arrivi nell'Asl e pensi che prima o poi verranno riconosciuti i tuoi sforzi". Invece ciò che questi lavoratori si sono sentiti dire, è che per maturare il diritto alla stabilizzazione, serve il riferimento normativo, pur definendo queste persone angeli o eroi, ciò che conta é la legge. "Già, la legge - dice un'infermiera - Ma cosa ne può sapere un avvocato, un politico, la burocrazia o la legge di quello che accade nelle corsie. Noi infermieri lavoriamo gomito a gomito con gli Oss. Cosa ne sa chi guarda solo la legge e dice che va tutto bene, mentre toglie 164 persone per sostiturle con altrettante precarie, come fosse un gioco. I rimpiazzi però, non sono pezzi di macchina di un sistema e se questo sistema ha retto, é perchè c'erano persone valide. Siamo stanchi oramai di indossare tute senza sosta. Si può piangere dietro le mascherine, il lavoro è duro fisicamente e umanamente, ma eravamo una squadra vicente con Oss che hanno affrontato l'emergenza con noi e sanno cosa vuol dire. Invece ci hanno buttato in zone rischiose. Noi, medici e gli Oss che poi sono stati lasciati in mezzo alla strada." Tra gli operatori precari che hanno lavorato durante la pandemia, c'è chi si è ammalato e ha ancora i postumi. Stando a quanto registrato da Chiara Cleopazzo, coordinatrice di categoria regionale della funzione pubblica Cgil Brindisi, l'80% di loro si é contagiato. Qualcuno ha trasmesso il virus al proprio figlio o marito e con trentacinque mesi di attività, si aspettava un riconoscimento con la proroga del contratto sino a tre anni di servizio e quindi l'assunzione. Invece c'è persino chi è stato mandato via mentre era ancora in regime di infortunio. Chi è uscito dalla terapia intensiva, per andarsene a casa. "La cosa strana é che il governo pugliese - dice la sindacalista - sta mandando via personale precario, per assumere altri precari, attingendoli dalla graduatoria del concorso di Foggia. Si tratta della selezione risalente alla primavera scorsa, per 2445 posti per Oss, con 13 mila idonei in graduatoria, tra cui anche gli stessi precari mandati via o nelle migliori delle ipotesi prorogati sino a marzo. Ecco perché molti di loro usciranno dal portone per rientrare dalla finestra. Che senso ha?" Il sindacato chiede che ci sia intanto un'omogenità sul territorio. Ci sono Oss mandati a casa che invece hanno avuto la proroga dei contratti sino a marzo, recependo un'indicazione del dipartimento regionale della salute. La Cgil chiede al presidente Emiliano che si faccia sentire in merito a questa storia. Una cosa, dicono dal sindacato che non si é mai vista e che rischia di ripetersi con il concorso degli infermieri che si sta espletando in questi giorni a Bari. "Stiamo cercando di dare una mano a chi ha perso il concorso di Foggia - ha detto Michele Emiliano - cercando di collocarli nel privato. La questione però è affidata al presidente della task force Leo Caroli, il quale ha sottolineato che il destino di questi lavoratori, dipende dal quadro normativo. "Non è - ha detto Caroli - né la volontà politica, né la gestione delle Asl, a determinare il destino di queste persone, ma solo il quadro normativo, i presupposti giuridici che serviranno da orientamento". La vicenda è sul tavolo regionale che ha constatato i diversi provvedimenti adottati dalle varie Asl pugliesi, che hanno creato di fatto discriminazioni tra lavoratori della Puglia. Il fatto però che alcune aziende sanitarie come quella di Lecce, Taranto, abbiano prorogato i contratti precari sino a marzo, non significa che verranno ulteriormente riconfermati, come ha spiegato lo stesso presidente della task force. "Si sta studiando - ha aggiunto Caroli - se le proposte avanzate dai sindacati di prorogare i precari sino al raggiugimento dei tre anni di servizio al fine della stabilizzazione, sia possibile dal punto di vista giuridico o meno. Si tratta di capire a chi riconosce la legge, la priorità occupazionale: a chi é già in servizio o agli idonei di concorso e se questi possono sostituire i colleghi precari, con contratti a loro volta a tempo o se invece abbiano la priorità sui colleghi solo con un'assunzione a tempo indeterminato. "Una cosa la posso dire - ha concluso il presidente della task force - la volontà politica é quella di non lasciare a casa nessuno, se non nell'immediato, almeno nella prospettiva futura. Il tavolo regionale lavorerà anche per questo, per aiutare chi eventualmente resta fuori. La normativa prevede infatti di assumere prima i vincitori di concorso, poi gli idonei che sono 13 mila e poi il resto".

Covid: infermiere ruba gel e mascherine per ottenere sconto su cocaina. Ilaria Minucci su Notizie.it il 09/02/2021. Durante il primo lockdown anti-Covid, un infermiere ha rubato mascherine e gel igienizzanti per avere uno sconto sulla cocaina acquistata. Nel corso del primo lockdown nazionale, un infermiere milanese di 49 anni ha consegnato mascherine, gel igienizzanti e altri prodotti fondamentali per contrastare la diffusione del coronavirus a uno spacciatore per ottenere sconti sulla droga da acquistare. La vicenda è emersa in seguito al maxi-blitz condotto dalle forze dell’ordine di Milano impiegate presso il commissariato Comasina e la squadra Mobile per sventare un ingente traffico di droga. L’operazione ha portato alla certificazione di 24 arresti e alla scoperta di un commercio di stupefacenti perpetratosi senza limitazioni anche durante il primo lockdown imposto dal governo italiano nei primi mesi del 2020 per arginare la minaccia rappresentata dal SARS-CoV-2. A questo proposito, l’ordinanza, firmata dal gip Guido Salvini su richiesta della pm Francesca Crupi, documenta in modo particolarmente dettagliato uno scambio di cocaina avvenuto tra un infermiere e uno spacciatore, nel pieno delle restrizioni attive su territorio italiano.

Infermiere ruba gel e mascherine per sconto su cocaina. Alle ore 13:22 del 27 febbraio 2020, un infermiere di 49 anni ha incontrato il suo spacciatore, un uomo che aveva adottato lo pseudonimo di Genny Savastano, personaggio di Gomorra, la cui vera identità risponde al nome di Euprepio Carbone. Dopo aver espletato le formalità di rito, il 49enne regala allo spacciatore svariati dispositivi di protezione contro il Covid, sottratti in modo illecito dalla struttura ospedaliera presso la quale era impiegato, al fine di poter ottenere uno sconto sulla cocaina che intendeva acquistare. Consegnando la merce rubata, l’infermiere spiega a Carbone: «Ascoltami: queste sono le mascherine. Queste sono quelle chirurgiche e queste le FP3. Capito? Questa invece è l’amuchina, va bene? Fanne quello che vuoi! Questo è disinfettante per le mani chirurgico, costa un botto di soldi. Lo diluisci. Ti fai i tagli alle mani. È ottimo. Le mascherine quando ne ho ancora di più te le do senza problemi». I prodotti forniti allo spacciatore, secondo le ricostruzioni effettuate dagli inquirenti, sono valsi all’infermiere l’acquisto di «un grammo di cocaina al prezzo scontato di 50 euro». Concluso l’affare, poi, Euprepio Carbone ha inviato un messaggio vocale alla moglie raccontandole: «Vedi che il dottore dove sono andato adesso mi ha dato mascherine, amuchina, sapone per le mani, stasera porto tutto a casa».

Lockdown, il traffico di droga attivo a Milano. Il blitz delle forze dell’ordine di Minato ha consentito di smantellare un’organizzazione basata sulla collaborazione di fornitori albanesi e di spacciatori italiani. Sulla base delle indagini sinora effettuate, è stato verificato che l’organizzazione agiva in modo indisturbato su tutto il territorio del capoluogo lombardo nel corso del primo lockdown italiano, «disponendo di grosse risorse economiche ed avvalendosi della vicinanza a note famiglie criminali come i Pompeo, ras della criminalità di Quarto Oggiaro, e i Falchi, della Comasina». Le informazioni rilasciate dal gip, inoltre, svelano che i legami con i boss attivi nella periferia di Milano dipendono dalla compagna di un trafficante albanese arrestato che sarebbe «in stretti rapporti con componenti della famiglia Falchi ed è legata, anche per rapporti di parentela, a componenti della famiglia Pompeo con i quali parla delle attività delittuose in corso». Il gip, inoltre, ha anche dichiarato quanto segue: «Gli indagati godono del resto di una fitta rete di contatti cui rivolgersi sia per l’approvvigionamento che per la vendita, al dettaglio o all’ingrosso, vantando contatti con moltissimi acquirenti, di qualsiasi estrazione sociale e capacità economica, dimostrando un impegno incessante nel gestire gli appuntamenti e la successiva cessione». In relazione alla attività di contrabbando di stupefacenti condotta, invece, ne è stata ribadita la prosperità anche nei mesi di isolamento dovuti al Covid. è stato spiegato che «gli indagati hanno perfezionato le modalità di acquisto, confezionamento e distribuzione e hanno avuto continua disponibilità di stupefacenti, di mezzi da utilizzare, di ‘cavalli’ e di una filiera criminale, che si occupa delle consegne».

Da leggo.it il 30 marzo 2021. Un focolaio Covid è scoppiato a metà marzo nel convento Regina Pacis di Bari, nel quartiere di Ceglie del Campo, contagiando tutte le 27 suore della congregazione delle Suore adoratrici del sangue di Cristo che vi risiedono. Quattro di loro, tutte ultra ottantenni, sono decedute nei giorni scorsi a causa del virus e le altre 23 sono attualmente positive, 18 in isolamento nel convento e cinque ricoverate in ospedale. La notizia, anticipata da quotidiano La Repubblica, è confermata dalla diocesi. Il contagio potrebbe essere avvenuto attraverso il personale di una cooperativa che fornisce servizi all'interno della struttura, dove non erano ancora partite le vaccinazioni anti-Covid. La Asl ha preso in carico la situazione e sta monitorando lo stato di salute delle religiose in isolamento.

Le denunce servono, ma purtroppo non bastano. Solo ieri il figlio della vittima ha denunciato il caso al TgNorba. Annamaria Rosato su Tgnorba il 27 gennaio 2021. Le denunce servono, ma purtroppo non bastano. È deceduto oggi pomeriggio al Moscati di Taranto il paziente, negativo al tampone, che il 5 gennaio scorso, fu ricoverato al ss. Annunziata per una polmonite. Il giorno delle sue dimissioni, l 11 gennaio, fu sottoposto nuovamente al tampone e risultò positivo. Venne trasferito al Moscati dove fu intubato. Le sue condizioni peggiorarono. Ieri il figlio ha denunciato al Tg norba la vicenda. Oggi la triste notizia. Intanto Vincenzo di Gregorio, vice presidente della commissione sanità alla regione Puglia, chiederà al direttore generale della Asl, Rossi, tutta la documentazione relativa al paziente per capire cosa non ha funzionato.

Matino, focolaio in una Rsa: 74 contagiati, anche 27 operatori. Il sindaco Toma: «Nei giorni scorsi erano stati eseguiti i vaccini». Il personale positivo già sostituito. Pierangelo Tempesta su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Gennaio 2021. Un focolaio Covid in una residenza per anziani di Matino. Il centro di assistenza «Casa Serena» starebbe facendo i conti, in queste ore, con la presenza di 47 ospiti positivi (su 54 posti letto). E sarebbero risultati affetti dal virus anche 27 operatori, per un totale di 74 contagiati. Se i numeri dovessero essere confermati nel bollettino che sarà diramato oggi, quello di Matino sarebbe il focolaio più esteso dopo quello, tristemente noto, della residenza «La Fontanella» di Soleto. «Nella struttura - spiega il sindaco di Matino, Giorgio Salvatore Toma - nei giorni scorsi erano stati eseguiti i vaccini. La direzione mi ha trasmesso una relazione dalla quale si evince che la situazione, nonostante la sua gravità, è sotto controllo. La residenza è stata oggetto di un’ispezione del Servizio igiene e sanità pubblica della Asl che ha confermato la continuità assistenziale». Il problema, aggiunge il primo cittadino, «c’è ed è abbastanza grave, ma la situazione è sotto controllo e sarà continuamente monitorata dagli organismi preposti. Mi è stato assicurato che tutti gli operatori positivi sono già stati sostituiti, anche se con non poche difficoltà, e che quelli negativi sono stati posti in quarantena. La direzione della struttura è sempre stata molto rigida nel far rispettare i protocolli». La Rssa «Casa Serena» sorge in un’antica struttura del centro storico di Matino ed ha una capacità ricettiva complessiva di 54 posti letto. La notizia del focolaio, afferma il sindaco, «è arrivata come un fulmine a ciel sereno: fino ad ora, nonostante tutto, la situazione a Matino è stata relativamente tranquilla. Venerdì scorso il numero di positivi era fermo a 65. Sicuramente nel bollettino di questa settimana sarà destinato ad aumentare». Nell’area tra Casarano, Matino e Parabita il numero di contagi inizia a preoccupare. Negli ultimi giorni si conterebbero circa 300 positivi: il dato certo sarà diffuso nel bollettino di oggi pomeriggio. Nei giorni scorsi, proprio a causa dell’aumentare dei contagi, il primo cittadino di Parabita, Stefano Prete, ha firmato quattro ordinanze con le quali sono stati chiusi due plessi scolastici, sono stati vietati gli stazionamenti nelle piazze del paese, sono stati posti dei paletti allo svolgimento del mercato settimanale e sono stati vietati le visite e i cortei funebri. Sempre nei giorni scorsi, inoltre, è emersa la presenza di un focolaio nella casa di riposo «Euroitalia» di Casarano, con una trentina di persone contagiate tra pazienti e operatori.

Quasi 200 contagiati a Manduria e scoppia il focolaio alla Rsa Villa Argento. Quaranta anziani positivi al coronavirus, pericolo per gli altri ricoverati. La Voce di Manduria venerdì 18 dicembre 2020. Ancora in crescita il numero dei manduriani contagiati dal Covid. L’ultima rilevazione comunicata dalla Prefettura di Taranto al sindaco Gregorio Pecoraro, aggiornata al 15 dicembre, indica 192 cittadini con esito positivo al tampone. Brutte notizie anche dalla residenza sanitaria Villa Argento di Manduria dove è esploso un focolaio che ha contagiato sinora quaranta anziani pazienti e tre infermieri. Il personale sanitario della struttura che dall’inizio della pandemia si era blindata impedendo qualsiasi ingresso se non quello del personale e fornitori, sta seguendo direttamente l’evolversi della malattia virale trasferendo i casi più gravi nell’ospedale cittadino, il Giannuzzi, dove nei giorni scorsi tre anziani pazienti sono deceduti. Il focolaio è tenuto sotto stretta osservazione anche dal personale del Dipartimento di prevenzione della che ha avviato un piano per monitorare l’avanzato del virus attraverso un calendario di esami con il tampone oro faringeo. La residenza per anziani Villa Argento ospita circa 140 persone quasi tutti ultraottantenni, alcuni con patologie gravi. Per questo si teme che la diffusione del virus possa espandersi con conseguenze inimmaginabili. Il focolaio è partito circa un mese fa con il contagio di tre ospiti e nove dipendenti che nel frattempo si sono negativizzati. Il virus però ha continuato a circolare negli ambienti dello stabile situato sulla via per Lecce.

Covid: focolaio nell'rsa Villa Argento a Manduria. Annamaria Rosato su Telenorba venerdì 18 dicembre 2020. Un altro focolaio in una rsa della provincia di Taranto. Si tratta della residenza sanitaria Villa Argento di Manduria. Sarebbero una 40ina i pazienti contagiati e 3 infermieri. Alcune persone sarebbero state trasportate all’ospedale Giannuzzi. Il focolaio e’ sotto stretta osservazione anche del personale del dipartimento di prevenzione della Asl. La residenza per anziani Villa Argento ospita circa 140 persone quasi tutti ultraottantenni, alcuni con patologie gravi. Per questo si teme che la diffusione del virus possa espandersi con gravi conseguenze.

Casa di riposo di Bitonto assediata dal virus: maxi focolaio con 106 positivi. Gli operatori per tirare su il morale agli ospiti ballano Jerusalema. Numeri da paura: 86 positivi tra gli ospiti, 20 tra i dipendenti. Enrica D'Acciò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Gennaio 2021. La paura e la rabbia ma anche la dedizione al lavoro e la preghiera. Così si combatte nella Villa Giovanni XXIII, la residenza per anziani travolta dal Covid. Il mini-focolaio, accertato nei giorni scorsi grazie ad uno screening di routine con tamponi rapidi, è esploso giovedì in un maxi-focolaio: i tamponi molecolari, eseguiti due giorni fa dalla Asl, hanno fatto emergere 86 casi positivi fra gli anziani ospiti e 20 fra il personale socio- sanitario. Un solo anziano, 96enne, già provato da altre patologie, è stato ricoverato in ospedale. Gli altri anziani ospiti sono tutti asintomatici o con sintomi lievi e sono stati trasferiti nel reparto Covid allestito nella stessa struttura. Visto il galoppante numero dei casi, un’intera palazzina è stata dedicata ai malati Covid, isolati dai restanti ospiti, una 50ina in tutto. Misure di contenimento anche per il personale, tutto asintomatico. Solo alcuni di loro sono a casa, altri hanno preferito rimanere nella struttura, grazie anche alla foresteria allestita per l’occasione, così da evitare il contatto con i familiari, a casa, ma anche per garantire la massima disponibilità e la massima assistenza agli ospiti ammalati. Spiega a riguardo Nicola Castro, direttore generale di Villa Giovanni XXIII: «Il personale è tutto in servizio, abbiamo assunto 3 operatori socio-sanitari per sostituire chi è in malattia e aspettiamo, a breve, la disponibilità dalla Asl di altri operatori e altre unità lavorative per garantire la massima assistenza ai nostri anziani ospiti ed evitare così situazioni di carenza di personale. Stiamo seguendo, come sempre abbiamo fatto, la linea della massima precauzione, in constante contatto con tutti i medici di medicina generale, con il personale dell’Usca, l’unità speciale di continuità assistenziale. Agli anziani risultati positivi stiamo somministrando le terapie previste. Nessuno è abbandonato a se stesso». La paura e le preoccupazione delle famiglie, però, si fanno sentire: «Ci stanno bombardando di telefonate, per sapere qual è la situazione. Ai familiari possono solo dire di stare tranquilli, di continuare ad aver fiducia in noi, ad affidarsi alle cure che sempre abbiamo garantito ai loro cari». A riguardo, Castro si dice: «Moralmente sereno. In un anno abbiamo fatto di tutto e di più per tenere fuori il contagio». Visite vietate per mesi, e poi concesse solo a distanza e dietro un vetro, nonostante le ire dei familiari. Tamponi rapidi per tutto il personale ogni 15 giorni. Blocco dei ricoveri nel centro diurno e nella residenza sanitaria. «Abbiamo fatto anche molto più di quello che ci era richiesto, con un investimento economico non indifferente, con le massime precauzioni, sempre. Aspettavamo i vaccini, eravamo vicini alla meta, ma le cose sono andate diversamente». Cercare di ricostruire come il virus sia entrato nella Villa Giovanni XXIII «È un esercizio diabolico ma, di sicuro, i comportamenti sconsiderati di tanti bitontini, durante le vacanze di Natale, non hanno aiutato. Villa Giovanni XXIII non è un’isola e l’aumento dei contagi in città era un dato che guardavamo con allarme». Fra 10 giorni, l’Azienda sanitaria locale provvederà a sottoporre nuovamente a tampone personale e ospiti per capire come evolve il contagio. Fino ad allora, dice il direttore «possiamo solo affidarci alla fede e alle preghiere dei tanti, sacerdoti, familiari, comuni cittadini, che ci stanno inviando le loro benedizioni: una carezza di solidarietà e amore che non dimenticheremo». Intanto gli operatori della Rsa per tirare su il morale agli ospiti positivi al Covid 19 hanno deciso di improvvisarsi ballerini, ballando, bardati con le tute e le mascherine, sulle note di Jerusalema. Il video è stato postato su Facebook. "Noi non molliamo. In questi momenti difficili in area Covid, con la stanchezza che ci assale, proviamo a darci coraggio e a trasmettere un pizzico di serenità ai nostri ospiti", hanno pubblicato sui social network gli operatori sanitari in servizio nella Fondazione "Villa Giovanni XXIII" di Bitonto.

Varazze, anziani maltrattati: schiaffi e insulti, tre operatrici di una Rsa in arresto. Le immagini sconvolgenti. Libero Quotidiano il 25 gennaio 2021. Tre operatrici socio-sanitarie di una residenza per anziani di Varazze, in provincia di Savona, sono state arrestate dalla Guardia di Finanza con l'accusa di violenza e maltrattamenti nei confronti di più ospiti della struttura. Le donne, tutte italiane di 48, 58 e 64 anni, si trovano ai domiciliari. Dalle indagini sono emersi bruschi strattonamenti dei pazienti durante le operazioni di pulizia personale e cambio degli abiti, fino ad arrivare a veri e propri schiaffi, accompagnati da insulti, minacce e imprecazioni proferiti dalle tre operatrici, cui corrispondono grida di dolore, pianti e implorazioni delle vittime. 

Paolo Cittadini per lastampa.it il 25 gennaio 2021. Avrebbe somministrato medicinali a due pazienti Covid provocandone la morte. Omicidio volontario è l'accusa che la procura di Brescia (il fascicolo è in mano al pm Federica Ceschi) muove nei confronti del 47enne primario del pronto soccorso di Montichiari (Brescia). Il medico si trova ora ai domiciliari dopo essere stato raggiunto da una misura cautelare emessa dal gip convinto del fatto che il primario potesse reiterare il reato. Per gli inquirenti, le indagini sono state affidate ai Nas, avrebbe somministrato un farmaco ad effetto anestetico e bloccante neuromuscolare che ha portato alla morte dei due pazienti avvenuta nel corso della prima ondata della pandemia, alla fine dello scorso marzo. Nei mesi successivi Nas e procura si erano messi al lavoro per fare luce su alcuni decessi avvenuti nel pronto soccorso di Montichiari. Analizzando le cartelle cliniche dei pazienti venuti a mancare si era così scoperto che le loro condizioni si erano aggravate improvvisamente. Tre salme erano state riesumate per essere sottoposte ad autopsia ed esami tossicologici. Nei tessuti e negli organi di  uno era stata riscontrata presenza di un farmaco anestetico e miorilassante comunemente usato nelle procedure di intubazione e sedazione del malato che, se utilizzato al di fuori di specifici procedure e dosaggi, può determinare la morte del paziente. La somministrazione di quel farmaco non era però stata registrata nella cartella clinica del malato. Da qui la decisione indagare il medico anche per falso in atto pubblico.

Da brescia.corriere.it il 26 gennaio 2021. Farmaci letali a due pazienti in modo da liberare posti per altri malati che ne avevano bisogno. È questa l’accusa che emergerebbe dall’intercettazione di alcuni messaggi WhatsApp tra un infermiere del Pronto soccorso di Montichiari e un collega. «Io non ci sto ad uccidere pazienti solo perché vuole liberare dei letti». È quello che scrive un infermiere che lavora a Montichiari, l’ospedale dove il primario del Pronto soccorso, Carlo Mosca, è stato arrestato con l’accusa di omicidio volontario: secondo gli inquirenti avrebbe somministrato farmaci letali a pazienti affetti da Covid. «Io non ci sto, questo è pazzo» risponde il collega parlando della decisione del medico di far preparare i due farmaci che solitamente si utilizzano prima di intubare un paziente. «Anche a voi ha chiesto di somministrare i farmaci senza intubarli? Io non ci sto a uccidere questi solo perché vuole liberare i letti». Sono messaggi agli atti dell’ordinanza con cui il giudice di Brescia ha disposto l’ordinanza di custodia cautelare di Carlo Mosca. Il dottor Mosca è il primario facente funzioni del Pronto soccorso di Montichiari (Brescia) — appena sospeso dal servizio dalla sua Asst — arrestato e posto ai domiciliari dai Carabinieri del Nas: è sospettato di omicidio, l’accusa è che avrebbe intenzionalmente somministrato a pazienti affetti dal Covid-19 farmaci ad effetto anestetico e bloccante neuromuscolare, causando la morte di due di loro — un paziente di 61 anni e uno di 80 — durante la prima ondata pandemica iniziata a fine febbraio 2020. L’uomo — che lo scorso giugno, in una intervista al Corriere, parlava della sua esperienza con i pazienti Covid al Pronto soccorso di Montichiari — è ai domiciliari. I militari hanno dato esecuzione ad un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip di Brescia. Le indagini hanno consentito di analizzare le cartelle cliniche di numerosi pazienti deceduti in quel periodo per Covid-19, riscontrando in alcuni casi «un repentino, e non facilmente spiegabile, aggravamento delle condizioni di salute». Tre salme sono state esumate per essere sottoposte a indagini di natura autoptica e tossicologica. «Il quadro accusatorio ipotizzato dagli esiti del procedimento penale e le fonti di prova che documentano la condotta criminosa del medico, sostanzialmente consistita nel somministrare a pazienti «Covid» medicinali idonei a provocare una letale depressione respiratoria, hanno rafforzato l’esigenza, condivisa dal Gip di Brescia, di disporre la misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del sanitario al fine di scongiurare il pericolo di reiterazione dei reati e di inquinamento probatorio», concludono i carabinieri. La Procura di Brescia ha individuato due professionisti veneti come consulenti tecnici per approfondire l’indagine sulle due salme riesumate per l’inchiesta a carico del dottor Carlo Mosca. Si tratta del medico legale veneziano Antonello Cirnelli, consulente in molte inchieste delle procure del Nordest, e della dottoressa Donata Favretto, chimica, responsabile del laboratorio di medicina legale dell’Università di Padova. Le indagini hanno rilevato presenza di farmaci anestetici miorilassanti comunemente usati nelle procedure di intubazione e sedazione, si tratta di sostanze che se utilizzate al di fuori di specifici procedure e dosaggi, possono determinare la morte del paziente. Compito dei due professionisti veneti è stabilire il nesso di causa-effetto tra i farmaci e la causa del decesso di due pazienti. L’Asst Spedali Civili, che ha sospeso dal servizio il medico di Montichiari Carlo Mosca, «collabora con la Procura, che sta conducendo le indagini, nell’auspicio che rapidamente vengano chiariti i fatti». L’ex responsabile del Pronto soccorso di Montichiari sapeva delle indagini dato che aveva avuto la possibilità di nominare un proprio consulente in occasione delle riesumazioni dei cadaveri. E si difende dalle accuse dicendo: «Nego di aver somministrato quei farmaci» spiega attraverso i legali Elena Frigo e Michele Bontempi. Per lui non è ancora stato fissato l’interrogatorio di garanzia. «Speriamo possa parlare prima possibile e — aggiungono i difensori — chiarire la sua posizione». Per il giudice, che ha disposto i domiciliari, l’accusa è circostanziata: «Mosca non poteva non sapere, in forza della sua specializzazione e delle sue competenze, che né il Propofol né, a maggior ragione, la Succinilcolina erano contemplati dai protocolli di sedazione in materia di terapia del dolore». Il sindaco di Montichiari non esprime «alcun giudizio, anche perché — dice il primo cittadino Marco Togni — non sono medico». Come a sottolineare che la vicenda potrebbe essere più complessa di quanto appaia in prima battuta. «Conosco però il grande lavoro svolto da tutti i medici e dal personale infermieristico, Asa e Oss dell’ospedale di Montichiari che dallo scorso marzo, quando la pandemia ha colto impreparato il mondo intero, si sono prodigati con turni di lavoro massacranti per salvare vite umane e tra questi, per primi, gli operatori del Pronto soccorso» ha continuato il sindaco Marco Togni. «Certamente il reato ipotizzato è molto grave e comporta provvedimenti precauzionali» scrive l’Ordine dei Medici di Brescia. Ma «si tratta di un’indagine, non di una sentenza passata in giudicato». E quindi è «pur sempre un’ipotesi di reato». L’Ordine stigmatizza il fatto che si sia già dipinto il dottor Carlo Mosca come colpevole. «E se le accuse si dimostrassero infondate?» Se invece verranno confermate, «severissimi saranno i provvedimenti ordinistici definitivi» conclude l’Ordine.

Medico arrestato a Montichiari, parla la moglie di uno dei pazienti morti. Notizie.it il 27/01/2021. Parla la moglie di uno dei pazienti di Carlo Mosca, medico di Montichiari accusato di aver ucciso due persone ricoverate per liberare i posti letto. “Quando me lo hanno detto è come se il mio Angelo fosse morto un’altra volta”, sono queste le parole della moglie di Angelo Paletti, uno dei due pazienti del dottor Carlo Mosca, primario del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari accusato di aver somministrato volontariamente dei farmaci letali a due uomini ricoverati al fine di liberare posti letto all’interno del reparto. Secondo l’accusa il primario sarebbe colpevole di omicidio volontario e falso in atto pubblico, ma Mosca continua a negare i reati a lui imputati. Intervistata dal quotidiano La Stampa, la signora Emilia Paletti ha raccontato le ultime drammatiche ore di vita del marito, fino a quando non le è stato comunicato il decesso: “Angelo faceva fatica a respirare. Lo chiamavo e nemmeno mi rispondeva. Ero spaventata. Non sapevo che fosse Covid, Ho chiamato l’ambulanza. Lo hanno portato all’ospedale di Montichiari. Non l’ho più mai visto né sentito. Due ore dopo mi hanno telefonato dall’ospedale dicendo che era morto”. Tutto ciò accadeva a marzo, nel pieno della prima ondata della pandemia, che nel solo comune di Isorella – dove i due coniugi vivevano – ha causato 31 morti. Ad aprile del 2020 arriva però una denuncia nei confronti del primario da parte di un infermiere della struttura ed è nel maggio seguente che la Procura di Brescia autorizza la riesumazione dei corpi dei due pazienti del dottor Mosca per poter effettuare l’autopsia. Esaminando il corpo di Paletti, gli anatomopatologi hanno trovato tracce ingenti di Propofol, un farmaco usato nel caso in cui un paziente debba essere intubato. Nell’intervista, l’anziana donna è comprensibilmente ancora scossa per la perdita del marito e non risparmia i sentimenti di rabbia nei confronti del primario: “Glielo darei io il veleno a quel medico matto. Anzi, poteva prenderlo lui se stava così male, se non sopportava più quello che vedeva ogni giorno in ospedale. […] Non ammazzare altre persone”. La signora Emilia lamenta inoltre di non aver mai ricevuto un contatto dalle autorità sanitarie dell’ospedale dopo la morte del marito, nemmeno una volta avviate le indagini: “Dopo che mi hanno telefonato per dirmi che Angelo era morto, quelli dell’ospedale di Montichiari non si sono fatti più sentire. Né quando lo hanno tirati su dalla tomba né adesso che si è scoperta questa cosa, nemmeno una telefonata mi hanno fatto”.

C.Gu. per "il Messaggero" il 26 gennaio 2021. Chi era davvero il dottor Carlo Mosca? Dipende dal periodo. Un medico competente e una persona premurosa, si legge nella sezione Opinione dei pazienti dell' ospedale di Montichiari di qualche anno fa. C'è la degente che, ingessata per una frattura, esprime la sua gratitudine: «Un sentito ringraziamento al dott. Carlo Mosca per l' assistenza, la sua gentilezza umana e il suo tatto che mi hanno rincuorata». La vita professionale del dottore procedeva bene. Originario di Cremona, Mosca era approdato agli Spedali di Brescia prima come studente e poi come medico, lavorando da subito in pronto soccorso. Dopo un passaggio a Mantova, nel 2017 è entrato all' ospedale di Montichiari e assunto nel 2018. Ma è arrivato il Covid ed è cambiato tutto. Mosca e i colleghi si sono trovati ad affrontare un' ondata inimmaginabile. La struttura, scrive il gip nell' ordinanza, «era sotto l' assedio della pandemia, tutto scarseggiava, dalle maschere e i caschi per l' ossigeno, ai macchinari più sofisticati per mantenere in vita i pazienti». Il primario e la sua equipe diventano gli angeli della prima ondata, gestiscono quasi 600 pazienti Covid. E lui, in un' intervista al Corriere della sera, raccontava che ogni giorno era una battaglia «per cercare di salvare più vite possibili». Così, tra turni saltati e videochiamate alla figlia di sette anni che gli chiede «papà, quando torni a casa?», si giunge a marzo. Il dottore perde la testa, il primo a rivelare l' abisso è un infermiere che lo denuncia e fa partire l' inchiesta. Riferisce di una telefonata di Mosca che gli ordina di somministrare a un paziente in serie difficoltà respiratorie due fiale di succinilcolina, ma lui si rifiuta e altrettanto fa il medico di turno la notte tra il 18 e il 19 marzo: senza intubazione, il malato sarebbe morto soffocato. A questi episodi ne seguono altri, fino ai quattro letali su cui indaga la procura che ha disposto la riesumazione delle salme: uno il 20 marzo, un altro il giorno successivo, due decessi il 22 marzo. Per il giudice, «Mosca non poteva non sapere, in forza della sua specializzazione e delle sue competenze, che né il propofol né, a maggior ragione, la succinilcolina erano contemplati dai protocolli di sedazione in materia di terapia del dolore». A questo punto la trasformazione del medico è completa: il compassionevole dottor Mosca entra in aperto conflitto con gli infermieri che si rifiutano di somministrare i farmaci, litigano con lui, «sono in disaccordo con i suoi disinvolti metodi» e lui fa da sé. La mattina del 23 marzo, giorno successivo alla morte di Paletti, un infermiere scatta la foto di due fiale vuote di porpofol e succinilcolina nel cestino dei rifiuti speciali e quella notte nessun paziente è stato intubato: «Deve dedursene che si trattasse proprio dei resti dei preparati iniettati a Paletti, deceduto poche ore prima», rileva il giudice. La situazione in reparto è fuori controllo. Riferisce un altro operatore sanitario: «Ho avuto una discussione con il dottor Mosca perché mi ha fatto capire che voleva accompagnare un malato al decesso». Ormai in ospedale è Mosca contro tutti. Quando scattano le convocazioni degli infermieri da parte dei carabinieri il primario si attiva per scoprire dove puntano le indagini, «avvicina membri del personale per concordare una versione di comodo della vicenda, istigandoli a dichiarare il falso». Una delle motivazioni delle esigenze cautelari è l' inquinamento probatorio, «vi è il concreto pericolo che induca gli infermieri e gli operatori sanitari a lui subordinati a ritrattare o a nascondere ulteriori particolari rilevanti ai fini dell' indagine». E poi c' è concreto il rischio di reiterazione del reato. I primi mesi di pandemia hanno spezzato i nervi di Mosca. «A casa avevo una bambina di sette anni che il distacco l' ha sofferto. Nelle telefonate ha raccontato stanchezza e ansia emergevano, all' inizio c' erano anche degli sfoghi». Il pensiero era sempre «all' ospedale, ai pazienti, al da farsi», tanto che al ritorno a casa a emergenza passata aveva spiegato che gli ronzava ancora nella testa il fischio dell' ossigeno delle tubazioni dei pazienti in terapia intensiva: «Lo sento ancora anche adesso che è tutto spento». Con la seconda ondata in atto, l' equilibrio precario di Mosca era sul punto di spezzarsi di nuovo. Dalle ultime intercettazioni emerge infatti il ritratto del primario «come quello di un soggetto in preda a un forte stress, originato anche dal dover fronteggiare nuovamente il crescente afflusso di casi di Covid».

Avrebbe provocato la morte di due pazienti covid-positivi. Chi è il medico Carlo Mosca, da eroe della prima ondata all’accusa di omicidio volontario. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2021. Farmaci dall’effetto anestetico e miobloccante dati intenzionalmente a pazienti Covid tanto da procurare la morte di due di loro, di 61 e 80 anni. È l’accusa che ha portato all’arresto di Carlo Mosca, primario facente funzioni del pronto soccorso all’ospedale di Montichiari, in provincia di Brescia. Avrebbe agito con il duplice motivo di liberare posti letto e allentare la pressione del reparto, secondo le testimonianze raccolte tra il personale sanitario. Il medico, ora ai domiciliari, deve rispondere delle accuse di omicidio volontario e falso in atto pubblico. I fatti risalgono allo scorso marzo, quando la prima ondata pandemica aveva intasato le strutture ospedaliere, alle prese con un nemico nuovo e sconosciuto. Le indagini, partite da alcune morti sospette dopo inspiegabili aggravamenti delle condizioni di salute dei pazienti, hanno portato oggi al fermo del dottore. Si trova agli arresti domiciliari, perché il gip ha rilevato il rischio di inquinamento delle prove e quello di reiterazione del reato. Mosca, intanto, avrebbe preso atto delle indagini di cui era già a conoscenza. In particolare, sono stati gli esami autoptici e tossicologici a far emergere, all’interno di tessuti e organi delle salme riesumate, tracce di un farmaco anestetico e miorilassante comunemente usato nelle procedure di intubazione e sedazione ma che, se utilizzato fuori da specifici dosaggi e procedure, può portare alla morte. Di questi farmaci però non ci sarebbero tracce nelle cartelle cliniche delle vittime, come invece avviene per i pazienti poi effettivamente intubati, cosa che avrebbe portato a ipotizzare la volontarietà del gesto. Originario di Cremona, Mosca era arrivato agli Spedali di Brescia – struttura a cui è collegato l’ospedale di Montichiari – prima come studente e poi come medico, lavorando da subito in pronto soccorso. Dopo un passaggio a Mantova, nel 2017 era rientrato nell’ospedale del bresciano venendo assunto nel 2018. Qui era diventato uno degli ‘eroi’ della prima ondata, gestendo con il personale locale, quasi 600 pazienti Covid. “Ho appreso la notizia ma al momento non posso esprimere alcun giudizio anche perché non sono medico. Conosco però il grande lavoro svolto da tutti i medici e dal personale infermieristico, Asa e Oss dell’ospedale di Montichiari che dallo scorso marzo, quando la pandemia ha colto impreparato il mondo intero, si sono prodigati con turni di lavoro massacranti per salvare vite umane e, tra questi, per primi, gli operatori del pronto soccorso”, ha ricordato il sindaco di Montichiari, Marco Togni. In un’intervista rilasciata lo scorso giugno al Corriere della Sera, Mosca aveva ricordato il periodo di massima criticità vissuto durante la prima ondata del coronavirus: “A casa avevo una bambina di sette anni che il distacco l’ha sofferto. Nelle telefonate stanchezza e ansia emergevano, all’inizio c’erano anche degli sfoghi”. Un mese difficile quello dello scorso marzo quando l’obiettivo era quello di lavorare “per cercare di salvare più vite possibili”. A emergenza passata, durante il periodo estivo, aveva ammesso come sentisse ancora il fischio dell’ossigeno delle tubazioni dei pazienti in terapia intensiva: “Lo sento ancora – aveva detto -, anche adesso che è tutto spento”.

Da huffingtonpost.it il 29 dicembre 2020. Il suo volto è diventato un simbolo della campagna vaccinale contro il covid e i no-vax l’hanno adesso presa di mira sui social. “Ora vediamo quando muori” si legge in uno dei commenti rivolti a Claudia Alivernini, l’infermiera 29enne dello Spallanzani di Roma, prima vaccinata in Italia contro il coronavirus. Prima dell’iniezione, Alivernini aveva bloccato i suoi profili social per tutelarsi, ma gli attacchi sono comunque arrivati sui profili istituzionali che diffondevano la notizia della vaccinazione. Su Instagram sono apparsi due profili fake a suo nome.

Si legge sul Messaggero: Chi la conosce bene sa quanto sia rimasta scioccata, chiedendone subito la rimozione. L’infermiera che ha accettato di sottoporsi al vaccino «con profondo orgoglio e grande senso di responsabilità», ribadendo di «credere nella scienza», sta valutando in queste ore di denunciare l’accaduto alla polizia postale, probabilmente lo farà già questa mattina. Il reato paventato è quello di furto di identità, senza contare le eventuali minacce.

Clarida Salvatori per il Corriere della Sera il 30 dicembre 2020. «Davvero mi insultano sui social perché ho fatto il vaccino?»: Claudia Alivernini, infermiera 29enne del reparto di Malattie infettive dello Spallanzani, incredula chiede agli amici. Lei che alla vigilia dell' ufficializzazione del suo nome come prima vaccinata d' Italia, si era cancellata da tutti i social network per evitare pressioni e contatti indesiderati. Eppure dopo il V-day di domenica, il livore dei messaggi dei no vax si è riversato contro di lei e contro l' Istituto nazionale per le malattie infettive di Roma. Prendendo letteralmente d' assalto i profili social istituzionali. Lei, con la discrezione che la contraddistingue, si è trincerata nel silenzio. A parlare è il direttore sanitario, Francesco Vaia, dal suo profilo Facebook: «Ho incontrato Claudia per incoraggiarla dopo le fake news e gli attacchi. Non ce n' è stato bisogno. Claudia sta bene, come tutti gli altri vaccinati, è di ottimo umore ed è sempre più convinta della sua scelta».

I commenti più sgradevoli sono quelli che le augurano reazioni avverse e la morte.

«Perché si tiene il braccio in quel modo? Fra 3, 2, 1...», «Questo non è il giorno dell' inizio, è il giorno della bella inc...», «Eroe di cosa? Ora si aspetta gli effetti indesiderati». Qualcuno si sconvolge persino per il messaggio che Claudia ha voluto mandare al Paese, ovvero che fare il vaccino sia un atto d' amore: «Vada ad ingozzarsi di panettone perché a lei che frega se c' è gente che muore. Egoista», o «Cosa non si fa per la fama». Ma a essere ricoperto di insulti è lo Spallanzani tutto. E i contrari all' antidoto al coronavirus attaccano con termini non proprio eleganti. «Bisognava per forza farne un film?», «Siete ridicoli, dovete fare spettacolo per invogliare, spero che la gente non si vaccini», «Povera ragazza», «Perché non l' hanno fatto per primi i politici visto che si parano sempre il c...», e ancora «Le cavie umane» o «Come stanno i volontari che avete pagato 700 euro per partecipare al test sul vaccino?». C' è persino chi si lancia in teorie sull' obbligatorietà dell' inoculazione: «Ci dicono che non è obbligatorio, ma se poi non lo fai non ti fanno andare da nessuna parte. Ditemi se non è dittatura». Le reazioni di questo tono sono comunque una minoranza. La maggior parte dei commenti è infatti in difesa di Claudia e del centro di eccellenza che combatte il Covid. Uno su tutti: «Siete un orgoglio. Avete brillato in mezzo a tutto questo buio». Allo Spallanzani e ai suoi operatori è giunta la solidarietà del segretario del Pd, Nicola Zingaretti, come dell' assessore regionale alla Sanità, Alessio D' Amato: «Claudia è la prima vaccinata in Italia contro il Covid. È stata travolta da messaggi e attacchi no vax. Il suo sorriso ci ha raccontato una storia di forza e speranza. Una professionista che ha combattuto il Covid, come tante e tanti giovani che si sono trovati in prima linea. Chi la sta minacciando dovrebbe vergognarsi. Siamo con te Claudia e con tutto il personale sanitario che ha lottato in questi mesi! Un grande abbraccio».

Articolo 32 della Costituzione.

La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.

Mirabelli: “Vaccino può essere reso obbligatorio con decreto legge”. Notizie.it il 30/12/2020. Il vaccino anti coronavirus può essere reso obbligatorio con un decreto legge: lo ha chiarito il giurista Cesare Mirabelli. Il giurista ed ex presidente della Corte Costituzionale Cesare Mirabelli ha spiegato che per rendere obbligatorio il vaccino anti Covid è possibile adottare una decreto legge che il Parlamento dovrà convertire in legge entro sessanta giorni. Intervistato dal Messaggero, l’esperto ha ribadito come la Costituzione italiana ammette i trattamenti sanitari obbligatori che devono però essere adeguatamente giustificati e disposti con un’apposita legge. Per procedere con tempi ristretti, ha continuato, il governo ha a disposizione lo strumento del decreto legge che poi dovrà essere convertito in legge dalla Camera e dal Senato. “Abbiamo altre esperienze di obbligo di vaccinazione che hanno portato alla sconfitta di malattie gravi per l’individuo e per la comunità, basti pensare al vaiolo e alla poliomielite“, ha aggiunto. Se si decidesse di agire in questo modo, la legge dovrà essere precisa, perimetrata al caso Covid-19 e non generica. Se poi nell’immediato dovesse emergere un’adesione spontanea e si arrivasse all’immunità di gregge, cadrebbe l’obbligatorietà. Inoltre qualora il vaccino dovesse produrre ad un soggetto effetti collaterali dannosi, “questo può essere inteso come un sacrificio che viene imposto, un rischio per il bene della collettività“. Occorre dunque che chi subisce un danno sia indennizzato: nell’interesse della comunità deve avere un ristoro. Mirabelli è anche intervenuto sulla possibilità da parte del datore di lavoro di licenziare un dipendente che rifiuti di sottoporsi al vaccino, spiegando che se l’obbligatorietà non è stabilita dalla legge non può essere imposta da poteri privati. “Potrà nella propria organizzazione, per tutelare altri dipendenti, collocare diversamente il lavoratore“, ha chiarito.

Da huffingtonpost.it il 29 dicembre 2020. Per un dipendente che rifiuta di vaccinarsi contro il Covid si può arrivare al licenziamento: a sostenerlo è il professor Pietro Ichino, giurista esperto di diritto del lavoro, che in un’intervista al Corriere della Sera, ha sottolineato che non solo si può rendere obbligatorio il vaccino, “ma in molte situazione è previsto”. “L’articolo 2087 del codice civile obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure suggerite da scienza ed esperienza, necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica delle persone che lavorano in azienda, il loro benessere”, ha ricordato l’ex senatore Pd e deputato di Scelta civica. Quindi il datore di lavoro non solo può imporlo, aggiunge Ichino, “ma deve farlo”. “Ovviamente se è ragionevole”, ha precisato, “in questo momento non lo sarebbe, perché non è ancora possibile vaccinarsi. Ma, via via che la vaccinazione sarà ottenibile per determinate categorie - per esempio i medici e gli infermieri - diventerà ragionevole imporre questa misura, finché l’epidemia di Covid sarà in corso”, chiarisce Ichino. A suo dire, “chiunque potrà rifiutare la vaccinazione; ma se questo metterà a rischio la salute di altre persone, il rifiuto costituirà un impedimento oggettivo alla prosecuzione del rapporto di lavoro”. Quindi, o ti vaccini o ti licenzio? “Sì. Perché la protezione del tuo interesse alla prosecuzione del rapporto cede di fronte alla protezione della salute altrui”.

Inchiesta dell’Ordine su medici negazionisti e No Vax. La pandemia fa strage tra gli operatori sanitari: quasi 90mila contagi e 273 medici morti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Dicembre 2020. Dall’inizio della pandemia su 2.019.660 casi di contagio da Coronavirus avvenuti in Italia, 89.879 hanno riguardato gli operatori sanitari. Sempre in prima linea per combattere contro il nemico invisibile, sono anche quelli più esposti e a rischio e che non possono esimersi dal lavorare. Per questo motivo in tutta Europa le vaccinazioni sono iniziate proprio da questa categoria della popolazione. Basti pensare che negli ultimi 30 giorni i contagi sono stati oltre 16mila. È quanto rilevano gli ultimi dati della Sorveglianza integrata Covd-19 a cura dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), aggiornati al 27 dicembre. Rispetto agli ultimi 30 giorni, invece, 413.381 sono stati i casi totali di positività diagnosticati nel nostro Paese, di cui 16.923 tra gli operatori sanitari. Secondo altri dati, quelli raccolti dalla Fnomceo e aggiornati al 28 dicembre, sono 273 i medici morti in Italia durante la pandemia. Gli ultimi in ordine di tempo sono Raffaele Antonio Brancadoro, medico ospedaliero in pensione, Leonardo Nargi, ginecologo, e Stefano Simpatico, neurochirurgo. “I nomi dei nostri amici, dei nostri colleghi, messi qui, nero su bianco, fanno un rumore assordante”, è il commento del presidente della Fnomceo, Filippo Anelli. “Così come fa rumore il numero degli operatori sanitari contagiati”. Intanto l’Ordine dei medici di Roma ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di 13 loro colleghi antivaccinisti, scettici o negazionisti del Covid. Si tratta di professionisti che hanno sostenuto sui social network – o addirittura in tv – posizioni volte a sminuire o negare la gravità del Coronavirus come anche l’efficacia del vaccino in tutte le sue forme. Come spiega all’Ansa il presidente Antonio Magi, per 10 di loro il procedimento si è già concluso, mentre per altri tre è ancora in corso. “Si tratta di 10 colleghi che hanno espresso posizioni no vax, e tre invece negazionisti sul Covid”, ha precisato Magi. “La procedura disciplinare è partita dopo che abbiamo ricevuto da cittadini e colleghi degli esposti, corredati da documentazione”. L’iter del procedimento prevede che i medici in questione giustifichino e presentino delle spiegazioni scientifiche a supporto di quanto affermato, che vengono poi valutate da un’apposita commissione dell’Ordine. La commissione, a quel punto, dovrà decidere se procedere con una sanzione o archiviare il caso. “Per alcuni di loro c’è stata l’archiviazione – ha detto Magi – perché si sono pentiti». Per altri, invece, è già scattata la sanzione, «che è andata dalla censura all’ammonimento fino alla sospensione per 1-2 mesi”. Per i tre negazionisti del Covid, invece, il procedimento è ancora aperto. “Uno ha presentato una spiegazione, ma con il Covid i tempi disciplinari si allungano. Per questo tipo di procedimenti serve infatti la convocazione in presenza. Comunque la prima parte dell’iter è stata completata, e credo che per gennaio il nuovo consiglio, che dovrà insediarsi, riuscirà a terminare la procedura”. Ma l’obbligo di vaccino per medici potrebbe essere possibile. Il principio di base dell’ordinamento giuridico “è che ognuno è libero di fare ciò che vuole, a patto di non arrecare danno agli altri. I medici che non vogliono essere vaccinati contro il Covid, possono rimanere liberi di non vaccinarsi ma non possono esporre gli altri a rischio, lavorando a contatto con persone deboli”. Da qui può scattare l’obbligatorietà. In caso contrario “il loro datore di lavoro può non essere obbligato a farli lavorare”. A spiegarlo all’ANSA è Amedeo Santosuosso professore di diritto, scienza e nuove tecnologie presso l’Università degli studi di Pavia. Un principio questo che vale, precisa il giurista, “per tutti coloro che lavorano a contatto con il pubblico, come ad esempio gli insegnanti nella scuola”. La coazione, cioè l’obbligare fisicamente qualcuno dunque è da escludere, ma l’obbligatorietà “può scattare come conseguenza indiretta del non volersi fare vaccinare per una pura questione ideologica. Diverso sarebbe il caso – continua Santosuosso – di una persona che non può sottoporsi a vaccinazione per motivi sanitari. In quel caso il datore di lavoro è obbligato a trovargli un’altra collocazione”.

Ippolito, medici devono vaccinarsi o sospensione da servizio. (ANSA il 29 dicembre 2020) "Tutti gli operatori sanitari, a partire dai medici, devono vaccinarsi contro il Covid e se non vogliono essere vaccinati devono essere sospesi dal servizio perchè, appunto, non possono essere idonei al servizio che svolgono". E' la posizione espressa all'ANSA da Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell'Istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma. Ci sono cioè, sottolinea Ippolito, "delle categorie professionali che devono essere vaccinate assolutamente; questo per proteggere se stessi ma anche gli altri, per i contatti estesi che le stesse categorie devono avere con la popolazione. Chi non lo accetta non può esercitare quelle determinate professioni". Per questo, spiega, "tutti gli operatori sanitari non possono esimersi dall'essere vaccinati, poichè rappresentano fonti di rischio per gli altri". Dinanzi ad un rifiuto della vaccinazione anti-Covid, conclude il direttore scientifico dello Spallanzani, "andrebbero sospesi dal servizio, poichè non idonei al suo svolgimento". (ANSA).

Covid: medico negazionista, Asl gli taglia stipendio. (ANSA il 29 dicembre 2020) Una sanzione disciplinare per aver diffuso sul web teorie negazioniste sulla pandemia. E' quanto ha deciso l'Asl To4 nei confronti di Giuseppe Delicati, medico di famiglia con studio a Borgaro, nel Torinese. In un video il medico sollevava forti dubbi sull'esistenza della pandemia e sull'efficacia del vaccino antinfluenzale, citando fonti non meglio specificate del Pentagono. Dopo l'inchiesta della procura di Ivrea per procurato allarme e la segnalazione all'ordine dei medici, l'Asl ha disposto la sanzione disciplinare che consiste nella riduzione dello stipendio "nella misura del 20% per 5 mesi cinque" a partire dal 31 dicembre.

Valentina Errante per “Il Messaggero” l'1 febbraio 2021. Una legge che consenta ai datori di lavoro di imporre ai dipendenti un trattamento sanitario non c'è. E attualmente il vaccino anti Covid-19 non è obbligatorio. Ma, in attesa che la questione venga normata e definita con chiarezza, il rischio di licenziamento incombe ugualmente sui dipendenti che si rifiutino di sottoporsi alla terapia per l'immunizzazione. A meno che non possano svolgere le proprie mansioni in smart working o essere destinati ad altro incarico, anche inferiore, purché non comporti il contatto con altre persone. L'interruzione del rapporto non sarebbe comunque immediata. Ruota tutto intorno all'articolo 32 del Testo unico sulla sicurezza sul lavoro, che rende il datore responsabile della salute di tutti i dipendenti. E la questione non sembra essere troppo controversa, anche se per le assunzioni e le prestazioni non è previsto, come un tempo, il certificato di sana e robusta costituzione.

L’ESPERTO. A chiarire i termini della questione, è Roberto Pessi, prorettore alla Didattica della Luiss e professore ordinario di Diritto del lavoro. «Il datore di lavoro - spiega - si trova davanti a un problema di responsabilità rispetto agli altri lavoratori. Se un dipendente si rifiutasse di fare il vaccino non potrebbe permanere nei locali con altri, la questione riguarda la responsabilità civile. Ma è chiaro che potrebbe anche sconfinare nel penale. Quindi si potrebbe prevedere che il lavoratore non vaccinato utilizzi lo smart working, sempre che il tipo di mansioni che svolge lo consentano. Oppure dovrebbe essere allontanato, ma sarebbe una sospensione retribuita».

SOSPENSIONE RETRIBUITA. La legge non prevede una sospensione della retribuzione, spiega ancora Pessi: «Sarebbe necessario l'intervento del legislatore per stabilire come procedere in questi casi, prevedendo, ad esempio, un'eventuale imputazione del periodo di sospensione alla cassa integrazione. Oppure considerare la sospensione come una sorta di malattia. A quel punto, però - aggiunge il giuslavorista - ci sarebbe un limite di tempo, dopo il quale il licenziamento è legittimo. Ossia sarebbe come una sopravvenuta invalidità, superiore all'80 per cento, che non consente al dipendente di svolgere le mansioni per le quali è stato assunto. E, dunque, dopo una fase di sospensione, il licenziamento per giusta causa sarebbe previsto dalla legge». Ma per Pessi una modifica normativa è indispensabile, «Anzi, auspico - dice - che venga inserita nel programma del nuovo governo».

SICUREZZA SUL LAVORO. Gli articoli del codice civile che possono mettere in difficoltà i no-vax non sono pochi, c'è anche l'articolo 2087 del codice civile, che obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza fisica e psichica dei suoi dipendenti e il loro benessere, o, come ha spiegato ad Agenzia Nova Lavinia Morrico, dello Studio legale lavoro MMBA, il Testo Unico Sicurezza in materia di virus, vaccini e sorveglianza sanitaria, all' articolo 279, prevede che, su conforme parere del medico competente, il datore di lavoro sia obbligato a mettere a disposizione dei lavoratori, che non siano già immuni dall'agente biologico, vaccini efficaci da somministrare a cura di medico competente. Al tempo stesso, nel Testo Unico Sicurezza (articolo 20) sono previsti obblighi a carico del lavoratore che deve collaborare con il datore di lavoro nell'esecuzione della misura, prendendosi cura della salute ma anche di quella di tutti gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro (colleghi o terzi). Quindi per i no-vax le prospettive sono tutt'altro che rosee.

Da corriere.it il 18 febbraio 2021. Mano dura del Vaticano contro i dipendenti che scelgono di non vaccinarsi contro il Covid. La vaccinazione è volontaria ma un decreto del Presidente della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano, cardinale Giuseppe Bertello, prevede per i dipendenti che non fanno il vaccino (che il Vaticano ha messo a disposizione) fino al demansionamento per chi non può farlo per ragioni di salute, con il mantenimento dello stipendio. Per chi si rifiuta «senza comprovate ragioni di salute» ci sono «conseguenze di diverso grado che possono giungere fino alla interruzione del rapporto di lavoro». Il decreto è su Vaticanstate.

M.D. per "Libero quotidiano" il 18 febbraio 2021. Possono esultare i no-vax e, nello stesso tempo, coloro che temono di non riuscire a ricevere in tempo la propria dose di siero anti Covid-19 hanno una speranza in più che l' attesa si abbrevi. In base a una sentenza del tribunale di Messina, medici e infermieri non sono più tenuti a farsi iniettare nulla contro la loro volontà pena la perdita del posto di lavoro. I giudici siciliani hanno stabilito che, non essendo stato introdotto per legge un obbligo vaccinale per il personale sanitario contro il Covid-19, non sussiste nemmeno un obbligo di vaccinazione per il dipendente, anche se impiegato presso strutture sanitarie. Di conseguenza, la mancata vaccinazione non determina l' inidoneità del lavoratore alla mansione.

SOSPESA DALL' AZIENDA. Il caso è solo indirettamente collegato all' antidoto contro il coronavirus, ma riguardava un' infermiera, sospesa dall' azienda ospedaliera per la quale lavorava, in seguito all' applicazione alla lettera del decreto n. 743 del 13 agosto 2020 dell' assessorato regionale della Sicilia che, nel prevedere la somministrazione del vaccino antinfluenzale e antipneumococcico, ovvero, per i soggetti già sottoposti a tale ultimo vaccino, la sola vaccinazione anti Tpa e/o antizoster, recitava testualmente «per la campagna di vaccinazione antinfluenzale 2020/2021, in concomitanza con la pandemia da Covid-19, viene introdotto l' obbligo della vaccinazione antinfluenzale per i medici e personale sanitario, sociosanitario di assistenza, operatori di servizio di strutture di assistenza, anche se volontario. La mancata vaccinazione, non giustificabile da ragioni di tipo medico, comporta l' inidoneità temporanea, per tutto il periodo della campagna, allo svolgimento della mansione lavorativa». Secondo la lavoratrice le norme sulla sicurezza sul lavoro non prevedono l' obbligatorietà della vaccinazione in capo al lavoratore, ma impongono al datore di lavoro la messa a disposizione del vaccino. Secondo l' Assessorato Regionale della Salute, invece, nell' attuale quadro emergenziale, la disposizione regionale sulla vaccinazione obbligatoria degli operatori sanitari rientra nella competenza organizzativa delle Regioni, contribuendo ad alleggerire la pressione sulle strutture sanitarie del S.S.R., a ridurre l' assenteismo degli operatori e ad agevolare la diagnosi differenziale.

COMPETENZA STATALE. Ma con l' ordinanza del 12 dicembre 2020, resa nota solo ieri, il Tribunale di Messina ha cancellato il decreto motivando che l' introduzione dell' obbligo del vaccino non appare «rientrante nella competenza regionale». Solo una legge dello Stato a questo punto potrebbe regolare la questione, vincolando le Regioni a rispettare ogni previsione contenuta nella normativa statale. E forse allora si rispetterebbero i principi sanciti dalla Carta Costituzionale, nonché l' orientamento delineato di recente dalla Corte Costituzionale che ha chiarito che «l' introduzione dell' obbligatorietà per alcune vaccinazioni chiama in causa prevalentemente i principi fondamentali in materia di "tutela della salute", pure attribuiti alla potestà legislativa dello Stato» e aggiunge che deve essere riservato allo Stato «il compito di qualificare come obbligatorio un determinato trattamento sanitario, sulla base dei dati e delle conoscenze medico-scientifiche disponibili».

Da leggo.it il 23 marzo 2021. Ancora scontro sul vaccino ai sanitari. Se non c'è stata vaccinazione non ci può essere lo stipendio: lo ha deciso il giudice di Belluno Anna Travia respingendo le richieste di due infermieri e otto operatori sociosanitari che avevano rifiutato di sottoporsi alla somministrazione della dose lo scorso febbraio e che per questo erano stati sospesi dal lavoro. I dieci sanitari, come riporta il “Corriere del Veneto”, dipendenti di due case di riposo del Bellunese, all'indomani del rifiuto erano stati messi in ferie forzate dalla direzione della rsa e sottoposti alla visita del medico del lavoro. Il medico aveva dichiarato i sanitari «inidonei al servizio» permettendo così che venissero allontanati dalle loro attività senza stipendio. Gli operatori no vax avevano fatto ricorso in Tribunale sostenendo che la Costituzione dà libertà di scelta vaccinale. Il giudice, giudicando «insussistenti» le ragioni dei ricorrenti, ha sancito che «è ampiamente nota l'efficacia del vaccino nell'impedire l'evoluzione negativa della patologia causata dal virus come si evince dal drastico calo dei decessi fra le categorie che hanno potuto usufruire delle dosi, quali il personale sanitario, gli ospiti delle rsa e i cittadini di Israele dove il vaccino è stato somministrato a milioni di individui».

Andrea Pasqualetto per il "Corriere della Sera" il 24 marzo 2021. Avevano detto no al vaccino ed erano stati messi in ferie forzate per due settimane. Hanno fatto ricorso, paventando l'ipotesi della sospensione senza stipendio, ma il giudice del lavoro ha dato loro torto: l'imposizione delle ferie è corretta. Succede tutto nel Bellunese, dove dieci operatori sociosanitari di due case di riposo, che avevano rifiutato Pfizer, sono stati obbligati a rimanere a casa per quattordici giorni con la possibilità di essere sospesi e non pagati nel caso in cui continuino a sottrarsi al vaccino. «La loro permanenza nelle Case di riposo comporterebbe la violazione dell'obbligo che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti», scrive il giudice Anna Travia. Quanto al timore di rimanere senza stipendio, il magistrato ha liquidato la cosa come «insussistente» perché non c'è «alcun elemento da cui poter desumere l'intenzione del datore di lavoro di procedere in tal senso o al licenziamento». In realtà, il rischio c'è, come dice lo stesso amministratore della Servizi sociali assistenziali (Sersa), Paolo Santesso, una delle due strutture in questione: «Vediamo cosa succede il 25 marzo, prossimo appuntamento del calendario vaccinale. Se i nostri operatori (sono 8 su 80) dovessero persistere nel rifiuto, considerato che il medico del lavoro li ha giudicati inidonei al servizio di assistenza ai nostri ospiti, verificheremo se c'è la possibilità di impiegarli in altre mansioni e, nel caso non ci fosse, dovremo procedere alla sospensione». La vicenda che ha portato in Tribunale la Sersa e la Sedico Servizi solleva dunque un problema complesso. Da una parte il diritto dei lavoratori di rifiutare il vaccino, dall'altra il dovere del titolare dell'impresa di garantire la sicurezza del luogo di lavoro, dei dipendenti e, nel caso delle Rsa, anche degli ospiti, considerate persone fragili. Da una parte cioè l'articolo 32 della Costituzione, invocato dagli operatori No Vax, secondo cui «nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario», dall'altra l'articolo 2.087 del Codice civile, preteso dall'azienda, che attribuisce all'imprenditore l'obbligo «di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità dei lavoratori». Il professor Valerio Onida, presidente emerito della Corte Costituzionale, pone un punto fermo: «Per essere obbligatoria, la vaccinazione richiede una legge, non può essere imposta dal datore di lavoro. È dunque escluso innanzitutto il licenziamento». E la sospensione dal lavoro non retribuita? «Non si può sanzionare il lavoratore che non ha commesso alcun illecito. Si può solo organizzare il lavoro in modo da evitare il maggiore rischio di contagiare altri che, a pandemia ancora in corso, può verificarsi, per i non vaccinati». Dal punto di vista del sindacato «il rischio è quello di mettere in crisi le strutture sanitarie che già hanno problemi di organico - spiega Andrea Bottega, segretario nazionale del Nursind che tutela le professioni infermieristiche -. Il provvedimento del giudice di Belluno penalizza i No Vax che saranno spinti a vaccinarsi, altrimenti non mangiano». Va detto che secondo Anaao-Assomed e Fnopi, cioè il maggior sindacato dei medici ospedalieri e la Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche, ad oggi, in Italia, appena un centinaio di infermieri su un totale di 254 mila, e l'1-2% dei medici ospedalieri (tra 1.140 e 2.280 su un totale di 114.000 attivi) ha rifiutato la vaccinazione anti-Covid.

No-vax sospesi dal lavoro? Una bufala. Gioia Locati il 24 marzo 2021 su Il Giornale. Una notizia diffusa ieri si è rivelata imprecisa. Anzi, è meglio dire: errata. La trovate qui. Si racconta di una decina di dipendenti di due case di riposo del bellunese che si sarebbero rifiutati di vaccinarsi in febbraio e che per questo sono stati sospesi dal lavoro (messi in ferie forzate). Il medico delle due strutture avrebbe stabilito l’ inidoneità al servizio degli operatori sanitari,  “permettendo ai vertici delle case di riposo di allontanarli dal luogo di lavoro, senza stipendio, per impossibilità di svolgere la mansione lavorativa prevista”, così si legge sul Corriere. La cronaca prosegue raccontando che gli operatori sanitari si sono rivolti al giudice “per essere reintegrati nel posto di lavoro rivendicando la libertà di scelta vaccinale prevista dall’ordinamento italiano e dalla Costituzione”. Il giornalista, poi, ci mette del suo lasciando intendere che le sue parole chiariscano maggiormente il verdetto del giudice, eccole: “C’è poco da gridare ai quattro venti che l’autorizzazione ai vaccini è temporanea, che c’è stata poca sperimentazione e che ci sono rischi, il tribunale ha ritenuto insussistenti le ragioni degli operatori no vax”. Quindi l’articolo ricorda che i dipendenti non sono stati licenziati ma solo “sospesi”, “significa che quando cesserà il pericolo per la salute, cioè se si vaccineranno o se la Covid sparirà dalla faccia della terra, potranno essere reintegrati con effetto immediato”. C’è anche una ciliegina – pindarica, perché non c’entra con il resto -: addirittura, secondo gli avvocati delle RSA, “la condotta degli operatori sanitari si può paragonare a mobbing nei confronti degli ospiti delle RSA”. Avete capito bene: gli ospiti anziani sono liberi di vaccinarsi o meno e, secondo questi avvocati, sarebbero mobbizzati dagli operatori che esercitano lo stesso diritto. L’estensore conclude che la sentenza “è destinata a fare da pilota per i prossimi ricorsi” e suggerisce come dovranno comportarsi in futuro i direttori ospedalieri “in mancanza della possibilità di sospendere i no-vax, i direttori generali potranno metterli in reparti isolati dove non saranno in grado di contagiare e contagiarsi”. Ora leggiamo la sentenza qui e cerchiamo le differenze.

Il giudice, Anna Travìa, dopo aver elogiato la bontà dei vaccini e ricordato che al datore di lavoro spetta il dovere di occuparsi della sicurezza dei dipendenti, precisa che i dipendenti hanno diritto a un periodo di ferie retribuito, quindi, leggiamo “ritenuta l’insussistenza del "periculum in mora” (una situazione di pericolo) quanto alla sospensione dal lavoro senza retribuzione e al licenziamento…eccetera eccetera”. Con quelle parole il giudice sottolinea che non vi è pericolo che i dipendenti siano licenziati, per questo ne rigetta il ricorso.

Non è vero che dipendenti sono stati allontanati senza stipendio.

Non è vero che “quando si vaccineranno o sparirà la pandemia” gli operatori potranno tornare a lavorare.

Non è vero che il giudice ha respinto il ricorso degli operatori sanitari perché questi non si erano vaccinati ma perché non vi era alcun rischio che venissero licenziati (praticamente la situazione opposta).

È vero che i dipendenti sono in ferie retribuite.

È vero che il giudice non ha messo in discussione la scelta dei dipendenti di aderire o meno alla vaccinazione.

E se un dipendente sanitario avesse terminato le ferie?

Il giudice non accenna a questa ipotesi. È chiaro che in caso di ferie esaurite vi sarebbe un’altra sentenza visto che si prospetterebbe il “periculum” paventato dal giudice.

Morale: la vaccinazione è un diritto? Sì. E la si può rifiutare? Sì.

Il datore di lavoro non può conoscere lo stato di salute e di malattia di un proprio dipendente (ne violerebbe la privacy), giocoforza non potrebbe neppure sospenderlo lasciandolo senza stipendio come auspicato dal Corriere. Saremmo di fronte, questa volta sì, a mobbing pesante. 

Ricordiamo che tutte le vaccinazioni anti Covid sono proposte alla popolazione. E che il diritto a riceverle non coincide con la costrizione. 

Bari, così chi non si vaccina rischia il licenziamento. Laforgia: «Ma spesso norme e autorità vanno in corto circuito». Rita Schena su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Marzo 2021. I primi casi già iniziano ad esserci. Personale sanitario che non si è voluto vaccinare e che ha contratto il Covid, magari anche infettando altre persone. Una situazione che a breve si potrebbe riproporre anche per il personale scolastico, dove non pochi hanno rifiutato il vaccino messo a disposizione. Tutte persone che svolgono lavori a responsabilità pubblica. «Come studio Polis alcuni nostri clienti ci hanno chiesto come comportarsi in casi che sicuramente creeranno delle casistiche – spiega l'avvocato Michele Laforgia -, tanto che abbiamo fatto un approfondimento. La domanda che per lo più ci viene posta è: “Come mi comporto se un mio dipendente rifiuta di farsi vaccinare?”. Il problema vero molto italiano è che le norme e le autorità che dovrebbero farle rispettare il più delle volte vanno in corto circuito, con un legislatore sempre in ritardo». Le ipotesi che si potrebbero aprire sono tante e alcune già fanno capolino tra le pagine dei giornali: nel reparto dei Rianimazione dell'ospedale San Paolo un infermiere, che si è rifiutato di farsi vaccinare, ha contratto il virus e sviluppato sintomi pesanti, in contemporanea ad un medico che invece vaccinato ha avuto solo sintomi simil influenzali. Pur non avendo stabilito se il primo avesse contagiato il secondo, le ipotesi sono possibili e anche i dubbi. E se la fonte del contagio fosse il non vaccinato? E se ad andare di mezzo fossero pazienti magari fragili? Come è possibile che un operatore sanitario non coperto dal vaccino fosse ancora al lavoro in un reparto così sensibile? Domande che sono solo le prime, perché ci si può interrogare anche sulla responsabilità civile di una persona che rifiuta un vaccino in un momento così critico e su chi è tenuto a vigilare. «Ho letto la notizia sui giornali, ma naturalmente mi è impossibile fare una valutazione sul caso specifico – sottolinea Laforgia -. Quello che però è ampiamente possibile è analizzare i problemi che si potrebbero avere nel prossimo futuro. Il punto di partenza è normativo: in primo luogo di rango costituzionale, per i doveri di solidarietà che riguardano indistintamente tutti i cittadini a norma dell’art. 2 della Costituzione. È un principio fondamentale della Repubblica. Inoltre, l’art. 20 del Testo Unico sulla Sicurezza del Lavoro previsto dal Dlgs 81/2008 stabilisce che “ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”. Quindi la prevenzione, anche del contagio da Covid 19, non è solo un obbligo del datore di lavoro, ma anche dei lavoratori, a tutela di se stessi e dei terzi. Vale per le regole in vigore per l’emergenza pandemica (protezione delle vie respiratorie e distanziamento), e vale ovviamente per i vaccini, qualora vengano messi a disposizione dei dipendenti». E fin qui tutto chiaro come cornice generale, solo che poi si entra nello specifico. Al momento la possibilità di essere vaccinati è stata offerta agli operatori sanitari, al personale scolastico e alle Forze di Polizia, tutte persone che hanno precisi doveri di cura e contatto con le persone. «Gli insegnanti e, soprattutto, gli operatori sanitari, hanno, oltre un dovere deontologico, un vero e proprio obbligo di protezione nei confronti di chi è loro affidato per ragioni di studio o di salute. Come dice la Cassazione, anche penale, hanno una “posizione di garanzia” nei confronti di studenti e pazienti, oltre che dei colleghi, e rispondono dei danni arrecati con dolo o colpa. Se rifiutano il vaccino espongono a un rischio aggiuntivo se stessi e gli altri e di questo possono essere chiamati a rispondere. La responsabilità, può riguardare anche i terzi, in caso di ulteriore diffusione del contagio fuori dall’ambiente scolastico e ospedaliero, ad esempio fra i familiari. Esiste anche un profilo di responsabilità, civile e penale, a carico dei dirigenti scolastici e sanitari. Perché essi sono a loro volta responsabili della sicurezza dei luoghi di lavoro, avendo il potere, e il dovere, di verificare l’idoneità dei lavoratori a svolgere le proprie mansioni e, in mancanza, destinarli se possibile ad altre funzioni». In pratica se hai un lavoro pubblico e non ti fai vaccinare, uno: puoi doverne rispondere personalmente dei danni arrecati; due: il tuo dirigente può (e deve) spostarti ad altro incarico, dove meno puoi creare problemi di contagio. «In via generale nessuno può essere obbligato a vaccinarsi – spiega l'avvocato Laforgia - perché i vaccini sono un trattamento sanitario che, per principio costituzionale, non può essere imposto se non per legge. Ma la Corte Costituzionale ha affermato – con la sentenza n.137/2019, relatore Cartabia – che in particolari situazioni (e l’emergenza pandemica rientra certamente fra queste) le Regioni possono organizzare la sanità in termini tali da salvaguardare il diritto-dovere del datore di lavoro di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro. In Puglia, poi, vige uno speciale Regolamento regionale n. 10/2020 recante “disposizioni per l’esecuzione degli obblighi di vaccinazione degli operatori sanitari”, secondo cui chi rifiuta di vaccinarsi deve essere ritenuto “non idoneo all’attività”. E il TAR il 26 novembre scorso ha detto che il Regolamento è legittimo, perché coerente con i doveri del datore di lavoro in tema di salute e sicurezza». Riassumendo: il vaccinarsi è una scelta, ma se non la si rispetta si può incorrere in problemi lavorativi perché il datore di lavoro può decidere si spostare il dipendente ad altro incarico (o anche licenziarlo) e se si trasmette il contagio si può essere chiamati in causa per dolo. Sembra tutto chiaro e semplice. «Purtroppo però nel sistema italiano la semplicità non è di casa. A nostro parere, e in seguito agli approfondimenti fatti come studio legale, almeno gli operatori sanitari devono vaccinarsi, e se non lo fanno, oltre a rischiare sul piano civile e penale, possono essere destinati ad altre mansioni e sottoposti a procedimento disciplinare, sino al licenziamento. Ma ecco una complicazione: il Garante della Privacy ha recentemente affermato che il datore di lavoro non può essere informato dal medico competente né sulla vaccinazione, né sul contagio di un dipendente. E a questo punto il sistema rischia di andare in corto circuito». E quindi qual è la soluzione? «È facile: ci vuole una legge dello Stato che stabilisca chiaramente diritti e doveri. Per garantire i lavoratori, i datori di lavoro e noi. Perché la salute e il lavoro sono beni primari, che vanno garantiti a tutti». In assenza di una legge certa saranno i giudici a dover sbrogliare le matasse, nel momento in cui le prime cause civili e penali dovessero approdare nelle aule di tribunale. «Creando disparità come altre volte è accaduto – mette in evidenza Laforgia -, perché un giudice di Trento può non pensarla come un suo collega barese e arrivare a conclusioni differenti. A farne le spese alla fine sono sempre i cittadini».

Giulio Gavino per "la Stampa" il 4 marzo 2021. «Nessuna conseguenza per chi rifiuta il vaccino». Fin dal primo momento della campagna anti-Covid, varata in Liguria il 7 gennaio con le prime dosi a disposizione dei lavoratori della Sanità, l' Asl 1 Imperiese ha legittimato le scelte dei dipendenti «no-Vax». L' ha fatto con un' informativa dettagliata ai sindacati che ai lavoratori di ospedali e ambulatori, che sono 2600, hanno riferito: «La direzione ha chiarito che c' è assoluta libertà di scelta, senza alcuna conseguenza». Insomma, nessun provvedimento disciplinare e tantomeno «spintarelle» a scegliere il vaccino. Moduli solo statistici Neppure per quelli che in un primo momento avevano detto sì ma che quando era arrivata l' ora di fare l'iniezione avevano optato per un «ma pensiamoci ancora un attimo». E i moduli firmati? «Un semplice dato statistico - avevano risposto Cgil, Cisl e Uil - non vi preoccupate». Il «liberi tutti» deciso dall' Asl Imperiese è tornato d' attualità nel momento in cui l'Inail ha sancito che il contagio sul lavoro è sempre infortunio anche se il dipendente non vuole vaccinarsi (l' importante è che non ci sia dolo). E per una categoria particolarmente esposta come i sanitari non è cosa di poco conto. «Abbiamo preso atto della comunicazione dell' Asl - spiega Tiziano Tomatis, Cgil Funzione Pubblica Imperia - in un primo momento l' adesione dei dipendenti della Sanità del Ponente alla campagna vaccinale è stato tiepido ma con il passare delle settimane i numeri sono saliti». A ieri sono 1600 quelli che hanno acconsentito alla somministrazione, il 61% del totale, che non appare essere un dato particolarmente confortante. Ma secondo fonti vicino all' Asl i «no Vax» titubanti starebbero lentamente scegliendo per la somministrazione, soprattutto con l'ondata pandemica legata alla vicinanza con la Costa Azzurra. Non più in prima linea I più ottimisti ritengono che si possa arrivare al 75% nel giro di qualche mese. E nel frattempo? Nessun provvedimento, libera scelta, ma chi non si è sottoposto al vaccino viene progressivamente allontanato dalla prima linea. Niente di scritto, nessuna disposizione, una gestione più affidata al buonsenso: evitare di alimentare il contagio e al tempo stesso impedire che si possano aprire dei «buchi», per malattia, in quei reparti del Covid Hospital di Sanremo che ha bisogno di tutte le risorse disponibili per combattere il virus.

Francesco Bisozzi per "il Messaggero" il 3 marzo 2021. Medici e infermieri no vax in caso di contagio avranno comunque diritto alla copertura Inail per infortunio sul lavoro. Lo ha stabilito l' ente pubblico dopo aver analizzato il caso del Policlinico San Martino di Genova, dove nei giorni scorsi sono risultati positivi al Covid quindici infermieri che avevano rifiutato il vaccino: il direttore generale della struttura, Salvatore Giuffrida, si era rivolto alla direzione regionale Inail della Liguria proprio per capire quali provvedimenti adottare. Questa settimana la direzione centrale dell' Istituto nazionale per l' assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ha trasmesso una nota con l' istruzione operativa da seguire, sottolineando che il rifiuto di vaccinarsi non comporta l' esclusione dell' operatività della tutela prevista dall' assicurazione gestita dall' Inail. Di più. Lo stesso discorso vale anche per il personale sanitario che contrae il virus per non aver usato dispositivi di protezione individuale. In compenso il datore di lavoro non sarebbe esposto in casi come questi alle conseguenze tipiche della responsabilità da infortunio. Nella lettera inviata alla direzione regionale Inail della Liguria si specifica innanzitutto che «l' assicurazione gestita dall' Inail ha la finalità di proteggere il lavoratore da ogni infortunio sul lavoro, anche da quelli per colpa, e di garantirgli i mezzi adeguati allo stato di bisogno prodotto dalle conseguenze che ne sono derivate». Insomma, i comportamenti colposi (tra cui rientra pure il mancato uso di guanti e mascherine) non eliminano il diritto alla copertura. L'ospedale ligure aveva anche fatto notare che la mancata adesione al piano vaccinale nazionale potrebbe comportare da un lato la responsabilità del datore di lavoro in materia di protezione dell' ambiente di lavoro, sia per quanto riguarda i lavoratori che i pazienti, e dall' altro potrebbe esporre lo stesso personale sanitario a richieste di risarcimento per danni civili. L' istruzione operativa dell' Inail fa chiarezza pure su questo punto: «Il comportamento colposo del lavoratore può invece ridurre oppure escludere la responsabilità del datore di lavoro». Diverso il discorso in caso di rischio elettivo, che delimita il rischio assicurato, ma per l' Inail non è applicabile al rifiuto di vaccinarsi. Perché ricorra il rischio elettivo, ricorda l' Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, occorre che si verifichino simultaneamente una serie di elementi: l' atto oltre che volontario deve essere anche arbitrario, nel senso di illogico ed estraneo alle finalità produttive, diretto a soddisfare impulsi personali e deve affrontare un rischio diverso da quello lavorativo al quale l' atto stesso sarebbe assoggettato. Conclude l'Inail: «In sintesi il rischio elettivo ricorre quando per libera scelta il lavoratore si ponga in una situazione di fatto che l' ha indotto ad affrontare un rischio diverso da quello inerente l' attività lavorativa ed è per questo che il rifiuto di vaccinarsi non può configurarsi come assunzione di un rischio elettivo, in quanto il rischio di contagio non è certamente voluto dal lavoratore». La situazione potrebbe cambiare solo nell' eventualità che venga introdotto un obbligo specifico di aderire alla vaccinazione da parte del lavoratore, allo scopo di tutelare la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Soluzione caldeggiata dall' ex ministro del Lavoro, Cesare Damiano, oggi membro del consiglio d' amministrazione dell' Inail. Intanto, alla fine di gennaio risultavano pervenute all' Inail 147.875 denunce di infortunio sul lavoro da Covid. Rispetto a dicembre, l' incremento è stato di 16.785 denunce. Per il 39,2 per cento provengono da tecnici della salute, la categoria più colpita dai contagi, e di queste oltre l' ottanta per cento sono relative a infermieri.

·        Io Denuncio.

Primo esposto serio contro il ministro Speranza per la gestione dei malati Covid. Chiara Nava il 29/12/2021 su Notizie.it. Arriva il primo esposto serio contro il ministro Speranza e la gestione dei malati Covid, deposto dall'avocato Erich Grimaldi alla Procura di Roma.

Arriva il primo esposto serio contro il ministro Speranza per la gestione dei malati Covid, deposto dall’avocato Erich Grimaldi alla Procura di Roma e di Bergamo.

Arriva ufficialmente il primo esposto serio contro il ministro della Salute, Roberto Speranza e contro la gestione dei malati di Covid. L’avvocato Erich Grimaldi, presidente del Comitato per la Cura Domiciliare Covid-19, ha depositato un esposto alla Procura di Roma e uno in quella di Bergamo per chiedere alla Magistratura di fare chiarezza sulla gestione dell’emergenza e sul mancato coinvolgimento dei medici di base che hanno seguito e curato migliaia di persone in questi due anni.

Il Governo non ha mai risposto, neanche quando a chiedere spiegazioni è stato il Senato. Quando si è trattato di mettere nero su bianco i protocolli ministeriali, i medici sono stati dimenticati, secondo quanto riferito da Grimaldi. L’avvocato è rimasto incredulo per il fatto che il Ministero della Salute il 20 novembre 2021 abbia rilasciato delle linee guida sulle cure domiciliari quasi identiche a quelle dell’anno precedente, nonostante le tante esperienze maturate sul campo e le informazioni acquisite da tanti medici che hanno sempre curato i pazienti a casa.

“Abbiamo lavorato duramente, la mia prima richiesta di lavorare a un protocollo di cura domiciliare univoco nazionale risale addirittura al 30 aprile 2020: da allora è stato un continuo tentare di dialogare con il Ministero della Salute, offrire esperienze, disponibilità, poter dare finalmente una risposta a questa grave emergenza. Tuttavia è fallito anche il tentativo da parte del sottosegretario Pierpaolo Sileri di organizzare un tavolo che coinvolgesse i medici che hanno curato i malati di Covid in fase precoce” ha spiegato Grimaldi.

“È veramente assurdo che non sia stata data alcuna possibilità a queste centinaia di professionisti di portare il proprio bagaglio di esperienze al servizio delle istituzioni. È ovvio che qualcosa non ha funzionato, aggiungerei anzi che qualcosa volontariamente non è stato fatto funzionare. Ed è un diritto dei cittadini capire il perché. A oggi riceviamo centinaia di richieste di aiuto di persone abbandonate a casa da medici di medicina generale, persone alle quali viene detto di attendere l’evolversi della malattia assumendo solo paracetamolo (formula che risulta totalmente fallimentare)” ha spiegato l’avvocato Grimaldi. Il legale aveva già chiesto spiegazioni al sottosegretario Costa, che non ha risposto. Questo continuo fuggire alle domande e questa decisione di mettere da parte l’esperienza di medici che hanno curato i malati Covid a casa risulta totalmente incomprensibile, come ha sottolineato l’avvocato Grimaldi. È il momento che la magistratura intervenga per fare chiarezza.

Malasanità Malagiustizia Malaffare… E IO DENUNCIO! La Voce delle Voci l'1 Maggio 2015. La Voce, in tanti anni di giornalismo d’inchiesta, ha denunciato moltissimi episodi di malasanità, malagiustizia e malaffare, spesso partendo dalle denunce dei cittadini che hanno documentato quanto sono stati costretti a subire dal Potere. Denunce tante volte anonime – perchè, si sa, chi denuncia può temere ritorsioni su di sé o sui suoi cari – ma sempre molto documentate, con riferimento a dati precisi, riscontrabili. Non solo sfoghi, quindi, pur pienamente comprensibili e condivisibili; ma la descrizione di quanto è accaduto, con una serie di informazioni che possono essere molto utili per ricostruire – e denunciare – l’accaduto. Perchè chi non ha santi in paradiso tante volte non viene ascoltato, è costretto a inutili peregrinazioni per mendicare il suo diritto a verità e giustizia. Se te la senti puoi scrivere alla Voce e raccontare quello che ti è successo, quello che pensi di aver subito. Ripetiamo: puoi farci sapere chi sei, e ciò può servire per chiederti altri dettagli ed elementi utili; o puoi inviarci la tua denuncia in maniera anonima, ma con una serie di elementi utili a capire quanto è successo per poter – a nostra volta – scrivere un articolo che denunci quanto accaduto, in modo serio ed efficace.

CONTESTATO ANCHE IL TITOLO «CRIMINI BIANCHI». Fiction sulla malasanità e i medici si ribellano: non mandatela in onda. Il produttore Valsecchi: denunciamo errori e interessi dei raccomandati, non accusiamo la categoria. Emilia Costantini il 23 settembre 2008 su Il Corriere della Sera. Per pararsi le spalle da ulteriori polemiche, oltre quelle già suscitate, il produttore Pietro Valsecchi della Taodue ha voluto tre medici come consulenti per «Crimini bianchi », la serie sulla malasanità, che andrà in onda da domani in sei puntate su Canale 5. Ma non è bastato. L'Associazione Medici Accusati di Malpractice Ingiustamente, è già partita all'attacco: «Una fiction dove già dal titolo i medici sono additati come criminali da punire, la dice lunga — avverte il presidente dell'associazione Maurizio Maggiorotti — Non solo non è imparziale, ma sembra voglia appassionare la gente contro medici e Sanità in genere ». Un titolo che ha già fatto drizzare i capelli al preside della facoltà di Medicina, futuro probabile rettore dell'Università La Sapienza di Roma, Luigi Frati, e al presidente dell'Ordine dei medici di Roma, Mario Falconi. Dice Frati: «È inopportuno, fuorviante, oltretutto copiato da certe serie americane. Non fa giustizia delle tante vite salvate, degli atti di abnegazione e sacrificio che tutto il personale sanitario compie giornalmente, ben oltre ciò che è richiesto dai loro contratti». E Falconi, che nella primavera scorsa sul Bollettino (organo d'informazione interna dell'Ordine) aveva scritto «non intendiamo subire passivamente questo gioco al massacro» ora aggiunge: «Valsecchi mi ha fatto vedere alcuni spezzoni dello sceneggiato, che riguardavano certi aspetti della professione che io denuncio da sempre. Ma avevo pregato di cambiare il titolo, che non approvo assolutamente ». Adesso, l'Associazione presieduta da Maggiorotti rincara la dose: «Dato il potere della televisione, il pubblico italiano sarà ulteriormente condizionato da questa fiction, che getterà fango sull'intera categoria, causando un'impennata di cause contro i medici: un florido giro d'affari per avvocati e avvocaticchi. Proponiamo dunque che gli organismi che ci tutelano chiedano al Garante per le telecomunicazioni di fermarne la messa in onda. E il 26 settembre si terrà un congresso proprio su questi problemi: ne uscirà un documento». Ma Valsecchi, che ieri mattina ha presentato «Crimini bianchi », assicura: «Non è contro i medici, ma solo una serie che intende puntare il dito sui casi di malasanità, su coloro che commettono errori e non vogliono ammetterlo, sui troppi interessi che ruotano intorno, su primari e primarietti raccomandati, sulla politica che dovrebbe fare un passo indietro». Ambientata a Roma e interpretata da Daniele Pecci, Ricky Memphis e Christiane Filangieri, regia di Alberto Ferrari, la fiction tratta vari temi di malasanità: diagnosi sbagliate, le truffe dei rimborsi sanitari, il business delle case farmaceutiche, le baronie. E molto sangue che zampilla, stile «pulp», tanto che qualcuno reclama il bollino rosso. È entusiasta Teresa Petrangolini, segretario generale per i diritti del malato: «Offre un messaggio positivo: la reazione a certe malefatte». E gli attori protagonisti aggiungono: «Non attacchiamo ciecamente i medici, ma è una fiction non edulcorata». Conclude il regista: «Mettiamo in risalto coloro che lavorano con passione. Speriamo in polemiche costruttive». Emilia Costantini il 23 settembre 2008

Andrea Crisanti può far saltare Roberto Speranza: strage a Bergamo, le indiscrezioni della procura. Libero Quotidiano il 05 dicembre 2021. Le notizie e le conferme che arrivano da Bergamo continuano a spaventare Roberto Speranza. Si parla dell'inchiesta condotta dalla procura locale per decidere se chiedere l'archiviazione o il processo per le autorità sanitarie accusate di aver sottovalutato i rischi nella primissima parte dell'emergenza-Covid. Ovviamente nel mirino non c'è soltanto Speranza, il quale però è stato recentemente accusato dal procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, di aver mentito. E un avviso di garanzia, per il ministro della Salute, avrebbe conseguenze disastrose. E ora, ecco che Domani scodella un nuovo scoop su questa vicenda. Nell'edizione in edicola oggi, domenica 5 dicembre, si legge: "Immaginatevi un gigantesco puzzle fatto di documenti, alcuni noti e altri no, messi tutti in fila uno dietro l'altro, in successione temporale, a partire da gennaio 2020. Un puzzle che inchioderebbe governo, ministero della Salute, Cts e regione Lombardia alle proprie responsabilità sulla gestione della prima ondata Covid. Un mosaico corredato da modelli matematici, errori scientifici, sottovalutazioni del rischio, azioni mancate (previste dal Piano pandemico influenzale) e relazioni causa-effetto dalle conseguenze nefaste", si conclude la premessa. E ci sono due fatti dirompenti: il contenuto di questa perizia anticipato in sintesi qui sopra sarebbe l'elemento decisivo per stabilire responsabilità ed eventuali avvisi di garanzia. Dunque, il secondo fatto dirompente: la perizia è del consulente tecnico della procura di Bergamo, ovvero il virologo Andrea Crisanti. E, spiega il quotidiano diretto da Stefano Feltri, molto di quel che sarà deciso dipende proprio dall'approfondimento dell'esperto. Insomma, a "far saltare" Speranza potrebbe essere proprio Andrea Crisanti. Continua Domani: "La perizia del consulente tecnico della procura di Bergamo, Andrea Crisanti, potrebbe dare una svolta decisiva a questa voluminosa inchiesta, la cui fase istruttoria sta volgendo al termine. C'è molta tensione intorno a questa indagine sull'ecatombe della Val Seriana con l'ipotesi di reato di epidemia colposa e falso, che rischia di travolgere il ministero della Salute, sebbene le valutazioni in corso riguardino l'apparato tecnico della nostra sanità, non quello politico ha fatto sapere il procuratore capo, Antonio Chiappani". Il punto è che nel corso dell'indagine bergamasca sarebbero emerse molte condotte omissive agli albori della pandemia. Sempre Chiappani ha dichiarato: "Sto aspettando la perizia di Crisanti per acquisire gli elementi di valutazione. Noi non facciamo le cose per rimangiarcele, o si fa o si chiude". "Insomma, in val Seriana si poteva evitare un'epidemia così disastrosa? Il focolaio all'ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano si sarebbe sviluppato ugualmente, anche applicando tutte le misure previste dai protocolli sanitari e dal piano pandemico nazionale e regionale? Ci sarebbero stati 6mila morti in due mesi se si fosse creata tempestivamente (tra il 23 febbraio e l'inizio di marzo) una zona rossa in Val Seriana?", s'interroga Domani. Bene, molte di queste risposte, ovviamente attese con preoccupata trepidazione da Speranza, potrebbero arrivare proprio da Andrea Crisanti.

Morti a Bergamo e zona rossa. Ipotesi pm: è omicidio colposo. Felice Manti il 4 Dicembre 2021 su Il Giornale. E da Roma rimbalza la voce: indagato Zaccardi ex numero 2 di Speranza. Omicidio colposo. Secondo alcune indiscrezioni raccolte dal Giornale e trapelate dalla Procura di Bergamo, sarebbe questa la nuova ipotesi di accusa che il pool di pm coordinati dal Procuratore capo Antonio Chiappani sarebbe intenzionata a muovere nei confronti del ministro della Salute Roberto Speranza, dei vertici del ministero della Sanità e dei suoi dirigenti e del Cts. Un'ipotesi che sembrerebbe confermata anche dalle parole pronunciate dallo stesso Chiappani al Corriere della Sera, quando sul mancato aggiornamento del Piano pandemico - denunciato per primo dal rapporto Oms curato da Francesco Zambon e fatto sparire 24 ore dopo la sua pubblicazione nel maggio 2020, non senza il pressing dello stesso Speranza - prima di evocare la legittima competenza della Procura di Roma dice: «Dipende, se lo leggo come un nesso di causalità con i troppi morti della Bergamasca, no. Se lo considero un reato in sé allora la questione cambia». È questa, spiega una fonte vicina alla Procura che parla con il Giornale per la prima volta, la circostanza che potrebbe spiegare una doppia accelerazione delle indagini. Da un lato la mancata applicazione potrebbe essere collegata all'aumento indiscriminato dei morti nella Bergamasca, ipotesi rilanciata dai familiari delle vittime difesi dai legali guidati da Consuelo Locati che hanno fatto causa civile al governo chiedendo 100 milioni di risarcimento. Ci sarebbe un legame tra le bare di Bergamo e le omissioni del ministero, un nesso causa-effetto che la relazione del virologo Andrea Crisanti, pronta per essere depositata dai pm, avrebbe definitivamente chiarito. Dall'altro, però, essendo il piano previsto da una direttiva Ue, la sua mancata applicazione va imputata all'intero esecutivo, il cui giudice naturale è a Roma. E non è un caso se oggi dal tribunale capitolino trapela l'indiscrezione di un avviso di garanzia per Goffredo Zaccardi, ex capo di gabinetto di Speranza chiamato pesantemente in causa nel pasticciaccio tra Roma e Oms sul report fatto sparire perché imbarazzava il governo e definiva la gestione della pandemia «caotica e creativa». Zaccardi non a caso si è misteriosamente dimesso qualche settimana fa. Ma chi ha veramente deciso di ritardare la zona rossa tra Alzano e Nembro? Perché qualche giorno prima del lockdown della Bergamasca i militari sembravano dover chiudere la Bergamasca, salvo poi cambiare e ricambiare idea? L'ha chiesto la giornalista dell'Agi Manuela d'Alessandro al Consiglio di Stato, che ha dato 30 giorni al governo per rispondere. Un altro pezzo del puzzle che si compone. Felice Manti

Covid, il grido dei parenti delle vittime di Bergamo a Roma: “La politica deve pagare”. L'atto di citazione da oggi all'esame del tribunale civile: domandano un risarcimento danni pari a 100 milioni per la gestione sanitaria: «Chi doveva tutelarci dall'inizio non l'ha fatto». Edoardo Izzo il 09 Luglio 2021 su La Stampa. Storie di uomini. Persone morte a Bergamo nel momento più buio. Quando ancora la pandemia da Covid-19 sembrava lontana ed era relegata a un «fatto» cinese. Cassandra Locati, insegnante in una scuola primaria di Bergamo, ha perso il papà Vincenzo, 78 anni, nel marzo dello scorso anno, nel giro di cinque giorni. Paolo Casiraghi, di Osio Sotto, impiegato in una multinazionale, nel giro di un mese (marzo-aprile 2020) ha visto il Covid portarsi via i suoceri e poi suo padre Gabriele, di 81 anni. Questi episodi e quelli di altre 500 persone sono raccontate nell'atto di citazione che da oggi è all'esame del tribunale civile di Roma cui si sono rivolti gli avvocati Consuelo Locati, Alessandro Pedone, Piero Pasini, Giovanni Benedetto e Luca Berni per chiedere la condanna della presidenza del Consiglio, del ministero della Salute e della Regione Lombardia a un risarcimento per i danni non patrimoniali subiti che ammonta a circa 100 milioni di euro. Al centro del contenzioso la gestione della crisi sanitaria da parte delle istituzioni a fronte dell'«assoluta inesistenza di un piano pandemico», che avrebbe dovuto essere scritto secondo una decisione del Parlamento europeo del 2013 e nel rispetto delle linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e del Centro Europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive (Ecdc). «Dalla magistratura ci aspettiamo risposte che la politica non ci ha mai dato - spiega Cassandra Locati, sorella dell'avvocato Consuelo -. Vogliamo capire perché i nostri cari sono morti nel giro di pochi giorni e se si poteva fare qualcosa per salvarli. Siamo certi che, almeno nella fase iniziale della pandemia, i medici abbiano dovuto fare delle scelte, pensando a salvare le persone più giovani e sacrificando quelle più fragili. Sono stati messi nelle condizioni di fare queste scelte e immagino che anche per loro sia stata dura. Ma qualcuno ci deve dire perche' tutto ciò è successo». «La procura di Bergamo sta sul pezzo, sta lavorando bene - prosegue Locati, anche lei tra i componenti del Comitato “Noi denunceremo” - ma al tribunale civile di Roma chiediamo di rimuovere quel silenzio e quell'omertà che abbiamo riscontrato a livello politico. La Regione Lombardia, ad esempio, ha fatto di tutto per ostacolare i nostri legali, noi ci sentiamo abbandonati. Sappiamo che la strada da percorrere per avere giustizia è molto lunga e piena di difficoltà ma se siamo qui è perché lo dobbiamo ai nostri cari che abbiamo perso».

Dello stesso tenore anche Paolo Casiraghi: «Chi avrebbe dovuto tutelarci, sin dall'inizio, non l'ha mai fatto. Quando andavamo alla ricerca di mascherine, dispositivi di sicurezza e bombole di ossigeno, non facevamo altro che girare a vuoto. I nostri familiari sono stati portati via in lettiga e non sapevamo che non li avremmo più visti e che il loro funerale lo avremmo celebrato attraverso un cellulare. La politica ci ha regalato solo chiacchiere. Abbiamo chiesto incontri e non siamo mai stati ricevuti, volevamo essere almeno ascoltati e non abbiamo ottenuto neppure questo. Siamo stati subito messi da parte».

Coronavirus a Bergamo, l’avvocato Taormina: «Fondata l’azione civile dei parenti delle vittime». La causa è stata depositata mercoledì con la richiesta di 122 milioni. Armando Di Landro il 26 dicembre 2020 su Il Corriere della Sera. «È assolutamente fondata e destinata al successo l’azione di responsabilità dei parenti delle vittime»: così anche l’avvocato Carlo Taormina, notissimo volto televisivo, ha commentato la causa civile presentata da 500 parenti di vittime del Covid-19 al tribunale di Roma, con richieste di risarcimenti per 122 milioni al governo, al ministero della Salute e alla Regione Lombardia per i suoi residenti. Il deposito è avvenuto mercoledì poco dopo le 14. «Il governo aveva piena consapevolezza che le carenze organizzative e di personale della sanità pubblica avrebbero determinato tutti quei morti — ha commentato il legale —. Non solo, ma tardando nell’imposizione del lockdown e praticandone uno blando fino a essere una buffonata, il governo ha colpevolmente e anche dolosamente propagato il contagio». Taormina ha svelato di aver depositato lui stesso in più procure, tra cui Bergamo, esposti di parenti delle vittime. E si è messo «a loro disposizione», genericamente. Sul punto non sono arrivati commenti dal comitato Noi Denunceremo, che non è una parte della causa civile ed evita di esprimersi sull’iniziativa di Taormina. «Abbiamo semplicemente informato i nostri aderenti che c’era anche questa possibilità, quella della causa civile, oltre all’esposto penale — commenta il presidente Luca Fusco —. E invitato tutti a rivolgersi al proprio avvocato o, nel caso in cui non ce ne fosse uno, ad affidarsi ai nostri legali». Al di là delle singole posizioni dei parenti e della ricostruzione delle vicende indicate nell’atto di citazione, Fusco vede comunque, nella nuova iniziativa giudiziaria, «un atto politico. Aver portato cittadini normali prima a denunciare in sede penale una serie di fatti e poi aver dato impulso, sollecitato, fatto sapere che anche il politico che sbaglia deve pagare, anche l’istituzione che commette errori deve farlo, ha portato a questi primi numeri: per forza è anche un atto politico. Abbiamo capito che ci sono stati degli errori e vorremmo non ce ne fossero più, che cambiasse qualcosa, al di là degli esiti dei procedimenti in tribunale». Dal governo non ci sono state particolari reazioni alla notizia della causa civile presentata dalle famiglie bergamasche e di molte altre province lombarde e d’Italia, Roma inclusa. La citazione delle istituzioni in tribunale ha però fatto il giro del mondo, rilanciata dall’agenzia Reuters, riportata dal Guardian sul suo sito web, dalla Cbc, dall’Nbc, dalla Cnn, comparsa nelle news del Washington Post. «Crediamo che anche grazie al lavoro della magistratura possa crescere la consapevolezza di quel che è accaduto e alcune verità sulla gestione della cosa pubblica in materia sanitaria stanno già emergendo», commenta Fusco. 

In Europa la malasanità uccide più del Covid-19. Redazione mercoledì 17 Giugno 2020 su  qds.it in collaborazione con ITALPRESS. Mentre tutto il mondo è alle prese con la lotta al Covid-19, che ha già causato oltre 370 mila decessi in tutto il mondo, più di 180 mila soltanto in Europa, c’è un’altra causa silenziosa che provoca la morte di centinaia di migliaia di pazienti ogni anno: la malpractice sanitaria. Ogni anno negli ospedali europei si registrano 571.000 decessi per ragioni riconducibili ai servizi sanitari, circa un caso al minuto di quelle che vengono definite morti trattabili, che potevano essere evitate se il personale avesse agito in modo diverso. La situazione va meglio in Italia, dove i numeri sono decisamente inferiori, anche se ancora troppo alti, con circa 42.000 morti all’anno per “malasanità”, vale a dire quasi cinque all’ora e un valore medio nazionale di circa 70 casi su 100.000 abitanti. Il tasso di mortalità, dati alla mano, sembra avere un’incidenza maggiore di quella portata dal Covid-19, eppure si tende a parlare poco di questo argomento. I dati sulle infezioni ospedaliere, dette Infezioni correlate all’assistenza, parlano di almeno 6.000 decessi all’anno: più di 16 persone al giorno muoiono. Queste infezioni sono non solo la causa frequente dei prolungamenti della durata della degenza ospedaliera, ma altresì quella di disabilità anche a lungo termine e, soprattutto, di una significativa mortalità evitabile. Una condizione che, spesso, è figlia dei tagli del budget destinati alla sanità pubblica, che costringe medici, infermieri e tutto il personale a lunghi ed estenuanti turni, che portano ad uno sfinimento sia fisico sia mentale. In queste condizioni, le probabilità di errore umano aumentano.

L’allarme su ciò che accade negli ospedali. “Conosco pazienti gravi lasciati fuori per un tampone”. Redazione l'01 Agosto 2021 su radioradio.it. I casi di malasanità in Italia sono aumentati con il Covid-19. A dirlo sono i numeri e le testimonianze di chi, in questo anno e mezzo, si è trovato a fare i conti con un sistema sanitario che troppo spesso si è concentrato solo ed esclusivamente sull’emergenza Coronavirus senza dar spazio ad un’altra ampia fetta di patologie e bisogni. Francesco Barucco, avvocato dello Sportello Legale Sanità, ha lanciato l’allarme: “In Italia ogni anno ci sono oltre 42mila decessi che si potevano evitare dovuti a malasanità. Mettono paura questi numeri: spesso ci sono anche invalidità o casi gravi. Siamo tra i Paesi messi peggio. Va bene parlare del Coronavirus, ma facciamo attenzione alla malasanità. È un fenomeno molto serio che andrebbe affrontato. Le diagnosi che non sono state fatte in questi ultimi due anni hanno portato a casi triplicati: andremo ad affrontare questo problema. Oggi in ospedale puoi andare per qualsiasi problema ma stai comunque fuori dalle 2 alle 5 ore per il risultato del tampone”. Il problema è molto ampio e riguarda vari aspetti. Spesso sono state rinviate a data da destinarsi visite, controlli e screening. Allo stesso tempo i pronto soccorso sono stati congestionati e spesso hanno trattato con troppa sufficienza alcuni casi che invece avrebbero avuto bisogno di cure e attenzioni. Un’altra problematica che ha portato a non pochi casi di malasanità è la necessità di effettuare un tampone all’ingresso del pronto soccorso, senza dunque poter essere curato immediatamente: “Ci sono malattie che andavano trattate con tempestività, soprattutto cardio-vascolari. Anche se hai problemi che vanno trattati tempestivamente, devi rimanere fuori in ospedale in attesa. Con questa metodologia non possono che aumentare i casi. Hanno lasciato morire un ragazzo per sospetto coronavirus ma aveva un evidente infarto in corso”.

Francesco muore di Covid a 32 anni, la rabbia della moglie: «Non era vaccinato per colpa dell'Asl».  Da leggo.it Venerdì 10 Settembre 2021. «Se mio marito non era vaccinato devo ringraziare l'asl di Afragola». A parlare sfogandosi su Facebook è la moglie di Francesco Sorianiello, morto di Covid a 32 anni.  L'uomo, padre di un bambino di nove mesi e originario di Afragola (in provincia di Napoli), era ricoverato all’ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli. Nell'ultimo post sui social, datato 12 agosto, scriveva: «Ringrazio tutti per dedicarmi anche un secondo del vostro tempo, ma purtroppo non posso rispondere a tutti». Francesco è una delle vittime più giovani della pandemia in Campania. Ha contratto il virus nella sua forma più letale e non aveva ricevuto alcuna dose di vaccino. «Se mio marito non era vaccinato devo ringraziare l'Asl di Afragola che per ricevere una tessera sanitaria abbiamo atteso un mese», spiega la moglie su Facebook chiarendo anche che non si era infettato in vacanza. «Semplicemente lavorava per dar da mangiare a suo figlio». La moglie parla di "malasanità" nel post su Facebook: «Ho chiamato il 118 ben sette volte, mi dicevano che stava bene, che era ansioso, che aveva bisogno di calmanti. L'hanno lasciato a casa da solo, lo hanno fatto aggravare giorno dopo giorno. Quindi se mio marito oggi non c'è più e se mio figlio è costretto a crescere senza la figura di un padre la colpa è di coloro che non sanno svolgere il loro lavoro».

Commissione Covid, il presidente di Noi Denunceremo spara a zero sulla sanità lombarda. Il paragone con il Congo: «L’ho sentito fare da molti» . E quando gli è stato chiesto qual è stata la cosa più sentita? «L’abbandono da parte delle istituzioni». Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera 15 giugno 2021. «Pensavamo di vivere nella regione più bella, più brava e più buona d’Italia, invece eravamo in Congo»: è partita con un giudizio molto netto, perfino brutale, l’audizione del presidente del comitato «Noi denunceremo» da parte della Commissione d’inchiesta Covid-19 della Regione. Nella prima fase erano stati ascoltati i dirigenti della sanità regionale e locale, da ieri si è passati alla società civile. Si è svolta prima l’audizione di Vittorio Agnoletto, responsabile dell’Osservatorio coronavirus di Medicina democratica, quindi è toccato a Luca Fusco, presidente del comitato. Fusco, che era stato invitato dal consigliere radicale Michele Usuelli, ha premesso che non avrebbe parlato delle denunce presentate dal comitato alla Procura di Bergamo, perché «non è questa la sede». I commissari ne hanno convenuto. È stato quando hanno chiesto se ci fosse una dichiarazione iniziale, che Fusco ha paragonato la Lombardia al Congo, «cosa che mi sono sentito dire da molti». Dichiarazione che ha colpito i commissari. Nell’ora e un quarto di audizione sono state fatte domande più emozionali che tecniche, ottenendo dichiarazioni che Fusco aveva già fatto diverse volte. Per esempio: «Qual è stata la cosa più sentita?». Risposta: «L’abbandono da parte delle istituzioni». Oppure: «Che cosa ha notato che mancasse soprattutto?». Risposta: «L’informazione: non ci dicevate niente a parte i numeri». O anche: «Qual è l’obiettivo che si deve prefiggere la giunta?». Replica: «La riforma della sanità: prendete in mano quello che non ha funzionato». Nelle sue due ore di audizione, Agnoletto ha invece sottolineato una serie di problemi emersi all’inizio dell’emergenza, come l’insufficienza di tamponi o il mancato reclutamento di personale sanitario. E ha sottolineato come in Lombardia ci siano esempi di chirurgia di eccellenza ma «insufficienze nella medicina di base». La commissione (per la quale è stata bocciata la proposta di occuparsi anche della seconda ondata) si riunirà ancora fino a fine luglio, quindi pausa in agosto e poi fino al 21 settembre, quando ci saranno il dibattito e le relazioni: probabilmente una di maggioranza e una di minoranza. 15 giugno 2021

"Un'inchiesta sul Covid adesso è sacrosanta. Se qualcuno ha rubato è alto tradimento". Laura Cesaretti il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Renzi invoca una commissione: "Dopo 132 mila morti pretendiamo verità su ciò che è successo". E sul caso Di Donna: "Il giudizio politico sulla vicenda non può aspettare. Conte è diventato afono?"

Senatore Matteo Renzi, che bilancio trae da questa tornata elettorale?

«Il centrosinistra vince e il centrodestra perde. Ma resta il problema di capire che cosa accadrà alle Politiche, quando voterà il 25% di elettori in più. La mia impressione è che molti di coloro che si sono astenuti adesso potrebbero tornare a casa, e premiare la destra ove essa presentasse persone più credibili di Bernardo e Michetti. Dunque raccomando prudenza e saggezza: chi a sinistra oggi canta vittoria sbaglia»

La scoppola più dura la hanno presa i Cinque Stelle di Conte. Perchè? E tolti di mezzo, o ridotti ai minimi termini i grillini, il centrosinistra è destinato a cambiare?

«Ecco, i grillini invece sono destinati a sparire. E la cosa mi procura un sentimento di giubilo, ovviamente. Guardi Milano: vedere la candidata scelta personalmente da Giuseppe Conte, e presa direttamente dal Cda del Fatto Quotidiano, ottenere un risultato così basso, tale da non riuscire nemmeno a superare il quorum per il Consiglio comunale, fa pensare. Persino Paragone - e dico Paragone - ha fatto meglio dei grillini. I Cinque Stelle non hanno futuro: erano il movimento anti-casta e ora sono il partito delle auto blu. E quando Conte si fa fotografare con la bandiera del Pci alle spalle viene fuori plasticamente l'immagine di un uomo pronto a cambiare idea per una poltrona. Prenderà ancora qualche like come influencer, ma come politico è finito. Ammesso che abbia mai iniziato».

Salvini ha reagito alla batosta alzando i toni. La maggioranza di Draghi è destinata a indebolirsi?

«Andare contro Draghi fa indebolire Salvini, non il contrario. Il leader della Lega sta sbagliando impostazione. Dovrebbe replicare l'esempio di Berlusconi, che verso la fine degli anni Novanta fece un accordo con Kohl, Aznar e l'allora leader del Ppe Agag, portando Forza Italia dentro la famiglia dei conservatori europei. Salvini invece ondeggia tra il sostegno a Draghi e le spinte no-euro e no-vax. Deve scegliere se vuole essere serio. E deve scegliere come fece Berlusconi venticinque anni fa se vuole essere credibile».

Il risultato di Calenda a Roma cosa significa? C'è spazio elettorale per un centro liberale fuori dal «nuovo bipolarismo» di Letta? O siete compatibili con uno schieramento che comprenda anche Conte?

«Il bipolarismo che vede Letta al momento non c'è. Ancora ieri candidati grillini al ballottaggio, come il sindaco di Cattolica, proponevano l'accordo con la destra contro quello che loro chiamano sistema di potere Pd. Comunque noi siamo elettoralmente incompatibili con Conte. Ammesso, e non concesso, che Conte arrivi alle Politiche ancora in sella al movimento».

Lo strappo della Polonia contro lo stato di diritto Ue ha subito spaccato il centrodestra. Può rianimare anche in Italia il sovranismo antieuropeo?

«La posizione della Meloni è filo-polacca ma anti-italiana. Chi tifa Varsavia, in questa vicenda, tifa contro l'interesse nazionale. Chi vuole difendere l'interesse dell'Italia sta dalla parte dell'Europa. La sovranista Meloni guida un partito che più che difendere i fratelli d'Italia si preoccupa dei cugini di Polonia o dei nipotini d'Ungheria. Più si definiscono sovranisti, più lavorano contro l'Italia. Incredibile».

Draghi riapre tutto e dice che grazie ai vaccini possiamo iniziare a guardare oltre il Covid. Lei intanto chiede una commissione di inchiesta sulla questione degli appalti Covid: «Peggio di Tangentopoli», dice. Perché?

«Draghi ha ragione. Ma proprio adesso che ci stiamo mettendo alle spalle un disastro senza precedenti, e con 132mila morti, dobbiamo pretendere parole di verità su ciò che è successo. Ci sono troppe opacità negli appalti milionari assegnati dalla gestione commissariale, ed è sacrosanto che la politica verifichi se qualcosa non ha funzionato. Non è andato tutto bene. Ed è sacrosanto capire cosa. Se qualcuno ha rubato sulle mascherine o ha commesso reati mentre l'Italia non aveva mascherine e ventilatori, quel qualcuno deve pagare. Perché rubare è un reato odioso e insopportabile, ma se oltre a rubare ti approfitti di un paese in ginocchio, quello diventa alto tradimento, contro l'Italia e contro gli italiani».

Quindi l'inchiesta per traffico di influenze su Luca Di Donna, con contorno di generali, sarebbe solo la punta di un iceberg?

«Non tocca a me verificarlo. Se fosse vero che hanno restituito delle mascherine perché l'accordo con determinati legali non è stato perfezionato, sarebbe gravissimo. Ma siccome siamo garantisti, aspettiamo che decidano i magistrati. Quello che non possiamo aspettare, invece, è il giudizio politico su una vicenda che coinvolge il commissario scelto da Conte, con personale dei servizi la cui delega aveva Conte, nello studio del mentore di Conte, nell'ufficio del collega di Conte. Il partito di Conte ha qualcosa da dire, o a forza di urlare onestà hanno perso la voce e sono diventati improvvisamente afoni?».

L'avvocato Di Donna (anche lui dello studio Alpa) veniva spesso citato come figura chiave del cerchio magico contiano. Ora però Conte smentisce recisamente di averlo frequentato da premier. Ci crede?

«Conte dice di non aver avuto rapporti con Di Donna quando era a Palazzo Chigi. Arcuri smentisce frequentazioni con Di Donna. Sul Conte Ter alla fine scopriremo che ha fatto tutto Ciampolillo. Sinceramente mi sembra tutto poco credibile. Ma alla fine mi interessa il giusto: sono così felice di aver aperto la crisi e di aver mandato a casa Conte, sostituendolo con Draghi, e Arcuri sostituito da Figliuolo, che questo scaricabarile non mi appassiona. Oggi l'Italia è più forte di prima, ed è merito anche di Italia viva, non del giro Di Donna».

La «Bestia» di Morisi la ha spesso messa nel mirino, ma lei oggi gli esprime solidarietà. Perché?

«Morisi è stato ispiratore di tante campagne di manganellamento mediatico contro il sottoscritto e contro molti miei amici. Ma l'accanimento contro la sua vita privata è incivile. Non è giusto finire sui giornali solo perché partecipi a un incontro gay o per scelte personali in cui nessuno ha il diritto di mettere il naso. Da avversario politico, gli esprimo solidarietà: i suoi fatti privati dovevano restare tali. E se la Bestia ha massacrato mediaticamente alcuni di noi, questo non giustifica una reazione uguale e inversa. Occhio per occhio, dente per dente significa aderire alla legge del taglione, non a quella della civiltà. E noi non siamo bestie: basta con l'accanimento mediatico basato su notizie prive di rilievo penale. Basta». Laura Cesaretti

"Non ha detto la verità". La procura smaschera Speranza. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini il 29 Novembre 2021 su Il Giornale. Bufera sul ministro della Salute. Il pm di Bergamo: "Non ha raccontato cose veritiere". Due frasi, all’apparenza innocenti, ma che possono terremotare la politica. Garantismo richiede prudenza: non tutto quel che viene dalla procura luccica. Però il commento del procuratore capo di Bergamo, Antonio Chiappani, sull’indagine che cerca di ricostruire errori e ritardi nella prima fase della pandemia rischia di incrinare le mura di viale Lungotevere Ripa 1. Sede del ministero della Salute. “Il ministro Speranza non ha raccontato cose veritiere - dice Chiappani al Domani - anche questo dovremo valutare”. E poi ci sarebbe il verbale in cui Silvio Brusaferro avrebbe dichiarato di non aver mai letto, prima del maggio 2020, il famoso piano pandemico del 2006, mai applicato nonostante contenesse indicazioni utili contro virus influenzali sconosciuti. "(Brusaferro, ndr) lo ha dichiarato, ha riletto il verbale e lo ha firmato", ha spiegato il procuratore. Ma è mai possibile che il capo dell'Istituto superiore di sanità (Iss) non fosse a conoscenza del documento? Se sì, chi è stato a tenerglielo nascosto?

Le indagini di Bergamo

"Che fiducia possono avere gli italiani, in una fase delicata come quella attuale, verso un ministro che sta mentendo sistematicamente dall'inizio della pandemia con l'unico scopo di salvare la propria poltrona?". Galeazzo Bignami di Fratelli d'Italia non ha dubbi: "Speranza deve andarsene". Le novità che emergono oggi sulla lunga querelle che ruota attorno all’indagine della procura di Bergamo, nata dalle denunce presentate dai familiari delle vittime e poi allargatasi fino a Roma e Ginevra sono a dir poco esplosive. I filoni sono numerosi. Da una parte i sei indagati per epidemia colposa e falso, che riguardano soprattutto il focolaio bergamasco e in Val Seriana. Dall’altra la bufera sul dossier Oms scritto da Francesco Zambon e subito ritirato, al centro di un intrigo internazionale che coinvolge la Cina, i vertici dell’Organizzazione mondiale della Sanità e il nostro ministero della Salute, accusato di aver fatto pressione per ritirare il report che definiva “improvvisata, caotica e creativa” la risposta italiana al virus. Infine, sullo sfondo resta la questione del piano pandemico italiano: sebbene fermo al 2006 senza aggiornamenti, molti ritengono che contenesse indicazioni comunque utili ad affrontare un'epidemia sconosciuta. Il Piano però venne “scartato” dalla task force del ministero, che preferì redigere da zero un nuovo documento - definito “piano segreto” - sulla base degli scenari epidemiologici di Stefano Merler. Tra poche settimane i pm bergamaschi, coordinati da Maria Cristina Rota, dovrebbero chiudere le indagini. E non sono esclusi nuovi avvisi garanzia, anche eccellenti.

Il dossier Oms ritirato

Partiamo dal dossier Oms. Report nei giorni scorsi ha pubblicato alcune chat di Speranza e Brusaferro che mostrerebbero come il dicastero avrebbe tentato di “far morire” il rapporto facendo pressioni sull'Oms. In Parlamento, Speranza disse che la scelta di ritirarlo fu presa in autonomia da Ginevra. Posizione che, stando al Domani, avrebbe ribadito di fronte ai magistrati. Gli sms però sembrano dire il contrario, o almeno che l’Italia si mosse per evitare che venisse ripubblicato: “Sto guardando il report dell’Oms. Con Kluge (direttore Oms Europa, ndr) sarò durissimo. Danni enormi non mi pare ne faccia. Forse solo sui decessi”, scrive il 14 maggio il ministro a Brusaferro. Più tardi aggiunge: “[Kluge] mi ha chiamato. Si è scusato. Ho ribadito che al momento non facevo commenti sui contenuti ma sul metodo. Ha confermato che lo ha ritirato e che si propone di discuterlo con noi. Credo faranno un'indagine interna sulle responsabilità”. Poche ore dopo, in una mail, Kluge stesso riferirà a Zambon l’irritazione del ministro “molto infastidito” da quanto successo. Qui le domande sono due: Speranza fece pressioni per non far ripubblicare il dossier? E ha mentito al Parlamento e ai giudici in qualche occasione? Secondo Chiappani sì, dichiarazione che potrebbe preludere all’inclusione del ministro nel registro degli indagati per false dichiarazioni rese ai pm. Come avvenuto per Ranieri Guerra.

Il piano pandemico e il piano segreto

Altra partita quella del piano pandemico e del piano segreto, ricostruita nel Libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Come noto l’Italia ne aveva uno disponibile, per quanto non aggiornato. Per Speranza Sars-CoV-2 è un patogeno “totalmente nuovo”, diverso dai partenti Sars e Mers, dunque era “del tutto evidente che il Piano mandemico antinfluenzale del 2006 non era sufficiente”. Questo documento sarebbe stato “valorizzato” solo nelle parti “utili e funzionali”, per poi cercare di “andare decisamente oltre”. Decisione che in molti contestano. Intanto perché il 5 gennaio l’Oms inviò un alert suggerendo di mettere in pratica le misure di sanità pubbliche, comprese quelle sulla sorveglianza dell’influenza. Poi perché anche Guerra ritiene che il piano fosse “valido” e utile, così come se ne è convinto Andrea Crisanti, consulente della procura bergamasca. E infine perché il 29 gennaio il direttore dello Spallanzani, Giuseppe Ippolito, suggerì durante la task force di “riferirsi alle metodologie del piano pandemico di cui è dotata l’Italia e di adeguarle alle linee guida rese pubbliche dall’Oms”. Perché non venne fatto? E perché Brusaferro&co decisero di istituire, in seno al Cts, un gruppo di lavoro per redigere un “nuovo” piano, poi secretato? 

Domande cui la procura, dopo aver sentito decine di persone, compresi Speranza, Conte e i vertici del ministero, sta cercando di dare una risposta. A partire da quella più politicamente scottante: è vero, come ritiene il procuratore Chiappani, che il ministro "non ha raccontato cose veritiere”?. “Se davvero ha mentito ai Pm questo mi pare sia abbastanza grave - dice al Giornale.it Consuelo Locati, a capo del team di legali dei parenti delle vittime - non solo sul piano penalistico ma anche su quello civilistico e, in questo modo, si spiega la poca fiducia che ancora oggi milioni di cittadini dimostrano di avere nei confronti del suo dicastero e degli atti dallo stesso emanati. Attendiamo fiduciosi gli sviluppi dell'indagine condotta dalla Procura di Bergamo e confidiamo nella giustizia, inclusa quella civilistica ". 

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro

"Ha mentito". Ora Speranza risponda a queste 12 domande. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini il 30 Novembre 2021 su Il Giornale. Il piano segreto, i verbali della task force, la zona rossa, il dossier Oms: le risposte che il ministro Speranza dovrebbe fornire. Per dovere di cronaca va detto subito. Ieri, dopo che il Domani ha pubblicato le dichiarazioni del pm Antonio Chiappani, che accusava di fatto Roberto Speranza di aver mentito (“non ha raccontato cose veritiere”), lo stesso procuratore capo a Bergamo s’è sentito in dovere di diffondere una nota. “In merito alle notizie stampa circa asserite dichiarazioni non veritiere fornite a questa procura dal ministro Speranza, si precisa che sul punto, allo stato attuale, non è ipotizzabile alcuna specifica contestazione”. Tradotto: non è stato iscritto nel registro degli indagati. Però “sono in corso i doverosi approfondimenti”, quindi chissà. E soprattutto la nota precisa qualcosa, ma non smentisce nulla. Restano dunque quelle frasi pesanti (“non ha raccontato cose veritiere”), che fanno sorgere più di un dubbio sull’operato del ministro di Leu. “Speranza deve andarsene”, dice Galeazzo Bignami di Fratelli d’Italia”, perché “sta mentendo sistematicamente dall'inizio della pandemia con l'unico scopo di salvare la propria poltrona”. Dal canto nostro, più che l’aspetto giuridico del caso (i pm decideranno come muoversi, e si è innocenti fino a prova contraria) qui ad interessare è quello politico. Ed è forse arrivato il momento per il ministro di rispondere ad alcune domande sul suo operato nella prima fase dell’epidemia. Ce ne sarebbero 150 da fare, ci limiteremo a 12.

Era al corrente del fatto che l’Italia avrebbe inviato auto-valutazioni poco veritiere all’Oms sulla “preparazione” dell’Italia in caso di pandemia?

Perché, insieme ai tecnici della task force e del Cts, decise di non attuare il piano pandemico anti-influenzale, che pure diversi esperti (Crisanti e Guerra, giusto per citarne due) ritengono potessero essere utili a frenare il contagio?

Il 18 aprile in tv lei disse che il piano pandemico “secondo i nostri tecnici non era sufficiente per il Covid e così ne abbiamo messo a punto uno specifico” Eppure il 29 gennaio, all’interno della task force, Giuseppe Ippolito consigliò di “riferirsi alle metodologie del piano pandemico” e di “adeguarle alle linee guida rese pubbliche dall’Oms”. Perché non dargli retta?

Non è che, per caso, creare un nuovo “piano” serviva a coprire la mancanza di un piano pandemico aggiornato?

Perché il “piano” nuovo di zecca, poi secretato dal Cts, non venne condiviso con le Regioni, come rivelato dal Libro Nero del coronavirus?

Perché, nonostante le richieste da più parti, il governo non chiuse la Val Seriana in Zona Rossa?

Perché il suo ministero si è opposto in giudizio alla pubblicazione prima dei verbali della task force e poi del testo del “piano segreto” anti Covid?

In Parlamento lei ha detto di non aver mai interferito con l’Oms sulla questione del dossier redatto da Francesco Zambon. Eppure la corrispondenza con Brusaferro sulle telefonate con Kluge ("con Kluge sarò durissimo", Kluge "si è scusato. Ha confermato che lo ha ritirato e che si propone di discuterlo con noi") sembrano dire il contrario. Quale è la verità?

Come mai il suo capo di Gabinetto, Goffredi Zaccardi, investito dalla polemica sul dossier Oms, si è dimesso nel silenzio dei media?

Perché non ha chiesto al Viminale di lasciar perdere i ricorsi al Consiglio di Stato e di rendere pubblici gli atti che portarono al ritiro delle truppe pronte per chiudere in zona rossa la Val Seriana?

Come mai Ranieri Guerra disse che “uno degli out out di Speranza è stato sempre il poter riferirsi a Oms come consapevole foglia di fico per certe decisioni impopolari e criticate”?

Il 12 febbraio il segretario generale del ministero avvisò la task force che sul fronte “mascherine” non giungevano “buone notizie”. Disse: “La disponibilità dei dispositivi è limitata”. Perché il suo ministero non impedì a Di Maio di spedire in Cina 18 tonnellate di materiale sanitario?

E poi l'ultima domanda extra, se ci permette. Si è mai pentito di aver investito il suo tempo da ministro per scrivere un libro, il suo, che è stato costretto a ritirare dalle librerie perché preannunciava una pronta guarigione dal virus? Noi l'abbiamo letto. E - guarda caso - non risponde a nessuno di questi quesiti.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, giocare a basket e coltivare la terra. 

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia. Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore). Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Lorenzo Mottola per "Libero quotidiano" il 30 novembre 2021. «Il ministro Speranza non ha raccontato cose veritiere, anche questo dovremo valutare». Non capita spesso che un magistrato a indagine in corso rivolga considerazioni di questo genere nei confronti di presunti inquisiti. E la cosa fa particolarmente effetto se l'inquisito in questione è al governo. Il pm si chiama Antonio Chiappani, è procuratore a Bergamo e fa parte della squadra che ormai da mesi scava per individuare eventuali responsabilità nello tsunami sanitario che ha colpito le valli lombarde nelle primissime fasi della pandemia. Per chi si fosse perso qualche puntata, parliamo delle investigazioni che la gran parte dei quotidiani avevano salutato come il giusto castigo nei confronti della giunta di Attilio Fontana, su cui all'epoca piovevano accuse di ogni genere. Approfondendo quanto successo, tuttavia, gli inquirenti sono finiti su strade completamente diverse da quelle previste, quelle che fatalmente portano a Roma. A rischiare il processo, oltre a una lunga serie di funzionari e tecnici, ci sono Giuseppe Conte e Speranza, il quale è già stato sentito due volte. E sulle sue dichiarazioni pesano dubbi. La discrepanza più evidente, come riporta il Domani, riguarda un report dell'Oms che conteneva una serie di giudizi pesantissimi nei confronti del nostro governo riguardo alla gestione dell'emergenza («caotica, improvvisata e creativa»). Un documento del quale Speranza anche di fronte al Senato aveva detto di non aver mai chiesto la distruzione o comunque la modifica. In realtà, delle intercettazioni pubblicate da Report hanno dimostrato l'esatto opposto: Speranza si è lamentato («sarebbe un incidente diplomatico») e le carte sono poi state fatte sparire. Un caso? Altro punto nodale è il famoso "piano pandemico", che il governo sarebbe stato tenuto ad aggiornare periodicamente ma che nessuno curava dal 2006. Speranza e i tecnici del Cts hanno successivamente spiegato che si trattava di un non-problema, in quanto qualsiasi miglioria si sarebbe rivelata inutile per affrontare quello che è successo. Peccato che poi sia arrivata la pubblicazione dei verbali "segreti" delle riunioni dello stesso Cts, che oltre a rilevare la totale sottovalutazione del problema (a metà febbraio 2020 i nostri scienziati sentenziavano che «il virus non gira in Europa», salutavano la spedizione di mascherine in Cina) hanno dimostrato che al ministero si erano posti eccome il problema. Alla fine, tuttavia, non se ne era fatto nulla. Il viceministro Pier Paolo Sileri ha poi rivelato: «Continuavano a dirmi che il piano pandemico era stato aggiornato. C'è voluta la procura di Bergamo per confermare che il piano era quello del 2006 e garantisco che nonostante una mail ricevuta il 15 di aprile del 2020, nella quale si diceva che era stato aggiornato al 2008-2009, ci sono stati soggetti all'interno di questo ministero che erano convinti che il piano era stato aggiornato». Come spiegato dalla procuratrice Maria Cristina Rota «all'inizio l'inchiesta era circoscritta alla mancata chiusura dell'ospedale di Alzano Lombardo», dopodiché «si è ampliata» e oltre al piano pandemico ha raggiunto la mancata istituzione della zona rossa di Alzano e Nembro. Il governo a più riprese ha lasciato intendere che dalla Regione non era arrivata alcuna richiesta formale. Il che è vero, ma resta che Speranza nel corso delle riunioni si era impegnato a chiudere tutto, come già fatto a Codogno. Era tutto concordato, le forze dell'ordine erano già state allertate ed erano pronte a presidiare l'area. In seguito è stato addirittura pubblicato il decreto per la zona rossa, dove figura la firma di Roberto Speranza, ma non quella di Conte. Proprio il premier, infatti, decise di fermare tutto. Cosa che successivamente ha dovuto ammettere anche di fronte ai pm, spiegando che si trattò di una decisione politica. Resta che anche su questo punto Speranza potrebbe aver delle cose da chiarire. La storia dell'inizio dell'epidemia in Italia è ancora oggi molto poco chiara. E questo vale soprattutto per per quanto riguarda il ruolo di Regione Lombardia. «Sta emergendo un quadro agghiacciante», dice oggi l'ex assessore Giulio Gallera, «siamo stati vittime di una campagna mediatica evidentemente diretta dall'alto». I magistrati di Bergamo dovrebbero chiudere l'inchiesta entro fine gennaio, si parla anche di colpi di scena per quanto riguarda gli avvisi di garanzia. Il termine per le indagini era stato fissato a giugno, ma i magistrati avevano ottenuto dal Gip una proroga per continuare a raccogliere materiale.  Anche per valutare le dichiarazioni di Speranza. Il pm Chiappani, tuttavia, ha chiarito: «Allo stato attuale, non è ipotizzabile alcuna specifica contestazione». In altri termini, non il ministro non rischia di essere incriminato per falsa testimonianza. Spiega ancora il magistrato, «Sono in corso ovviamente i doverosi approfondimenti e le valutazioni sulle dichiarazioni rese in atti da tutti i soggetti sentiti quali persone informate e sul materiale acquisito». A parlare, tra poche settimane, saranno le carte. 

Armando Di Landro per il "Corriere della Sera" l'1 dicembre 2021. L'unica certezza, nella vicenda del rapporto Oms pubblicato e poi ritirato, è la scomparsa di quel documento, che a maggio del 2020 criticava la gestione della prima fase della pandemia da parte dell'Italia. Su tutto il resto c'è una grande confusione. 

Procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, il ministro della Salute Roberto Speranza rischia qualcosa?

«Voglio essere chiaro. Allo stato non ci sono elementi per alcuna contestazione nei confronti del ministro».

Secondo indiscrezioni emerse dopo l'ultima audizione, Speranza aveva negato ingerenze sull'Oms. Alcune sue chat con Silvio Brusaferro paiono invece evidenziare un interessamento. Intervenne per far rimuovere il rapporto?

«Ripeto, non c'è nulla da contestare al momento. La verità è che ci sono molte incongruenze che riguardano più versioni date da più soggetti».

Troppe versioni diverse? Ci saranno contestazioni più avanti?

«Abbiamo rilevato molte incongruenze nelle parole di tante persone sentite. Adesso ci sono valutazioni da fare e migliaia di documenti da verificare, comprese le trascrizioni dei messaggi scambiati». 

Indagate sui morti di Bergamo, perché siete arrivati a questo livello?

«Noi cercavamo e cerchiamo di capire qual è stata la prima risposta delle autorità sanitarie alla pandemia. Se ci sono stati errori, omissioni o comportamenti sbagliati. E siamo incappati nella mancanza di aggiornamento del Piano pandemico. Più in generale direi che è stata saltata la fase "pre pandemica" e ci si è mossi con una gestione non programmata della crisi».

L'applicazione di un Piano pandemico (aggiornato o meno) avrebbe aiutato?

«Questo è l'oggetto della consulenza che abbiamo affidato al professor Andrea Crisanti. Il Piano è una linea programmatica ministeriale, andava applicato». 

Su questo ci sarà una contestazione penale?

«Vedremo cosa ci dirà Crisanti, ma credo che su questo ogni valutazione riguarderà l'apparato tecnico della nostra sanità, non quello politico».

L'apparato tecnico nazionale o regionale ha peccato con omissioni specifiche?

«Io dico che c'è stata una grande sottovalutazione del rischio, non aggiungo altro». 

Ma il mancato aggiornamento del Piano pandemico non sarebbe competenza della Procura di Roma?

«Dipende, se lo leggo come un nesso di causalità con i troppi morti della Bergamasca, no. Se lo considero un reato in sé allora la questione cambia».

Dove andrà questa inchiesta? Che risposta darete alle centinaia di famiglie che hanno presentato esposti?

«La strada è difficilissima, stanno arrivando archiviazioni da tutti i tribunali d'Italia. La giurisprudenza al momento non riconosce il reato di epidemia colposa omissiva».

E la mancata zona rossa a Nembro e Alzano?

«Abbiamo dovuto porci una domanda per rispondere a questo: il virus si sarebbe sviluppato comunque o no? La risposta non è assolutamente facile. Il punto è trovarsi a valutare un focolaio in un contesto pandemico più grande. E la stessa cosa vale per l'ospedale di Alzano. Va tenuto conto del cluster in cui era inserito. Solo così si possono dare risposte a troppi decessi». 

Ma la pandemia non è reato e nessun piano avrebbe potuto fermare il virus. La procura di Bergamo, attraverso il Domani, ci fa sapere che il ministro Speranza e i vertici del ministero della Salute rischiano seriamente di finire nei guai per la gestione dell'emergenza. Un nuovo processo alla scienza? di Davide Varì su Il Dubbio il 30 novembre 2021. Se non è un processo alla scienza poco ci manca. Dopo la famigerata inchiesta contro i vertici della protezione civile indagati per non aver previsto il drammatico terremoto de L’Aquila (sic!), oggi è la volta dei funzionari del ministero della Salute accusati dalla procura di Bergamo di “pandemia colposa”. Al momento non sarebbe coinvolto il ministro della Salute Speranza, ma i cronisti del Domani fanno capire che sì: il ministro probabilmente “finirà nei guai…”. In attesa di dettagli ci chiediamo un paio di cose. La prima: come è finita in mano ai giornali questa valanga di informazioni su un’indagine ancora aperta? E poi: davvero il procuratore di Bergamo ha riferito al giornalista del Domani la seguente frase: «Il ministro Speranza non ha raccontato cose veritiere, anche questo dovremo valutare»?

Se così fosse sarebbe assai grave che un procuratore, peraltro nei giorni in cui il Parlamento ha licenziato le nuove norme sulla presunzione di innocenza, si fosse lasciato andare a valutazioni di questo tipo. Soprattutto se riferite a un ministro della Repubblica che sta gestendo una crisi sanitaria di questa portata. Se invece, come crediamo e ci auguriamo, si dovesse trattare di uno scivolone del giornalista, allora il procuratore di Bergamo farebbe bene a smentire in modo circostanziato. Ma la cosa che davvero dobbiamo chiederci è un’altra, ovvero come sia possibile aprire un’inchiesta di questo tipo. Intendiamoci, per amore di verità dobbiamo dire che l’indagine è riferita al mancato aggiornamento del piano pandemico. Una sciatteria che però, di questo ne siamo certi, difficilmente può aver influito sulla diffusione del Covid o sul contenimento del numero dei decessi.

La verità è che nessuno avrebbe mai potuto prevedere una crisi sanitaria di questa gravità e nessun piano pandemico del mondo avrebbe potuto fermarla o soltanto arginarla; nessuno, infine, avrebbe mai immaginato di dover comprare migliaia di respiratori, di dover formare centinaia di nuovi sanitari, di gettare nella trincea degli ospedali decine di giovani specializzandi. Perché di questo stiamo parlando: di un evento che ha mandato in tilt le migliori sanità mondiali, compresa la nostra. E saremmo in malafede se dimenticassimo lo sconcerto della comunità scientifica mondiale di fronte a un virus sconosciuto, imprevedibile, inafferrabile e col quale ancora oggi, a distanza di quasi due anni, facciamo i conti. E la conferma di tutto questo sta nei numeri dei decessi dei paesi che avevano i piani pandemici aggiornati. I dati di Inghilterra, Germania, Francia, e di tutti gli altri Paesi con una popolazione molto simile alla nostra, sono del tutto in linea con quelli italiani. Parliamo di una forbice compresa tra i 115mila e 130mila morti. Circa 136mila in Inghilterra, 130mila decessi in Italia, 116mila in Francia e 101mila in Germania. Insomma, questa è la dimostrazione pratica che nessun piano pandemico avrebbe potuto evitare questa strage.

Ciò detto è comprensibile che una procura della Repubblica voglia veder chiaro. Ma chissà, una volta verificata la sostanziale inutilità del piano pandemico – di qualsiasi piano pandemico – avrebbe potuto decidere di archiviare. E non regge “l’alibi” dell’obbligatorietà dell’azione penale. È vero che un paio di anni fa la procura bergamasca ha ricevuto decine di denunce di familiari morti di Covid – e nessuno di noi dimenticherà mai le immagini strazianti che arrivavano da quella città -, ma è altrettanto vero che l’Articolo 112 della nostra Costituzione (Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale), è spesso usato in modo, come dire…discrezionale da parte di alcuni pm.

E per essere più chiari possiamo prendere in prestito le parole dell’ex magistrato Piero Tony: «L’obbligatorietà dell’azione penale non esiste né mai è esistita. Dunque, eccolo il senso di questa favola: non esiste discrezionalità da parte del magistrato e ogni notizia di reato che istruisce non è frutto della sua volontà ma di un procedimento meccanico. Io ricevo, dunque agisco. Bene, questa storia è una simpatica barzelletta, un giochino da salotto. La verità è che in ogni ufficio giudiziario ci sono, e non possono non esserci, delle scelte prioritarie, anche formalizzate. E il motivo è banale: la macchina della giustizia non riesce ad affrontare milioni di processi. Deve sempre scegliere quali consegnare alla prescrizione e quali no». Tutto chiaro, no?

Inchieste. Epidemia colposa, ammissioni e nuove carte. L'ombra della Procura su Conte. Felice Manti il 9 Ottobre 2021 su Il giornale. Indagati e consulenti smontano la ricostruzione del governo sulla gestione. Non c'è solo il caso Di Donna a turbare i sonni dell'ex premier Giuseppe Conte. Sul neo leader M5s si allunga sempre di più l'onta del processo per epidemia colposa, assieme al ministro della Salute Roberto Speranza, al suo stretto entourage al ministero (il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi si è dimesso a sorpresa qualche settimana fa), fino all'ex numero due Oms Ranieri Guerra (Dg della Prevenzione tra il 2014 e il 2017) e ai vertici del Cts e dell'Iss. Quando uscì la notizia di Conte indagato, qualche manina si affrettò a scrivere che si trattava di «un atto dovuto e che le accuse sarebbero state infondate», ma la Procura di Bergamo la pensa diversamente. Certo, la famosa commissione d'inchiesta parlamentare sul Covid che dovrebbe insediarsi tra il 20 e il 22 ottobre rischia di diventare una barzelletta per colpa degli emendamenti di Pd, Lega e M5s che ne hanno depotenziato lo spazio di manovra, limitandone il campo d'indagine al 30 gennaio 2020 e ai Paesi di origine del Covid. Ma ad oggi alcune ammissioni dei protagonisti dimostrerebbero anche che alcune decisioni di Palazzo Chigi, nei giorni tra lo scoppio dell'epidemia a Wuhan e il primo caso conclamato a Codogno, avrebbero aggravato la pandemia anziché frenarla. C'è una cartella clinica (di cui ha parlato il Giornale, recapitata in forma anonima al team di legali dei familiari delle vittime della Bergamasca e oggi in mano ai pm) di un 54enne cinese della Valle Seriana ricoverato il 26 gennaio 2020 all'ospedale di Seriate con sintomi Covid, che sposterebbe di un mese lo scoppio dell'epidemia Covid in Italia, anche se c'è chi pensa (come Giorgio Palù) che il virus fosse in Italia già a settembre. Ma al paziente non venne fatto il tampone per la retromarcia di Speranza, su pressione delle Regioni. La motivazione? «La mancanza di risorse», come ha rivelato ai microfoni di Francesca Nava per Presa Diretta l'ex Dg della Prevenzione del ministero della Sanità Claudio d'Amario, successore di Guerra. C'è un documento che rivela come l'Italia avrebbe disatteso anche le richieste Ue sui test ai viaggiatori provenienti da Wuhan, innescando il cluster nel cuore dell'Europa. Governo e Regioni non avevano né soldi né reagenti, sebbene fossero previsti dal piano pandemico del 2006, ignorato e non aggiornato dallo stesso Guerra e D'Amario. Tanto che secondo un medico di Bergamo «se si faceva un tampone ad un paziente nel febbraio 2020, e se era negativo, chi lo aveva fatto correva il rischio di pagarselo di tasca propria». C'è il nodo della mancata chiusura di Alzano e Nembro, ipotizzata il 23 febbraio e sfiorata il tre marzo. Che bisognasse chiudere subito lo dice anche l'Avvocatura dello Stato in un passaggio della memoria difensiva. Quanti morti è costata? Migliaia, secondo il report del generale Pier Paolo Lunelli, consulente dei legali delle vittime: «Se si fosse chiuso anche il 27 febbraio ci sarebbero stati solo 61 morti over 65», ha detto ai pm. Decisiva in merito sarà la consulenza del professor Andrea Crisanti, in arrivo entro fine anno. Poi c'è la clamorosa ammissione di colpa, forse tardiva, di alcuni dei principali protagonisti. In un libro in uscita in questi giorni Guerra, sospettato dai pm di aver fatto pressioni sull'ex funzionario dell'ufficio Oms di Venezia, Francesco Zambon perché non rivelasse in un report (misteriosamente sparito e in mano ai pm) le falle del governo, spara contro Speranza sulle mascherine donate alla Cina e sul piano pandemico disapplicato. Persino per il consulente di Speranza Walter Ricciardi «serviva la quarantena obbligatoria di chi, anche asintomatico, tornava da zone a rischio». Per il sindaco di Bergamo Giorgio Gori «la partita Atalanta-Valencia non andava giocata». Pentimenti tardivi per evitare guai giudiziari? Lo sapremo presto. Felice Manti

Coronavirus, a Cassino un dipendente comunale si contagia e muore. La mossa della famiglia: qua salta l'Italia. Libero Quotidiano il 28 settembre 2021. Un risarcimento di 500mila euro: è quanto chiedono all'Inail i familiari di una dipendente del comune di Cassino morta di Covid la scorsa primavera, dopo aver contratto l'infezione presumibilmente sul posto di lavoro. Secondo quanto sostiene la famiglia, infatti, la donna si sarebbe ammalata al lavoro, visto che la sua mansione prevedeva il contatto diretto con il pubblico. Dopo aver preso il virus e manifestato i sintomi, le sue condizioni di salute si sono progressivamente aggravate, fino al ricovero ospedaliero e alla terapia intensiva. Infine il decesso, avvenuto a seguito di alcune complicanze sopraggiunte, che le sono purtroppo risultate fatali. "Le patologie infettive contratte in occasione di lavoro sono inquadrate e trattate come infortunio sul lavoro dal momento che la causa virulenta è equiparata alla causa violenta propria dell'infortunio, anche nell'ipotesi in cui gli effetti propri del contagio si manifestino dopo un certo lasso di tempo", ha detto al Messaggero il legale della famiglia. L'avvocato, infine, ha aggiunto: "Il riconoscimento dell'origine professionale del contagio si fonda su un giudizio di ragionevole probabilità che l'infezione sia avvenuta in contesto lavorativo ed è del tutto estraneo a qualsivoglia valutazione circa l'imputabilità di eventuali comportamenti omissivi in capo al datore di lavoro che ne possano aver determinato il contagio".

La decisione della Corte. La Consulta “assolve” Conte e i suoi Dpcm: “Legittimi per il contrasto al Covid”. de Il Riformista il Fabio Calcagni de Il Riformista il 23 Settembre 2021. La Consulta boccia le prime censure ai Dpcm, i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, firmati dall’ex premier Giuseppe Conte per le misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica provocata dall’epidemia di Coronavirus. La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni sollevate dal Giudice di pace di Frosinone sulla legittimità costituzionale dei decreti legge n. 6 e n. 19 del 2020 sull’adozione dei Dpcm ‘anti Covid’. Nel caso concreto, un cittadino aveva proposto opposizione contro la sanzione amministrativa di 400 euro inflittagli per essere uscito dall’abitazione durante il lockdown dell’aprile 2020, in violazione del divieto stabilito dal Dl e poi dal Dpcm. Secondo il Giudice di pace, i due decreti legge avrebbero delegato al Presidente del Consiglio una funzione legislativa e perciò sarebbero in contrasto con gli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto inammissibili le censure al Dl n. 6, perché non applicabile al caso concreto. Ha poi giudicato non fondate le questioni relative al Dl n. 19, poiché al Presidente del Consiglio non è stata attribuita altro che la funzione attuativa del decreto legge, da esercitare mediante atti di natura amministrativa. 

LA REAZIONE DI CONTE – Ovviamente soddisfatto l’ex presidente del Consiglio Conte, ora leader del Movimento 5 Stelle. Impegnato in un punto stampa a Roma prima del comizio a villa Lazzaroni con Virginia Raggi, Conte ha spiegato che “le notizie che arrivano dalla Consulta ci confortano, sul fatto che siano state respinte le censure contro il nostro operato e i Dpcm. Ma, lo dico da giurista, quando si tratta di mettere in sicurezza il Paese nulla deve fermare chi ha una responsabilità di governare il Paese”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Le dosi soddisfano i 5 requisiti necessari per imporle con una legge. Via libera a vaccini obbligatori e green pass, respinti tutti i ricorsi: le 5 condizioni necessarie. Salvatore Curreri su Il Riformista il 29 Agosto 2021. Per quanto interlocutoria, la decisione con cui la Corte europea dei diritti dell’uomo, lo scorso 24 agosto, ha provvisoriamente respinto la richiesta di 672 vigili del fuoco francesi di misure cautelari contro la legge che impone loro di vaccinarsi contro il Covid-19 s’inserisce in un sempre più consistente filone giurisprudenziale favorevole all’introduzione di simili obblighi. Tale decisione, infatti, fa seguito a quella – stavolta definitiva e per di più presa dalla Grande Camera della stessa Corte europea – che, lo scorso 8 aprile, ha respinto il ricorso di alcuni genitori contro la legge della Repubblica ceca che, come da noi, vieta l’iscrizione alla scuola d’infanzia ai bambini non vaccinati. In Francia il Consiglio costituzionale, lo scorso 5 agosto, non ha bocciato né l’obbligo di vaccinazione per gli operatori sanitari, né le limitazioni introdotte per chi non ha il c.d. green pass, ritenendole un ragionevole punto di equilibrio tra la tutela della libertà di circolazione e quella della salute collettiva. Nel nostro paese, i Tribunali di Belluno (23 marzo) e Modena (23 luglio), pronunciandosi sulle sospensioni dal servizio senza retribuzione adottate nei confronti di personale sanitario rifiutatosi di vaccinarsi contro il Covid-19 ancor prima che per costoro fosse introdotto il relativo obbligo (art. 4 decreto legge n. 44 del 1° aprile 2021), avevano comunque ritenuti tali provvedimenti fin da allora legittimi in forza dell’obbligo del datore di lavoro di garantire la salute e la sicurezza degli altri dipendenti e degli stessi pazienti. Ad analoga conclusione è pervenuto il Tar di Lecce (4 agosto), respingendo l’istanza cautelare di un dipendente dell’Asl di Brindisi sospeso dal servizio perché non vaccinato. Infine il Tribunale di Roma (28 luglio) ha ritenuto legittimo il provvedimento con cui un villaggio turistico (settore produttivo in cui non è previsto l’obbligo di vaccinazione) ha deciso di sospendere dall’attività e dalla retribuzione una dipendente dichiarata dal medico competente parzialmente inidonea a svolgere le sue mansioni perché non poteva “essere in contatto con i residenti del villaggio”. Il fatto che tutti coloro che hanno fatto ricorso al giudice, nazionale e no, per contestare la legittimità (costituzionale) degli obblighi vaccinali si sono visti puntualmente respingere le loro pretese non si deve alla #dittaturasanitaria-ordita-percomplotto-giudaicomassonico-daipoteriforti-edellecasefarmaceutiche-controlenostrelibertà – come (senza hashtag) avrebbe un tempo scritto la Fallaci per metterli alla berlina – ma, più semplicemente, per l’inconsistenza scientifica e giuridica degli argomenti opposti, frutto di una visione egoistica e individualista inevitabilmente recessiva di fronte all’interesse pubblico di contrastare la diffusione della pandemia da Covid-19. Come più volte chiarito dalla Corte costituzionale, trattamenti sanitari obbligatori collettivi, come sono le vaccinazioni, possono essere imposti dallo Stato per legge (il che permette la discussione parlamentare, e quindi pubblica, su di essi), alle seguenti cinque condizioni:

1) va preventivamente dimostrata in sede scientifica l’efficacia delle vaccinazioni nel prevenire e debellare malattie infettive e diffusive. Si obietta: i vaccini contro il Covid-19 sono in fase sperimentale per cui non possono essere imposti perché non se ne conoscono gli effetti a lungo termine. Replico: i vaccini sono stati approvati dalle autorità competenti italiane e straniere (v. da ultimo l’approvazione definitiva del Pfizer da parte della Food and drug administration Usa) in tempi più rapidi del previsto grazie a un sistema di revisione su scala mondiale e progressiva; in ogni caso che oggi la massima parte dei ricoverati e deceduti sia non vaccinata dimostra inequivocabilmente la loro efficacia. Infine, quanto agli effetti a lungo termine, costoro dovrebbero trovare il coraggio di spiegare ai parenti di quanti deceduti non vaccinati, che hanno fatto bene a non sottoporsi alla vaccinazione perché sperimentale…

2) la vaccinazione deve tutelare la salute non solo individuale ma anche collettiva. Essa infatti è legittima solo se diretta «non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale» (C. cost. 307/1990). Chi, appellandosi all’art. 32 Cost., oppone che non si possono introdurre trattamenti sanitari obbligatori lesivi del rispetto della persona umana dovrebbe dimostrare, contrariamente a ogni evidenza come sostenuto al punto 1), che ci troviamo di fronte a un trattamento sanitario a beneficio della salute della collettività ma a scapito di quella del singolo. Forse vale la pena ricordare a costoro che tale limite fu introdotto in Assemblea costituente, su proposta di Aldo Moro, per evitare che lo Stato potesse, come nel programma nazista Aktion 14, imporre pratiche sanitarie eugenetiche “per il miglioramento della razza” radicalmente lesive della dignità umana, come la soppressione o sterilizzazione obbligatoria degli handicappati e dei portatori di malattie ereditarie o l’uso di pazienti vivi per sperimentazioni mediche. Il che svela l’abnormità del paragone e la mancanza di senso di misura e di proporzioni di chi si appella a un simile limite.

3) la vaccinazione non deve incidere “negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle solo conseguenze che appaiono normali e, pertanto, tollerabili” (C. cost., 5/2018, 8.2.1) o siano comunque marginali e statisticamente inevitabili (C. cost., 118/1996, 4). Pertanto, le vaccinazioni non sono di per sé incostituzionali quando per eliminare una malattia infettiva comportano purtroppo il rarissimo ma inevitabile rischio di conseguenze di salute negative per chi vi si sottopone. In tali casi, infatti, il legislatore, pur essendo dinanzi a una “scelta tragica”, giacché «sofferenza e benessere non sono equamente ripartiti tra tutti, ma stanno integralmente a danno degli uni o a vantaggio degli altri» (C. cost., 118/1996), può privilegiare la salvezza dei molti rispetto al sacrificio dei pochi;

4) in forza di questa dimensione solidarista, chi, a causa di una vaccinazione subisce una menomazione permanente della propria integrità psico-fisica ha diritto a essere non solo risarcito ma anche indennizzato nonché a ricevere misure di sostegno assistenziale. Ciò a prescindere che la vaccinazione sia obbligatoria o promossa dalle pubbliche autorità in vista della sua capillare diffusione nella società. Difatti, così come il singolo espone a rischio la propria salute per un interesse collettivo, egualmente la stessa collettività deve essere disposta a condividere il peso delle eventuali remote conseguenze negative che egli può subire (C. cost. 27/1998). La tesi, amplificata dalla Meloni, per cui lo Stato non introduce l’obbligo vaccinale per non dover pagare indennizzi non è quindi vera.

5) infine, il sacrificio della libertà di autodeterminazione personale deve essere proporzionale e ragionevole rispetto all’interesse della collettività al non diffondersi della malattia. Pertanto, in un’ottica di bilanciamento tra mezzi e fini, la vaccinazione può essere dapprima solo raccomandata, poi prevista come onere o requisito obbligatorio temporaneo per chi vuole compiere determinate attività sociale o economiche (c.d. green pass), infine resa obbligatoria per tutti. Questa è esattamente la prudente strada finora perseguita da tutti i governi, compreso il nostro. Il rispetto di queste cinque condizioni fa sì che nulla osti sul piano costituzionale perché la strada finora percorsa venga completata, introducendo – se la maggioranza parlamentare lo riterrà opportuno – l’obbligo vaccinale per tutti. Salvatore Curreri 

Vittorio De Vecchi Lajolo per ilfattoquotidiano.it il 21 settembre 2021. Gad Lerner sostiene che i non vaccinati andrebbero “dichiarati fuori legge” esattamente come gli evasori fiscali. L’idea non è originalissima: ci aveva già pensato Roberto Burioni qualche mese fa a lanciare l’anatema dell’evasione fiscale, salvo poi invertire la rotta per definire i non vaccinati più sobriamente “sorci”. Più recentemente, Giuliano Cazzola ha invocato i cannoni di Bava Beccaris per fare piazza pulita dei no-vax, mentre Renato Brunetta auspica un progressivo “schiacciamento” (cit.) dei non vaccinati ai margini della vita sociale. Su tutto aleggia il soave monito del Presidente della Repubblica, secondo cui “non si può invocare la libertà per non vaccinarsi”. Pochi chilometri più a nord, in Germania, nessun partito sostiene l’obbligo vaccinale: anche Olaf Scholz, possibile futuro cancelliere, lo ha escluso categoricamente. La Frankfurter Allgemeine (il secondo quotidiano del paese, di orientamento liberal-conservatore) ad agosto pubblicava un articolo dall’eloquente catenaccio “Non è compito dello Stato proteggere il cittadino da se stesso”. Diversi costituzionalisti, tra cui il prof. Alexander Thiele dell’università di Gottinga ritengono che l’obbligo sarebbe giustificabile solo qualora il fenomeno epidemico divenisse completamente incontrollabile. Il 13 settembre 2021 la Süddeutsche (primo quotidiano del paese, di orientamento liberal-progressista) pubblica un articolo sulla recente decisione del governo federale di mettere il turbo alla campagna vaccinale creando centri vaccinali pop-up un po’ dappertutto (in autobus, allo zoo di Berlino, presso alcuni chioschi di kebabbari etc.) per convincere gli indecisi – tesi di fondo: è un errore aumentare la pressione, giusto invece migliorare informazione e disponibilità. Sulla stessa linea il telegiornale della prima rete televisiva pubblica ARD, in cui la psicologa e professoressa dell’università di Costanza, Katrin Schmelz, si spinge fino a sostenere che l’obbligo in queste condizioni sarebbe un errore, perché la propensione a vaccinarsi (ovviamente) è molto più alta quando esiste una scelta, che quando si è costretti ad adempiere ad un obbligo. La mascherina obbligatoria generalizzata (anche all’aperto) in Germania non è mai esistita. Ancora oggi, il green-pass all’italiana è completamente sconosciuto: non serve nel trasporto pubblico e neanche i lavoratori del settore sanitario sono soggetti a obbligo vaccinale (ma ad obbligo di tampone). E, naturalmente, nessuna persona si azzarda a definire pubblicamente i non vaccinati sorci, evasori fiscali, gente da mettere fuori legge, da schiacciare o da prendere a cannonate. Sarà perché in Germania ormai sono tutti vaccinati? No, anzi: “solo” il 62,7% della popolazione è completamente immunizzato[1], contro il 68% [2] di quella italiana. Allora forse in Germania non esistono no-vax? Falso anche questo, come dimostrano le manifestazioni (ben più frequentate degli sparuti drappelli di no-vax italiani) che hanno invaso Berlino, Stoccarda, Monaco, Amburgo e tante altre città. Allora si vede che in Germania ci sono meno casi, meno contagi e dunque il problema è percepito come meno urgente? No, anche su questo i numeri non mentono: secondo i dati più recenti, l’incidenza settimanale in Germania è di 76,3 casi per 100.000 abitanti contro i 64 dell’Italia. Forse che la legge tedesca non consente l’introduzione di un obbligo? Sbagliato: anche la legge fondamentale della Repubblica Federale – seppur in modo meno esplicito dell’art. 32 della Costituzione Italiana – riconosce la possibilità di introdurre un obbligo di vaccinazione per le categorie a rischio (che, in astratto, potrebbero anche coincidere con l’intera popolazione). Insomma, o la Germania [3] sta commettendo un azzardo spaventoso, oppure in Italia regna una psicosi collettiva. Sicuramente si fa largo un sospetto: che, semplicemente, non sia necessario spingersi a tali estremi. Forse la sensibilizzazione degli indecisi può avvenire sulla base di dati scientifici presentati in modo trasparente (cioè nell’unico modo che la scienza ammette) invece che sulla base di volgari – a mio avviso – invettive moraliste; forse nel dibattito pubblico è possibile dissentire senza perdere il rispetto che in una democrazia è dovuto a tutti, anche a chi sostiene posizioni estreme, assurde, non condivisibili; forse in un sana democrazia liberale il governo sostiene il cittadino a fare scelta consapevole invece di obbligarlo a seguire le sue direttive con paternalismo ottocentesco.

[2] Il dato del governo (oltre il 70%) si riferisce alla popolazione sopra i 12 anni. Sulla popolazione totale la percentuale è lievemente inferiore, intorno al 68%. [3] E non solo la Germania. Bisogna tener presente che nessun paese (salvo Indonesia e un paio di regimi autoritari centroasiatici) ha introdotto l’obbligo vaccinale contro il Covid (neanche la Cina), la Danimarca ha invece revocato tutte le misure di contenimento, nel Regno Unito il governo ha deciso di abbandonare l’idea del green-pass etc. In Italia, al contrario, due terzi della popolazione apparentemente sosterrebbero l’obbligo vaccinale.

Articolo su "El Pais" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 25 settembre 2021. Il ritmo della vaccinazione contro il Covid – leggiamo su El Pais - ha subito un rallentamento in molti paesi ricchi e, a differenza dei primi mesi della campagna di vaccinazione, quando ciò che mancava erano le fiale, ora mancano le braccia a cui iniettare il farmaco. In Spagna, più del 75% della popolazione ha già completato il programma di vaccinazione, ma questi alti livelli di copertura sono ancora una chimera in alcuni paesi vicini: gli Stati Uniti sono fermi a più del 50% e l'Italia a circa il 64%. La Francia è in testa con l'81%. Precisamente, mentre mezzo mondo lotta per procurarsi dei vaccini che sono ancora inaccessibili per loro, questi tre paesi, che hanno accumulato dosi inutilizzate, devono obbligare i loro cittadini a vaccinarsi. Con diversi gradi di severità, tutti e tre hanno optato per l'applicazione forzata: partendo dal più severo, l'Italia, che ha ordinato a tutti i lavoratori di essere vaccinati; alla direttiva degli Stati Uniti che impone la vaccinazione dei dipendenti federali; alla Francia, che ha ordinato agli operatori sanitari di essere vaccinati entro il 15 settembre. La polemica sulle vaccinazioni obbligatorie è inoltre balzata fuori dagli uffici scientifici e nelle strade: a Parigi, per esempio, gli attivisti anti-vaccini manifestano ogni sabato contro la direttiva del governo francese.

Italia: la prima nel mondo occidentale a renderlo obbligatorio

L'Italia è il primo paese del mondo occidentale a rendere la vaccinazione obbligatoria per tutti i lavoratori, una popolazione di circa 23 milioni di persone. La formula tecnica utilizzata evita, giustamente, di parlare di imposizione giuridica. Ma il decreto approvato dal governo di Mario Draghi giovedì scorso richiede il certificato verde che attesta di aver ricevuto il siero contro il covid-19 per poter lavorare: o come lavoratore autonomo o come dipendente in un'azienda. La garanzia sarà richiesta anche per l'assistenza domestica o i servizi a domicilio, come un idraulico. Queste categorie si aggiungono all'obbligo esistente di mostrare il pass verde in cinema, teatri, palestre e ristoranti. La misura, approvata all'unanimità dal Consiglio dei ministri, è stata accolta con favore anche dagli italiani. Nel centro di Roma, accanto alle rovine del Senato romano in Piazza Largo Argentina, il 28enne Daniel Polaco vende ogni giorno riviste e giornali nel suo chiosco. Nella piccola impresa lavorano lui, suo padre e un dipendente che ora dovrà anche ottenere un certificato verde. "Penso che sia giusto. Se stai a casa, non farti vaccinare, ma se esci, vai al ristorante o in palestra, devi farti vaccinare per motivi di sicurezza. Questa è una pandemia. Ed è vero che ogni lavoro è diverso. Se lo fai all'aperto, può sollevare dei dubbi, ma non puoi andare caso per caso”. All'inizio della pandemia, Polaco non la pensava così. Arrivò a dire che non si sarebbe fatto vaccinare. "Ho pensato che non c'era stato il tempo di studiarlo e di verificare che non ci fossero effetti collaterali. Ma ho vissuto in prima persona il dramma dei parenti morti e ho cambiato idea", dice. Le aziende si troveranno di fronte alla necessità di monitorare i loro lavoratori utilizzando un lettore di codici QR. I dipendenti che non rispettano la nuova regola saranno multati fino a 1.500 euro. Coloro che non hanno il certificato di vaccinazione saranno mandati a casa e, se non presentano il documento entro cinque giorni, saranno sospesi dal lavoro e dalla retribuzione. Marco Vitalli gestisce un negozio di abbigliamento in Via del Corso a Roma. Dodici persone lavorano su due turni. Il negozio è quasi sempre pieno di clienti e gli stessi impiegati ritengono che ci debba essere un controllo. Pietro Buonerba, che lavora nel negozio da quattro anni, non ha dubbi. "Ci sono 23 milioni di lavoratori in Italia. Se un piccolo gruppo decide di opporsi alla vaccinazione, ci mette tutti a rischio. Penso che la decisione sia valida, anche se può sollevare qualche dubbio sulla libertà di ognuno di agire come vuole. La situazione è estrema ed è importante agire in modo unito", dice. 

100 milioni di lavoratori colpiti negli Stati Uniti

La Casa Bianca ha ordinato ai dipendenti del ramo esecutivo e ai lavoratori federali di essere vaccinati contro il coronavirus, oltre a redigere un regolamento che richiederà lo stesso per le aziende con più di 100 dipendenti. "Sto esaurendo la pazienza", ha detto il presidente Joe Biden, annunciando la misura dopo che la variante delta del virus ha mandato i tassi di infezione in estate a livelli non visti da mesi, con più di 1.000 persone che muoiono ogni giorno, quasi tutte non vaccinate. In totale, quasi 100 milioni di lavoratori sono interessati, il che significa due terzi della forza lavoro statunitense. Tuttavia, la tradizione politica che prevale in questo paese, a cui ora si unisce la destra più recalcitrante sotto il marchio di Donald Trump, ha subito fatto scattare i campanelli d'allarme denunciando l'incostituzionalità del decreto presidenziale. La decisione del democratico è stata rapidamente contestata e in più di 24 stati i procuratori generali hanno fatto sapere alla Casa Bianca che se persiste nel renderla obbligatoria dovrà affrontare "azioni legali". La stragrande maggioranza di questi stati sono repubblicani e hanno un'alta incidenza di covid-19, come il Texas e la Florida. "È illegale", dice Marjorie Lansky, 52 anni, di Arlington, Virginia, a proposito dell'inoculazione obbligatoria. Il figlio della signora Lansky - Josh, un postino - è uno di quei casi che si trovano tra l'incudine e il martello: farsi vaccinare entro il periodo di grazia di 75 giorni concesso dall'amministrazione Biden o affrontare il licenziamento. L'unica eccezione per non rispettare l'ordine esecutivo di Biden è rivendicare motivi religiosi. Il figlio maggiore di Lansky non ne ha. Sua madre parla per lui e gli assicura che dovrà essere vaccinato anche se non lo ha fatto fino ad ora, per motivi puramente "personali" che non ha ancora specificato. Come Josh Lansky, circa 80 milioni di persone negli Stati Uniti hanno deciso di non essere vaccinati. Anche se il presidente ha avvertito che se "i governatori degli Stati non contribuiranno a fermare la pandemia" userà il potere conferitogli dalla presidenza, Biden è consapevole che non è possibile esigere la vaccinazione per tutti gli americani, poiché, dopo tutto, spetta a ogni Stato renderla obbligatoria. Con la Costituzione come testimone, che garantisce la sua libertà, e appellandosi alla separazione dei poteri, Jeff Cooper assicura che nessuno, nemmeno il presidente, può obbligarlo a sottoporsi all'ormai famoso colpo di pistola. "Siamo cavie nelle mani delle multinazionali farmaceutiche", dice il 48enne mentre lascia il suo lavoro al Dipartimento del Tesoro. Più del 53% degli americani ha ricevuto il corso completo di vaccini covid-19, secondo i Centers for Disease Control and Prevention (CDC). 

Francia: Macron vince la scommessa dei certificati Covid

La data è finalmente arrivata: 15 settembre. E quel giorno, i pochi operatori sanitari in Francia che non avevano fatto almeno una prima vaccinazione hanno cominciato a usare ogni sorta di stratagemma per salvare il loro lavoro. Senza vaccinazione, secondo la legge annunciata dal presidente Emmanuel Macron il 12 luglio e adottata in agosto, gli operatori sanitari non vaccinati rischiano la sospensione del lavoro e della paga. Maria, un'infermiera di 49 anni in un ospedale alla periferia di Parigi, si è messa in malattia una settimana fa. "Un po' a causa di questo [il vaccino], e a causa della stanchezza, e della fatica mentale e fisica: siamo sotto pressione. Se potessi scegliere, non lo prenderei", risponde. "Ma visto che non puoi scegliere..." E quando tornerà in ospedale? "Non lo so." Come altri operatori sanitari intervistati a Parigi per questa cronaca, Maria non ha voluto dare il suo cognome. Nora, che ha 59 anni e lavora nel reparto di radiologia di un altro ospedale, spiega che un amico medico ha firmato un certificato che la esenta dall'essere vaccinata. "Il mio corpo non può sopportare un corpo estraneo, né i farmaci", dice. Rachid, 45 anni, infermiere in un reparto di psicologia, è in vacanza. Il fatto che ora sia in vacanza, dice Rachid, è una coincidenza, ma gli permette di evitare, almeno fino al suo ritorno al lavoro in ottobre, la data critica a partire dalla quale ha affrontato un dilemma: o si vaccina o rimane in strada. In Francia, non c'è un obbligo diretto di vaccinare tutta la popolazione. Macron ha optato per un'altra strategia: incoraggiare la vaccinazione. In primo luogo, ha reso obbligatoria la presentazione di un certificato sanitario - che dimostra che il titolare è stato vaccinato o è risultato negativo in un recente test di covid-19 - per entrare in cinema, caffè, ristoranti, musei, treni a lunga percorrenza e aerei, tra gli altri spazi pubblici. Il messaggio: per divertirsi, bisogna vaccinarsi. L'altra parte della strategia consisteva nel costringere gli operatori sanitari a farsi vaccinare sotto la minaccia della disoccupazione. È stata una scommessa rischiosa per Macron, ma ha funzionato bene. In un paese in cui il 60% della popolazione era riluttante a vaccinarsi a gennaio, oggi l'81% è vaccinato, davanti a Regno Unito, Israele e Spagna. In un paese in cui lo scetticismo anti-vaccino tra gli operatori sanitari era preoccupante, oggi il 90% degli operatori sanitari sono stati vaccinati e, secondo il ministro della salute Olivier Véran, solo circa 3.000 sono stati temporaneamente sospesi dal lavoro, un numero esiguo in un settore che impiega 2,7 milioni di persone. Alcuni degli ultimi recalcitranti - come Maria, Nora e Rachid - erano alle varie manifestazioni di sabato a Parigi contro il certificato sanitario. Cédric Baron, uno psicologo di 39 anni che ha smesso di andare al lavoro mercoledì, era anche in uno di essi in piazza del Trocadero. Non è stato vaccinato e non ha intenzione di essere vaccinato. "Se fossi stato vaccinato", dice, "avrei mantenuto il mio lavoro".

Barbara Acquaviti per "Il Messaggero" il 20 novembre 2021. «Pacifico e conclamato». Il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, sceglie questi due aggettivi per spiegare perché, a suo giudizio, non ci sia alcun dubbio sul fatto che l'obbligo vaccinale sia costituzionale: «Se così non fosse vivremmo in perenne incostituzionalità da quando i vaccini sono stati introdotti per legge e definiti vincolanti salvo l'ipotesi in cui non possa essere somministrato per ragioni specifiche». 

Ora però la scelta dell'Austria, che lo imporrà da febbraio insieme alla posizione (favorevole) del presidente di Confindustria, riaprono il dibattito anche in Italia. Quali sono gli articoli della Costituzione a cui bisogna fare riferimento?

«L'articolo 16 è quello in cui si parla delle possibili limitazioni alla libertà di circolazione e soggiorno mentre l'articolo 32 è quello in cui si dice che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Entrambi esprimono un concetto che è già presente nell'articolo 2 della Costituzione: ci sono diritti fondamentali inviolabili della persona e ci sono i doveri inderogabili, tra cui quelli di solidarietà sociale. La mediazione tra i due punti va effettuata alla luce delle indicazioni costituzionali. E le indicazioni costituzionali sulla possibilità di introdurre l'obbligo vaccinale sono conclamate e pacifiche. A mio giudizio non c'è da discutere, come dimostrano i vaccini previsti per l'ammissione scolastica dei bambini». 

Se è così palese allora perché ci si ritrova a discuterne nuovamente nel pieno di una pandemia?

«Perché noi siamo capaci di discutere di tutto. Mi pare che il gusto di contraddire le decisioni dell'autorità sia troppo connaturato nella mentalità italiana. E invece è la scienza che deve formulare delle ipotesi, sperimentarle secondo la prassi e le regole, e quando ha i risultati li deve comunicare alla politica. Ed è quest' ultima che deve prendersi la responsabilità di attuare quello che la scienza suggerisce». 

Perché secondo lei non si è deciso di prevedere l'obbligo di vaccino sin dall'inizio?

«Noi purtroppo siamo un Paese con una situazione politica un po' instabile, con una maggioranza - e lo stiamo vedendo in questi giorni - non dico di emergenza, ma quasi. Io credo che abbiano pesato in primo luogo le difficoltà di introdurre una legge: quali sanzioni, quali metodi di accertamento? Un secondo motivo potrebbe essere il timore di una protesta ancora più violenta. La terza ragione, l'unica che mi sembra fondata purché sia previsto un limite e sia impedita la violenza, è stata la ricerca di persuasione. Una buona legge è quella che viene accolta dai destinatari, che viene capita o comunque accettata in nome della convivenza. Tutto questo un po' è mancato». 

Cosa ne pensa del caso Cunial, la deputata a cui è stato consentito, seppur con molti paletti, di accedere in Parlamento senza Green pass?

«Con tutto il rispetto per la Camera e per la sua sovranità, il fatto che una parlamentare che deliberatamente dica non faccio il vaccino e non ho Green pass venga ammessa tranquillante, mi dà da pensare. Tutto questo accade perché in fondo c'è un discorso di negoziazione nel Green pass. Non nasce come un obbligo, ma come un modo per dimostrare che non si è contagiosi. Io credo che la tendenza italica sia un po' quella di considerare la linea più breve per arrivare a congiungere due punti non la linea retta, come ci insegnavano nella geometria euclidea, ma la spirale». 

L'obbligo vaccinale può essere introdotto per decreto?

«Si può anche fare con decreto legge il quale però non è il toccasana, e ancor meno lo è il Dpcm di buona memoria. Esso è un'anticipazione urgente dell'assoluta necessità della legge e va convalidato entro 60 giorni dalle Camere. Quindi il timore è che poi venga bocciato per ragioni politiche alimentando ulteriori situazioni di confusione». 

Remuzzi: "Ecco perché l'obbligo vaccinale non deve essere un tabù". Marta Moriconi il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. Obiettivo: vaccinare più persone possibili. Il Giornale.it ne ha parlato con il direttore dell'Istituto Mario Negri, il professor Giuseppe Remuzzi. Nel decreto legge approvato ieri che detta "misure urgenti" per evitare che la pandemia mieta nuove vittime risalta tra le novità l’estensione dell'obbligo del vaccino a nuove categorie e l’istituzione del super Green pass a partire dal 6 dicembre. Obiettivo: vaccinare più persone possibili. Il Giornale.it ne ha parlato con il direttore dell'Istituto Mario Negri, il professor Giuseppe Remuzzi.

Il super Green pass che spetta solo a vaccinati o guariti per le attività ricreative la trova d’accordo? E’ una misura sufficiente?

“Siamo in una situazione che potrebbe evolvere o in più ricoveri e morti oppure che ci potrebbe premiare come i migliori d’Europa. Cosa succederà? Non siamo in grado di prevederlo ora, tanto più che abbiamo scoperto una nuova sottovariante della variante Delta negli Stati Uniti. Per questo dobbiamo fare il massimo sforzo proprio adesso, per ottenere più pazienti vaccinati possibili. Il super Green pass va nella giusta direzione”.

Cosa risponde a chi dice che il nostro Paese è stato fino a poco tempo fa l’unico Paese ad aver approvato regole tanto restrittive e limitanti?

“Nei dibattiti televisivi si ascoltano tanti discorsi qualunquisti. Abbiamo visto come stanno messi gli altri Paesi d’Europa. Se confrontiamo Italia, Spagna e Portogallo con Romania e Bulgaria e perfino se guardiamo più in là, alla Russia, la differenza è enorme. Noi abbiamo fatto meglio e lo abbiamo fatto sui tre fronti possibili: vaccino, Green pass e comportamenti individuali”.

Il super Green pass però, non obbligherà i bambini a fare il vaccino. Questo mentre proprio oggi arriva la notizia che l'Agenzia europea per i medicinali (Ema) ha approvato il vaccino di Pfizer per quelli tra 5 e 11 anni.

“Su Science e sul New York Times sono usciti di recente due importanti articoli in merito a questa delicata questione. Uno invitava a vaccinare i bambini riportando il calcolo che negli Usa finora sono stati ospedalizzati 8000 bambini dai 5 agli 8 anni non vaccinati e sono morti 172 di loro. E nessuno è morto di vaccino, quindi sono stati 172 bambini che sono morti per niente. L’altro articolo spiegava come la scelta di non dare un vaccino ai bambini non sia una scelta di libertà, ma la scelta di accettare un rischio diverso e molto più serio”.

Le potrebbero ribattere che sul bambino decidono i genitori…

“I bambini hanno i loro diritti, i genitori non possono decidere ad esempio, che non vadano a scuola, tanto è vero che si chiama scuola dell’obbligo”.

Ci pare di intuire che lei approvi l’estensione dell'obbligo del vaccino…

“L’obbligatorietà non è il mio mestiere, posso dire che l’obbligo non dovrà essere un tabù se il super Green pass non basterà. Per ora è buona come misura. Leggendo Giovanni Maria Flick si può capire come sia del tutto costituzionale obbligare le persone a vaccinarsi. Non voglio dire che si debbano obbligare, le soluzioni possono essere tante, la politica deve scegliere, noi diciamo solo che adesso si deve vaccinare il più possibile. Vaccinarsi è un dovere verso gli altri e la salute pubblica e la medicina non sono un’area per scelte personali. Come avrete notato, in questi due anni, le situazioni evolvono continuamente, e non si può lasciare un tema così al giudizio della gente. Che un vaccino possa durare cinque o quattro mesi etc, lo sappiamo solo verificandolo e man mano che arrivano i dati da chi ha fatto gli studi. I cittadini devono essere informati al meglio ma poi non può essere il singolo cittadino a decidere quale sia il farmaco più indicato per lui”.

In molti ritengono che nessuno ha il diritto di mettere in discussione le loro decisioni.

“Tu sei libero di tenere la tua casa in disordine, di accumulare la tua spazzatura nelle stanze ma non hai il diritto di buttarla giù dalla finestra. Per questo io vorrei che le personalità scientifiche non partecipassero a certi spettacoli televisivi, perché altrimenti il pubblico mette sullo stesso piano il Professor Bassetti, il professor Abrignani etc con l’opinione di un giornalista o di un opinion leader. Ma non è così. E’ importante che parlino i medici ma in un contesto non impostato come uno show. Ecco, ci manca una sorta di Piero Angela che moderi un dibattito tra medici”.

La nuova misura governativa sembra mettere d'accordo tutto il mondo scientifico comunque. Ma in un mondo globalizzato ogni sforzo rischierà di essere vano se non si vaccinano tutti i popoli?

“Certo. Finché non è vaccinato il mondo non stiamo tranquilli e non abbiamo risolto il problema, ma abbiamo evitato almeno 12000 morti col vaccino che mi sembrano tanti. Adesso gli Usa stanno procedendo a vaccinare più persone. Si incomincia a farlo anche in Africa. Presto arriveranno i nuovi vaccini poi, a Rmna o anche i proteici, che funzionano contro tutte le varianti di coronavirus”. Marta Moriconi

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 24 novembre 2021. Cosa vuol dire obbligo vaccinale? O meglio, come si applica davvero? Abbiamo chiarito che sarebbe pienamente costituzionale. Siamo in attesa di capire se mai ci sarà la volontà politica (e una maggioranza parlamentare) per approvare una legge che imponga agli italiani l'iniezione anti Covid. Nel frattempo, c'è una domanda che riassume la grande confusione sul tema, l'ha posta qualche sera fa in tv il presidente del Veneto, Luca Zaia: «Vorrei che qualcuno mi spiegasse per filo e per segno come si fa concretamente: con l'accompagnamento coatto? Con l'ammanettamento, l'arresto per la vaccinazione?». Difficile anche solo immaginare che qualcuno possa finire in carcere o ai domiciliari per non essersi vaccinato. Come pure non è pensabile che i No Vax vengano sottoposti a un trattamento sanitario obbligatorio, stanati casa per casa da infermieri armati di siringa. Il tema della sanzione, di cosa si rischia se non si fa il vaccino è, però, cruciale. Oltre 6 milioni senza una dose Prendiamo gli operatori sanitari e i lavoratori delle Rsa, le uniche categorie in Italia ad oggi obbligate a vaccinarsi contro il Covid (con il nuovo decreto anche per la terza dose). Se rifiutano l'iniezione vengono sospesi dal servizio, lasciati a casa senza stipendio. È successo a 2.113 medici, 500 dei quali si sono poi convinti a scoprire il braccio e sono rientrati a lavoro: meno di un quarto del totale, gli altri resistono rinunciando alla busta paga. Per legge non possono essere licenziati. Succederà lo stesso anche con gli altri lavoratori No Vax, a cui per ora basta fare un tampone? D'altra parte, escludendo che le forze dell'ordine possano mettersi a fermare sistematicamente le persone per strada per chiedere il certificato vaccinale, i luoghi di lavoro restano la principale occasione di controllo. Ma non tutti i 6 milioni e 700mila italiani over 12 tuttora senza la prima dose lavorano. E, soprattutto, molti sono lavoratori autonomi, artigiani, liberi professionisti, quindi datori di lavoro (e controllori) di sé stessi: già ora eludono serenamente l'obbligo di Green Pass, senza disturbarsi a fare il tampone, potranno fare lo stesso con quello di vaccinazione. Senza contare che un milione e 100mila sono ragazzi tra i 12 e i 19 anni, che vanno a scuola, senza bisogno del vaccino (o del Green Pass). Per loro, eventualmente, si dovrà adottare una disciplina simile a quella fissata dalla legge Lorenzin del 2017 per gli studenti dai 6 ai 16 anni: per tutelare il diritto allo studio, vanno in classe anche da non vaccinati e i genitori inadempienti possono vedersi infliggere una multa da 100 a 500 euro, su iniziativa della Asl competente, in base a quante delle dieci vaccinazioni pediatriche obbligatorie vengono saltate. Non è dato sapere, però, quante sanzioni di questo tipo siano state comminate in Italia negli ultimi tre anni, pare non esistano dati ufficiali. La strada austriaca E allora torniamo al tema centrale: cosa rischierebbe davvero chi non dovesse rispettare l'eventuale obbligo di vaccinazione. Probabilmente solo una multa, magari più alta di quella che si paga ora se si viene beccati senza Green Pass o si viola una delle regole anti Covid. In Austria, primo Paese dell'Unione europea a introdurre l'obbligo vaccinale, che scatterà da febbraio (non è ancora chiaro per quali fasce anagrafiche), la bozza di legge prevede sanzioni amministrative pesanti, fino a 3.600 euro. Insomma, se non basterà tagliarli fuori dalla vita sociale (con il super Green Pass solo per i vaccinati, per accedere ai luoghi dello svago), l'ultimo tentativo per recuperare i No Vax sarebbe prenderli dal portafoglio: niente stipendio e multa tripla da versare allo Stato.

PERCHÉ IL VACCINO NON E’ OBBLIGATORIO? Flavia Amabile per “la Stampa” il 23 agosto 2021. Se ne discute ogni giorno di più. Si litiga ogni giorno di più ma per il momento l'obbligo vaccinale è lontano dai tavoli del governo. Al ministero della Salute sarebbero anche favorevoli ma fonti vicine al dicastero fanno capire che non ci sono le condizioni. Per introdurre un obbligo è necessaria una legge che dovrebbe essere votata dal governo e poi dal Parlamento. Sul Green Pass Draghi è riuscito a ottenere l'approvazione all'unanimità da parte del Consiglio dei ministri ma il decreto è stato travolto da una valanga di emendamenti alla Camera anche da parte della stessa maggioranza. L'esecutivo quindi sa che su una misura ancora più coercitiva come l'obbligo vaccinale difficilmente si troverebbero i numeri in Consiglio dei ministri e ancora più difficilmente in Parlamento. Nulla però esclude che la situazione cambi nelle prossime settimane sottolineano dal ministero della Salute. E lo ha precisato due giorni fa anche il sottosegretario alla Salute Andrea Costa che ha definito l'obbligo l'«ultima ipotesi» se la campagna non dovesse raggiungere l'obiettivo dell'80% dei vaccinati entro fine settembre. Per il momento il governo resta convinto della necessità di convincere gli italiani vaccinarsi senza ricorrere a obblighi. Una linea condivisa quasi ovunque nel mondo. Lo ha ricordato ieri il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini a margine del suo intervento al Meeting di Rimini che ha confermato di essere a favore dei vaccini ma ha ricordato che «nessun Paese al mondo, tranne l'Indonesia e forse l'Uzbekistan, ha finora stabilito l'obbligo di vaccino anti Covid». Eppure in tanti stanno chiedendo al governo di decidersi. Alcuni anche con la voglia di scaricare sull'esecutivo ogni responsabilità, come ha denunciato ieri il presidente di Confindustria Vincenzo Bonomi che dopo la richiesta della Cisl di due giorni fa all'esecutivo di intervenire sull'obbligo, ha attaccato il sindacato. «È troppo facile rimandare la lattina alla politica. C'è una differenza di posizione tra i partiti che difficilmente potrà farci arrivare a una legge. Ma possiamo sederci a un tavolo oggi stesso», ha spiegato Bonomi invitando i rappresentanti dei lavoratori a raggiungere un accordo e evitare ulteriori chiusure. La decisione, quindi, è innanzitutto politica ma, nonostante le pressioni di alcuni settori della popolazione, ovunque i governi preferiscono affidarsi alla responsabilità dei cittadini perché l'obbligo è una fonte di grane certe. In Italia l'obbligo è stato introdotto solo per chi esercita professioni sanitarie e, in modo indiretto, nelle scuole e nelle università, chiedendo il Green Pass per i lavoratori, e nelle università anche per gli studenti. Un migliaio di sanitari, tra medici e infermieri, hanno presentato un ricorso al Tar della Toscana per chiedere la sospensione dei provvedimenti nei confronti di coloro che non si sono vaccinati. Lo ha confermato due giorni fa Tiziana Vigni, avvocata che li assiste nella causa. «Abbiamo già notificato ed è in corso di deposito del ricorso con circa 1.000 ricorrenti ma stiamo raccogliendo altre firme, circa 200, per un altro ricorso uguale». Sono solo una parte dei tanti ricorsi presentati da aprile in poi, quando è stato introdotto l'obbligo di vaccino per i sanitari, da parte di chi ha deciso di opporsi. Nelle ultime settimane, Tar e giudici hanno respinto molti di questi ricorsi ma l'opposizione legale non si ferma. Francesco Fontana, avvocato, presidente di Iustitia in Veritate, sta monitorando 200 casi di sanitari non vaccinati decisi a impugnare le sospensioni che stanno per arrivare dalle amministrazioni. «L'obbligo non ha alcun fondamento. Da un lato si viene obbligati a firmare un consenso che per legge dovrebbe essere libero e dall'altro lo Stato si dichiara esente da ogni responsabilità in caso di effetti sulla salute» spiega. La battaglia è appena iniziata nel mondo della scuola dove il Green Pass obbligatorio ha creato molto malcontento. Marcello Pacifico, presidente dell'Anief ha avuto solo in tre giorni duemila adesioni per presentare ricorso. E si prepara a tre azioni, la prima contro il Green Pass nelle università, la seconda al Tar per chiedere la disapplicazione dell'obbligo nelle scuole e la terza al tribunale ordinario per contestare la discriminazione in contrasto con il regolamento comunitario.

GLI SCIENZIATI SPINGONO PER L'OBBLIGO DI VACCINO: «EMERGENZA SANITARIA». Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 23 agosto 2021. Parlare di obbligo vaccinale, quanto meno per alcune categorie oltre agli operatori sanitari o per determinate fasce di età, non è più un tabù. Il tema è sul tavolo del governo ora che la campagna di immunizzazione ha subito un rallentamento, con una diminuzione del numero di iniezioni quotidiane, mentre nei reparti di terapia intensiva i pazienti sono quasi tutte persone che non hanno ricevuto la seconda dose e, molto più spesso, neanche la prima. Per oggi è atteso l'intervento del ministro della Sanità, Roberto Speranza, al Meeting di Rimini. Da settimane uno dei membri più ascoltati del Comitato tecnico scientifico, il professor Sergio Abrignani, immunologo dell'Università Statale di Milano, lo ripete: siamo nel pieno di una emergenza sanitaria, l'unico modo per uscirne è prevedere l'obbligo vaccinale, perché serve a ridurre la circolazione del virus e a limitarne gli effetti negativi. Abrignani aggiunge sempre che il sostegno allo strumento dell'obbligo del vaccino anti Covid è una sua posizione personale, ma ormai su questo tema le pressioni a fare di più sono molteplici. Ad esempio, anche un altro componente del Comitato tecnico scientifico, Fabio Ciciliano, invita a prendere in considerazione questa soluzione. E ieri è tornato alla carica il governatore della Liguria, Giovanni Toti, il primo a dire senza troppi giri di parole che il vaccino sopra i 50 anni deve essere obbligatorio. Ieri ha scritto sul suo profilo Facebook: «Se entro la settimana prossima non avremo un sufficiente numero di prenotazioni per il vaccino e i numeri non saranno cambiati, sarà il caso di passare all'obbligo vaccinale per alcune categorie. Non vedo perché un lavoratore vaccinato debba essere costretto a convivere con un non vaccinato oppure un insegnante vaccinato debba partecipare alle riunioni didattiche con insegnanti e personale non vaccinato. E banalmente perché un cittadino che si è diligentemente vaccinato debba dividere il posto in autobus con un non vaccinato. Forse qualcuno spera di far chiudere ancora l'Italia, per giocare sulla paura e la miseria. Questo non deve accadere». Toti sfida anche i No vax ricordando che i letti di ospedale sono pieni di persone non vaccinate, oltre 4 milioni di cittadini tra i 50 e i 60 anni «non si sono né prenotati né vaccinati: sono proprio loro che finiscono in ospedale». Morale: «Non possiamo rimanere schiavi di superstizioni, di battaglie di retroguardia e men che meno di meschini giochi politici, di chi strumentalizza e sfrutta per interesse una vera e propria macchina di insulti organizzata sui social da pochi fanatici No vax». Anche all'interno del governo la riflessione è cominciata, dopo che il consulente del commissario Figliuolo, il professor Guido Rasi, si è schierato a favore dell'obbligo vaccinale. Parallelo, ma non sovrapponibile, corre l'applicazione di un altro tipo di strumento che, va sempre ricordato, non è necessariamente collegato al vaccino perché si può ottenere anche con un semplice tampone antigenico negativo eseguito nelle ultime 48 ore. Dice il sottosegretario alla Sanità, Andrea Costa: «Per l'obbligo di Green pass penso a tutte quelle attività dove c'è da garantire la continuità di un servizio, per esempio gli operatori del Trasporto pubblico locale, i dipendenti dei market e dei servizi essenziali. E anche gli impiegati degli uffici comunali e pubblici dovranno tornare alla normalità e in presenza: hanno la responsabilità di garantire un servizio al Paese e a contatto con il pubblico». Per il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, che parla all'indomani dell'attacco del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, che ha criticato i sindacati perché si sono opposti al Green pass nelle aziende e nelle mense: «Il nostro Paese deve far esperienza dei mesi scorsi. Non si può sbagliare. Noi abbiamo oggi uno strumento in più: il Green pass, le vaccinazioni. Bisogna che sia esteso al maggior numero di attività, solo così noi saremo in grado di dare libertà alle attività e alle persone e quindi alla ripresa in sicurezza. A partire dalla scuola che è la grande priorità. L'impegno che dobbiamo mettere è mai più dad: i dati degli Invalsi dimostrano che disastro è stata la dad. Io sono la massima espansione del Green pass. Invoco che ci sia un lavoro a tre tra istituzioni, sindacati e rappresentanti delle imprese per trovare le soluzioni migliori: abbiamo tutti voglia di soluzioni e non di problemi. L'importante che ciascuno faccia la sua parte». Mauro Evangelisti

Dopo l'articolo del Riformista. Meloni, vaccini facoltativi e indennizzi: la replica di Fratelli d’Italia. Redazione su Il Riformista il 19 Agosto 2021. Egregio direttore, Il Riformista ha pubblicato lo scorso 14 agosto l’articolo “Meloni e i vaccini facoltativi. Basta bufale sugli indennizzi” di Salvatore Curreri. Eppure queste presunte clamorose bufale non appaiono nell’articolo. Dopo aver riportato le affermazioni della Meloni, ossia che in base alla normativa vigente solo chi subisce danni a causa di un vaccino obbligatorio è indennizzabile, l’autore del pezzo riporta una serie di esempi che poco hanno a che vedere con le legittime perplessità di Giorgia Meloni: l’obbligo di indennizzo per chi subisce un qualunque trattamento sanitario (desumibile però  da una pronuncia della CEDU) e dell’indennizzabilità dei danni derivanti da vaccinazioni non obbligatorie ma fortemente raccomandate desumibile da diverse pronunce della Corte Costituzionale. Sino alla chiosa del pezzo, in cui si afferma, giustamente, che non c’è allo stato alcuna norma che imponga l’indennizzo in casi di danno per il vaccino anticovid e che comunque occorrerebbe rivolgersi ad un giudice, il quale peraltro dovrebbe sollevare la Questione di Legittimità Costituzionale, al fine di ottenere una sentenza additiva in linea con l’attuale giurisprudenza. Infatti, la legge italiana non prevede al momento l’indennizzabilità in caso di danno derivante da vaccino anticovid perché non ne è prevista l’obbligatorietà. L’art. 1 della L. 210/1992 limita ai soli vaccini obbligatori l’indennizzo in caso di danni. Pertanto solo incardinando un giudizio, dopo l’intervento di un giudice, che dovrebbe ritenere rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale rimettendola alla Consulta, si potrebbe forse ottenere l’indennizzo. La domanda dunque è perché lo Stato non si assume la responsabilità di rendere obbligatorio il vaccino? Oppure, perché non ci si è presi la responsabilità di rendere gli eventuali danni indennizzabili per Legge? Occorre ricordare che La sentenza n. 5 del 2018 della Corte Costituzionale, estensore Marta Cartabia, specificava che lo Stato può imporre le vaccinazioni in presenza di tre presupposti: se il trattamento è diretto non solo a tutelare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute della comunità; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvi i rischi tollerabili; se sia prevista comunque una indennità in favore del danneggiato. Si aggiunge a  questo quadro, come correttamente sottolineato nel pezzo di Curreri, anche una sentenza della Consulta del 2020, durante la presidenza Cartabia, che estende l’obbligo di indennizzo alle vaccinazioni fortemente raccomandate. Peccato che nel caso di specie la vaccinazione anticovid non è stata espressamente definita come fortemente raccomandata né si è inteso estendervi l’indennizzabilità prevista dalla Legge per le obbligatorie. Per la Consulta dunque un obbligo vaccinale è legittimo se si posseggano dati certi rispetto al rapporto tra rischi e benefici del vaccino, sia in termini individuali che collettivi e sempre che lo Stato si assuma ogni responsabilità, indennizzando eventuali danneggiati. Nel caso del vaccino Anticovid, tuttavia, mancherebbero i presupposti per l’obbligatorietà e l’introduzione del green pass, che formalmente non introduce un obbligo vaccinale ma che ne costituisce una surrettizia introduzione, sembra in sostanza voler aggirare l’obbligo di indennizzo previsto dall’art.1 L. 210/1992. Lo stesso Curreri nel suo articolo auspica un “intervento normativo  più coraggioso”, dimenticando però che le Leggi o esistono o non esistono e doversi affidare all’alea del giudizio e dell’intervento della Corte costituzionale non vuol dire essere tutelati. Questioni serie, che per fortuna dell’Italia almeno Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni hanno la libertà e il coraggio di porre. Sara Kelany, Avvocato, ufficio studi Fratelli d’Italia.

Indennizzi per danni da vaccino Covid: sì all’ordine del giorno della Lega, ma il risarcimento esiste già. Chiara Nava il 09/09/2021 su Notizie.it. Il Governo ha detto sì all’ordine del giorno della Lega, sugli indennizzi per danni da vaccino, ma questo risarcimento esiste già. Secondo La Stampa sarebbe la merce di scambio per avere l’ok della Lega all’estensione del Green pass. Il Governo ha deciso di dire sì agli indennizzi per i danni da vaccino contro il Covid. Secondo La Stampa, questa sarebbe merce di scambio per ottenere l’ok della Lega all’estensione della certificazione verde per alcune categorie di lavoratori. Il quotidiano che Palazzo Chigi ha chiesto ai leghisti di trasformare gli emendamenti in ordini del giorno, quindi non vincolanti, ai quali il governo darà un parere positivo. Tra questi anche gli indennizzi per le persone che dimostreranno di aver avuto un danno fisico in seguito alla somministrazione del vaccino anti-Covid, l’utilizzo degli anticorpi monoclonali, la semplificazione dei test salivari e le maggiori tutele per i più fragili. Qualcosa, però, sembra proprio non tornare. Come ha ricordato Eugenia Tognotti su La Stampa, e come sostengono le sentenze, lo Stato deve già risarcire eventuali danni fisici da vaccinazione anti-Covid. Anche se non è in vigore l’obbligo vaccinale e la legge 25 febbraio 1992 n.210 stabilisce che “chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato, alle condizioni e nei modi stabiliti dalla presente legge“, la Corte Costituzionale ha sottolineato che tra obbligo e raccomandazioni non ci sono grandi differenze. “La ragione che fonda il diritto all’indennizzo del singolo non risiede allora nel fatto che questi si sia sottoposto a un trattamento obbligatorio: riposa, piuttosto, sul necessario adempimento, che si impone alla collettività, di un dovere di solidarietà, laddove le conseguenze negative per l’integrità psico-fisica derivino da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato che sia) effettuato nell’interesse della collettività stessa, oltre che in quello individuale”. Questo significa che il Governo ha detto sì alla Lega per qualcosa che in realtà esisteva già. Lorenzo Cuocolo, costituzionalista e professore ordinario di diritto pubblico comparato all’Università di Genova, ha spiegato che un lavoratore obbligato ad esibire il Green pass potrebbe già ottenere un indennizzo se dovesse riportare danni dovuti al vaccino. “Se un insegnante si vaccina per continuare a lavorare e dovesse avere un’invalidità o una malattia permanente, può senza alcun dubbio rivolgersi allo Stato per farsi risarcire. Si dice che lo Stato attualmente obbliga a vaccinarsi senza assumersi responsabilità, ma di fatto non è vero” ha dichiarato. Quindi, il Governo ha cosa ha detto si? L’ordine del giorno della Lega, accettato soprattutto per ottenere un voto positivo all’estensione del Green pass, riguarda qualcosa che esiste già da tempo.  

La nostra giurisprudenza smentisce la propaganda. Le bufale di Giorgia Meloni su vaccini facoltativi e indennizzi: così viene smentita la propaganda. Salvatore Curreri su Il Riformista il 16 Agosto 2021. Sostiene Giorgia Meloni che lo Stato non rende la vaccinazione anti-Covid 19 obbligatoria per non esporsi a richieste di risarcimento e indennizzi. Di conseguenza, chi – pur non essendovi obbligato (come invece lo sono gli esercenti professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario: art. 1 d.l. 44/2021) – si sottopone al vaccino e subisce “una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica” (art. 1 l. 210/1992) non potrebbe pretendere alcunché. È un’affermazione destituita in massima parte di fondamento giuridico e che, a suo modo, costituisce la cifra di una certa comunicazione politica di tono propagandistico, volutamente imprecisa e giocata sull’equivoco.

Cerchiamo di fare chiarezza:

Chi a causa di un trattamento sanitario (come le vaccinazioni) subisce una menomazione alla propria salute ha diritto:

a) ad essere pienamente risarcito in sede civile del danno subito a causa di comportamenti colpevoli ex art. 2043 c.c. in modo tempestivo (v. Corte EDU, 14.1.2016 D.A e altri c. Italia); lo scudo legale previsto dall’art. 3.1 del decreto legge n. 44 dell’1 aprile 2021 sulla vaccinazione anti-Covid 19 riguarda infatti solo la responsabilità penale);

b) ad un equo indennizzo, se il danno non deriva da un fatto illecito. L’equo indennizzo consiste in un assegno, integrato da un’indennità speciale (art. 2 l. 210/1992), e in assegno mensile vitalizio “corrisposto per la metà al soggetto danneggiato e per l’altra metà ai congiunti che prestano o abbiano prestato al danneggiato assistenza in maniera prevalente e continuativa” (art. 1.1 l. 229/2005). Entrambi gli assegni sono rivalutabili (Corte cost. 293/2011; Corte EDU 3.9.2013 M.C. e altri c. Italia);

c) alle misure di sostegno assistenziale previste dal legislatore (per il malato ed i congiunti che l’hanno assistito) ove ne ricorrano i presupposti ex art. 38.1 Cost.

Riguardo al diritto all’indennizzo sub b), la giurisprudenza della Corte costituzionale è consolidatissima nel ritenere che esso spetti a prescindere che la vaccinazione sia obbligatoria (art. 1 l. 210/1992) oppure promossa dalle pubbliche autorità in vista della sua capillare diffusione nella società (C. cost. 5/2018, 8.2.1, 27/1998, 3). Esso, infatti, si fonda sull’inderogabile dovere di solidarietà sociale (art. 2 Cost.) che in questi casi incombe sull’intera collettività e, per essa, sullo Stato a fronte dell’eventuale pregiudizio subito da chi, per evitare la diffusione di malattie particolarmente gravi o menomanti e salvaguardare così la salute di tutti, si è sottoposto a un trattamento sanitario, obbligatorio o raccomandato che sia (C. cost. 118/2020, 3.3-4, 226/2000, 3.1; Cass., lav. 27101/2018).

In entrambi i casi, infatti, “non è lecito, alla stregua degli artt. 2 e 32 della Costituzione, richiedere che il singolo esponga a rischio la propria salute per un interesse collettivo, senza che la collettività stessa sia disposta a condividere, come è possibile, il peso delle eventuali conseguenze negative” (C. cost. 27/1998, 3). Il diritto all’indennizzo spetta dunque già per legge a chi si è sottoposto a vaccinazioni non obbligatorie ma necessarie: per motivi di lavoro o di ufficio ed ai soggetti a rischio operanti nelle strutture sanitarie ospedaliere (art. 1.4 l. 210/1992).

Inoltre, in nome delle esigenze di solidarietà sociale sopra richiamate, la Corte costituzionale è più volte intervenuta per dichiarare incostituzionale l’esclusione dal diritto all’indennizzo a favore di chi si è sottoposto a vaccinazioni non obbligatorie ma fortemente raccomandate per evitare la diffusione di determinate patologie come poliomielite (C. cost. 27/1998 cui fece seguito l’art. 3.3 l. 362/1999), epatite B (C. cost. 417/2000), morbillo, parotite e rosolia (C. cost. 107/2012), influenza (C. cost. 268/2017) ed epatite A (C. cost. 118/2020).

Infine, il diritto all’indennizzo spetta ai soggetti danneggiati da infezioni da Hiv e da epatiti post-trasfusionali (art. 1.2-3 l. 210/1992; C. cost. 293/2011, 28/2009, 76/2002); non spetta, invece, se non vi è una correlazione scientificamente accertata tra la vaccinazione cui ci si è sottoposti e il danno subito (come in caso di autismo: Cass., VI civ. 18358/2017; lav. 12427/2016). Il profilo criticabile di tale quadro ordinamentale è che per estendere il diritto all’equo indennizzo in casi di trattamenti sanitari non obbligatori ma fortemente raccomandati sia dovuta intervenire la Corte costituzionale, con sentenze additive rispetto alla disposizione prevista dall’art. 1 legge n. 210/1992, anziché essere il legislatore per primo ad estendere ad essi il suo ambito di applicazione.

Sotto questo profilo, quindi, è fortemente auspicabile attendersi un intervento legislativo più coraggioso e conforme alla giurisprudenza ordinaria e costituzionale in materia, così da non costringere il malato all’onere (quanto mai odioso ed insopportabile nelle sue condizioni) di dover ricorrere dinanzi al giudice e questi, a propria volta, a dover sollevare questione di legittimità costituzionale. Come infatti ribadito da ultimo dalla Corte costituzionale (sentenza n. 118/2020, 2), di fronte ad un quadro normativo univoco nel prevedere il diritto all’indennità solo per i trattamenti sanitari obbligatori, il giudice che vuole estenderlo a quelli fortemente promossi non può ricorrere all’interpretazione costituzionalmente conforme ma deve sottoporre la questione alla Corte costituzionale.

Tutto ciò però non toglie che quanto affermato pubblicamente dalla Meloni costituisca una semplificazione non veritiera di quanto oggi prevede in materia il nostro ordinamento giuridico, che è fatto non solo di leggi ma anche delle loro interpretazioni da parte dei giudici ordinari e costituzionali. Difatti, qualunque soggetto che dovesse subire dalla vaccinazione non obbligatoria anti-COVID 19 danni psico-fisici (che, seppur minimi, sono purtroppo sempre inevitabili) e a cui venisse negato il diritto ad un equo indennizzo, sarebbe sì intollerabilmente costretto a ricorrere alle vie giudiziali ma con la certezza però che qualunque giudice gli darebbe pienamente ragione. Salvatore Curreri

Covid-19, la giustizia non arriverà dai tribunali. Paolo Biondani su L'Espresso il 19 agosto 2021. Da tutta Italia sono piovuti migliaia di esposti per il dilagare della pandemia e il modo in cui è stata gestita. Ma solo una minima parte arriverà a sentenza. E lo scudo vaccinale rischia di proteggere anche chi ha sottovalutato i rischi. Più di 128 mila vittime accertate fino ad oggi. E migliaia di denunce di familiari disperati, che invocano verità e giustizia con esposti individuali o collettivi. La pandemia da Covid-19 ha listato a lutto anche i tribunali. In tutta Italia i magistrati delle procure hanno aperto indagini approfondite, con mesi di accertamenti, per verificare pesanti ipotesi di reato. Ma di processi penali, probabilmente, se ne faranno pochi. Solo in casi di estrema gravità. E con scarse prospettive di ottenere condanne definitive in nome del popolo italiano. Nella giustizia penale i bilanci si fanno alla fine, dopo tre gradi di giudizio, e ogni procedimento fa storia a sé. Ma i primi provvedimenti di chiusura delle istruttorie sull’emergenza coronavirus preannunciano una tendenza di portata generale, che preoccupa i legali, i comitati e le associazioni dei familiari delle vittime: quasi ovunque fioccano le richieste di archiviazione. A Cagliari a fine luglio, prima dello stop feriale che scatta per legge in agosto, la Procura ha chiesto di prosciogliere tutti gli indagati per la diffusione del contagio collegata alla controversa riapertura delle discoteche, decisa dalla Regione Sardegna nell’irresponsabile estate del 2020, tra la prima e la seconda ondata. L’accusa di epidemia colposa, secondo i quattro pubblici ministeri specializzati in reati sanitari, non è sostenibile in tribunale. A Imperia, il giorno prima, i magistrati della stessa pubblica accusa hanno chiesto di far cadere le denunce presentate dai parenti degli anziani morti a decine negli ospizi. A Lodi, una delle province più colpite, dove nel febbraio 2020 fu scoperto il primo contagiato italiano, il procuratore capo, Domenico Chiaro, ha spiegato pubblicamente, il 20 luglio scorso, le ragioni tecniche e normative che lo portano a escludere la punibilità di tutti gli accusati per una delle vicende più drammatiche: 77 vittime in una residenza per anziani a Mediglia. Molte altre istanze di archiviazione sono state presentate nei mesi scorsi dalla Val d’Aosta all’Emilia, dalla Sicilia al Lazio. Le richieste di rinvio a giudizio per i reati-base di epidemia e omicidio colposo plurimo, invece, al momento sono pochissime e devono ancora superare il primo esame dei giudici delle indagini. L’enorme quantità di denunce e quindi di indagini penali, ma anche la prevedibile scarsità di futuri risultati processuali, erano state preannunciate già nel gennaio scorso, all’apertura dell’anno giudiziario, dal procuratore generale di Roma. L’alto magistrato, Antonio Mura, ha spiegato che solo nel Lazio, nel 2020, sono arrivati ben 1.500 esposti collegati al Covid-19, per altro «di segno opposto»: circa mille lamentavano l’insufficienza delle misure varate per fermare il virus, mentre altri 500, al contrario, «contestavano la legittimità delle restrizioni, con tesi negazioniste». Quasi tutte le accuse al governo centrale o a singoli ministri sono state archiviate in blocco, con un unico provvedimento, per manifesta infondatezza. Per la restante massa di denunce, lo stesso procuratore ha avvertito che il reato di epidemia colposa «presenta evidenti difficoltà di accertamento», per cui è probabile che i giudici si concentrino su «addebiti di omicidio colposo per singoli pazienti, sulla base della ricostruzione di condotte specifiche». Casi individuali, insomma, senza pretese di fare processi alle classi dirigenti della sanità nazionale o regionale. Questo monito sui limiti della giustizia penale riguardava la prima ondata. Oggi le indagini si scontrano con una barriera legale ancora più forte: il cosiddetto scudo penale. Nato per difendere medici e infermieri impegnati nella campagna vaccinale, è stato allargato dal Parlamento a tutta l’emergenza. Nell’aprile scorso, in particolare, il governo Draghi ha approvato un decreto legge che ha escluso la punibilità per chi somministra vaccini regolarmente «autorizzati» in modo «conforme alle indicazioni». Quando è stato convertito in legge, a fine maggio, lo scudo vaccinale è diventato un salvagente generale, previsto dal nuovo articolo 3 bis: i reati di omicidio e lesioni colpose «commessi nell’esercizio di una professione sanitaria» e «che trovano causa nella situazione di emergenza», restano punibili «solo nei casi di colpa grave». Che va sempre esclusa, con obbligo per i giudici di assolvere, di fronte a una serie di scusanti, come la «limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da Sars- Cov-2 e sulle terapie appropriate». Oppure la «scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare». O «il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato». Una legge salva-tutti, insomma, approvata senza dibattiti e polemiche politiche, mentre le procure indagavano su amministrazioni di ogni colore, dalla Sicilia alla Puglia, dall’Emilia al Veneto devastato dalla seconda ondata. Magistrati, avvocati e giuristi si dividono nei giudizi su questo scudo penale, che per alcuni è sacrosanto, per altri esagerato, ma tutti concordano sull’effetto pratico: per la mala gestione della pandemia si prevedono pochi processi penali. I legali di parte civile continuano a battersi contro le archiviazioni. Ma avvertono i familiari delle vittime che ora la strada è tutta in salita. A Milano, nella procura più importante della regione più colpita, dieci pubblici ministeri lavorano da più di un anno sul disastro sanitario della Lombardia. A guidarli è un procuratore aggiunto, Tiziana Siciliano, che conferma: «Abbiamo moltissimi procedimenti, solo in settembre cominceremo a tirare le somme, ma una cosa va detta subito: non vogliamo fare processi inutili. Di fronte all’enormità di questa pandemia, la giustizia penale non è la soluzione: come magistrati abbiamo il dovere di non illudere i familiari delle vittime». La magistrata, come i pm di Roma o di Lodi, precisa che lo scudo è un problema per l’accusa, ma non è certo l’unico: «In una situazione mai vista prima, con un virus sconosciuto alla scienza, norme incerte, mascherine introvabili, attrezzature inesistenti o inadeguate, è veramente difficile contestare una colpa. Per noi è un problema dimostrare anche solo il nesso di causa-effetto tra il Covid-19 e un decesso: durante la prima ondata non si facevano nemmeno le autopsie». Anche a Milano, dunque, gli stessi pubblici ministeri sono orientati a chiedere il processo solo nei casi più gravi, che in Lombardia come in molte altre regioni riguardano soprattutto il dilagare dei contagi negli ospizi. Ma sempre e soltanto per fatti circostanziati. Per il resto, è prevedibile che si applicheranno solo le contravvenzioni alle norme sulla salute e sicurezza del lavoro: reati minori, con termini di prescrizione brevissimi. Anche a Bergamo, la provincia più colpita nella prima ondata, secondo le prime indiscrezioni la procura non sembra intenzionata a imbastire processi per i cosiddetti «atti politici o di alta amministrazione», che legioni di giuristi considerano «insindacabili», come la decisione di imporre o meno una zona rossa. Più probabile, anche qui, un giudizio penale per fatti particolari e circoscritti, come la scelta di riaprire l’ospedale di di Alzano Lombardo dopo e nonostante i primi contagi, che trasformò un centro di cura in un focolaio catastrofico. L’avvocato e giurista Luca Santa Maria, che difende i familiari delle vittime del Pio Albergo Trivulzio, l’ospizio simbolo di Milano, ha firmato uno dei pochi esposti che potrebbero sopravvivere allo scudo penale. E il suo commento lascia presagire come si giocheranno i futuri processi: «Lo scudo riguarda solo due reati, lesioni e omicidio colposo. La legge non parla di epidemia colposa o disastro sanitario, che sono reati contro la salute pubblica, che mettono in pericolo una serie indeterminata di persone. Anche sul piano soggettivo, lo scudo è razionale se si applica ai medici, agli infermieri, al personale strettamente sanitario che ha rischiato la vita per curare gli altri. Ma non dovrebbe coprire figure diverse, come l’imprenditore della sanità, il datore di lavoro, il padrone dell’ospedale privato, il dirigente di nomina politica. So bene che nei processi può succedere di tutto. E che le norme favorevoli agli imputati, a differenza di quelle sfavorevoli, si possono interpretare in modo estensivo. Ma di fronte alla gravità dei fatti e al numero spaventoso di vittime penso che sia un errore allargare l’applicazione dello scudo, garantendo l’impunità oltre i confini testuali di una norma dichiaratamente eccezionale». Gli stessi avvocati delle vittime, per altro, chiariscono che le indagini delle procure, comunque vadano a finire, non sono inutili. Lo scudo penale, infatti, non vale nei processi civili. Dove il problema è un altro: le parti devono pagarsi tutte le spese di tasca propria, compresi gli avvocati e le perizie decisive. Se si muove una procura, invece, paga lo Stato. E in una parallela causa civile anche il più povero può usare testimonianze, consulenze tecniche, documenti sequestrati: prove inarrivabili per il semplice cittadino. Di qui la profezia di molti addetti ai lavori: tranne i casi estremi, la stragrande maggioranza dei processi per il Covid-19 si farà nelle aule (e con i tempi lentissimi) della giustizia civile. Che dopo tante riforme penali di dubbia urgenza, come la prescrizione dei reati modificata per tre volte da tre governi, resta la grande malata cronica del sistema giudiziario italiano.

Vaccini ed eventi avversi, è pioggia di richieste di indennizzi e risarcimenti sulla Regione Lombardia. Rec News il  3 Agosto 2021. La lettera diramata dalla direzione generale Welfare e Prevenzione ai direttori generali delle ASST e delle ATS. Porta la data del 21 luglio, e si riferisce ai sieri sperimentali “anticovid”. La doccia fredda per chi si è voluto immolare, ha riportato danni ma non avrà un euro: “I vaccini non sono obbligatori” tanno giungendo con intensità crescente alle nostre aziende (come alle Aziende Sanitarie di tutto il territorio nazionale) richieste per indennizzo/risarcimento a seguito di somministrazione di vaccino”. Inizia così una comunicazione diramata dalla direzione generale Welfare e Prevenzione ai direttori generali delle ASST (Aziende Sanitarie Socioterritoriali) e delle ATS, le agenzie di tutela della Salute. La missiva porta la data del 21 luglio, e si riferisce ai sieri sperimentali che dallo scorso anno vengono somministrati nell’ambito della campagna di “vaccinazione” di massa. La pozione infallibile non lo è così tanto, se un numero “crescente” di persone si è riversato nelle caselle e agli sportelli delle aziende sanitarie lombarde, anche se la situazione – ammette la stessa Regione Lombardia – si sarà replicata un po’ ovunque. Episodio prevedibile, se si pensa che si tratta di sieri sperimentali che verranno studiati fino al 2023, di cui non si conosce praticamente ancora nulla sul reale impatto sul corpo umano e sui rischi di impattare sul Dna (come affermano esperti come Tarro, Amici e Bolgan. Una strage annunciata, insomma, sia in termini di decessi che di reazioni avverse, di fronte a cui il governo Conte ha tentato di mettere una toppa contestualmente alla Legge di Bilancio varata lo scorso dicembre. A poco è servito, a conti fatti, mettere nero su bianco la volontà di stanziare 71 milioni all’anno fino al 2023 per chi la subito “complicazioni irreversibili” se, adesso, dalla Regione Lombardia arriva un secco no a chi si è immolato prontamente e, dopo aver subito danni, bussa alla porta degli enti per chiedere di essere pagato. “Il punto è che il vaccino anti-Covid non è obbligatorio – chiosa Libero, citato da un sito – ed eventuali effetti conseguenti alla sua somministrazione non possono portare a un indennizzo da parte dello Stato”. Oltre il danno, la beffa.

Matteo Legnani per “Libero Quotidiano” l'1 agosto 2021. C'è quello che dopo la puntura ha avuto la febbre alta per due giorni; quello per che 24 ore aveva i giramenti di testa; o, ancora, quello che «non si è sentito più lui» per qualche giorno. Non è cronaca, ma i racconti che ogni giorno sentiamo da amici o parenti che hanno fatto il vaccino contro il Covid. C'è chi è stato poco bene dopo la prima inoculazione, chi dopo la seconda. Chi di più e chi dimeno. Ma qui non si parla dei casi di trombo (rarissimi) che pur si sono verificati in seguito alla somministrazione del vaccino. Ma di chi, dopo aver accusato uno stato di malessere a seguito della inoculazione di Astra Zeneca, Pfizer, Moderna o Johnson che sia, presenta richieste di indennizzo o di risarcimento alle Ats o alle aziende ospedaliere. In Lombardia, questa situazione ha spinto la Regione (nella fattispecie la Direzione generale Welfare e Prevenzione) a inviare una missiva all'Ats regionale per dare indicazioni su come comportarsi nell'immediato di fronte alle richieste e al ministero della Salute per avere lumi su come, in una fase successiva, i soggetti destinatari di quelle richieste debbano comportarsi. «Volevamo evitare che gli enti coinvolti, aziende sanitarie o anche singoli ospedali cui fanno capo gli hub vaccinali, si muovessero in ordine sparso, magari anche creando precedenti per la giurisprudenza» spiega un alto funzionario dell'Ats Lombardia. La parola d'ordine è innanzitutto questa: non pagare. Anche perché, come riporta la lettera di Regione Lombardia, tali richieste (al momento si parla di una trentina di casi, ma in costante aumento) sono «sostanzialmente tutte identiche», come a lasciar intendere una regia comune o una stessa mano. «Purtroppo, ormai da anni ci sono soggetti che hanno fatto di questo tipo di iniziative una fonte di business e il Covid non poteva che solleticarne i palati» spiegano ancora da Ats Lombardia. La situazione sarebbe peraltro diffusa in molte regioni (nella lettera si fa riferimento alle «aziende sanitarie di tutto il territorio nazionale»), con richieste sia di risarcimento danni sia di indennizzo. E le indicazioni fornite nei due casi da Regione Lombardia sono sostanzialmente diverse. Per quanto riguarda le richieste di risarcimento danni, l'indicazione è quella di notificarle alle compagnie con cui le aziende ospedaliere sono assicurate incaso di danni subiti dai pazienti conseguentemente a errori dei medici nell'ambito del loro operato o delle terapie messe in atto verso il paziente. Non essendovi, tuttavia, nel caso della somministrazione dei vaccini anti-Covid, alcun errore da parte del personale medico (salvo che l'infermiere addetto spezzi l'ago nel braccio del paziente o gli inoculi più dosi del vaccino inavvertitamente), è quasi impossibile che le compagnie si trovino ad accordare un risarcimento. Quella dell'indennizzo è, se possibile, una strada ancora più impervia. L'ipotesi si applica non in conseguenza di un errore medico, ma di una terapia o di un intervento corretti che tuttavia abbiano arrecato gravi conseguenze nel paziente. E' il caso di effetti imprevedibili e indesiderati conseguenti all'esecuzione di vaccinazioni obbligatorie. Per questo tipo di evenienze esiste un fondo che lo Stato mette a disposizione delle regioni e che per il 2021 ammonta a circa 50 milioni. Il punto è che il vaccino anti-Covid non è obbligatorio e eventuali effetti conseguenti alla sua somministrazione non possono portare a un indennizzo da parte dello Stato. Il dibattito sulla obbligatorietà della terapia anti-Covid non può prescindere da quanto sta già accadendo: la sua eventuale obbligatorietà, caldamente sostenuta da alcuni, spalancherebbe le porte a infinite speculazioni i cui contorni, oggi, non sono così difficili da immaginare.

Sergio Harari per il “Corriere della Sera” il 7 settembre 2021. L'obbligatorietà dei vaccini di cui tanto si discute in questi giorni non è certo una novità e stupisce un po' il clamore che accompagna il dibattito pubblico se si considera che il primo obbligo vaccinale fu introdotto nel nostro Paese all'indomani dell'unità d'Italia, nel 1888, per arginare la diffusione del vaiolo. L'obbligo fu poi abolito nel 1981, dopo che nel 1979 l'Oms aveva dichiarato la completa eradicazione in tutto il mondo della malattia. Successivamente divennero obbligatorie le vaccinazioni contro la difterite (1939), la poliomielite (1966), il tetano (1968) e l'epatite B (1991). L'Italia è stato poi uno dei primi Paesi a introdurre nel 2006 la vaccinazione universale facoltativa per le infezioni da Papilloma Virus, importante misura preventiva contro il cancro della cervice uterina. Il provvedimento necessitò dell'inserimento di uno specifico emendamento alla Legge finanziaria del 2008 per sostenere la campagna vaccinale dato l'elevato costo del vaccino (allora circa 500 euro per la schedula di tre dosi). A seguito della legge n. 119 del 31 luglio 2017, sono state rese obbligatorie altre 6 vaccinazioni oltre alle quattro già in vigore (difterite, tetano, poliomielite ed epatite B), quelle per morbillo, parotite e rosolia, pertosse, Haemophilus tipo b e varicella. La stessa legge prevede inoltre quattro vaccinazioni fortemente raccomandate, ma non obbligatorie, ad offerta attiva e gratuita da parte di Regioni e Province autonome: l'anti-meningococcica B, l'anti-meningococcica C, l'anti-pneumococcica e l'anti-rotavirus. Tralasciando le polemiche politiche e venendo ai dati scientifici, l'obbligo vaccinale non è quindi certo una novità, né nel mondo né nel nostro Paese, e rappresenta l'unica possibilità per debellare alcune malattie infettive: la storia, a partire dall'esempio del vaiolo, ne è testimone. D'altra parte, tra obbligo e semplici misure di convincimento non ci sono dubbi sulla maggiore efficacia del primo e anche qui la storia può esserci di aiuto. Nel 2007 la Regione Veneto ricorse contro l'obbligo vaccinale per i minori fino ai 16 anni di età, sostenendo tra i vari argomenti che una campagna di sensibilizzazione e comunicazione ai cittadini avrebbe ottenuto risultati migliori che la coercizione, ma non fu così: nei 10 anni durante i quali fu in vigore la libera scelta le coperture vaccinali della popolazione veneta furono inferiori al resto del Paese. Nel 2017 la Corte Costituzionale respinse infine definitivamente il ricorso con la motivazione che «le misure in questione rappresentano una scelta spettante al legislatore nazionale. Questa scelta non è irragionevole, poiché volta a tutelare la salute individuale e collettiva e fondata sul dovere di solidarietà nel prevenire e limitare la diffusione di alcune malattie». Forse le stesse ragioni di solidarietà e tutela della salute collettiva si potrebbero addurre per l'introduzione dell'obbligo vaccinale anche per il Sars-CoV-2. Lasciando una parte, seppur limitata e minore, della popolazione scoperta dalla copertura vaccinale, oltre al rischio al quale andrebbero incontro i soggetti non immunizzati, lasceremmo terreno fertile al virus per proseguire nella sua sopravvivenza, mutare, continuare a circolare e prima o poi dare luogo a varianti pericolose. L'esempio che stiamo vivendo in questi mesi con la rapidissima diffusione della delta e le prime preoccupanti segnalazioni di altre, come la lambda, ne sono la controprova. Per questo l'obbligatorietà, una volta ottenute le approvazioni finali degli enti regolatori Fda e Ema, è una strada non solo ragionevole ma molto probabilmente l'unica che possa garantire una duratura via d'uscita dalla pandemia e che possa mettere al riparo il Paese dal pericolo di nuove ondate che avrebbero drammatiche ripercussioni di salute e economiche. I vaccini per il Sars-CoV-2 hanno avuto una prova sul campo, di «real life» come si dice tecnicamente, che mai in passato ha avuto nessun vaccino nella storia della medicina, ad oggi oltre 5 miliardi e mezzo di persone sono state immunizzate e ormai conosciamo bene i rari e circoscritti effetti collaterali. La storia dei vaccini ci insegna, come ha recentemente ricordato Antony Fauci, che i possibili effetti collaterali si manifestano, quando occorrono, nell'arco di qualche settimana dalla inoculazione, mai di anni, non si capisce quindi sulla base di quale argomento biologico qualcuno possa supporre qualcosa di diverso per quelli attualmente in uso contro il Coronavirus. L'ipotesi poi di un terzo richiamo non è certo una novità, anche le vaccinazioni per il tetano e l'epatite B, che come già ricordato sono obbligatorie da anni, prevedono un ciclo di tre somministrazioni. Una volta adottato l'obbligo vaccinale resterebbero aperti altri importanti problemi per sconfiggere la pandemia: la diffusione della vaccinazione nelle aree più povere del mondo, l'adozione di misure uniformi di sorveglianza, prevenzione e controllo a livello europeo e non solo (l'Oms in questo senso dopo i tanti errori commessi potrebbe riacquisire un ruolo importante), la necessità di dover eventualmente implementare campagne con successivi richiami (così come si fa, ad esempio, con l'influenza stagionale o per altre malattie infettive), mentre restano ancora scarse le armi terapeutiche contro la malattia una volta che si è manifestata in forma conclamata.

Danni da vaccino.

Indennizzo per danno senza colpa.

Risarcimento per danno con colpa.

Vaccino, come farsi risarcire per i danni subiti: soldi, ciò che quasi nessuno sapeva. Matteo Mion su Libero Quotidiano il 23 aprile 2021. Lo Stato risarcisce i danni cagionati da un vaccino rischioso al momento della somministrazione. Questo il principio consacrato nella sentenza della Corte d'Appello di Catania 696/21 pubblicata il 30 marzo che ha liquidato 824.000 euro a un soggetto rimasto paraplegico a seguito di vaccinazione antipoliomielite. Nel 1978 al malcapitato fu iniettata una dose con sistema Sabin, sebbene la comunità scientifica conoscesse già il rischio di complicanza di polio paralitica e fosse in uso il metodo Salk con virus inattivato. Oggi l'uomo non cammina più autonomamente e, pur avendo già ottenuto l'indennizzo ex L 210/92 spettante a tutti coloro che subiscono un'invalidità a causa di un vaccino obbligatorio, non si è dato per vinto e dopo una lunga battaglia giudiziaria ha ottenuto un rilevante risarcimento per danni biologici e morali dalla Corte sicula di seconda istanza. La decisione desta straordinario interesse perché cade in un periodo in cui Covid e relative vaccinazioni sono l'argomento principe sulle bocche degli italiani. I virologi in coro ci spingono all'iniezione di massa per raggiungere l'immunità di gregge, ma capita che qualche pecorella ci lasci la zampetta o addirittura la pelle e in quella sciagurata, seppur residuale, ipotesi è opportuno conoscere i propri diritti per ottenere un risarcimento. Anzitutto ad oggi il vaccino anti Covid, qualunque esso sia, non è obbligatorio, sebbene il governo stia valutando misure come il green pass per spostarsi tra regioni per renderlo forzosamente facoltativo. La legge italiana prevede un indennizzo automatico per tutti i danni correlati a vaccini la cui somministrazione sia obbligatoria che attualmente sono poliomielite, difterite, tetano, epatite B, pertosse, morbillo, parotite, rosolia e varicella. Per i non obbligatori come gli anti-Covid nulla era previsto a titolo di ristoro.

La svolta. Nel 2020, però, la Corte costituzionale con pronuncia n° 118 ha dichiarato una carenza di tutela per chi avesse riportato lesioni a seguito di iniezioni vaccinali non obbligatorie, estendendo così il diritto all'indennizzo a tutti i danneggiati da vaccini «consigliati e incentivati dalle autorità sanitarie pubbliche» come ad esempio l'anti-influenzale. Tra questi rientra a pieno titolo il vaccino anti-Covid, sebbene la comunità scientifica non sia ancora pienamente a conoscenza di effetti, rischi e relative statistiche. L'indennizzo non è paragonabile in termini economici a un vero e proprio risarcimento e viene erogato dallo Stato sotto forma di assegno di solidarietà, una volta che la parte lesa abbia presentato istanza al Ministero della Salute e venga accertato il nesso di causa tra vaccino e menomazione dell'integrità psicofisica. Sappia quindi chi malauguratamente abbia subito postumi dalla fiala anticoronavirus di aver diritto a un indennizzo grazie alla recente sentenza della Corte costituzionale, benchè non si tratti di vaccinazione obbligatoria. Rimane ovviamente ferma l'azione giudiziaria contro il Ministero della Salute per chiunque subisca danni biologici, morali ed esistenziali a seguito di una somministrazione rischiosa come nel caso siculo in cui la Corte ha concesso un ingente risarcimento senza nemmeno sottrarre l'indennizzo già percepito dal soggetto invalido. In aula di tribunale non rileva l'obbligatorietà o meno del vaccino, ma il danneggiato deve dimostrare l'antigiuridicità cioè la condotta sanitaria colposa di chi somministrava un determinato vaccino. Un'ipotesi futurista su tutte: se l'Italia inietta Astrazeneca o Johnson & Johnson, mentre in altri Paesi queste fiale vengono sospese, in futuro potrebbe essere chiamata a risarcirne tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali provocati! Ne vedremo delle belle: ad postera ardua sententia!

Danni da vaccino Covid: a chi spetta l’indennizzo. Carlos Arija Garcia il 17 Marzo 2021 su laleggepertutti.it. Cosa fare se dopo avere ricevuto il siero si accusa una patologia riconducibile all’iniezione. In che cosa consiste il riconoscimento economico. Chi riporta un danno da vaccino, che si tratti di un siero anti-Covid, contro l’influenza o di qualsiasi altro tipo, ha diritto ad un riconoscimento economico sotto forma di indennizzo (non di risarcimento). Lo stabilisce una legge (n. 210 del 25 febbraio 1992) secondo cui, appunto, «chiunque abbia riportato, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica, ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato».

La legge elenca le vaccinazioni per cui si ha diritto all’indennizzo. Si tratta di quelle:

obbligatorie per legge o per ordinanza dell’autorità sanitaria (ad esempio, quelle richieste per l’iscrizione dei bambini a scuola);

non obbligatorie ma richieste «per motivi di lavoro o per incarichi d’ufficio o per poter accedere ad uno Stato estero»;

obbligatorie o non obbligatorie ma richieste a chi rientra nella categoria dei soggetti a rischio «operanti in strutture sanitarie ospedaliere».

Significa che ha diritto all’indennizzo in caso di danno provocato anche da vaccinazioni raccomandate, come nel caso del vaccino anti-Covid.

L’indennizzo consiste in un assegno vitalizio composto da:

una parte stabilita in base alla categoria tabellare di invalidità accertata, che è cumulabile con ogni altro emolumento a qualsiasi titolo percepito, ad esempio l’assegno di invalidità. Questa quota viene rivalutata ogni anno in base al tasso di inflazione;

un’indennità integrativa speciale, analoga a quella prevista per gli impiegati civili dello Stato.

Se il danno da vaccinazione comporta il decesso, gli eredi hanno diritto ad un assegno reversibile per 15 anni o ad un assegno una tantum di 77.468,53 euro ed alle rate di indennizzo maturate dalla data della domanda al giorno della morte.

In caso di patologie plurime, se il diritto all’indennizzo è già stato riconosciuto, viene pagato un indennizzo aggiuntivo, con una maggiorazione del 50% rispetto a quello stabilito per la patologia più grave.

L’indennizzo viene erogato dalla Regione di appartenenza. Per le Province autonome, la competenza è del ministero della Salute. In ogni caso, la domanda va presentata all’Asl di residenza, allegando i documenti che provino l’avvenuta vaccinazione e quelli che attestano la successiva patologia diagnosticata.

L’Asl invia la pratica alla Commissione medica ospedaliera competente, che convocherà l’interessato per una visita, valuterà la documentazione sanitaria e si pronuncerà sul nesso causale tra la vaccinazione e il danno accusato. In caso di giudizio negativo, il paziente (o gli eredi in caso di decesso) hanno 30 giorni di tempo per ricorrere in via amministrativa al ministero della Salute. Resta aperta, comunque, la via dell’azione giudiziale.

Danni da vaccino Covid: quando spetta l’indennizzo. Maria Francesca Mazzitelli il 24 Marzo 2021 su edizioni.simone.it. Danni da vaccino Covid: quando spetta l’indennizzo. Una recente sentenza della Cassazione (16-3-2021, n. 7354) ha riconosciuto l’indennizzo in un caso di vaccinazione non obbligatoria, facendo applicazione dei nuovi orientamenti della Corte Costituzionale.

Danni da vaccino Covid: i tipi di vaccinazione

Per legge ha diritto ad un indennizzo da parte dello Stato chiunque, a causa di vaccinazioni obbligatorie per legge o per ordinanza di una autorità sanitaria italiana, abbia riportato lesioni o infermità, dalle quali sia derivata una menomazione permanente dell’integrità psico-fisica (art. 1, L. 210/1992).

La norma, nel tempo, ha subito correttivi a seguito di interventi della Corte costituzionale che hanno modificato il testo originario della legge, con pronunce di illegittimità riguardo a varie ipotesi di trattamenti vaccinali (da ultimo, sent. 118/2020), e allargato la platea dei beneficiari dell’indennizzo anche ai danneggiati da vaccinazioni non obbligatorie ma raccomandate.

Vediamo perché e quali sono le conseguenze per i danni da vaccino Covid.

Obbligo vaccini o raccomandazione

In tema di trattamenti vaccinali si possono seguire due tecniche: la tecnica dell’obbligatorietà, per legge o per ordinanza di un’autorità sanitaria, e quella della raccomandazione.

Nel primo caso, la libera determinazione individuale viene sacrificata attraverso la previsione di un obbligo e della corrispondente sanzione la decisione è rimessa alle autorità sanitarie pubbliche.

Nel secondo caso le autorità sanitarie preferiscono fare appello all’adesione degli individui. Tale è stata la scelta del legislatore riguardo alla campagna vaccinale anti-Covid 19.

L’obiettivo che entrambe le tecniche perseguono è unico: la tutela la salute individuale e collettiva (Cost. 32), attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale.

Diritto alla salute e  autodeterminazione individuale

La tecnica della Raccomandazione considera il profilo soggettivo del diritto alla salute e l’aspetto dell’autodeterminazione individuale.

La giurisprudenza e il legislatore moderni si muovono nella direzione dell’autodeterminazione individuale, in particolare in ambito sanitario. In materia di trattamenti sanitari (L. 219/2017):

nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata;

ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso;

ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, compreso il rifiuto rispetto a singoli trattamenti sanitari.

Diritto alla salute e interesse della collettività

L’obiettivo del trattamento vaccinale, a differenza di altri trattamenti terapeutici, è anche quello della salute della collettività.

Ogni singolo trattamento vaccinale, oltre alla tutela della salute individuale, concorre a realizzare la tutela della salute collettiva, attraverso la più ampia immunizzazione dal rischio di contrarre la malattia.

In questo contesto, in presenza di vaccinazioni fortemente raccomandate, le diffuse e reiterate campagne di comunicazione creano un affidamento nei confronti di quanto consigliato dalle autorità sanitarie: ciò rende la scelta individuale di aderire alla raccomandazione di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell’interesse collettivo, al di là delle motivazioni personali che muovono i singoli (Corte Cost. 268/2017; Corte Cost.118/2020), mentre resta del tutto irrilevante che l’effetto dell’immunizzazione sia riconducibile ad un obbligo o ad una persuasione (Corte Cost. 107/2012).

Diritto all’indennizzo: fondamento giuridico

Il diritto all’indennizzo si fonda sulle esigenze di solidarietà sociale che impongono alla collettività di farsi carico dei danni che il cittadino abbia subito per essersi sottoposto ad una vaccinazione, anche nell’interesse della collettività.

Le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo richiedono che sia la collettività ad accollarsi l’onere del pregiudizio individuale, mentre sarebbe ingiusto consentire che siano i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio anche collettivo (Corte Cost. 107/2012).

Questo orientamento ha conseguenze rilevanti anche sotto il profilo della sicurezza dei vaccini: la previsione dell’indennizzo e la sua estensione casi di vaccinazioni raccomandate completa il patto di solidarietà tra individuo e collettività e rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione (Corte Cost. 268/2017).

Danno indennizzabile e danno risarcibile

Il danno consiste nella lesione permanente dell’integrità psico fisica; non rilevano le lesioni o infermità da cui non derivi una lesione permanente (febbre, mal di testa, dolori muscolari, dolori della parte del corpo vaccinata, arrossamenti).

L’indennizzo è un’autonoma misura economica di sostegno, di natura indennitaria ed equitativa, il cui ottenimento prescinde dalla colpa e dipende dal semplice fatto obiettivo dell’aver subito un pregiudizio.

Si tratta dunque di una misura che agevola il danneggiato nel riconoscimento del ristoro per il danno subìto.

L’indennizzo non pregiudica la richiesta di risarcimento del danno che richiede l’accertamento di un fatto illecito (doloso o colposo) e l’individuazione del responsabile (art. 2043 c.c.) ed è più onerosa, sotto il profilo probatorio, per il danneggiato.

Danni da vaccino Covid

La vaccinazione anti-Covid è sicuramente tra quelle che possono rientrare a pieno titolo tra le vaccinazioni fortemente raccomandate.

Tale carattere emerge dalla sussistenza di una serie di indici significativi, corrispondenti a quelli già individuati, in ipotesi simili, dalla Corte costituzionale nelle sue decisioni: “insistite e ampie campagne anche straordinarie di informazione e raccomandazione da parte delle autorità sanitarie pubbliche nelle loro massime istanze; distribuzione di materiale informativo specifico; informazioni contenute sul sito istituzionale del Ministero della salute; decreti e circolari ministeriali; piani nazionali di prevenzione vaccinale” (Corte Cost. 268/2017).

Tuttavia, secondo quanto afferma la Corte costituzionale (Corte Cost. 268/2017; Corte Cost. 118/2020), il mero riscontro della natura raccomandata della vaccinazione non consentirebbe ai giudici di estendere automaticamente a tale fattispecie la comune ratio delle precedenti declaratorie di illegittimità costituzionale della L. 210/1992. Per il riconoscimento dell’indennizzo, l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma non è sufficiente, ma deve, invece, necessariamente passare per un nuovo giudizio di legittimità costituzionale che verifichi, nel caso concreto, la sussistenza dei chiari principi espressi dalla Corte, anche se l’esito sembra scontato.

Questo e altri articoli di approfondimento li trovi nella rubrica Leggi&Diritto del Blog Simone. Le informazioni sui vaccini sono disponibili anche sul sito del Ministero della salute.  

La vaccinazione contro il COVID-19 tra diritto di scelta e responsabilità sociale. Pubblicato il 01/05/21 da Irene Coppola su blog.ilcaso.it.

Irene Coppola, Dottore di ricerca in Scienze Giuridiche e Professore incaricato nella Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali, Università degli Studi di Salerno.  

Sommario: 1.- Il difficile bilanciamento tra obbligo, responsabilità ed autodeterminazione; 2.- E' soltanto una questione di indennizzo o di risarcimento?; 3.- Informazione corretta ed imprescindibilità del consenso; 4.-- Osservazioni conclusive. 

1.- Il difficile bilanciamento tra obbligo, responsabilità ed autodeterminazione 

Quando si affronta il tema delicato e complesso delle vaccinazioni bisogna essere preparati ad esaminare molteplici aspetti del problema, perché lo studio del diritto alla salute in generale e di quello, più particolare, circa il rapporto tra salute del singolo e salute della collettività, è molto complesso ed il più delle volte non presenta soluzioni univoche e sempre condivisibili: se da un lato la questione evidenzia il diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria salute, dall’altro non va sottaciuto che il legislatore potrebbe scegliere di obbligare la popolazione ad inocularsi dei farmaci per raggiungere l'immunità di gregge rispetto a malattie particolarmente contagiose e virali. Ed il dibattito si è molto acceso con riferimento alla pandemia del COVID- 19 e con riferimento ad alcuni casi di trombosi denunciati dopo l'inoculazione del vaccino Astrazeneca. Va preliminarmente rilevato che, alla base dell’intervento vaccinale, c’è una funzione sociale e utilitaristica[1]; la storia insegna che grazie a molti vaccini l'essere umano è riuscito a sopravvivere a diverse avversità ed oggi giorno, in piena emergenza sanitaria, la tematica diventa davvero delicata attesi gli importanti effetti che di regola dovrebbe avere il vaccino sia per la salute del singolo che per la salute della collettività, dando piena applicazione agli artt. 2 e 32 della Costituzione Italiana[2]. Dal combinato disposto delle due norme citate, infatti, si sa che ogni cittadino è titolare non soltanto del proprio benessere, ma è responsabile anche di quello degli altri, ai fini di una prevenzione e/o di una cura collettiva[3]. L’imposizione dell’obbligo, infatti, è legittimata solo se sussiste uno specifico ed imprescindibile, quanto necessario ed indispensabile, interesse[4] per la salute della collettività; consegue che il legislatore è, da questo punto di vista, vincolato nel prevedere trattamenti sanitari obbligatori, non potendo perseguire altre finalità diverse da quella della salute pubblica (si pensi, ad esempio, alle esigenze di giustizia o di sicurezza). E' stato più volte ribadito, proprio relativamente alle pratiche vaccinali, che ogni soluzione può essere considerata adatta purché permetta di raggiungere un’estensione tale da proteggere non solo i singoli, ma anche l’intera popolazione da epidemie morbose[5]. La stessa Corte costituzionale è intervenuta[6] sul tema, sottolineando il “rilievo costituzionale della salute come interesse della collettività” e ritenendo che “non è da solo sufficiente a giustificare la misura sanitaria. Tale rilievo esige che in nome di esso, e quindi della solidarietà verso gli altri, ciascuno possa essere obbligato, restando così legittimamente limitata la sua autodeterminazione, a un dato trattamento sanitario, anche se questo importi un rischio specifico”[7]. Si evidenzia, quindi, come, in tema di vaccinazioni, emerga il dualismo ontologico del diritto costituzionale alla salute: da un lato, vi è la dimensione puramente individuale, dall’altro ne emerge il profilo pubblico, da intendersi come interesse della collettività[8]. I trattamenti sanitari obbligatori, infatti, non possono ritenersi contrari all’art. 32 Costituzione, quando diretti non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri. E’ manifesto che i diritti costituzionali coinvolti sono molteplici: la libera autodeterminazione della persona nelle scelte di cura, l’interesse collettivo alla salute, quello del minorenne alla salute da compiersi mediante il diritto-dovere dei genitori a tutelare la crescita dei figli; la libertà dell'essere umano sulla propria struttura esistenziale. Il bilanciamento tra tali posizioni spetta, allora, alla discrezionalità del legislatore, che deve modulare gli interventi necessari per garantire la salute della collettività. La Consulta ha, però, affermato anche che “ove tali trattamenti obbligatori comportino il rischio di conseguenze negative alla salute di chi a essi è stato sottoposto, il dovere di solidarietà previsto dall’art. 2 della Costituzione impone alla collettività, e per essa allo Stato, di predisporre in suo favore i mezzi di una protezione specifica consistente in una equa indennità, (da cui deriva) il diritto al risarcimento del danno”. In altri termini. la tutela della salute pubblica permette sì allo Stato di opprimere il diritto alla autodeterminazione del singolo, ma, nel caso in cui questi abbia riportato un danno a causa della misura sanitaria adottata, è indubbio una misura di riparazione[9]. 

2.- E' soltanto una questione di indennizzo o di risarcimento? 

In punto di legislazione, senza pretesa di esaustività, occorre brevemente ripercorrere delle tappe per cogliere l'atteggiamento ondivago e controverso legato al tema delle vaccinazioni in generale, prima di procedere alla considerazione, oggetto di questa breve notazione, sulla criticità effettiva e reale in ordine alla vaccinazione attuale contro il COVID-19. La legge 25 febbraio 1992 n. 210, rubricata “Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazioni di emoderivati”[10], costituisce il frutto del recepimento della pronuncia con la quale la Corte costituzionale dichiarava illegittima la legge n. 51 del 1966, nella parte in cui, pur sancendo l’obbligatorietà della vaccinazione antipoliomelitica, non prevedeva un adeguato ristoro per coloro i quali, da tale trattamento, avessero subito una lesione. A seguire la legge 25 luglio 1997 n. 238, con la quale si è prevista la corresponsione di un assegno una tantum per i danni cagionati nel periodo compreso tra il manifestarsi dell'evento dannoso ed il conseguimento dell'indennizzo. Il quadro normativo è stato arricchito dalla legge n. 299/2005 che ha introdotto un ulteriore indennizzo in favore delle persone danneggiate da complicanze di tipo irreversibile verificatesi a seguito di vaccinazioni obbligatorie. Per contro non si è previsto un indennizzo per i danni permanenti alla salute cagionati da vaccini non obbligatori, ma la questione, però, è stata affrontata in via pretoria a più riprese. Nel 2006, ad esempio, la Corte di Appello di Campobasso[11] ha riconosciuto il diritto all’indennizzo anche per coloro i quali erano stati lesi da vaccinazioni non obbligatorie, ma programmate e incentivate; a tale impostazione ideologica-giuridica ha aderito anche il Tribunale di Ravenna, che ha esteso il diritto di indennizzo al caso in cui il danno derivi da trattamenti sanitari che, seppure non obbligatori, siano comunque consigliati attraverso campagne di sensibilizzazione promosse dall’autorità amministrativa[12]. La questione è stata, poi, esaminata dal Tribunale di Ancona, che ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della l. 210/92 nella parte in cui non riconosceva un diritto all’indennizzo anche a coloro che fossero stati danneggiati dall’inoculazione di una vaccinazione raccomandata ma non obbligatoria.[13] E di fondante importanza è la pronuncia della Corte Cost. sent. n. 118/2020 del 23.06.2020 cha ha portato all'affermazione del ristoro anche per le vaccinazioni non obbligatorie; la sentenza additiva estende l’applicazione di una fattispecie oltre ai casi originariamente previsti dal legislatore atteso che illegittima, per irragionevole disparità di trattamento, la mancata previsione dell’indennizzo per i vaccini non obbligatori. L’indennizzo non è l’unico istituto, riconoscendosi, in danno dello Stato, anche il dovere di risarcire il danno, laddove ne ricorrano i presupposti. Va precisato che lo strumento risarcitorio e quello indennitario sono diversi tra loro, non solo rispetto ai presupposti ma anche rispetto agli effetti[14]. L'indennizzo, infatti, costituisce una forma di ristoro derivante da un’attività lecita ma lesiva;di conseguenza, esso viene erogato “per il semplice fatto obiettivo e incolpevole dell'aver subito un pregiudizio non evitabile in un'occasione in cui l'intera collettività trae un beneficio”[15]. Per converso il risarcimento del danno ha natura sia sanzionatoria (nei limiti in cui ripara) sia riparatoria, avendo come presupposto la presenza di un danno ingiusto da ristorare. Essenziale è che vi sia la prevedibilità della conseguenza dannosa e l’elemento soggettivo, cioè la presenza del dolo o della colpa dell’agente: perché il danno da vaccino sia ristorabile ex art. 2043 c.c. è necessario che esso sia derivato dal dolo o dalla colpa di chi ha inoculato il vaccino. L’aspetto più problematico legato al danno da vaccino è senza dubbio la prova del nesso di causalità, onere per il danneggiato. Sebbene l’accertamento del nesso di causalità nel processo civile sia più agevole di quanto non lo sia nel processo penale (in cui è richiesta la certezza oltre ogni ragionevole dubbio), va rilevato che anche la prova del più probabile può essere controversa. Quando si osserva la casistica giurisprudenziale, infatti, può notarsi che non sempre i giudici di merito hanno riconosciuto tale nesso di causalità. Se, per esempio, la Corte d’Appello di Perugia[16] ha riconosciuto il diritto all’indennizzo in capo al ricorrente che aveva lamentato l’insorgenza di patologie in seguito alla somministrazione del vaccino trivalente, vaccinazione tra l’altro non obbligatoria per legge, bensì solo raccomandata, la Corte d’Appello di Perugia[17] ha rilevato che le conoscenze in tema di autismo, ivi comprese quelle in ordine alle sue possibili cause, sono molto limitate, affermando che, ad oggi, non è possibile sostenere scientificamente la tesi dell’esistenza di un qualche rapporto causale tra l’insorgenza della sindrome autistica e la somministrazione dei vaccini. I Giudici del Tribunale di Milano, invece, hanno spesso fatto ricorso, nel decidere questioni relative al riconoscimento o meno del diritto all’indennizzo, all’esito della consulenza tecnica d’ufficio. In un noto caso[18], di fronte alle allegazioni della parte istante, che assumeva la sussistenza di un nesso causale tra la somministrazione del vaccino cui era stato sottoposto il figlio e la sindrome autistica dallo stesso successivamente manifestata, i giudici hanno riconosciuto che il presidio medico in esame, effettivamente, “mostra una specifica idoneità lesiva per il disturbo autistico”. A tale conclusione gli interpreti sono giunti attraverso due rilievi: in primo luogo la stessa casa produttrice del vaccino aveva riconosciuto la neurotossicità del mercurio usato come disinfettante in questi preparati; in più l’autorità sanitaria australiana, aveva sequestrato lotti di vaccino contenenti mercurio in dosi eccedenti i limiti massimi consentiti dalla legge. La presenza di mercurio nel preparato e la conclamata pericolosità della sua presenza nel tipo di farmaco in questione rendevano credibile, agli occhi dei giudici il fatto che quel vaccino fosse l’unica causa conosciuta della malattia in oggetto, rendendola perciò di gran lunga più probabile delle eventuali altre, così incerte sotto il profilo dell’efficienza lesiva da risultare oggi relegate nell’ambito della mera ipotesi. Queste brevissime notazioni sono più che mai attuali per la pandemia che in questo secolo ha colpito la terra, ma il profilo essenziale che interessa in special modo la vaccinazione anti COVID-19 è il consenso e l'informazione sul farmaco inoculato. Questo è un vero vulnus. 

3.- Informazione corretta ed imprescindibilità del consenso 

Il punctum dolens al tempo del COVID-19 non è tanto o soltanto quello di "sollevare il danneggiato da danno" in caso di vaccino obbligatorio e non obbligatorio, quanto piuttosto consentire al paziente di evitare il danno e di conoscere effettivamente quello eventualmente derivante (come effetto collaterale raro, ma previsto o prevedibile) dal farmaco che si sta inoculando ed, in particolare, di informarlo in modo corretto al fine di garantire l'esercizio della scelta sul farmaco opzionabile e poter fornire e/o esprimere un consenso valido.[19] Il profilo cruciale, in altre parole, è che se si tende a passare dal concetto di autodeterminazione a quello di responsabilità per poi giungere a quello dell'obbligatorietà, quello che va detto è che non può prescindersi dall'informazione corretta e seria sulla " sostanza" che il vaccinando andrà ad iniettarsi. L'informazione sul vaccino appare non solo indispensabile per il paziente, ma anche un atto di responsabilità morale per il somministrante ed una scriminante per lo stesso. L'informazione, inoltre, più che rappresentare una espressione di garanzia liberatoria per il somministrante deve rappresentarsi come una forma di conoscenza assoluta ed indispensabile che induca il paziente ad esercitare il suo diritto di scelta. In definitiva, quando si parla di consenso in termini igienico-sanitari va evidenziato che deve trattarsi di consenso effettivamente informato: informazione seria, trasparente e completa. Più l'informazione sul vaccino (o in genere sul farmaco) è precisa, maggior forza e sostanza di validità ha il consenso. In altri termini, se vi è informazione può esserci consenso. D'altro canto non si comprende come possa prestarsi un consenso su qualcosa su cui non vi è sufficiente informazione.[20] Orbene nel caso di vaccino anti COVID-19 le informazioni che la scienza medica è in grado di fornire hanno un sufficiente grado di insufficienza. Tale assunto ben ha senso di essere se si considera che il consenso, per come oggettivamente articolato nella fase di pre vaccinazione,[21] sul vaccino anti COVID- 19 viene dato quasi al buio atteso che occorre accettare un rischio non calcolato ed imprecisato derivante dal fatto che non si conoscono effetti del farmaco a lungo termine, né gli effettivi risultati di tale medicina difensiva. la locuzione, contenuta nei moduli da sottoscrivere, non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza, non abbisogna di commenti. I danni (eventuali o certi) che si possono realizzare sulla salute di un essere un umano non sono controllabili in quanto sottratti ad una visione di insieme nella prospettiva futura. Discende che qualche domanda sul consenso e sulla sua validità va formulata. Quando il vaccinato sottoscrive il modulo, la sua sottoscrizione equivale ad un consenso informato o è piuttosto una mera dichiarazione la cui rilevanza non trova precise allocazioni giuridiche? 

4.- Osservazioni conclusive 

Il vaccino anti COVID- 19 è un trattamento sanitario imponibile? 

Al momento per la gente comune è un vaccino non obbligatorio; in itinere il progetto di renderlo obbligatorio per alcune categorie professionali, ad esempio per gli operatori sanitari che hanno e devono avere contatti continui e costanti con ammalati, magari fragili e vulnerabili. Ed è logica morale ed evidente che l'ammalato non può venire infettato dallo stesso sanitario a cui si è rivolto per essere curato. In questa ottica si rende espressa la necessità di una tutela ampia del diritto alla salute soprattutto in vista delle persone più fragili. Il fatto è che questa nobile impostazione stride con l'informazione corretta sul vaccino. Quando si parla di informazione corretta si esprime un concetto di informazione completa, esaustiva, certa; solo con una informazione senza vizi si può raccogliere un consenso valido. 

E' valido un consenso se non si conoscono i danni (effettivi ed eventuali) del vaccino anti COVID-19? 

Oppure bisogna inquadrare l'assenza di conoscenze ulteriori come una sorta di informazione in negativo? 

Sembra più onesto concludere che il vaccino anti COVID- 19 sia piuttosto un intervento medico-sanitario dettato dallo stato di necessità; esso non va configurato come inoculazione basata sul presupposto del consenso, perché il consenso non è configurabile se non vi è sufficiente informazione. Discende la relativa disciplina.[22] Ed in quanto stato di necessità se vi è scudo penale per i sanitari che lo somministrano dovrebbe esserci, per logica conseguenza, esenzione di qualsivoglia responsabilità per il Ministero della Salute. Allora non trattasi più di diritto o di dovere, quanto di diritto ( in astratto) e di necessità scriminante in concreto. Il vaccino anti COVID- 19 diventa imponibile siccome necessario, altrimenti non ci sarebbe scampo: ormai il numero di morti è incalcolabile. E' una vera guerra contro un nemico impalpabile che ha messo a nudo la vulnerabilità ed il severo limite della natura umana e che costringe uno Stato a fare conti in termini economici di costi e sacrifici , anche in ragione del bene comune salute. 

Una domanda, però, appare lecita: che respiro avrà in questa tematica la responsabilità aquiliana?

NOTE

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[1] A. BOMPIANI, Profilo etico-giuridico delle vaccinazioni obbligatorie e facoltative, in Medicina e morale, 5, 1991, pp. 745-779. 

[2] S.P. PANUNZIO, Trattamenti sanitari obbligatori e Costituzione (A proposito della disciplina delle vaccinazioni), in Diritto e società, 4, 1979, pp. 875-909. 

[3]F. A. ROVERSI MONACO, C. BOTTARI, Commento agli artt. 1 e 2, in ROVERSI MONACO (coord.), Il Servizio sanitario nazionale, Commento alla legge 23 dicembre 1978, n. 883, Milano, 1979, p. 6; C. MORTATI,, La tutela della salute nella Costituzione Italiana, in Riv. inf. mal. prof., 1961, p. 53; M. COCCONI, Il diritto alla tutela della salute, Padova, 1998, pp. 37 ss. 

[4] Art. 32 Costituzione Italiana: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. 

[5] D. MORANA, La salute nella Costituzione italiana, Milano, 2002; F. PERGOLESI, Alcuni lineamenti dei “diritti sociali”, Milano, 1953; G. U. RESCIGNO, I diritti civili e sociali fra legislazione esclusiva dello Stato e delle Regioni, in Dir. pubb., 1, 2002. 

[6] Tra le tante, cfr. Corte cost., sent. n. 307 del 1990 in giurcost.org.

 

[7] Corte cost., sentenza n. 307/90 par. 2 del “considerato in diritto”. 

[8] Corte costituzionale, sent. n. 5, 2018 (8.2.1) in giurcost.org, per cui: “occorre anzitutto osservare che la giurisprudenza di questa Corte in materia di vaccinazioni è salda nell’affermare che l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività (da ultimo sentenza n. 268 del 2017), nonché, nel caso di vaccinazioni obbligatorie, con l’interesse del bambino, che esige tutela anche nei confronti dei genitori che non adempiono ai loro compiti di cura (ex multis, sentenza n. 258 del 1994)”. 

[9] M. A. RIVETTI, Patologie da vaccinazioni, tutela giurisdizionale e disciplina delle rinunzie, in Il diritto del mercato del lavoro, 1, 2016, pp. 202-207; C.VIDETTA, Corte Costituzionale e indennizzo per lesioni alla salute conseguenti a trattamenti vaccinali. Nuove prospettive, in Responsabilità civile e previdenza, 3, 2013, pp. 1030-1044; A. FEDERICI, L’indennizzo delle conseguenze irreversibili da vaccinazioni non obbligatorie (Nota a Corte cost., 26 aprile 2012, n. 107; Trib. Rimini, 15 marzo 2012, n. 148), in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 3, 2012, pp. 605-612; L. RATTI, La rivalutazione dell’indennizzo per i danni causati da vaccinazioni ed emotrasfusioni (Nota a Corte cost., 9 novembre 2011, n. 293), in Rivista italiana di diritto del lavoro, 4, 2012, pp. 840-843; F. SCIA, Danni da vaccinazioni non obbligatorie (Nota a Trib. Ravenna, 20 dicembre 2006), in Giur. Mer., 11, 2008, pp. 2823-2827; A. ALGOSTINO, Salute dell’individuo e salute della collettività: il diritto all’indennizzo anche nel caso di vaccinazioni antipoliomelitiche non obbligatorie, in Giur. It., 7, 1998, pp. 1479-1481. 

[10] G. PONZANELLI, La misura dell'indennizzo per le "vittime" di vaccinazioni obbligatorie: il nuovo intervento della Corte costituzionale, in Foro it.,1998, I, p. 1370; G. PONZANELLI, A. BUSATO, Un nuovo intervento di sicurezza sociale: la l. n. 210/1992, in Corr. giur., 1992, p. 952; E. MAZZEO, Suggestioni di indennizzo e lacune di tutela nella l. 25 febbraio 1992, n. 210, in Zacchia, 1993, p. 27; M. LANA, Stato di attuazione della l. 25 febbraio 1992, n. 210 in materia di indennizzo di soggetti danneggiati da trasfusioni e somministrazioni di emoderivati, in Dir. uomo, 1993, 3, p. 81; R. CARANTA, Danni da vaccinazione e responsabilità dello Stato, in Resp. civ. e prev, 1998, p. 1352. 

[11] Corte di Appello, 12 giugno 2006, in Diritto e Giustizia, 2006, 43, p. 59, con nota di C. GARUFI, Quando il vaccino crea danni alla salute sta alla vittima provare il nesso causale. Par condicio fra i trattamenti obbligatori e quelli "incentivati”; e in Resp. civ. e prev., 2007, 02, p. 346, con nota di M. BERTONCINI, Indennizzo per danni da vaccinazioni obbligatorie e possibile estensione della fattispecie alle non obbligatorie, in Resp. civ. e prev., 2007, 02, p. 346. 

[12] Trib. Ravenna, 20 dicembre 2006, in Giur. Merito, 2008, 11, p. 2815. 

[13] Il problema si era posto perché i genitori di una bambina che aveva subito gravi patologie a seguito di vaccinazione non obbligatoria contro il morbillo, la parotite e la rosolia avevano proposto ricorso per ottenere l’indennizzo. Il tipo di vaccinazione somministrata alla bambina, però, non era indicato tra quelli obbligatori, sebbene la sua inoculazione fosse stata fortemente sponsorizzata e incentivata dalla pubblica autorità. I giudici rimettenti, quindi, rinvenivano una violazione degli artt. 2 e 3 Cost., in quanto era considerato irrazionale non concedere un equo ristoro a chi ha adottato un comportamento ispirato alla solidarietà sociale e alla tutela della collettività. Secondo i giudici di Ancona, poi, la norma, nel non prevedere un ristoro per coloro i quali avessero riportato un danno a causa di una vaccinazione non raccomandata, violava anche l’art. 32 Cost., vanificando, in questo modo, la garanzia del diritto alla salute di chi, agendo in nome della solidarietà sociale, abbia subito un danno irreversibile alla salute per un beneficio atteso dall’intera collettività.Le perplessità sollevate dai rimettenti sono state ritenute fondate dalla Consulta[13], che ha dichiarato la fondatezza della questione. E’ stato affermato, così, che, ai fini risarcitori, non è importante se il vaccino sia obbligatorio o solo raccomandato, dovendosi riconoscere in ogni caso, in capo a chi abbia riportato un danno a causa dello stesso, un equo ristoro. Peraltro, è stato rilevato che il diritto in parola sorge anche in capo a coloro che abbiano riportato una lesione a causa del contatto con una persona vaccinata (art. 1, comma 4, l. 1992 n.210). 

[14] Corte cost., 16 ottobre 2000, n. 423, in Giur. Cost., 2000, pp. 5 ss.. 

[15] Corte cost., 18 aprile 1996, n. 118, in Foro it., 1996, I, pp. 2326 ss., con nota di G. PONZANELLI, Pochi, ma da sempre: la disciplina sull'indennizzo per il danno da vaccinazione, trasfusione o assunzione di emoderivati al primo vaglio di costituzionalità; in Resp. civ. e prev., 1996, pp. 582 ss., nota di F. CASSELLA, Illegittimi i limiti temporali all'indennizzo a titolo di solidarietà in assenza di responsabilità; in Giur. cost., 1996, pp. 3209 ss., nota di G.COMANDÉ, Diritto alla salute tra sicurezza sociale e responsabilità civile; in Giur. cost., 1996, pp. 3209 ss., nota di A. ALGOSTINO, I possibili confini del dovere alla salute. 

[16] Corte d’Appello di Perugia, sez. lav., 30 giugno 2014, n. 109, in osservatoriodannoallapersona.org 

[17] Trib. Perugia 9 febbraio 2011 in osservatoriodannoallapersona.org. La decisione riguardava il caso di un bambino che, dopo essere stato sottoposto alla somministrazione di un vaccino aveva sviluppato un’encefalopatia con quadro clinico della sindrome autistica e ipotonia generalizzata. In primo grado, gli appellanti si erano visti rigettare la loro domanda, proprio con la motivazione che la vaccinazione dalla quale gli stessi assumevano essere stato cagionato il danno permanente all’integrità psicofisica del loro figlio non era compresa tra le vaccinazioni obbligatorie per legge e, quindi, allo stato, non consentiva il riconoscimento dell’indennizzo di cui alla l. n. 210/1992. In secondo grado, la Corte d’Appello di Perugia si avvicina all’esame della domanda degli appellanti proprio a partire dal fondamentale assunto per il quale “è venuto meno l’ostacolo di carattere legislativo che impediva l’accoglimento della domanda e che aveva indotto il primo giudice a respingerla”, ma respinge comunque le loro domande. 

[18] Trib, Milano, Sez. lav., 29 settembre 2014. 

[19] P. SANTESE,G. CASCIARO, Il consenso informato, in Collana Fatto e Diritto, Milano 2013 

[20] C. FARALLI, Consenso informato in medicina : aspetti etici e giuridici, in “Salute e Società”,Milano,, 2012; B. VIMERCATI, Consenso informato e incapacità. Gli strumenti di attuazione del diritto costituzionale all’autodeterminazione terapeutica, Milano, 2014; A. CILENTO, Oltre il consenso informato, Napoli, 2014. 

[21] L’elenco di reazioni avverse sovraesposto non è esaustivo di tutti i possibili effetti indesiderati che potrebbero manifestarsi durante l'assunzione del vaccino “COVID-19 compare nel Vaccine AstraZeneca; se manifesta un qualsiasi effetto indesiderato non elencato si informi immediatamente il proprio Medico curante; non è possibile al momento prevedere danni a lunga distanza. 

[22] L. CANAVACCI, I confini del consenso : un'indagine sui limiti e l'efficacia del consenso informato, Torino, 1999, passim.

Risarcimento vaccino Covid: paga lo Stato, la Pfizer si tutela dagli effetti collaterali. Antonio Cosenza su money.it il 26/01/2021 -12/04/2021. Effetti collaterali da vaccino per il Covid: chi risponde di un eventuale risarcimento? La Pfizer si è tutelata: la responsabilità è dello Stato.

Vaccino Covid: la Pfizer si è voluta prendere i meriti riguardo al funzionamento, ma ha scelto di nascondersi da eventuali effetti collaterali. Lo fa presente Repubblica, la quale ha fatto notare che nel contratto che l’Italia ha firmato con la Pfizer-BioNTech per la fornitura del vaccino Comirnaty è presente una clausola che tutela l’azienda da potenziali cause legali. Nel firmare il contratto per la fornitura di vaccini, e consapevole dei possibili effetti collaterali (non gravi ma comunque potrebbero esserci delle reazioni avverse temporanee), la Pfizer-BioNTech ha deciso di lasciare piena responsabilità allo Stato che si occupa della somministrazione. Citando un noto fatto storico, potremmo dire che questa se ne è “lavata le mani”, scegliendo di prendersi solamente i meriti (e le conseguenti ricchezze) e lasciando allo Stato italiano gli oneri di una potenziale difesa dalle cause intentate da coloro che hanno subito degli effetti collaterali del vaccino per il Covid. E va detto che non è la sola clausola a penalizzare l’Italia (come tutti gli altri Paesi che hanno sottoscritto un contratto per la fornitura del Comirnaty): la Pfizer-BioNTech, infatti, ha anche deciso di tutelarsi da eventuali ritardi nelle consegne, come d’altronde successo in questi giorni. Per questo motivo le penali in caso di ammanco nelle forniture non sono automatiche, in quanto nel contratto ci sono formule con cui la Pfizer si è tutelata dal mancato rispetto del cronoprogramma delle forniture. Una causa legale intentata dall’Italia, come tra l’altro annunciato da Giuseppe Conte, difficilmente - quindi - avrebbe successo. Più che altro è l’Italia a doversi guardare dalle potenziali cause intentate da coloro che dopo essersi vaccinati hanno subito una reazione avversa. Come anticipato, infatti, la Pfizer ha scelto di tutelarsi anche da questi.

Effetti collaterali vaccino Pfizer-BioNTech: è lo Stato a dover risarcire. Ribadiamo che ad oggi non ci sono testimonianze di effetti collaterali gravi per chi si sottopone alla vaccinazione per il Covid. Possono verificarsi, infatti, sensazioni di stanchezza, mal di testa, brividi e dolori muscolari o articolari, mentre non si ha notizia di reazioni più gravi. In poche circostanze il vaccino ha provocato reazioni allergiche, ma comunque non ci sono elementi per pensare che questo non è sicuro. Tuttavia, fa comunque riflettere che la Pfizer abbia deciso di tutelarsi da reazioni avverse alla somministrazione, decidendo di inserire una clausola che obbliga lo Stato italiano a rispondere per eventuali richieste di risarcimenti e indennizzi. Come spiegato su Repubblica da quella che viene riconosciuta come una “fonte autorevole”, nei contratti che le Regioni stipulano con le case farmaceutiche per la fornitura dei vaccini anti-influenzali queste clausole non esistono. Anche perché in Italia vi è una legge, la n°210/1992, che obbliga lo Stato ad indennizzare coloro che subiscono danni irreversibili da trasfusioni, somministrazioni di emoderivati e vaccinazioni. E da quando questa è in vigore sono rarissimi i casi in cui lo Stato è stato costretto a risarcire queste vittime, e quando è successo è stato a causa di un errore umano (ad esempio per un dosaggio errato). Con la clausola voluta dalla Pfizer, però, l’azienda lascia allo Stato la responsabilità rispetto a reazioni avverse anche solo temporanee; insomma, qualora una persona vaccinata dovesse riscontrare delle controindicazioni tali da voler intentare una causa di risarcimento, questa dovrà essere presentata allo Stato e non all’azienda che ha realizzato il vaccino.

Scudo penale per gli operatori sanitari impegnati nella somministrazione del vaccino. REDAZIONE NURSE -Avv. Tommaso Gioia- il 03/05/2021 su nursetimes.org. Con l’emanazione del decreto legge n. 44 del primo aprile 2021 il governo ha previsto, all’articolo 3, una esenzione da colpe di natura penale qualora dalla somministrazione del vaccino derivino le conseguenze previste dagli articoli 589 (omicidio colposo) e 590 (lesioni personali colpose) del codice penale. Con il surriscaldarsi degli animi, soprattutto in relazione al dibattito scientifico emerso intorno ai vaccini astrazeneca, è parso opportuno per il legislatore emanare apposita normativa a tutela di tutti gli operatori sanitari che proseguono instancabilmente nella somministrazione dei vaccini. Per quanto possa sembrare superfluo in una fase del genere, in realtà una norma a tutela degli eroi dai camici bianchi, è risultata fortemente necessaria. La giurisprudenza è sempre questione tecnica, lontana da emozioni, sentimenti e soprattutto moralità; quindi, in assenza di normativa a tutela degli operatori sanitari, per i casi di decesso legati al covid-19, in prossimità della somministrazione del vaccino, sono finiti nel registro degli indagati anche i professionisti che materialmente hanno inoculato il vaccino al deceduto. Possono tirare un sospiro di sollievo, quindi, medici e infermieri che, oltre ad essere gravati da un carico di lavoro senza precedenti, potevano essere passibili di indagini di natura penale in caso di decessi legati all’assunzione di vaccino. Il decreto legge in questione, quasi per mera formalità, specifica altresì che “la punibilità è esclusa quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate dal sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”. Quindi, l’operatività della legge penale, sussisterebbe soltanto nella remota ipotesi in cui il vaccino dovesse essere somministrato al di fuori di quelle che sono le linee guida fornite dal Ministero della Salute. Ad ogni modo, il decreto legge fin qui esaminato solleva medici e infermieri da ogni eventuale responsabilità di natura penale senza fornire alcun chiarimento in mera ottica di responsabilità civile e, pertanto, ad oggi resterebbero passibili di responsabilità civile. In questo caso, così come previsto dall’art. 7 della c.d. legge Gelli-Bianco, responsabile civile sarebbe comunque non l’operatore sanitario, ma la struttura sanitaria ove è stato materialmente somministrato il vaccino. Per quel che riguarda l’ipotesi risarcitoria derivante da eventuali danni cagionati dalla somministrazione del vaccino va infine ricordato che in realtà in Italia esiste già una legge, la n. 210 del 25 febbraio 1992, che prevede un indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati. Per il caso del vaccino anti Covid-19, trattandosi di vaccinazione facoltativa la previsione dell’indennizzo è esclusa e, allo stesso tempo, non è preclusa la possibilità di citare al risarcimento del danno la struttura sanitaria ove è stato somministrato il vaccino. Su questo ultimo punto, al fine di blindare ancor di più la serenità di medici e infermieri, nonché delle strutture sanitarie, sarebbe utile estendere le dovute tutele anche in campo civilistico. Avv. Tommaso Gioia

Scudo penale Covid: di cosa si tratta. Cosa prevede il DL 44/2021, modificato e convertito nella L 76/2021, in relazione allo scudo penale Covid per i medici. Riccardo Cantini, intermediario assicurativo, su  sanitainformazione.it il 23 Luglio 2021. Il DL 44/2021, “Misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”, è entrato in vigore lo scorso 1 aprile 2021. Dopo il passaggio alle Camere, il documento ha subito alcune modifiche ed è stato convertito nella L 76/2021, in vigore dal 1 giugno scorso. Cerchiamo di approfondire il Capo I della legge. Questo contiene due importanti misure connesse al contenimento dell’epidemia:

il cosiddetto “Scudo penale” per medici e professionisti sanitari, durante l’emergenza Covid (Artt.3-3bis);

l’obbligo vaccinale del personale sanitario.

Lo Scudo penale Covid

Il DL 44/2021 prevedeva in origine un unico articolo (Art.3) in relazione alla “Responsabilità penale da somministrazione del vaccino anti SARS-CoV-2”, composto da un solo comma. In esso viene esclusa la punibilità in relazione sia all’omicidio colposo (Art.589 del Codice Penale) sia alle lesioni personali colpose (Art.590 del Codice Penale) conseguenti alla somministrazione di un vaccino anti-Covid avvenuta durante la campagna vaccinale straordinaria. Tale esclusione è pacifica, recita il testo, “[…] quando l’uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione.” Nel caso in questione, pare più opportuno parlare di “immunità penale” che di “scudo”.

L’Art.3 bis

La conversione in legge del decreto ha introdotto un ulteriore articolo, il 3bis, che effettivamente introduce un vero e proprio “scudo penale“. In esso si estende la non punibilità, sia in relazione all’omicidio colposo sia in relazione alle lesioni personali colpose, durante la fase di emergenza epidemiologica, anche a tutti i fatti “[…] commessi nell’esercizio di una professione sanitaria“. L’importante è che questi fatti siano connessi alla situazione di emergenza. Rimane però fuori dallo scudo la colpa grave.

Valutare il grado di colpa

Ma come valutare il grado di colpa? Con il Comma 2 dell’articolo summenzionato si specificano alcuni, tra i vari fattori, che possono escludere la gravità. Il giudice può ad esempio tener conto:

“[…] della limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SARS-CoV-2 e sulle terapie appropriate […]”;

“[…] della scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare […];

“[…] del minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato impiegato per far fronte all’emergenza.“

A scanso di equivoci, al professionista conviene a maggior ragione equipaggiarsi di una copertura di responsabilità civile che lo tuteli dalla colpa grave. Come disciplinato dalla cosiddetta legge Gelli, responsabile civilmente, nei confronti del paziente danneggiato, è sempre la struttura sanitaria dove il professionista presta servizio. Tale struttura può esercitare l’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria solo in caso di dolo o colpa grave.

L’obbligo vaccinale

L’Art.4 della Legge 76/2021 introduce inoltre l’obbligo vaccinale anti-Covid per tutti i professionisti e gli operatori dell’ambito sanitario. Il termine ultimo previsto per ottemperare è il prossimo 31 dicembre 2021. Possono essere esclusi dalla vaccinazione – o differirla – solo coloro che hanno condizioni di salute documentabili che rendono attualmente pericolosa la somministrazione.

Nell’articolo si specifica inoltre che il requisito della vaccinazione è essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative. Ciò significa che nel caso di rifiuto, gli organismi competenti sono tenuti a sospendere l’operatore o il professionista sanitario dallo svolgere prestazioni lavorative che possano rischiare di diffondere il contagio. Pertanto l’operatore/professionista sarà costretto o a cambiare mansioni o – nel caso in cui ciò non risulti possibile – ad astenersi dall’attività lavorativa, con inevitabili conseguenze reddituali. Tale situazione di rimansionamento o astensione lavorativa dovrà essere mantenuta entro e non oltre il 31 dicembre 2021.

Lo scudo penale dei sanitari e l’idea distorta di un “privilegio”. Massimiliano Brugnoletti – Brugnoletti & Associati su fareonline.it il 13 Luglio 2021. Il decreto legge n. 44 del 1° aprile 2021 (“misure urgenti per il contenimento dell’epidemia da Covid-19, in materia di vaccinazioni anti Sars-CoV-2, di giusti-zia e di concorsi pubblici”), convertito con legge n. 76 del 28 maggio 2021 (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 maggio 2021), prevede agli articoli 3 e 3-bis le ipotesi di non punibilità del personale sanitario in ambito vaccinale e, più in generale, una limitazione della responsabilità penale per chi esercita una professione sanitaria durante la fase emergenziale Covid-19, fino ai casi di colpa grave. L’art. 3 del decreto 44/2021 prevede l’esclusione della punibilità del personale sanitario addetto alla vaccinazione per i delitti di omicidio e lesioni personali colposi, laddove detti eventi siano causati dalla somministrazione del vaccino. L’esimente per il “vaccinatore” è subordinata al fatto che l’inoculazione del vaccino sia avvenuta conformemente “alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”. Il motivo dell’esclusione della punibilità ha l’evidente obiettivo di rassicurare durante la campagna vaccinale il persona-le sanitario, notoriamente a rischio di coinvolgimento penale per eventi avversi derivanti dalla propria attività. La “copertura” prevista dal decreto era stata chiesta a gran voce dal mondo sanitario per l’allarme generatosi nell’opinione pubblica per i (in verità in numero assai esiguo) decessi verificatisi all’inizio della campagna vaccinale, con le (doverose) aperture di inchieste da parte delle competenti Procure e l’iscrizione nel registro degli indagati di medici ed infermieri; allarme che ha addirittura portato a sospendere temporalmente la somministrazione del vaccino di una nota casa farmaceutica. L’esimente ha dunque scongiurato comportamenti di “medicina difensiva”, purtroppo indotti da una sempre maggiore frequenza di denunce in ambito sanitario, ed i dati in costante aumento delle vaccinazioni giornaliere fondano il proprio successo anche su tale esimente. La norma in esame prevede la non punibilità, in caso di decesso o lesione del vaccinato, se sussistono due alternativi presupposti: a) l’assenza di causalità tra somministrazione del vaccino e l’evento e/o b) la coerente conformità della somministrazione alle prescrizionali dettate per ciascuna tipologia di vaccino. Il personale sanitario ha dunque due possibili “coperture” esimenti: l’in-sussistenza di un nesso di causalità (o con-causalità) tra inoculazione ed evento e, laddove questa causalità fosse accertata, il rispetto delle indicazioni contenute nei documenti prescrizionali per l’inoculazione del vaccino; rispetto che va esteso a tutte le fasi correlate alla somministrazione, come la distribuzione, la conservazione e la preparazione; indicazioni tutte contenute nel “foglietto illustrativo”, ove sono presenti le informazioni inerenti posologia, conservazione, modalità di somministrazione e controindicazioni. Non si può invece negare l’incertezza che potrebbe destare il rinvio alle “circolari pubblicate nel sito internet istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione”, che, in assenza di ulteriori specifica-zioni, rischia di tradursi in una formula vuota e non vincolante sul piano del rispetto delle regole cautelari. Deve essere sottolineato come l’art. 3 del decreto legge n. 44/2021 rappresenti una “disposizione speciale” rispetto a quella “generale” dettata dal secondo comma dell’art. 590 sexies del codice penale (che prevede la non punibilità per imperizia solo se il “sanitario” abbia rispettato pienamente le raccomandazioni previste per la relativa prestazione). Difatti l’art. 3 del decreto legge a) non limita il proprio ambito operativo alle sole ipotesi di “imperizia”, estendendo il campo di applicabilità dell’esimente anche ad ulteriori ipotesi; b) non fa riferimento all’adeguatezza della normativa secondaria (linee guida pubblicate ai sensi di legge) in relazione alla “specificità del caso concreto”, anche in questo caso dettando una norma “aperta” volta a comprendere ipotesi ulteriori rispetto a quelle dettate dal codice penale; c) rende flessibile il richiamo alle regole comportamentali, svincolando il processo di vaccinazione alle cautele poste dal sistema delle linee guida e dalla formalizzazione richiesta all’art. 5 della legge n. 24 dell’8 marzo 2017. Poiché è più favorevole, ai sensi dell’art. 2 del codice penale la disposizione prevista dal decreto legge n. 44/2021 ha efficacia retroattiva; essa potrà quindi valere anche per fatti commessi prima del 1° aprile, giorno di entrata in vigore del decreto, purché relativi a somministrazioni effettuate “nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all’articolo 1, comma 457 della legge 30 dicembre 2020, n. 178”. Si deve poi rilevare che in sede di conversione del decreto legge (legge n. 76/2021), oltre all’esimente prevista nell’art. 3 in ambi-to strettamente vaccinale, il Parlamento ha inserito il nuovo articolo 3-bis, rubricato “Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario durante lo stato di emergenza epidemiologica da COVID-19”. La misura, fortemente auspicata dagli operatori del settore, prevede che, in caso di omicidio colposo e lesioni personali colpose, chi esercita professioni sanitarie è punibile “solo nei casi di colpa grave”: il secondo comma del citato art. 3-bis elenca poi i presupposti utili ad escludere la gravità: i) la limitatezza delle conoscenze scientifiche in un preciso momento storico, ii) la scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare e iii) il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal per-sonale non specializzato, impiegato per far fronte all’emergenza. Si deve sottolineare che i fattori citati nella disposizione non sono tassativi, poiché la stessa li indica sottolineando espressamente che “…il giudice tiene conto, tra i fattori che ne possono escludere la gravità…”, potendo il giudice tener conto di altre cause legittimanti l’esclusione della colpa. La misura, come anticipato, è stata a più riprese auspicata dalla Federazione Nazionale dell’Ordine dei Medici (da ultimo nell’audizione svolta dal Presidente Anelli dinanzi alla Commissione Affari Costituzionali del Senato lo scorso 20 aprile), al fine di tenere in considerazione sino in fondo le difficoltà che i sanitari – trovatisi a combattere una malattia ignota, in un contesto in cui le evidenze scientifiche sono in continuo divenire e derivano prevalentemente da studi osservazionali – hanno dovuto affrontare (e stanno ancora affrontando) nella lotta contro il virus. Lo scudo penale previsto dal decreto legge, per effetto dell’articolo 3-bis, non riguarderà dunque solamente la somministrazione dei vaccini, ma l’intero perimetro delle professioni sanitarie in tempo di pandemia: la norma introdotta in sede di conversione, ampliando la sfera di non punibilità a tutti gli eventi avversi occorsi durante la fase emergenziale, limita infatti la responsabilità penale degli operatori sanitari alla sola colpa grave e, nel definirla, attribuisce un peso decisivo al “fattore contestuale” e alle difficoltà nelle quali gli operatori stessi sono chiamati a lavorare in siffatto contesto. Descritte le due norme introdotte dal decreto legge n. 44 del 1° aprile 2021 e dalla legge di conversione n. 76 del 28 maggio 2021, devo rileva-re che, differentemente da quanto emerge nel dibattito pubblico, a mio parere non è corretto parlare di “scudo penale”, termine che lascia in qualche modo trasudare l’idea di un privilegio a tutela di persona (comunque) colpevoli ed altrimenti “indifendibili”. A mio avviso, invece, la previsione dettata dal decreto legge dovrebbe essere valorizzata quale norma di “buon senso”, che tiene “realisticamente” conto delle condizioni eccezionalmente critiche e dell’estrema difficoltà ed incertezza scientifica in cui operano i sanitari. La norma ha dunque il pregio di tutelare lo “slancio” che ha caratterizzato la prima fase dell’emergenza, di “abbracciare” gli “eroi” ampiamente celebrati nei primi momenti della pandemia ed evitare che quegli eroi si trasformassero in un battito di ciglia in imputati, in veri e propri capri espiatori, togliendoli dall’imbarazzo di dover scegliere tra la propria incolumità giudiziaria e la tutela “a proprio rischio e pericolo” della salute dei pazienti, evitando la (giusta) tentazione di atteggiamenti “auto-cautelativi”. Massimiliano Brugnoletti – Brugnoletti & Associati

Agamben e lo scudo penale...facciamo chiarezza sulla responsabilità di eventuali effetti avversi. Maicolengel il 15 Ottobre 2021 subutac.it. Ci avete segnalato un video, che viene sempre dalle audizioni in Senato sul Green Pass. Stavolta a parlare è Giorgio Agamben.

La sua audizione al Senato comincia con questa affermazione:

…voi sapete che il governo, con un apposito decreto legge il numero 44 del 2021 detto scudo penale ora convertito in legge, si è esentato da ogni responsabilità per i danni prodotti dal vaccino. E quanto gravi possano essere questi danni risulta dal fatto che l’articolo 3 del decreto in questione menziona esplicitamente gli articoli 589 e 590 del codice penale che si riferiscono alle omicidio colposo e ai decreti e alle lesioni colpose…

Non ho onestamente intenzione di trattare tutto l’intervento di Agamben, ma solo questa intro, perché chi comincia così purtroppo ha già dimostrato di non essere particolarmente interessato a riportare i fatti.Perché lo scudo penale non esonera dalle responsabilità “lo Stato” o “il governo”, bensì i medici. Riporto da Sanità Informazione, che riassumeva così il decreto: …esclude la responsabilità penale del personale medico e sanitario incaricato della somministrazione del vaccino anti Sars-CoV-2, per i delitti di omicidio colposo e di lesioni personali colpose commessi nel periodo emergenziale, allorché le vaccinazioni siano effettuate in conformità alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all’immissione in commercio e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute…

Questo non significa affatto esentare lo Stato dalle possibili responsabilità. Si esentano i sanitari che devono inoculare il vaccino da responsabilità che non derivino dalla loro condotta professionale. Per evitare che ogni reazione avversa di qualsivoglia genere possa farli finire nel registro degli indagati, come invece potrebbe avvenire senza quello scudo. La legge serve solo a questo, a permettere agli operatori sanitari di agire in maniera serena. Senza evitare possibili responsabilità governative, e senza evitare agli operatori sanitari di rispondere di condotte sbagliate da parte loro.

Agamben è un filosofo di 79 anni, laureato in Giurisprudenza nel 1965, credo che sia perfettamente in grado di leggere il Decreto legge come abbiamo fatto noi. Purtroppo Agamben non è l’unico a sostenere che quel decreto esonerasse lo Stato da eventuali indennizzi, ma già Pagella Politica a settembre 2021 aveva spiegato la questione al meglio. Perché vedete, è vero che la legge 210 del 1992 che parla di indennizzi fa preciso riferimento alle vaccinazioni obbligatorie, ma, come appunto spiegava Pagella Politica:

Già a distanza di pochi anni dall’entrata in vigore della legge, la Corte costituzionale ha infatti chiarito che la norma è incostituzionale là dove non prevede che l’indennizzo spetti anche ai soggetti danneggiati da vaccini non obbligatori ma incentivati. Nel 1998 i giudici costituzionali si sono occupati in particolare di vaccino contro la poliomielite e hanno stabilito che non c’è ragione di differenziare il caso «in cui il trattamento sanitario sia imposto per legge da quello in cui esso sia, in base a una legge, promosso dalla pubblica autorità». E neppure «il caso in cui si annulla la libera determinazione individuale attraverso la comminazione di una sanzione, da quello in cui si fa appello alla collaborazione dei singoli a un programma di politica sanitaria». Il vaccino anti Covid è chiaramente incentivato, lo Stato ne risponde direttamente. Agamben ha esordito al Senato affermando una cosa non corretta. Non abbiamo intenzione di aggiungere altro, ma siamo al terzo articolo su queste audizioni al Senato, la domanda sorge spontanea: quali sono stati i criteri con cui è stata selezionata la gente invitata a parlare? L’intervento di Agamben era stato trattato anche dall’amico Puente su Open qualche giorno fa.

Roberto Speranza, la causa da 100 mln per i morti-Covid: "Perché cambiò la circolare?". Alzano, il sospetto del direttore. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. I legali dei 500 familiari delle vittime del Covid, guidati da Consuelo Locati, riporta Il Giornale, definiscono “fumo negli occhi” la memoria di 36 pagine depositata dall’Avvocatura dello Stato a difesa di Palazzo Chigi e del ministero della Salute guidato da Roberto Speranza. Il motivo dello scontro è la causa civile da 100 milioni di euro ora nelle mani del Tribunale Civile di Roma. Da una parte ci sono i parenti dei morti nella Bergamasca, dall’altra il governo. Uno dei nodi è la questione delle circolari. Il 22 gennaio 2020 il ministero della Salute diede indicazioni operative per individuare i positivi. Per sottoporre a test un sospetto bastava che il paziente presentasse motivi epidemiologici (viaggio in Cina) o clinici (polmonite strana). "Era una circolare perfetta", osserva Giuseppe Marzulli, ex direttore sanitario dell’ospedale di Alzano Lombardo. Ma il 27 gennaio il dicastero modificò le disposizioni e tolse al medico la discrezionalità di fare un test ai malati con un decorso clinico inspiegabile. "Perché la cambiarono?", si chiede Marzulli. Si è sempre detto che vennero seguite le indicazioni dell’Oms ma nella memoria difensiva l’Avvocatura aggiunge che la scelta avvenne "sulla base delle indicazioni" delle Regioni per migliorare “il coordinamento inter-istituzionale”. In sostanza, attacca Robert Lingard, il giovane italiano emigrato a Londra che ha ripescato dalla rete il dossier Oms scomodo per il governo, siccome sanno di avere compromesso la sorveglianza epidemiologica con quella modifica sbagliata, ora tentano di aggrapparsi alla scusa di aver preferito facilitare il coordinamento. Abbiamo visto quando si è trattato di chiudere la Valseriana come erano coordinati. In verità il virus è stato libero di circolare fino a fine febbraio. E a Codogno è stato scovato solo contravvenendo alle indicazioni del ministero”.

"Ha sbagliato la circolare". Ora Speranza è all'angolo. Giuseppe De Lorenzo il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Ministero della Salute e governo sulla graticola per la causa da 100 milioni di euro. Il direttore dell'ospedale di Alzano: "Perché la modificarono?" Ci sono volute alcune ore per analizzare il documento, ma ora il sentimento barcolla tra l’incredulo e il basito. I legali dei 500 familiari delle vittime del Covid, guidati da Consuelo Locati, considerano “fumo negli occhi” la memoria depositata dall’Avvocatura dello Stato a difesa di Palazzo Chigi e del ministero della Salute. Trentasei pagine “generiche e molto formali”, in cui “vengono paragonate le pere con le mele”. E che dunque sanno di accozzaglia di argomenti “poco convincenti”. Il motivo dello scontro è la causa civile da 100 milioni di euro ora nelle mani del Tribunale Civile di Roma. Da una parte i parenti dei morti nella Bergamasca, dall’altra le istituzioni statali. Governo in primis. Entrambe le parti hanno consegnato alla magistratura le loro deduzioni scritte e si attende nei prossimi giorni una decisione. Intanto però è tempo per le strategie. E di passaggi poco chiari nella difesa dell’Avvocatura, il pool di legali ne ha trovati a bizzeffe.

La conto sulle vittime. Innanzitutto quei dubbi sul conteggio dei defunti di Covid (leggi qui). I familiari sostengono che con alcune omissioni il governo abbia “cagionato decine di migliaia" di dipartite, "un terzo delle quali avrebbero potuto essere evitate”. L’Avvocatura invece ritiene non sia così. E che comunque le percentuali di probabilità siano troppo basse per dare la colpa all’esecutivo. “L’intervento statale (e regionale) - si legge - avrebbe avuto il 33,33% di possibilità di salvare ciascuna delle vittime, il cui decesso, invece, si sarebbe comunque verificato con una probabilità del 66,67%”. Cioè un dato maggiore a quel 50%+1 che, in punta di diritto, avrebbe certificato il “nesso di causalità” tra omissioni dello Stato e morti. “Provate a fare il conto: quanto è il 33% di 126mila decessi?”, domanda Robert Lingard. “Parliamo di 42mila anime, persone che oggi sarebbero ancora vive. Sono calcoli da terza elementare. Vi immaginate chi non sa fare conti basilari a realizzare le stime sull'R0?”.

Qualcosa non torna. Che poi anche il computo totale di vite spezzate sembra non tornare. L’Avvocatura è convinta che “il rapporto tra casi confermati e vittime in Italia non si discosta da quello esistente nel resto del mondo”, quindi tutto sommato il Belpaese non s'è comportato così male. Il problema, fanno notare i familiari delle vittime, è che “per dimostrare la sua tesi il governo paragona le mele con le pere”. La piccola Italia viene confrontata con l'Africa intera e con l'America. Inoltre non viene considerato il tasso di mortalità per 100mila abitanti, ma solo il valore assoluto in rapporto ai contagi. "Mi sono già attivato per spedire a Speranza una scatola di regoli - dice Lingard - cosi che possa consegnarli agli avvocati che difendono il Ministero comparando gli Stati con i continenti”. Ci sono poi altre due questioni da sottolineare. L’Iss sul suo sito avverte che a inizio pandemia è “probabile” che i decessi siano stati “sottostimati” perché “molti pazienti sono deceduti senza essere testati”. Inoltre l’Istat assicura che nel 2020 la mortalità è stata la più alta mai registrata dal Dopoguerra. Come può allora l’Avvocatura sostenere che in Italia ci siano statistiche simili al resto del mondo? “Dovranno trovare argomenti più convincenti - dice al Giornale.it l’avvocato Luca Berni - Servirà ben altro per minimizzare responsabilità che sono ineluttabili”.

Il mistero delle circolari. Il discorso vale anche per la questione circolari, uno dei principali capi di accusa che pende sul ministero guidato da Speranza. Come noto il 22 gennaio il dicastero diramò indicazioni operative per individuare i positivi. Quel giorno per sottoporre a test un sospetto bastava che il paziente presentasse motivi epidemiologici (viaggio in Cina) o clinici (polmonite strana). “Era una circolare perfetta”, dice al Giornale.it Giuseppe Marzulli, ex direttore sanitario dell’ospedale di Alzano Lombardo. I problemi arrivarono il 27 gennaio, quando il dicastero modificò le disposizioni e tolse al medico la discrezionalità di fare un test ai malati con un decorso clinico inspiegabile. “Perché la cambiarono?”, si chiede Marzulli. Si è sempre detto che vennero seguite le indicazioni dell’Oms, cosa che non solleva il ministero dalle proprie responsabilità. Ma nella memoria difensiva l’Avvocatura aggiunge che la scelta avvenne "sulla base delle indicazioni" delle Regioni per migliorare “il coordinamento inter-istituzionale”. Ed è qui che casca l’asino. “In sostanza - attacca Lingard - siccome sanno di aver compromesso la sorveglianza epidemiologica con quella modifica sbagliata, ora tentano di aggrapparsi alla scusa di aver cercato di facilitare il coordinamento. In verità il virus è stato libero di circolare fino a fine febbraio. E a Codogno è stato scovato solo contravvenendo alle indicazioni del ministero”.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi.

Luca Serranò per repubblica.it l'1 luglio 2021. "La delibera dichiarativa dello stato di emergenza adottata dal Consiglio dei ministri il 31.1.2020 è illegittima per essere stata emanata in assenza dei presupposti legislativi, in quanto non è rinvenibile alcuna fonte avente forza di legge, ordinaria o costituzionale, che attribuisca al Consiglio dei ministri il potere di dichiarare lo stato di emergenza per rischio sanitario". E ancora: "A fronte della illegittimità della delibera, devono reputarsi illegittimi tutti i successivi provvedimenti emessi per il contenimento e la gestione dell’emergenza epidemiologica". Così il tribunale di Pisa impallina la gestione dell'emergenza coronavirus da parte del Governo Conte. Le "censure" sono messe nero su bianco nelle motivazioni di una sentenza con cui il tribunale ha prosciolto due cittadini marocchini, sorpresi fuori casa durante il primo lockdown senza giustificato motivo. Il giudice Lisa Manuali li ha assolti "perché il fatto non sussiste", considerando illegittimi alla radice i decreti del governo. "A causa della epidemia da Covid -19 sono state emanate disposizioni che hanno comportato la compressione di alcune libertà garantite dalla nostra Carta Costituzionale - si legge nella sentenza-  libertà che concernono i diritti fondamentali dell’uomo e costituiscono il “nucleo duro “ della Costituzione stessa".  Secondo il giudice, "un Dpcm, fonte meramente secondaria, non atto normativo, non può disporre limitazioni della libertà personale", motivo per cui "non si ritiene di poter dubitare della illegittimità e invalidità dei decreti che hanno imposto la compressione di diritti fondamentali".

Il 54enne cinese non fu sottoposto a tampone. Paziente con sintomi Covid ricoverato già a gennaio 2020 in Val Seriana: quasi un mese prima del "caso zero". Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2021. Quasi un mese prima del ‘paziente zero” di Codogno, un 54enne cittadino cinese residente in Val Seriana era stato ricoverato all’ospedale “Bolognini’ di Seriate, in provincia di Bergamo, con sintomi riconducibili al Covid. La circostanza è emersa dalla cartella clinica dell’uomo, ricoverato il 26 gennaio 2020, recapitata da un anonimo nella casella della posta dell’avvocato Consuelo Locati, legale dei familiari delle vittime del Covid che stanno portando avanti una causa civile al tribunale di Roma, dove sono rappresentati più di 500 parenti di vittime del Coronavirus, soprattutto bergamaschi.

Un documento che, come scrive l’Agi, è stato depositato in Procura venerdì scorso, il giorno stesso in cui è stato recapitato. Il 54enne cinese della Val Seriana, ancora allettato a causa di un ictus, venne ricoverato il 26 gennaio dello scorso anno con “tosse e comparsa di dispnea”: in particolare la Tac a cui venne sottoposto registrò la presenza in un polmone di “due sfumati addensamenti parenchimali con aspetti a vetro smerigliato”, tipica descrizione del Coronavirus. Il cittadino cinese venne quindi dimesso il 17 febbraio successivo a causa di un “focolaio infettivo polmonare in atto” assimilabile al Covid. All’epoca le circolari ministeriali prevedano il tampone sia per chi proveniva da Wuhan, che per la presenza di sintomi riconducibili alla Sars: per il 54enne però non si seguì la procedura. Recentemente la Procura di Bergamo, che indaga sull’epidemia di Covid in Val Seriana e sulle presunte responsabilità ‘politiche’ nella gestione dell’epidemia, ha ricostruito che già l’11 febbraio all’ospedale di Alzano, facente parte dell’Azienda socio sanitaria territoriale Bergamo Est come l’ospedale di Seriate, si potevano contare fino a 40 casi di sospetto Covid. Una data che potrebbe dunque spostare ancora più indietro il "calendario" dell’infezione in Italia. Secondo quanto riferisce il Corriere della Sera, non risultano da parte del 54enne viaggi in Cina né nel 2019, né nel 2020. Il paziente di Seriate aveva ed ha parenti stretti che lavorano anche fuori della provincia di Bergamo.

La battaglia di Bergamo: "Ora lo Stato paghi per i nostri morti". Paolo Berizzi su La Repubblica il 2 luglio 2021. In duemila pagine l'atto di accusa dei familiari delle vittime nel processo civile al via giovedì. "Governo e Regione non erano all'altezza. Più di duemila pagine per portare lo Stato alla sbarra: governo, ministero della Salute e Regione Lombardia. Duemila pagine ovvero una mole di documenti, stralci di verbali, valutazioni, rilievi. E storie. Storie di morti di Covid. "Migliaia di bergamaschi e bresciani sono stati mandati a morire dalla politica", dalle negligenze e dal malfunzionamento di "un sistema che di fronte alla pandemia si è fatto trovare impreparato e non ha saputo proteggere i cittadini".

Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 3 luglio 2021. Più di duemila pagine per portare lo Stato alla sbarra: governo, ministero della Salute e Regione Lombardia. Duemila pagine, ovvero una mole di documenti, stralci di verbali, valutazioni, rilievi. E storie […] di morti di Covid. «Migliaia di bergamaschi e di bresciani sono stati mandati a morire dalla politica», dalle negligenze e dal malfunzionamento di «un sistema che di fronte alla pandemia si è fatto trovare impreparato e non ha saputo proteggere i cittadini». Parole dei legali che rappresentano 500 familiari di vittime del coronavirus e che, a partire dall' 8 a luglio, a Roma, si giocheranno queste carte nel processo civile per chiedere giustizia sulla "strage lombarda": l'ecatombe causata dal virus nelle terre più colpite. Con epicentro proprio le province di Bergamo e Brescia. […] Dietro la strage silenziosa ci sono responsabilità? Di chi? […] […] Ecco la versione che sarà al centro del processo al tribunale civile di Roma. «Il 7 febbraio 2020 l'Istituto superiore di sanità dichiara che non c'è circolazione del virus in Italia () e l'11 febbraio reitera che in Europa il virus non circola». Peccato che l'Iss sapeva che «il virus era già presente in Italia almeno dalla presenza dei due turisti cinesi dal 18 gennaio 2020». Sapeva che «il 7 febbraio era stato individuato un italiano positivo ma asintomatico e che il giorno dopo nel nostro Paese c' erano già tre casi di positività». Sapeva ancora - verbale dell'8 febbraio 2020 - dei «due casi di Taiwan, pazienti transitati in Italia sul treno Italo sulla tratta Firenze- Roma () Grazie alla lista passeggeri è stato possibile rintracciare le persone venute in contatto coi due soggetti, in particolare una signora che aveva accusato un rialzo termico in conseguenza di un intervento chirurgico». E però: nessuna informazione […] Come mai? La task force decide di «tenere un profilo basso e non allarmare la popolazione». […] 

La magistratura di Trieste: «Le critiche all’Asugi sulla gestione del Covid sono reali». Giampaolo Sarti il 3/7/2021 su  ilpiccolo.gelocal.it. La Procura dà ragione a Zalukar e Stabile che durante la prima ondata avevano attaccato l’operato dell’Azienda sanitaria. La gestione dell’emergenza Covid da parte dell’Asugi entra nelle aule giudiziarie. La magistratura triestina dà ragione al consigliere regionale Walter Zalukar, ex Forza Italia e ora nel gruppo misto, e alla senatrice di Fi Laura Stabile che durante la prima ondata pandemica avevano censurato pubblicamente con due post su Facebook l’operato dell’Azienda sanitaria sui contagi in Medicina d’urgenza a Cattinara, che non erano stati subito resi noti alla cittadinanza, e sulla fornitura dei camici speciali al personale. L’Asugi aveva reagito querelando i due esponenti politici, accusandoli di diffamazione e procurato allarme. Querele che però sono state archiviate: i magistrati che si sono occupati del caso, i pm Cristina Bacer e Pietro Montrone, hanno accertato la fondatezza dei rilievi mossi dal consigliere e dalla senatrice, difesi nel procedimento penale dall’avvocato William Crivellari. Tutto comincia con un primo post dal titolo “Cattinara infettata, cronaca di un contagio annunciato”, pubblicato il 16 aprile 2020 da Zalukar. Nel testo il consigliere biasima il fatto che nel reparto di Medicina di urgenza si erano verificati casi di contagio già dal 10 aprile tra i pazienti e successivamente tra il personale. Secondo Zalukar l’Asugi non aveva comunicato quanto stava accadendo. La cittadinanza, insomma, non sarebbe stata messa a conoscenza. Il giorno dopo, il 17 aprile, Stabile esce con un altro post dal titolo “Cattinara e Maggiore meno Dpi (Dispositivi di protezione individuale) per medici e infermieri”. Il testo è poi condiviso da Zalukar. La senatrice attacca l’Asugi sulle scelte in merito ai camici da consegnare ai medici. Il post fa riferimento a una circolare dell’Azienda in cui si stabilisce di mettere a disposizione le tute Tyvek, ad alta protezione anti Covid, agli operatori che prestano servizio nelle sale operatorie, nelle rianimazioni, nelle recovery room, nelle terapie intensive post operatorie e nella terapia semi intensiva pneumologica. Qualsiasi altro operatore che avesse avuto la necessità di rapportarsi con malati Covid, non avrebbe quindi potuto usare quella tipologia di camici. Di qui la polemica. In seguito ai post l’Asugi, a luglio, aveva presentato le querele per diffamazione e procurato allarme, sottoscritte dal direttore generale Antonio Poggiana. L’Azienda sosteneva che le critiche di Zalukar e Stabile non corrispondevano al vero: per quanto riguarda i camici, sottolineava Asugi, la circolare prevedeva l’utilizzo dei Dpi da parte di tutto il personale. Ma Stabile, in realtà, faceva riferimento specifico alle tute. Infatti il pm Bacer rileva che quanto affermato dalla senatrice nel post contro la circolare è stato «correttamente riportato». Montrone, dal canto suo, evidenzia che i post sono «sostanzialmente veritieri» e che «non costituiscono reato» in quanto i due politici hanno esercitato il diritto di critica. Per quanto riguarda la polemica sui contagi in Medicina di urgenza, invece, Bacer conferma che dal 10 aprile si erano verificate le prime infezioni da Covid. Il focolaio c’era. E, precisa il magistrato, «non risulta dagli atti che detta positività sia stata resa pubblica in data anteriore al 16 aprile» (cioè quando Zalukar posta la sua critica). Le argomentazioni del consigliere risultavano vere. Entrambe le querele dell’Asugi sono state archiviate su richiesta dei pm, accolta dai gip Marco Casavecchia e Manila Salvà.

Camilla Canepa, "la Tac senza liquido di contrasto": un drammatico errore dopo il ricovero? Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. Continuano a emergere nuovi dettagli sulla tragica morte di Camilla Canepa, la ragazza 18enne deceduta a Genova a causa di una trombosi riscontrata dopo la somministrazione della prima dose AstraZeneca. Secondo quanto scrive La Stampa, la ragazza fu sottoposta a una Tac senza l'impiego di liquido di contrasto. Questa pratica potrebbe tuttavia rappresentare una contraddizione delle linee guida diffuse dall'Agenzia italiana del farmaco (Aifa). Un dettaglio emerso nell'inchiesta sulla scomparsa della studentessa diciottenne e che potrebbe fare luce sulle responsabilità della tragedia. I dettagli emergono da una nota dell'Aifa emessa il 26 maggio scorso, in materia di "complicanze tromboemoliche post-vaccinazione anti-Covid 19 con Vaxzevria - AstraZeneca". Nel dossier di 11 pagine, uno dei paragrafi recita: "Nel sospetto di trombosi dei seni venosi cerebrali l'esame di prima scelta è oggi l'angio-Tac, indicando al medico neuroradiologo il medesimo sospetto clinico così da poter studiare correttamente, con il messo di contrasto, i distretti venosi". Fino al tardo pomeriggio del 3 giugno 2021, Camilla non aveva presentato alcun effetto collaterale. Poi è successo tutto in rapida successione: prima una cefalea e poi una forte fotosensibilità. Insieme ai familiari, la giovane si è subito recata all'ospedale di Lavagna, dove le è stata diagnosticata una presunta "piastrinopenia" (carenza di piastrine) di matrice ereditaria e però contestata dalla famiglia, e l'assunzione nei giorni precedenti di farmaci per una cura ormonale. Ai medici era stato comunicato che la ragazza si è era sottoposta alla vaccinazione con il preparato anglo-svedese alcune settimane prima, e il valore delle piastrine quella sera era al di sotto della soglia ritenuta "normale". Questo, quanto emerso dalle cartelle cliniche acquisite dai carabinieri. A questo punto, i sanitari dell'istituto della riviera ligure hanno eseguito una Tac, tuttavia senza liquido di contrasto. La domanda che sorge spontanea è se il comportamento dei sanitari sia stato corretto, alla luce di quanto prescriveva l'Aifa in una circolare emessa prima che la giovane si presentasse al pronto soccorso? Tra gli ulteriori accertamenti da effettuare anche il motivo per cui Camilla è restata così brevemente in osservazione, nonostante i sintomi erano chiaramente "sospetti" secondo le linee guida dell'Aifa. Riguardo ai dubbi degli inquirenti, il direttore generale dell'Asl 4 di Chiavari, Paolo Petralia ha spiegato: "Rispettiamo ogni accertamento della magistratura, ma mi sento di dire che solo un approfondimento tecnico molto specifico potrà far luce con precisione sui vari spunti investigativi, in prims quello inerente la circolare Aifa sulla necessità della Tac con contrasto". 

Matteo Indice per "la Stampa" il 17 giugno 2021. Camilla Canepa fu sottoposta a una Tac senza l'impiego di liquido di contrasto. Ma questa pratica, e lo confermano solide fonti investigative, potrebbe contraddire le linee guida diffuse dall' Aifa. È uno dei dettagli più importanti emersi ieri nell' inchiesta sulla tragedia della studentessa diciottenne. Per orientarsi è necessario ripercorrere il documento emesso dall' Agenzia italiana del farmaco il 26 maggio scorso, in materia appunto di «complicanze tromboemboliche post-vaccinazione anti Covid 19 con Vaxzevria-AstraZeneca». È un dossier di 11 pagine, e uno dei paragrafi più rilevanti recita: «Nel sospetto di trombosi dei seni venosi cerebrali l'esame di prima scelta è oggi l' angio-Tac, indicando al medico neuroradiologo il medesimo sospetto clinico così da poter studiare correttamente, con il mezzo di contrasto, i distretti venosi». Camilla era stata bene fino al tardo pomeriggio del 3 giugno, quando ha manifestato cefalea e una forte fotosensibilità. Ha raggiunto insieme ai familiari il pronto soccorso di Lavagna e qui ha trascorso alcune ore dopo che erano stati registrati una presunta «piastrinopenia» (carenza di piastrine) di matrice ereditaria e però contestata dalla famiglia, e l'assunzione nei giorni precedenti di farmaci per una cura ormonale. Ai medici era stato premesso che il 25 maggio si era vaccinata con AstraZeneca e il valore delle piastrine quella sera - è certificato dalle cartelle cliniche acquisite dai carabinieri - era inferiore al range ritenuto «normale». A quel punto i sanitari dell'istituto lavagnese hanno eseguito una Tac, come premesso senza liquido di contrasto. È stata una prassi corretta, alla luce di ciò che prescriveva l'Aifa con una circolare emessa prima che la giovane si presentasse al pronto soccorso? Che tipo di quadro clinico era stato palesato al neuroradiologo? Non c' è dubbio che quanto accaduto a Lavagna rappresenti un nodo fondamentale. E tra gli ulteriori dati da verificare vi sono la brevità della permanenza in osservazione dopo il primo accesso della vittima e le risicate consulenze specifiche richieste davanti a sintomi che sempre l'Aifa evidenzia come «sospetti» in tutte le sue circolari. Sui dubbi degli inquirenti Paolo Petralia, direttore generale dell'Asl 4 Chiavarese da cui dipende l' ospedale di Lavagna ha spiegato: «Rispettiamo ogni accertamento della magistratura, ma mi sento di dire che solo un approfondimento tecnico molto specifico potrà far luce con precisione sui vari spunti investigativi, in prims quello inerente la circolare Aifa sulla necessità della Tac con contrasto».

Pietro Senaldi contro Roberto Speranza: "Camilla Canepa? Ammazzata dalla sua gestione delirante".  Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Camilla non è stata uccisa dal Covid, che sui diciottenni sani non è letale, e in fondo neppure dal vaccino, benché il suo decesso sia dovuto a un'iniezione di Astrazeneca. La giovane di Sestri Levante è stata ammazzata dalla gestione delirante che il governo, e in particolare il ministro della Salute Speranza e il Comitato Tecnico Scientifico, ha avuto della comunicazione in merito agli effetti del siero anglo-svedese. È opportuno ricordare che Libero è da sempre a favore della profilassi di massa. La riteniamo un dovere civico. Fatichiamo a comprendere chi, dopo aver maledetto la sorte chiuso in casa per un anno e mezzo, essersi terrorizzato, aver visto i camion con le bare e le aziende chiudere, ora, che stiamo faticosamente mettendo la testa fuori dal tunnel, si ritrae davanti all'iniezione, aspettando di beneficiare di un'immunità di gregge in arrivo solo dalla generosità e dal coraggio del prossimo. E però bisogna anche dire che, a fronte delle informazioni, contraddittorie, sempre vaghe e mai scientifiche che Speranza e i suoi esperti danno sulla profilassi, oggi vaccinarsi può essere considerato un gesto eroico. Sono tempi in cui si spreca la parola eroe per descrivere chi lascia il posto a un anziano sull'autobus o chiama il pronto soccorso se assiste a un incidente. Se proprio bisogna esagerare, ci pare più giusto dire che per noi è un gesto di eroismo civico offrire il braccio al vaccino, per proteggere se stessi ma anche gli altri, perché il governo ha fatto di tutto per spaventare i cittadini in merito alla profilassi. Il caso Astrazeneca fa scuola. Prima ci hanno detto che non poteva essere somministrato sopra i 55 anni, e così abbiamo ritardato a immunizzare gli anziani, categoria a rischio a cui il vaccino di Oxford non fa male. Poi ci hanno spiegato che si erano sbagliati e che sotto i quaranta era sconsigliata l'iniezione, però hanno consentito alle Regioni di continuare a farla. Quindi c'è stata la discriminazione di genere: Astrazeneca è pericolosa, ma solo in casi rarissimi e per le donne, comunque meno di quanto lo sia la pillola anticoncezionale. E nel mentre che lo sconsigliava, il governo ha lasciato che le Regioni organizzassero delle giornate aperte, addirittura delle nottate della profilassi, con i ragazzi liberi di farsi inoculare senza prenotazione e senza che nessuno gli chiedesse alcunché. Camilla è vittima di questa superficialità istituzionale, sulla quale soffia forte il sospetto che le saghe della somministrazione libera siano organizzate per far fuori le scorte di Astrazeneca prima che scadano, alla spera in Dio, senza guardare in faccia ai ragazzi a cui si buca il braccio, e ovviamente senza curarsi della loro cartella clinica. Ancora ieri, a cadavere caldo, Speranza spiegava alla nazione che tutti i vaccini sono sicuri. Lo sciagurato parlatore, incapace di rendersi conto che le parole rassicuranti per descrivere una tragedia hanno il solo effetto di seminare il panico. È atteso, come un vaticinio, il parere del Comitato Scientifico su Astrazeneca. Qualunque sia, è destinato a contraddirne almeno tre precedenti. Per fortuna gli italiani, per la maggioranza, sembrano più saggi del ministro della Salute e dei suoi cervelloni. Hanno capito che i vaccini salvano le vite e che, in rarissimi casi, su donne fertili che, magari senza saperlo, hanno fatto il Covid o assumono anticoncezionali, Astrazeneca può fare male. Non si può pretendere però che Camilla e i suoi coetanei, ai quali le istituzioni organizzano feste per offrire i vaccini come mele proibite, e per taluni avvelenate, arrivino da soli a queste conclusioni. Le autorità regolatorie dei farmaci e il governo non devono raccomandare alle Regioni e alla popolazione di non assumere un farmaco di cui consentono la diffusione. Sconsigliare non può consentire allo Stato di lavarsi la coscienza della sorte dei cittadini, come fa con le scritte e le foto terrorizzanti sui pacchetti di sigarette. Ci vogliono linee guida e divieti, e guai se stavolta il ministero prova a rimpallare le proprie responsabilità sulle Regioni, come faceva ai tempi in cui andavano di moda i giallorossi. Lo Stato deve avere il coraggio di vietare Astrazeneca a certe fasce d'età e di finire di farsi pubblicità con le giornate del vaccino libero. Non può sempre pretendere che siano solo i cittadini -sudditi ad avere coraggio.

AstraZeneca, adesso fuori i colpevoli. Andrea Indini l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Le sparate dei virologi, le giravolte dell'Aifa e il caos Open Day. Anche Palù ammette: "Non c'è mai stato un divieto". Ora però il Cts corre ai ripari: perché non lo si è fatto prima? Quando lo scorso aprile è arrivata la circolare dell'Aifa che raccomandava l'uso dei vaccini a vettore virale (cioè AstraZeneca e Johnson&Johnson) per le persone con più di 60 anni, il governatore Luca Zaia ha preso una decisione: "Quel vaccino si sarà fatto solo a chi ha più di 60 anni, salvo diversa anamnesi del medico". E così gli Open Day vennero banditi dalla Regione Veneto. Una scelta anche condivisa con il generale Francesco Paolo Figliuolo. "Se resta questa l'indicazione - gli spiegò quando lo incontrò lo scorso 13 maggio - finiti gli over 60, i vaccini a vettore virale rischiano di finire su un binario morto". Al tempo la notizia era passata quasi sotto traccia ma ora che una 18enne è morta e un’altra donna di 34 anni è in rianimazione dopo essere stata operata al cervello per una trombosi, il tema torna fuori con prepotenza e le domande che sorgono spontanee sono: perché nonostante le raccomandazioni si è continuato a somministrare AstraZeneca alle donne sotto i sessanta? Chi ha preso questa decisione? E soprattutto: qualcuno pagherà per questo errore? Si è sempre parlato di trombosi rare. "Pochissimi casi", lo hanno ripetuto in tutte le salse. A inizio aprile Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, lo considerava "tra i più sicuri al mondo". Non solo. Spiegando che "i casi di trombofilia sono infinitesimali" e che comunque "non esiste un vaccino sicuro per tutti al 100 per cento", in una intervista a SkyTg24, non si faceva alcun problema a dire che lo avrebbe consigliato "alle donne giovani, senza dubbio". Ovviamente era in buona compagnia. In quegli stessi giorni Massimo Galli, primario del reparto Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, la pensava esattamente allo stesso modo. "Queste situazioni possiamo chiamarle rumore di fondo - spiegava a L'aria che tira - quello che purtroppo è riservato all’umanità ogni santo giorno, perché ogni santo giorno c'è chi muore di infarto o di trombosi cerebrale o di tumore o in seguito a un incidente d'auto". Qualche settimana dopo, nonostante la decisione dell'Aifa, confermava la propria posizione: "Quel vaccino è meno pericoloso di una Tac". Il punto vero è che su AstraZeneca si è detto tutto e il contrario di tutto. Anche l'Aifa non è stata così chiara limitandosi a fare una raccomandazione "in via preferenziale" mentre le agenzie del farmaco degli altri Paesi europei prendevano decisioni più nette. Oggi a piangere Camilla è tutto il Paese ma i fari sono puntati sulla Liguria una delle tante regioni in cui sono stati organizzati gli Open Day per le vaccinazioni di massa. "La possibilità di usare AstraZeneca per tutti su base volontaria non è un'invenzione delle Regioni o di qualche dottor Stranamore - ha denunciato il governatore Giovanni Toti su Facebook - è un suggerimento che arriva dai massimi organi tecnico-scientifici per aumentare il volume di vaccinazioni, e quindi evitare più morti". E infatti, in una intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 3 maggio, Giorgio Palù, presidente dell'agenzia del farmaco italiana nonché membro del Comitato tecnico scientifico, diceva chiaramente che chi ha meno di 60 anni può ricevere AstraZeneca: "Non c'è mai stato un divieto. L'agenzia europea Ema non ha posto restrizioni per età mentre Aifa ha solo dato un'indicazione per uso preferenziale agli over 60. Il suggerimento è stato interpretato come regola, ma non è così". "AstraZeneca ha cambiato almeno cinque volte in tre mesi la sua destinazione - ha commentato Toti - solo sotto i 50 anni, poi sospeso, poi solo sopra i 60, poi per tutti". Adesso, come anticipato dall'agenzia LaPresse, il Cts sta elaborando un nuovo parere tecnico sulla somministrazione del siero fermo restando che la competenza sui vaccini rimane alla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Probabilmente ci sarà l'ennesimo cambio di rotta. Resta, però, da capire per quale motivo, per quanto le trombosi siano un evento raro, si sia comunque deciso di far correre dei rischi agli under 60. Non mancavano certo vaccini alternativi con cui sostituire le dosi di AstraZeneca. Zaia, per esempio, ha spiegato al Corriere della Sera, di aver accantonato 140mila fiale per le seconde dosi perché comunque è "un vaccino che funziona e dà un'ottima risposta anticorpale". Le soluzioni per non correre rischi, dunque, c'erano. Perché non sono state seguite? C'era davvero bisogno di correre così, soprattutto sulla fascia più giovane che ha meno possibilità di contrarre il Covid-19 o comunque di morirci, quando ormai i casi erano in netta diminuzione? Ora che le "rare trombosi" hanno un nome e cognome chiaro, servono risposte chiare perché non si ripetano in futuro questi errori. E male non farebbe, almeno una volta ogni tanto, sapere chi sono i colpevoli di questa gestione azzardata.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 

Bruno Vespa sul caso di Camilla Canepa, da chi è stata uccisa: "Ora una soluzione radicale, comandare e non raccomandare". Libero Quotidiano il 12 giugno 2021. Diktat di Bruno Vespa che arriva direttamente dalle colonne del Giorno nel consueto editoriale del sabato. La questione ormai è arcinota: la somministrazione di AstraZeneca sui più giovani. Il caso è diventato ancora più controverso dopo la scomparsa di Camilla Canepa, diciottenne genovese sottoposta al vaccino anglo-svedese  e deceduta per trombosi. Anche lei secondo l'editorialista del Giorno "è vittima della confusione scientifica in atto da mesi e del federalismo sanitario, spesso virtuoso, talvolta irragionevole". Impossibile non notare le continue giravolte: "Dapprima AstraZeneca consigliata ai giovani, poi alle persone anziane". Nel mirino del conduttore di Porta a Porta ci finisce Roberto Speranza che, "facendo proprie le indicazioni del Comitato tecnico scientifico" e "pur ricordando che il vaccino Astrazeneca era raccomandato ai maggiori di 60 anni", lo approvava per tutte le persone sopra i 18. E così il pensiero di Piercamillo Davigo "che sostiene giustamente che in Italia non basta dire che una cosa è vietata: bisogna aggiungere 'severamente vietata' per avere un minimo di credibilità", secondo Vespa andrebbe rivisto anche per i vaccini. In particolare "'l'uso preferenziale' nella nostra lingua e nelle nostre abitudini ha autorizzato le regioni a fare quello che hanno voluto con i risultati che abbiamo visto". Da qui la necessità di avere quella che il giornalista definisce "una soluzione radicale". Insomma, "basta raccomandazioni. Agli italiani servono ordini". Un concetto che va di pari passo con quello espresso da Alessandro Sallusti. Il direttore di Libero si appellava alla comunità scientifica affinché eliminasse la dicitura "è consigliato". "No - tuonava a Stasera Italia - uno scienziato non mi deve consigliare, mi deve dire sì o no. Perché se no ci si trova in una zona grigia". E non è niente di più di quanto accaduto a Camilla che, nonostante assumesse cure ormonali, si è recata all'Open Day per fare quello che le hanno chiesto: vaccinarsi.

Bruno Vespa, fango e vergogna del Fatto Quotidiano: un pensionato guardone. Ma tacciono su Roberto Speranza. Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Daniela Ranieri è entrata a gamba tesa su Bruno Vespa e Matteo Bassetti, che lo scorso mercoledì hanno disquisito a Porta a Porta di quanto sta accadendo con la campagna di vaccinazione e in particolare con AstraZeneca, che qualche problema in relazione ai giovani lo sta dando. In particolare lo storico giornalista e conduttore di Rai 1 è stato definito l’umarell della virologia, ovvero il classico pensionato che si aggira con le mani dietro la schiena facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che si svolgono.  “Infatti non ne azzecca una”, è la puntura dell’opinionista del Fatto Quotidiano, che poi se l’è presa anche con Bassetti. Ma il punto è soprattutto AstraZeneca. Cosa fare? “Qui si tifa molto per AZ - è il commento della Ranieri su Porta a Porta - il vaccino dapprima indicato solo sotto i 55 anni, quindi bloccato, poi autorizzato fino ai 65 anni, poi indicato da Aifa solo per gli ultra-sessantenni, quindi autorizzato dall’Ema senza limiti di età, indi iniettato nelle vene di parecchi giovani nei baccanali vaccinali detti Open Day, infine bloccato sotto i 50 anni nelle ultime ore”. Ricostruzione giusta, che testimonia la confusione istituzionale sul vaccino di AstraZeneca: ma perché prendersela con Vespa e Bassetti? Guarda caso la Ranieri ‘dimentica’ il ministro Speranza e il Cts, ma ricorda benissimo di nominare il generale Figliuolo, nemico pubblico numero uno per il giornale diretto da Marco Travaglio. 

Stasera Italia, l'attacco di Alessandro Sallusti alla classe dirigente scientifica su AstraZeneca: "Penso ci sia qualcosa di più". Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Si parla di AstraZeneca a Stasera Italia e in particolare della morte di Camilla Canepa, 18enne colpita da trombosi dopo essersi vaccinata in un Open Day. A parlarne in collegamento con Barbara Palombelli su Rete Quattro c'è Alessandro Sallusti. Il direttore di Libero ammette che "si esce da una situazione confusa che ha stupito l'opinione pubblica. Ma - è questo il suo affondo - io penso ci sia qualcosa di più". Per Sallusti la politica "avrà anche la sua responsabilità, ma qui è un problema della classe dirigente scientifica". Il direttore chiede di abolire dal vocabolario la frase "è consigliato": "No, uno scienziato non mi deve consigliare, mi deve dire sì o no. Perché se no ci si trova in una zona grigia". E così è stato: Camilla Canepa si era vaccinata volontariamente, così come consigliato. Eppure la trombosi non le ha lasciato scampo. Un avvenimento che ha scosso l'Italia intera e su cui il ministro della Salute è ora costretto a intervenire: "A fine aprile l’Ema ha concluso un’ulteriore valutazione il cui esito ha dimostrato che i benefici della vaccinazione aumentano con l’aumento dell’età e del livello di circolazione del virus - ha spiegato Roberto Speranza -. Tale dato è stato valutato dall’Aifa ed è stato ribadito che il profilo beneficio-rischio risulta più favorevole con l’aumentare dell’età". E infatti AstraZeneca era stato "consigliato", appunto, solo per chi avesse più di 60 anni salvo poi fare una piccola retromarcia costata però carissimo alla 18enne di Sestri Levante, deceduta nonostante i due interventi chirurgici subiti per salvarle la vita. Ora dunque si pensa a un altro stop del vaccino anglo-svedese sui giovani.

Da "liberoquotidiano.it" il 12 giugno 2021. Si parla del caso AstraZeneca e della morte di Camilla Canepa, di diciotto anni. E Alessandro Sallusti, in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, nella puntata dell'11 giugno, si scontra con Marco Travaglio: "Dire che qualcuno ha sbagliato è ovvio. Ci sta che Travaglio trovi subito il colpevole. E che sia il generale Figliuolo che è il suo nemico del momento", attacca il direttore di Libero. Che spiega: "Direi che probabilmente hanno sbagliato più persone, hanno sbagliato i sanitari sul posto a non accertarsi di patologie in corso e pregresse, ha sbagliato il governo e il ministro della Salute in particolare a non fare prima l'ordinanza che ha fatto oggi, quindi non a sconsigliare AstraZeneca sotto i 60 anni ma a ordinarlo". E sicuramente, prosegue Sallusti, "ha sbagliato anche il generale Figliuolo ad organizzare gli open day che già nel nome ricorda qualcosa di divertente mentre vaccinarsi è una cosa seria". Quindi il direttore di Libero affonda il direttore del Fatto quotidiano, da sempre nostalgico del duo Conte-Arcuri: "Ricordo a Travaglio che il primo morto per AstraZeneca è avvenuto con Domenico Arcuri e non mi sembra che Travaglio abbia chiesto le sue dimissioni". "Non è un derby, che senso ha vaccinare i ragazzini?", ribatte Travaglio. "Perché in Germania non vaccinano i ragazzi ma solo pochi giovani a rischio?". Prosegue: "Sappiamo che gli effetti collaterali ci sono e vengono messi in conto se hai migliaia di morti per la pandemia e quindi è come essere in guerra. Ma quando hai zero morti per Covid perché esporre i giovani al rischio". Quindi Sallusti lo gela: "Il generale Figliuolo non ha deciso di vaccinare i giovani. Ma il governo. Lui si occupa della logistica non di vaccini. Sui vaccini decide il ministro Speranza". 

Quella catena (in)decisionale causa del pasticcio su AstraZeneca. Francesca Angeli il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Prima l'ok tra i 20 e i 55 anni. Poi innalzato fino ai 65. A fine marzo emergono i casi di trombosi, la Germania lo vieta agli under 60. Ma Ema, Aifa e Cts escludono correlazioni. E l'Italia continua. Un thriller con molti colpi di scena e purtroppo anche delle vittime. La scoperta, la sperimentazione e la successiva distribuzione di un vaccino non dovrebbe ricalcare la trama di un giallo di Agatha Christie o di una novella di Pirandello dove non c'è mai una sola verità. Purtroppo il percorso accidentato del vaccino di Oxford è costellato di accelerazioni, retromarce e inversioni ad U giocate sulla pelle dei cittadini. Nell'incertezza, assolutamente comprensibile visti i tempi straordinariamente ridotti per la produzione in emergenza, le istituzioni responsabili avrebbero dovuto però attenersi al principio di massima precauzione e dare da subito indicazioni inequivocabili e non raccomandazioni. Anche a rischio di frenare la campagna vaccinale come hanno fatto altri Paesi. Soprattutto per i giovani che hanno un rischio bassissimo di contrarre forme gravi di Covid. Ma ripercorriamo le diverse tappe poi culminate ieri nel divieto di utilizzo di AstraZeneca al di sotto della soglia dei 60 anni. Il vaccino AstraZeneca poi ribattezzato Vaxzevria è stato messo a punto nei laboratori dello Jenner Institute dell'Università di Oxford. Il via libera dall'Agenzia europea del Farmaco, Ema, arriva il 29 gennaio 2021 con un'indicazione alla somministrazione per tutti dai 18 anni in poi. Subito dopo arriva l'ok dell'Agenzia italiana del farmaco, Aifa, però con una diversa raccomandazione: preferibile somministrarlo tra i 18 e i 55 anni. Non perché ci siano dati sull'efficacia in quella particolare fascia d'età, ma perché invece non ce ne sono abbastanza relativamente alla popolazione più anziana. Si procede per difetto insomma. E dunque via libera alle inoculazioni per categorie: forze armate e di polizia, personale scolastico, personale carcerario e detenuti. Dunque una popolazione attiva, giovane dai 20 ai 50 anni. Il 22 febbraio parte una circolare dal ministero della Salute che alza da 55 a 65 anni l'età di chi poteva sottoporsi al vaccino AstraZeneca in seguito a «nuove evidenze scientifiche». L'età viene ulteriormente innalzata l'8 marzo: ok per gli over 65, escludendo i soggetti estremamente vulnerabili. L'11 marzo è lo stesso premier Mario Draghi ad annunciare il blocco di un lotto «in via precauzionale». Ma poi il 15 dopo il verificarsi di diversi casi sospetti di trombosi correlati al vaccino, prevalentemente in donne di età compresa tra i 25 e i 65 anni, anche l'Italia decide si sospendere «in via precauzionale» le somministrazioni del farmaco. Nel nostro Paese le morti sospette sono almeno sei. L'Ema avvia un'indagine che però si conclude con la conferma che il vaccino è «sicuro ed efficace». E così il 19 marzo il direttore generale dell'Aifa, Nicola Magrini affiancato dal presidente del Comitato Tecnico Scientifico Franco Locatelli, dichiara che: «I benefici del vaccino AstraZeneca superano ampiamente i rischi. Pertanto il prodotto è sicuro, senza limiti d'età e senza sostanziali controindicazioni per l'uso». Nessuna controindicazione. Alla fine di marzo però la Germania sospende AstraZeneca per gli under 60, preoccupata da 31 casi sospetti di trombosi, di cui 29 tra donne di età compresa tra i 20 e i 63 anni. Non solo, le autorità sanitarie consigliano alle persone sotto i 60 anni che hanno ricevuto la prima dose di AstraZeneca una seconda dose «eterologa». Da noi si procede anche perché l'Ema ribadisce che non è dimostrata la correlazione fra il siero e i rari casi di trombosi. Ma altri Paesi la seguono su questa strada sospendendo i vaccini Francia, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, Islanda e Canada. La Danimarca annuncia il blocco definitivo il 14 aprile. L'Italia procede con gli open day per i giovani fino allo stop «perentorio» di ieri. Francesca Angeli

Morte Camilla, trema il Cts: chi ha autorizzato gli Open day? Valentina Dardari il 12 Giugno 2021 su Il Giornale.  La Procura acquisisce anche la lettera del Comitato tecnico scientifico alle Regioni contenente il parere sugli open day. Il Cts adesso trema. Per la morte di Camilla Canepa, la 18enne pallavolista morta a Genova in seguito a una trombosi dopo circa una decina di giorni dall’aver ricevuto la prima dose di vaccino AstraZeneca, la Procura vuole vederci chiaro. Ha deciso infatti di acquisire anche la lettera inviata dal Cts, il Comitato tecnico scientifico, alle Regioni, con al suo interno il parere riguardante gli open day.

Il documento che inchioda il Cts. Il documento verrà quindi acquisito dai magistrati per capire chi ha autorizzato gli open day e fare luce sulla morte della giovane che si stava preparando a sostenere l’esame di maturità. Nella giornata di ieri la Procura di Genova ha dato incarico ai Nas di venire in possesso di tutta la documentazione utile al fine di poter arrivare a una valutazione complessiva di quanto avvenuto. Sulla vicenda è stato aperto un fascicolo e sono al momento in corso accertamenti. Il documento del Cts è stato pubblicato sulla sua pagina Facebook anche dal governatore della Liguria, Giovanni Toti. Nell’atto si legge che il Comitato tecnico scientifico, tra le raccomandazioni inserite nel proprio parere, "non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate, dalle differenti realtà regionali o legate alle province autonome, iniziative quali vaccination day mirate ad offrire in seguito ad adesione e richiesta volontaria i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni". In contemporanea i Nas hanno sequestrato anche l'anamnesi precedente al vaccino che era stata compilata lo scorso 25 maggio quando la ragazza si era volontariamente sottoposta alla vaccinazione. Oltre naturalmente ai documenti medici compilati all'hub. Da capire anche come mai la ragazza, affetta da piastrinopenia, una patologia autoimmune, sia stata vaccinata con il siero prodotto dall’azienda anglo-svedese.

Un'altra morte sospetta. Notizia di oggi quella relativa al decesso di un uomo di 54 anni, morto lo scorso giovedì a Brescia in seguito a diversi eventi trombotici, secondo cui la procura ha aperto un fascicolo per capire se la sua morte possa essere conseguenza della prima inoculazione di vaccino AstraZeneca, avvenuta lo scorso 29 maggio. Secondo i familiari di Gianluca Masserdotti, l’uomo non soffriva di malattie pregresse ed era in buona salute. Sembra che i virilogi abbiano pareri contrastanti riguardo la decisione del ministero della Salute di riservare il siero AstraZeneca agli over 60, effettuando la seconda dose per coloro che sono sotto quella soglia di età con sieri a mRna.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.  

Vaccini, è caos. E il Cts finisce sotto accusa. Ignazio Riccio il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Virologi divisi e polemiche nelle Regioni italiane dopo la decisione del ministero della Salute di riservare AstraZeneca agli over 60, effettuando i richiami per chi è sotto quella soglia di età con sieri a mRna. Divide gli scienziati l'annuncio del Comitato tecnico scientifico (Cts) con la conseguente decisione del ministero della Salute di riservare il vaccino AstraZeneca agli over 60, effettuando i richiami per chi è sotto quella soglia di età con sieri a mRna. “Al momento non ci sono sufficienti studi sul mix di due vaccini anti Covid diversi – afferma il microbiologo dell'Università di Padova Andrea Crisanti – dal punto di vista teorico e immunologico non dovrebbero esserci problemi, però c'è un aspetto formale da non sottovalutare, nel senso che questa è una combinazione di cui non si sa efficacia e durata”. Imporre agli under 60 di cambiare con la seconda dose “è una procedura che non è stata validata. Magari funziona pure, però abbiamo degli organi regolatori a cui è demandata la regolazione di queste procedure, non è che uno si alza la mattina e le cambia. Nessuno può dire se il mix sia sicuro”, continua Crisanti. Il microbiologo sottolinea che le ricerche sui possibili effetti della seconda dose di AstraZeneca ci sono, mentre sulla vaccinazione eterologa sono inadeguate: “Magari funziona – sentenzia – magari ha dei problemi. Dovrebbero pronunciarsi gli enti regolatori e tutti gli altri dovrebbero fare un passo indietro. Senza i dati non ci si vaccina”. Diverse Regioni hanno finora somministrato AstraZeneca agli under 60, nonostante ci fossero state raccomandazioni del Cts in senso contrario, organizzando anche open day per i più giovani. Come quello a cui ha partecipato la 18enne di Sestri Levante Camilla Canepa, morta una decina di giorni dopo la prima dose. “La scelta del governo sul vaccino AstraZeneca, con l'esclusione della somministrazione alle persone sotto i 60 anni spero venga interpretata nel modo giusto. Ovvero come un'indicazione per permettere di minimizzare minimi rischi e garantire la massima sicurezza. Non è una scelta di incertezza "La riorganizzazione del programma vaccinale e paura ma di prudenza”. A dirlo è Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università Statale di Milano e presidente Anpas. “Vediamo che la vaccinazione sta funzionando – spiega – e serve. Ed è fondamentale arrivare in fondo a questa campagna coinvolgendo tutti. Dunque è importante che anche la comunicazione e le decisioni siano viste nella giusta prospettiva”. Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova ha una sua idea. “Tutta la vicenda AstraZeneca – dice – alla fine ci conferma che si è decretata la morte dei vaccini a vettore virale, visto che la decisione di limitarli solo per gli over 60 riguarda anche il vaccino J&J. Credo sia stata una decisione di buonsenso ma assolutamente politica. La scienza dice alcune cose, ma la politica sanitaria, il ministero in questo caso, deve mediare tra la scienza e la politica, di fronte a un'opinione pubblica che ha paura e dubbi”. Per Bassetti “a questo punto si pone un'ombra pesante su tutti gli altri vaccini a vettore virale, dallo Sputnik al nostro italiano Reithera, sul quale bisogna chiedersi se ha senso continuarne lo sviluppo, visto che quando arriverà sarà vecchio e nessuno lo vorrà fare”. Intanto, la regione Lombardia, dopo il pronunciamento del Cts, ha deciso di provvedere alla somministrazione eterologa della seconda dose di vaccino ai cittadini under 60 vaccinati con AstraZeneca in prima dose, ossia con vaccino Pfizer o Moderna. Lo comunica in una nota la direzione welfare dell'ente regionale. "La riorganizzazione del programma vaccinale - è scritto - avverrà negli stretti tempi necessari sulla base delle dosi di vaccino disponibili". In un primo momento in Lombardia erano stati sospesi i richiami vaccinali eterologhi in attesa di una circolare dell'Aifa. Poi una telefonata tra Roberto Speranza e Letizia Moratti avrebbe - racconta il Corriere - sbloccato lo stallo: il ministro ha infatti chiarito che la "nota ufficiale" è quella firmata nelle scorse ore dal direttore della Prevenzione Giovanni Rezza. Stop in Liguria, invece, alla somministrazione del vaccino Johnson&Johnson agli under 60. Tutte le persone al di sotto di quell’età che avevano in programma la somministrazione del vaccino Johnson, manterranno l'appuntamento ma saranno vaccinate con un prodotto mRna. Anche la Regione Piemonte ha deciso in via precauzionale di sospendere la somministrazione alla popolazione under 60 del vaccino Johnson&Johnson. In Sicilia, infine, a coloro che hanno un'età fino ai 59 anni e hanno già ricevuto la prima dose del vaccino AstraZeneca, secondo le disposizioni nazionali previgenti e le ultime indicazioni del Cts, saranno garantite le seconde dosi con sieri Pfizer o Moderna, a partire da domani, domenica 13 giugno. Lo comunica l'assessorato alla Salute della Regione siciliana.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo

Otto e mezzo, Andrea Crisanti contro i politici italiani: "Privi di spina dorsale, tornare qui è come atterrare su Marte". Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. "Dopo 25 anni in Inghilterra mi sembra di essere atterrato su Marte": Andrea Crisanti, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, di certo non le manda a dire. Il virologo ha criticato soprattutto il comportamento dei politici italiani, definendoli "privi di spina dorsale": "Nessuno in Italia si assume una responsabilità, se in Gran Bretagna qualcuno sbaglia, è impossibile che rimanga al proprio posto. In Italia non si riesce mai a capire chi è il responsabile, si entra in una palude. C’è una differenza abissale". Per provare le sue parole ha citato un esempio: "In Inghilterra il vicepresidente del partito liberale ha fatto una dichiarazione falsa su un eccesso di velocità: si è dimesso da tutto ed è stato condannato a 6 mesi di carcere". Poi ha puntato il dito contro il Comitato tecnico scientifico: "Nel Cts ci sono 2 persone che a fine giugno dello scorso anno hanno detto che il virus era diventato buono, a ottobre hanno detto che la maggior parte delle persone contagiate erano asintomatiche. Non credo siano lì per meriti scientifici". Dalla Gruber Crisanti ha avuto modo di parlare anche della variante Delta, quella che sta facendo risalire i contagi nel Regno Unito. A tal proposito l'esperto ha spiegato che si tratta di una mutazione più contagiosa di quella inglese e che, a quanto pare, sarebbe in grado di colpire anche chi si è vaccinato con una dose sola.

"Il giorno in cui sbagliarono tutto". Crisanti ora inguaia Speranza. Giuseppe De Lorenzo il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Esce "Caccia al virus", il libro di Andrea Crisanti e Michele Mezza. "Sono stati fatti errori grossolani e contrari a ogni buon senso". Alla fine l’ha fatto pure lui. Come tanti colleghi virologi star, anche Andrea Crisanti ha ceduto alle lusinghe della letteratura. Ma il suo è un libro diverso rispetto a quello dei vari Viola, Burioni, Bassetti, Gismondo e compagnia cantante. È un libricino a domande e risposte, intanto. Che sogna di essere (senza riuscirci) una sorta di lettera agli italiani. Ma soprattutto che ci regala giudizi di fuoco sulla gestione italiana del virus. Crisanti ne ha per il Cts, per i consiglieri di Speranza, per il ministro stesso, per il governo che non l’ha ascoltato. E poi le regioni, i politici, i media. “Invece di proteggere il personale sanitario, per intere settimane (…) abbiamo lasciato gli ospedali senza i più elementari dispositivi protettivi”, dice. “Abbiamo mandato gli infetti nelle Rsa, non abbiamo organizzato catene di testing e di tracciamenti”. Una sentenza che smonta mesi di retorica di Conte e Speranza sul “modello italiano” di risposta alla pandemia.

Il giorno clou. Lo spunto più interessante si trova a pagina 80. Chiede Michele Mezza: avremmo potuto limitare i danni? Sì, risponde il microbiologo del “Metodo Vo’”. Sarebbe bastato “fare le cose giuste in modo tempestivo” nella settimana “che va dal 22 al 29 febbraio 2020”. “Cose giuste” che il Conte bis non ha realizzato. Sono i giorni degli aperitivi sul naviglio di Zingaretti. Dei balbettii dell’opposizione. Degli appelli “Milano e Bergamo non si fermano”. Sono i giorni in cui “tutte le forze politiche e i mezzi di informazione” fanno “a gara per minimizzare la gravità della situazione”. “Proprio in quella settimana - scrive Crisanti - il giorno 27 febbraio, la Regione Veneto pubblicava sul suo sito i risultati del campionamento della popolazione di Vo’: 88 contagiati ovvero il 3,1% della popolazione infetta. Sembrava a tutti poca cosa, ma era un’enormità”. Capirlo avrebbe permesso di “chiudere le due Regioni, come dichiarai inascoltato in un’intervista il giorno stesso al Giornale”. Quel dato, però, venne “ignorato”.

La mancata trasparenza. Di chi è la colpa? Che il governo dell’epoca abbia tentennato è ormai cosa nota. Lo dimostrano le zone rosse rinviate. I militari spediti a Bergamo e lasciati riposare in hotel. Ma anche l’impreparazione complessiva di un sistema che, come rivelano i verbali della task force, preferì investire energie in un “piano segreto” anziché applicare quello esistente. Per non parlare della mancata trasparenza del dicastero. “Molte decisioni - dice Crisanti - sono state prese o non sono state prese senza condividerne pubblicamente le ragioni, senza spiegarle agli italiani. Non dimentichiamo che c’è stato bisogno di una sentenza del Consiglio di Stato per rendere pubblici i verbali ‘secretati’ del Comitato tecnico scientifico (Cts). Evidentemente la trasparenza non è nel dna dei nostri politici e dei nostri amministratori”. Speranza in primis.

Il caos asintomatici. C’è poi da considerare il caos asintomatici. Ricordate? Gli esperti di Speranza tra gennaio e febbraio sono scettici sul ruolo di chi non presenta sintomi. Il 6 febbraio, ad esempio, l’Iss riferisce al ministro che “non c’è trasmissione del virus prima della comparsa della sintomatologia”. Solo Ruocco il 12 febbraio segnala che “non notificarli sarebbe gravissimo”. E per diverso tempo il loro ruolo viene sottostimato. “Gli asintomatici sono stati inizialmente ignorati, diciamo fino a tutto marzo, e poi marginalizzati come oggetti da ricercare e recintare - ricorda Criasnti - In un verbale del Cts dell’ultima settimana di febbraio si raccomanda di non fare test per cercare contatti asintomatici perché in questo modo si crea confusione e allarmismo”. Un buco nero in cui molti sono caduti, compresi scienziati “arroccati sull’ortodossia cinese” convinti che “gli asintomatici non esistono e se esistono non trasmettono”. Si sbagliavano.

La cantonata di Ricciardi. “Non si è voluto credere - continua Crisanti - che una grossa percentuale di infetti non sviluppava sintomi, ma era perfettamente in grado di contagiare. Nessuno per settimane e settimane ci ha voluto credere”. Eppure i dati del piccolo paesino sui Colli euganei suggerivano proprio il ruolo centrale degli asintomatici nella diffusione della pandemia. Quando Zaia decise di fare tamponi a tutti, e non solo ai sintomatici come previsto da Oms e governo, da Roma venne messo all’indice. “Ricordo che fu detto che il campionamento di Vo’ era stato uno spreco di denaro pubblico”, racconta Criasanti. Walter Ricciardi, ascoltato consigliere di Speranza, un giorno disse: “La strategia del Veneto non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica”. Anche lui, aveva toppato alla grande.

Bocciato il Cts. Direte: ma come è possibile che un intero pool di scienziati sia riuscito, a detta di Crisanti, a sbagliare così tanto? “Il nostro Cts - accusa il microbiologo nel libro - è stato dominato da competenze sanitarie e cliniche non proprio focalizzate sull’epidemiologia e la microbiologia. Allora erano del tutto assenti conoscenze ed esperienze provenienti dal campo della genetica e dell’ecologia. E quindi le valutazioni fatte ne hanno risentito”. Come a dire: ci siamo affidati alle persone sbagliate. Per carità, anche Crisanti negli ultimi mesi qualche errore l’ha fatto, pure grossolano. Ma stavolta potrebbe aver ragione: nella gestione della pandemia “sono stati fatti errori grossolani e contrari a ogni buon senso”.

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi.

Il report russo contro Conte: "In Italia troppi errori fatali". Felice Manti il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. Accusa dei medici della task force di Putin a Bergamo "Medici mandati al massacro e politici irresponsabili". Medici mandati al massacro. Molti (e ripetuti) errori. Ritardi nelle chiusure che hanno amplificato i contagi (e quindi i morti). Misure restrittive applicate altrove eppure ignorate dal premier Giuseppe Conte. Errori decisivi sul tracciamento, tranne che in Veneto. Iniziative politiche che hanno sminuito la gravità della pandemia, «monitorata ma non impedita». È questa la sintesi di uno spietato report di 11 pagine scritto in russo e inglese dai due scienziati a capo della task force arrivata da Mosca insieme a 104 militari che hanno lavorato a Bergamo dal 22 marzo al 9 aprile 2020, fianco a fianco con i nostri medici, come ha scritto ieri il Giornale, in un'operazione di intelligence che avrebbe consentito alla Russia di realizzare di corsa il vaccino Sputnik-V, peraltro ancora in corso di valutazione da parte dell'Ema, dando al presidente russo Vladimir Putin un grosso margine di conoscenza sulla pandemia. Un favore su cui potrebbe indagare anche il Copasir, visto che sulla natura dell'intesa ci sono molti dubbi. Ma nonostante lo spirito amichevole della collaborazione, dai medici russi indipendenti arriva un capo di accusa senza sconti che potrebbe anche finire dentro il fascicolo per epidemia colposa aperto a Bergamo dalla Procura dopo la denuncia del team di legali guidati da Consuelo Locati, in difesa della memoria delle oltre 500 vittime di Covid nella Bergamasca, e aggravare la già fragile posizione dell'esecutivo, del ministro Roberto Speranza e dei vertici del ministero della Sanità per il mancato piano pandemico, e dei politici locali e nazionali che si sono apertamente spesi per rimandare le misure restrittive. Altro che Dalla Russia con amore, il titolo del report di Natalia Yu. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov pubblicato su iimun.ru dovrebbe essere Dalla Russia con disprezzo. In realtà si intitola Il Covid in Italia, una lezione da imparare. Pshenichnaya e Semenov fanno a pezzi la gestione della pandemia messa in piedi dal governo Pd-M5s: «Nonostante informazioni ampiamente tempestive di una imminente pandemia - si legge nell'abstract - il sistema sanitario non era preparato al drammatico aumento di pazienti con malattie respiratorie nella prima ondata - nonostante il proclama siamo pronti del premier alle Camere del 31 gennaio 2020 - le misure di contenimento dell'infezione non erano pienamente implementate e hanno anche portato a un contagio del personale medico e infermieristico». E ancora: «La parte fragile della popolazione non è stata assistita in tempo a causa della mancanza di posti letto e di personale ben addestrato», anzi l'aver affiancato ai medici in ospedale quelli in pensione «con precedenti morbilità ha messo a rischio le loro vite». Non basta: «Nella seconda ondata ci sono stati ritardi e sottovalutazioni, che hanno innescato una curva dei contagi crescente» per colpa di «misure restrittive decise in ritardo». Nel report si punta il dito soprattutto su politici e sindaci di primo piano che hanno «promosso incontri pubblici e strette di mano per enfatizzare che l'economia non doveva fermarsi per colpa del virus. Un comportamento altamente rischioso dai tristi esiti», scrivono i due medici. Un epitaffio in cirillico per Conte, Speranza e governo giallorosso. Felice Manti

Speranza trema (e non solo lui). L’indiscrezione: «Procurata pandemia, in arrivo i primi indagati». Redazione mercoledì 2 Giugno su Il Secolo d'Italia. Possibili nuovi sviluppi sull’inchiesta sulla pandemia. Come si legge su Il Giornale «secondo una fonte vicina alla Procura che indaga per epidemia colposa, dalle scrivanie del pool di magistrati di Bergamo coordinati da Maria Cristina Rota, rientrata recentemente da un periodo di ferie, sarebbero pronti a partire a giorni una raffica di avvisi di garanzia». Il Giornale titola: «”Procurata pandemia”. In arrivo i primi indagati. Trema (anche) Speranza». L’ipotesi su cui starebbe lavorando la Procura guidata da Antonio Chiappani, scrive Il Giornale, «ruota su una direttiva Ue, la 1082 del 2013 e ratificata in Gazzetta Ufficiale dall’allora ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che obbliga l’Italia “a sviluppare un piano generico di preparazione a serie minacce transfrontaliere che potrebbero costituire un’emergenza sanitaria internazionale”».

Indagine pandemia, la tesi dei pm. Obbligo che non sarebbe stato rispettato – è la tesi dei pm – da ministri e dirigenti del ministero della Salute. «Nel mirino – si legge ancora su Il Giornale –  ci sarebbero la stessa Lorenzin, Giulia Grillo e Roberto Speranza, titolari del dicastero dal 2014, Claudio D’Amario e il suo predecessore come responsabile della Prevenzione Ranieri Guerra (già indagato per false dichiarazioni ai pm sul report Oms sparito per le implicazioni politiche negative sull’Italia), il direttore dell’Iss Silvio Brusaferro e il capo di gabinetto di Speranza Goffredo Zaccardi, sentito nei giorni scorsi e le cui chat sono state passate al setaccio, e l’assessore al Welfare Giulio Gallera, del quale la Finanza ha già acquisito chat integrali da febbraio a giugno 2020. È lo stesso filone che vede indagato l’ex direttore generale della sanità lombarda Luigi Cajazzo».

La mancata “zona rossa”. Non solo. Nel mirino la mancata “zona rossa” in Val Seriana e «l’improvvida riapertura, il 23 febbraio 2020, del pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo, dove erano stati scoperti i primi casi di positività nel territorio». L’ex direttore medico dell’ospedale di Alzano, «punta il dito contro il Pirellone e il ministro Speranza».

Estratto dell'articolo di Sandro De Riccardis per "la Repubblica" il 19 ottobre 2021. Dopo oltre un anno e mezzo di indagini, la procura di Milano chiede l'archiviazione per i decessi al Pio Albergo Trivulzio di Milano, dove si sono registrati oltre 300 morti durante i mesi della pandemia. Una decisione, quella del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dei pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, che arriva dopo l'analisi di oltre 400 cartelle cliniche e decine di testimonianze raccolte tra il personale medico e i parenti delle vittime che, riuniti in un comitato, avevano portato in procura le loro terribili esperienze. L'inchiesta ha confermato come, nei mesi più caldi dell'emergenza, nella struttura siano stati carenti i dispositivi di sicurezza - mascherine, guanti, tamponi, camici - e gli interventi per limitare i contagi. Ma si è rivelato impossibile considerare queste insufficienze come causa della strage silenziosa di anziani. «Non è stata acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari, causalmente rilevanti nei singoli decessi - ha scritto la procura - Anzi, con riguardo ai singoli casi, neppure sono state accertate evidenze di carenze specifiche, diverse dalle criticità generali, riguardo le misure protettive o di contenimento che possano aver inciso sul contagio». Quello che è emerso e che aveva portato all'iscrizione nel registro degli indagati per epidemia e omicidio plurimo colposi l'allora dg Giuseppe Calicchio e lo stesso ente giuridico, non basta a sostenere in un processo la tesi che l'aumento del 40% di morti al Pat sia da ricondurre a una malagestione della struttura. (...) Chi per primo chiede di non far sapere all'esterno quanto il virus fosse diffuso tra i reparti è proprio Calicchio. «La lussata è deceduta in pronto soccorso - lo informa il 16 marzo 2020 una dirigente del Pat - Era positiva. Evitiamo di mettere in bollettino?». Calicchio, annotano gli investigatori della Guardia di Finanza, «suggeriva di scrivere il termine "sintomatologia respiratoria anziché positiva"». In una chat precedente, del 2 marzo, l'ex dg teorizza l'inutilità dei tamponi per gli ospiti più anziani. È un chirurgo che riferisce al dg di una paziente arrivata da un altro ospedale come sospetto Covid, a cui era stata effettuata un'ecografia polmonare e un tampone. «Ora io non vorrei essere cinico ma statunitense... - è la reazione di Calicchio - Dopo gli 80/85 anni a che pro fare il tampone? Se lo vuoi paghi o assicurazione! A cosa serve sapere se è Covid o polmonite normale?». «Amareggiati ma non sorpresi» si dicono i tanti parenti di ospiti del Pat morti durante la pandemia, riuniti nell'associazione Felicita. (...)

Dopo la gogna mediatica, la richiesta di archiviazione. Al Trivulzio nessun reato, i titoli di Gad Lerner su Repubblica "violentarono" i morti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Per la procura della repubblica di Milano al Pio Albergo Trivulzio durante le prime settimane dell’epidemia da Covid non fu commesso nessun reato. Nel chiedere l’archiviazione dell’inchiesta, aperta un anno e mezzo fa in seguito a un esposto, i pm del team del sostituto Tiziana Siciliano, Mauro Clerico e Francesco de Tommasi, precisano come non vi sia nessun nesso di causalità tra i comportamenti dell’azienda e dello stesso direttore generale Giuseppe Calicchia e i decessi di un gran numero di anziani morti per l’infezione da Covid. Anzi, è addirittura “da escludere” il collegamento tra «il singolo evento dannoso e una specifica condotta riprovevole». Mentre si attende la decisione del gip, occorre ricordare che la richiesta di archiviazione da parte della procura era inevitabile dopo che gli stessi periti nominati dal tribunale, con una corposa relazione, nei mesi scorsi avevano dimostrato scientificamente il fatto che al Pio Albergo Trivulzio non era successo nulla di più o di diverso da quanto accaduto in tutte le case di riposo italiane ed europee, e dopo che la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità aveva precisato che in tutta Europa il 50% delle persone anziane decedute era residente nelle strutture assistenziali. Il Pat (la Baggina, termine affettuoso con cui è conosciuto dai milanesi) è la più grande casa di riposo europea, un’eccellenza come residenza e anche nell’area ospedaliera della riabilitazione. Una reputazione che non è stata macchiata, se non nella mente malata di qualche mezzo di comunicazione, neanche da un fatto corruttivo del 1992, finito con l’arresto del suo presidente, il socialista Mario Chiesa. Il fatto che segnò l’inizio dell’inchiesta che porterà il nome di Mani Pulite. Proprio quel fatto di quasi trent’anni fa è stato evocato un anno fa in una campagna di gogna mediatica che forse è servita al giornalista Gad Lerner a fare il salto da Repubblica al Fatto quotidiano, ma ha prodotto solo danni all’Ente e soprattutto agli ospiti e ai loro parenti convinti da quel tamtam mediatico e da qualche avvocato del fatto che ogni morto fosse una “vittima”, che i decessi fossero una “strage”, e addirittura che fossero state poste di nuovo le “Mani Pulite sul Trivulzio”. Quei morti furono letteralmente violentati e i loro parenti istigati a coltivare l’odio e la vendetta. Si formarono comitati che parevano partiti e i cui esponenti ancora oggi lamentano che giustizia non sia stata fatta. Come si fa a dire, come aveva fatto allora il deputato europeo del Pd Pierfrancesco Majorino, «non pensate di cavarvela in futuro con un’assoluzione in salsa lombarda»? O come dice oggi il presidente del comitato Felicita, Alessandro Azzoni, «Si vuole giustificare e rendere accettabile un’immunità giudiziaria generale»? I titoli di Repubblica erano stati terribili, quasi fossimo tornati agli anni del terrorismo o delle stragi di mafia. Capofila, sempre Gad Lerner. “La strage nascosta del Trivulzio”, “L’epidemia insabbiata”, “Poveri morti nascosti”, “Occultamento di dignità”, “Si allarga la vergogna del Trivulzio”, “L’epidemia insabbiata. Al Trivulzio si indaga su settanta morti”. Non si era sottratto alla suggestione mediatica neanche il sindaco Beppe Sala, il quale «chiede chiarezza: Quei corpi accatastati sono una ferita per la città». Ne immaginiamo l’imbarazzo (del sindaco, non di Lerner) quando era arrivata –ma ormai era passato un anno- la relazione della Commissione voluta dalla Regione Lombardia e dal Comune di Milano. Soprattutto perché al vertice oltre al presidente Vittorio Demicheli, direttore sanitario dell’Ats di Milano, era stato inserito, proprio su iniziativa del Comune, l’ex magistrato Gherardo Colombo, casualmente uno dei pm di quell’inchiesta “Mani Pulite” nata lì al Trivulzio. Quella relazione, conclusa dopo ventitré riunioni, sedici audizioni e 1.400 documenti esaminati, faceva a pezzi tutti gli argomenti giornalistici che avevano sostenuto quei titoloni e quella gogna di un anno prima. Primo punto, messo nero su bianco: «La gestione dell’emergenza è stata conforme ai protocolli e alle raccomandazioni dell’Oms e dell’Istituto superiore di sanità». Lo stesso concetto che verrà ripreso, con la richiesta di archiviazione, dalla procura della repubblica. Ma ci sono anche punti meno generali, più specifici. Come la vociferazione che il Covid sarebbe entrato nella casa di riposo in seguito alla delibera con cui la Regione aveva chiesto ospitalità alle Rsa per malati ormai convalescenti. Nulla di più falso: il Pat non ne aveva accolto nessuno, purtroppo il virus era entrato tramite i parenti in visita e il personale esterno. Ma quello che aveva colpito di più i membri della commissione era stato il comportamento dei dipendenti, soprattutto perché il Pat è una struttura enorme e con personale molto sindacalizzato. Dalla relazione risultava che nei giorni della pandemia ben il 65% dei dipendenti aveva “marcato visita”, era assente. Qualcuno malato, la gran parte solo assenteista. Non una novità, del resto. Non era vero neanche il fatto che qualche dirigente avesse impedito ai dipendenti di indossare le mascherine «per non spaventare gli ospiti». Quanta fantasia per spaventare con i titoloni di apertura delle prime pagine di Repubblica in quei giorni…Siamo dunque arrivati alla conclusione di uno dei tanti scandali italiani costruiti con notizie inventate e gonfiate ad arte? Aspettiamo la decisione del giudice delle indagini preliminari, naturalmente. Ma sarà difficile possa discostarsi da quel che già una commissione d’inchiesta, poi i periti del tribunale e infine la procura della repubblica hanno accertato. E cioè che al Trivulzio nell’aprile del 2020 ci furono tanti decessi. Ma erano morti, non “vittime”. E non fu una “strage”, ma un tragico evento cui nessuno era preparato e che, in assenza di vaccino e di terapia non poteva essere prevenuto né curato. E soprattutto non ci sono “colpevoli” da sbattere in galera per poi buttare la chiave. Rassegnatevi, giornalisti e comitati vari.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Smontata la ricostruzione di Repubblica. Pio Albergo Trivulzio, dopo il fango i magistrati chiedono l’archiviazione: non ci fu una “strage nascosta di anziani”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. Tante prime pagine, con Repubblica che titolava ‘Strage nascosta’, ma l’inchiesta sulle morti tra gli ospiti del Pio Albergo Trivulzio e di altre 7 Rsa milanesi durante la fase più acuta della pandemia di Covid-19 potrebbe non arrivare mai in aula di tribunale. La Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione per i dirigenti delle strutture sanitarie meneghine, tutti indagati per il loro operato durante i mesi più difficili per l’intero Paese, alle prese con l’esplosione dei contagi e senza il vaccino risultato poi decisivo per far calare drasticamente il contagio e i decessi.

Nella lente d’ingrandimento dei magistrati milanesi erano finite sette Rsa: la più famosa era ovviamente la ‘Baggina’, il Pio Albergo Trivulzio, ma i pm indagavano anche su residenze per anziani come Auxologico, Parco delle cave, Mater Fidelis, oltre a 4 strutture del gruppo Korian (Saccardo, Ippocrate, la casa di riposo Santa Marta e la casa di riposo Santa Lucia). Inchiesta nata dopo gli esposti di personale della Rsa e parenti dei pazienti: tutti lamentavano la carenza di Dpi, i dispositivi di protezione come camici, mascherine e guanti, sia per il personale che per ospiti e parenti, oltre ad una gestione poco sicura dei reparti, con positivi al Covid-19 a contatto con altri ricoverati, a loro avvolta ammalatisi. Dopo mesi di indagini e titoli sui giornali, per i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, “non è stata acquisita alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari, casualmente rilevanti nei singoli decessi, in ordine all’assistenza prestata“. L’inchiesta condotta dai magistrati milanesi ha portato a valutare ed esaminare 418 cartelle cliniche della ‘Baggina’ e a iscrivere nel registro degli indagati il suo dg Giuseppe Calicchio. Pm che nella richiesta di archiviazione scrivono che effettivamente sono state verificate delle “carenze” nella gestione della pandemia, ma che non è stato possibile accertare che siano state le scelte di manager e sanitari a provocare le vittime nel Trivulzio. I pm coordinati da Tiziana Siciliano scrivono inoltre che non è stato possibile neanche accertare “carenze specifiche diverse dalle criticità generali riguardo le misure protettive o di contenimento che possano con verosimiglianza aver inciso sul contagio dei singoli soggetti”. Impossibile di fatto ““tracciare” il “percorso dell’infezione” all’interno della struttura anche se “l’adozione tempestiva” di mascherine, camici e Dpi, scrivono ancora i pm citando la relazione dei consulenti tecnici “’avrebbe con ogni verosimiglianza limitato la diffusione del contagio all’interno” della struttura.

Adesso dunque la palla passa al Gip, che dovrà decidere se archiviare l’indagine su Pio Albergo Trivulzio e le altre sette Rsa coinvolte nell’indagine. Per il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, che questa mattina ha commentato la richiesta di archiviazione sul ‘Pat’, c’è stata “una speculazione indegna, ero tranquillo anche perché la commissione di Gherardo aveva condotto un’indagine da cui era emerso che da parte del Pat non era stata fatta alcun tipo di violazione di norme e protocolli”. Il governatore lombardo ospite di ‘Mattino5’ si è detto quindi “contento” per Calicchio, ex direttore generale della ‘Baggina’, e per gli altri indagati, “la dimostrazione della serietà e della professionalità con cui è stato gestito il Pio Albergo, sono contento umanamente di sapere che non ci sono state responsabilità ed errori”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Morti di Covid al Trivulzio. I pm: "Non ci sono stati reati". Alberto Giannoni il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Chiesta l'archiviazione per i decessi nella Rsa: dati nella media e assistenza adeguata. La Regione fu demonizzata. È venuto il giorno, il giorno dell'archiviazione. A un anno e mezzo di distanza dall'avvio della gogna giustizialista, a Milano è il momento della chiarezza: quel che è successo al Pio Albergo Trivulzio nel corso della prima ondata Covid è una vicenda dolorosa sì, ma non è materia criminale, e non c'è bisogno neanche del processo per stabilirlo. Sono stati i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi, ieri, a chiedere l'archiviazione dell'inchiesta sulle morti dei pazienti nelle prime settimane di pandemia, avviata nell'aprile 2020 a carico del direttore generale Giuseppe Calicchio e della stessa Rsa. «Non è stata acquisita - si legge nelle conclusioni della richiesta d'archiviazione - alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari - causalmente rilevanti nei singoli decessi - in ordine alla assistenza prestata». Non solo, «neppure sono state accertate evidenze di carenze specifiche, diverse dalle criticità generali», insomma. Il tema erano le misure protettive e il contenimento dei contagi, che in effetti sono divampati, in questa come nelle altre residenze sanitarie assistenziali italiane, ma a causa di una pandemia virulenta e improvvisa, e non per chissà quale malefatta. «Lo standard probatorio richiesto al riguardo - si legge ancora nella richiesta dei pm, coordinati dall'aggiunto Tiziana Siciliano - richiederebbe la dimostrazione precisa del nesso causale tra il singolo evento dannoso e una specifica condotta riprovevole: il che pare senz'altro da escludere sulle base delle evidenze acquisite». Nessun riscontro su «carenze di assistenza». Non c'è esultanza oggi alla «Baggina», ma sollievo. La decisione degli inquirenti, da molti attesa, sconfessa infatti tutta una costruzione mediatico-politica che - a partire da un'iniziativa volta ad accertare eventuali responsabilità, e sulla base di un esposto - aveva creato un caso a tinte fosche, condito da insabbiamenti e «terrore», per poi passare direttamente a demonizzare l'intero sistema, guarda caso quello della Lombardia governata dal centrodestra. Troppo forte in quel momento la tentazione dello scandalo. Irresistibile la suggestione che rimandava al Trivulzio del 1992, gran preludio di Tangentopoli. Troppo ghiotta l'occasione di tirare in ballo direttamente i «legami» dei manager sanitari con la politica, e in particolare con la «cerchia» del segretario leghista Matteo Salvini. Era il 4 aprile 2020 quando un articolo di Gad Lerner su Repubblica denunciava a tutta pagina, in questi termini, «L'epidemia insabbiata», e all'indomani l'opinionista insinuava a un'Italia sconvolta dal dramma Covid il «dubbio» che le case di riposo «siano state trattate alla stregua di discariche umane». Il giorno stesso l'eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino cavalcava il caso: «Strage nelle case di riposo, caos su tamponi e mascherine, lentezza sui test - profetizzava solenne - Non pensate di cavarvela in futuro con un'assoluzione in salsa lombarda». Poi, di lì a poco, la verità sarebbe emersa. Dati simili in molte strutture, con l'Oms a spiegare come in tutta Europa la metà delle persone morte per Coronavirus fosse residente in case di cura. Poi sarebbe arrivato l'orgoglio dei sanitari del Trivulzio e la gestione impeccabile affidata al virologo Fabrizio Pregliasco. In seguito sarebbe arrivata, insomma, l'evidenza della realtà. Ieri è arrivata anche l'archiviazione. Alberto Giannoni

"Sul Trivulzio ci hanno reso giustizia. Che orrore usare i morti per linciarci". Chiara Campo il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'ex assessore al Welfare: "Dem vergognosi, ci hanno definiti killer". «Io e il governatore Attilio Fontana abbiamo subito per mesi un attacco mediatico e politico vergognoso, di una violenza inaudita. Ma il tempo è galantuomo...». Giulio Gallera era assessore al Welfare quando la Regione Lombardia è stata travolta dal Covid e dalle polemiche sulla gestione dell'emergenza e i morti nel Pio Albergo Trivulzio, la storica casa di riposo milanese. La Procura di Milano ha chiesto l'archiviazione per il Pat e il dg Giuseppe Calicchio dalle accuse di epidemia e omicidio colposo. Non ci sono prove di responsabilità.

Come ha preso la notizia?

«Col tempo la verità emerge ma rimane il profondo disgusto e il disprezzo per chi ha usato la sofferenze e i morti di quel drammatico momento per biechi fini politici».

A chi si riferisce?

«Per cominciare, il 5 aprile 2020 Gad Lerner firmò su Repubblica un articolo dal titolo La strage nascosta del Trivulzio e aprì una campagna di discredito verso la nostra Regione. Si muri comparivano le scritte Gallera e Fontana assassini».

Avevate la coscienza a posto?

«Dal primo giorno abbiamo dato il massimo. Ci ha colpiti una bomba atomica, avevamo indicazioni confuse dalla stessa comunità scientifica e da Roma. Ricordo che all'inizio una circolare indicava che gli asintomatici non dovevano neanche essere tamponati. Eppure i dati hanno dimostrato che nonostante la Lombardia nella prima ondata abbia contato 750mila contagiati su 1,5 milioni in Italia, l'indice di letalità è stato sotto la media nazionale, era più alto in regioni come la Toscana o l'Emilia, con molti meno casi. Siamo stati come sempre un'eccellenza nella cura dei pazienti. Nel momento in cui nessuno ci aveva capito niente, abbiamo salvato più vite di altri».

Eppure, tanto per citare, anche dopo le conclusioni dei pm l'eurodeputato Pd Majorino scrive «Fontana vattene».

«Abbiamo vissuto con dolore la morte di tanti cittadini, è un'esperienza che ha segnato tutti noi. É disgustoso vedere personaggi come i dem Majorino o Lia Quartapelle speculare, in altri Paesi di fronte a una crisi i partiti smettono di contrapporsi per lavorare insieme, qui il degrado del dibattito politico squalifica anche chi lo fa. Persino chi ha sofferto di più sulla propria pelle il Covid ha riconosciuto gli sforzi fatti, ad Alzano e Codogno i sindaci del centrodestra hanno stravinto al primo turno».

Dopo gli attacchi mediatici però è stato un rimpasto, lei è tornato in consiglio e Letizia Moratti è diventata assessore al Welfare.

«Penso che in quella fase l'errore del centrodestra sia stato assecondare la narrazione totalmente falsa messa in campo dalla sinistra. Si è pensato che servivano dei cambiamenti per dare un segnale. Non ho nessun rammarico e la Lombardia sta volando anche nella campagna vaccinale, portata avanti dalle stesse persone che ho governato per quattro anni. Ma impariamo a non essere più culturalmente succubi di certe trasmissioni tv o maître à penser, se siamo convinti della nostra azione andiamo avanti senza paura». Chiara Campo

La Commissione d'inchiesta smentisce le accuse. Al Trivulzio non ci fu nessuna strage, Gad Lerner si scuserà? Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Giugno 2021. Un anno fa, i giorni della gogna e delle mille falsità sul Pio Albergo Trivulzio di Gad Lerner e di Repubblica. Oggi, e ormai da sei mesi, nella più grande casa di riposo europea non c’è più traccia di Covid. Tutti quanti, il direttore generale Giuseppe Calicchio, il supervisore Fabrizio Pregliasco, i medici e tutto il personale sanitario si sono rimboccati le maniche e l’istituto ha ripreso l’antica immagine di luogo d’eccellenza, sia come residenza per anziani che nella prestigiosa area ospedaliera della riabilitazione. Si attendono a giorni le conclusioni della Procura della repubblica, che aveva aperto le indagini un anno fa proprio in seguito alla gogna giornalistica e alle conseguenti denunce di privati cittadini. Nel frattempo sia la relazione della Commissione voluta dalla Regione Lombardia e dal Comune di Milano che quella dei periti del tribunale, hanno concluso che al Trivulzio non è successo niente di diverso da tutte le Rsa italiane ed europee. Ma qualcuno, per esempio Gad Lerner, chiederà scusa per quei titoli, per quella campagna di stampa la cui ferocia non era seconda a quella dei tempi di Mani Pulite? Riguardiamoli insieme, quei titoli sparati come pallottole a riempire tutta la prima pagina di Repubblica. 5 aprile 2020, Gad Lerner: “La strage nascosta del Trivulzio”. “L’epidemia insabbiata”. 7 aprile: “Poveri morti nascosti”. “Si allarga la vergogna del Trivulzio”., editoriale di Gad Lerner: “Occultamento di dignità”, “Quei corpi accatastati sono una ferita per la città”. 8 aprile: “Mani Pulite sul Trivulzio”. 9 aprile : “Quei referti scomparsi al Trivulzio”. E così via, con la suggestione di un Istituto dipinto come un lager in cui gli anziani venivano lasciati morire e le bare giacevano accatastate. Finché non arriva la Guardia di finanza a perquisire per sedici ore il Trivulzio e a sequestrare “una quantità enorme di materiale sulle falle della gestione sanitaria dello storico centro geriatrico milanese”. Ma il museo degli orrori non avrà vita lunga. Provvederà prima di tutto il supervisore Fabrizio Pregliasco a mettere i puntini sulle i e a ricostruire l’immagine di una struttura da sempre considerata di altissimo livello e dove il numero di contagiati e anche di morti è stato inferiore rispetto alla media non solo milanese e italiana, ma anche europea. Ma sarà poi il risultato, davvero clamoroso, della Commissione istituita fin dall’8 aprile da Regione Lombardia e Comune di Milano (che inserisce Gherardo Colombo, ex pm di Mani Pulite) a rimandare al mittente, punto per punto, tutte le accuse della campagna di gogna di Repubblica. Ventitré riunioni, sedici audizioni e 1.400 documenti esaminati. Ed ecco le conclusioni. Primo punto fondamentale, e già dovrebbe essere sufficiente: al Pat “la gestione dell’emergenza è stata conforme ai protocolli e alle raccomandazioni dell’Oms e dell’Istituto superiore di sanità”. Smentita un’altra “verità”, cioè che il Covid sarebbe entrato nell’Istituto in seguito a una delibera regionale che chiedeva alle Rsa di ospitare malati provenienti dagli ospedali nella fase di convalescenza. Ebbene, il Trivulzio non ne ha accolto nessuno, il virus è entrato tramite parenti e personale esterno, come ovunque. Caduta anche l’accusa più bruciante, e cioè che la dirigenza avrebbe vietato ai dipendenti l’uso di mascherine “per non spaventare gli ospiti”. Mai successo. Ma il dato più eclatante è che in quei giorni l’assenteismo dei dipendenti è arrivato alla percentuale del 65%, solo in minima parte motivato da malattia. Reato di strage o di assenteismo, cominciano a domandarsi i giornali. E siamo a luglio di un anno fa. Ma intanto anche la procura della repubblica svolge il proprio lavoro, indagando per epidemia colposa sia il direttore generale Calicchio che lo stesso Ente Trivulzio. E questo nonostante una giurisprudenza costante sull’interpretazione dell’articolo 438 del codice penale escluda il comportamento omissivo. Cioè, per aver favorito o anche non aver contenuto il contagio occorre un comportamento attivo. Cioè occorre essere “untori”. E onestamente al Pat di untori non se ne sono visti. La procura ha disposto una perizia, ormai conclusa e, a quanto pare, molto corposa. Il legale dell’Istituto e presidente delle Camere penali Vinicio Nardo non l’ha vista. Quando è stata depositata, due mesi fa, il Corriere della sera ha scritto: “Almeno a guardare i numeri, non è esistito e non esiste un caso Pio Albergo Trivulzio”. Il legale del Pat, nell’attesa della decisione della procura, sottolinea che già a Modena e a Trento ci sono state richieste di archiviazione e come sia difficile, se non impossibile, dimostrare il nesso di causalità tra le morti e i comportamenti. “Ci sono state suggestioni, circostanze evanescenti, interventi politici..” sussurra. E si teme che, dopo tanta enfatizzazione e attesa, e dopo indagini così accurate, non si farebbe bella figura a “partorire un topolino”. Quindi? Ma è mai esistito un “caso Trivulzio”?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Nessun colpevole per la strage del Trivulzio, quel trasferimento nella Rsa che provocò 103 morti. Chiesta l’archiviazione dell’inchiesta sulla scelta di spostare i pazienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni alla casa di riposo per anziani, a marzo del 2020. Il medico che denunciò i rischi di propagare il contagio è stato licenziato. I familiari delle vittime: i nostri cari in balia del virus. Andrea Tornago su L'Espresso il 9 dicembre 2021. Il 13 marzo 2020 decine di ambulanze attraversano Milano dalla periferia nord fino all’elegante quartiere Washington. Destinazione Pio Albergo Trivulzio, la storica casa di riposo milanese. Trasportano una ventina pazienti dimessi dall’ospedale di Sesto San Giovanni, ormai pieno di malati Covid come tutti i nosocomi lombardi. Nessuno ha fatto loro un tampone, merce rara in quei giorni. Ma occorre comunque liberare posti letto nei reparti al più presto. E una delibera della giunta regionale ha appena reso possibili i trasferimenti di pazienti dagli ospedali verso altre strutture assistenziali tra cui le Rsa: la scelta più criticata della giunta lombarda, i malati e gli anziani uniti in un abbraccio spesso mortale. L’Italia è da poco entrata in lockdown. Dieci giorni dopo, nella casa di cura milanese partono i contagi culminati in una strage: almeno 103 morti considerati «correlati al Covid-19» dai periti della Procura di Milano, nel periodo che va da gennaio a metà aprile del 2020. La vicenda è ricostruita nel dettaglio dall’inchiesta milanese per epidemia e omicidio colposo al Pio Albergo Trivulzio di cui i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi hanno chiesto l’archiviazione lo scorso ottobre: impossibile, secondo i magistrati, provare il nesso causale tra le condotte dei vertici dell’istituto e le morti degli anziani. Ma nelle carte emerge anche la storia un medico che a tutto questo si oppose, pagando un conto salato: il dottor Carlo Montaperto, direttore medico di presidio dell’ospedale di Sesto, all’epoca presidente dei primari lombardi. L’unico dottore che si mise di traverso per cercare di fermare i trasferimenti, come racconta lui stesso agli investigatori della Guardia di finanza il 5 ottobre 2020, ricostruendo quei momenti drammatici: «Da mie disposizioni nessuno doveva uscire dall’ospedale - dichiara il direttore medico nel verbale - poiché nessun paziente era stato testato e quindi non c’era alcuna evidenza della loro negatività al tampone». Ma le dimissioni di massa furono avviate ugualmente, ordinate «con un messaggio Whatsapp» da un altro dirigente ospedaliero. «Non avrei mai potuto autorizzare quei trasferimenti perché si trattava di pazienti non stabilizzati, che non potevano essere trasportati - spiega a L’Espresso il dottor Montaperto -. In seguito mi è stato riferito che la maggior parte di loro, nel giro di una settimana o dieci giorni, sarebbe morta».

Un paio di mesi dopo quel «no», per il primario di Sesto cominciano i guai. Il 20 maggio scopre che è stato aperto un procedimento disciplinare contro di lui in seguito a un sopralluogo effettuato nei reparti il giorno dopo i trasferimenti dei pazienti al Trivulzio: l’azienda per cui lavora lo accusa di una serie di omissioni in relazione all’emergenza Covid. Contestazioni che gli costeranno il licenziamento, da lui ritenuto ingiusto e contro cui si sta opponendo in tutte le sedi. Ora, da presidente lombardo dell’associazione nazionale primari ospedalieri, è diventato medico di famiglia in un paesino dell’hinterland milanese in attesa del verdetto dei giudici. «Sono stato raggiunto da una serie di accuse false e pretestuose - prosegue Montaperto - come sono convinto riuscirò a dimostrare nei giudizi. Ma era giusto opporsi a quelle dimissioni, e i medici che avevano in cura quei malati erano d’accordo con me: sulle cartelle cliniche dei loro pazienti hanno scritto ‘Trasferito contro parere medico su ordine del primario’. Fu un episodio drammatico».

L’arrivo dei pazienti da Sesto San Giovanni è considerata dai pm di Milano, che hanno cercato di ricostruire l’ingresso del contagio nel Pio Albergo Trivulzio, una «circostanza suggestiva». Nella Rsa milanese infatti l’epidemia non è partita all’inizio di marzo, come nel resto della Lombardia, ma verso la fine del mese. «Si può osservare uno sfasamento di circa 15 giorni tra l’inizio dell’incremento di mortalità nella popolazione milanese generale - scrivono i periti dei pm - e l’incremento dei decessi Covid correlati entro la struttura». Gli esperti sottolineano pertanto che «si deve tener conto del trasferimento nella seconda settimana di marzo di 17 pazienti provenienti dall’ospedale di Sesto San Giovanni dichiarati non Covid (sembra senza aver eseguito il tampone) tre dei quali sono tuttavia risultati successivamente positivi». Tuttavia le cause dello sfasamento temporale non sono identificabili «con sufficiente precisione e ragionevole certezza». Per questa ed altre ragioni il fascicolo, che vede indagato l’allora direttore generale Giuseppe Calicchio, secondo gli inquirenti va archiviato. Sul suo conto, nonostante la iniziale «sottovalutazione del rischio» e l’ottica volta «a occultare più che a risolvere le difficoltà», non è emersa «alcuna evidenza di condotte colpose o comunque irregolari» in relazione ai decessi.

Non ci stanno i legali dei famigliari delle vittime, secondo i quali «buona parte degli elementi che dimostrano la necessità di celebrare un processo emergono già dalla richiesta di archiviazione: dalla ritardata chiusura delle visite esterne alla ritardata, omessa, incompleta fornitura di dispositivi di protezione, tracciamento dei contagi e isolamento dei positivi, formazione dei dipendenti». Secondo gli avvocati Luca Santa Maria e Luigi Santangelo meriterebbero un approfondimento processuale anche «il divieto, pare inizialmente impartito dalla dirigenza del Pat sotto minaccia di sanzioni disciplinari, di utilizzo di Dpi autonomamente procurati dai dipendenti» e la prescrizione «di utilizzare la stessa mascherina per più giorni». Condotte che però, secondo i pubblici ministeri, si inseriscono in un più ampio contesto di impreparazione nazionale, e nella generale mancanza di procedure e di mezzi per affrontare la pandemia. I famigliari delle vittime, che si sono costituti nel comitato Anchise, chiedono di accertare la verità sulle morti al Trivulzio e di non dimenticare «un’umanità perduta nella maniera più straziante, nella più totale solitudine, senza comprendere quanto stava accadendo, senza affetti e senza un ultimo saluto».

Cremazioni multiple di Biella, archiviate le denunce di 500 famiglie: “Sdegnati”. Le iene News il 27 maggio 2021. Non sanno se quelle che piangono sono le ceneri dei loro parenti o di altre persone. Ma per la procura è difficilmente dimostrabile. Così si sono visti archiviare le loro denunce. Per oltre 500 familiari dei defunti passati dal forno crematorio di Biella questo incubo non è ancora finito. Vi abbiamo raccontato il caso delle cremazioni multiple con Andrea Agresti per cui 11 persone sono finite a processo. “È stato infangato l’onore dei nostri defunti, siamo sdegnati”. C'è rabbia nelle parole delle 500 famiglie coinvolte nello scandalo di Biella. Andrea Agresti ci ha raccontato il caso delle cremazioni multiple che sono state fatte nel forno crematorio comunale gestito dai fratelli Ravetti. Nel servizio qui sopra abbiamo ascoltato tutti i protagonisti di questa vicenda. I due fratelli sono stati condannati in primo grado assieme ad altre 9 persone coinvolte a vario titolo, ma i familiari dei defunti che sono passati in qualche modo da quel forno non hanno ancora ottenuto piena giustizia. Oltre al danno per loro c’è il rischio anche della beffa: il giudice ha disposto l’archiviazione delle 500 denunce presentate dai familiari: “Non è possibile sostenere che mancano le prove dopo che tutto è stato registrato dopo le indagini, le testimonianze e le confessioni ci ritroviamo da capo”. Dopo una manifestazione fuori dal tempio crematorio, le famiglie hanno annunciato la nascita del comitato “A casa con me”. “Il giudice dice che manca la prova provata che i nostri cari siano andati incontro allo stesso destino. A noi invece manca la prova che dentro le urne ci siano i nostri parenti”, dicono i parenti. “Vogliamo ottenere più sorveglianza in tutti i forni crematori d’Italia perché quello che è successo a noi non deve più accadere”. Dura anche la posizione dei legali delle famiglie coinvolte. “Le evidenze scientifiche prodotte dai nostri consulenti portano a una conclusione ben diversa: quella nota a tutti ma asseritamente non dimostrabile se non nel cuore delle famiglie coinvolte e raccontate più credibilmente nei servizi de Le Iene”. Tra questi racconti ci sono anche quelli di alcuni dipendenti che a un certo punto hanno detto basta. “Ci veniva chiesto, per accontentare il continuo incremento delle cremazioni, di aumentare le bare all’interno del forno. Magari con due o tre bare alla volta. A gestire tutto erano i fratelli Ravetti”, ha raccontato uno di loro ad Andrea Agresti. “Vigeva la regola di andare sempre più veloci per consegnare le ceneri. Se invece di fare 6 o 7 cremazioni diventavano anche 14 è ovvio che le entrate raddoppiavano”. I fratelli Ravetti avrebbero imposto anche tempi di cremazione. Sul loro sito parlano di almeno 3 ore: “Noi invece lo facevamo entro 60 minuti”, sostiene il testimone. Ma ci sono materiali come lo zinco che hanno bisogno di tempi molto più lunghi per bruciare: “Si apriva la cassa con un’ascia o un’accetta e si bruciava la persona mettendo il corpo in una cassa di cartone”. Dopo lo scandalo il Comune ha interrotto la concessione di 27 anni per la gestione del forno crematorio. Ma il processo prosegue anche per due dirigenti del comune di Biella che dovranno rispondere di omissione di atti d’ufficio. Invece i due fratelli Ravetti sono stati condannati in primo grado rispettivamente a 5 anni e 5 anni e 4 mesi. 

Scudo penale per medici e infermieri durante il Covid: punibili solo per colpe gravi. Da "blitzquotidiano.it" il 14 maggio 2021. Arriva lo scudo penale per medici, infermieri e personale sanitario in servizio per l’emergenza Covid. Di conseguenza, i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose compiuti da queste categorie “sono punibili solo nei casi di colpa grave”.

Scudo penale, i tre fattori che salvano il medico. Nel definire il grado di gravità della responsabilità del professionista il giudice dovrà tener conto in particolare di tre fattori legati alla straordinarietà dell’emergenza pandemica.

Primo fattore: “limitatezza delle conoscenze scientifiche al momento del fatto sulle patologie da SarsCoV2 e delle terapie appropriate”.

Secondo fattore: “scarsità delle risorse umane e materiali concretamente disponibili in relazione al numero dei casi da trattare”.

Terzo fattore: “il minor grado di esperienza e conoscenze tecniche possedute dal personale non specializzato, impiegato per far fronte all’emergenza”.

Medici come in guerra. Soddisfatto il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo) Filippo Anelli, secondo il quale la norma è “una prima importante risposta ai bisogni della classe medica ed un omaggio – afferma all’ANSA – ai colleghi deceduti, che si sono spesi per la comunità pur sapendo di operare quasi in condizioni di guerra”. Lo scudo, sottolinea, che “varrà fino alla fine dello stato di emergenza Covid fissata al 31 luglio, rappresenta una garanzia per medici e professionisti sanitari, che potranno ora operare con maggiore serenità”. Altro elemento importante, spiega, è che lo scudo penale “non riguarda solo l’atto della vaccinazione anti-Covid, come inizialmente previsto, ma è esteso a tutti i trattamenti che il medico effettua in relazione all’infezione Covid-19″. Sul piano civile, precisa inoltre Anelli, “non si nega il risarcimento al soggetto leso, perché questa norma riguarda esclusivamente l’aspetto penale”. 

Niente responsabilità medica per chi vaccina. Valeria Zeppilli il 6 aprile 2021 su studiocataldi.it. Come funziona lo scudo penale introdotto dal decreto legge Covid n. 44/2021 per chi somministra i vaccini contro il coronavirus.

Medici non responsabili per i vaccini. Il decreto legge numero 44/2021, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 1° aprile 2021, ha introdotto uno scudo penale per il personale sanitario che somministra il vaccino anti SARS-CoV-2, che non può essere chiamato a rispondere dei reati di lesioni personali colpose e omicidio colposo per i fatti verificatisi in conseguenza di tale attività.

La norma. In particolare, a stabilirlo è l'articolo 3 del decreto Covid, che così dispone: "Per i fatti di cui agli articoli 589 e 590 del codice penale verificatisi a causa della somministrazione di un vaccino per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2, effettuata nel corso della campagna vaccinale straordinaria in attuazione del piano di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n. 178, la punibilità è esclusa quando l'uso del vaccino è conforme alle indicazioni contenute nel provvedimento di autorizzazione all'immissione in commercio emesso dalle competenti autorità e alle circolari pubblicate sul sito istituzionale del Ministero della salute relative alle attività di vaccinazione".

Il presupposto: vaccino conforme. Il presupposto per l'esclusione della responsabilità penale è che le vaccinazioni siano effettuate in conformità alle indicazioni contenute nell'AIC, ovverosia il provvedimento di Autorizzazione all'Immissione in Commercio rilasciato dall'AIFA, e alle circolari relative all'attività di vaccinazione pubblicate sul sito del Ministero della salute. A ben vedere, si tratta di documenti dal contenuto spesso indeterminato che non assicurano particolare certezza all'esimente. Ma non solo: con riferimento all'AIC, si potrebbe porre qualche problema con riferimento alle ipotesi in cui le autorizzazioni sono subordinate a condizioni, come è avvenuto per AstraZeneca. Si tratta di una prassi che permette di rendere immediatamente disponibile un vaccino, nonostante la minore completezza dei dati rispetto a quelli normalmente necessari, laddove si ritenga che il beneficio per il paziente sia superiore rispetto ai rischi.

Medici insoddisfatti. Lo scudo penale, inoltre, non ha soddisfatto a pieno i medici. Nonostante la finalità del Governo sembri essere stata evidentemente quella di rassicurare il personale sanitario nello svolgimento di una delle attività più rilevanti per sconfiggere la pandemia, la FNOMCeo, per il tramite del Presidente Filippo Anelli, ha giudicato il provvedimento non idoneo a sollevare il medico "da atti professionali compiuti in un contesto emergenziale, da medicina delle catastrofi, e con il solo obiettivo di salvare vite". Ad essere criticata, più nel dettaglio, è la scelta dell'esecutivo di limitare le misure alla sola fase di vaccinazione, che invece è quella che meno preoccupa i sanitari, abituati ad assumersi responsabilità in tutte le campagne vaccinali.

La legge Gelli bastava? Del resto, sono diversi gli interpreti che hanno sin da subito giudicato "inutile" la norma, sulla base del fatto che già gli articoli 5, 6 e 7 della cd. legge Gelli (n. 24/2017) sembrerebbero idonei garantire che il personale vaccinatore non incorra in un'ingiusta responsabilità penale. Il principio posto dai predetti articoli e recepito dall'articolo 590-sexies c. p. prevede già che i sanitari che si sono comportati in maniera corretta e hanno attuato con diligenza le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali non possono incorrere in responsabilità penale.

Il sistema di responsabilità medica resta uguale. Va comunque chiarito che la nuova norma si pone come una clausola eccezionale operante solo durante la campagna vaccinale straordinaria. Per tale ragione, la stessa non incide in alcun modo sull'ordinario sistema di responsabilità medica che, pur lasciando il passo allo scudo penale specifico introdotto dal decreto aprile per la fase vaccinale, resta immutato, nella veste conferitagli dalla legge Gelli.

Vaccini: tra colpa lieve e colpa grave non c'è differenza. Se l'esclusione della responsabilità dolosa dallo scudo penale si evince, senza alcun dubbio, dall'esplicito riferimento agli articoli 589 e 590 del codice penale, qualche riflessione in più va fatta con riferimento alla colpa: c'è differenza tra colpa grave e colpa lieve? Per come è formulato l'articolo 3 del decreto Covid sembra proprio di no. Se sono rispettate le indicazioni, la responsabilità penale è comunque esclusa, a prescindere dal grado della colpa.

Vaccini e responsabilità civile. Va infine detto che lo scudo si limita a proteggere i sanitari dalla responsabilità penale, ma non da quella civile. Quest'ultima, infatti, non è contemplata, con la conseguenza che, con riferimento ad essa, operano le regole ordinarie, anche durante la straordinaria fase della vaccinazione contro il coronavirus.

Vaccini: niente risarcimento se le procedure cliniche sono rispettate. Quotidianosanita.it il 20 agosto 2018. Lo ha stabilito la terza sezione civile della Cassazione che, confermando la sentenza della Corte d’Appello, ha respinto la richiesta di risarcimento della famiglia di una persona che ha riportato gravi danni a livello neurologico dopo essersi sottoposta, nel 1992, a vaccinazione obbligatoria (pertosse). I giudici hanno riconosciuto il nesso causale tra la vaccinazione e l'encefalopatia, ma escluso la responsabilità medica perché lo stato di salute del bambino, al momento della vaccinazione, non presentava controindicazioni. 20 AGO - Se al momento della vaccinazione non c’era nessuna controindicazione che potesse far immaginare effetti collaterali successivamente subentrati, al vaccinato non spetta alcun rimborso dei danni subiti, perché il medico ha rispettato la procedura prevista. A deciderlo è stata la terza sezione civile della Cassazione con l’ordinanza 20727/2018 depositata il 13 agosto con cui ha confermato la sentenza della Corte d’Appello, respingendo la richiesta di risarcimento di alcuni parenti di una persona sottoposta nel 1992 a vaccinazione obbligatoria (pertosse) riportando poi danni gravi a livello neurologico. Secondo i giudici, sia di primo grado che della Cassazione, al momento della vaccinazione il bambino non presentava alcuna controindicazione e questo esclude responsabilità medica. I magistrati hanno accertato il nesso causale tra la vaccinazione e l'encefalopatia, ma hanno escluso la responsabilità del sanitario che aveva vaccinato il bambino perché non erano “clinicamente evidenti delle controindicazioni alla stessa”. Secondo la Cassazione è necessaria la verifica di “sussistenza del nesso causale tra condotta ed evento e della colpa (medica) che deve sorreggere la condotta dell'agente”. “Ciò posto – si legge nella sentenza - detta verifica non postula alcun ordine logico­ giuridico indefettibile e necessario al quale doversi attenere (ossia il cui mancato rispetto produrrebbe una violazione della norma di riferimento: art. 1218 e.e. o art. 2043 e.e.), in quanto gli anzidetti clementi costitutivi dell'illecito, pur partecipando entrambi all'imputazione di responsabilità, operano comunque  su  piani differenti e autonomi: il “nesso causale” sul piano naturalistico (in base agli artt. 40 e 41 c.p.), secondo criteri oggettivi e in  base  a  regole scientifiche/ statistiche/logiche (artt. 40 e 41 c.p.c.), la “colpa” sul piano della prevedibilità soggettiva”. Secondo i giudici ne deriva che, proprio in ragione della differenza di piani sui  quali si collocano i requisiti dell'illecito e sebbene (contrariamente a quanto sostenuto dai ricorrenti) l'ordine logico dell'accertamento  presupporrebbe  “dapprima la verifica del nesso causale e poi quello della colpa, non sussiste alcun  vincolo per il giudice di far precedere necessariamente l'uno all'altro, potendo esso (anche in forza della preferenza per la  ragione più  liquida) giungere (proprio nel caso di responsabilità sanitaria) ad una esclusione di sussistenza della responsabilità già solo con il riscontro dell'assenza della colpa medica”. La Cassazione spiega nell’ordinanza che la Corte di Appello ha accertato, in base all'Atto medico-legale:

a) l'esistenza del nesso causale tra vaccinazione antipertussica del 13 gennaio 1992 e “successivo sviluppo di un'encefalopatia” a carico del minore;

b) l'insussistenza di elementi di responsabilità a carico  del  sanitario che aveva proceduto alla vaccinazione obbligatoria, non essendo “clinicamente evidenti delle controindicazioni alla stessa” e, in particolare, quelle specificate nella circolare ministeriale n. 9 del 1991 “o anche solo di previ elementi di sospetto  circa  una  predisposizione in  tal senso  del  paziente,  là dove l'insorta complicanza neurologica “non era ragionevolmente prevedibile”, in quanto “evento documentato, ma estremamente raro”;

c)  l'imprudente somministrazione delle ulteriori vaccinazioni e, segnatamente di quella antipolio in data 9 novembre 1992, essendo, però, da escludere che le stesse “abbiano potuto causare un qualche aggravamento nel quadro di una encefalopatia già conclamata a seguito della prima vaccinazione”.

“Si tratta dunque – sottolineano i giudici della Cassazione -  di un conferente accertamento ma fatto sulla sussistenza della colpa e dell'efficienza causale delle condotte, di pertinenza esclusiva del giudice del merito e insindacabile in questa sede, se non nei limiti del vizio veicolabile ai sensi del vigente n. 5 dell'art. 360 c.p.c. - ossia dell'omesso esame di fatto storico decisivo -, che non è stato affatto denunciato dai ricorrenti (né, comunque, è ravvisabile nella motivazione  resa  dalla Corte territoriale), i quali, lungi dall'evidenziare errores in iudicando, orientano le proprie critiche verso una complessiva rivalutazione delle risultanze istruttorie, senza peraltro neppure aggredire in modo conducente l'iter argomentativo della sentenza impugnata”. Inoltre secondo la Cassazione i ricorrenti non considerano che, in riferimento alla vaccinazione antipertosse, “l'accertamento fattuale della Corte di appello ha condotto, nel caso concreto, alla verifica del positivo rispetto delle indicazioni dettate e in un contesto di insussistenza di controindicazioni non solo generiche, ma anche correlate alla situazione propria ed effettiva del vaccinando”. A questo si aggiunge che non c'erano elementi di sospetto che il piccolo potesse avere una delle problematiche di salute che avrebbero sconsigliato la somministrazione del vaccino. Insomma secondo i giudici “l'insorta complicanza neurologica non era ragionevolmente prevedibile in quanto evento documentato, ma estremamente raro”.

La responsabilità medica ai tempi del Covid-19. L’indagine sulle conseguenze dell’emergenza epidemiologica in atto sulla responsabilità medica. Valerio Carlesimo, Professionista - Avvocato, il 22/10/2020 su altalex.com. L’emergenza epidemiologica in corso, nella misura in cui impatta sulle situazioni giuridiche soggettive, diviene una feconda occasione di indagine per il giurista[1].

L’epidemia grava, soprattutto, sulla prestazione dei sanitari e può originare giudizi di responsabilità civile (contrattuale e extracontrattuale) nei loro confronti, in tutti i casi in cui sia ravvisabile un errore medico ai danni di un paziente affetto da Covid-19: al tema sarà dedicata la presente indagine.

Più in particolare, la ricerca sarà diretta a tracciare i confini oltre i quali la pandemia, integrando una causa di forza maggiore o di necessità[2], esclude la responsabilità del medico, o rende inesigibile un corretto adempimento da parte della struttura sanitaria.

Sommario

La disciplina della legge Gelli-Bianco

Il Covid 19: un virus sul quale la scienza medica ancora si interroga

L’art. 2236 c.c. ed il riferimento alla soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà

In che limiti è possibile l’utilizzo di farmaci off-label?

L’attività del medico qualificata come pericolosa ai sensi dell’art 2050 c.c.

La lesione del consenso informato

La carenza organizzativa della struttura sanitaria

La disciplina della legge Gelli-Bianco

La responsabilità medica è regolata dalla Legge 8 marzo 2017, n. 24 (Nota come Legge Gelli Bianco) in vigore dal 1° aprile 2017.  L'articolo 5 della legge Gelli prevede che "... gli esercenti le professioni sanitarie con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale, si attengono, salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste dalle linee giuda pubblicate ai sensi dell'art.3... In mancanza delle suddette raccomandazioni, gli esercenti le professioni sanitarie si attengono alle buone pratiche clinico-assistenziali".

L'articolo 6 della Legge ha modificato l'articolo 590 del c.p. inserendo l'articolo 590 sexies (Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario). La norma prevede che se l'evento si è verificato per imperizia la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, "..sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso".

Sull'interpretazione della norma si è pronunciata la Suprema Corte che ha specificato che l'esercente la professione sanitaria risponde a titolo di colpa, per morte o lesioni personali:

a) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da negligenza o imprudenza;

b) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni o linee guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;

c) se l'evento si è verificato per colpa (anche "lieve") da imperizia nell'individuazione e scelta delle linee guida o pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;

d) se l'evento si è verificato per colpa "grave" da imperizia nell'esecuzione di raccomandazioni di linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali tenuto conto del rischio da gestire e delle difficoltà dell'atto medico[3].

Il Covid 19: un virus sul quale la scienza medica ancora si interroga

Mancano raccomandazioni e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica concernenti le specifiche caratteristiche del Covid 19, malattia che presenta un altissimo livello di diffusione ed una velocità estrema di contagio. Ancora non si è trovato un vaccino adatto e le cure sono in fase sperimentale.

La legge Gelli bianco nel descrivere la responsabilità penale del medico fa riferimento alla Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario, scagionandolo solo nel caso di imperizia quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alla specificità del caso.

La specificità del caso Covid 19 deve essere puntualmente tipizzata dal legislatore, ed il riferimento all’imperizia necessita dell’indicazione di tutte le ipotesi e circostanze che possono verificarsi nel contesto della diagnosi della pandemia. La condotta penale del medico non è descritta in termini di dolo, con tutte le sue declinazioni, ma viene punita nel caso di colpa da intendersi come negligenza o imprudenza.

 Nel contesto della pandemia è chiaro come l’individuazione di condotte intenzionali dolose del medico garantisca maggiormente il paziente, dato che altissime sono le probabilità di errore dei sanitari. L’enucleazione di condotte soggettive di errore doloso da parte del medico, l’introduzione di specifici obblighi di informazione sono da prendere in considerazione per far sì che i medici presentino un cd “livello di preparazione diligenza adeguato alla difficoltà contingente” [4].

 V’è da interrogarsi, in particolare, su quale sia la condotta concretamente esigibile dal medico in un contesto caratterizzato dalla novità della patologia nonché dalla carenza di studi scientifici in materia; contesto vieppiù aggravato da una massiccia e generalizzata carenza organizzativa, tanto con riferimento alla disponibilità di terapie idonee a contrastare il virus, quanto con riguardo alla penuria di strumentazione, dispositivi di protezione individuale, nonché (e soprattutto) di posti letto in terapia intensiva e adeguato (in numero e specializzazione) personale sanitario.

L’art. 2236 c.c. ed il riferimento alla soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà

Vero come anche al medico spetti, in presenza di una così forte carenza di informazioni, una tutela per premiare i suoi sforzi e non frustrare ingiustificatamente le sue iniziative. La ragione della tutela sta nel fatto che sì il medico deve essere adeguatamente preparato, ma non si possono trascurare l’elevato livello di problematicità e complicatezze della prestazione sanitaria che compie.

 Si consideri, anzitutto, quanto previsto dall’art. 2236 c.c. L’articolo, nel dettaglio, esclude la responsabilità del prestatore d’opera per quei danni cagionati nell’esecuzione di una prestazione implicante “la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”, fatta eccezione per la ricorrenza del dolo o della colpa grave. I contesti nei quali la previsione è stata ritenuta applicabile riguardano casi necessariamente straordinari ed eccezionali, in quanto (a) “non adeguatamente studiati dalla scienza o sperimentati dalla pratica”, oppure caratterizzati dal fatto che (b) “nella scienza medica vi siano ancora dibattiti diversi ed incompatibili sui corretti sistemi diagnostici e terapeutici fra i quali il medico debba compiere una scelta”. L’art 2236 c.c. configura, piuttosto, una limitazione della responsabilità del prestatore, atta a parametrare la colpa del terapeuta alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento, oltre che al contesto in cui lo stesso si è svolto. In quanto tale, le norma si pone a “generale canone determinativo della diligenza richiesta nell’adempimento delle obbligazioni” e quindi, in prospettiva simmetrica, “quale parametro di riferimento per l’individuazione delle ipotesi di responsabilità per inadempimento”. Così delimitato il campo d’applicazione della norma, non vi sono dubbi circa l’astratta applicabilità dell’esimente alla situazione emergenziale in corso.

Il Coronavirus, quale pandemia globale mai studiata dalla comunità scientifica e dilagata in Italia prima che nel resto d’Europa, integra senz’altro il caso eccezionale di cui all’art. 2236 c.c[5]. Tale norma potrà trovare applicazione, dunque, nel caso in cui la terapia prescelta non abbia portato alla guarigione (proprio per l’assenza di linee guida o buone pratiche), ma anche per giustificare l’imperizia dei medici non specializzati (o in possesso di specializzazioni non afferenti alla infettivologia) i quali, assunti per sopperire alle carenze di organico nel contesto emergenziale, abbiano ignorato (non per loro colpa) le leges artis del caso di specie [6].

In che limiti è possibile l’utilizzo di farmaci off-label?

In altri casi la pandemia integra il caso di forza maggiore idoneo ad escludere il fatto illecito del medico. Si pensi al danno derivante dalla somministrazione di un farmaco c.d. off-label [7], per tale intendendosi il medicinale già registrato, ma utilizzato in modo non conforme a quello previsto.

In un contesto emergenziale contraddistinto dalla assenza di univoche indicazioni terapeutiche, è usuale il ricorso a terapie sperimentali, o la somministrazione di farmaci registrati per un diverso impiego, i quali provochino un danno biologico al paziente. Il quadro normativo di riferimento è costituito, anzitutto, dall’art. 3, L. 94/98 che, al primo comma, impone al medico di attenersi “alle indicazioni terapeutiche, alle vie e alle modalità di somministrazione previste dall’autorizzazione all’immissione in commercio rilasciata dal Ministero della sanità”. Ma ecco che il secondo comma introduce la facoltà, per il medico, di “impiegare un medicinale prodotto industrialmente per un’indicazione o una via di somministrazione o una modalità di somministrazione o di utilizzazione diversa da quella autorizzata sempre che sussistano le condizioni seguenti: (a) che il medico stesso ritenga, in base a dati documentabili, che il paziente non possa essere utilmente trattato con medicinali per i quali sia già approvata quella indicazione terapeutica o quella via o modalità di somministrazione; purché (b) tale impiego sia noto e conforme a lavori apparsi su pubblicazioni scientifiche accreditate in campo internazionale; previa la (c) informazione del paziente e acquisizione del consenso dello stesso, e ferma restando (d) la diretta responsabilità del sanitario.

L’attività del medico qualificata come pericolosa ai sensi dell’art 2050 c.c.

Più in particolare, pare doversi riconoscere la ricorrenza di una responsabilità ex art. 2050 c.c., connessa alla pericolosità derivante dalla somministrazione di farmaci ancora “sperimentali”. Non pare potersi dubitare, tuttavia, che in taluni casi specifici l’attività medica si presti ad essere qualificata come pericolosa, vuoi per la tipologia dei mezzi impiegati, vuoi – per l’appunto – in ragione della peculiare terapia prescelta.

Tanto premesso, è noto che – secondo la dottrina maggioritaria – la responsabilità ex art. 2050 c.c.[8]. comporta una presunzione di colpevolezza in capo al danneggiante, il quale non è ammesso a provare il contrario, potendo soltanto dimostrare di “aver adottato tutte le misure idonee a evitare il danno”. Ne consegue che, nei settori medici che possano definirsi come pericolosi, non può trovare applicazione – per incompatibilità logico-giuridica – il disposto dell’art. 2236 c.c., il quale presuppone la valutazione dello stato soggettivo del prestatore d’opera (che è invece escluso dal regime di cui all’art. 2050 c.c.). Ne deriva che, nel caso di pregiudizio derivante dalla somministrazione di un farmaco “fuori etichetta” (ma identico discorso vale anche per la terapia sperimentale), a fronte della prova, gravante sul paziente, della sussistenza del danno, nonché del nesso tra quest’ultimo e la condotta del sanitario, sull’esercente incombe un onere probatorio rafforzato.

Onde andare esente dalla condanna, egli dovrà dimostrare che la peculiarità del caso in esame rendeva opportuna la somministrazione del farmaco contestato stante: (a) l’assenza di indicazioni terapeutiche per trattare il Coronavirus; (b) l’accreditamento dell’impiego di quel medicinale fuori etichetta da parte di studi scientifici; nonché – in fase esecutiva – (c) l’avvenuta attenta sorveglianza in ordine allo svolgimento della cura ed alla sua evoluzione, ad es. mediante la puntuale annotazione di reazioni al farmaco non registrate dagli studi esistenti.

La lesione del consenso informato

La forza maggiore è idonea ad escludere la responsabilità del sanitario anche nel caso della lesione del diritto al consenso informato. Può ipotizzarsi, a tal proposito, che un paziente affetto dal Coronavirus – condotto in via d’emergenza in ospedale – sia immediatamente sottoposto a un trattamento, in assenza della preventiva informativa [9] da parte del medico.

É senz’altro noto che la necessarietà della consapevole volontà del paziente, quale presupposto legittimante l’attività sanitaria, già da tempo enucleata dalle fonti internazionali e dalla giurisprudenza interna, ha avuto consacrazione anche a livello di legge ordinaria, mediante la L. 219/2017, art. 1.

Come ribadito dalla giurisprudenza più recente, la lesione del diritto del paziente ad essere sottoposto a trattamenti soltanto previo consenso può essere foriera di due differenti pregiudizi: il danno alla salute, ravvisabile allorquando sia provato che il paziente – se informato – avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento (o si sarebbe sottoposto a diverso intervento) da cui ha subito conseguenze invalidanti; il danno da lesione del diritto di autodeterminazione, sussistente laddove, a causa del deficit informativo, al paziente sia residuato un danno (patrimoniale o non patrimoniale) diverso dalla lesione del diritto alla salute.

Sul punto va, tuttavia, precisato che il diritto di autodeterminazione, pur avendo fondamento costituzionale (artt. 2, 13, 32 Cost.), incontra taluni limiti in situazioni eccezionali: da un lato, l’urgenza dell’intervento sanitario che non renda materialmente possibile chiedere il consenso informato; dall’altro, il pubblico interesse previsto da una apposita disposizione di legge ex art. 32, secondo comma, Cost. Ne consegue che, nel caso di specie, il sanitario andrà esente da responsabilità qualora il mancato rilascio del consenso informato sia dovuto alla assoluta urgenza del trattamento sanitario; circostanza, quest’ultima, che, soprattutto nei momenti della piena emergenza, ha purtroppo registrato una percentuale rilevante di casi.

La carenza organizzativa della struttura sanitaria

Di indubbio rilievo sono le ipotesi in cui il danno sia derivato da una carenza organizzativa della struttura sanitaria. Si consideri l’ipotesi in cui il decesso, o l’aggravamento della patologia, siano stati causati da un ricovero tardivo in terapia intensiva. Trattasi di fattispecie che involgono la responsabilità non del sanitario, ma – se del caso – della struttura sanitaria nella quale egli abbia operato [10]. Da tempo, in effetti, la giurisprudenza ha individuato una responsabilità autonoma della struttura sanitaria, in quanto tale non riferibile ad una condotta colposa del personale medico, bensì ad una colposa carenza organizzativa della struttura stessa. Tale responsabilità discenderebbe da un contratto atipico di spedalità comprensivo, oltre che delle prestazioni mediche in senso stretto, di una serie di altre prestazioni, quali alloggio, ristorazione, disponibilità di attrezzature adeguate, sicurezza degli impianti, custodia dei pazienti, apprestamento di medicinali, nonché messa a disposizione del personale medico, ausiliario e paramedico, nel numero e con le competenze adeguati, anche nelle situazioni di urgenza.

L’indirizzo è stato, in ultimo, positivizzato dalla Legge Gelli-Bianco, che, nell’individuare nella sicurezza delle cure una parte costitutiva del diritto alla salute, ne ha predicato la realizzazione “anche mediante l’insieme di tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative” (art. 1). Appare, quindi, configurabile un danno c.d. da “disorganizzazione" (Infezioni da Covid 19 e responsabilità della struttura sanitaria, Dimitri De Rada, 13 maggio 2020, Altalex), o, secondo altri, “per inefficienza”, conseguente ad una violazione dello standard medio di organizzazione ed efficienza della struttura sanitaria, quale un paziente può ragionevolmente attendersi e prevedere.

La responsabilità della struttura, più nel dettaglio, sarà ravvisabile nel caso in cui non siano garantiti:

(a) adeguata (in termini di tipologia, ovvero di numero) strumentazione o macchinari necessari per la prestazione sanitaria, ivi inclusi quelli necessari per le emergenze;

(b) presenza di personale sanitario in numero e con una specializzazione adeguati;

(c) sicurezza dell’ambiente ospedaliero, nonché

(d) custodia e protezione dei pazienti più vulnerabili (malati di mente, minori).

Venendo al caso di specie, può ipotizzarsi il caso della morte di un paziente non ricoverato in terapia intensiva per insufficienza dei posti letto, ovvero non curato adeguatamente per carenza di personale sanitario (o personale specializzato), farmaci o strumentazione. Un’altra ipotesi prospettabile è quella delle infezioni nosocomiali: si pensi al caso in cui pazienti ricoverati per patologie diverse contraggano il Covid-19 in ambiente ospedaliero, a causa di carenze organizzative della struttura. In tale circostanza, un profilo di rimproverabilità, in capo a quest’ultima, potrebbe essere connesso alla mancata adozione delle precauzioni indispensabili per scongiurare il rischio del contagio da parte dei reparti Covid-19. È opportuno rammentare che – secondo costante giurisprudenza – la struttura sanitaria risponde ex art. 1218 c.c. dei danni patiti dal paziente a seguito di infezioni nosocomiali contratte durante la degenza, nel caso in cui tali pregiudizi siano dipesi dall’inadeguatezza della struttura.

Ne consegue che “è a carico del danneggiato la prova dell’esistenza del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica, nonché del relativo nesso di causalità con l’azione o l’omissione del personale della struttura, restando a carico di quest’ultima la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente nel rispetto degli standard richiesti dalla disciplina di settore, e che l’evento lesivo sia stato determinato da un accadimento imprevisto ed imprevedibile”.

La prova liberatoria incombente sulla struttura sanitaria è, peraltro, particolarmente gravosa, consistendo nella dimostrazione “seria e rigorosa di aver fatto tutto il possibile per evitare l’insorgenza dell’infezione stessa (…) vale a dire provare di avere posto in essere ogni cautela e precauzione, funzionale, strutturale e di metodo, al fine di realizzare e mantenere costante un’ottimale sanificazione della struttura, dei locali, degli ambienti, dei mezzi e del personale addetto”. Deve ritenersi insufficiente, a tal fine, la mera produzione di protocolli di sterilizzazione, in assenza della prova delle condotte concretamente poste in essere dall’istituto per una efficace e consapevole opera di sanificazione. In taluni casi, si è anche valorizzato – al fine di affermare la responsabilità della struttura – la mancata prova, da parte di quest’ultima, di “avere adeguatamente formato ed aggiornato il personale infermieristico e medico, dimostrandone con allegazione di attestati la partecipazione a corsi in materia, né di avere compiuto controlli a campione per verificare il rispetto di tali regole da parte del personale medico e paramedico”, nonché della “corretta tenuta dello strumentario e comportamento igienico della equipe: lavaggio mani, prelievo degli strumenti dall’autoclave ovvero apertura degli strumenti sigillati, etc”. Ne consegue che l’evidenza di grossolane carenze compilative nel diario clinico del paziente danneggiato, non permettendo “di esprimere un motivato giudizio in merito alla gestione clinica di tale complicanza infettiva”, e quindi di “valutare l’idoneità dei provvedimenti terapeutici effettuati con riferimento alle tempistiche di attuazione dei provvedimenti intrapresi” determina ex se la responsabilità della struttura sanitaria. Ne deriva la configurazione di una responsabilità “quasi oggettiva” a carico della struttura: solo in presenza della prova di aver impiegato ogni cautela possibile, potrebbe concludersi per una diversa origine dell’infezione, e quindi escludere la responsabilità in capo all’istituto sanitario.

Tanto premesso, nel caso di specie è ipotizzabile che l’eccezionalità della patologia e quindi l’assenza di reparti specializzati, da un lato, la limitatezza obiettiva della strumentazione e dei posti letto in terapia intensiva (dovute alle limitazioni finanziarie e quindi non imputabili alla struttura sanitaria), dall’altro, integrino la prova liberatoria idonea ad esentare la struttura sanitaria da ogni addebito per danno derivante da inefficienza organizzativa. Pare, invece, difficile escludere a priori la responsabilità con riferimento al danno da contagio in ambiente ospedaliero. L’addebito sarà pacifico ove risultino una mancata sterilizzazione, o un inadeguato isolamento dei reparti Covid; la struttura dovrebbe, al contempo, esser ritenuta responsabile anche nel caso in cui non riesca a far fronte alla (rigorosa) prova liberatoria di cui si è detto.

[1] Rivista Judicium, “Responsabilità medica e tutela del paziente ai tempi del Coronavirus”, 12/06/2020, Chiara Iorio. 

[2] Rivista Iusinitinere “Gli effetti del Covid 19 sui rapporti contrattuali: la causa di forza maggiore alla luce dell’art 91 del D.L 18/2020”, 23/03/2020, Enrico Ianniciello. 

[3] Studio Cataldi “La responsabilità sanitaria ai tempi del Covid”, 07/08/2020, Mara Scarsi. 

[4] Rivista Giurisprudenza penale, “La responsabilità penale del medico dopo la Legge Gelli-Bianco: riflessioni sull’art. 590 sexies c.p”, Riccardo Lucev. 

[5] Rivista Salvis Juribus, “La responsabilità medica: un quadro storico e la recente giurisprudenza”, 07/10/2019, Alessia Nicodemo. 

[6] IL RUOLO DELL’ART. 2236 C.C.NELLA RESPONSABILITÀ SANITARIA PER DANNI DA COVID-19,22/04/2020, di Mirko Faccioli, Professore associato di Diritto privato –Università degli Studi di Verona, in Rivista Responsabilitàmedica.it 

[7] Rivista Med4.care, “Utilizzo di farmaci off-label nel covid 19: conseguenze pratiche ed etiche”, Marco De Nardin, 03/07/2020. 

[8] Rivista Diritto.it, “La responsabilità oggettiva e lo svolgimento di attività pericolose ai sensi dell’art 2050 codice civile, con particolare riferimento al trattamento dei dati personali alla luce del decreto legislativo n. 196/2003, 01/06/2020, Modesti Giovanni. 

[9] Rivista Judicium, “Responsabilità medica e tutela del paziente ai tempi del Coronavirus”, 12/06/2020, Chiara Iorio. 

[10] Rivista Giustizia Insieme, “Responsabilità medica e Covid 19”, 07/05/2020, Michela Pertrini.  

Mia moglie è stata cremata ad aprile da allora attendo le ceneri: una vergogna. Il Messaggero Veneto il 26/6/2021. UDINE. Franco Duranti, 70 anni, è solo dallo scorso 7 aprile. L’amata moglie, Graziella Cozzi, è venuta a mancare all’ospedale di Udine a causa di una grave malattia. Da allora, per l’uomo originario di Ovaro, ma residente a Grions del Torre, è cominciato un calvario che ancora non si è concluso. «Il corpo di mia moglie è stato portato nell’impianto di Gemona per essere cremato, ma da aprile sto ancora aspettando l’urna con le sue ceneri. Sono trascorsi due mesi e mezzo». Viste le origini carniche della coppia, la signora Graziella, prima di morire, ha espresso il desiderio che le sue ceneri fossero disperse nel torrente Degano, a Ovaro. «In questi mesi sono stato letteralmente “rimbalzato” tra i Comuni di Udine e Ovaro – racconta Duranti – senza che qualcuno mi sapesse dare una risposta certa. Mi sono anche rivolto ai carabinieri, ma non hanno potuto fare nulla per il mio caso. È una vergogna. Non siamo in una grande città come Roma o Milano, com’è possibile che un disgraziato non riesca ad avere le ceneri della propria moglie?», si chiede sconsolato il signor Franco. Da qualche anno la dispersione delle ceneri non è più reato in Italia. È autorizzata, nel rispetto delle volontà del defunto, dall’ufficiale di stato civile del Comune nel quale è avvenuto il decesso. Può essere consentita in apposite aree dei cimiteri, o in aree private all’aperto con il consenso del proprietario. Non solo. Le amministrazioni comunali hanno la facoltà di permettere anche la dispersione in natura, in mare, nei laghi, nei fiumi, dalla cima di un monte. «Non so più che fare – aggiunge Duranti – ormai la notte non dormo a causa di questa situazione. Dopo mesi dalla sua scomparsa ancora non ho potuto avere la mia urna. Stiamo aspettando il via libera dal Comune di Udine che non arriva, e da quanto ho capito la pratica è ferma e la persona incaricata è in ferie, e quindi fino al 5 luglio non potrà sbloccarsi». Quando la vicenda potrà risolversi, sarà la società di pompe funebri incaricata a ritirare da Udine l’urna con le ceneri e consegnarla alla famiglia Duranti. Fino ad allora resterà il dolore di un marito e di due figli, che a causa della burocrazia, stanno ancora aspettando di soddisfare la richiesta della loro congiunta. La buona notizia è che il Comune di Ovaro ha già dato l’ok allo spargimento delle ceneri della signora Cozzi nel torrente Degano, con l’unica raccomandazione che l’operazione sia effettuata ad almeno 200 metri di distanza dalle abitazioni. «Non sarà un problema, visto che ci sono ampi spazi senza insediamenti umani», assicura Duranti, che si sarebbe atteso una chiamata da parte delle istituzioni udinesi con delle scuse per i tempi di attesa. «Nessuno si è fatto sentire», chiude non senza amarezza, augurandosi che questa sua denuncia pubblica possa servire a sbloccare le cose. 

Zecchi vuole il "processo di Norimberga" e Fiano si infuria. A Quarta Repubblica scatta la rissa. Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. Parlando del ministro della Salute Roberto Speranza, il filosofo Stefano Zecchi, in collegamento da Milano con gli studi di “Quarta Repubblica” lunedì 5 aprile, non usa mezzi termini. “Noi abbiamo un ministro incapace, un ministro che a giugno dell’anno scorso ha scritto un libro sul fatto che aveva risolto il problema del Covid. Libro che poi ha ritirato - attacca Zecchi nella trasmissione condotta da Nicola Porro su Rete4 - Siamo in una guerra terribile. Ma nelle guerre ci sono generali capaci di comandare il proprio esercito e generali incapaci che mandano allo sbaraglio la loro gente. La mandano a crepare". Ma la ‘gente’ "siamo noi italiani che moriamo come mosche quando si sarebbe dovuto realizzare questo piano vaccinale già con il governo precedente. Il governo Draghi eredita una situazione disastrosa, ma non sta facendo assolutamente meglio. Sta dando soltanto obiettivi. La realtà è disperante", dice il filosofo che è un fiume in piena. "È inutile qui continuare a fasciarci la testa. Qui non si è capaci. Il governo non è capace di organizzare minimamente le aperture che significano "vita". Sono soltanto capaci di dare "morte"", attacca lanciando un paragone che fa saltare sulla sedia Emanuele Fiano. "Qui ci vuole un processo. Il processo di Norimberga. Perché i morti che sono caduti in questa battaglia sono morti sulla coscienza della politica”, sbotta Zecchi. E il parlamentare del Pd non si tiene, e ribatte: “Il processo di Norimberga lasciamolo stare, lì si sterminarono 6 milioni di ebrei. Se fosse vero significherebbe che Speranza è come Goebbels e Draghi è come Hitler. Le consiglio di moderare le parole. La storia ha un peso e le parole sono sacre”. I due si sovrappongono, il parallelismo usato da Zecchi tocca nell'intimo il parlamentare Pd che poco prima aveva anche ricordato la morte dei genitori, in tempi recenti, soprattutto del padre sopravvissuto alla Shoah, Nedo Fiano, al quale il dem ha dedicato anche un libro.

7 morti su 11 pazienti contagiati. Il dg: capita che il tampone dia esito negativo e poi la persona si positivizzi nei giorni successivi. La Gazzetta del Mezzogiorno. Sono al momento sette le persone decedute tra gli 11 pazienti che erano ricoverati nel reparto di Oncologia dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce e che hanno contratto il Covid. Il focolaio è stato individuato il 2 marzo scorso nel reparto dove era in tutto ricoverate 18 persone. Su tutta la vicenda, dopo le denunce di alcuni parenti, la Procura di Lecce ha aperto una inchiesta. In particolare per capire come mai i pazienti entrati in ospedale negativi al tampone si siano poi infettati. «Capita - spiega all’ANSA il dg della Asl Lecce, Rodolfo Rollo - che il tampone dia esito negativo e poi la persona si positivizzi nei giorni successivi. Sta accadendo anche in altri ospedali». Rollo spiega che gli operatori sanitari in servizio nel reparto di Oncologia erano tutti vaccinati tranne uno, «per motivi di salute». Ma, aggiunge il direttore generale della Asl, "abbiamo riscontrato anche il caso di tre operatori vaccinati che sono risultati positivi dopo la seconda dose nello stesso focolaio di Oncologia». «Ogni anno - spiega - Oncologia fa 600 ricoveri e 50.000 prestazioni ambulatoriali o day hospital senza mai avere un evento avverso. La nuova variante ha bucato lo scudo». Rollo evidenzia infine che le persone decedute erano tutte in gravi condizioni legate al tumore.

LA SETTIMA VITTIMA È UNA 49ENNE - E’ unna 49enne di Racale (Lecce) la settima vittima tra i pazienti risultati positivi al Covid nel reparto di Oncologia dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. A dare l'annuncio della morte è stato il figlio della donna sulla propria pagina Facebook. La 49enne era stata ricoverata lo scorso 27 febbraio e la sua positività è stata individuata il 3 marzo. A quanto si apprende, le sue condizioni sono peggiorate progressivamente: febbre molto alta, difficoltà respiratorie e una polmonite bilaterale. La donna era quindi stata trasferita nel reparto di Terapia intensiva del Dea dove è morta nella mattinata di ieri. Sul caso del focolaio esploso nel reparto di Oncologia, il magistrato Donatina Buffelli ha aperto un fascicolo dopo le denunce di alcuni famigliari. Ad oggi sono stati presentati cinque esposti in Procura. Nei giorni scorsi i carabinieri del Nas hanno acquisito gli atti relativi all’adozione dei protocolli anti contagio attuati nell’ospedale. 

Malato di Covid lasciato in ambulanza per 28 ore, se ne discuterà in Regione. Iniziativa del consigliere della Lega, Michele Conserva. La Voce di Manduria martedì 30 marzo 2021. Il consigliere regionale della Lega, Giacomo Conserva, chiederà l'audizione in commissione sanità del direttore generale della Asl di Taranto, Stefano Rossi, per riferire su quanto sarebbe accaduto all'interno di un ospedale delal provincia di Taranto dove il paziente di 78 anni con sintomi da infezione Covid sarebbe rimasto per 28 ore in ambulanza. Di seguito i particolari dell'episodio. “Ventotto lunghe ore di attesa prima di essere sbarellato e portato in reparto. Assurdo, indegno, ignobile. E’ quanto accaduto ad un 78enne in un ospedale dell’Asl di Taranto. Positivo al Covid, ha trascorso la notte di sabato e tutta la Domenica delle Palme a bordo di un’ambulanza in coda, in mancanza di posti letto. Non era il solo, anche altri pazienti erano in ‘attesa’ come lui a bordo di ambulanze in coda. Una notizia che è stata riportata da numerosi organi di stampa dopo aver letto lo sfogo via social di un’operatrice sanitaria che ha assistito il 78enne. Ha mangiato, bevuto e fatto i suoi bisogni negli appositi presidi e sempre nell’ambulanza ha dovuto fare la terapia con l’ossigeno”. Questo è quanto dichiara il consigliere regionale della Lega, Giacomo Conserva.

“Ho richiesto ufficialmente – continua - un’audizione urgente in III Commissione Sanità della Regione Puglia convocando il Direttore Generale dell’Asl di Taranto, Stefano Rossi. Questa vicenda merita chiarezza. Dove sono finiti i posti letto previsti nel nuovo Piano Ospedaliero per la gestione dell’emergenza Covid-19? Qual è la situazione attuale dei posti disponibili di terapia intensiva e il tasso di occupazione degli stessi? Vogliamo delle risposte. Tutto questo è disumano”. “L’episodio, purtroppo non isolato, rappresenta la fotografia del nostro sistema sanitario al collasso a causa di scelte politiche inadeguate. Un sistema che regge grazie al grande lavoro senza sosta di medici, infermieri e operatori sanitari che ogni giorno sono in prima linea per fronteggiare la pandemia da Covid-19 e curare le persone” ha concluso Conserva.

11 ore in attesa di ricovero Covid: la precisazione del Marianna Giannuzzi. ​Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. Francesca Dinoi su La Voce di Manduria venerdì 27 novembre 2020. Non ha tardato ad arrivare la replica da parte della direzione medica del presidio ospedaliero “Marianna Giannuzzi” sul caso dell’uomo di Avetrana rimasto ad aspettare in ambulanza per circa 11 ore prima di essere ricoverato. A narrare l’esperienza, era stato il figlio del paziente, l’avvocato Mirko Giangrande in un’intervista rilasciata al Nuovo Quotidiano di Taranto, in cui lamentava, appunto, la lunga attesa a cui erano stati sottoposti a causa di un affollamento di ambulanze nel piazzale dell’ospedale. La direzione medica, in base alle notizie pervenute dal responsabile del Pronto Soccorso, racconta che all’arrivo del signor Giangrande in ospedale, l’assistito era stato visitato, eseguito il tampone naso-faringeo per verificare l’eventuale positività al Covid-19 e somministrata la terapia adeguata. In seguito, all’esito della positività del tampone, veniva fatto accomodare nell’area attrezzata all’osservazione breve fino a 48/72 ore e alle ore14:00 del giorno successivo, ricoverato nel reparto Medicina Covid, occupando il primo posto letto disponibile. «Al signor Giangrande non sono mai mancate le cure di cui ha avuto necessità in una giornata tuttavia congestionata per l’arrivo contestuale di numerose ambulanze del 118.», chiarisce la responsabile, riconoscendo l’imprevisto. Della stessa opinione anche la direzione Asl di Taranto che rivolge le proprie scuse al signor Giangrande ed al figlio, ribadendo che al paziente era sempre stata assicurata la massima sicurezza grazie all’esemplare competenza di tutti gli operatori sanitari presenti. Francesca Dinoi

Parla il figlio dell'uomo rimasto 11 ore in ambulanza prima del ricovero al Giannuzzi. L’avvocato Mirko Giangrande racconta in un’intervista al Nuovo Quotidiano di Taranto il calvario del padre ricoverato al Giannuzzi dopo un’attesa di 11 ore in ambulanza. La Redazione de La Voce di Manduria martedì 24 novembre 2020. Un calvario di 11 ore. Tanto è durata l’attesa in ambulanza di un uomo di Avetrana domenica scorsa. A raccontare l’incredibile vicenda al Nuovo Quotidiano di Taranto è il figlio del povero malcapitato, Mirko Giangrande. I particolari che l’avvocato riferisce hanno dell’incredibile. Il paziente, positivo già da diversi giorni, è stato prelevato dalla sua abitazione dopo aver effettuato una cura anti-Covid domiciliare. Giunto nel piazzale dell’ospedale Giannuzzi, dopo le prime ore, l’uomo - provato dall’attesa ed in evidente stato di agitazione - ha allertato il 112 ed il 113 addirittura dall’interno dell’ambulanza. Le comunicazioni con la famiglia avvenivano tramite whatsapp, visto l’affaticamento respiratorio e la difficoltà nell’effettuare chiamate vocali. Intorno alle 16.30, gli è stato effettuato un prelievo di sangue, ma il povero malcapitato – già da più di 4 ore all’interno dell’ambulanza – non dava segni di miglioramento e la febbre continuava ad aumentare. Il racconto del figlio del pover’uomo si fa sempre più inquietante: «Io vivo fuori, mi sono sentito impotente oltre che angosciato. In più – aggiunge l’avvocato – la cura intrapresa a casa si era interrotta durante le ore in ambulanza. Aveva solo l’ossigeno a sua disposizione e la febbre continuava a salire. Non sapevo cosa fare così, ormai stravolto, ho contattato il consigliere regionale Renato Perrini che si è adoperato a denunciare all’Asl di Taranto quanto stava accadendo» riferisce Giangrande. Stando a ciò che ha raccontato lo stesso avvocato durante l’intervista, sarebbero state ben cinque le ambulanze in coda per ore, così come riferitogli dal padre. L’avvocato non ci sta e promette di andare a fondo sulla vicenda: «Mi preme evidenziare che questo è accaduto ad un uomo di 57 anni in grado di comunicare con l’esterno e di mantenere lucidità. Ma se fosse capitato ad un uomo anziano? Non si può correre il rischio di morire in attesa di essere ricoverati. Questi inconvenienti potevano essere comprensibili a marzo, ma non a novembre perché, come cittadini, ci saremmo aspettati una maggiore organizzazione» aggiunge Giangrande, che poi conclude: «Tenere bloccate le ambulanze per così tante ore è inconcepibile. E se dovessero servire per un’emergenza? Non ho parole».

Verso mezzanotte, dopo la previsione di spostarmi all’Ospedale di Castellaneta, a 100 km di distanza, e la mia forte opposizione (ho preso la valigetta e stavo per scendere dall’ambulanza per recarmi al pronto soccorso), mi introducono in Pronto Soccorso. Qui mi rifanno il tampone e la radiografia. Fino alle 4 nel corridoio, poi in una stanzetta. Il ricovero effettivo in reparto avviene il giorno, 23 novembre 2020, dopo alle 14.00».

Taranto, pazienti Covid morti al Moscati: parenti chiedono giustizia. Le famiglie dei pazienti morti di covid al Moscati di Taranto chiedono giustizia e verità e si riuniscono in un comitato per non dimenticare e per dare voce a chi non c’è più. Servizio di Annamaria Rosato. Taranto, vittime del Covid? No, dell’imperizia. Di redazione su ilsudonline.it il 24-05-2021. Pazienti di cui si perdono le tracce, abbandonati nel letto per giorni senza poter vedere nemmeno un infermiere, spesso lasciati negli escrementi nell‘impossibilità di andare in bagno mentre i parenti sono in un limbo con informazioni scarse, talvolta imprecise. E poi scomparsa di oggetti personali. Sono le denunce di alcuni familiari delle vittime del Covid ricoverati all’ospedale Moscati di Taranto, entrati in terapia intensiva, alcuni all’inizio della malattia, e mai usciti. Queste testimonianze agghiaccianti sono state raccolte da un gruppo di circa 20 famiglie che hanno messo in rete la loro esperienza. «Morti non per Covid ma per imperizia», dice con la voce che trema Eleonora Coletta. che ha perso il marito e il padre ed è rimasta sola con tre figli. Il suo racconto è straziante. «Sono stata io a infettare la famiglia. Come paziente oncologica avrei dovuto avere la priorità nella vaccinazione ma non è stato possibile. Quando sono riuscita a fare la prima dose di vaccino avevo già il virus. Ho contagiato mio marito e mio padre. Mio marito è stato ricoverato al Moscati ai primi sintomi. Ho chiesto che gli somministrassero il plasma iperimmune ma i medici mi hanno detto che non credevano alla sua efficacia. Gli hanno applicato la maschera per l‘ossigeno. Dopo un paio di giorni lui ha accusato un forte dolore al torace e il cardiologo ha prescritto un’angiotac: l‘eccesso di ossigeno probabilmente gli aveva creato un pneumotorace, una sorta di bolla nei polmoni. Invece di fargli la tac l’hanno spostato in rianimazione sotto un casco con ventilazione altissima. Li gli è scoppiato il pneumotorace: a quel punto, con un polmone che non funzionava più. l’hanno intubato. Gli hanno fatto i raggi oltre due giorni dopo che il cardiologo aveva prescritto la tac”.

“Ecco come sono morti i nostri genitori negli ospedali di Taranto”. Le denunce dei parenti delle vittime e l'inchiesta di PugliaPress TV approdate nella trasmissione Fuori dal Coro di Mario Giordano su Rete 4. Cosimo Lenti su  Pugliapress il 24 Marzo 2021. Il 18 Marzo è stata approvata in Parlamento la legge che riconosce la giornata dedicata alle vittime del Covid-19. La Puglia, come tutto il territorio nazionale, è stata martoriata dai decessi e continua ad esserlo. Anche noi abbiamo voluto onorare le persone cadute in questa “battaglia”. Lo abbiamo fatto ascoltando alcuni dei loro famigliari. Fanno parte di un comitato che raccoglie 18 famiglie che hanno denunciato le morti dei loro congiunti, durante la permanenza nella tendopoli gestita dal 118 tra ottobre e novembre del 2020, in un’area dell’ospedale Moscati di Taranto. I parenti delle vittime ci hanno raccontato le loro sensazioni, il dolore, versando anche qualche lacrima durante i loro racconti, come accaduto ad Angela, figlia dell’ispettore Cortese, deceduto il 3 novembre dello scorso anno: “Il mio papà lo conoscevano tutti. Era una persona di una bontà d’animo incredibile, rispettosa verso gli altri e umile. So che la vita è così, ma andarsene in questo modo è davvero pesante. La cosa che mi spiace più di tutti è che molte persone sono morte in assoluta solitudine. Il mio papà non se lo meritava. Lui era amico di tutti, aveva sempre una buona parola per chiunque e la soluzione per qualsiasi problema. E’ deceduto il 3 Novembre, dopo 30 ore di ricovero. La domenica sera non riusciva a respirare, prima d’allora non stava male. Lui stesso ci chiese di andare in ospedale. Coloro che vengono colpiti dal Covid, sanno di poter perdere la vita. Si sentono come annegare, rimanendo però lucidi fino all’ultimo momento. Mio padre non ha potuto avere nemmeno un abbraccio o un saluto da nessuno della sua famiglia. E’ morto come un cane abbandonato. Avrei voluto sentire le sue ultime parole e stringergli la mano in quell’ultimo attimo di vita.  Non abbiamo potuto fare il funerale. Solo la messa per il trigesimo. Non possiamo che metabolizzare il dolore, cercando di andare avanti. Rimane la rabbia, ma spero si attutisca. In quei reparti (Moscati) possono entrare solo coloro che vengono autorizzati, perciò la verità è quella che è. Spero solo che, al posto mio, qualcuno gli abbia fatto una carezza. Il grido di dolore non tutti lo capiscono”. La stessa tragedia è capitata ad un’altra famiglia, quella dell’Ispettore Del Sole. A ricordarlo sono i suoi figli: “Era stato ricoverato nel reparto di ematologia per un problema al sangue. Successivamente risultato positivo molto probabilmente contagiato all’interno dello stesso ospedale. Stessa sorte è capitata ad un’altra persona proprio negli stessi giorni. Papà aveva 71 anni. Soffriva di una diversa patologia, ma era guarito. La situazione è peggiorata nell’arco di pochi giorni, durante i quali non hanno capito da dove potessero derivare questi problemi, come ad esempio la lingua gonfia, la debolezza e le difficoltà a deglutire. Aveva fatto il tampone, pochi giorni prima di entrare nell’ospedale. Sia lui che mamma erano risultati negativi. La sera prima del ricovero, si evidenziarono, dagli esami, dei valori sballati. Venne ricoverato d’urgenza per una trasfusione. E’ entrato nell’ospedale con le sue gambe, accompagnato da nostra mamma. E’ stata l’ultima volta che lo abbiamo visto”.  Sembra che la fatalità abbia colpito altri agenti delle Forze dell’Ordine, come l’ispettore Ricci. Sono i figli a raccontarci la sua storia: “Nei primi giorni abbiamo assistito nostro padre personalmente.  Aveva disagi di salute, come febbre e tosse. La settimana precedente anche lui aveva fatto il vaccino risultando negativo. Quello che ci aveva allarmato di più era stato la saturazione. Papà era cardiopatico e quando la saturazione era scesa a 76, abbiamo chiamato subito l’autoambulanza. Pensavamo di aver messo nostro padre nelle mani di persone che potevano aiutarlo. Il resto lo sapete. Dalla comparsa dei sintomi a quando è stato portato in ospedale, sono decorsi cinque giorni. Il nostro comitato è composto da 18 famiglie che piangono 18 vittime. Non vogliamo accusare nessuno, però vogliamo chiarezza, soprattutto su strutture che potrebbero essere non idonee ad ospitare i pazienti.” Anche Piera Giaquinto denuncia di voler andare fino in fondo, alla ricerca della verità – “Il 18 Marzo è stata una giornata particolare. Ci siamo svegliati con una legge stata approvata in parlamento che riconosce la giornata nazionale per le vittime Covid. L’impatto è stato molto forte. Mi sono immedesimata, mentre facevo il mio minuto di silenzio per mio padre, con tutte quelle famiglie che ricordano le vittime dell’olocausto. Sembra un po’ di rivivere in tempi moderni quanto accaduto in quegli anni. Le lacrime sono rivolte a mio padre, ma anche a chiunque abbia sofferto in questi mesi. Io le ho ribattezzate: vittime di un sistema che non ha funzionato. Poteva essere salvato. Molte vite potevano essere salvate, come è stato testimoniato da molti operatori del 118 alla Procura. La nostra lotta continua. Ci rivolgeremo alla Corte dei Diritti dell’uomo a Lussemburgo. Sbagliare è umano, ma deve venire fuori la verità e chi ha sbagliato deve assumersi le proprie responsabilità. Quest’anno dopo trent’anni abbiamo festeggiato la Festa del Papà da soli. Lo ricorderò con un sorriso, lui che amava questa ricorrenza”. Una storia simile quella di Roberta Gatto che insieme alla sorella vive a Modena. Le due ragazze non hanno potuto salutare il loro papà a Taranto che le ha lasciate a soli 56 anni: “Abito a Modena, i miei genitori sono di Taranto. Non abbiamo assistere nostro padre, se non tramite telefono e le informazioni che mamma ci dava. È stata una delle vittime più giovani. Aveva 56 anni senza patologie pregresse. È uscito da casa con le sue gambe, quasi ridendo. Aveva detto a mia madre che sarebbe tornato dopo due giorni, ma non è stato così. Non è facile parlarne. Ogni notte mettevamo la testa sul cuscino, senza metabolizzare quanto accaduto.  Oggi è arrivato il momento di parlare e vi ringraziamo perché ci ascoltate. Nella nostra storia ci sono dei buchi neri e parecchie cose non ci tornano. Vogliamo la verità. Non riusciamo ad accettare che nostro padre, all’improvviso, sia peggiorato. Dopo sette giorni passati nell’auditorium, papà è stato indotto in coma e dopo una ulteriore settimana è deceduto. L’ultima volta che l’ho visto è stato davanti ad una telecamera, mentre seguivo il prelievo del 118.  Odiava gli ospedali e si chiedeva se fosse giusto farsi ricoverare. Non ci sarà rassegnazione, fino a quando non scopriremo la verità. Non sappiamo cosa abbia passato. Lui diceva che lì non stava bene.  Non mangiava, non poteva andare in bagno ed è stato costretto a farsi addosso. Conosco un genitore che ha vissuto la stessa esperienza di mio padre, ma a Modena. Questo signore ha origini calabresi e si è domandato: ‘Sarei ancora vivo se fossi rimasto nella mia terra?”. Tanti racconti e diverse emozioni contrastanti che abbiamo condiviso. La rabbia è il denominatore comune. Queste famiglie che piangono i loro famigliari hanno bisogno della verità. Solo allora, forse, potranno iniziare ad alleviare il proprio dolore. Intanto, nella trasmissione Fuori dal Coro di Mario Giordano è approdata l’inchiesta fatta da PugliaPress.

Le denunce servono, ma purtroppo non bastano. Solo ieri il figlio della vittima ha denunciato il caso al TgNorba. Annamaria Rosato su Tgnorba il 27 gennaio 2021. Le denunce servono, ma purtroppo non bastano. È deceduto oggi pomeriggio al Moscati di Taranto il paziente, negativo al tampone, che il 5 gennaio scorso, fu ricoverato al ss. Annunziata per una polmonite. Il giorno delle sue dimissioni, l 11 gennaio, fu sottoposto nuovamente al tampone e risultò positivo. Venne trasferito al Moscati dove fu intubato. Le sue condizioni peggiorarono. Ieri il figlio ha denunciato al Tg norba la vicenda. Oggi la triste notizia. Intanto Vincenzo di Gregorio, vice presidente della commissione sanità alla regione Puglia, chiederà al direttore generale della Asl, Rossi, tutta la documentazione relativa al paziente per capire cosa non ha funzionato.

FRATELLI D’ITALIA CHIEDE UNA COMMISSIONE D’INCHIESTA SULLE MORTI COVID AL ” MOSCATI” DI TARANTO. Il Corriere del Giorno il 10 Febbraio 2021. Fratelli d’Italia ha denunciato da tempo e senza sosta quello che stava avvenendo all’ospedale Moscati, soprattutto i tantissimi morti nelle tende allestite fuori dall’ospedale, presenterà una proposta di legge, primo firmatario Renato Perrini, per l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta sulle morti per Covid a Taranto. Da ieri sera tutta Italia sa cosa è successo a Taranto durante la prima fase della seconda ondata Covid. Il servizio andato in onda in un programma di approfondimento giornalistico nel programma “Fuori dal Coro” su Rete 4 dal titolo inequivocabile "Virus, sotto accusa le morti sospette all’ospedale di Taranto", ma tutto ciò purtroppo non è una sorpresa per chi ha denunciato da tempo e senza sosta quello che stava avvenendo al Moscati, soprattutto i tantissimi morti nelle tende allestite fuori dall’ospedale. Nel servizio un operatore sanitario ha spiegato di aver riferito anche al magistrato inquirente che “quelle morti potevano essere evitate. Se è così, in attesa che le autorità preposte assumano le iniziative che riterranno opportuno e doveroso avviare per rendere giustizia alle famiglie, spesso inascoltate, a noi consiglieri regionali – dicono in una nota congiunta i consiglieri regionali di Fratelli d’ Italia Luigi Caroli, Giannicola De Leonardis, Antonio Gabellone, Renato Perrini, Francesco Ventola e il capogruppo Ignazio Zullo – spetta il compito  di fare chiarezza sulle responsabilità politiche, perché spesso si addebitano ai professionisti in prima linea responsabilità che invece sono collegate all’inadeguatezza dell’indirizzo politico-amministrativo e all’inefficacia delle misure gestionali e organizzative che vengono messe in campo“. Per questo Fratelli d’Italia presenterà una proposta di legge, primo firmatario Renato Perrini, per l’istituzione di una Commissione d’Inchiesta sulle morti per Covid al Moscati di Taranto. “Non siamo, non possiamo e non vogliamo trasformarci in un tribunale, non è il nostro ruolo e obiettivo, ma in quanto opposizione abbiamo il dovere di capire come viene tutelata la vita e la salute dei pugliesi. E i risultati del lavoro di una Commissione d’inchiesta potrebbero anche mettere in luce, salvaguardare e valorizzare il lavoro di tanti professionisti (medici e operatori sanitari) che lavorano al meglio della loro professionalità e umanità in quello che è nel frattempo diventato l’Oncologico di Taranto, una struttura ospedaliera dotata oggi di strumentazioni all’avanguardia nella cura del cancro“.

Il covid e la carica dei 500. Intentano causa contro le Istituzioni, fissata la data della prima udienza. Rec News il 19 Marzo 2021. Salvo cambiamenti, è prevista per il 14 aprile. Richiamati alle loro responsabilità Presidenza del Consiglio, ministero della Salute e Regione Lombardia prevista per il 14 aprile (salvo cambiamenti) la prima udienza della causa intentata contro la Regione Lombardia, il ministero della Salute e la Presidenza Consiglio dei Ministri. Il procedimento è partito grazie alla denuncia di circa 500 familiari delle vittime del covid di Brescia e Bergamo, che adesso chiedono giustizia per i decessi che non attribuiscono in via esclusiva al virus o al destino: “Non si è trattato di fatalità”, lamentano. Ieri, contestualmente alla visita di Draghi a Bergamo, familiari e legali si sono radunati nei pressi del cimitero nel tentativo di avvicinare il premier. Non ci sono riusciti a causa del grado di blindatezza, che ha fatto in modo che venisse impedito l’accesso perno ai giornalisti. Uno dei partecipanti del sit-in, Paolo Casiraghi, ha rilasciato una dichiarazione ripresa dal Fatto Quotidiano: “Siamo qui – ha detto – per dare testimonianza di quello che abbiamo vissuto: le chiamate alle ambulanze che non uscivano e i consigli di non portare i familiari in ospedale“. Non sarebbe stato, lamentano i denuncianti, solo il virus a determinare i decessi che hanno caratterizzato la prima fase, ma anche la mancanza di cure tempestive. Quelle che – per seguire il protocollo previsto dal ministero della Salute – non potevano essere effettuate a domicilio e neppure presso i nosocomi fino a quando non avevano luogo una serie di procedure farraginose. “Dopo le commemorazioni si torni a parlare delle responsabilità“, ha affermato Consuelo Locati, coordinatore del team dei legali composto dagli avvocati Piero Pasini, Luca Berni, Alessandro Pedone e Giovanni Benedetto. “Quanto successo in Italia e in modo particolare in Lombardia non è stata una fatalità. A nostro parere, contro gli attori citati in giudizio – dunque Presidenza del Consiglio, ministero della Salute e Regione Lombardia – esistono fondate prove documentali”.

Polemiche per i medici indagati. Scudo penale per i vaccinatori, i medici chiedono di fermare la magistratura: “Inaccettabile il rischio di indagini”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Marzo 2021. La parola chiave è una, anzi due: scudo penale. È quello che invocano i medici italiani attraverso le parole del presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, Filippo Anelli. Una richiesta fondamentale dopo le inchieste nate in Sicilia e in Campania a seguito del decesso di alcune persone sottoposte a vaccinazione anti-Covid, nonostante le precisazioni di Aifa e AstraZeneca sulla sicurezza del vaccino e della mancata correlazione tra inoculazione e decesso per trombosi. L’iscrizione nel registro degli indagati dei vaccinatori dopo gli “eventi avversi” avvenuti dopo la somministrazione del vaccino AstraZeneca poi sospeso dall’Aifa sta generando apprensione e ansia nel personale medico. “La magistratura fa il suo doveroso lavoro e sono ‘atti dovuti’ ma serve mettere in serenità gli operatori e pensare a “una sorta di ‘scudo penale’, un intervento legislativo idoneo, senza sconvolgere i nostri principi democratici, per dare in questa fase emergenziale la possibilità al medico di potersi esimere dai problemi di carattere colposo”, ha chiarito Anelli all’Ansa. L’obiettivo è quello di ottenere lo stesso trattamento di Ilva e bancari: i nuovi gestori dell’impianto siderurgico lo chiedevano per tutelarsi dalle inchieste sull’inquinamento degli anni precedenti, i bancari quando il governo quando l’esecutivo si impegnò a garantire finanziamenti senza imporre agli istituti di credito approfondite analisi per le richieste di prestito. Impossibile non comprendere i timori dei medici, che rischiano incredibilmente l’accusa da parte dei magistrati di omicidio colposo, un reato che prevede fino a sette anni di carcere. Anelli rilancia così gli appelli già lanciati in questi giorni dai sindacati Anaoo-Assomed e Fimmg: “I rischi di fronte a grandissimi numeri sono sempre possibili ma penso che il Parlamento a questo punto, e lo avevamo già chiesto nella prima fase, debba pensare, seriamente a un intervento legislativo che doni un po’ di tranquillità e serenità alla professione”. Una professione che ha già visto ‘cadere’ per il Covid oltre 330 professionisti non può infatti sostenere anche un rischio giudiziario di fronte ad una emergenza sanitaria mai vista prima. “Non è accettabile il fatto che ricadano sulle loro spalle quelli che, anche solo a livello di indagini per escludere una correlazione, sono gli inevitabili rischi di una campagna vaccinale di questa portata, che coinvolgerà tutti i cittadini che lo vorranno”, sottolinea infatti Anelli. Per il presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri dunque “alla straordinarietà del contesto bisogna rispondere con un provvedimento straordinario e urgente, che, in tempi rapidi, restituisca la necessaria serenità ai professionisti e garantisca la vaccinazione ai cittadini. Chiediamo al governo Draghi e a tutte le forze politiche di mettere in campo norme che, esimendo i medici dalla responsabilità penale di carattere colposo, tutelino sia i professionisti sia i pazienti”.

Scoppia anche il caos medici: vogliono lo scudo penale, temono conseguenze in caso di morti. Robert Perdicchi mercoledì 17 Marzo 2021 su Il Secolo D'Italia. Il tema del giorno non è solo la presunta pericolosità del vaccino AstraZeneca, ma anche lo scudo penale per tutelare i medici che i medici che effettuano i vaccini, in generale, dalla possibilità che siano esposti a conseguenze penali in caso di malesseri o morte dei pazienti. Un’ipotesi del resto confermata anche dalle indagini, aperte a carico dei sanitari, anche se solo come atto dovuto, a seguito della morte di pazienti in Sicilia dopo l’inoculazione del siero di AstraZeneca.

Lo scudo penale per i medici che fanno il vaccino AstraZeneca (e non solo). Sull’ipotesi di uno scudo penale, sancito per decreto legge, che tuteli il lavoro dei medici, anche quelli di base, chiamati a realizzare la campagna di vaccinazione, il viceministro alla Salute Sileri , anche gli addetti ai lavori si spaccano. “Un provvedimento necessario, da inserire in un più vasto contesto di tutela della professione sanitaria, da tempo aggredita da denunce e citazioni infondate, con l’unico risultato di determinare la cosiddetta ‘medicina difensiva’, che alla fine si rivela costosa per lo Stato e dannosa per gli stessi pazienti”, dice all’AdnKronos l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, commentando l’ipotesi di uno “scudo penale” per i medici che somministrano i vaccini. Una misura inutile, secondo l’ex pm Alfonso Sabella: “Penso che non sia assolutamente necessario uno scudo penale per i medici, perché già la legislazione attuale costituisce uno scudo assolutamente solido. Se il medico rispetta i protocolli quelli stabiliti dall’Aifa, dall’Ema e dall’ospedale, non ha nessun tipo di problema. Scudo penale o meno, la magistratura le indagini le deve fare in ogni caso. Lo scudo penale, a mio avviso, è inutile”, dice all’Adnkronos. “Nessuno scudo penale che possa riguardare i vaccini può impedire al pm di svolgere le indagini – aggiunge Sabella -, perché se una persona che si è fatta il vaccino muore, anche se c’è lo scudo penale il pm le indagini le deve comunque avviare, perché, ad esempio, bisogna verificare se in quel vaccino è stato messo del veleno, se il medico che l’ha inoculato ha violato i protocolli, se la siringa era infetta e nessuno l’ha sterilizzata. Ci possono essere duemila ragioni per avviare l’indagine, ecco perché penso che ci troviamo di fronte a una tempesta in un bicchier d’acqua, si ciurla nel manico, è una questione priva di qualsiasi fondamento”.

Anche gli avvocati ritengono inutile una legge ad hoc. “Lo scudo penale per i medici? Non serve. Non c’è bisogno quando non si fa altro che inoculare la dose: se si sbaglia non è giusto avere alcuno scudo penale, perché il proprio lavoro deve esser fatto bene; se è il farmaco che causa dei danni, cosa c’entra chi lo ha somministrato?”. L’avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali Italiane, commenta così all’Adnkronos la richiesta dello scudo penale per i vaccinatori. “Se AstraZeneca è veleno, chi lo ha inoculato non c’entra e lo scudo non serve. E’ una richiesta che purtroppo dà la dimensione della preoccupazione che abbiamo – spiega ancora Caiazza – è una richiesta che nasce dal fatto che per fare le indagini sul vaccino si iscrivono i medici nel registro degli indagati. Una pura formalità, come spiegano poi le stesse Procure, che tuttavia per i vaccinatori costituiscono sempre e comunque un timore, come può essere un’iscrizione nel registro degli indagati, per omicidio colposo. Queste forzature determinano reazioni o richieste protettive che non possono essere declinate nei termini in cui vengono fatte. I pm dovrebbero evitare di iscrivere per mera esigenza investigativa gente che dall’inizio è chiaro che non c’entra nulla”.

Estratto dell’articolo di Davide Falcioni su fanpage.it il 17 marzo 2021. […] Ed è sempre sul tema della fiducia che Crisanti si concentra parlando della richiesta dei medici di ottenere uno "scudo penale": "Rimango stupito che ci possa essere un livello di responsabilità dei medici perché la vaccinazione è una misura di sanità pubblica, quindi una decisione politica in capo al ministro. Di fatto i medici sono semplici esecutori – spiega – Non c’è proprio bisogno di questo scudo. Le persone sono consapevoli degli eventuali effetti collaterali, non c’è per il momento nessuna connessione fra i pochissimi decessi e la vaccinazione. Mi sembra come dover ammettere che il vaccino è pericoloso, cosa che non è. Sarebbe una cosa che non genera fiducia".

Scudo penale Covid, cosa è e perché serve bloccare la “pandemia giudiziaria”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Marzo 2021. Ci sarà un motivo se in Italia e solo in Italia i medici vaccinatori stiano chiedendo a gran voce uno “scudo” che li protegga dalle denunce penali e dalle iniziative dei pubblici ministeri. E ci sarà un motivo se il governo Draghi, a quanto pare, se ne sta occupando per preparare, come ha detto il ministro Speranza, un decreto ad hoc. Soprattutto dopo che, prima ancora che sia stato dimostrato un nesso di causalità tra l’inoculazione di un certo vaccino e un effetto secondario a volte tragico, alcuni sanitari abbiano appreso dai giornali di essere indagati per omicidio colposo. I motivi ci sono e sono almeno due. Il primo è che in Italia e solo in Italia esiste il principio imbroglione dell’obbligatorietà dell’azione penale, che corrisponde poi in concreto a quanto di più arbitrario possa esistere. Così succede che, anche di fronte a morti non violente, come quelle dovute a patologie che insorgono d’improvviso, immediatamente sorga il sospetto che ci si trovi di fronte a una notizia di reato. È capitato nei giorni scorsi, con alcune morti di persone che nei giorni precedenti erano “anche” state vaccinate con i prodotti AstraZeneca. E che cosa di più facile che investire di sospetti prima di tutto la persona, medico o infermiere, che aveva iniettato il vaccino nell’avambraccio sinistro della persona deceduta?

L’informazione di garanzia non è una sentenza e neanche un’imputazione. Sarebbe solo quel che prevede il codice, cioè una forma di tutela per la persona, e chi la riceve non dovrebbe aver nulla da temere, se non ci trovassimo di fronte alla seconda anomalia, tutta italiana. Il punto è che ogni provvedimento dell’autorità giudiziaria in Italia viene depositato in edicola, in televisione e sui social, prima ancora di raggiungere il destinatario. È così e non ci si può far niente. Oddio, si potrebbe, ma non si vuole, colà dove si puote. Consultare Palamara, per capire il perché. L’immediata gogna, il sospetto che coglie subito anche i parenti e i vicini di casa del medico finito sui giornali perché potrebbe esserci stata una sua incapacità o inefficienza a contribuire alla morte della persona vaccinata, diventato l’immediata pena accessoria, una sorta di zaino che quel medico si porterà sulle spalle per un bel po’. Con conseguente demotivazione, e magari ricorso alla “medicina difensiva”. E questo nonostante si sappia che in Italia, nonostante l’obbligatorietà dell’azione penale, in tutti i processi in cui, per situazioni più complesse che non una semplice vaccinazione, come ad esempio un’operazione chirurgica, si sia tentato di portare il medico alla sbarra, è stato sempre molto difficile dimostrare, di fronte a un evento avverso, il suo dolo o la colpa grave. Ma anche la colpa lieve, visto che le statistiche parlano di una percentuale del 90% di assoluzioni. Ma oggi c’è soprattutto un clima ammorbante, che ha le sue radici in quel che capitò un anno fa, con i ricordi tragici che il presidente Draghi ha commemorato due giorni fa a Bergamo. Fu allora che si cominciò a definire “vittime” i morti, come se qualcuno fosse responsabile, come se ci fosse stata una strage voluta. Qualcuno aveva parlato di “crimini contro l’umanità”. Centinaia erano stati gli esposti e le denunce anche contro i medici. Fu in quel periodo che ogni proposta di emendamenti al decreto “Cura Italia”, sia da parte del Pd che di Forza Italia, che proponevano appunto lo “scudo penale” per il personale sanitario, fu bocciato dalla furia del giustizialismo grillino. Oggi c’è un governo più equilibrato di quello giallorosso, ed è possibile che un decreto che metta al riparo dalle inchieste penali i “vaccinatori” ci sarà. Ma non è sufficiente, perché è sempre capitato, e a maggior ragione nella situazione tragica di oggi, che di fronte alla morte e al dolore che sempre porta con sé, non ci si voglia arrendere e si cerchino responsabilità di qualcuno. Per questo sarebbe importante che lo scudo penale non fosse solo una misura emergenziale legata al momento delle vaccinazioni. Bisognerebbe quanto meno estendere questa sorta di “emergenza garantistica” a tutto il periodo della criticità del contagio da Covid. Anche per evitare che la pandemia sanitaria diventi anche pandemia giudiziaria.

Vaccini, scudo penale per i medici? No, basta non indagarli…Quasi tutti i partiti di maggioranza favorevoli a una tutela penale per i vaccinatori. Frenano pm e penalisti: «Basterebbe non iscriverli». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 18 marzo 2021. Da una parte c’è la politica, che marcia compatta verso l’introduzione che tuteli i medici nella somministrazione delle dosi; dall’altra, la magistratura, che invece si dimostra più diversificata nell’accogliere in maniera favorevole o meno l’ipotesi di uno scudo penale. Il tema è tornato d’attualità dopo le indagini di alcune Procure che hanno iscritto nel registro degli indagati per omicidio colposo i medici che avevano vaccinato alcune persone decedute dopo aver fatto il vaccino AstraZeneca. Al momento, tutte le autopsie hanno escluso una correlazione tra il vaccino e le morti, ma le associazioni dei medici sono tornate a reclamare una qualche forma di tutela nei confronti del loro operato. E così si è mosso il ministro della Salute, Roberto Speranza. «C’è la massima attenzione del governo e la mia opinione è che dobbiamo assumere questo tema e costruire una risposta anche di natura normativa», ha detto Speranza durante l’audizione davanti alla commissione riunite Affari sociali di Camera e Senato, aggiungendo che «il Parlamento ha lungamente lavorato nel mese di aprile e la mia opinione è che si possa riprendere quel lavoro». Sulla stessa lunghezza d’onda altri esponenti della maggioranza ma di diverse estrazioni politiche, dal capogruppo del Pd alla Camera, Michele Bordo, al sottosegretario alla Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto.«Penso che il riconoscimento di uno scudo per gli operatori sanitari sarebbe utile, importante e un segnale forte a sostegno di una categoria che obiettivamente in questi mesi si è spesa molto per combattere la pandemia e per curare gli ammalati», ha spiegato Bordo. Opinione ripresa da Sisto, che puntualizza di lavorare all’idea di una tutela per gli operatori sanitari già da tempo. «È dall’inizio dell’epidemia che, in qualità di responsabile Giustizia e Affari costituzionali di Forza Italia, mi batto per uno scudo che tuteli i medici, nella convinzione che si debba consentire a coloro che sono stati unanimemente riconosciuti come degli eroi di lavorare nelle migliori condizioni possibili», ha detto l’esponente azzurro. E dal governo si alza un’altra voce, quella del sottosegretario alla Salute, Andrea Costa, di Noi con l’Italia. «Il solo pensiero di un possibile giudizio per responsabilità penale di carattere colposo priva l’operatore sanitario della serenità necessaria a svolgere il proprio ruolo – sottolinea Costa – Il pericolo di perdere la disponibilità di numerosi professionisti è alto e non è questo il momento di rallentare la campagna vaccinale, che nelle ultime settimane ha raggiunto un punto di svolta». Di diverso tenore sono tuttavia gli interventi di alcuni giuristi, che arrivano fino al paradosso espresso dal presidente dell’Unione camere penali italiane, Giandomenico Caiazza. «Quella dello scudo è una richiesta che nasce dal fatto che per fare le indagini sul vaccino si iscrivono i medici nel registro degli indagati – spiega Caiazza – Una pura formalità, come dicono poi le stesse Procure, che tuttavia per i vaccinatori costituiscono sempre e comunque un timore, come può essere un’iscrizione nel registro degli indagati, per omicidio colposo. Queste forzature determinano reazioni o richieste protettive che non possono essere declinate nei termini in cui vengono fatte. I pm dovrebbero evitare di iscrivere per mera esigenza investigativa gente che dall’inizio è chiaro che non c’entra nulla». Sposta l’asse della discussione invece l’ex pm Antonio Di Pietro, secondo cui i procuratori dovevo aprire l’indagine «senza iscrizione nei confronti dei medici, perché è vero che lo si fa a garanzia del medico, ma intanto scatta la gogna». Ragionamento più ampio quello dell’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio, che definisce infine lo scudo penale «un provvedimento necessario, da inserire in un più vasto contesto di tutela della professione sanitaria da tempo aggredita da denunce e citazioni infondate, con l’unico risultato di determinare la cosiddetta medicina difensiva, che alla fine si rivela costosa per lo Stato e dannosa per gli stessi pazienti».

Covid-19, i medici sono eroi! Anzi no: centinaia di esposti contro i camici bianchi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Luglio 2020. Ancora a manifestare davanti alla procura lunedì prossimo a Bergamo. Contro i medici e tutti gli altri. Ieri eroi, domani imputati. Non è eccessivo prevedere il prossimo futuro mediatico-giudiziario che sta per travolgere l’intero sistema sanitario italiano. Sono ormai centinaia in tutta Italia le denunce e gli esposti nei confronti di medici, infermieri, operatori delle Asl e di tutte le strutture governative e amministrative che hanno gestito l’emergenza Covid-19. Lunedì prossimo a Bergamo manifesteranno di nuovo quei parenti di malati che sono deceduti e che vengono considerati “vittime”, come se qualcuno avesse, in modo diretto o indiretto, contribuito alla loro morte. Sono ormai decine gli avvocati che insieme a qualcuno di questi parenti costituiscono Comitati che chiedono “verità e giustizia”. E le chiedono ai procuratori. Quelli del Comitato “Noi denunceremo” dicono che porteranno lunedi 100 nuovi esposti e che ne stanno raccogliendo altrettanti in molte Regioni italiane: Emilia Romagna, Campania, Lazio, Puglia, per cominciare. Forse non si rendono conto del fatto che trasformare il dolore in vendetta proprio nei confronti di chi, come i medici e gli infermieri ma anche tutta quanta la struttura sanitaria, si è spezzata la schiena nei mesi scorsi per aiutare e curare, non porterà a niente di buono. E che non ci saranno né “verità” né “giustizia”. Perché non c’è nulla di oscuro da chiarire nella tragedia che ha colpito il mondo intero e non è giustizia ma giustizialismo accanirsi contro chi ha sacrificato se stesso per gli altri, anche se non sempre è riuscito a salvare tutti. Ma se gli unici a muoversi per allestire il prossimo grande circo mediatico-giudiziario sono questi avvocati (non tutti in buona fede, visto che alcuni hanno sollecitato i parenti dei malati a darsi da fare) e qualche procuratore che si è mosso anche di propria iniziativa, quello che è totalmente assente è il Parlamento. Non perché non ci abbiano provato in molti, a tentare di correre ai ripari prima che il bubbone scoppi, ma perché le smanie punitive (ma che cosa gli hanno fatto da piccoli, a questi qui?) del Movimento cinque stelle hanno ucciso in culla qualunque progetto di cordone protettivo. Così, al posto di uno “scudo giuridico” che impedisca di mandare alla sbarra l’intero sistema sanitario, pubblico e privato, italiano, si è preferito delegare il compito di risolvere il problema a un bel “tavolo tecnico”. Un po’ come si faceva una volta, quando non si voleva affrontare un problema politico e si organizzava un bel gruppo di studio. Possiamo dire che ci troviamo davanti a un governo di irresponsabili e a un Parlamento imbelle? Dobbiamo dirlo. E spiace, perché proprio il senatore Andrea Marcucci, capogruppo del Pd al Senato, era il primo firmatario di un emendamento al decreto Cura Italia che era una sorta di provvedimento emergenziale al contrario, cioè in chiave garantistica invece che di inasprimento delle pene come sono sempre state le leggi emergenziali. Proteggere dal dolore trasformato in rabbia tutti quelli che, davanti a qualcosa di terribile ed enorme che ci ha colpiti, si sono rimboccati le maniche e con grande abnegazione hanno curato e salvato le vite, è un dovere del Parlamento. Di tavoli tecnici e commissioni di studio affogate nel nulla è piena la storia. Nel frattempo chi aiuterà i sanitari a vincere la tentazione di rintanarsi nella “medicina difensiva” e a coprirsi le spalle con un eccesso di esami e controlli (e spesa pubblica) prima di osare anche solo una diagnosi? La storia giudiziaria della nostra sanità ci dice che, nonostante il codice penale preveda anche la responsabilità della colpa lieve, il 90% degli operatori sanitari viene prosciolto o assolto nel processo. Ma non va dimenticato che ormai da trent’anni prima di arrivare in un’aula giudiziaria le cause si svolgono sui giornali, nelle televisioni e con particolare ferocia ultimamente sui social. È questo il rischio che un Governo responsabile e un Parlamento cui andrebbero restituiti i poteri da tempo scippati dall’esecutivo dovrebbero evitare nell’immediato. E non con i tempi assurdi dei tavoli tecnici. Lo hanno capito, prima e meglio, alcuni prestigiosi giuristi. Il Procuratore generale di Bologna Walter Giovannini che già tre mesi fa, intervistato da La Verità, aveva proposto la depenalizzazione dell’ipotesi colposa nella responsabilità del personale sanitario come norma generale e non relativa solo all’eccezionalità di questo periodo. Sempre negli stessi giorni, dalle colonne della Stampa, il professor Vladimiro Zagreblesky proponeva addirittura una sorta di amnistia, che al termine dell’emergenza-virus funga da sanatoria, come fu quella del ministro Togliatti dopo il secondo conflitto mondiale. Ipotesi che non convince il procuratore Giuseppe Pignatone, se non è un suo omonimo colui che ha vergato un lungo ragionamento, sullo stesso quotidiano torinese, due giorni fa. Il magistrato propone al Parlamento di legiferare in via d’urgenza sul terreno penale per “limitare la responsabilità degli operatori sanitari alla sola ipotesi di colpa grave per i reati di omicidio e lesioni colpose”, con un limite temporale legato al periodo dell’emergenza Covid-19. Questo per quel che riguarda i singoli. E per quel che attiene anche ai responsabili delle strutture sanitarie e amministrative, nei cui confronti si potrebbero ipotizzare carenze organizzative o gestionali? Scelte del legislatore, conclude Pignatone. Ma rivela il suo pensiero quando, pur citando il Presidente Mattarella, che a Bergamo ha invitato a riflettere anche sulle nostre carenze, mette in guardia dal populismo penale come definito dalle parole di Papa Francesco: «La convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali». Possiamo fare a tutti noi i migliori auguri per l’autunno? Se si prepara il circo mediatico-giudiziario ne vedremo delle belle. Anzi, di molto brutte.

Vaccini, Italia in drammatico ritardo: tra gli over 80 solo il 14% ha ricevuto due dosi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Marzo 2021. Più di editoriali e polemiche politiche parlano i numeri: l’Italia è drammaticamente in ritardo nella vaccinazione degli over 80, la categoria più a rischio col Coronavirus per l’elevata possibilità di ospedalizzazione. Una situazione a macchia di leopardo tra le varie regioni, ma è il dato nazionale ad evidenziare comunque le difficoltà del sistema paese a fare fronte all’emergenza: solo il 14,7% degli ultra 80enni ha ricevuto la doppia dose di vaccino Pfizer-BioNTech o Moderna, completando così il ciclo di immunizzazione, mentre il 28,2% è a metà del percorso. Dati che, come detto, variano da regione a regione: se le province autonome di Bolzano e Trento svettano col 38 e 33 per cento di immunizzati over 80, dall’altro lato della classifica Toscana e Sardegna restano ancorate al 5,3 e al 2,8 per cento. A contribuire nel deficit nazionale anche i ritardi e le mancate consegne dei vaccini destinati alle categorie fragili: come ricorda il Corriere della Sera il piano di vaccinazione originale, presentato dal ministro Roberto Speranza il 2 dicembre scorso, prevedeva entro febbraio la vaccinazione completa della popolazione anziana, poco meno di 4 milioni e mezzo di persone. Secondo Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, non c’è solo il ritardo dei vaccini nella lentezza italiana della copertura delle fasce fragili. “Purtroppo all’inizio della campagna vaccinale, che indicava come priorità 1.404.000 operatori sanitari e sociosanitari, parte delle dosi allora disponibili sono finite a persone che non ne avevano diritto. Mi riferisco a dipendenti amministrativi che non avevano contatto né con malati né col pubblico e che quindi anche per l’età non avrebbero dovuto avere la precedenza. Possiamo calcolare che gli imbucati siano stati il 16%”, spiega Cartabellotta. Somministrazioni dosi #vaccino per categoria. Stiamo “recuperando” con gli over80, ma solo il 13,9% di loro ha fatto ciclo completo e il 28,2% la prima dose#vaccini — Nino Cartabellotta (@Cartabellotta) March 19, 2021

Guardando ancora al dato degli over 80enni immunizzati, tra le grande regioni ci sono importanti differenze nella quota di anziani che hanno completato il ciclo di vaccinazione. Campania e Lazio, ad esempio, alla giornata di sabato 20 marzo era riuscite a vaccinare rispettivamente il 23,2 e il 22,8 per cento degli aventi diritto, mentre la Lombardia non va oltre l’11%. 

Fausto Carioti per “Libero Quotidiano” il 20 marzo 2021. Sappiamo che i vaccini arrivati in Italia sono assai meno di quelli previsti. Sappiamo anche che l’organizzazione di Giuseppe Conte e Domenico Arcuri, progettata attorno alle "primule" da 400mila euro l'una, era lenta e inefficiente, tant' è che Mario Draghi l'ha rottamata assieme a colui che l'aveva ideata. Resta da capire una cosa, importante: era possibile, con lo stesso esiguo numero di vaccinazioni fatte sinora, avere meno morti? La risposta è stata data nei giorni scorsi dall'Ispi, l'Istituto per gli studi di politica internazionale: sì, era possibile. Se Roberto Speranza e i suoi collaboratori avessero disegnato il programma di vaccinazione in modo diverso, privilegiando gli italiani in età avanzata anziché la categoria professionale di appartenenza, l'abbattimento della letalità del Covid, ossia del rapporto tra i deceduti e il numero totale dei contagiati dal virus, sarebbe stato molto più rapido. «Due mesi persi dall'Italia» è infatti il risultato cui giunge l'Ispi, in un'analisi firmata dal ricercatore Matteo Villa. «La riduzione di letalità che raggiungeremo a fine marzo (-21%) la avremmo potuta raggiungere a inizio febbraio». Due mesi persi, ovvero qualche migliaio di morti in più. Proprio perché la probabilità di morire a causa del Covid cresce di pari passo con l'anzianità. Per capirsi: secondo uno studio apparso sullo European Journal of Epidemiology, il tasso di letalità della malattia, ossia il rapporto tra il numero dei decessi e il totale delle persone infettate, è pari allo 0,01% tra coloro che hanno 25 anni e sale con l'invecchiare del paziente, raggiungendo lo 0,4% all'età di 55 anni e un molto preoccupante 15% per coloro che ne hanno 85. Altre ricerche danno risultati simili. Proprio perché è noto che gli ultraottantenni rischiano di più, a gennaio il governo aveva deciso di vaccinare l'80% di loro entro la fine di marzo: 3,6 milioni di persone. Un obiettivo che può dichiararsi fallito. Ieri risultavano vaccinati 2.479.763 "over 80" italiani, e le possibilità che in undici giorni si arrivi al traguardo sono nulle.

NUMERI IN CALO. Anche perché, nota Villa su Twitter, «nell'ultima settimana abbiamo registrato una costante diminuzione nella somministrazione di prime dosi agli ultraottantenni», scese in media sotto le 50mila al giorno. Il motivo non è la cosiddetta «esitazione vaccinale», ossia la tendenza degli interessati a ritardare l'iniezione o a non farla. «È che ora si tratta di somministrare anche i richiami, e le dosi sono quelle che sono». Resta il fatto che, di questo passo, l'obiettivo di immunizzare l'80% degli ultraottantenni sarà raggiunto solo il 22 aprile, e bisognerà attendere l'11 maggio perché tutti loro siano protetti dal virus. Ma l'errore è proprio nella strategia iniziale: sempre ammesso, s' intende, che lo scopo fosse ridurre al massimo le morti da Covid, e non trovare un compromesso tra questo obiettivo e quello di difendere alcune categorie la cui età media, però, è associata a un rischio molto basso.

UNA DOSE SU TRE. Le tabelle del governo dicono che, su un totale di 7,4 milioni di dosi somministrate sinora, appena una su tre è stata iniettata nel braccio di un ultraottantenne. In compenso 1 milione di vaccini sono stati inoculati a italiani con meno di 70 anni che non appartengono alla categoria degli operatori sanitari, né al personale della scuola o alle forze armate. Altre 660mila dosi sono state usate per docenti e bidelli con meno di 70 anni, 107mila sono andate a militari con meno di 50 anni. Fa impressione vedere che la fascia di età tra i 70 ed i 79 anni ha ricevuto in tutto 260mila vaccini, meno della metà dei 557mila destinati a coloro che hanno tra i 20 e i 29 anni. È a causa di questi numeri che, come nota l'Ispi, «la riduzione di letalità effettiva raggiunta nei primi due mesi dall'inizio della campagna vaccinale è stata molto poco significativa». Le immunizzazioni si sono concentrate dapprima sul personale sanitario, la cui età mediana è di poco superiore ai 46 anni. Ma si tratta di persone che «avrebbero comunque avuto una probabilità molto bassa di presentare forme gravi o di morire a causa dell'infezione da Sars-CoV-2, e dunque la riduzione di letalità ottenuta era molto bassa». Poi sono state privilegiate altre categorie, con gli scandali e le "vaccinazioni per caste" denunciati in molte parti d'Italia. È solo quando si è iniziato a fare sul serio con gli ultraottantenni che si sono visti i primi effetti.

CURVA LETALE. Tirando le somme, se la campagna vaccinale «si fosse concentrata sin da subito sulle fasce d'età più anziane (ultra-novantenni, persone nella fascia d'età 80-89 anni, e poi via via a scendere)», oggi «staremmo rapidamente veleggiando verso una riduzione del 54%» della letalità, anziché del 21%. «Praticamente, decessi dimezzati rispetto a uno scenario senza vaccini». Così non è stato. Il ministero della Sanità ha ritardato l'immunizzazione di milioni di italiani che hanno una probabilità più alta di morire se contagiati, e questa scelta ha comportato un inevitabile tributo di vite.

La famiglia denuncia l'ospedale Cardarelli. Il dramma di Ciro, in ospedale per curarsi viene contagiato e muore: “Indagine interna”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 29 Marzo 2021. Sono convinti che abbia contratto il Covid in ospedale, i familiari di Ciro D’Ambrosio, il 31enne disabile affetto da problemi renali che è morto per le complicazioni dovute al virus lo scorso 17 marzo al Cardarelli di Napoli. Al punto da aver presentato una querela presso il comando dei carabinieri di Napoli Ponticelli. Lo rende noto l’ufficio legale al quale si sono affidati la sorella e il padre del giovane, dopo il calvario che Ciro ha passato in seguito alla prima corsa in ospedale del 31 gennaio scorso. Il ragazzo lamentava forti dolori al fianco destro, e i familiari lo avevano condotto all’istituto evangelico Villa Betania, dove gli era stata riscontrata una preoccupante insufficienza renale ed era stato sottoposto a una trasfusione. Accompagnato il giorno dopo al Cardarelli, che dispone di un reparto di urologia, come prima cosa viene sottoposto a un test rapido, dall’esito negativo. Poi il passaggio in Osservazione Breve Intensiva, il ricovero in reparto e una nefrostomia, la dialisi, e anche un passaggio in Medicina d’urgenza per una crisi respiratoria: tutti movimenti accompagnati da tamponi molecolari, tutti dall’esito negativo. La terapia inizia a funzionare e il rene di Ciro riprende a drenare, ma quando viene trasportato nel reparto di Nefrologia il 25 febbraio l’esito del tampone cambia: positivo. Per un paziente nelle condizioni di Ciro la situazione è preoccupante: ai familiari viene impedito di fargli visita, in breve gli viene diagnosticata una polmonite bilaterale, i medici gli mettono il casco per aiutarlo a respirare, mentre continuano con la dialisi. Ciro si arrende il 17 marzo, e la famiglia è ora in cerca di risposte. “L’Ospedale ha avviato un’inchiesta interna su indicazione della direzione sanitaria”, fanno sapere dal Cardarelli. “Su questi fatti drammatici – proseguono dall’ospedale – non possiamo intervenire direttamente, ma aspettiamo l’esito delle indagini per constatare, o escludere, quanto accaduto”.

Bari, 83enne in ospedale per tumore viene contagiato e muore. La denuncia: «Non è stato vaccinato in tempo». La rabbia della famiglia: «Abbiamo scoperto che era morto perché qualcuno ci ha detto di andare a prendere i suoi effetti personali dall'obitorio». Graziana Capurso su La Gazzetta del Mezzogiorno  il 21 Marzo 2021. Squilla il telefono. Numero sconosciuto: «Pronto lei è parente del signor Giuseppe?». «Sì, sono il figlio». «E non sa che suo padre sta qui morto all'obitorio e dovete prendere i suoi effetti personali?». Non ci può essere modo peggiore di scoprire della scomparsa di un proprio caro, ancora di più se la persona in questione è entrata in ospedale per un'emergenza e a portarselo via alla fine è il maledetto Covid 19. Nella zona rossa del Policlinico di Bari succede anche questo. A denunciarlo alla Gazzetta sono i familiari della vittima, un barese di 83 anni «malato fragile», con gravi patologie pregresse, che non ha fatto in tempo a sottoporsi al vaccino per proteggersi dal virus. L'anziano è stato ricoverato, con tanto di tampone negativo, il 24 febbraio scorso per un versamento pleurico legato a un tumore. In un anno di pandemia non ha mai messo il naso fuori casa, ma dopo il ricovero d'urgenza e una decina di giorni di degenza viene dimesso. Peccato che in questo periodo all'interno della struttura sanitaria pare abbia contratto il Coronavirus. Tornando a casa, non solo ha infettato moglie e figli, ma le sue già precarie condizioni si sono aggravate, tanto da necessitare un nuovo ricovero nell'area Covid del nosocomio barese, che nonostante l'attenzione e le cure riservate in reparto, si è rivelato un vero e proprio «miglio verde» che l'ha condannato, lentamente, alla morte. L'uomo, infatti, è deceduto ieri per un'insufficienza renale. «20 marzo 2021. Ricordate questa data, perché oggi mio suocero è morto dopo aver contratto il virus venti giorni fa, durante un altro ricovero - scrive sui social la nuora denunciando la vicenda - un anziano paziente fragilissimo, con tumori, che ai primi di marzo non era stato ancora vaccinato. Che è entrato in ospedale per curarsi e invece è morto, dopo essere stato per un anno intero recluso in casa, da cittadino ligio alle regole. È morto di Covid perché non è stato vaccinato in tempo, perché ancora oggi non avete deciso dove, come e quando saranno vaccinate queste persone», tuona la donna come un fiume in piena di rabbia e dolore. «Ricordate questa data perché è la data in cui muore un uomo che ha lavorato da quando aveva 10 anni, che ha sempre pagato le tasse, che ha compiuto sino all’ultimo i suoi doveri di cittadino e non ha mai fatto mancare nulla alla sua famiglia. Che ora è morto, solo come un cane, senza che il figlio abbia potuto fargli una carezza. E pregate che non succeda niente a lui, non ancora vaccinato, mentre continuiamo a vedere pubblicate foto trionfanti di persone sorridenti e in piena salute. Loro il vaccino l’hanno fatto. Ricordate questa data, come la ricorderemo noi, per sempre», si legge nel post pubblicato su Facebook. «Se mio suocero fosse vissuto nel Lazio - ci racconta al telefono la nuora - a quest'ora sarebbe vivo perché in quella regione hanno deciso di vaccinare i fragili sin da subito, come stanno facendo in tante altre regioni e come il governo ora ha imposto, ma in Puglia non ne vogliono sapere». Una morte e un dolore enorme, che, forse, si potevano evitare con una campagna vaccinale ancora più capillare e mirata nei confronti di chi è infermo cronico e che combatte da anni contro mali che divorano dall'interno. «Vaccinate subito i pazienti oncologici, vaccinate ora le persone più fragili, troppo vulnerabili all'attacco del Covid»: è questo l'urlo inascoltato di una famiglia disarmata dalla tragicità degli eventi. Come ciliegina sulla torta, poi, arriva la comunicazione priva di tatto ricevuta al telefono dopo la dipartita dell'83enne: «Nessuno dovrebbe sentirsi dire così che è morto suo padre, poche ore dopo la festa che non ha potuto celebrare. Nessuno, neanche voi».

Giorgio Airaudo, 60 anni, politico e sindacalista, per “la Stampa” il 2 aprile 2021. Nel 2013 è stato eletto deputato nella fila di Sinistra Ecologia e Libertà. Attualmente è il segretario generale della Fiom in Piemonte. Mia madre è morta ieri, all'ospedale di Rivoli, vicino a Torino. Dieci giorni dopo mio padre, che è mancato a Tortona perché non c'erano più letti per ospitarlo vicino a casa. Travolti dal Covid e dal silenzio. Se ne sono andati come migliaia e migliaia della loro generazione. Dopo averci insegnato il rispetto per le istituzioni, il dovere di combattere per migliorarle, la forza per non accontentarsi. Sono morti divisi dall'impazzimento e dalla disorganizzazione di quel sistema che invece avrebbe dovuto salvarli. La clessidra, per mia madre, ha cessato di scorrere ieri. Evidentemente non era stata giudicata abbastanza fragile per essere vaccinata in tempo. Non aveva un ordine professionale che la tutelasse e le creasse una corsia privilegiata. Come mio padre, quelle corsie non le aveva mai cercate. Una tentazione per molti forte, un modo per arrivare prima alla vaccinazione. Quello che alla loro condizione di ottantenni può spesso fare la differenza tra la vita e la morte. Ma avevano fiducia nelle istituzioni, nel fatto che tutto, alla fine, sarebbe stato organizzato per il meglio. Perché nell'Italia che ci avevano insegnato a sognare non c'erano corsie preferenziali, amici degli amici, scorciatoie. Erano arrivati a Torino a fare gli operai, venuti da lontano, da famiglie contadine. Mia madre addirittura dall'immigrazione istriana e dai campi profughi. Nella città che il boom economico stava radicalmente trasformando, avevano imparato una nuova educazione civica. Quella che si insegnava nelle fabbriche, nelle lotte collettive per migliorare le condizioni di vita di tutti. Perché, ci dicevano, quello era l'unico modo per cambiare lo stato delle cose esistenti. Mamma, papà, diciamolo: non è andata così. Avreste potuto essere più fortunati. In questa Italia delle assurdità, dove ogni Regione ha le sue regole, poteva andarvi meglio. Potevate avere l'occasione di vivere nel Lazio, dove in questi giorni si cominciano a vaccinare i settantenni. Non ci siete riusciti. Non è certo colpa dei medici e degli infermieri che anzi in queste settimane hanno fatto ogni sforzo per impedire che la sabbia nella clessidra si fermasse. Tu, papà, sei arrivato in ritardo di poche ore. Alle quattro del pomeriggio hai ricevuto il messaggio che fissava l'appuntamento per il vaccino. Sei morto quella sera. Oggi che mi avete lasciato non posso più tacere, devo gridare il dolore delle centinaia di migliaia di fragili che restano ancora in fondo alle file delle priorità nei centri vaccinali italiani. Superati da categorie potenti quando mai come oggi i criteri validi, gli unici validi, dovrebbero essere quello dell'anzianità e quello della fragilità. Che poi, a ben pensarci, è un unico grande criterio, quello utilizzato da tutti i popoli nei momenti di difficoltà: proteggere gli anziani e i più deboli per salvare la memoria di tutti. Se non torneremo presto a questo unico criterio, diventeremo tutti un po' più disumani.

Marco Esposito per leggo.it il 5 aprile 2021. Ieri al Policlinico Tor Vergata non aveva trovato nessuno ad accoglierla per farle quel vaccino anti-covid tanto desiderato. Oggi ben 5 operatori del centro vaccinale dell'Ospedale sono andati nella sua abitazione per somministrarle la prima dose. Dalla delusione alla gioia. È a lieto fine la storia della signora Trieste, la nonna centenaria di cui Leggo aveva raccontato la disavventura vissuta al Policlinico universitario proprio nella giornata di Pasqua insieme ad altri 40 pazienti. La signora Trieste di pandemie se ne intende, quando è nata - nel 1920 - la "spagnola", che fece milioni di vittime, era ancora in circolazione. Fu questo il suo impatto con il mondo: ad accoglierla c'erano una pandemia e un nome piuttosto insolito, frutto della giuramento che il padre, che aveva combattutto la prima guerra mondiale sulle Alpi, aveva fatto a se stesso. Se l'Italia avesse riconquistato Trieste (cosa che avvenne, non definitivamente, nel 1918) avrebbe battezzato così il figlio o la figlia. Ieri, come avevamo raccontato, era il giorno di Pasqua, e Trieste, felicissima, era andata a Tor Vergata accompagnata dalla figlia e dal nipote Andrea, con il suo sms di conferma dell'appuntamento, per ricevere la prima dose di vaccino. Poi la brutta sorpresa: centro vaccinale chiuso, nessun responsabile ad attenderli per dare qualche spiegazione a lei e agli altri 40 pazienti giunti fino a lì a vuoto. Poi la denuncia del nipote Andrea a Leggo. Oggi, la buona notizia: la figlia della signora Trieste questa mattina ha ricevuto una telefonata di scuse della direzione dell'Ospedale. I dirigenti al telefono le hanno spiegato cosa sia esattametne successo ieri, fornendole spiegazioni dettagliate. Infine il direttore generale del Policlinico Universitario di Tor Vergata ha inviato 5 operatori a casa di Trieste per vaccinarla immediatamente. E hanno promesso di tornare tra una ventina di giorni per il richiamo, già prenotato. Felicissimo Andrea, il nipote di nonna Trieste: «Probabilmente - dice oggi - si è trattato di un piccolo errore in una macchina, quella della vaccinazione nella regione Lazio, che funziona molto bene. Siamo molto grati ai vertici regionali e all'ospedale per la velocità e la premura con cui hanno risolto la situazione di nonna». Nella mattinata, però, quasi a smentire quanto di buono fatto è stato diramato dalla "Direzione del Policlinico di Tor Vergata" nel quale si afferma che il  «Centro Vaccinazioni ha svolto la sua attività normalmente», anche se - come documentato da Leggo - ha chiuso alle ore 13. Inoltre, si legge che sarebbero stati i pazienti ad essere "giunti in orario di chiusura del centro", senza specificare che avevano ricevuto addirittura un sms di conferma del loro appuntamento pomeridiano. Ecco il testo integrale del comunicato del Policlinico: «Il giorno di Pasqua il nostro Centro Vaccinazioni ha svolto la sua attività normalmente, sono stati vaccinati 180 cittadini, dei quali 112 con 1° dose e 68 con 2° dose, come da programmazione. I 20 cittadini che non risultavano prenotati e (giunti in orario di chiusura del centro) sono stati prontamente riprogrammati e vaccinati tra oggi e domani, trattandosi di un evidente errore tecnico. L’attività vaccinale non si è mai fermata né a Pasqua e nemmeno oggi giorno di Pasquetta. Tra queste persone anche una signora di 100 anni che è stata prontamente vaccinata a domicilio questa mattina dai nostri operatori. Ci scusiamo per questo problema tecnico che ha causato un disservizio ai cittadini».

Da leggo.it il 5 aprile 2021. Molti non avrebbero difficoltà a definirla una "supercazzola". Il riferimento è al comunicato con il quale il Policlinico Universitario di Tor Vergata cerca di mascherare, goffamente, i propri errori in merito alla vicenda del centro vaccinazioni chiuso nella pomeriggio di domenica di Pasqua. Come documentato da Leggo, circa 40 pazienti, tra cui una ultracentenaria, erano prenotati nel pomeriggio della domenica di Pasqua per ricevere la loro dose di vaccino. Una prenotazione certificata dal sms di conferma, ricevuto circa 48 ore prima. Con loro grande sorpresa, invece, i pazienti giunti a Tor Vergata hanno trovato il centro vaccinazioni chiuso e solo una guardia giurata ad attenderli. Lunedì mattina, dopo aver vaccinato a casa la signora ultracentenaria, il policlinico universitario ha rilasciato una nota - furba - nella quale non sono chiari alcuni aspetti. Nel comunicato la direzione del Policlinico afferma che  il "Centro Vaccinazioni ha svolto la sua attività normalmente", anche se - come documentato dal video di Leggo - il centro ha chiuso alle ore 13. Normalmente, chiediamo, si perdono 20-30 pazienti? Poi, sempre nella nota, si afferma che i pazienti sono "giunti in orario di chiusura del centro", come se fossero loro ad essere arrivati in ritardo, mentre tutti hanno ricevuto un sms che confermava la loro prenotazione per la domenica pomeriggio. Infine, si parla di un "disservizio tecnico occorso" ai cittadini senza spiegarne le responsabilità e i motivi. Ma era così difficile chiedere semplicemente scusa?

Marco Esposito per leggo.it il 5 aprile 2021. È Pasqua e, nonostante le buone intenzioni, le vaccinazioni nel Lazio vanno a velocità ridotta. Infatti, nel primo pomeriggio di oggi, al Policlinico universitario di Tor Vergata è avvenuto qualcosa di clamoroso e che, in questo periodo, fa anche rabbia. Circa una quarantina di cittadini infatti, si sono presentati - come da prenotazione ricevuta dal sistema regionale, al centro vaccinale dell'ospedale intorno alle 15 ma...lo hanno trovato chiusi. Ad "accoglierli" non un cartello, non un responsabile, non un sms che li avvisasse: ma solo una guardia giurata. Molti, infuriati, hanno chiesto - invano - spiegazioni: non c'era nessuno che potesse offrirgliele. Eppure sui loro telefonino, tre giorni fa, era arrivata via sms la conferma della loro prenotazione. Ma il centro vaccinale era chiuso, gli addetti a casa a godersi probabilmente a godersi abbacchio e colomba. E loro, invece, tutti radunati nell'atrio del Policlinico senza avere una spiegazione ufficiale. Una scena surreale. «Non c’era un medico, un infermiere, un amministrativo. Ospedale deserto» racconta a Leggo Andrea che aveva accompagnato la nonna - 100 anni - a vaccinarsi. «Hanno chiuso il centro vaccini - prosegue Andrea - senza la premura di mandare un sms, una email, fare una telefonata. Non hanno neanche stampato un cartello da affiggere all’ingresso». Vi rendete conto, una donna di cento anni, portata con molte difficoltà a Tor Vergata, nel giorno di Pasqua, era felice di vaccinarsi, ma invece della tanto desiderata dose, ha trovato "solo" una guardia giurata. Andrea - che vive a Londra dove la campagna vaccinale è andata avanti a ritmi serrati fa fatica a credere a quello che ha visto e si sfoga con Leggo: «C'era solo un vigilantec he poi ci ha messo in contatto con uno della direzione sanitaria, anch’egli a casa a mangiare. Se ne riparla dopo Pasquetta, apparentemente martedì perché domani immagino staranno ancora impegnati con la colomba». Nel tardo pomeriggio le persone che non sono riuscite a vaccinarsi nel pomeriggio sono state contattate al telefono dal Policnico. Secondo quanto ricevuto come spiegazione dall'Ospedale la colpa sarebbe della Regione Lazio. Secondo quanto raccontato dai responsabili del centro vaccinale «Il REcup regionale ha preso un appuntamento sbagliato perché la domenica pomeriggio siamo chiusi. Quando ci siamo accorti che c'erano dei prenotati abbiamo chiesto al Recup regionale di riprogrammarli». Cosa che evidentemente non è avvenuta. Le persone che oggi non sono state vaccinate - a causa di questa macroscopico errore - dovrebbero esserlo martedì.

Live Non è la D'Urso, Raoul Casadei e la verità sul contagio. Il figlio Mirko: "Così è morto di Covid in ospedale". Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 15 marzo 2021. I Casadei abitano tutti insieme, in una grande villa. E’ lì che è avvenuto il contagio, fatale per Raoul. “L’unico a non essere contagiato sono stato io”, dice Mirko (figlio di Raoul Casadei) a Live Non è la D'Urso. Il re del liscio è morto di Covid, aveva 83 anni. Aspettava il vaccino. “Sembrava che le cose stessero migliorando. Poi si è aggravato. Febbre alta e tosse. Il 118 l’ha portato in ospedale, è salito in ambulanza con le proprie gambe. In ospedale era sorridente ed allegro. Poi sono peggiorate le cose”, racconta Mirko che porta avanti la band fondata da suo padre. Non era stato ancora chiamato per il vaccino. A Live parla anche Matteo Bassetti: “La prima ondata è arrivata alle nostre spalle, la seconda pure. Ma la terza andava evitata con una campagna vaccinale che oggi, meno male, sta ripartendo”. Poi il figlio di Casadei dice: “Mio padre non è morto. La sua musica lo rende immortale. Oggi faccio un appello al senso civico di tutti: vaccinatevi”. Un appello che Bassetti, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, coglie con particolare attenzione. “La politica dovrebbe rendere obbligatori i vaccini per chi lavora negli ospedali. Non capisco perché non l’abbia fatto prima. Meglio tardi che mai”, dice il prof. Bassetti che su questo tema si scontra con Laura Boldrini.

 “RAOUL CASADEI È STATO UCCISO PERCHE' NON L'HANNO VACCINATO”. Giuliano Zulin per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2021. «Il piano precisa le categorie in ordine di tempo: da febbraio vaccino agli ultra 80enni, poi toccherà ai professori. Siamo il primo Paese in Europa per numero di vaccinati» Domenico Arcuri, ex commissario straordinario per l' emergenza Covid, 3 gennaio 2021 ...E DI REZZA: «Entro gennaio o inizio febbraio comincerà la fase di vaccinazione dei cittadini con più di 80 anni Per ora le tabelle di marcia vaccinali sono rispettate e addirittura anticipate» Gianni Rezza, direttore della Prevenzione ministero della Salute, 15 gennaio 2021.  C' è poco da discutere.

La morte di Raoul Casadei era evitabile. Il re del liscio era stato ricoverato il 2 marzo all' ospedale di Cesena. Ha combattuto, ma alla fine ha vinto il Covid. Il tutto perché non ha beneficiato del vaccino, che secondo i piani gli 80enni avrebbero dovuto già ricevere. Brutto da dire, ma se fosse stato in Gran Bretagna sarebbe ancora vivo l' artista nato a Gatteo Mare il giorno di Ferragosto del 1937. È stato ucciso. Non c' è un solo colpevole, perché i colpevoli sono tanti. Ma forse il killer è la cosiddetta burocrazia, la quale ci ha portato a ritardi insopportabili nella consegna dei vaccini alla Ue e quindi all' Italia. Per non parlare della lentezza nell' esaminare i vaccini da parte dell' Ema, ovvero l' autorità sanitaria continentale. E che dire dello scarso personale disponibile a inoculare una dose? Raoul Casadei portò al successo internazionale "Romagna mia", vendendo 4 milioni di dischi Ieri l' Istituto nazionale di sanità ha fatto sapere che una persona su tre nella fascia 80-89 anni ha già ricevuto almeno una dose di vaccino. «Analizzando i dati per fascia di età - si legge nel consueto report settimanale - il gruppo che in proporzione ha ricevuto il numero maggiore di dosi è la fascia dei 90 anni (il 40% circa ne ha ricevuta almeno una), seguito dalla quella 80-89 anni (il 32% almeno una)». Peraltro, sottolinea il rapporto, analizzando il numero di casi di infezione da Covid nella popolazione suddivisa per fascia di ultraottantenni, è attesa una diminuzione di casi e di gravità delle infezioni nelle prossime settimane in risposta all' aumento della copertura vaccinale. Bene, però siamo fermi a un solo vaccinato su tre sopra gli 80 anni. Le promesse erano altre.

Tre gennaio 2021. «Vaccino da febbraio agli ultra 80enni, poi i prof», affermava l' allora super commissario, Domenico Arcuri: «Il piano precisa le categorie in ordine di tempo: prima medici, infermieri e personale operante nei presidi ospedalieri e ospiti di Rsa (un milione e 800mila persone). Si prosegue già dal prossimo mese di febbraio con le persone che hanno più di 80 anni, poi con operatori servizi pubblici essenziali, personale docente e non docente perché le scuole possano funzionare in sicurezza, forze dell' ordine, fragili e detenuti».

Il concetto è ribadito il 7 gennaio. «Da febbraio inizieremo a vaccinare le persone con più di 80 anni», confermava Arcuri, rivendicando che rispetto alla popolazione «siamo il primo Paese in Europa per numero di vaccinati». Non era l' unico l' ex super commissario a promettere vaccini agli over 80. A metà gennaio il direttore della Prevenzione del ministero della Salute, Gianni Rezza, sosteneva che «entro fine mese o inizio febbraio comincerà la fase di vaccinazione degli over-80. Per ora le tabelle di marcia vaccinali sono rispettate e addirittura anticipate». Poi abbiamo letto tutti dei ritardi sulle consegne da parte di Pfizer e di Moderna, ovvero gli antidoti giudicati idonei per i più anziani. Così la regione Emilia Romagna a metà dello scorso mese aveva comunicato che solamente «da lunedì 1 marzo le persone nate dal 1937 al 1941» potevano prenotarsi per il vaccino.

Ecco, Casadei era del 1937. Peccato che martedì 2 sia stato ricoverato per il Covid. Per cui tanto valeva prenotarsi... Se fosse stato un suddito della Regina d' Inghilterra invece, per quel 2 marzo avrebbe già ottenuto una dose, buona come il pane per evitare complicazioni. Il crollo di terapie intensive e di morti nel Regno Unito, campione di somministrazioni, sono sotto gli occhi di tutti. Il problema è che come Casadei ce ne sono migliaia, ultraottantenni che muoiono per non aver ricevuto, appunto, almeno una dose di vaccino. Ricordiamolo: l' età media dei morti è di 81 anni in Italia. Quanti defunti dobbiamo ancora piangere?

“IN ITALIA SONO STATI FATTI ERRORI E SONO STATI NASCOSTI”. (ANSA il 22 marzo 2021) "Prima è arrivato il virus, poi l'insabbiamento". E' quello che scrive oggi DER SPIEGEL nell'edizione online in un lungo articolo sulle accuse rivolte da centinaia di famiglie italiane, che hanno sporto denuncia dopo la morte dei propri parenti. "In effetti i documenti dimostrano che all'inizio della pandemia sono stati fatti degli errori e che sono stati nascosti", scrive il magazine sul portale. Nell'articolo si parla delle denunce sporte da 500 famiglie contro ignoti. Gli atti sono davanti alla procura di Bergamo, epicentro della prima fase della pandemia da Covid. "Le accuse sono e pesanti: l'Italia avrebbe reagito troppo tardi e male. Il Paese è stato sopraffatto perchè i piani di crisi erano desueti e inadeguati. E errori sono stati nascosti", continua SPIEGEL. "L'ex premier Giuseppe Conte è stato già sentito e da mesi vengono fuori sempre nuove omissioni", continua l'articolo, "non si tratta più di casi singoli, ma di un fallimento complessivo e di insabbiamento.

"Der Spiegel" contro l'Italia: "Ha insabbiato i suoi errori". Da una parte lo "scandalo mascherine", dall'altra parte "l'accordo fra il Governo tedesco e i Laender sul prolungamento del lockdown in Germania fino al 18 aprile". Redazione - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Da una parte lo «scandalo mascherine», dall'altra parte «l'accordo fra il Governo tedesco e i Laender sul prolungamento del lockdown in Germania fino al 18 aprile». Sul fronte Covid, anche la Germania sta vivendo un momento problematico, con la cancelliera Merkel fortemente criticata dai suoi connazionali delusi da una campagna vaccinale caratterizzata da ritardi e disservizi. E così, «Der Spiegel» ha pensato bene di distrarre l'opinione pubblica tedesca con l'ennesima campagna anti-italiana. Un'operazione dalla tempistica tanto perfetta da risultare strumentale. Questa volta in copertina non c'è nessuna pistola poggiata su un piatto di spaghetti, ma una serie di vecchie accuse contro il nostro Paese riesumate oggi con una buona dose di malafede. Parole durissime, quelle usate da «Der Spiegel»: «Prima è arrivato il virus, poi l'insabbiamento»: è questo il titolo nell'edizione online di un lungo articolo sulle «accuse rivolte da centinaia di famiglie italiane, che hanno sporto denuncia dopo la morte dei propri parenti». «In effetti i documenti dimostrano che all'inizio della pandemia sono stati fatti degli errori e che sono stati nascosti», scrive il magazine. Nell'articolo si parla delle denunce sporte da 500 famiglie contro ignoti. Gli atti sono davanti alla procura di Bergamo, epicentro della prima fase della pandemia da Covid. «Le accuse sono e pesanti - denuncia «Der Spiegel» - : l'Italia avrebbe reagito troppo tardi e male. Il Paese è stato sopraffatto perché i piani di crisi erano desueti e inadeguati. E errori sono stati nascosti». E poi: «L'ex premier Giuseppe Conte è stato già sentito e da mesi vengono fuori sempre nuove omissioni. Non si tratta più di casi singoli, ma di un fallimento complessivo e di insabbiamento». Nell'articolo, nessun riferimento invece alla compagnia nella quale lavora il marito del ministro alla Salute tedesco, Jens Spahn, sospettato di aver venduto al ministero oltre mezzo milione di mascherine FFP2. Il ministero avrebbe ordinato 570mila mascherine alla società Burda Gmbh, della quale Daniel Funke, marito di Spahn, gestisce l'ufficio di rappresentanza. Un evidente «conflitto di interesse» che le smentite del gruppo Burda («Il signor Daniel Funke non ne sapeva nulla») non bastano certo a placare.

La demolizione del "Modello Italia". Der Spiegel massacra l’Italia e la sua gestione del Covid: “Ha insabbiato la verità sui morti da Coronavirus”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Marzo 2021. Un atto di accusa senza mezze misure: “Prima venne il virus, poi l’insabbiamento”. Si intitola così il lungo reportage pubblicato oggi dalla rivista tedesca Der Spiegel dedicato all’Italia e alla gestione del governo Conte dell’emergenza sanitaria provocata dall’epidemia di Coronavirus. L’articolo prende spunto dalle denunce di centinaia di famiglia che dopo la morte dei propri cari hanno chiesto alla magistratura di fare luce sui fatti avvenuti dal febbraio del 2020. Le accuse nell’articolo firmato da Jan Petter sono gravi e, anche se in parte già note in Italia, ribadiscono in modo evidente le tante parti oscure ancora oggi da svelare nella gestione italiana dell’epidemia. Il giornale scrive infatti che “documenti mostrano che all’inizio della pandemia sono stati commessi e nascosti errori”, ricordando che alcuni di questi atti sono attualmente in mano alla Procura di Bergamo che indaga sulla mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, inchiesta che ha visto sentire dai magistrati anche l’ex premier Giuseppe Conte, il ministro degli Interni Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza. “A breve deciderà se e contro chi procedere. Potrebbe essere il processo del secolo. A quel punto i sopravvissuti si potrebbero costituire parte civile”, scrive Der Spiegel. Il settimanale tedesco evidenzia che le accuse “sono serie: l’Italia avrebbe reagito troppo tardi e male alla pandemia. Il Paese sarebbe stato sovraccaricato, anche perché i piani di crisi erano datati e inadeguati. Gli errori commessi sarebbero stati mantenuti segreti. È per questo che la gente ha dovuto morire? Genitori, nonni, coniugi?”. Errori che non son più “solo tragici casi individuali” ma “fallimenti fondamentali e di insabbiamento”. Der Spiegel ritorna sulla storia ormai nota del mancato aggiornamento del piano nazionale pandemico, fermo al 2006, “nonostante il governo italiano si fosse impegnato e avesse riferito all’Oms solo settimane prima dello scoppio della pandemia di coronavirus che era ben preparato per un’emergenza”. Tuttavia “a maggio 2020 l’Oms constatava: "Senza essere preparati a un flusso di pazienti del genere, la prima reazione degli ospedali è stata improvvisata, caotica e creativa"”. La rivista amburghese rivela dunque di aver avuto accesso ad alcuni dei documenti consegnati dagli avvocati agli inquirenti, in cui verrebbero elencate ulteriori omissioni. Tra questi ve n’è uno di esperti italiani di statistica che rivela come già alla fine di febbraio del 2020 misero in guardia le autorità della Lombardia da un’epidemia con valore R al di sopra di 2.0: “un allarme valanga che evidentemente non è stato ascoltato”, si legge sul sito di Der Spiegel.

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 29 marzo 2021. Adesso c' è una conferma. «Non sono in ufficio e dovrei controllare le carte - spiega al Giornale il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani - ma credo che della riunione del 2 marzo parli Agostino Miozzo». Il 2 marzo 2020, come rivelato dal quotidiano Domani, ci sarebbe stato un incontro del Cts in versione ristretta, ma con la partecipazione straordinaria del premier Giuseppe Conte e in quell' occasione i tecnici presenti avrebbero suggerito con toni accorati al premier e al ministro della Salute Roberto Speranza di chiudere i paesi della Val Seriana flagellati dal virus. Dunque, sul calendario deve essere forse riscritta la storia, complicata e contorta, della mancata istituzione della zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, oggetto di furiose polemiche e di una lunga indagine della Procura di Bergamo, ancora in pieno svolgimento. Qualcosa non quadra nel racconto di Giuseppe Conte e in qualche modo anche in quello di Roberto Speranza, tuttora seduto sulla poltrona di ministro. Conte ha sempre sostenuto - anche nell' interrogatorio del 12 giugno - che la richiesta del lockdown fu formulata solo il 3 marzo e fu portata alla sua conoscenza, per l' incredibile catena burocratica italiana, solo il 5 marzo. Lo stesso Speranza pone la data spartiacque non prima del 3 marzo. Ma, a quanto pare, già il 2 la coppia aveva fra le mani elementi decisivi per prendere quella decisione cruciale e difficilissima, per le pressioni fortissime a non chiudere un' area così vitale per l' economia italiana. Ora di quell' incontro non esiste un verbale ufficiale, ma ci sono gli appunti presi da uno dei presenti e acquisiti dai pm di Bergamo. Dunque, in quel meeting è il direttore dell' Istituto Superiore di sanità Silvio Brusaferro ad esporre i «numeri preoccupanti» del disastro ormai in corso. Ma Conte, secondo questa ricostruzione, tergiversa e fa pesare «il costo sociale e politico, non solo economico» del blocco. In chiusura, il premier «decide di rifletterci» e prende tempo. Altro tempo, in una situazione in cui anche le ore sono decisive. Conte si è dimenticato di questa drammatica riunione? E Speranza? Per ora, nessuna replica. Il Giornale ha chiamato ripetutamente l' ex premier e il portavoce del ministro ma nessuno dei ha ritenuto di rispondere. Né aiuta a fare chiarezza Agostino Miozzo, pure interpellato dal Giornale e all' epoca coordinatore del Cts: «In quel periodo era tutto un susseguirsi di incontri. Eravamo in riunione permanente e col senno del poi si azzardano ricostruzioni lontane dalla realtà. In ogni caso il Cts spiegava i dati sulla diffusione dell' epidemia, e come ho spiegato un miliardo di volte, noi non abbiamo mai chiesto la zona rossa. Toccava ad altri trarre le conseguenze e valutare le nostre dichiarazioni. In ogni caso riguarderò i miei appunti». Conte ha rimosso quel meeting? E come mai Speranza non ne ha mai fatto cenno? C' è un metro di valutazione politico e un altro penale, che però sta stretto, strettissimo a questa vicenda. Perché è difficilissimo, al di là delle lacrime, dei morti e della tragedia collettiva, rileggere quel che è accaduto con gli occhi del codice. «Mi pare che Miozzo parli del 2 marzo - riprende Chiappani - ma la nostra inchiesta per epidemia colposa si concentra più su quel che accadde il 23 febbraio: dopo la scoperta del primo positivo, l' ospedale di Alzano Lombardo fu chiuso e poi inspiegabilmente riaperto. Perché non si seguì l' esempio di Codogno dove invece era appena stato imposto un lockdown durissimo?». Dal 2 al 5 marzo fra Milano e Roma è tutto un vortice di incontri, allarmi, scambi di mail. La Lombardia non chiede formalmente la zona rossa, ma il 2 l' assessore Giulio Gallera implora con urgenza l' invio di squadre di medici in una regione travolta dalla pandemia. E il 4 marzo Speranza è a Palazzo Lombardia per l' ennesimo summit. Si temporeggia fino all' 8 - quando tutta la Lombardia si colora di arancione - ma ormai la situazione è scappata di mano. «Noi non trascuriamo nulla - conclude Chiappani - ma stiamo studiando soprattutto l' assenza di strumenti di prevenzione e la mancanza dei piani pandemici.Un quadro avvilente». Insomma, gli errori iniziano prima. Molto prima.

Giuseppe Conte e Roberto Speranza, carte pesanti: "Già il 2 marzo". Lockdown e strage di Covid, cosa non torna. Libero Quotidiano il 29 marzo 2021. Anche Roberto Speranza rischia di finire a picco in quello che i giornali tedeschi hanno definito "il processo del secolo", l'inchiesta sulla mancata zona rossa a Nembro e Alzano che a inizio marzo 2020 ha di fatto scatenato l'epidemia di coronavirus tra Bergamo e Val Seriana. "Non sono in ufficio e dovrei controllare le carte - spiega al Giornale il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani - ma credo che della riunione del 2 marzo parli Agostino Miozzo". La riunione in questione è quella di cui ha parlato il quotidiano Domani diretto da Stefano Feltri, secondo cui il 2 marzo 2020 ci sarebbe stato un vertice tra Cts "ristretto" e il premier Giuseppe Conte in cui i tecnici avrebbero chiesto a Conte e al suo ministro della Salute Speranza di mettere in lockdown i Comuni bergamaschi interessati dai primi e già numerosissimi casi di Covid. Conte, sostenuto da Speranza, ha sempre sostenuto (anche nell'interrogatorio del 12 giugno in Procura a Bergamo, sede dell'inchiesta) che la richiesta di lockdown era stata formulata solo il 3 marzo e di esserne venuto a conoscenza addirittura il 5 marzo. Secondo le carte della Procura, però, entrambi avrebbero conosciuto lo stato dell'emergenza già il 2. Di quell'incontro - spiega anche il Giornale, "non esiste un verbale ufficiale, ma ci sono gli appunti presi da uno dei presenti e acquisiti dai pm di Bergamo". Sarebbe stato il direttore dell'Istituto Superiore di sanità Silvio Brusaferro a esporre i "numeri preoccupanti" del caso Val Seriana, mentre Conte avrebbe fatto pesare "il costo sociale e politico, non solo economico" del blocco. Il premier e Speranza prendono tempo, tra il 2 e il 5, come ricorda lo stesso Miozzo dribblando le polemiche, tra Roma e Milano è tutto "un susseguirsi di vertici e incontri". Parole, mentre in pochi chilometri quadrati si era già scatenato un inferno. Un incendio che di lì a poche settimane avrebbe devastato tutto il Nord Italia.

La zona rossa inguaia Conte: sapeva tutto sei giorni prima. Secondo un verbale pubblicato da "Domani", partecipò a una riunione sull'emergenza Alzano già il 2 marzo. Stefano Zurlo - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Il verbale non c'è, ma c'è qualcuno che prende appunti. E ora il resoconto di quell'incontro, pubblicato da Domani, mette in imbarazzo l'ex premier Giuseppe Conte. Si scopre che il 2 marzo dell'anno scorso l'allora presidente del Consiglio partecipa a una drammatica riunione ristretta del Comitato tecnico scientifico in cui si parla della difficilissima situazione in provincia di Bergamo e in Val Seriana. A quel meeting è presente il ministro della Salute Roberto Speranza e ci sono, fra gli altri, l'ex coordinatore del Cts Agostino Miozzo e il direttore dell'Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro. Sono ore concitate, a pochi chilometri da Bergamo la situazione sta scappando di mano; ora, se è corretta la ricostruzione di quel meeting, sappiamo che in quell'occasione gli esperti spiegano al premier la gravità della situazione e di fatto gli suggeriscono di chiudere tutto. Insomma, gli suggeriscono la zona rossa. Unica risposta adeguata a quel disastro. Il punto è che di questa riunione non si è mai saputo nulla fino a oggi. Conte ha sempre sostenuto un'altra versione: solo il 5 marzo scopre che il Cts vuole istituire la zona rossa fra Alzano Lombardo e Nembro. E questo sulla base di un'altra riunione degli esperti che in effetti si tiene la sera del 3 marzo 2020. Le ore, in quei momenti così bui, fanno la differenza. E si resta sconcertati all'idea che un verbale cosi importante come quello del 3 marzo sia stato inviato al premier solo 48 ore dopo. Un ritardo inaccettabile e dalle conseguenze catastrofiche, quando sarebbe bastato alzare il telefono, chiamare Palazzo Chigi e chiedere al capo del governo un intervento urgente per provare a fermare l'epidemia. Ora però questa versione viene messa in crisi, anzi se gli appunti raccolti dal misterioso interlocutore sono veritieri, Conte viene smentito. E le lancette del governo devono tornare al 2 marzo, ben sei giorni prima della decisione che Conte prende infine l'8 marzo, blindando con il colore arancione non solo la val Seriana ma l'intera Lombardia.

Possibile pensare che l'allora capo del governo non ricordi, se c'è stata, una discussione così cruciale? Sei giorni purtroppo vogliono dire, in quel momento, centinaia di morti. Bergamo e la provincia sono sull'orlo del precipizio e il 18 marzo quella tragedia fa il giro del mondo con i camion dell'esercito che portano via le bare dei troppi morti. Un quadro agghiacciante che matura fra indecisioni e balbettii. Sappiamo che il presidente della Lombardia Attilio Fontana non chiede a sua volta la zona rossa per i comuni flagellati dal contagio, ma fra il 2 e il 3 marzo manda a Roma i dati in suo possesso, peraltro eloquenti: i casi a Bergamo sono già 366, il 24 per cento dell'intera regione. Sempre il 3 marzo l'allora assessore alla sanità Giulio Gallera scrive alla Protezione civile, implorando l'invio di squadre di medici per fronteggiare la devastante emergenza. Riunioni e mail si susseguono affannosamente, ma i giorni scorrono senza che nessuno schiacci il bottone della zona rossa. Da mesi la Procura di Bergamo indaga sull'accaduto per valutare eventuali responsabilità penali. Ora quel verbale costringe a riscrivere la sequenza della storia e a verificare le affermazioni dell'ex premier. Il 2 marzo, dunque, il Cts sottolinea i «numeri preoccupanti» di Alzano e Nembro, proponendo di trasformarli in zona rossa. Ma, a quanto sembra, Conte frena: replica che la catena di trasmissione non può essere ricostruita e aggiunge che la zona rossa «deve essere usata con parsimonia. Perché ha un costo sociale, politico, non solo economico, molto alto». Il premier non se la sente di fare il passo decisivo e, in conclusione, «decide di rifletterci». Una scelta sciagurata perché fra il 2 e l'8 marzo si ammalano e muoiono centinaia di persone. Ma al di là dell'epidemia, Conte deve chiarire questo vuoto di memoria. Nell'interrogatorio del 12 giugno e poi in un'intervista al Fatto Quotidiano sostiene un'altra verità: è solo il 5 marzo che gli arriva il pressante suggerimento di isolare la Val Seriana. Ma le date non tornano.

Maurizio Tortorella per “La Verità” il 28 marzo 2021. Torna sotto i riflettori l'inchiesta della Procura di Bergamo che dall'estate 2020 cerca di fare luce sui troppi morti per Covid in quella provincia. La Procura ha acquisito il «verbale riservato» di una riunione informale e ristretta del Comitato tecnico scientifico, che rischia di mettere in grave imbarazzo l'ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Secondo il quotidiano Domani, nella serata del 2 marzo 2020 il Cts, coordinato allora da Agostino Miozzo, si riunisce con Conte, il ministro della Salute, Roberto Speranza, e il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Sivio Brusaferro. Proprio Brusaferro suggerisce di creare una «zona rossa» nei Comuni di Alzano Lombardo e di Nembro, che evidenziano «numeri preoccupanti» di contagio. Conte obietta che «la zona rossa va usata con parsimonia, perché ha un costo sociale e politico, non solo economico, molto alto». Secondo Domani, il verbale riservato si conclude con questa frase, sempre attribuita a Conte: «Decide di rifletterci». La riflessione sarebbe durata sei giorni: 144 ore che purtroppo alla provincia di Bergamo in marzo costarono 5.179 morti in più rispetto alle medie degli anni precedenti, e 1.024 in aprile. Della fatidica riunione non esistono verbali ufficiali, almeno non se ne trovano sul sito della Protezione civile. Ma qualcuno dei presenti prende appunti che ora sono nelle mani degli inquirenti. Il problema è che di una riunione del 2 marzo Conte non ha parlato con i pubblici ministeri bergamaschi nell'interrogatorio del 12 giugno 2020. Nella ricostruzione di quei giorni, il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, e il suo ex assessore regionale alla Sanità, Giulio Gallera, hanno sempre sostenuto che la scelta di chiudere toccava al governo. Gallera, in particolare, ha detto ai pm di avere chiesto per telefono già la sera di martedì 3 marzo all'Istituto superiore di sanità di creare una zona rossa attorno ad Alzano e Nembro, e Busaferro gli aveva confermato che la richiesta sarebbe stata immediatamente inoltrata al governo. A quel punto, però, mentre il contagio precipitava, tutto s' era bloccato. Il 4 marzo non era accaduto nulla. La mattina del 5 marzo a Nembro e Alzano erano arrivati i camion dell'esercito, e la mossa aveva convinto tutti che l'isolamento fosse imminente, ma tutto si era fermato per altri tre giorni. Alla fine, il lockdown era arrivato solo l'8 marzo, quando finalmente il governo aveva deciso la zona rossa per tutta la Lombardia. I quattro giorni in più d'attesa, purtroppo, avevano però cominciato a trasformare Bergamo in un terribile focolaio di morte. Conte ha sempre dichiarato, anche nel suo interrogatorio, di essere stato informato della situazione solo il 5 marzo 2020. Oggi si scopre che era conoscenza della situazione 72 ore prima. Questo vuol dire ha avuto un vuoto di memoria con i pm bergamaschi? È difficile che di una riunione così importante, dove si tracciavano i «numeri preoccupanti» di un'area strategica della Lombardia, non resti traccia nella memoria di un ex premier.

Le indagini continuano. La Procura di Bergamo ha scoperto, inoltre, che l'Italia non ha mai ratificato il Regolamento sanitario internazionale del 2005, nonostante il nostro Paese abbia dichiarato nel 2019 all'Organizzazione mondiale della sanità di avere le leggi in grado di «sostenere e sviluppare» gli strumenti indicati dal Regolamento per prevenire e affrontare le pandemie. Il sospetto è che, se un anno fa l'Italia s' è trovata senza letti di terapia intensiva, è anche perché non ha recepito quel Regolamento.

Francesca Nava per “Domani” il 28 marzo 2021. L’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha deciso di opporre il silenzio stampa e non vuole commentare la notizia pubblicata da Domani sulla riunione segreta del Comitato tecnico scientifico del 2 marzo 2020, in cui per la prima volta sono emersi i «dati preoccupanti» sul contagio nella bergamasca e durante la quale i consulenti tecnici del governo hanno espresso l’esigenza di cinturare l’area di Alzano Lombardo e Nembro in una zona rossa. Eppure, il contenuto di quel verbale appare sempre più rilevante, non solo perché Conte parla di «costo politico» nel creare nuove zone rosse, ma anche indica uno scarto temporale di tre giorni rispetto alla data, il 5 marzo, in cui l’ex premier ha dichiarato ai pm bergamaschi di essere venuto a conoscenza della situazione epidemiologica in provincia di Bergamo e della richiesta di zona rossa, come da verbale del Cts del 3 marzo. Durante la riunione del 2 marzo, che sarebbe dovuta restare riservata, era presente anche il ministro della Salute Roberto Speranza, che ha sempre dichiarato pubblicamente di essere venuto a conoscenza della richiesta di una zona rossa in Val Seriana non prima del 3 marzo 2020 e di aver chiesto all’indomani, il giorno 4, al presidente dell’Iss Silvio Brusaferro, una «relazione più strutturata» (lo racconta Speranza nel libro ritirato dal commercio). Eppure anche Speranza era stato informato già il 2 di marzo, ma non ne ha mai fatto menzione in pubblico.

IL DPCM FANTASMA. Conte quel giorno «decide di rifletterci». Speranza cosa decide di fare? Quello che sappiamo è che il 4 marzo il ministro va a Milano per incontrare la giunta Fontana che governa la Lombardia. Viene impostata una bozza di Dpcm per chiudere la Val Seriana o le informazioni ricevute dal Cts non erano abbastanza allarmanti? Abbiamo provato a contattare il ministro Speranza, senza successo. Siamo però riusciti a parlare con un membro del Cts, che era presente alla riunione pomeridiana e riservata del 2 marzo e che preferisce restare anonimo. «Noi abbiamo sempre consigliato di fare le chiusure opportune, il nostro compito è stato sempre quello di analizzare i dati e dare dei consigli in conseguenza dei dati, poi la decisione è sempre stata politica, ma credo che focalizzarsi su una decisione che si è articolata in alcuni giorni, non in 20 anni, sia un modo distorto di vedere le cose». La scelta, dunque, è sempre stata politica e anche Conte in quella riunione del 2 marzo ha ben presente il «costo politico» che potrebbe avere chiudere una zona come la Val Seriana. Meglio aspettare.

LA CAUSA CIVILE. Oggi, però, il contenuto del verbale di quella riunione ristretta potrebbe aggiungere un tassello importante alla causa civile iniziata lo scorso 23 dicembre, quando è stato notificato dai parenti di 500 vittime di Covid-19 l’atto di citazione a ministero della Salute, presidenza del Consiglio e regione Lombardia. «Abbiamo rilevato violazioni di legge nazionali e internazionali – spiega la responsabile del team legale, l’avvocata bergamasca Consuelo Locati – rispetto al mancato adeguamento del piano pandemico del 2006, al mancato recepimento del regolamento sanitario internazionale e alla mancata comunicazione del rischio alla salute ai cittadini da parte delle istituzioni, che sapevano tutto a partire da gennaio 2020. La notizia del verbale della riunione del Cts del 2 marzo 2020 verrà riversata nel procedimento civile: sapevano che questo virus era come la peste, eppure la cittadinanza, soprattutto in provincia di Bergamo, non è stata informata della gravità del rischio». Secondo Locati, il verbale chiarisce che «è stata una scelta voluta e che il ritardo di 15 giorni (dallo scoppio del focolaio di Alzano il 23 febbraio 2020, ndr) ha contribuito alla diffusione del virus e alla strage nella bergamasca». Il procedimento civile, che si aprirà a Roma con la prima udienza fissata per il 14 aprile, non è una class action, perché, spiega Locati, «ogni defunto ha la propria storia personale e ogni parente che agisce fino al secondo grado di parentela chiederà il proprio danno individuale, ovvero un risarcimento che va dai 110 ai 310mila euro a persona, per un ammontare complessivo che si aggira intorno ai 200 milioni di euro». A oggi, le controparti, ovvero ministero della Salute, presidenza del Consiglio e regione Lombardia, non si sono ancora costituite in giudizio. «Il termine – dice Locati – scadeva il 25 marzo, noi oggi non abbiamo contezza che sia stato depositato nulla. Hanno tempo di costituirsi in giudizio fino al giorno prima dell’udienza, se non lo dovessero fare non potranno difendersi, in assenza di contestazioni risulterebbe tutto provato».

"Il virus fu inatteso? Menzogne. Vi svelo le colpe dello Stato". Il j'accuse dei familiari delle vittime. Locati: "Si potevano salvare 30mila persone". La richiesta a Draghi: "Adesso devono pagare". Giuseppe De Lorenzo - Mer, 24/02/2021 - su Il Giornale. Un anno dopo, e non "è cambiato nulla". O quasi. Il contagio "si diffonde in maniera incontrollata", il dolore brucia ancora come l'olio bollente sulla carne viva. Ma la rabbia ha ormai "lasciato il passo alla determinazione". Un anno fa Consuelo Locati perdeva il padre, scopriva il coronavirus, veniva investita dal nemico sconosciuto. Oggi combatte, denuncia, scava. È uno degli avvocati che difende le vittime bergamasche della pandemia, quelle storie raccontate nel Libro nero del coronavirus. Locati dopo 365 giorni chiede ancora "verità, trasparenza e assunzione di responsabilità" a quelle istituzioni, senza distinzioni politiche, che "non hanno fatto abbastanza" per salvare la vita di oltre 90mila persone.

Avvocato, è già passato un anno…

"Ci stiamo avvicinando ad anniversari per noi molto difficili da affrontare".

Cosa si ricorda di quelle ore in cui suo padre è venuto a mancare?

"Ricordo incredulità, impotenza. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. A mio padre hanno tolto il casco cpap perché in ospedale non ne avevano abbastanza per tutti. Gli hanno somministrato morfina per accompagnarlo alla morte. E io l'ho scoperto solo dalla cartella clinica".

Prova ancora rabbia?

"No, non sono più arrabbiata. Il dolore, che non guarisce certo in un anno, si è trasformato nel desiderio di fare chiarezza".

Sulla gestione dell’emergenza c’è ancora molto da raccontare, o sappiamo tutto?

"In un anno abbiamo squarciato una fitta coltre di nebbia e mancata trasparenza. Altro che verbali desecretati: se non ci fossimo stati noi legali e Robert Lingard, probabilmente molti dettagli oggi non sarebbero di dominio pubblico".

Cito alcuni esempi: il piano pandemico non aggiornato, il report dell'Oms scomparso, il “piano anti covid” tenuto segreto.

"Sono tutti elementi che forniscono alcune risposte alle tante domande dei cittadini".

Quali risposte?

"Ci hanno fatto capire che l'Italia non era pronta ad affrontare l’emergenza: lo dicono ormai numerose le prove documentali".

Partiamo dal piano pandemico. Venne scritto nel 2006, poi nessuno ha mai provveduto ad aggiornarlo.

"È così. E alla fine ci siamo trovati costretti a mettere delle toppe perché non avevamo nulla: ci mancavano i presidi minimi per affrontare il virus. Non esisteva una catena di comando, nessuno sapeva come attivarla, non avevamo la mappatura dei posti letto, i dpi, i reagenti e neppure un numero adeguato di laboratori per i tamponi. Nulla di nulla. Tutta colpa del mancato aggiornamento del piano".

Chi sono i responsabili del disastro?

"Al ministero ci sono dei tecnici deputati all'adeguamento dei piani pandemici. Nel corso degli anni, soprattutto a partire dal 2013, nessuno ha verificato se il documento fosse al passo con i tempi".

Però anche se obsoleto, almeno c’era.

"Sì certo, peccato non lo abbiano neppure attivato".

A febbraio dell'anno scorso il ministero e il Cts ha prodotto un Piano nazionale anti-covid, poi tenuto secretato.

"È il tipico esempio di raffazzonamento: lo hanno prodotto quando era ormai troppo tardi. Mio chiedo: ma perché hanno iniziato a lavorarci solo a febbraio, quando l’alert dell’Oms risale agli inizi di gennaio?"

Provi a rispondere lei stessa.

"So solo che all'interno di quel documento, che ho letto, ci sono un insieme di misure che l'Italia avrebbe dovuto avere già codificate da anni: trasmissione di dati, coordinamento, mappatura dei posti letto. Abbiamo affrontato il virus in ritardo".

Per il generale Lunelli l’impreparazione ci è costata almeno 10mila vittime.

"In realtà 10mila vittime solo se si considera la prima ondata. Sarebbe bastato avere il piano pandemico aggiornato e probabilmente avremmo risparmiato 20-30mila decessi".

E pensare che l'ex premier Conte e il ministro Speranza dissero: l’Italia è prontissima.

"La cosa più triste è fingere di non aver commesso omissioni. L'Italia non era preparata. E invece di ammetterlo, il governo ha provato a nascondere le proprie omissioni: ci ha costretto a combattere, a scavare giorno e notte, per cercare dei documenti che altrimenti nessuno avrebbe reso pubblici. È inaccettabile".

Mi dica tre aggettivi per definire l'operato delle istituzioni nell'ultimo anno.

"Carente, raffazzonato, approssimativo".

Però va detto che nessuno si aspettava un simile tsunami…

"È una menzogna, non è così. Certo non era prevedibile, e forse questo è un virus più infame di altri. Ma l'Italia non era pronta ad affrontare nessun tipo di influenza che fosse un po' più pericolosa del 'normale’, probabilmente. Il 30 gennaio il ministero ha classificato Sars-CoV-2 come virus di fascia A, tipo la peste. Ma non avevamo alcuno strumento per combatterlo come tale".

 Covid, la rivelazione sull'ospedale di Alzano: "Sembrava dovessimo scappare".

Molti dicono: beh, ma non c'è da essere così critici, anche altri Stati sono stati travolti al pari dell'Italia.

"Certo, ma i Paesi in cima alla classifica per decessi guarda caso sono proprio quelli senza un piano pandemico aggiornato. In Germania, dove il contagio è altissimo, la mortalità è molto bassa: il loro piano infatti era stato rivisto nel 2018 ed aveva già aumentato i posti in terapia intensiva".

Mi metto nei panni di un premier. E le dico: è facile parlare col senno del poi.

"I cittadini possono parlare con senno di poi. Le istituzioni invece sono lì proprio perché devono parlare col senno di prima…".

Si è detto che l'Italia fosse un modello nella lotta alla pandemia. È così?

"Lo sono stati i medici e gli operatori sanitari. Non chi li ha mandati in guerra senza le armi per combattere".

Nel Libro nero del coronavirus abbiamo raccolto le testimonianze di chi si è trovato all'ospedale di Alzano Lombardo in quelle tragiche ore. Quanto influì quel focolaio sulla strage di Bergamo?

"Ha influito per il 90%. Non c'è stato né tracciamento né sorveglianza. So per certo di persone dimesse il 24 o 25 febbraio, senza tampone, nonostante fossero state nello stesso reparto dei primi positivi".

Bergamo pagò anche la mancata chiusura della Val Seriana. Perché secondo lei non venne disposta?

"Le rispondo con le parole di una intervista del dottor Agostino Miozzo (coordinatore del Cts, ndr): non l’hanno fatta perché avrebbero bloccato il polmone economico d’Italia. Disse pure testualmente: “Forse avremmo salvato qualche vita”. Una frase che ancora oggi mi lascia sotto choc: una dichiarazione gravissima e criminale. Quei 15 giorni di ritardo hanno contribuito a diffondere il virus in maniera incontrollata".

Conte poi arrivò a Bergamo nottetempo…

"…e non si ricordava nemmeno il nome dei paesi focolaio".

Quanto vi ferì?

"Molto. Moltissimo. Il virus ci aveva strappato in maniera violenta le radici, ci sentivamo nell’abbandono più totale: quella visita fu schiaffo in faccia al dolore e alla dignità di chi è ancora in vita e dei nostri cari che non ci sono più".

Quali sono stati gli altri errori del governo?

"Uno su tutti: la mancata comunicazione del rischio. Le gravi carenze in questo ambito hanno impedito ai cittadini di capire davvero cosa stesse accadendo. Abbiamo assistito a sindaci che ci dicevano di continuare a vivere una vita normale. Anche qui si è vista la totale approssimazione italiana, e le conseguenze sono state gravissime perché migliaia di persone sono morte. Ripeto: sono morte".

Hanno influito pure le liti tv tra virologi?

"I cittadini si fidano di quello che viene detto da tecnici specializzati, scienziati, tecnici e virologi: non si può far parlare chiunque e fargli dire tutto il contrario di tutto".

Nei giorni scorsi avete inviato una lettera a Mario Draghi. Perché?

"Vorremmo un contatto con le istituzioni, un dialogo che fino ad oggi non c'è stato. Abbiamo chiesto inoltre una legge di indennizzo: vogliamo che i familiari delle vittime della Covid abbiano un risarcimento da parte dello Stato, nella forma di una pensione o di indennizzi. La responsabilità di quanto successo è delle istituzioni, che non hanno realizzato quello che avevano l'obbligo di fare, ed è giusto che risarciscano chi ha perso i propri cari. Ci sono famiglie monoreddito che sono rimaste senza più entrate, molte anche con figli minori a carico".

Per lo Stato significherebbe ammettere le proprie responsabilità.

"Esatto. Ed è proprio quello che vogliamo. Le istituzioni devono ammettere di aver sbagliato".

Dove arriveranno le indagini della Procura di Bergamo?

"Sono certa che avremo un processo con molti imputati, non solo quelli per ora iscritti nel registro degli indagati. Chi ha sbagliato deve pagare"

«Mia sorella uccisa dal Covid e poi derubata al Policlinico di Bari». Rocco Minerva, bitontino, 41 anni, assistito dall’avvocato Massimo Guarini, ha presentato denuncia contro ignoti ai carabinieri per il furto subito al Policlinico da sua sorella Sabina, 42 anni. Giovanni Longo su  La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Febbraio 2021. Borse, collanine, effetti personali hanno un valore molto spesso più affettivo che economico. Chi subisce un furto sa bene cosa significa. Ma se il «colpo» viene messo a segno in ospedale ai danni di una paziente poi deceduta, peraltro ancora più fragile perché affetta da sindrome di Down, chi le era vicino soffre ancora di più. E così Rocco Minerva, bitontino, 41 anni, assistito dall’avvocato Massimo Guarini, ha presentato denuncia contro ignoti ai carabinieri per il furto subito al Policlinico da sua sorella Sabina, 42 anni, trasportata nei mesi scorsi al Pronto soccorso del nosocomio barese per una grave infezione da Covid-19. Trasferita subito in Rianimazione, la donna muore due settimane dopo il ricovero. Quel maledetto giorno, al suo ingresso in ospedale, Sabina aveva con sé un sacco in nylon di colore bianco nel quale aveva riposto una protesi dentale appena realizzata, occhiali da vista, una collanina d’oro, un bracciale in caucciù una rubrica telefonica, un pettine e uno specchio da trucco, un borsellino contenente una decina di euro in monete, documenti personali. Da un lato il dolore per la scomparsa della congiunta. Dall’altro le telefonate al Policlinico per sapere che fine avesse fatto quel sacco in nailon che conteneva piccoli ricordi della sorella. Infine, la denuncia. Difficile che lo zaino possa essere ritrovato, certo. Oltre alla sofferenza per la scomparsa, resta l'amarezza per il fatto che ancora una volta ladri senza cuore riescono a intrufolarsi negli ospedali rubando gli effetti personali che appartenevano a chi già viveva in una condizione di profonda sofferenza. «Erano oggetti a noi tutti molto cari, in particolare la collanina della cresima cui mia madre tiene tantissimo», ricorda Rocco, fratello di Sabina.

Covid, inchiesta su 47 decessi in Rssa Bari, gip respinge richiesta arresti: non c'è reato. In particolare gli amministratori delle due strutture non avrebbero adibito un’adeguata zona Covid, avrebbero consentito situazioni di promiscuità tra positivi e negativi al virus. La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Febbraio 2021. Avrebbero causato, durante la prima ondata pandemica, due focolai in altrettante Rssa del Barese del gruppo Segesta Mediterranea con 257 contagi complessivi e 47 decessi (130 contagi e 27 decessi nella Rssa «Villa Giovanna» a Bari, 127 contagi e 20 morti nella Rssa «Nuova Fenice» a Noicattaro), non adottando le necessarie misure di sicurezza che avrebbe potuto prevenire il rischio di contagio. In particolare gli amministratori delle due strutture non avrebbero adibito un’adeguata zona Covid, avrebbero consentito situazioni di promiscuità tra positivi e negativi al virus, non avrebbero allontanato e sostituito il personale contagiato né fornito i necessari dpi. Con queste «condotte omissive» avrebbero "cagionato un andamento esponenziale della curva dei contagi». Nell’inchiesta della Procura di Bari, di cui dà notizia l'edizione locale di Repubblica Bari, sono indagate per il reato di concorso in epidemia colposa cinque persone, i due legali rappresentanti della società Segesta, Federico Guidoni e Catina Piantoni, i due coordinatori sanitario e gestionale di «Villa Giovanna», Michele Di Tommaso e Tiziana Caselli, e la coordinatrice gestionale della Rssa «Nuova Fenice» Nicoletta Ricco. Per gli indagati la Procura aveva chiesto gli arresti domiciliari, che sono stati rigettati dal gip. Il rigetto è stato impugnato è sarà discusso davanti al Tribunale del Riesame il 25 febbraio. Un flash mob sul balcone sventolando mascherine e senza distanziamento e un laboratorio di cucina per preparare le zeppole. Sono due degli episodi descritti negli atti della Procura di Bari sui due focolai Covid esplosi in altrettante Rssa del Barese, gestite dal gruppo Segesta, con riferimento ai quali si contesta ai cinque amministratori e dirigenti il reato di epidemia colposa. In particolare il 16 marzo 2020 sulla pagina facebook della Rssa «Villa Giovanna» di Bari, dove tra marzo e aprile 2020 è scoppiato un focolaio con 130 contagi e 27 decessi, «è stato pubblicato un video - ricostruisce la Procura - che riproduce lo svolgimento di un flashmob sui balconi della residenza dove operatori e ospiti, tra loro vicini senza rispettare le misure di distanziamento, sventolano la mascherina in segno di partecipazione ad un rito collettivo contro il coronavirus». Nell’inchiesta è contestato anche il focolaio con 127 contagi e 20 decessi in un’altra Rssa gestita dalla stessa società, «Nuova Fenice» a Noicattaro. Qui il 19 marzo, in occasione della festa di San Giuseppe, gli anziani hanno preparato tutti insieme le zeppole. «Chiaramente per quel tipo di attività - ha riferito un dipendente - era impossibile garantire il distanziamento sociale e gli ospiti erano tutti vicini l’uno all’altro».

PM: I CONTAGI SI POTEVANO EVITARE - «Se fossero state adottate le misure necessarie ad evitare il contagio, il virus non avrebbe visto una diffusione incontrollata ed i residenti, isolati all’interno della residenza, non si sarebbero ammalati in una percentuale così elevata». Lo scrive la Procura di Bari nell’appello contro il rigetto degli arresti chiesti per gli amministratori delle due Rssa, «Villa Giovanna» e «Nuova Fenice», dove tra marzo e maggio 2020 sono state contagiate dal Covid 257 persone e 47 sono decedute. Il riferimento della Procura è, tra le altre cose, alla scarsa disponibilità e distribuzione di alcuni dpi, in particolare delle mascherine chirurgiche, date al personale solo nel caso di sintomi. «Noi operatori - ha raccontato un dipendente - abbiamo più volte chiesto alla direzione mascherine di protezione individuale», ma ne veniva «sconsigliato l’uso perché potevano creare panico e allarme tra gli ospiti. La caposala dava disposizione agli infermieri di darci la mascherina chirurgica solo in caso avessimo avuto il raffreddore». Secondo la Procura «le condotte omissive poste in essere dagli indagati sono connotati da un’allarmante pericolosità, soprattutto in considerazione del fatto che le omissioni sono state riscontrate su tutti i fronti possibili. Non vi è stato un solo aspetto della gestione delle Rssa che abbia rispettato le cautele imposte dai dpci emanati sul punto». 

GIP: FATTI CONTESTATI NON SONO REATO - «I fatti oggetto di addebito, così come contestati, non sono previsti dalla legge come reato" perché nei delitti di epidemia colposa «la responsabilità a titolo di omissione ipotizzata dal pm non è nemmeno astrattamente configurabile». Lo scrive il gip del Tribunale di Bari Marco Galesi che ha rigettato le richieste di arresto per gli amministratori delle due Rssa «Villa Giovanna» di Bari e "Nuova Fenice» di Noicattaro dove nella prima ondata pandemica sono state contagiate complessivamente 257 persone e 47 sono decedute. Nell’ordinanza, impugnata dalla Procura di Bari, il giudice, motivando il provvedimento sulla base di una recente pronuncia della Cassazione, spiega che il reato di epidemia colposa «è modellato secondo lo schema dell’illecito causalmente orientato, ossia mediante la propagazione, volontaria o colpevole, di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso». Cioè perché sia contestabile occorre accertare condotte «commissive» e non "omissive». Per il gip, inoltre, non sussiste anche il pericolo di reiterazione del reato perché «le carenze riscontrate all’epoca dei fatti», come confermato anche dalle dichiarazioni dei dipendenti ascoltati nel corso delle indagini dai carabinieri del Nas, potrebbero essere state «colmate nell’ulteriore corso della pandemia».

Vittime di covid, i legali difendono i pm di Bergamo dalle accuse del Comitato. È lite. Il Dubbio il 16 gennaio 2021. Gli avvocati si sono dissociati dalle accuse postate sui social dal Comitato in merito ai tempi dell’inchiesta per epidemia colposa alla Procura di Bergamo. Il comitato “Noi denunceremo” è nato con l’obiettivo di «ottenere verità e giustizia per le vittime del covid». La sua mission è dunque affidata in gran parte all’attività del pool di avvocati ingaggiato per seguire le inchieste. Ma ieri i legali, insieme col responsabile comunicazione Robert Lingard, si sono dissociati da quanto pubblicato giovedì sulla pagina facebook del comitato a proposito dei tempi dell’inchiesta in corso per epidemia colposa alla Procura di Bergamo. Il contenuto di quella pubblicazione, fanno sapere gli avvocati in una nota, «non è mai stato approvato né dal team dei legali né dal responsabile comunicazione. In merito al rapporto fatto sparire dall’Oms e ritrovato proprio dal responsabile comunicazione», spiegano, «si legge infatti: «Ora, questo documento è stato prontamente consegnato alla Procura di Bergamo dai nostri legali come integrazione alla documentazione che accompagnava tutti i nostri esposti. Eravamo a settembre, il 10 per la precisione. Oggi siamo al 14 di gennaio, sono passati più di quattro mesi. In questi quattro mesi le indagini sono proseguite, ma si è aspettato fino ad ora per acquisire dei documenti che potrebbero convalidare la tesi che da sempre sosteniamo. Gli anziani dicono a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca». Ciò che è «più grave», secondo i legali del comitato, «è che la riflessione, a firma del vicepresidente Stefano Fusco è stata condivisa sul suo profilo anche dal presidente Luca Fusco». Oltre a «dissociarsi da quanto scritto», il team degli avvocati e il responsabile della comunicazione colgono l’occasione per «testimoniare totale supporto e stima per l’encomiabile operato svolto dalla magistratura, che si è accollata il peso di un’inchiesta titanica». Una magistratura, rimarcano, «con cui sia il team dei legali che il responsabile comunicazione hanno collaborato con una inchiesta parallela capace di far emergere non solo il rapporto Oms ma anche la più recente bozza del piano pandemico».

Da lastampa.it il 14 gennaio 2021. La Guardia di Finanza sta eseguendo una serie di acquisizioni in alcuni uffici del ministero della Salute. Le acquisizioni di documenti e gli atti relativi al piano pandemico rientrano nell'ambito dell'inchiesta della procura di Bergamo. Gli uomini delle Fiamme gialle stanno raccogliendo documenti anche nella sede dell'Assessorato al welfare della Regione Lombardia. La Gdf di Bergamo, oltre che negli uffici del Ministero della Salute all'Eur e Lungotevere, sta effettuando acquisizioni anche all'Istituto Superiore della Sanità a Roma. I militari, come si evince dall'ordine di esibizione firmato dai pm bergamaschi, si stanno consegnare documentazione cartacea ed elettronica relativa al piano pandemico nazionale del 2017 e che si ritiene sia il copia-incolla di quello del 2006. Le Fiamme Gialle inoltre si si trovano nelle sedi della Ats di Bergamo e dall'Asst di Bergamo est e in Regione Lombardia. Le indagini riguardano anche il piano pandemico regionale.

Giuseppe De Lorenzo per ilgiornale.it il 22 gennaio 2021. Il "piano segreto" non dovrà più essere tale. Il Tar accoglie il ricorso presentato dai deputati FdI Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato e ordina al ministero della Salute di "consegnare entro 30 giorni" dalla sentenza "il documento da essi chiesto". Cioè il "Piano anti-Covid" approvato dal Cts a marzo e ancora mai ufficialmente reso noto dal dicastero guidato da Roberto Speranza. Si tratta di una sentenza attesa, che segue un'intensa battaglia legale. E che arriva in un giorno simbolico: il 22 gennaio di un anno fa, infatti, Speranza dava il via alla task force sul coronavirus da cui trae origine proprio il "piano segreto". Come ricostruito nel Libro nero del coronavirus, tutto inizia attorno a quel tavolo quando gli esperti si accorgono che il piano pandemico nazionale, mai aggiornato, non basta ad affrontare l'emergenza. Si decide così di avviare alcuni studi, grazie anche alla collaborazione della Fondazione Kessler. Il 12 febbraio Stefano Merler presenta i suoi calcoli al Comitato Tecnico Scientifico: all'interno ci sono scenari drammatici in caso di approdo del virus in Italia. Si ipotizzano migliaia di contagi, altrettanti morti, il rischio di saturare le terapie intensive. Il Cts, come emerge dai verbali, crea un gruppo di lavoro per mettere a punto un "Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19". La prima bozza viene presentata a Speranza il 20 febbraio a mezzo slide. Mancano poche ore a Codogno. Poi il lavoro viene più volte analizzato e infine approvato dal Cts il 2 marzo, che ne dispone da riservatezza. Nessuno, soprattutto i media, deve vedere i numeri contenuti in quel "Piano". Il resto è una storia fatta di silenzi, smentite e piste false. Quando il Direttore Generale della programmazione sanitaria, Andrea Urbani, ne rivela l'esistenza in una improvvida intervista, tutti vorrebbero ottenerne una copia. Nessuno però sembra averlo: il ministero e Speranza lo derubricano a studio, e a chi lo domanda viene inviato solo lo studio di Merler. Così ad agosto Bignami e Gemmato fanno un accesso agli atti, non ottengono risposta, e si rivolgono al Tar con l'aiuto dell'avvocato Silvia Marzot. È l'inizio della battaglia legale. In aula il ministero, rappresentato dall'Avvocatura dello Stato, si difende con forza. Si opone al ricorso. Fa le sue deduzioni. Ma alla fine perde. "In nome del popolo italiano" la sezione terza quater del Tar del Lazio ha emesso la sua sentenza, smontando le tesi difensive dell'Avvocatura. Il ministero aveva provato ad affermare che il documento richiesto dai ricorrenti fosse lo studio di Merler (poi depositato al Tar) e che, in pratica, Urbani e i giornalisti avessero solo fatto un po' di confusione. "Detto documento - aveva messo a verbale - non è un Piano pandemico approvato con atto formale", ne "un atto elaborato da una P.A., ne e detenuto dal Ministero". Il dicastero di Speranza ne sarebbe "venuto a conoscenza" solo il 12 febbraio, ma "non era ad esso diretto né è stato acquisito, essendo in possesso di un altro organo della Pa". In pratica: noi non ne sappiamo nulla, se lo volete bussate alla Presidenza del Consiglio. Peccato che lo studio Merler non sia il "piano segreto" citato da Urbani. Lo dicono le inchieste del Giornale.it e quanto contenuto nel Libro nero del coronavirus (leggi qui). Quello che i deputati vogliono è infatti il "Piano nazionale di emergenza" seguito dagli esperti nei momenti più bui dell'emergenza Covid. Per i giudici, visto che lo studio di Merler viene illustrato il 12 febbraio mentre il "piano segreto", Urbani dixit, era già pronto da metà di gennaio, il ministero non "può sostenere" che siano lo stesso documento. Deve esistere un altro "Piano", come "dichiarato in modo inequivocabile" da Urbani nell'intervista "mai smentita né dall'interessato né, tanto meno, dal ministero". Per i giudici è inoltre "irrilevante" se il "piano" non è mai "sfociato in un vero e proprio provvedimento applicativo": esiste, e va mostrato. Per questo il ministero lo dovrà trasmettere ai deputati entro 30 giorni. "Gli effetti di questa sentenza sono importantissimi - dice al Giornale.it Bignami - Intanto i giudici del Tar del Lazio dicono chiaro e tondo che il ministero ha di fatto mentito quando diceva che non c’era alcun piano di contrasto alla pandemia a gennaio. Il Piano c’era e risaliva a ben prima del paziente 1 e della prima zona rossa. Il governo consapevolmente lo ha nascosto e taciuto". Perché? "Le conseguenze di questa scelta sono state drammatiche - continua il deputato - Ad esempio le comunità locali, non avendo notizia di quel piano, hanno organizzato iniziative come "Bergamo non si ferma", "Milano non si ferma" e così via che hanno avuto un effetto amplificatore nella diffusione. Il tutto violando la regolamentazione sanitaria internazionale che impone invece piena trasparenza, quella che il Governo non ha avuto ed ora è certificato da una Sentenza. Adesso vogliamo vedere questo documento perché siamo certi che li scopriremo molte cose e capiremo perché il governo ne negava l’esistenza".

Francesco Borgonovo per “La Verità” il 22 gennaio 2021. Sono, lo sappiamo, giorni ricchi di anniversari. Ma c'è una ricorrenza che cade oggi e che non possiamo permetterci di ignorare. Esattamente un anno fa, il 22 gennaio del 2020, Roberto Speranza riuniva per la prima volta la celeberrima «task-force» anti Covid. Insomma, 12 mesi fa è ufficialmente iniziata la lotta all'epidemia che, malamente, stiamo conducendo ancora oggi, con i risultati che tutti abbiamo sotto gli occhi. Soltanto da poco, tuttavia, ha iniziato a venire a galla la verità riguardo alle misure che l'Italia avrebbe dovuto adottare per difendersi e invece non ha adottato. Su questi temi sta indagando la Procura di Bergamo, che ormai da qualche settimana sta sentendo esperti, tecnici e dirigenti del ministero della Salute per comprendere nel dettaglio che cosa sia andato storto e chi ne abbia la responsabilità. Le audizioni condotte dagli investigatori bergamaschi stanno di fatto confermando tutto ciò che il nostro giornale ha scritto nelle settimane passate riguardo il famigerato piano pandemico. Ricordate? Il nostro piano era fermo al 2006 e, nonostante ci sia stato ricordato più volte dalle organizzazioni sovranazionali, non è mai stato aggiornato, così siamo arrivati impreparati ad affrontare la pandemia. Che le cose stessero effettivamente così lo ha confermato lunedì alla Procura Giuseppe Ruocco, direttore generale del ministero della Salute. I pubblici ministeri lo hanno convocato e al termine dell'incontro la procuratrice aggiunta di Bergamo, Cristina Rota, ha fatto sapere alla stampa che «il piano in vigore era quello del 2006, almeno questo è ciò che ci è stato dichiarato». È un'affermazione non da poco, questa. Perché mette in grande difficoltà Ranieri Guerra, vicedirettore aggiunto dell'Oms e collaboratore del Cts. Quest'ultimo aveva fatto pressioni su Francesco Zambon, ricercatore dell'Oms, affinché scrivesse nel suo report sulla gestione italiana del Covid che il nostro piano era stato aggiornato nel 2016. Zambon, coraggiosamente, rifiutò di scrivere il falso e, misteriosamente, il suo report scomparve poche ore dopo essere stato pubblicato. Ora persino la Procura di Bergamo conferma che dal 2006 a oggi non abbiamo aggiornato un bel nulla. Eppure Ranieri Guerra è ancora al suo posto nel Cts, a decidere delle nostre vite. Ma c'è di più. L'agenzia Adnkronos ha riportato altre notizie trapelate dalle audizioni gestite dai pm bergamaschi. Si apprende che «non solo il piano pandemico è rimasto fermo al 2006, ma non è stato nemmeno attivato nonostante lo avesse esplicitamente indicato l'Oms, con l'alert del 5 gennaio dell'anno scorso». Dunque non avevamo un piano nuovo e non abbiamo usato nemmeno quello vecchio. È l'ennesima conferma di quanto scritto dalla Verità. Giorni fa abbiamo intervistato Claudio D'Amario, ex direttore generale della Prevenzione del ministero, che mercoledì è stato sentito in Procura. È stato lui a dirci che il piano pandemico vecchio non fu usato perché «nessuno ci aveva pensato». Per farla breve: siamo andati allo sbaraglio. Fermi, però, perché non è ancora finita. Proprio ieri è stato reso noto un nuovo report sulla gestione della pandemia realizzato dall'ex generale Pier Paolo Lunelli, ovvero l'uomo che per primo ha messo nero su bianco tutto ciò che non tornava riguardo al piano pandemico. La sua prima relazione, intitolata Analisi della pianificazione italiana per far fronte ad una pandemia e confronto con quella di altri Paesi metteva in evidenza «il mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale come indicatore di una insufficiente preparazione complessiva». Nel nuovo report si legge che «il risultato di quell'analisi rappresenta soltanto la parte emersa e visibile di un iceberg fatto di incuria, negligenza, noncuranza e grave imprevidenza da parte del dicastero della Salute, ma non solo». Sono parole spietate, a cui segue una puntuale documentazione. «I fatti», scrive Lunelli, «ci dicono che non è stato posto in essere lo sviluppo delle capacità indicate nell'Annesso 1 al Rsi, entrato in vigore nel 2007, attività che doveva essere completata entro il 2012». Vediamo di spiegare. Con Rsi si intende il Regolamento sanitario internazionale, ovvero «un documento giuridicamente vincolante» a cui oltre un centinaio di Stati a livello mondiale (tra cui l'Italia) hanno aderito nel 2007, impegnandosi a metterlo in pratica entro il 2012. In Svizzera, ad esempio, nel 2009 è iniziato un iter legislativo che nel 2012 ha portato alla «legge sulle epidemie», la quale stabilisce con precisione quali siano, in caso di emergenza, i compiti del governo e quelli dei singoli Cantoni. Noi, invece, non abbiamo fatto nulla di simile. Avremmo dovuto stanziare soldi per rispettare l'accordo firmato, ma non un euro è stato riservato alla questione epidemie. Vero, tra il 2008 e il 2011 c'è stata la crisi finanziaria globale, eravamo impegnati ad affrontare quella... Ma dopo? Scopo del Regolamento sanitario internazionale è quello di «garantire la massima sicurezza contro la diffusione internazionale delle malattie epidemiche, con la minima interferenza possibile sul commercio e sui movimenti internazionali». Oltre a non aggiornare il piano pandemico, quindi, abbiamo anche disatteso gli impegni presi a livello internazionale. Di tutto questo non è responsabile solo l'esecutivo giallorosso. Ma sul governo Conte ricade interamente almeno un altro fardello. Secondo il report di Lunelli, infatti, «nessuna puntuale analisi post-emergenza è stata condotta dopo la prima ondata, forse per celare al pubblico carenze e gravi responsabilità, spacciate per "alcuni errori o sbavature". Queste circostanze, assieme a tante altre illustrate in questa relazione, vanno a formare un castello di indizi e prove logiche che certificano la quasi totale impreparazione con la quale ci siamo trovati ad affrontare l'emergenza coronavirus, non soltanto sul versante dei piani pandemici, ma anche in quello delle sottostanti risorse materiali e umane e che dovevano essere attivate e opportunamente formate nel corso degli anni». Conclusione: «In Europa eravamo uno degli anelli deboli della catena difensiva e i risultati in termini di vittime, parlano da soli». Non abbiamo rispettato gli accordi, non avevamo un piano pandemico, non abbiamo nemmeno prodotto una analisi post-emergenza. Questi sono i termini del disastro. In compenso, il ministro Speranza e i suoi esperti ci hanno rifilato una marea di balle. Loro hanno mentito, noi continuiamo a farne le spese.

Un documento dimostra che l’Italia non era pronta alla pandemia. Notizie.it il 22/01/2021. L'Italia non avrebbe adempiuto agli obblighi contenuti nel Regolamento Sanitario Internazionale dell'Oms. L’ex generale dell’Esercito Pier Paolo Lunelli, in un documento che entrerà agli atti della causa civile dei familiari delle vittime contro il Governo e la Regione e nell’indagine della Procura di Bergamo, ha scritto che l’Italia “ha trascurato o peggio ignorato sino a quando era troppo tardi” di sviluppare le “8 capacità fondamentali per fronteggiare una pandemia“, come invece era obbligata a fare dal Regolamento sanitario internazionale dell’Oms.

L’Italia non pronta alla pandemia. Nell’articolo 13 del documento, entrato in vigore il 17 giugno 2007, si legge che “ogni Stato è obbligato a sviluppare, rafforzare e mantenere il prima possibile, ma non più tardi di 5 anni dall’entrata in vigore del presente Regolamento, la capacità di rispondere prontamente ed efficacemente ai rischi per sanità pubblica e alle emergenze sanitarie di interesse sopranazionale“. Lunelli, autore di protocolli per piani pandemici in diversi Stati europei ed ex responsabile della Scuola interforze per la difesa Nbc (struttura che forma il personale militare), ha sostenuto che “vi sono numerosi indizi” che hanno portato alla consapevolezza dell’inerzia italiana. Lunelli ha spiegato che dal 2007 avrebbero dovuto investire sull’efficienza sanitaria, sul dispositivo di sorveglianza e individuazione delle malattie infettive, sulle strutture ospedaliere e sul personale per la gestione di emergenze, in modo da essere pronti a gestire un’epidemia. Per 5 anni su 10 l’Italia non avrebbe risposto al questionario di autovalutazione proposto dall’Oms e queste prove, come ha spiegato Lunelli, rivelano che il Paese ha sovrastimato in maniera eccessiva le proprie capacità. L’Italia non avrebbe seguito le istruzioni emanate dal RSI e dall’Oms e non avrebbe tenuto presente la decisione del Parlamento europeo del 2013 e le linee guida dell’Oms. L’ex generale ha spiegato che tra le capacità non sviluppate c’è il coordinamento interministeriale nelle attività di preparazione e in quelle di emergenza. In Italia, nelle prime fasi, “ciascuna regione comunicava i dati in formato diverso e molti degli attori in gioco si muovevano per conto proprio senza condividere in maniera integrata le risorse per la crisi“. “Numerosi sono i segnali che portano a concludere che il ruolo decisivo della fondamentale capacità di un National Focal Point (NFP) di coordinamento sia stato disatteso fino al 2020” ha aggiunto Lunelli. Il nostro Paese non ha sviluppato le capacità di avere un piano pandemico aggiornato. “Il primo documento ufficiale che delinea scenari e rischi è stato pubblicato nell’autunno del 2020, dopo la prima ondata” è stato dichiarato. Secondo Lunelli l’Italia non era per niente pronta e proprio per questo è prima al mondo tra i Paesi più grandi, con un tasso di mortalità pari a 120 decessi ogni 100mila abitanti. Tra i Paesi piccoli è stata superata solo dal Belgio. “Non è un caso che Belgio, Spagna ed Italia avevano piani pandemici aggiornati al 2006” ha dichiarato il generale. L’eccesso di mortalità nel periodo febbraio-novembre, rispetto alla media dei cinque anni precedenti, come sottolineato da Lunelli “è pari a circa 84mila decessi, che sono ovviamente imputabili all’emergenza sanitaria nel suo complesso. Di questi, a fine novembre, soltanto 57.647 sono collegati alla patologia Covid. Gli ulteriori 26mila decessi sono quindi legati alle conseguenze indirette dell’emergenza sanitaria. Quasi il 50% in più. A breve l’Istat fornirà i dati di dicembre. Noteremo che l’eccesso di mortalità generato dall’emergenza sanitaria avrà toccato, se non superato, i 100mila”.

Piano pandemico: perquisizioni in tutta Italia, Gdf al ministero della Salute. Report Rai 14 gennaio 2021 ore 10:37. Questa mattina intorno alle 9:30 la Guardia di Finanza si è presentata presso gli uffici romani del Ministero della Salute a Trastevere e all'Eur su mandato della Procura di Bergamo per acquisire tutta la documentazione dal 2006 ad oggi sul mancato aggiornamento del piano pandemico e sulla sua applicazione all'inizio della prima ondata Covid-19. Risultano in corso accessi anche agli uffici di Claudio D'Amario, oggi al Dipartimento sanità abruzzese ma Direttore della Prevenzione nazionale a inizio epidemia, della ASST di Bergamo e in Regione Lombardia. Le ipotesi di reato sono epidemia colposa e falso.In concomitanza con le convocazioni in Procura di numerosi dirigenti del Ministero e dello stesso ministro Speranza, avvenute negli scorsi giorni, segnali di nervosismo circolavano a Lungotevere Ripa: alcuni osservatori hanno letto l'indicazione ministeriale del 2009 come prima data di aggiornamento del piano pandemico, trapelata con una bozza confidenziale, come un modo di scaricare le responsabilità su Ranieri Guerra, ex DG Prevenzione e oggi numero due dell'OMS. A sua volta Ranieri Guerra aveva detto all'AGI che il governo già nei primi mesi del 2020 aveva a disposizione un Piano anti-Covid, smentendo il CTS che aveva parlato di semplici scenari. Fonti interne raccontano di una frenetica attività durante le feste natalizie per redigere un nuovo piano pandemico. L'acquisizione di documenti interni e riservati potrebbe portare a una svolta nelle indagini e fare luce su quanto accaduto nelle prime settimane del 2020, inchiodando i responsabili di eventuali mancanze. Report tornerà sulla vicenda del piano pandemico e sulle contraddizioni dell'OMS nella puntata del 25 gennaio.

Il rapporto agli atti della Procura di Bergamo: il mancato aggiornamento del piano pandemico avrebbe causato 10.000 morti. Domenica 6 settembre alle 14:30 su Rai3 trasmetteremo in replica l'inchiesta "Disorganizzazione mondiale" di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella. Report Rai 04 settembre 2020.  Un piano pandemico "obsoleto e inadeguato" e che "non considera scenari e ipotesi di pianificazione" potrebbe aver contribuito a causare fino a 10.000 dei 35.000 morti di Covid-19 in Italia, secondo un rapporto redatto dal generale dell'esercito in pensione Pier Paolo Lunelli e acquisito dalla Procura di Bergamo, che sta indagando sulla gestione delle prime settimane di pandemia nella Val Seriana. Lo ha riportato lo scorso 13 agosto il quotidiano inglese The Guardian. Come mostrato da Report nella puntata del 18/05/2020, sul sito del ministero della Salute viene presentato come file "aggiornato al 15 dicembre 2016" un file pdf che, analizzando i metadati, risulta inequivocabilmente creato nel 2006. Lunelli confronta il piano italiano con quello del Regno Unito, che definisce "esemplare", ma rileva che Londra non è stato in grado di applicarlo adeguatamente: si è trovata indietro nell'approvvigionamento delle attrezzature indispensabili per affrontare la pandemia, a partire da mascherine e altri dispositivi di protezione per il personale sanitario e dei componenti chimici necessari ai test. 

Claudia Guasco per "Il Messaggero" il 19 gennaio 2021. Il Piano pandemico nazionale, stando alle linee guida dell'Oms, avrebbe dovuto essere aggiornato nel 2009, nel 2013 e nel 2018. Ma quando è scoppiata l'epidemia di Covid in Italia, risaliva a quattordici anni prima. «Il piano in vigore era quello del 2006, almeno questo è ciò che ci è stato dichiarato», afferma il procuratore aggiunto di Bergamo Cristina Rota uscendo dal palazzo di giustizia dove, per oltre sei ore, è stato ascoltato come persona informata sui fatti il segretario generale del ministero della Salute ed ex direttore generale della prevenzione Giuseppe Ruocco. Che nell'audizione ha messo a verbale: «Il Piano pandemico non è stato applicato». Affermazioni pesanti come pietre nell'inchiesta che punta a verificare se l'Italia e la Lombardia, regione più colpita dalla prima ondata di contagio, non solo fossero dotate di un piano pandemico aggiornato, ma anche se quello esistente, datato 2017 e che si ipotizza fosse un copia incolla del precedente del 2006, sia stato attuato mettendo in campo le misure previste e sia servito per contrastare il rischio pandemia lanciato il 5 gennaio di un anno fa dall'Oms. Se cioè siano stati attivati gli approvvigionamenti di dispositivi di protezione, se c'erano scorte di farmaci anti virali, quando sono scattati i controlli agli ingressi dei pronto soccorso e se sia stata effettuata la formazione del «personale medico-sanitario venuto a contatto con i positivi o presunti tali», si legge nell'ordine di esibizione atti negli uffici della Regione. «Ho contribuito a fare chiarezza. Ho risposto alle domande e ho dato tutte le informazioni in mio possesso», afferma Ruocco al termine della deposizione. Nella quale ha confermato che il piano in vigore nel 2020 risaliva al 2006 e benché mai rivisto, nonostante tra il 2009 e il 2010 si sia abbattuta l'influenza suina e nel 2014 la Mers-CoV, non è stato nemmeno applicato. «Per le nostre indagini è importante capire fino a che punto ci sia stata una reazione adeguata su rischi epidemici conclamati», spiega il procuratore capo di Bergamo Antonio Chiappani. E Ruocco ha un ruolo chiave: il suo primo ruolo amministrativo di vertice all'interno del ministero della Salute risale al 2008, da quel momento si sono susseguiti altri sette governi e tutti hanno rinnovato la fiducia nel suo operato assegnandogli nuovi incarichi. Dal 2012 al 2014 è direttore generale della Prevenzione e proprio nel 2013 l'Oms ha redatto le nuove linee guida epidemiche, passando da sei a quattro fasi di allerta pandemia. «Le linee guida dell'Oms e i conseguenti aggiornamenti dei piani pandemici non sono vincolanti, ma un delibera del Parlamento europeo del 2013 li rende obbligatori», sottolinea Antonio Chiappani. Obiettivo dei pm è stabilire l'eventuale nesso causale tra l'obbligo di aggiornare il piano pandemico - e i relativi rilievi penali - con gli oltre 26 mila morti in Lombardia e 3.340 nella bergamasca a causa del Covid. L'attuazione del programma avrebbe evitato la strage? «Il piano del 2006 era antinfluenzale e antivirale, ma almeno nella parte iniziale poteva funzionare», riflette Chiappani. Su questo punto, tra una quarantina di giorni, depositerà la sua relazione il virologo Andrea Crisanti, consulente della Procura. Dopo di che, una volta chiarito il quadro, questo filone di indagine verrebbe trasmesso a Roma per competenza. La relazione di Crisanti dovrà fare luce anche sulla mancata zona rossa nella bassa Val Seriana e sulla ritardata chiusura dell'ospedale di Alzano: se l'azione fosse stata tempestiva, quante vite si sarebbero salvate? E per prima cosa è fondamentale capire se ci sia stato o meno un piano pandemico nazionale e regionale. Al momento sono indagati per epidemia colposa l'ex dg del Welfare lombardo Luigi Cajazzo, l'allora suo vice Marco Salmoiraghi, la dirigente Aida Andreassi, oltre a Francesco Locati e Roberto Cosentina, il primo dg e il secondo ex direttore sanitario dell'Asst Bergamo Est.

Da rai.it/programmi/report il 9 aprile 2021.Report può rivelare che Ranieri Guerra, numero due dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e in passato direttore generale  prevenzione al ministero della Salute, è indagato a Bergamo per aver fornito informazioni false al procuratore quando è stato convocato come persona informata dei fatti nell'ambito dell'inchiesta sul piano pandemico e l'epidemia nella bergamasca. #Report tornerà a mostrare le contraddizioni dell'Oms, con nuovi esclusivi documenti che imbarazzano il dg Tedros, in un'inchiesta in onda lunedì 12 aprile in prima serata su Rai3.

Oms "ingannata" sul piano pandemico. Le bugie dell’Italia all’Oms: il Guardian accusa il governo di aver mentito sulla gestione della pandemia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Il governo italiano avrebbe “ingannato” l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, in merito alla sua preparazione nell’affrontare una pandemia soltanto tre settimane prima del primo caso coronavirus "ufficiale" nel Paese. È quanto sostiene il quotidiano britannico Guardian, che cita a sostegno di questa tesi il rapporto di autovalutazione, datato 4 febbraio 2020, nel quale l’Italia si qualificava invece nel livello più alto, il cinque. Il giornale tira in ballo in particolare il Ministero della Salute guidato da Roberto Speranza, confermata anche nell’esecutivo a guida Mario Draghi. Proprio quel rapporto di autovalutazione, inviato all’Oms dall’allora direttore generale della Prevenzione del Ministero della Salute Claudio D’Amario, è finito ieri nelle mani del pm di Bergamo, titolare dell’inchiesta sulla gestione della crisi del coronavirus che nei mesi scorsi hanno sentito l’ex premier Giuseppe Conte, i ministri della Salute Roberto Speranza e dell’Interno Luciana Lamorgese, e il governatore lombardo Attilio Fontana. Nel rapporto italiano veniva riportato che “il meccanismo di risposta alle emergenze nel settore sanitario e il sistema di gestione degli incidenti collegato a un centro operativo nazionale sono stati testati e aggiornati regolarmente”. Una circostanza ormai notoriamente non corretta: da tempo è emerso che l’Italia non aveva aggiornato il suo piano pandemico nazionale dal 2006. Un fatto questo che, come sottolinea il Guardian, “potrebbe aver contribuito ad almeno 10.000 morti per Covid-19 durante la prima ondata”. Il mancato aggiornamento del piano pandemico è anche uno dei punti cardine dell’inchiesta di Bergamo: l’Italia sarebbe stata obbligata ad aggiornarlo, seguendo le linee guida dell’Oms, sia nel 2013 che nel 2018. Quanto invece al rapporto di autovalutazione, in Paesi vincolati dal Regolamento sanitario internazionale, un trattato internazionale per combattere la diffusione globale delle malattie, sono tenuti a presentarlo all’Organizzazione mondiale della sanità ogni anno per informare sul proprio stato di preparazione di fronte ad una eventuale pandemia.

L'inchiesta giudiziaria sulla pandemia. Ranieri Guerra indagato a Bergamo: il numero due dell’Oms nei guai per “false informazioni” ai pm sul piano pandemico. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Aprile 2021. Il direttore vicario dell’Organizzazione mondiale della salute Ranieri Guerra, numero due di Tedros Adhanom, è indagato dalla procura di Bergamo nell’ambito dell’inchiesta sull’applicazione del piano pandemico nazionale dopo l’allarme sul rischio pandemia globale lanciato dalla stessa Organizzazione Mondiale della Sanità il 5 gennaio 2020. All’ex generale del Dipartimento prevenzione del Ministero della Salute viene contestato dai magistrati diretti dal procuratore Antonio Chiappani il reato di falsa informazione ai pm. Guerra venne ascoltato il 5 novembre scorso come persona informata dei fatti dopo l’inchiesta sull’aggiornamento del piano pandemico nazionale: il piano, secondo quanto ricostruito dai pm bergamaschi e da numerose indagini dei media, risaliva al 2006 e non fu aggiornato come previsto, col Ministero che si limitò ad una operazione di ‘copia e incolla’ del documento precedente. Guerre avrebbe riferito che il piano non andavano aggiornato perchè non c’erano state “variazioni epidemiologiche» o “indicazioni da parte dell’Oms di variazione del piano”. Per la procura bergamasca però nel frattempo erano sopraggiunte due nuove linee guida dell’Oms, nel 2013 e nel 2017, oltre ai casi di l’influenza suina A(H1N1) nel 2009 e la Mers nel 2012. Guerra in quell’occasione di fronte al pool di magistrati di Bergamo disse inoltre di non aver mai esercitato pressioni per far eliminare dal sito dell’Oms lo studio effettuato dai ricercato dell’organizzazione di stanza a Venezia che definiva “improvvisata e caotica” la gestione della pandemia in Italia, sottolineando appunto il mancato aggiornamento del piano pandemico, fermo al 2006. Secondo la Procura invece Guerra aveva interessi personale nel ‘cassare’ lo studio condotto dai ricercatori dell’ufficio di Venezia, diretti da Francesco Zambon, che alla trasmissione Report e poi ai ai magistrati ha rivelato delle pressioni, anche via mail, subite da Guerra. Il direttore vicario dell’Oms avrebbe agito per salvaguardare i rapporti tra l’Organizzazione mondiale della sanità e l’Italia. Sul “punto c’è stretto riserbo”, si è limitato a commentare all’agenzia Agi il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani. Guerra invece si è detto “amareggiato e stupito” per l’indagine nei suoi confronti per false informazioni. “Ho sempre dato la massima disponibilità e una completa informazione sulle mie conoscenze. Forse alcune informazioni sono un po’ tecniche e non sono state comprese o andranno spiegate meglio”, ha aggiunto all’AdnKronos. “E’ stata chiesta una rogatoria all’Oms di cui non conosco i contenuti – ha aggiunto Guerra all’agenzia – quando sarà chiamato dai magistrati risponderò”.

Francesco Gentile per “il Messaggero” il 10 aprile 2021. «False informazioni ai pm». La Procura di Bergamo non scherza nell' indagine sulla mancata zona rossa e iscrive sul registro degli indagati Ranieri Guerra, vicedirettore generale dell' Oms per le iniziative strategiche, fisico di formazione con un passato da dirigente del ministero della Sanità. In un lungo interrogatorio del 5 novembre scorso, di fronte ai magistrati bergamaschi che indagano per epidemia colposa, il funzionario dichiarò di non aver mai esercitato pressioni sui sottoposti per far eliminare le critiche alla gestione italiana della pandemia e all' assenza di un piano d' emergenza adeguato. Come emerso da alcune puntate della trasmissione di Rai 3 Report e ricostruito dalla procura però diverse email dimostrerebbero il contrario. Un ruolo chiave nell' indagine ha avuto la testimonianza di Francesco Zambon dell' ufficio Oms di Venezia, che avrebbe ricevuto pressioni da Guerra in tal senso. In particolare, l' 11 maggio come referente di uno studio sull' Italia approvato dalla sede di Copenaghen e in attesa del via libero da Ginevra avrebbe ricevuto un' email dal suo superiore per modificare il riferimento al piano pandemico non aggiornato. Il giorno dopo la ricerca apparve sul sito europeo dell' Oms per poco tempo prima di venire cancellata per sempre. La tesi dei magistrati è che il vicedirettore con base a Ginevra con la sua censura volesse salvaguardare i rapporti tra l' istituto dell' Onu e l' Italia nonché proteggere se stesso e i suoi ex colleghi del ministero della Sanità, dove aveva ricoperto il ruolo di responsabile della prevenzione dal 2014 al 2017. L' assenza di un piano d' emergenza aggiornato non solo avrebbe messo in imbarazzo il governo italiano, dal ministro Speranza ai massimi dirigenti sanitari, ma sarebbe stata anche colpa sua. «Mi auguro che l' Oms possa rispondere con tutti i dettagli, le spiegazioni e i chiarimenti necessari, dato che la mia posizione è cristallina nonostante le insinuazioni di alcuni - fa sapere Guerra appena ricevuta la notizia di essere indagato -. Sono veramente stupito e profondamente amareggiato. Io ho dichiarato ai pm tutto quello che sapevo a quel momento, in totale buonafede. Ho capito a seguire di non avere avuto accesso a molte informazioni, ma credo che questo i pm lo abbiano bene valutato. Non so neppure quali siano queste presunte contraddizioni che possano avere identificato, dato che non ho avuto accesso ai quesiti da loro posti all' Oms. Da tempo tramite i miei legali ho in ogni caso confermato ai pm la mia piena disponibilità a fornire ogni ulteriore dettaglio ritengano necessario di cui io sia a conoscenza. Sono stato e sono in assoluta buonafede e mi meraviglia che i pm abbiano un' impressione diversa».

LE REAZIONI. E se Guerra non rinuncia al suo stupore i famigliari delle vittime esprimono soddisfazione per l' andamento delle indagini, cui fa da consulente anche il virologo Andrea Crisanti: «Avanti così, si trovino tutti i responsabili - fa il tifo l' avvocato Consuelo Locati, a capo dei legali delle parti lese -. Siamo molto contenti, è la conferma che i pm stanno indagando in modo approfondito e il coronamento del lavoro che stiamo facendo in questi mesi. Ora ci aspettiamo che vengano individuati altri responsabili». Secondo l' avvocato Locati Guerra sarebbe stato indagato in relazione «al questionario sulle autovalutazioni dell' Italia non mandato alla Ue e sul mancato aggiornamento del piano pandemico».

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 10 aprile 2021. I nodi stanno finalmente cominciando a venire al pettine. La rivelazione è arrivata ieri da Report: «Ranieri Guerra, numero due dell' Organizzazione Mondiale della Sanità e in passato direttore generale prevenzione al ministero della Salute, è indagato a Bergamo per aver fornito informazioni false al procuratore quando è stato convocato come persona informata dei fatti nell' ambito dell' inchiesta sul piano pandemico e l' epidemia nella bergamasca». Per chi non lo ricordasse, Ranieri Guerra è uno degli uomini che più hanno influito sulla gestione italiana dell'emergenza Covid, direttamente e indirettamente. Una azione diretta il nostro l' ha esercitata come inviato dell' Oms in Italia e come consulente a disposizione del primo Comitato tecnico scientifico creato dal ministro Roberto Speranza. L' azione che possiamo definire «indiretta», invece, deriva dal passato di Guerra al ministero della Salute. Egli è stato direttore generale per la Prevenzione presso il ministero tra il 2014 e il 2017, ovvero nel periodo in cui l'Italia avrebbe dovuto aggiornare il piano pandemico, che era fermo al 2006 (la mancata applicazione del piano avrebbe causato, secondo alcuni esperti, almeno 10.000 morti). Che la situazione fosse questa ormai è acclarato, ma il primo documento autorevole a mettere tutto nero su bianco fu un report realizzato da Francesco Zambon, ricercatore dell' Oms oggi dimissionario. Il testo fu pubblicato sul sito ufficiale dell' Oms, subito ritirato e mai più ripubblicato. Motivo per cui, qualche settimana fa, Zambon ha lasciato l' incarico. Come noto, quando Guerra vide quello studio circa un anno fa, fece di tutto affinché fossero modificate le parti che in qualche modo lo riguardavano, specie quelle in cui si faceva cenno al piano pandemico non aggiornato. «Devi correggere subito», scriveva Guerra a Zambon via email. «Non fatemi casino su questo. Non possiamo essere suicidi. Adesso blocco tutto. Così non può uscire. Evitate cazzate. Grazie e scusa il tono». E ancora: «Uno degli atout di Speranza è stato sempre il poter riferirsi a Oms come consapevole foglia (figlia nell' originale, ndr) di fico per certe decisioni impopolari e criticate. Se anche Oms si mette in veste critica non concordata con la sensibilità politica del ministro non credo che facciamo un buon servizio al Paese. Ricordati che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza». Zambon si rivolse ai vertici dell' Oms per denunciare le pressioni subite, ma l'organizzazione non prese provvedimenti. Anzi, di fatto si schierò dalla parte di Guerra, sposando la sua versione dei fatti. Dall' Oms dissero che il report di Zambon conteneva errori (cosa poi smentita) e che il governo italiano non aveva fatto pressioni affinché fosse censurato. Di più: a Francesco Zambon fu proibito non solo di parlare con la stampa, ma pure con la Procura di Bergamo. Fu il ricercatore, con un incredibile atto di coraggio, a recarsi autonomamente dagli investigatori. Guerra, nel mentre, continuava a rilasciare interviste difensive a tutti i quotidiani, ed era già sentito dalla Procura, la stessa che ora lo indaga. Secondo l'agenzia Ap, gli investigatori sono in possesso di una robusta documentazione che include alcune chat di Whatsapp tra Guerra e Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità e attuale portavoce del Comitato tecnico scientifico. In una di queste chat, datata 14 maggio 2020, Guerra scrive a Brusaferro: «Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia (Zambon e colleghi, ndr). Ho mandato scuse profuse al ministro. Alla fine sono andato da Tedros (capo dell' Oms, ndr) e ho fatto ritirare il rapporto». Brusaferro risponde: «Molte grazie». Saputa la notizia dell' indagine, l' interessato non ha perso tempo ed è corso a difendersi a mezzo stampa: «Mi auguro che l' Oms possa rispondere con tutti i dettagli, le spiegazioni e i chiarimenti necessari, dato che la mia posizione è cristallina nonostante le insinuazioni di alcuni», ha detto. «Sono veramente stupito e profondamente amareggiato. Io ho dichiarato ai pm tutto quello che sapevo a quel momento, in totale buonafede. Ho capito a seguire di non avere avuto accesso a molte informazioni, ma credo che questo i pm lo abbiano bene valutato. Non so neppure quali siano queste presunte contraddizioni che possano avere identificato, dato che non ho avuto accesso ai quesiti da loro posti all' Oms. Da tempo tramite i miei legali ho in ogni caso confermato ai pm la mia piena disponibilità a fornire ogni ulteriore dettaglio ritengano necessario di cui io sia a conoscenza. Sono stato e sono in assoluta buonafede e mi meraviglia che i pm abbiano un' impressione diversa». In realtà, lo stupito Ranieri, non ha sempre fornito (almeno ai media) la stessa versione dei fatti. Con il passare del tempo ha dovuto ammettere che l' Italia non aveva mai aggiornato il piano pandemico anche se avrebbe dovuto farlo già 2013. Ha detto di non aver avuto il tempo di cambiare il piano fra il 2014 e il 2017, quando era a capo della Prevenzione del ministero. E ha aggiunto di aver allertato sul tema, nel 2017, l' allora ministro Beatrice Lorenzin, inviandole un appunto (una paginetta o poco più, anche questa poi esibita da Report). Insomma, ha cercato in ogni modo di scaricare il barile, ma allo stesso tempo si è smascherato, confermando di non aver lavorato per modificare lo scudo anti pandemia (cosa che invece avrebbe dovuto fare). Il fatto che adesso egli venga indagato per aver fornito alla Procura false informazioni, dunque, conferma quel che già da tempo sapevamo: Guerra non ce la raccontava giusta. Il problema vero, tuttavia, non riguarda tanto i guai giudiziari del vicedirettore dell' Oms: se la vedrà lui con la Procura. No, il problema principale riguarda chi in tutti questi mesi lo ha difeso. In primis l' Organizzazione mondiale della sanità, che con il caso Zambon e la censura del report sull' Italia si è screditata oltre ogni limite. Poi, ovviamente, Roberto Speranza. Con incredibile faccia tosta, il ministro della Salute non ha mai proferito verbo su Zambon, Guerra e la storia del piano pandemico. Tutti i giornali del mondo ne parlavano, il Guardian arrivò a scrivere che il dirigente dell' Oms si era in qualche modo accordato col governo giallorosso per censurare il report sgradito sull' Italia. Ma Speranza restava zitto. L' unica volta in cui prese la parola per rispondere, intervistato da Bruno Vespa, liquidò il tutto con una risatina. Ora, può anche darsi che Speranza non abbia chiesto alcuna censura e che si sia trattato di una iniziativa personale di Guerra. Resta il fatto che il ministro non solo non ha fornito alcune spiegazione agli italiani su quanto accaduto, ma ha continuato a difendere l' Oms e a tenersi Guerra come riferimento per il Cts. Le chat mostrate da Report mettono Speranza in una posizione difficilissima. Delle due, infatti, l' una: o Guerra e Brusaferro, entrambi voluti dal ministro e in costante contatto con lui nei mesi più drammatici, hanno discusso del report senza neppure informarlo (il che sarebbe grave), oppure anche lui sapeva (e sarebbe ancora più grave). Guerra è indagato, ma di certo non può essere l' unico a pagare professionalmente e politicamente per gli errori e le falsità che tutti noi abbiamo dovuto subire. Spetta alla magistratura fare chiarezza, sicuro. Ma è ora che anche Speranza risponda per filo e per segno a tutte le domande che, finora, ha evitato come la peste.

Ecco le carte che inchiodano Guerra e il ministro Speranza. L'inchiesta sul report dell'Oms scomparso. Guerra incontrò l'uomo di Speranza: "Se non ne parlano, vuole farlo morire". Giuseppe De Lorenzo - Dom, 11/04/2021 - su Il Giornale. Otto pagine che suonano più come atto di accusa che come una banale requisitoria. Nella richiesta di informazioni spedita dalla Procura di Bergamo all’Oms sono scritti nero su bianco non solo gli addebiti che i pm ascrivono a Ranieri Guerra, indagato per falsa dichiarazione. Ma anche le manovre degli uffici di Roberto Speranza per far cadere nell’oblio il report dell’Oms che smascherava la pessima risposta italiana al coronavirus. La richiesta di assistenza giudiziaria è datata 8 marzo 2021 ed è firmata dai procuratori che stanno seguendo la pratica, Antonio Chiappani e Maria Cristina Rota. I due pm ritengono che Guerra, dopo essere stato sentito come persona informata sui fatti lo scorso novembre, abbia detto una sfilza di sonore bugie.

Le accuse dei pm.

Primo: aver assicurato che il piano pandemico italiano, realizzato nel 2006, non doveva essere aggiornato "perché non ci sono state variazioni sostanziali epidemiologiche, tantomeno indicazioni da parte dell’Oms di variazione del piano”, e che “sino a quando sono stato direttore generale il piano è stato rivisto annualmente e confermato in validità”. Ai pm, invece, risulta tutt’altro: intanto nel 2009 e nel 2012 ci sono state due pandemie (suina e Mers) che “hanno cambiato il quadro epidemiologico”. Inoltre avremmo dovuto aggiornalo nel 2013 e 2017 sulla base delle nuove linee guida dell’Oms e dell’Ue.

Seconda presunta menzogna: Guerra ai pm ha riferito che, poco prima di lasciare il suo ruolo al ministero, aveva lasciato detto al ministro Lorenzin di aver saputo che erano cambiate le classificazioni delle fasi della pandemia e che dunque “vi era chiaramente necessità di adeguare il piano del 2006”. Per i pm, però, “la classificazione delle fasi era stata modificata dalle linee guida del 2013, poi confermate nel 2017”.

La terza supposta fandonia riguarda invece il report “An unprecedented challenge Italy’s first response to Covid 19”, cioè il documento dell’Oms firmato da alcuni ricercatori veneziani guidati da Francesco Zambon e misteriosamente scomparso 24 ore dopo la sua pubblicazione. In quelle pagine, va ricordato, non solo si rivelava il mancato aggiornamento del piano pandemico. Ma veniva anche messa a nudo la maldestra risposta italiana, definita “caotica, improvvisata e creativa”.

Guerra ai pm ha detto che Zambon lo aveva informato “intorno all’11 maggio 2020 che non era ancora pervenuta l’approvazione del report già predisposto”, quando ai magistrati risulta che “sia stato approvato” il 7 e l’8 maggio dagli uffici di Copenhagen e l’11 maggio addirittura da Ginevra, sede dell’Oms. Non solo. Incongruenze la procura ne ha trovate anche sulla conoscenza o meno, da parte di Zambon, di un “piano per far fronte alla pandemia risalente al febbrario 2020” che “ancorché non divulgato, si sapeva tuttavia che esistesse”. In realtà, come noto, il “piano segreto” rimase tale almeno fino a poche settimane fa, quando è stato ufficialmente pubblicato sul sito istituzionale.

Il rapporto Oms-Iss-ministero. Ma la parte più importante, e politicamente succulenta della rogatoria riguarda le manovre sull’asse Oms-Iss-ministero della Salute per affossare il report considerato “scomodo”. In alcune mail a Zambon, infatti, Guerra lo invita a cercare la “benedizione” di Speranza sull’indice del report (ma l’Oms non dovrebbe essere apolitica?). Benedizione che non pare essere mai arrivata, almeno stando a quanto contenuto in un'altra chat tra Zambon e Silvio Brusaferro. Il giorno dopo della pubblicazione del report, il 14 maggio del 2020, il ricercatore di Venezia scrive al presidente dell’Iss un sms che fa trapelare tutta la sua preoccupazione per l’irritazione che il documento deve aver procurato ai piani alti di viale Lungotevere Ripa 1. “Ti puoi immaginare che non volevo certo creare problemi al mio paese”, digita Zambon. E in fondo è lo stesso Guerra ai confermare ai pm “il disappunto” che manifestò il ministro per “la pubblicazione del report senza una preventiva comunicazione alle autorità italiane”. Stando alle dichiarazioni del direttore aggiunto dell’Oms, Speranza lo avrebbe addirittura contattato “dolendosi del fatto che nessuno della Sanità italiana era stato contattato”. A quel punto Guerra si sarebbe mobilitato telefonando a Kluge, responsabile regionale dell’Oms, per ottenere la rimozione del documento.

Chi ha fatto ritirare il report? È proprio questa la conclusione cui sono arrivati i magistrati: il ritiro del dossier (che scompare il 14 maggio stesso) non avvenne per le mancate validazioni ottenute o per esclusiva volontà dell’ufficio competente dell’Oms, ma perché Guerra si sarebbe “adoperato personalmente alla rimozione dal sito”. La convinzione emerge dalla lettura degli sms che si sono scambiati nel tempo il direttore aggiunto dell'Oms e Brusaferro. Alle 15.42 del 14 maggio, Guerra scrive: “Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia. Ho mandato scuse profuse al ministro e ti ho messo in cc di alcune comunicazioni. Alla fine sono andato su Tedros (capo dell’Oms, ndr) e fatto ritirare il documento. Sto ora verificando il paio di siti laterali e social media dove potrebbe essere ancora accessibile per chiudere tutti i canali. La ritengo comunque una cosa schifosa di cui non si sentiva la mancanza. Spero anche di far cadere un paio di incorreggibili teste”. Brusaferro subito dopo ringrazia, contento di aver quasi risolto una “situazione critica”. Guerra invece è disperato perché teme che la pubblicazione abbia “messo in dubbio” la fiducia tra l’Oms e il governo italiano, addirittura la "relazione speciale tra Tedros e l’Italia”. Relazione che, come già emerso, pare prevedesse che l’Oms facesse da “consapevole foglia di fico” del governo e che il Belpaese assicurasse 10 milioni di euro di finanziamento “dopo sei anni di zero”. “Se fossi il ministro - scrive Guerra a Brusaferro - ci manderei tutti all’inferno”. Il “maledetto rapporto” scritto dagli “scemi di Venezia”, a dire il vero, Guerra e Brusaferro avrebbero voluto riscriverlo. Se “riletto, emendato e digerito assieme”, infatti, forse poteva anche essere ripubblicato. Viene allora da chiedersi: possibile che un lavoro scientifico di un istituto internazionale indipendente debba avere l’autorizzazione del governo? Se lo avesse fatto un Paese africano, magari guidato da un dittatore, come avremmo reagito?

Il ruolo degli uffici di Speranza. Direte: a parte la preoccupazione, l’irritazione e via dicendo, che c’entra Speranza in tutto questo? C’entra. Perché il 18 maggio Guerra riscrive a Brusaferro per informarlo che alle 19 avrebbe “visto Zaccardi”, cioè Goffredo Zaccardi, capo di Gabinetto del ministro Speranza. Non un collaboratore qualsiasi, insomma. Ma il suo braccio destro. “Vuoi che inizia a parlargli dell’ipotesi di revisione del rapporto dei somarelli di Venezia?”, chiede Guerra. Brusaferro ovviamente è d’accordo. E così poche ore dopo, alle 20.35, il direttore aggiunto dell’Oms riporta il desiderio dell’ufficio di Speranza: “Cdg (il capo di gabinetto, cioè Zaccardi, ndr) dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla. Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme. Sic”. Non solo. Perché il 28 maggio Guerra tira in ballo lo stesso ministro. Nella solita chat con Brusaferro, scrive: “Ecco quanto emerso dalla riunione di ieri con Zaccardi e Speranza a seguire. Se mi dai un paio di persone con cui interagire attacchiamo su tutti i fronti, soprattutto primariamente sul rapporto”. L’accordo con il ministero era quello di affiancare al team di Venezia alcune persone dell’Iss e del ministero per “ridefinire il progetto” in modo da renderla una “pubblicazione condivisa”. Forse ora Speranza dovrà fornire alcune spiegazioni. Una su tutte: il suo ufficio ha davvero cercato di insabbiare un report indipendente per coprire la mancanze del governo Conte II?

Francesco Borgonovo per “La Verità” l'11 aprile 2021. È il 14 maggio del 2020. Da una decina di giorni, gli italiani tentano faticosamente di riconquistare una parvenza di normalità. Il primo lockdown si è appena concluso, ma ancora non si può circolare liberamente sul territorio nazionale. Dal 4 maggio è di nuovo possibile andare al parco e far visita a conoscenti e parenti all'interno del territorio regionale, bar e ristoranti sono ancora chiusi. Alle 15.42, Ranieri Guerra, direttore vicario dell'Organizzazione mondiale della sanità, contatta Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità e membro del Comitato tecnico scientifico. Argomento della conversazione via chat è il report realizzato da un gruppo di studiosi dell'Oms con base a Venezia, capeggiati da Francesco Zambon. Costoro hanno prodotto un documento in cui si esamina la gestione italiana del Covid, che viene definita «caotica e creativa». Parole che potrebbero imbarazzare il governo giallorosso. Soprattutto, nel report viene messa nero su bianco una verità spiacevole: gli studiosi specificano che l'Italia è arrivata a fronteggiare l'emergenza Covid senza un piano pandemico aggiornato. Quello in vigore è vecchio, risalente al 2006. Sarebbe stato necessario (e obbligatorio) aggiornarlo per lo meno nel 2013, ma non è stato fatto. Chi avrebbe dovuto occuparsi dell'aggiornamento? Il ministero della Salute. E chi era a capo del dipartimento Prevenzione del ministero in quel periodo? Ranieri Guerra. Ecco un altro motivo di imbarazzo, che fa irritare parecchio il numero 2 dell'Oms. Il quale ce la mette tutta per far sì che il report di Zambon e soci venga tolto di mezzo. Guerra, nel maggio 2020, si trova a Roma. L'ha inviato lì l'Oms per dare supporto al governo italiano e Roberto Speranza lo ha voluto come consulente del Cts. Dunque è sacrosanto che Guerra e il collega Brusaferro si sentano. Più discutibile è ciò che si dicono.

Guerra: «Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia. Ho mandato scuse profuse al ministro e ti ho messo in cc di alcune comunicazioni. Alla fine sono andato su Tedros (direttore generale dell'Oms, ndr) e fatto ritirare il documento. Sto ora verificando il paio di siti laterali e di social media dove potrebbe essere ancora accessibile per chiudere tutti i canali. La ritengo comunque una cosa schifosa di cui non si sentiva la mancanza. Spero anche di far cadere un paio di incorreggibili teste. Grazie».

Brusaferro: «Grazie molte. Io sono inesperto ma mi pare che sia proprio una situazione critica».

Guerra: «Hanno fatto una sciocchezza. Gli è stato detto in tutti i modi. Hanno bypassato il percorso autorizzativo per uscire con un rapporto e mettere una firma».

Poco dopo, sempre scrivendo a Brusaferro, Guerra rincara la dose su Zambon e soci.

Guerra: «Hanno messo in dubbio un percorso di costruzione di fiducia e confidenza che sono riuscito con la fatica che sai a proporre e consolidare: ci ho messo la faccia e molto di altro in un ambiente fatto non solo da amici. In più, stiamo mettendo a rischio una discussione molto seria che è stata impostata anche in prospettiva di G20 e di una relazione speciale tra Tedros e l'Italia. Se fossi il ministro manderei tutti all'inferno...».

Passano alcuni giorni, arriviamo al 17 maggio 2020. Alle 20.49, Guerra e Brusaferro tornano a parlarsi. Si confrontano su un «sistema di indicatori» proposto da Speranza riguardo alla pandemia, ma poi tornano sul solito tema: il report censurato.

Guerra: «[...] Dovremmo anche vedere cosa fare coi miei scemi di Venezia. Come sai ho fatto ritirare quel maledetto rapporto, ma è stato fatto un lavoro che riletto, emendato e digerito assieme potrebbe avere un senso. Grazie e buona serata».

Brusaferro: «[...] Su testo Oms Ginevra sono anche d'accordo di rivederlo assieme. Domani ne parliamo. Intanto buona serata. Silvio».

Ed eccoci al 18 maggio 2020. In Italia stanno riaprendo bar e ristoranti. Si vede la fine del tunnel, e dovrebbe essere il momento di cominciare a tracciare un bilancio della prima ondata. Ma l'unico documento che un bilancio lo fa - quello di Zambon e soci - è ancora fonte di imbarazzo per Guerra e non solo. Alle 17.30, Guerra scrive a Brusaferro.

Guerra: «Hola vedo Zaccardi (Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro Speranza, ndr) alle 19.00, vuoi che inizi a parlargli dell'ipotesi di revisione del rapporto dei somarelli di Venezia? Poi ci mettiamo d'accordo su come?».

Brusaferro: «Certo va bene». 

Finito l'incontro con Zaccardi, Guerra si rifà vivo con Brusaferro e gli parla di nuovo del report.

Guerra: «Cdg (il capo di gabinetto, cioè Zaccardi, ndr) dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla. Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo assieme. Sic».

Il report imbarazzante deve cadere nel nulla, e se proprio non si riesce a farlo sparire bisogna modificarlo e renderlo presentabile. Chi lo dice? Il capo di gabinetto di Roberto Speranza a Ranieri Guerra. Più chiaro di così...

I pm accerchiano Speranza e Guerra. Ecco i quesiti spediti all'Oms. La rogatoria all'Oms: "Chi interloquiva con il ministro?". I timori di Zambon per l'incidente diplomatico dopo la pubblicazione del report scomparso. Giuseppe De Lorenzo - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. Cosa stia facendo la procura di Bergamo è ormai cosa nota: capire cioè se vi siano “condotte costitutive di reato” nell’ambito “della gestione delle prime fasi dell’emergenza pandemica” da Covid-19. L’indagine è “articolata”, come ammettono i pm. E nelle ultime ore si è arricchita di almeno due passaggi fondamentali: da una parte l’iscrizione tra gli indagati di Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms; dall’altra la richiesta spedita dalla Procura all’organizzazione di Ginevra per ottenere “assistenza giudiziarie” e provare a far luce sulle tante ombre che ancora compongono il puzzle pandemico. Dalla rogatoria, come rivelato ieri dal Giornale.it, emergono le presunte trame sull’asse Iss-Oms-ministero della Salute per insabbiare lo “scomodo” report di Francesco Zambon sulla risposta “caotica, creativa e improvvisata” dell’Italia al virus. E si allunga un’ombra sul ruolo svolto dal Capo di Gabinetto di Roberto Speranza, che - stando a quanto scritto in alcune chat - avrebbe incontrato Guerra chiedendo di “far cadere nel nulla” il dossier. Ma i magistrati dall’Oms vogliono qualcosa in più. Vogliono far chiarezza “sull’adozione, l’aggiornamento e l’efficace implementazione” del piano pandemico italiano. Vogliono “approfondire” gli “aspetti relativi alle comunicazioni italiane sull’aggiornamento” del piano, sui “questionari di autovalutazione” delle capacità fondamentali per fronteggiare l’emergenza (che negli anni l’Italia non inviò o inviò auto-celebrandosi). E ovviamente intendono capire come si sia svolta “la procedura di approvazione” e di “gestione” del report scomparso dell’Oms. Per questo, nella rogatoria, i pm fanno un lungo elenco di 7 precise domande cui sperano di trovare risposta. Questione non scontata. Il 3 novembre, infatti, l’Oms ha inviato una nota al ministero degli Esteri per “ribadire” che l’Organizzazione e i suoi funzionari godono dell’immunità diplomatica. Dunque non possono essere chiamati a rispondere di fronte ai giudici. Tuttavia l’Oms si era anche resa disponibile “a rispondere a domande su questioni tecniche”, ed è questa apertura che i pm intendono sfruttare. Le richieste sono dettagliate. Prima questione: in una piattaforma dell’Oms risulta che il piano pandemico italiano “è stato pubblicato o rivisto negli anni 2010, 2011, 2012 e 2013”. “Da chi, quando e con quale strumento sono state inoltrate dall’Italia tali comunicazioni?”. I magistrati infatti sono convinti che il piano, approvato nel 2006, sia rimasto identico fino alla revisione attuata nel 2021, mesi dopo la pandemia da coronavirus. Seconda domanda: l’Italia ha sempre risposto ai questionari di autovalutazione annuali sulle capacità di fronteggiare una emergenza sanitaria? E quali conseguenze ne ha tratto l’Oms? La richiesta non è secondaria: “spacciare” un Paese per “pronto” quando in realtà non lo era, non mette in pericolo solo i cittadini dello Stato, ma quelli dell’intera comunità internazionale. Se cade uno, crolla l’intera costruzione. I restanti quesiti riguardano il report dell’Oms sulla risposta italiana. Chi lo ha approvato? Quale era l’obiettivo che avrebbe dovuto perseguire? Ma soprattutto: “Per quale motivo è stato rimosso dal sito e per quale motivo non è stato ripubblicato?”. Certo i magistrati non domandano all’Oms se il ministro Speranza si sia interessato alla faccenda, pretendendo la rimozione del documento. Né vogliono avere conferma di quanto dichiarato in un sms da Ranieri Guerra, e cioè che il capo di Gabinetto del ministro si sarebbe mosso per “far morire” il rapporto nel nulla. Tuttavia intendono sapere “chi all’interno dell’Oms è titolato a interloquire con il ministro della Salute italiano”. Ranieri Guerra? Il direttore Tedros? Altri inviati in Italia? Insomma sembra esserci una sorta di accerchiamento sugli uomini che sfiorano il ministro, che non risulta indagato. Qui infatti la questione è politica, più che giuridica. I pm vogliono far luce anche su un passaggio contenuto nel file pdf del dossier, prodotto da Guerra nella sua audizione. A pagina 19 si legge infatti che “finora sui media noi (l’Oms, ndr) abbiamo cercato di giustificare quanto accaduto senza incolpare l'Italia. Questo sarà molto critico nei nostri confronti e nel Paese”. Chiedono le toghe: Oms era a conoscenza di questa proposta di correzione, da chi è stata formulata e perché? Domandiamo noi: c’entra forse con quanto scritto in una mail da Guerra, ovvero che l’Oms si era proposta di fare da “consapevole foglia di fico” per il governo mentre aveva ottenuto 10 milioni di euro “dopo sei anni di zero”? E quale credibilità di indipendenza può avere una Organizzione che invece di dire la verità "cerca di giustificare" una pandemia "senza incolpare" un governo? Va detto che Speranza, nella sua audizione in procura, ha assicurato che il report era "un documento del tutto indifferente per lo Stato italiano”. Insomma: non gli interessava che definisse la “sua” risposta “caotica e improvvisata”. Non è tuttavia quanto sembra emergere dagli sms di Guerra a Brusaferro (leggi qui). E non è neppure quanto risulta dalla mail, allegata alla rogatoria, inviata da Zambon a Tedros Adhanom Ghebreyesus (capo dell’Oms) e Hans Henri Kluge (direttore regionale Ue) per chiedere in incontro “in relazione ai gravi episodi che stanno esponendo l’Oms ad un alto rischio su molteplici fronti con possibili conseguenze catastrofiche per l’Organizzazione”. Di cosa si trattava? Tra le altre cose, il ricercatore di Venezia temeva il “grave incidente diplomatico con il ministero della Salute italiano e le controparti italiane”. Delle due l’una: o ha mentito Zambon, e un “incidente diplomatico, con il ministero non c’è mai stato; oppure non è vero che il documento era “del tutto indifferente” a Speranza&co. Per scoprirlo, i pm hanno chiesto all’Oms quali risposte abbiano fornito al ricercatore e soprattutto se “sia stato effettivamente sollevato incidente diplomatico dall’Italia”. Chissà se quando risponderanno.

Non è l'arena, Massimo Giletti sbotta: "Che paese siamo diventati? Mi hanno minacciato". La bomba su Domenico Arcuri. Libero Quotidiano il 12 aprile 2021. Il caso Oms sconvolge Massimo Giletti. A Non è l'Arena, su La7, manda in onda le chat tra il vicedirettore vicario dell'Oms Ranieri Guerra e l'ex presidente Iss Silvio Brusaferro sul report "censurato" su Italia e coronavirus e con il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, in studio e visibilmente imbarazzato, sbotta: "Lei ha chiesto le dimissioni del direttore generale, Paragone dice che non rispondono alle domande, e non si muove niente. Ma che paese è questo? Ma che paese è? Che fa cacciare una persona onesta come il dottor Francesco Zambon, che ha scelto con dignità di andarsene e rinunciare a milioni di dollari, perché se stava dentro e resisteva non potevano cacciarlo. Ma lui per dignità se ne è andato". Zambon è il dirigente dell'Oms che aveva redatto il report "compromettente" sull'assenza di piano pandemico che Ranieri Guerra, come lui stesso ammette nelle chat, si è adoperato per "silenziare". Una vicenda per cui l'altissimo dirigente italiano dell'Oms è indagato. "Che Paese è? - prosegue Giletti, indignato -. Un Paese in cui i giornalisti che fanno le domande vengono minacciati, questa è la verità, io sono stato minacciato anche su questa storia, perché quando si chiamano i vertici di questo gruppo sono minacce. E chi sa e ci sta guardando sa a chi mi riferisco. Quando mi occupo di strutture commissariali e si ricevono avvocati ogni giorno, ogni settimana, solo perché si ha il coraggio di porre domande nel silenzio degli altri, questo non lo posso accettare. Non lo posso più accettare!". Il riferimento esplicito Giletti lo fa in un altro intervento, quando ricorda come l'ormai ex commissario straordinario all'emergenza Covid Domenico Arcuri, poi rimosso dal neo-premier Mario Draghi, in conferenza stampa avvertiva esplicitamente i giornalisti di Non è l'Arena che "molti sono già stati querelati". 

Non è l'Arena, Massimo Giletti incastra Speranza: "Ecco i messaggi tra Ranieri Guerra e Brusaferro". Il ministro si deve dimettere? Libero Quotidiano il 12 aprile 2021. "Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia". Massimo Giletti a Non è l'arena su La7 manda in onda i messaggi scambiati tra Ranieri Guerra, vicedirettore vicario dell'Oms, e Silvio Brusaferro, ex capo dell'Iss oggi membro del Cts. Lo "scemo di Venezia" è Francesco Zambon, "colpevole" di aver redatto un report sulla gestione del coronavirus in Italia per conto dell'Oms che avrebbe messo in grave imbarazzo il governo Conte 2. Ranieri Guerra si sarebbe adoperato per far rimuovere il report e "censurare" il caso, come lui stesso conferma a Brusaferro, e per questo ora è sotto indagine. "Ho mandato scuse profuse al ministro - scrive Ranieri Guerra, riferendosi al ministro della Salute Roberto Speranza -, alla fine sono andato su Tedros (il capo dell'Oms, ndr) e fatto ritirare il documento. Spero anche di far cadere un paio di incorreggibili teste". Giletti, che insieme a Report ha dato conto dello scandalo fin dalla prima ora, tuona: "Zambon ha più dignità di tutti voi che non venite qui, se n'è andato da solo". In un altro passaggio, Guerra scrive: "Dovremmo anche vedere cosa fare coi miei scemi di Venezia. Come sai ho fatto ritirare quel maledetto rapporto". Risposta di Brusaferro: "Sul testo dell'Oms sono anche d'accordo di rivederlo assieme". "Con quale titolo mette mano al testo dell'Oms un italiano, anche se presidente dell'Iss? L'Oms è un organo terzo, super partes", nota Giletti. Poi arriva la bomba politica. "Vedo Zaccardi alle 19. Vuoi che inizia a parlargli dell'ipotesi di revisione del rapporto dei somarelli di Venezia? Poi ci mettiamo d'accorso sul come?", chiede Guerra a Brusaferro. "Certo, va bene", risponde Brusaferro. Zaccardi è Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto del ministro della Salute Speranza. Il coinvolgimento delle istituzioni, dunque, arriva fino al Ministero, come conferma poi Guerra: "CDG (capo di gabinetto, ndr) dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla (il report, ndr). Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme". Stando così le cose, o Zaccardi ha agito "privatamente", tenendo all'oscuro di tutto Speranza, e in quel caso il ministro dovrebbe farlo dimettere. Oppure Speranza era a conoscenza della "patata bollente", e allora sarebbe lui a doversi dimettere.

I somarelli di Venezia. Report Rai PUNTATA DEL 12/04/2021 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini, collaborazione di Norma Ferrara e Eleonora Zocca, immagini di Paolo Palermo, montaggio di Giorgio Vallati e Riccardo Zoffoli. Nuovi documenti esclusivi: Ranieri Guerra si vantava di aver censurato il rapporto Oms sull’Italia, con il supporto di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'Organizzazione. Maggio 2020. Negli stessi giorni in cui Report denunciava le gravi problematiche dell’Oms e il mancato aggiornamento del piano pandemico, il direttore aggiunto dell’agenzia Onu dirigeva una campagna di censura per bloccare uno studio critico della gestione italiana della prima ondata Covid. Incontri riservati con i vertici del ministero della Salute, comunicazioni senza peli sulla lingua, accordi per riscrivere il testo del rapporto. Tra Ginevra, Roma e Copenaghen si sarebbe messo in moto un meccanismo per oscurare la verità, sino a oggi sempre negato dal ministro Speranza e dai vertici di Oms e Istituto Superiore di Sanità. Report può mostrare in esclusiva nuove prove che rivelano una realtà alquanto diversa dalla versione ufficiale sin qui raccontata al pubblico.

I SOMARELLI DI VENEZIA.  Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione di Norma Ferrara e Eleonora Zocca Immagini di Paolo Palermo Montaggio di Giorgio Vallati e Riccardo Zoffoli.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 14 maggio. Il rapporto sull’Italia scritto dai ricercatori Oms di Venezia, coordinati da Francesco Zambon, è stato appena ritirato. Il retroscena della censura lo svela lo stesso Ranieri Guerra in una chat whatsapp con il presidente dell’istituto superiore di Sanità, Silvio Brusaferro. Per la prima volta tira in ballo direttamente il dottor Tedros, il più alto rappresentante dell’OMS.

RANIERI GUERRA - MESSAGGIO “Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia. Ho mandato scuse profuse al ministro. Alla fine, sono andato su Tedros e fatto ritirare il documento”.

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Dicono delle cose gravissime. Devo dire che sono rimasto senza parole.

GIULIO VALESINI Cosa pensa della complicità di Tedros in questa storia?

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Sapeva tutto anche perché glielo avevo detto io. Lui ha fatto un anno di mobbing e noi stiamo parlando di un'agenzia delle Nazioni Unite, dove queste cose sono assolutamente inammissibili e intollerabili.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Oms ci ha negato il coinvolgimento di Tedros nell’insabbiamento del rapporto, ma a smentirlo c’è una relazione inviata da Guerra a Tedros, e da lui approvata, in cui dice che tra il 13 e il 15 maggio lavorò per rendere il rapporto pienamente accettato, come dire, meno problematico per il nostro governo. Insomma, Tedros sapeva tutto.

GIULIO VALESINI Perché, secondo lei, Tedros, Kluge hanno deciso di, come dire, appoggiare in questa cosa Ranieri Guerra?

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS L'Italia ha dato il suo voto a Kluge quando lui è stato eletto. Il meccanismo è quello: “Io ti do qualcosa, tu mi dai qualcosa in cambio come segno più o meno di riconoscenza”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Chissà a chi dovranno essere riconoscenti i familiari dei malati morti per Covid. Ecco, è di questi giorni la notizia che un medico della provincia di Bergamo è morto per Covid e i suoi familiari hanno chiesto un risarcimento. Per la prima volta nella storia in Italia perché non aveva mascherine sufficienti a proteggersi. Quelle mascherine che sarebbero state previste dall’applicazione di un piano pandemico. Buonasera e ben ritrovati. Questa sera mostreremo in esclusiva le chat di Ranieri Guerra, che cosa emerge da queste chat? Quello che lui ha sempre negato, cioè il fatto che è stato proprio lui ad avere un ruolo fondamentale nell’oscurare un dossier critico nei confronti della gestione italiana, un dossier che avrebbe rivelato al mondo la nostra inadeguatezza ad affrontare il virus perché avevamo un piano pandemico vecchio di 14 anni. Non lo abbiamo mai aggiornato né applicato. In queste chat Ranieri Guerra parla con il presidente con il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Brusaferro, e dice: io sono intervenuto in maniera brutale, ho chiesto scusa al ministro e sono intervenuto su Tedros per far ritirare il dossier. Ecco, dall’Oms ci scrivono che Tedros non ha avuto alcun ruolo né nella compilazione né nel ritiro di questo dossier ma che un ruolo lo ha avuto Kluge, responsabile dell’Oms Europa con base a Copenaghen. Ecco, ora però l’Oms ha un’altra faccenda da sbrigare. La procura di Bergamo sta indagando per epidemia colposa e per falso, ha presentato una rogatoria dove chiede all’Oms: caro Oms, perché hai fatto ritirare un dossier, quello scritto e preparato dai ricercatori di Zambon, dove, che aveva ottenuto l’approvazione scientifica? Ecco, e su questo è anche indagato Ranieri Guerra perché avrebbe mentito ai magistrati i motivi per cui sarebbe stato ritirato questo dossier, avrebbe anche mentito in merito al piano pandemico inadeguato, quello vecchio di 14 anni. Quello che noi mostreremo questa sera sono delle chat che indicano tutta la strategia che è stata messa in campo dall’ex direttore aggiunto dell’Oms appunto per oscurare la verità, per tessere le sue strategie, e anche il ruolo del presidente dell’Istituto Superiore di Sanità e del capo di gabinetto del ministro Speranza. Ecco, un intrigo internazionale che parte dai vertici dell’Oms e arriva fino a sfiorare un ex presidente del Consiglio. I nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il numero due dell’Organizzazione Mondiale della Sanità non solo cerca di cancellare ogni traccia del dossier dei ricercatori di Zambon ma minaccia anche ritorsioni.

RANIERI GUERRA - MESSAGGIO “La ritengo una cosa schifosa di cui non si sentiva la mancanza. Spero di far cadere un paio di incorreggibili teste. Grazie”

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Silvio Brusaferro, il capo dell’Istituto Superiore di Sanità, ringrazia per l’intervento di pulizia di Ranieri Guerra.

SILVIO BRUSAFERRO - MESSAGGIO “Grazie molte. Io sono inesperto ma mi pare che sia proprio una situazione critica”.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E un ruolo opaco dell’OMS emerge anche dalle indagini della procura di Bergamo che ha iscritto Guerra nel registro degli indagati per false dichiarazioni: avrebbe mentito ai magistrati negando la censura del rapporto di Zambon ma anche sul mancato aggiornamento del piano pandemico.

GIULIO VALESINI Senta, è possibile che l’indagine tocchi anche i dirigenti del ministero della Salute?

MARIA CRISTINA ROTA – PROCURATRICE AGGIUNTA DI BERGAMO Non possiamo né affermarlo né escluderlo in questo momento. La difficoltà che abbiamo incontrato è che spesso alle domande su chi è che avrebbe dovuto fare un qualcosa – ma anche solo trasmettere un documento – noi spesso ci siamo sentiti dire “Noi”. Noi chi? “Il ministero”. “Ma il ministero chi?”, quasi come se ci fosse il timore nell’indicare un nominativo.

GIULIO VALESINI Esagero se lo definisco un atteggiamento un po’ omertoso?

MARIA CRISTINA ROTA – PROCURATRICE AGGIUNTA DI BERGAMO Direi un atteggiamento reticente. Sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’Oms avrebbe anche ostacolato le indagini: non solo non girò le convocazioni ai ricercatori, co-autori con Zambon, per paura che parlassero con la Procura del dossier, ma addirittura provò a violare la sovranità italiana cercando di interferire sull’operato della magistratura.

MARIA CRISTINA ROTA – PROCURATRICE AGGIUNTA DI BERGAMO Oms addirittura aveva chiesto che ci fosse una vigilanza da parte del ministero sull'operato della Procura della Repubblica.

GIULIO VALESINI Cioè controllate quello che sta facendo la procura di Bergamo.

MARIA CRISTINA ROTA – PROCURATRICE AGGIUNTA DI BERGAMO Controllando la correttezza del nostro operato.

GIULIO VALESINI Vabbè ma è grave… Un po’ come fosse lesa maestà: come si permette la procura di Bergamo di ficcare il naso nelle questioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità?

MARIA CRISTINA ROTA – PROCURATRICE AGGIUNTA DI BERGAMO Noi non volevamo appunto ficcare il naso negli affari di Oms, volevamo solo fare luce sul quel famoso report e sul piano pandemico che è strettamente di interesse per la Procura di Bergamo in relazione ai fatti accaduti nell'ospedale di Alzano Lombardo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il dossier dei ricercatori di Zambon infatti denunciava il mancato aggiornamento di un piano pandemico vecchio del 2006 che significava stoccare dispositivi di protezione per medici e infermieri e per le persone più fragili. Significava anche quantificare il numero delle sale di terapia intensiva e dei caschi per ossigeno. Insomma, il piano avrebbe dovuto contrastare il più possibile la diffusione del virus. Ma tutto questo non c’era e il dossier lo denunciava, per questo era imbarazzante per il governo italiano. Ranieri Guerra il 14 maggio scrive a Brusaferro, gli fa sapere che Oms e Italia si coprono a vicenda sotto la sua regia. E così facendo Guerra copre anche le sue di mancanze: quando tra il 2013 e il 2017, da direttore generale della prevenzione del ministero della Salute, avrebbe dovuto anche lui aggiornare il piano pandemico.

RANIERI GUERRA - MESSAGGIO “Hanno messo in dubbio un percorso di costruzione di fiducia e confidenza che sono riuscito con la fatica che sai a proporre e consolidare… Stanno mettendo a rischio una discussione molto seria che è stata impostata anche in prospettiva G20 e di una relazione speciale tra Tedros e l’Italia. Se fossi il ministro ci manderei tutti all’inferno”.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Brusaferro aveva garantito di non aver mai protestato con l’OMS per i contenuti del dossier critico ma solo di aver protestato per non essere stato avvisato della sua uscita.

SILVIO BRUSAFERRO - MESSAGGIO “Sul testo OMS sono anche d’accordo di rivederlo assieme. Domani ne parliamo. Buona serata”.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dalle chat emerge che la strategia per contenere i danni che avrebbe comportato l’uscita del dossier era concordata con l’entourage del ministro della Salute, Roberto Speranza. Guerra scrive a Brusaferro che deve vedersi con il capo della segreteria di Speranza, Goffredo Zaccardi.

RANIERI GUERRA - MESSAGGIO “Hola, vedo Zaccardi alle 19.00. Vuoi che inizi a parlargli dell’ipotesi di revisione del rapporto dei somarelli di Venezia? Poi ci mettiamo d’accordo sul come?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E poi riferisce al presidente dell'Istituto Superiore di Sanità le preoccupazioni del ministero sul rapporto.

RANIERI GUERRA - MESSAGGIO “Capo di gabinetto dice se riusciamo a farlo cadere nel nulla. Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme”.

GIULIO VALESINI Lei si sente un somarello?

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS No, “somarello” mi fa venire a mente le statuine del presepio. Credo che le statuine invece siano gli altri attori di questa storia. E anche piccole statuine.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anestetizzare il dossier critico sulla gestione del virus serve alle autorità italiane, ma anche all’immagine di Guerra che ha un tornaconto: diventare il riferimento di un nuovo ufficio OMS a Roma, all’interno degli uffici della direzione prevenzione del ministero della Salute. Un avamposto, dove poter meglio difendere gli interessi italiani e contrattaccare. Di questo Guerra dopo l’Oms avverte immediatamente Brusaferro.

RANIERI GUERRA - MESSAGGIO “Ecco quanto emerso dalla riunione di ieri con Zaccardi e Speranza a seguire. Se mi dai un paio di persone con cui interagire attacchiamo su tutti i fronti. Soprattutto sul rapporto. Che ne dici?”

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Siccome è una conversazione tra una persona dell’OMS e una persona del governo italiano, mi pare che si possa affermare con certezza che è stato ritirato per motivi politici.

GIULIO VALESINI Che ruolo ha avuto Speranza secondo lei in questa storia?

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Sembra che Speranza sapesse tutto. Tutti hanno la responsabilità a partire dal ministro, il capo di gabinetto, l'Istituto Superiore di Sanità. Tutte le persone che vengono citate nella chat, evidentemente sapevano cose che non sapevo neppure io.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma dalle carte dei magistrati di Bergamo emergerebbero altre bugie sulla preparazione pandemica dell’Italia. Il ministero della Salute avrebbe comunicato falsi aggiornamenti del piano pandemico anche all’Oms fino al 2013. E poi, il 4 febbraio del 2020, a emergenza già dichiarata, avevamo comunicato a Ginevra in un documento di essere ben pronti a possibili scenari di crisi. La firma è dell’ufficio prevenzione del nostro ministero.

GIULIO VALESINI Cioè io sono l’OMS, ricevo il rapporto italiano e dico: “beh, l’Italia sta messa bene”.

PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA L’Italia è a posto, è una bomba l'Italia. Era prontissima!

GIULIO VALESINI Abbiamo preso in giro tutti.

PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA Siamo al di fuori di ogni concezione cioè parlare di sciatteria è ancora poco. Bisognerebbe usare termini più pesanti.

MARIA CRISTINA ROTA – PROCURATRICE AGGIUNTO DI BERGAMO Se noi dobbiamo ritenere che qualcuno di alto livello del ministero non sapesse che doveva aggiornare il piano pandemico, sarebbe un indice di sciatteria, di disinteresse per il proprio lavoro di livello vergognoso.

GIULIO VALESINI Sulle esercitazioni cosa abbiamo dichiarato in questi anni?

PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA Abbiamo dichiarato che abbiamo aggiornato costantemente i piani anno per anno e abbiamo fatto delle esercitazioni.

GIULIO VALESINI Cosa abbiamo detto sulle scorte di DPI? Dei dispositivi di protezione?

PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA Sulle scorte abbiamo detto che avevamo un piano di scorte.

GIULIO VALESINI Noi eravamo vincolati a dire la verità?

PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA Non c’è una corte di giustizia che ci può giudicare perché il regolamento sanitario internazionale non richiama una Corte di giustizia.

GIULIO VALESINI Cosa accade quindi se un paese dichiara il falso come abbiamo fatto noi?

PIERPAOLO LUNELLI – EX COMANDANTE SCUOLA DIFESA NUCLEARE BATTERIOLOGICA E CHIMICA Cosa vuole che le dica? Cioè è un falso ideologico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un quadro che lascia tanta amarezza. Anche perché Zambon si è dovuto intanto dimettere dall’Oms e ha anche fatto causa all’Organizzazione Mondiale della Sanità che dovrebbe essere un organismo indipendente invece che cosa fa? Da una parte censura il rapporto che è stato preparato dai suoi scienziati. Dall’altra, cerca anche di interferire su un altro organismo indipendente che è la procura di Bergamo che sta indagando sulla mancata applicazione del piano pandemico e che quando chiede informazioni al ministero della Salute ha anche difficoltà ad ottenere nomi di responsabili. Ecco, insomma, doveva preoccupare molto questo dossier preparato da Zambon al punto tale che, come abbiamo sentito nelle chat, il capo di gabinetto del ministro Speranza sperava che andasse a morire, che nessuno ne parlasse. Perché, insomma, ovviamente era un dossier imbarazzante. E poi, addirittura, Guerra concorda con Brusaferro la possibilità di riscriverlo addirittura a quattro mani questo dossier dell’Oms. Ecco, insomma, alla faccia dell’indipendenza! Poi a Report, il ministero della Salute aveva anche scritto una nota dicendo che non aveva notizie ufficiali di dossier dell’Oms, non li aveva né valutati né commentati. Alla luce di quello che leggiamo probabilmente non ce l’ha detta tutta. E probabilmente quel dossier preoccupava molto di più di quello che immaginavamo perché quel dossier scritto dai somarelli di Venezia, così li definisce con disprezzo Ranieri Guerra quei ricercatori indipendenti guidati da Zambon, rischiava quel dossier di far saltare la ragnatela di strategie che aveva tessuto fino a quel momento Ranieri Guerra perché l’Italia avesse un ruolo di prestigio all’interno della sanità mondiale. In una relazione informa Tedros di aver incontrato il 26 maggio scorso l’ex premier Massimo D’Alema. Questo per ottenere il suo influente supporto all’Oms, cioè per avere un’alleanza in virtù del G20. E, in effetti, poi, il ministro Speranza nel prossimo G20 che si terrà in Italia a settembre, sarà colui che detterà l’agenda sanitaria mondiale sul Covid. Speranza che è stato tanto criticato nella scorsa gestione e riconfermato. Ora lasciatemi però raccontare una cosa che non ci piace assolutamente: nell’ultima conferenza stampa di Brusaferro, dell’Istituto Superiore di Sanità, è stato negato l’accesso a noi. Ecco, è una porta che è stata sbattuta in faccia a tutti voi. Report può cominciare.

STUDIO LEGALE DE VITA. RIF. REPORT- PUNTATA DEL 12.04.2021 OGGETTO: DIFFIDA ALLA PUBBLICAZIONE: SPETT.LE RAI TRASMISSIONE REPORT C.A. DR. SIGFRIDO RANUCCI DR. CATALDO CICCOLELLA DR. GIULIO VALESINI Scrivo la presente nell'interesse e a tutela del Dr. Ranieri Guerra, funzionario dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in relazione alla Vostra comunicazione in data 9 aprile u.s. ed alla anteprima in data odierna relativa alla puntata di questa sera. Rappresento, anzitutto, che il Dr. Ranieri Guerra non ha mai ricevuto alcun avviso di garanzia inerente alla sua qualità di "indagato" dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo. Ha invece appreso tale notizia ieri durante la trasmissione "Non è l'arena" dell'emittente La?. Il Dr. Ranieri Guerra non ha mai avuto conoscenza di atti di indagine, così come in particolare della estrapolazione di chat di messaggi, di cui invece la Vostra trasmissione sembra disporre. Il Dr. Ranieri Guerra non ha mai avuto alcuna interlocuzione sulle contestazioni mosse dalla Procura di Bergamo nei suoi confronti, essendo solo stato….

RISPOSTA DEL PRESIDENTE BRUSAFERRO ALLA RICHIESTA DI INTERVISTA DI REPORT: Gentilissimo, in relazione alla Vs. richiesta, segnalo che non è mia consuetudine rilasciare interviste televisive se non strettamente correlate a dati epidemiologici e documenti ISS. Sul tema specifico cui si fa cenno nella richiesta, spero possa essere utile condividere quanto segue: 1. Non è compito di ISS né del suo Presidente intervenire sulla pubblicazione di documenti di organizzazioni internazionali; 2. L’evoluzione di un documento prodotto da una organizzazione come l’OMS segue un percorso interno all’organizzazione stessa; nel caso specifico, il dott. Guerra mi ha riportato alcuni passaggi interni alla organizzazione e l’ho ringraziato per l’informazione; 3. Laddove richiesto da altre istituzioni l’ISS con i suoi ricercatori è disponibile a contribuire alla stesura di documenti tecnico scientifici: anche in questo caso è stata espressa informalmente una disponibilità di massima che poi non si è concretizzata e della quale non è mai arrivata richiesta. Nella speranza che queste poche righe possano essere di utilità per una migliore comprensione, mi è gradita l’occasione per porgere cordiali saluti. Prof. Silvio Brusaferro. Presidente Istituto Superiore di Sanità

Francesco Borgonovo per "La Verità" il 13 aprile 2021. «Forse è meglio abbassare i toni»; «Questa frase è troppo drammatica»; «Dovremmo essere più politicamente corretti». Di frasi come queste i vertici dell'Oms ne hanno scritte tante, troppe, commentando il report sulla gestione italiana del Covid firmato da Francesco Zambon e da un gruppo di altri studiosi con base a Venezia. Come ormai noto, quel documento, circa un anno fa, è stato prima pubblicato e poi censurato dall'istituzione sanitaria internazionale. E a rivendicare la responsabilità dell'oscuramento è stato Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Oms e già consulente del Comitato tecnico scientifico voluto da Roberto Speranza. Guerra è indagato per aver fornito false informazioni alla Procura di Bergamo che da mesi lavora sulla vicenda, e dalle carte degli investigatori emergono vari dettagli inquietanti. Abbiamo scoperto, ad esempio, quale fosse la strategia di Guerra per far sparire il report, concordata con Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto di Speranza. I due si incontrarono il 18 maggio del 2020, e subito dopo l'appuntamento Guerra scrisse a Silvio Brusaferro, attuale portavoce del Cts: «Cdg (Capo di gabinetto di Speranza, cioè Zaccardi, ndr) dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla. Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo assieme. Sic». Guerra aveva già provveduto a rimuovere dal Web ogni traccia possibile del rapporto, ma nel caso in cui qualcuno riuscisse comunque a ritirarlo fuori (cosa che poi è avvenuta), c'era già un accordo per rivedere ed emendare il testo con un lavoro coordinato di ministero e Oms. Ma che cosa c'era da emendare in quel report? Che cosa imbarazzava così tanto Guerra e i giallorossi? Alcuni dei punti critici sono noti. Ad esempio il passaggio in cui la gestione italiana dell'emergenza viene definita «caotica e creativa». Poi quello in cui si metteva nero su bianco che l'Italia non avesse un piano pandemico aggiornato. Non è tutto, però. C'è almeno un altro brano che i dirigenti dell'Oms avrebbero voluto modificare per non danneggiare il governo italiano. Tra i documenti a disposizione degli investigatori di Bergamo, infatti, esiste una versione «annotata» del report di Zambon. In pratica è un pdf del testo originale con l'aggiunta dei commenti formulati da Ranieri Guerra e da Cristiana Salvi, external relation manager health emergencies dell'Oms (una responsabile della comunicazione di grado molto elevato, in sintesi). Il tenore della maggior parte dei commenti è quello che abbiamo mostrato all'inizio dell'articolo: gli autori del report vengono costantemente invitati ad abbassare i toni, a non irritare l'Italia, a moderare il linguaggio. A un certo punto, gli studiosi inseriscono un box relativo al caso di Codogno. Ricordate? Annalisa Malara, anestesista, il 20 febbraio del 2020 si trovò per le mani un uomo con una «polmonite devastante». Anche se costui non aveva avuto contatti diretti con la Cina, la anestesista decise di fargli comunque un tampone, e scoprì che il poveretto era positivo al Covid. Per il suo gesto, la dottoressa è stata premiata da Sergio Mattarella, e ha ricevuto giuste lodi e onori da tutta la nazione. Zambon e gli altri autori del report scrissero che la mossa della anestesista aveva «dimostrato che la definizione di caso nel sistema di sorveglianza della diagnosi precoce non era abbastanza sensibile da rilevare il nuovo coronavirus». In poche parole, certificavano che le linee guida fornite dall'Oms e dall'Istituto superiore di sanità erano sbagliate e solo una forzatura del protocollo da parte di una anestesista in gamba aveva permesso di individuare il virus. Ebbene, i vertici italiani dell'Oms (o Guerra o la Salvi) volevano rimuovere il brano su Codogno. «Finora sui media abbiamo cercato di "giustificare" quello che è successo senza incolpare l'Italia», si legge in un commento. «Questo suonerà molto critico nei nostri confronti e nei confronti del Paese». Gli investigatori di Bergamo vogliono capire chi abbia scritto queste parole, se Guerra o la Salvi. Ma poco cambia in realtà. Resta il fatto che qualcuno ai vertici dell'Oms ha chiesto di rimuovere o comunque modificare un passaggio chiave perché troppo «critico» verso l'organizzazione internazionale e verso le autorità italiane. Non solo: l'autore del commento ammette che l'Oms ha cercato di «giustificare» pubblicamente il comportamento italiano, anche se inadeguato. Forse vale la pena di ricordare quale fosse il quadro politico in quel periodo del 2020. Pochi giorni dopo l'intuizione dell'anestesista che aveva permesso di trovare il virus, Giuseppe Conte pensò bene di attaccare i medici di Codogno, dicendo che l'ospedale aveva messo in atto una «gestione poco prudente». In realtà, l'ospedale non aveva ricevuto indicazioni precise da Roma, anzi era stato invitato a seguire protocolli che poi si sono rivelati sbagliati. Che un gruppo di ricercatori facesse notare questo errore in un rapporto ufficiale, però, per Guerra e la Salvi non era ammissibile. La preoccupazione principale di costoro era quella di non mettere in imbarazzo il governo italiano e la stessa Oms. Purtroppo, a quanto risulta, anche il ministero della Salute ha assunto lo stesso atteggiamento: pur di non ammettere di aver sbagliato, hanno avallato la censura di uno studio che sarebbe servito a salvare delle vite.

"L'Oms voleva spedire in Bulgaria l'uomo che accusava Guerra". Felice Manti il 14 Aprile 2021 su Il Giornale. Lo scandalo del report sparito finisce sulla stampa internazionale. Una spallata alla credibilità dell'Italia che preoccupa Palazzo Chigi. And then there were none. Alla fine non rimase nessuno, avrebbe detto Agatha Christie. Al netto delle smentite di prassi, il destino di Roberto Speranza al ministero della Salute è appeso a un filo sottilissimo, che l'articolo di ieri contro Ranieri Guerra sul report Oms sparito di Der Spiegel - testata molto letta a Bruxelles e nei Paesi «frugali» che odiano l'Italia - potrebbe aver definitivamente spezzato. Lega e Forza Italia da giorni reclamano la testa dell'esponente Leu: il suo esilio dorato si chiama Europa, al posto o al fianco di Sandra Gallina, la (criticatissima) italiana scelta dal commissario europeo Ursula Von der Leyen per negoziare i contratti sui vaccini che tanto fanno discutere. Il suo entourage ovviamente nega - Il Giornale ha inutilmente provato a contattare il suo portavoce - in serata Speranza ha scaricato Guerra a Porta a Porta («Noi non abbiamo competenza in questa materia, ci fidiamo della magistratura») ma il conto alla rovescia sembra partito. Nell'angolo ci sono anche il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi e il portavoce del Cts Silvio Brusaferro, tirati pesantemente in ballo per il report fantasma dell'Oms che inchiodava la gestione della pandemia. Dalle chat in mano alla Procura di Bergamo che indaga per epidemia colposa, Brusaferro, Zaccardi e Speranza sapevano dell'esistenza del report, che in origine doveva essere concordato, ma ne avrebbero voluto poi edulcorare alcuni passaggi che imbarazzavano l'esecutivo Conte. Come il box a pagina 19, segnalato per primo dal Giornale, che evidenziava i limiti dei parametri Oms sul tracciamento, vedi il caso del paziente zero di Codogno, trovato solo grazie all'intuizione felice di una anestesista che aveva forzato il protocollo. Una distorsione della verità orchestrata da Guerra, incastrato dal successivo (ma inutile) pressing su Francesco Zambon, il coordinatore dei ricercatori italiani della sede Oms di Venezia, definiti «somarelli». La discordanza con le versioni fornite ai pm e le prove documentali potrebbe investire il gotha del ministero della Sanità attuale e recente - dai ministri Giulia Grillo a Beatrice Lorenzin - e questa è una eventualità di cui il premier Mario Draghi sarebbe al corrente e che saggiamente vorrebbe evitare. Dopo Angelo Borrelli, Agostino Miozzo, Domenico Arcuri e Ranieri Guerra, scaricato definitivamente anche dall'Oms nonostante i proclami di facciata e l'eventuale uscita di Speranza, Zaccardi e forse del direttore dell'Iss Brusaferro, la linea di comando che ha gestito la prima parte della pandemia sarebbe definitivamente cancellata. L'addio di Speranza sarebbe peraltro una sorta di vittoria a tavolino del team di legali che ha chiesto al governo il risarcimento per le morti nella Bergamasca e che tanto si è speso per trovare il report fantasma Oms, mossa decisiva - è il caso di ricordarlo - anche per la Procura guidata da Antonio Chiappani. Ormai il pasticcio all'Oms è esploso sui giornali internazionali, dove Guerra viene dipinto come «un alto funzionario Oms che si è vantato di aver sabotato un rapporto critico con il suo Paese d'origine». «Se i messaggi di chat fossero stati corretti - ragiona Der Spiegel - il capo dell'Oms avrebbe fatto una campagna personale per far sparire una pubblicazione critica da parte del suo staff». Ma l'Oms nega, perché sa bene che Guerra «ha messo a rischio con frivolezza la reputazione della sua istituzione». Poi lo Spiegel va oltre e denuncia il tentativo dell'Oms di silenziare Zambon spedendolo in Bulgaria: «Un chiaro tentativo di metterlo a tacere come sospetto informatore e testimone». Se non è un epitaffio per Guerra (e Speranza) poco ci manca.

Francesco Borgonovo per "la Verità" il 14 aprile 2021. Il 14 maggio del 2020, Ranieri Guerra - allora direttore aggiunto dell' Organizzazione mondiale della sanità inviato in Italia per supportare il governo giallorosso nella risposta all' epidemia di coronavirus - è su tutte le furie. La Procura di Bergamo, che lo indaga per aver fornito informazioni false, ha acquisito i messaggi che egli inviava su Whatsapp a Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità e attuale portavoce del Comitato tecnico scientifico. Argomento delle concitate conversazioni era l'ormai famoso report sulla gestione italiana della pandemia realizzato da un gruppo di studiosi dell' Oms guidato da Francesco Zambon. Come sappiamo, Guerra si è dannato affinché il documento fosse tolto dalla circolazione. Non solo: a censura avvenuta, si è preso il merito dell' oscuramento con i colleghi e i superiori. Quel giorno di maggio, parlando con Brusaferro, gli disse: «Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia. Ho mandato scuse profuse al ministro e ti ho messo in cc di alcune comunicazioni. Alla fine sono andato su Tedros (direttore generale dell' Oms, ndr) e fatto ritirare il documento. Sto ora verificando il paio di siti laterali e di social media dove potrebbe essere ancora accessibile per chiudere tutti i canali. La ritengo comunque una cosa schifosa di cui non si sentiva la mancanza. Spero anche di far cadere un paio di incorreggibili teste. Grazie». In realtà la testa da far cadere era una sola: quella di Zambon, il quale poi si è dimesso spontaneamente, visto l' ambientino che si trovava a frequentare e che certo non gli rendeva facile svolgere il suo lavoro. Ma torniamo a Guerra. Sempre parlando con Brusaferro il 14 maggio 2020 scriveva: «Hanno messo in dubbio un percorso di costruzione di fiducia e confidenza che sono riuscito con la fatica che sai a proporre e consolidare: ci ho messo la faccia e molto di altro in un ambiente fatto non solo da amici. In più, stiamo mettendo a rischio una discussione molto seria che è stata impostata anche in prospettiva di G20 e di una relazione speciale tra Tedros e l' Italia. Se fossi il ministro manderei tutti all' inferno...». Le ultime frasi di questa chat sono molto interessanti. Che genere di «discussione molto seria» ha avviato Guerra, e con chi? Che cosa c' entra il G20? Messa così è impossibile capire di più. Ma esistono altri documenti che permettono di fare luce sulla vicenda: li ha citati lunedì sera la trasmissione Report, e anche La Verità ne è venuta in possesso. Si tratta di alcuni rapporti inviati da Ranieri Guerra a Tedros Ghebreyesus, direttore generale dell' Oms, nel maggio del 2020, pochi giorni dopo l' avvenuta censura dello studio di Zambon e soci. Le comunicazioni di Guerra sono molto scarne: egli si limita a elencare sinteticamente ciò che ha fatto nel corso della missione in Italia. Il 25 maggio, Guerra aggiorna Tedros sul report di Zambon e gli comunica che è stato rimosso dal Web. Gli dice anche che è stata avviata una «conversazione» con il ministero della Salute e con l' Istituto superiore di sanità per «rinfrescare» il report con contributi aggiuntivi che lo renderanno «più completo e pienamente accettato». In pratica, Guerra sta dicendo al suo superiore che il report critico sull' Italia verrà opportunamente emendato, come concordato con il ministero: è un' ulteriore prova che al dicastero di Speranza non solo sapevano della censura, ma stavano collaborando attivamente alla modifica di un documento considerato troppo critico. Il 29 maggio 2020, Guerra invia a Tedros un altro rapporto. Di nuovo parla di un accordo con ministero e Iss per rivedere il report e «ripubblicarlo velocemente» (cosa che mai avverrà). Ma, soprattutto, aggiunge un particolare. «Ho incontrato», scrive, «l' ex primo ministro italiano Massimo D' Alema e ho discusso del suo possibile influente supporto all' Oms, attivandosi e facendo promozione pubblica con Sherpa e Su-Sherpa per la presidenza del G20 Ita 2021». Ecco svelato il mistero. Ranieri Guerra sta brigando per creare una «relazione» speciale tra il capo dell' Oms e l' Italia, e si è rivolto addirittura a D' Alema perché, con la sua influenza, contribuisca a mantenere buoni rapporti tra l' Organizzazione mondiale della sanità e le istituzioni italiane in vista del G20. L'incontro fra i grandi della Terra è in programma il prossimo ottobre a Roma, e l' Italia dallo scorso dicembre ne ha ottenuto la presidenza. Inoltre, nell' ambito degli importanti incontri internazionali è previsto che si svolga un ambizioso Health Summit, cioè una kermesse interamente dedicata alla salute, in cui ovviamente l' Oms giocherà un ruolo chiave. Ora che il quadro è quasi completo, è molto più facile capire perché il report imbarazzante per l' esecutivo italiano sia stato censurato. Guerra brigava da mesi per tessere relazioni fra l' Oms e il governo giallorosso in vista del G20 italiano. Aveva persino messo in mezzo Baffino. Ma ecco che lo studio troppo preciso e troppo puntiglioso di Zambon e soci, irritando il ministero della Salute, rischiava di mettere tutto in pericolo. Non solo i rapporti fra l' Organizzazione mondiale della sanità e il nostro governo, ma forse pure il futuro professionale dello stesso Guerra. In ogni caso, c' erano degli equilibri che non bisognava turbare. Soprattutto, c' era un ministro, protetto da D' Alema, che non bisognava indispettire.

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 15 maggio 2021. Nello scivoloso affaire del rapporto Oms sulla prima risposta dell'Italia al Covid-19, pubblicato il 13 maggio 2020 e ritirato dopo poche ore, finora mancava la voce di uno dei protagonisti. Quella di Ranieri Guerra. Il direttore vicario dell'Organizzazione mondiale della sanità è indagato a Bergamo per false dichiarazioni ai pm riguardo al mancato aggiornamento del piano pandemico 2006 e anche in merito alla storia del rapporto prodotto dal team veneziano di Francesco Zambon, ex ricercatore Oms. Ranieri Guerra, difeso dall'avvocato Roberto De Vita, ha accettato di rispondere alle domande di Repubblica.

Sapeva che Zambon avrebbe messo online il report?

 «Non ho saputo niente della versione finale e della pubblicazione. Alle 19.30 del 13 maggio Zambon mi comunica via mail, mettendo in copia Hans Kluge, (direttore regionale Europa a Copenaghen, ndr ) che era sul sito».

Lui dice che l'Oms ha dato l'ok.

 «Non è vero. Mi ero speso in prima persona e in buona fede per garantire le autorizzazioni che mi aveva chiesto di facilitare. All'inizio mi ha detto di averle ottenute quasi tutte, ma dai verbali della seduta valutativa emerge la richiesta dell'ufficio legale di Ginevra di verificare alcuni punti prima di esprimere il parere definitivo. Che, a quanto ne so, non è stato concesso».

Ha proposto 30 correzioni alla bozza. Perché?

 «Per migliorarne la qualità e correggere parti errate o esprimenti giudizi soggettivi che non erano supportati da fatti, quindi criticabili. Zambon accetta alcune correzioni, ma ne inserisce un altro centinaio».

Lei però voleva cancellare la parte sul Piano pandemico, che - secondo Zambon - era più teorico che pratico ed era fermo al 2006. Era una critica al governo italiano, che lei ha provato a togliere.

«Non è proprio così. Zambon, nella prima versione, parla di un Piano anti-influenzale in modo ambiguo, sostenendo che fornisse solo un quadro legale di riferimento. Invece il Piano del 2006 era vigente: si riferiva a un virus influenzale ignoto e provvedeva a scorte vaccinali e di antivirali. Zambon poi si dimentica di citare il Piano nazionale Covid, di cui era a conoscenza».

È stato capo della Prevenzione del ministero della Salute dal 2014 al 2017. L'aggiornamento spettava anche a lei.

«Ho compilato e aggiornato molte cose, lavorando incessantemente. Ho anche cominciato a mettere mano al Piano anti-influenzale, dato che nel frattempo si stavano generando le linee guida Oms, poi pubblicate nel biennio 2017-2018. Avevo lasciato una memoria alla ministra Lorenzin, che venne discussa brevemente con il Gabinetto. Il commento fu che non esisteva copertura finanziaria».

Non c'erano i soldi, dunque.

«Il mio successore, il dottor Claudio D'Amario, può spiegare cosa venne fatto, cosa non venne fatto e per quali motivi. Prima di me c'erano altri colleghi, dopo ce ne è stato un altro. Non capisco perché si imputi solo a me il mancato aggiornamento».

Torniamo al report. La mattina del 14 maggio viene tolto dal sito. Zambon ricevette email dall'Oms cinese che ne chiedeva la rimozione. Anche lei fece pressioni?

«Non ne avevo alcun motivo. Molte delle mie correzioni erano state adottate. La linea decisionale che porta al ritiro passa attraverso Zambon e Hans Kluge».

Nella chat con Silvio Brusaferro, però, lei sostiene di averlo fatto ritirare. Delle due l'una.

«Pezzi di chat incompleti e decontestualizzati nulla dicono rispetto alla verità, oggi documentalmente provata, su chi lo ha fatto ritirare. Ho spiegato al direttore generale Oms Tedros e a Kluge che il testo era stato pubblicato senza preavviso. Speranza aveva approvato l'indice e la copertina. Non è possibile pubblicare un testo del genere senza neppure comunicarlo all'autorità nazionale».

Secondo Zambon, spettava a lei.

«Come avrei potuto, se io stesso non ne sapevo nulla?»

Perché Speranza si lamentò?

«Mi disse lapidariamente "pubblicate un rapporto sull'Italia e non ne sappiamo niente". Aggiungendo che Kluge l'aveva chiamato per scusarsi».

Anche lei si è scusato, con una mail piuttosto goffa.

 «Speranza era all'oscuro. Le mie scuse nascevano dal fatto che non ero riuscito a convincere gli estensori a comunicarne contenuti e data di pubblicazione. L'Oms non commette mai questi sgarbi istituzionali».

Perché questa sudditanza? L'Oms non dovrebbe essere un organismo terzo e indipendente?

«Terzietà, autonomia e indipendenza dell'Oms non si giudicano sulla base di un rapporto, che, con tutto il rispetto per gli estensori, ha un valore alquanto limitato rispetto alla collaborazione che l'Oms ha prestato fin dalla prima fase dell'epidemia».

Qualcuno del governo italiano fece pressioni per ritirare il report?

«Non mi risulta. È una domanda da rivolgere a Kluge e a Zambon».

Bugie, trucchi e flop ma nessun piano. Le accuse dei pm ai vertici della Sanità. Felice Manti il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Autovalutazioni sballate, misure vetuste e approssimazione: cosa dicono le carte. Il ministero della Sanità ha mentito ai pm e all'Europa sul piano pandemico del 2006. L'ipotesi, già avanzata nei giorni scorsi dal Giornale, viene confermata dai dubbi degli inquirenti su una serie di documenti che non collimano con le risposte dei dirigenti del ministero della Sanità ai pm di Bergamo che indagano per epidemia colposa. Il riferimento è ai test di autovalutazione che l'Italia ha mandato alla Ue sulla capacità di resilienza del nostro Paese di fronte a una eventuale pandemia. Un documento del 2017 che Il Giornale ha avuto modo di consultare, le cosiddette «autovalutazioni» triennali obbligatorie inviate dall'Italia alla Commissione europea, firmato da una funzionaria del ministero della Salute, ci sono alcune affermazioni sulla cui veridicità gli inquirenti hanno molti dubbi: si dice che l'Italia aveva una chiara catena di comando e relative deleghe, si parla di stoccaggio strategico di scorte, materiali e impianti, si riferisce l'esistenza di un Comitato nazionale responsabile del coordinamento, eccetera. E si afferma che il piano pandemico del 2006 è stato aggiornato. «Perché allora l'Italia non aveva scorte e dispositivi di protezione individuali? - commenta con un'agenzia di stampa il direttore di Anagenesis Pier Paolo Lunelli, ex generale dell'Esercito oggi a capo del Centro di ricerca e monitoraggio di pianificazione pandemica Anagenesis, a cui fanno riferimento anche i familiari delle vittime della Bergamasca - Se esisteva un Piano di continuità operativa», che prevedeva come tenere aperti centri sanitari, strutture pubbliche, aziende, tlc e logistica «perché queste misure non state attuate nell'emergenza Covid-19? E perché quello del 2009 non era in Gazzetta Ufficiale?». Di bugie sul piano pandemico deve rispondere anche il direttore aggiunto dell'Oms Ranieri Guerra, indagato per false dichiarazioni ai pm. Secondo Lunelli «chi ha compilato il questionario non aveva piena contezza e comprensione dei contenuti e dei rilievi dottrinali. In sintesi, così come abbiamo mentito sul questionario dell'Oms abbiamo ingannato anche la Ue», dice Lunelli. Anche nel famoso report curato dai ricercatori di Venezia guidati da Francesco Zambon, poi sparito su pressioni di Guerra, il piano pandemico italiano era datato 2006, tanto che in una delle email a Zambon del direttore vicario, mandate in onda da Report lo scorso novembre, Guerra chiedeva a Zambon di trasformare la frase «ultimo aggiornamento dicembre 2006» in «ultimo aggiornamento dicembre 2016»: «Devi correggere subito, non fatemi casino su questo scriveva ancora Guerra l'11 maggio 2020 non possiamo essere suicidi (...) Adesso blocco tutto, così non può uscire. Evitate cazzate. Grazie e scusa il tono. Ranieri». Già, perché da ex direttore generale per la Prevenzione del ministero della Salute dal 2014 al 2017 il piano avrebbe dovuto prevederlo Guerra, e invece non c'era. Come non c'era, altro elemento su cui la Procura guidata da Antonio Chiappani si è interrogata, mancano anche le autovalutazioni da mandare alla Ue nel 2014-2017, sempre a carico di Guerra, mentre come abbiamo visto il test destinato alla Ue per il 2017 è pieno di falle. Insomma, scoppia la pandemia e l'Italia non ha in mano nulla. Come emerge da alcuni verbali, il 29 febbraio il governo non sapeva nemmeno, e lo chiede alle Regioni, il numero di posti letto disponibili in terapia intensiva e quelli in pneumologia. Ma legittimamente il ministro della Salute Roberto Speranza e il governo di Giuseppe Conte puntano su una narrazione rassicurante. «Tutto a posto». Peccato che il 21 aprile il direttore generale della Programmazione sanitaria Carlo Urbani si lasci scappare sul Corriere della Sera l'esistenza il 20 gennaio di tre scenari di cui uno «troppo drammatico per essere divulgato» e di un «piano secretato». Il Piano pandemico? Forse. Da una lettera che un infuriato Speranza scrive a Urbani, anche questa agli atti, si spiega che gli scenari e il «piano» di cui Urbani parla sono un mero documento di studio, non validato da alcun soggetto pubblico. Carta straccia, con cui si cercava di fermare il Covid. Altro che «risposte immediate e concrete» come si bullava il ministro, nella lettera, in tv e alle Camere. L'unico «piano sanitario» è quello partorito solo il 4 marzo, in piena emergenza, come ha scoperto - dopo essersi rivolto al Tar - il deputato Fdi Galeazzo Bignami che ora chiede la testa di Speranza con una mozione di sfiducia. Un mucchio di belle intenzioni che non hanno impedito 115mila morti e un'economia in ginocchio.

Giuliano Guzzo per "la Verità" il 14 aprile 2021. Si sta come Roberto Speranza al ministero ad aprile. In effetti, più di una nube s'addensa sul ministero della Salute. Stanno infatti facendo rumore le parole rilasciate a Report da Maria Cristina Rota, procuratore aggiunto di Bergamo, rispetto alle indagini in corso sul mancato aggiornamento del piano pandemico e gestione delle prime fasi dell' emergenza Covid-19 e, in particolare, con riferimento alla condotta di esponenti del ministero della Salute, giudicata almeno poco collaborativaNon solo. A domanda diretta sulla presenza o meno, nell' indagine in corso e quindi anche nel registro degli indagati, di dirigenti proprio del ministero guidato da Speranza, il magistrato non ha smentito. «Questo non possiamo affermarlo né escluderlo», ha dichiarato il procuratore Rota, segnalando la difficoltà incontrata nelle indagini, «quasi che ci fosse il timore nell' indicare un nominativo. Direi un atteggiamento reticente, sì». Considerando il confine notoriamente labile che separa il concetto di reticenza da quelli di omertà e di omissione, se quelle della Rota non sono macigni di certo restano esternazioni di peso. Tanto più che, tra le persone ascoltate dai magistrati bergamaschi nell' ambito della loro inchiesta, c' è anche lo stesso Speranza, il quale, lo scorso 28 gennaio, era stato sentito per ben cinque ore. Una lunga deposizione, era stato il resoconto, avvenuta in un clima «disteso» e «sereno». Ma torniamo al procuratore Rota, che a Report ha confermato pure dell' esistenza di un clamoroso quanto eccellente tentativo di intralcio delle indagini: «Oms addirittura aveva chiesto che ci fosse una vigilanza da parte del ministero sull' operato della Procura della Repubblica, controllando la correttezza del nostro lavoro». «Ma noi non volevamo ficcare il naso negli affari dell' Oms», ha precisato Rota, «noi volevamo fare luce su quel famoso report e sul piano pandemico che è strettamente d' interesse per la Procura di Bergamo in relazione ai fatti accaduti nell' ospedale di Alzano Lombardo». Riepilogando, il procuratore ha evidenziato come dal ministero della Salute vi sia stata «reticenza» e non collaborazione e che lo stesso, guarda caso, fosse stato investito da parte dell' Oms della richiesta di vigilare sugli stessi magistrati bergamaschi. Una ricostruzione esplosiva chiama evidentemente in causa in primo luogo Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell' Oms ufficialmente indagato, ma non solo. Sì, perché nelle intercettazioni emerse risulta che non solo Guerra abbia fatto insabbiare il report sulla gestione italiana del coronavirus a cura di studiosi dell' Oms guidati da Francesco Zambon - poco signorilmente liquidati come «i somarelli di Venezia» dialogando col presidente dell' Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro -, ma abbia pure indicato chi gli ha suggerito la mossa, ossia il capo di gabinetto di Speranza, Goffredo Zaccardi: «Dice di vedere se riusciamo a far cadere il report nel nulla». Ecco che allora, se non son un vero e proprio j' accuse, le parole del procuratore Rota, oltre che su quelle di Guerra, portano sulle orme di Speranza. Che siede su una poltrona che, da quando la occupa lui, non è mai stata tanto scricchiolante.

Giuliano Guzzo per "La Verità" il 15 aprile 2021. Il legame tra Ranieri Guerra, l' ex direttore aggiunto dell' Organizzazione mondiale della sanità oggi indagato dalla Procura di Bergamo per aver fornito informazioni false sul piano pandemico, e Massimo D' Alema, di cui ha dato notizia ieri La Verità, non è qualcosa di vago. Al contrario, deve essersi trattato di un rapporto quanto meno solido. Infatti, la mail del 29 maggio 2020 - nella quale Guerra, rivolgendosi a Tedros Adhanom, direttore generale dell' Oms, scriveva apertis verbis d' aver «incontrato l' ex primo ministro italiano Massimo D' Alema» affinché contribuisse a tenere buoni rapporti tra Oms e istituzioni italiane in vista del G20 - non rappresenta un caso isolato. Lo prova un' altra comunicazione risalente a quel periodo, rivolta Francesco Zambon, guida del team di ricercatori Oms autore del rapporto Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell' Italia al Covid, poi fatto insabbiare, che in un centinaio di pagine evidenziava la risposta - spesso inadeguata - dell' Italia alla pandemia. Si tratta di una mail, di quelle portate alla luce da Report e sempre del maggio 2020, in cui Guerra chiedeva a Zambon di evitare critiche ai vertici del governo italiano «che hanno appena dato 10 milioni di contributo volontario sulla fiducia e come segno di riconoscenza». Ebbene, in quello scritto l' ex direttore aggiunto dell' Oms faceva presente a Zambon come nel mirino di Report ci fosse sì Tedros «ma anche D' Alema e Speranza». Ora, per quale ragione evidenziare con toni preoccupati il coinvolgimento «di striscio ma in maniera significativa» anche di D' Alema nell' ambito di inchieste giornalistiche? Non trattandosi un componente del governo, l' ipotesi più plausibile, conformemente a quanto già scritto ieri su queste pagine, è che davvero Guerra mirasse a salvaguardare, tra gli altri, il buon nome dell' ex premier quale prezioso intermediario tra Oms e governo italiano in vista del G20, in seno al quale kermesse interamente dedicata alla salute. Del resto, era sempre Guerra, scrivendo il 14 maggio 2020 a Silvio Brusaferro, presidente dell' Istituto superiore di sanità e attuale portavoce del Comitato tecnico scientifico, a ricordare che le ombre sollevate dalle inchieste giornalistiche potevano «mettere a rischio una discussione molto seria in prospettiva di G20». Se ne ricava che all' ex direttore aggiunto Oms l' incontro tra i grandi della Terra stesse evidentemente davvero a cuore; e i contatti con D' Alema fossero tra quelli utili a far sì che tutto filasse per il verso giusto.

Armando Di Landro e Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. Poca chiarezza, omissioni, negligenza, fatica a ottenere risposte. L'inchiesta di Bergamo fa i conti con quello che il procuratore Antonio Chiappani definisce «potere liquido». Partite dalla mancata chiusura dell'ospedale di Alzano Lombardo, ora che sono arrivate ben più in alto le indagini svelano ogni giorno di più la confusione, le lacune e l'impreparazione con le quali il sistema salute italiano ha affrontato i primi mesi della pandemia. E davanti alle richieste di spiegazioni, sempre per dirla con il procuratore, «è come se il ministero della Salute fosse un insieme di particelle non comunicanti tra di loro, senza una regia, come se le domande andassero fatte sempre ad altri». Avevano avuto questa impressione, in Procura, anche davanti alle domande fatte a novembre all'allora direttore vicario dell'Organizzazione mondiale della Sanità Ranieri Guerra (che da qualche giorno non ricopre più quel ruolo) che era anche l'inviato speciale in Italia per il Covid. Risultato: lui indagato per false dichiarazioni e le parole del suo verbale finite in una rogatoria che descrive un lungo elenco di presunte bugie. I pubblici ministeri scrivono in sostanza: lui dice questo e invece... lui dichiara che è così, mentre a noi risulta che...Risultano, per esempio, le comunicazioni via WhatsApp di Guerra con Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di sanità. Lui aveva smentito di aver mai fatto pressioni per far rimuovere dal sito di Oms Europa il report dal titolo: Una sfida senza precedenti. La prima risposta dell'Italia al Covid. Quel documento era stato pubblicato dai ricercatori dell'ufficio di Venezia, guidato da Francesco Zambon, e raccontava l'impreparazione, la gestione caotica e improvvisata dell'Italia davanti alla pandemia, specificando che in questo Paese il Piano pandemico non era mai stato aggiornato dopo il 2006, malgrado fosse stato richiesto per ben due volte dalla stessa Organizzazione mondiale della Sanità, nel 2013 e nel 2018. Chi avrebbe dovuto farlo? La competenza sembra fosse del direttore della Prevenzione del ministero, ruolo che Guerra aveva ricoperto dal 2014 al 2017, quando è passato all'Oms. Lui vide il report pubblicato e, a giudicare dalle chat scambiate con Brusaferro, andò su tutte le furie. Ma mentre rispondeva ai pm di non aver mai fatto pressioni per rimuovere quel rapporto non sapeva che del suo interessamento per farlo sparire c'erano tracce scritte nei messaggi WhatsApp con Brusaferro, del quale la Procura ha acquisito i contenuti del telefono cellulare anche se lui non è indagato. «Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia» gli scriveva Guerra. «Ho mandato scuse profuse al ministro e ti ho messo in copia di alcune comunicazioni. Alla fine sono andato su Tedros e ho fatto ritirare il documento. Sto ora verificando un paio di siti laterali e di social media dove potrebbe essere ancora accessibile per chiudere tutti i canali. La ritengo comunque una cosa schifosa di cui non si sentiva la mancanza. Spero anche di far cadere un paio di incorreggibili teste». Chiama gli uomini dell'ufficio veneziano «scemi», «somarelli». Insomma: si agita. E agitandosi, facendo rimuovere quel report, crea le condizioni per finire sotto i riflettori della Procura che non avrebbe indagato sul report se fosse rimasto online. Ma questa vicenda del report ritirato non è centrale per l'inchiesta di Bergamo. Ben più importanza ha il mancato aggiornamento e la mancata applicazione del Piano pandemico che, sia pure vecchio, era comunque una legge dello Stato con indicazioni precise su percorsi protetti in ospedale, provvedimenti per la popolazione, dispositivi di sicurezza...Il procuratore aggiunto di Bergamo Maria Cristina Rota è andata a Roma, a gennaio, per sentire il gotha della gestione sanitaria in Italia: tutti su una stessa linea, cioè il Piano pandemico riguardava ipotesi «influenzali» e il coronavirus non lo è. Ma i documenti dicono che la stessa Organizzazione - coronavirus o no - aveva invitato tutti i Paesi a rispolverare proprio il Piano pandemico nelle sue linee guida. Cosa che non è stata fatta, anche se per due volte fu Ippolito, membro del Cts, a sollevare il tema ma il discorso cadde nel vuoto. Per i dirigenti ministeriali, quindi, il rischio ora è che venga contestato un reato omissivo, proprio per la mancata applicazione di una legge dello Stato. E la Procura sta valutando anche le posizioni di chi avrebbe dovuto aggiornare il Piano, fra gli altri anche lo stesso Brusaferro, che in quanto presidente dell'Istituto superiore di sanità fa parte del Comitato per la prevenzione e il controllo delle malattie, competente anche sull'aggiornamento del Piano. Che poi: l'epidemiologo Gianni Rezza, che oggi guida la Prevenzione del ministero della Salute, appena ottenuto l'incarico ha fatto preparare una bozza di nuovo Piano pandemico in pochi mesi. Praticamente da solo.

Covid, rapporto Oms: i vertici volevano tutelare il governo e nascondere le critiche sulla gestione delle Rsa. Paolo Berizzi su La Repubblica il 16 aprile 2021. L'inchiesta della procura di Bergamo porta alla luce lo scontro interno nell'organizzazione dell'Onu: le pressioni di Ranieri Guerra su Francesco Zambon per ammorbidire le accuse. È storia: tra gli ultimi dieci giorni di febbraio e la metà di marzo 2020 nelle Rsa lombarde, non soltanto lì, ma soprattutto lì, il coronavirus si infila come un gas facendo strage di anziani. L'8 marzo è il giorno in cui il governo di Giuseppe Conte corre ai ripari e decide di proibire le visite dei familiari agli ospiti delle residenze sanitarie. Una misura che, secondo l'ormai famoso rapporto galeotto dell'Oms sulla gestione italiana della pandemia, sarebbe stata adottata in ritardo. Perché ormai l'infezione si era diffusa, e in tante strutture si erano creati dei focolai. Ma i vertici dell'Oms questa critica non volevano uscisse. Perché "è un'altra accusa al governo", e "non è il caso". Lo scrive in una chat Cristiana Salvi, responsabile europea della comunicazione Oms, conversando con Ranieri Guerra e Francesco Zambon. È quest'ultimo, l'ex funzionario Oms della sede di Venezia, a mettere nero su bianco l'"accusa". Lo fa nel suo report sparito dal sito dell'organizzazione il 13 maggio 2020, appena 24 ore dopo la messa on line. Quello che accadde è ormai noto e lo ha accertato l'inchiesta della procura di Bergamo: il direttore aggiunto dell'Oms, Ranieri Guerra, non aveva affatto gradito alcuni passaggi del rapporto e - i magistrati ne sono convinti - ha fatto pressioni su Zambon per modificare, togliere, edulcorare il testo. Che poi addirittura sparisce dal web. Il passaggio sulle Rsa è interessante per due motivi. Primo: perché è soprattutto lì, nelle case per anziani, che il Covid ha falciato vite. Bergamo, Brescia, Milano. E secondo: perché sulla questione - come la procura bergamasca ha avuto modo di apprezzare incrociando mail e chat acquisite in questi mesi - si consuma lo scontro interno all'Oms. Di fatto, per i magistrati, è questo scontro la chiave di accesso ai "segreti" della gestione della prima ondata della pandemia da parte del governo italiano, e dunque: mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale, indisponibilità o insufficienza di dispositivi di protezione e di farmaci retrovirali. La prova che queste lacune ci sono state, e che erano evidenti, secondo i pm sta proprio in ciò che Zambon scrive nel suo ingrandimento (poco gradito a Guerra). La frase "l'Italia non era totalmente impreparata" faceva brutto. Infatti Guerra la cancella con una riga rossa. I timori del direttore aggiunto e già dg dell'ufficio di Prevenzione del Ministero della Salute erano legati alle eventuali ricadute politiche negative ("il documento potrebbe prestare appigli se non adeguatamente formulato"). Insomma: d'accordo segnalare criticità, ma senza esagerare. Perché certe frasi avrebbero potuto "sollevare il disappunto del governo". E' sempre Cristiana Salvi a dare "consigli" nelle chat. Torniamo alle Rsa. Affermare che "c'è voluto fino all'8 marzo perché il governo proibisse le visite dei famigliari agli ospiti" - scrive la pr - è "un'altra accusa". Che evidentemente non s'aveva da fare. Eppure Zambon e colleghi - stando a un documento pubblicato dall'Agi - avevano scritto che, anche senza l'input governativo, "circa l'80% di questi istituti avevano già proibito le visite attraverso iniziative autonome nelle due settimane precedenti. Ma, nel frattempo, in molte residenze si era diffusa l'infezione e si erano creati dei cluster". Evidentemente scomodo era anche un altro punto: avere sottolineato che nella prima fase della circolazione del virus il "tracciamento veniva fatto con carta e penna", nella totale "improvvisazione". Erano i giorni in cui il Covid, ancora in parte sconosciuto, mieteva contagi e vittime. Per tracciare i casi - scrive Zambon prima che gli tirino le orecchie - "sorsero iniziative in tutto il Paese in un mosaico di sistemi improvvisati nell'ambito dei quali si utilizzavano carta e penna o un foglio di calcolo Excel ad hoc". Registrare l'inadeguatezza del censimento del virus in un rapporto che sarebbe finito sul tavolo del governo era - secondo le relazioni esterne Oms - una considerazione "politicamente scorretta". Chiede Salvi nella chat con Guerra e Zambon: "Si possono abbassare i toni?".  

"Non incolpiamo l'Italia". Così l'Oms voleva blindare Speranza. Giuseppe De Lorenzo il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Ranieri Guerra e la collega Salvi cercarono di modificare il report dell'Oms prima della pubblicazione: "Troppo sensazionalistico". Un certosino lavoro di limatura per evitare di irritare il governo italiano. Sembra questo l’intento che guidava Ranieri Guerra e la funzionaria dell’Oms Cristiana Salvi mentre leggevano, e correggevano, il report dei ricercatori di Francesco Zambon sulla risposta italiana al Covid. È quanto emerge da alcune chat e dalla stessa "bozza" del lavoro di cui ilGiornale.it è venuto in possesso in alcune sue parti.

I somarelli di Venezia. Le correzioni nella versione condivisa del report risalgono all’11 maggio del 2020, due giorni prima che il report venisse pubblicato e subito ritirato dopo appena 24 ore online. Zambon, infatti, non diede seguito ai suggerimenti di modifica dei due colleghi dell’Oms ("alcune cose non possono essere taciute"), prendendosi così la responsabilità di provocare il "disappunto del governo". Atto di coraggio che gli causerà l’isolamento nell’Oms e infine le dimissioni dall’ente di cui aveva denunciato la mancanza di indipendenza. Stando alle carte, infatti, Guerra si adoperò in più di una occasione per affossare il dossier dei "somarelli di Venezia" per compiacere il governo italiano. Se prima della pubblicazione cercò di farlo modificare, subito dopo si diede invece da fare per “farlo cadere nel nulla”, addirittura inviando "scuse profuse" a Speranza, scrivendo sms a Silvio Brusaferro e incontrando il capo di gabinetto del ministro per concordarne il destino ("vuole farlo morire").

La pressione dei media. Come rivelato dal Giornale oggi in edicola, tra le preoccupazioni dei due esponenti dell’Oms c’era il desiderio di “cancellare” i meriti di Zaia e del suo Veneto per coprire invece gli errori del governo Conte I. Ma non solo. Tra le parti finite nel mirino c’era anche il paragrafo 3.5, quello riferito alla capacità ospedaliera dell’Italia. Il 3 aprile, si legge nel report, il Belpaese contava 4.068 pazienti in terapia intensiva e al Nord i 2.842 intubati corrispondevano al 113% dei letti disponibili prima del Covid. Praticamente il sistema era al tracollo: ed è la pura verità. La Salvi però evidenziò in giallo un passaggio chiave, questo: “Ciò ha catturato molta attenzione da parte dei media e ha favorito la mobilitazione immediata delle autorità regionali e nazionali”. Così, si preoccupava infatti la funzionaria, “sembra che [il governo] abbia agito a causa della pressione dei media”. Dove sarebbe la bugia? "In Italia non è mai esistita alcuna comunicazione del rischio", spiega infatti Robert Lingard, consulente del team di legali delle vittime di Bergamo che ha scovato il report dopo il suo ritiro. "Si è passati direttamente ad una comunicazione d'emergenza e si è sempre lavorato per sdrammatizzare o minimizzare. Addirittura si facevano le campagne per non fermare il Paese. Gli unici ad aver ha fatto prevenzione sono stati i cronisti che documentavano quotidianamente l'aggravarsi della situazione negli ospedali. Ma li si è voluti dipingere come allarmisti che danneggiavano l'interesse nazionale. Il risultato sono 115 mila morti ed interi comparti produttivi in ginocchio".

"Abbiamo cercato di giustificare..." A pagina 19, invece, il report parlava della scoperta del paziente 0 di Codogno. Come rivelato a suo tempo dal Giornale.it, le linee guida del ministero non prevedevano nel suo caso l'effettuazione di un test. Mattia, infatti, non era stato in Cina e non aveva avuto contatti con positivi. Zambon nel dossier riconosce l'intuizione della dottoressa Malara, sottolineando che era "andata oltre le linee guida del ministero". Un fattore che aveva "dimostrato come la definizione del caso nel sistema di sorveglianza della diagnosi precoce non era abbastanza sensibile per rilevare questo nuovo coronavirus". Ma anche su questo la Salvi ebbe da ridire: "Finora sui media - scrisse nella bozza - abbiamo cercato di giustificare quanto accaduto senza incolpare l'Italia. Questo sarà molto critico sia per noi che per il Paese".

"Non può uscire così". Che Guerra e la Salvi intendessero edulcorare il report di Zambon per nascondere la malmessa gestione italiana emerge ormai da più atti contenuti nel fascicolo dell’inchiesta della procura di Bergamo che nei giorni scorsi ha anche indagato lo stesso Guerra per false dichiarazioni rese ai pm. In uno scambio di mail tra Salvi, Guerra e Zambon, la funzionaria metteva in allarme per un possibile “disappunto del governo” qualora il dossier fosse stato pubblicato senza il via libera dell’esecutivo. "Credo che prima di far uscire un rapporto così articolato sull'esperienza in Italia - si legge - non possiamo non condividerlo col ministero: non si tratta di una panoramica sul rapporto Oms ma sull'operato del governo, dunque riguarda il governo da vicino. Potremo sollevare il disappunto del governo altrimenti". E ancora: "Francesco... il rapporto è estremamente dettagliato e ricco. Io penso che abbia un notevole potenziale ma conoscendo il campo di azione vedo questo rapporto come una vera e propria bomba mediatica. Ranieri e io abbiamo cercato di arginare le critiche che questo rapporto denuda completamente. Il mio suggerimento è di rivedere il tono e mitigare le parti più problematiche". I timori di Guerra e Salvi erano infatti numerosi. L’ex direttore aggiunto dell’Oms, ormai scaricato dall’Organizzazione e definito semplice "consigliere speciale", faceva presente a Zambon che “siamo in una fase estremamente delicata, dobbiamo pesare le parole in maniera molto cauta, soprattutto se rimangono scritte e se lo sono su un documento ufficiale dell’Oms”. Guerra avvertiva il ricercatore, quasi a mo’ di minaccia, che "sto per iniziare col ministro il percorso di riconferma parlamentare (e finanziaria) del centro di Venezia e non vorrei dover subire ritardi o contrattacchi da parte di chi non ci vuole bene".

Le cancellature di Guerra. Non solo. Con due linee rosse Guerra cancellò le parole "l'Italia non era totalmente impreparata" e quelle riferite alla strategia italiana secondo cui "il piano, comunque, rimase più teorico che pratico con pochi investimenti o traduzione delle intenzioni in misure concrete". La Salvi invece dal canto suo definì "un’altra accusa" l’affermazione secondo cui in Italia "c’è voluto fino all’8 marzo perché il governo proibisse le visite dei familiari agli ospiti nelle residenze per anziani". Infine, riteneva pure "troppo sensazionalistiche" le affermazioni sui "corpi accatastati" e "senza una sepoltura dignitosa", in riferimento ai morti italiani per coronavirus: "Non penso che possiamo dire così". Sempre per la Salvi, dire che il tracciamento nella prima fase nella prima ondata venne fatto "con carta e penna" nella totale "improvvisazione" era una considerazione "politicamente scorretta". Secondo il report di Zambon, infatti, in Italia prima che venisse centralizzato il sistema di tracciamento "sorsero iniziative in tutto il Paese in un mosaico di sistemi improvvisati nell’ambito dei quali si utilizzavano carta e penna o un foglio di calcolo Excel ad hoc. I criteri variavano da luogo a luogo, bisogna arrivare alla metà di marzo prima che i dati del tracciamento venissero raccolti in una piattaforma di base sul web". Secondo l'Agi, è sempre Salvi a chiedere agli autori “Si possono abbassare i toni?” in relazione all’affermazione che “mentre si mettevano a punto i criteri per i test, il tracciamento e l’isolamento che sarebbero stati formalizzati in un dpcm, ciascuna regione procedeva per proprio conto”. Piccola domanda: se era la verità, perché gli esponenti italiani dell'Oms cercarono di edulcorarlo?

L'Oms voleva cancellare i meriti di Zaia in Veneto e gli errori di Speranza. Felice Manti il 17 Aprile 2021 su Il Giornale. Il report andava fatto sparire perché privo delle obiezioni di Guerra e di una collega. Due sottili linee rosse valgono un capo d'accusa. Eccola, la smoking gun, la pistola fumante in mano alla Procura su cui poggia l'accusa dei magistrati di Bergamo che indagano per epidemia colposa al dirigente Oms Ranieri Guerra, colpevole di non aver rivelato ai magistrati guidati da Antonio Chiappani il suo pressing, messo nero (anzi, rosso) su bianco l'11 maggio del 2020. È la versione condivisa del report, scritto dai ricercatori della sede Oms di Venezia guidati da Francesco Zambon e misteriosamente sparito il 13 maggio 2020 dal sito dell'Oms 24 ore dopo la sua pubblicazione, perché - come hanno scoperto i magistrati - Zambon non ha voluto far sue le modifiche richieste dallo stesso Guerra e Cristiana Salvi, responsabile relazioni esterne Oms. Dopo che ne aveva dato la notizia il Guardian, il report fu ritrovato e divulgato ai media da Robert Lingard, il consulente del team legale che assiste i familiari delle vittime della Bergamasca. Guerra, come i lettori del Giornale sanno, voleva edulcorare il report e nascondere la pessima gestione del governo italiano della pandemia, privo di un piano pandemico aggiornato, di dispositivi di protezione stoccati e di farmaci retrovirali disponibili, tanto da voler cancellare la frase «l'Italia non era totalmente impreparata (quando arrivarono i primi bollettini dalla Cina, ndr)», come dimostra il documento pubblicato dall'Agi. Secondo Zambon il piano «rimase più teorico che pratico con pochi investimenti o traduzione delle intenzioni in misure concrete». «Dobbiamo pesare le parole in maniera molto cauta soprattutto se sono scritte e se rimangono in un documento dell'Oms», scriveva ancora Guerra, preoccupato soprattutto per se stesso, visto che tra il 2014 e il 2017 era lui il capo dell'ufficio di Prevenzione del ministero della Salute ed era lui a dover aggiornare il piano per affrontare un'eventuale pandemia. Ma tra i timoni di Guerra c'erano anche le ricadute politiche negative («il documento potrebbe prestare appigli se non adeguatamente formulato») sul governo giallorosso di Giuseppe Conte, visto che, come dimostrano le chat in mano ai pm, il report doveva essere concordato con il portavoce del Cts Silvio Brusaferro, il capo di gabinetto di Roberto Speranza e ovviamente con lo stesso ministro della Salute. Zambon disse no al pressing («alcune cose non possono essere taciute»), lasciò il report senza le correzioni e fu costretto a dimettersi dall'Oms perché nonostante avesse segnalato l'intervento a gamba tesa ai piani alti, nessuno dell'organismo Onu lo sostenne, violando la policy dell'organismo internazionale. «Il ritrovamento del report originale è un riscontro per noi importantissimo - dice Consuelo Locati, che guida il team di legali che rappresenta le vittime della Bergamasca - è la prova ulteriore e documentale che chi doveva fare non ha fatto e quindi ha grosse responsabilità istituzionali per violazione di legge, oltre che di eventuali responsabilità penali, alle penserà la Procura». Anche la Salvi segnalò a Zambon alcune frasi da eliminare. Quello che il Giornale è in grado di rivelare è che una delle frasi che secondo la Salvi avrebbe potuto infiammare il dibattito politico riguardava il Veneto e l'ottima gestione della prima parte della pandemia da parte del suo governatore, il leghista Luca Zaia. Zambon diede merito al sistema di sanità pubblica più forte e alla sua capacità di sensibilizzazione dela comunità («stronger public health network and community outreach capacity»). Una frase, questa, che secondo la Salvi era potenzialmente offensiva dal punto di vista politico (potential for political outrage). Insomma, non si poteva parlar bene dei meriti di Zaia: «Potremo sollevare il disappunto del governo, altrimenti». Ma come ricordò Francesca Nava sul Fatto lo scorso 12 dicembre fu solo grazie a Zaia, all'intuizione di Andrea Crisanti e a un protocollo preso dal piano pandemico non aggiornato che il focolaio veneto si spense sul nascere. Insomma, non si poteva sottolineare un piccolo successo del Carroccio a fronte del gigantesco fallimento del governo giallorosso con 115 mila morti.

Speranza scarica sull’Oms il dossier ritirato sul piano pandemico. Fabio Calcagni su Il Riformista il 18 Aprile 2021. IL PIANO PANDEMICO – Il ministro passa poi a difendersi sulla questione relativa al piano pandemico e all’inchiesta della procura di Bergamo che vede indagato anche Ranieri Guerra, numero due dell’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità. Speranza sottolinea infatti che le scelte fatte sul dossier dell’Oms sono state fatte dall’Oms stesso e non dal governo italiano. Una difesa preventiva, in vista della puntata di Report che evidenzierà lunedì una mail del 14 maggio 2020 inviata da Ranieri Guerra al ministro della Salute dove Guerra annuncia l’uscita del dossier critico, il giorno stesso in cui viene ritirato. “Quella mail ci informava che era stato pubblicato quel report e ci riportava un dibattito legittimo all’interno dell’Oms, quelle scelte sono state tutte dell’Oms”. Report svelerà l’esistenza di un email in cui Ranieri Guerra avrebbe scritto a Speranza delle criticità del report dell’OMS di Zambon. Allora il ministro sapeva? “quell’email ci informava dell’esistenza del rapporto, ma le scelte sulle pubblicazione sono dell’OMS” — Mezz’ora in Più (@Mezzorainpiu) April 18, 2021. Speranza infatti precisa che “è stato l’Oms a decidere di ritirarlo. Le istituzioni italiane – ha aggiunto il ministro – hanno preso atto di quel documento ma noi non abbiamo funzioni in questa partita. Sono dinamiche interne a Oms. Attenzione a non dare una lettura distorta di una cosa che è molto più lineare di quanto sembra. Penso che questa materia vada tolta dall’agone politico”. Secondo il ministro della Salute comunque quel rapporto è “rispettabilissimo, è una fotografia del contagio. Riconosce alcuni meriti al nostro paese ma è un documento dove non c’è nulla di particolarmente rilevante per noi che in quelle ore eravamo occupati con gli ospedali pieni”. Speranza ha ricordato che all’epoca dei fatti, “con assoluta onestà eravamo di fronte a una situazione incredibile, non avevamo gli strumenti adatti e sicuramente le scelte prese nei comuni come quelli lombardi o veneti sono state dure. Eravamo di fronte a una novità e non c’era il manuale delle istruzioni”.

"Il report lo rivedrà il ministero". Una mail incastra Speranza. Giuseppe De Lorenzo il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. La missiva spedita da Ranieri Guerra a Zambon sul report dell'Oms: "Ci sono già segni di turbolenze istituzionali" in Italia. La mail, ancora mai vista prima, è datata 14 maggio 2020. Ore 9.31. È il giorno successivo alla pubblicazione del report degli “scemarelli di Venezia” guidati da Francesco Zambon: da lì a poche ore, alle 12.46, il documento verrà ritirato e al ricercatore verrà “tolta la possibilità di tornare online”. A firmare la missiva è Ranieri Guerra, ex direttore aggiunto dell’Oms ed ex membro del Cts, in quei giorni molto attivo per “edulcorare” il dossier e renderlo meno indigesto al governo italiano. “Ci sono già segni di turbolenze istituzionali da parte italiana - si legge - e risentimenti inutili per la procedura che si è deciso di seguire e la mancanza di informazioni e di preventiva consultazione, più che sul contenuto stesso, che verrà rivisto dal Ministrero della Salute, apparentemente preso di sorpresa”. L’attenzione, è evidente, va posta su quella frase: “Verrà rivisto dal Ministero della Salute”, cioè l'ente guidato da Roberto Speranza. Il leader di Sinistra Italiana, allora, sapeva o no del tentativo di censurare il report scomodo dell’Oms? E si è mosso in prima persona per farlo modificare o ritirare? Non secondo il diretto interessato. Intervistato da Lucia Annunziata, Speranza ha infatti risposto alle due domande che (finalmente) gli sono state poste sull’affaire Oms. “Quel rapporto è rispettabilissimo”, ha spiegato il ministro, precisando però che “non c’è nulla di particolarmente rilevante” per il governo. “È stata l’Oms a decidere di ritirarlo. Le istituzioni italiane hanno preso atto di quel documento ma noi non abbiamo funzioni in questa partita. Sono dinamiche interne all’Oms”. Per quanto si dica sicuro che le indagini della Procura di Bergamo faranno emergere “la trasparenza e la piena lealtà delle istituzioni del nostro Paese”, il ministro deve essersi perso un paio di passaggi negli ultimi giorni. Dalla rogatoria - ancora senza risposta - spedita dai pm all’Oms l’8 marzo, come rivelato dal Giornale.it (leggi qui), emergono infatti chat ed e-mail in cui il coinvolgimento del ministro (e dei suoi uffici) appare acclarato. Tutte fantasie di Guerra? Può darsi. Fatto sta che in quelle chat, e nell’interrogatorio di fronte ai pm, l’ex esponente del Cts tira in ballo più volte Speranza: invita Zambon a cercarne la “benedizione”, rivela il “disappunto” del ministro “per la pubblicazione del report” e sostiene addirittura che Speranza lo abbia personalmente contattato “dolendosi del fatto che nessuno della Sanità italiana era stato contattato”. Possibile che Guerra si sia inventato tutto? Magari anche sì. Tuttavia Guerra sostiene pure di aver incontrato Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto di Speranza: non un collaboratore qualsiasi, insomma, ma il suo braccio destro. “Cdg (il capo di gabinetto, cioè Zaccardi, ndr) dice di vedere se riusciamo a farlo cadere nel nulla - si legge in una chat con Silvio Brusaferro del 18 maggio - Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme. Sic”. Se era davvero "un documento del tutto indifferente per lo Stato italiano”, perché allora Zaccardi si sarebbe mobilitato con così tanta solerzia? A sconfessare la linea difensiva di Speranza c’è infine un’altra mail. Questa volta a scriverla è Hans Kluge, direttore regionale per l’Europa dell’Oms. Sono le 7.50 di mattina del 15 maggio 2020, il giorno dopo il ritiro del report dal sito dell’Organizzazione. Tra le altre cose, Kluge fa sapere a Zambon che “il Ministro era molto deluso” da quanto successo. “Silvio (presumibilmente Brusaferro, ndr) ha detto che sono costantemente attaccati dalla stampa e ogni parola può essere mal interpretata. Si sentono come calpestati da un amico”. La preoccupazione è tale che Kluge si prende l’impegno di scrivere a Speranza “che organizzeremo un gruppo di esperti di Oms, Iss e ministero della Salute per rivedere il documento”. Rivedere: cioè modificare, edulcorare, censurare. E infatti pochi giorni dopo, il 28 maggio, Guerra contatta Brusaferro: "Ecco quanto emerso dalla riunione di ieri con Zaccardi e Speranza a seguire - si legge in un sms - Se mi dai un paio di persone con cui interagire attacchiamo su tutti i fronti, soprattutto primariamente sul rapporto". L’accordo con il ministero ("agreed") è quello di affiancare al team di Venezia alcune persone dell’Iss e del ministero per "rimodellare la bozza" in modo da renderla una "pubblicazione condivisa". "Il Kuwait è felice - scriveva Kluge - adesso abbiamo bisogno che anche il ministero della Salute sia felice". Ripetiamo: davvero il rapporto era così "indifferente"?

I pm contro il braccio destro di Speranza. Felice Manti il 22 Aprile 2021 su Il Giornale. L'indagine su report Oms e piano pandemico sfiora il capo di gabinetto Zaccardi. Il ministro della Salute Roberto Speranza poteva non essere informato dal suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi della volontà di affossare il rapporto Oms che inchiodava l'Italia alla sua pessima gestione della pandemia? La domanda andrebbe fatta a lui (e il Giornale l'ha fatto più volte), ma nessuno finora ha risposto. Dalle chat captate dalla Procura di Bergamo tra l'ex direttore vicario dell'Oms Ranieri Guerra, il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro e lo stesso Zaccardi sappiamo che quest'ultimo chiese a Guerra di affossare il report scritto dai ricercatori guidati da Francesco Zambon, ritrovato a settembre da Robert Lingard, consulente dei legali che difendono i familiari delle vittime della Bergamasca. Ed è per questo che Guerra è accusato di false dichiarazioni ai pm. Ma Speranza sapeva? Se l'è chiesto anche la procuratrice aggiunta di Bergamo Maria Cristina Rota, che indaga per epidemia colposa. «Immagino che sia dovere del capo di gabinetto e dei collaboratori di riferire al ministro - risponde a Radio 24 - ma non posso escludere che qualche omessa comunicazione ci sia stata». È plausibile pensare che il prossimo avviso di garanzia colpisca Zaccardi, braccio destro di Speranza? Sì, stando anche a quanto è trapelato - fonte Corriere della Sera edizione Bergamo - dall'analisi delle migliaia di pagine che contengono tutte le conversazioni interne a ministero della Salute, Istituto superiore di Sanità e Cts, acquisite per conto dei pm dalla Guardia di Finanza su telefonini e computer nei giorni caldi della pandemia. Sms, mail e chat e che contraddirebbero la versione ufficiale data ai pm. Per fugare i dubbi i pm potrebbero interrogare proprio Zaccardi, finora mai sentito. Ma perché il report Oms è stato fatto sparire 24 ore dopo la sua pubblicazione, esattamente il 14 maggio? In quei giorni si discuteva della risoluzione sul bilancio pluriennale europeo e soprattutto sulle risorse del Recovery fund da destinare ai Paesi europei più colpiti dalla pandemia. Il 15 si incontra l'Eurogruppo, il 18 Francia e Germania chiedono subito 500 miliardi per rilanciare l'economia (alla fine saranno 750). L'Italia, come sappiamo, alla fine ne porterà a casa circa 200, quasi il 28% dell'intera torta. Ma se il report Oms che accusava l'Italia sul piano pandemico e smentiva le auto osservazioni del 2017, fosse arrivato sulla scrivania dei governi cosiddetti «frugali» come Austria, Paesi Bassi, Danimarca e Svezia, il trattamento riservato all'Italia sarebbe stato lo stesso? Non è escluso che su questo strano tempismo si sia accesa una lampadina in Procura. Peraltro, è opportuno ricordare che il piano pandemico non è soltanto un elenco di buone intenzioni. In alcuni Paesi misure come i ristori e la cassa integrazione sono scattati immediatamente perché erano previsti dal piano pandemico, così come alcuni accantonamenti di risorse. Lo conferma al Giornale il direttore del Centro Studi Fiscal Focus, Antonio Gigliotti, autore del libro Caos-19, che ha già lanciato una class action contro il ministero della Salute: «I ristori sono irrisori rispetto alle perdite che gli imprenditori hanno dovuto subire. Non avevano mai pianificato quanto budget avrebbero dovuto accantonare per sostenere le perdite delle imprese». Intanto il 28 aprile si voteranno le mozioni di sfiducia presentati da Gianluigi Paragone, ex grillini e Fdi, mentre la sinistra e il Pd continuano a sviolinare parole di elogio per Speranza. «La sfiducia è solo una bandierina della destra, una danza macabra sulla pelle delle persone» dice Arturo Scotto di Articolo Uno. Ma se l'inchiesta arrivasse al suo braccio destro? Per Speranza sarebbe un crescendo. Di violini e guai.

Roberto Speranza, il cerchio si stringe: report Oms ritirato, il suo braccio destro dai pm. Libero Quotidiano il 24 maggio 2021. Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto di Roberto Speranza, è stato sentito dalla Procura di Bergamo come persona informata sui fatti. Il tema è il report dell’Oms dal titolo “Una sfida senza precedenti: la prima risposta dell’Italia al Covid”, pubblicato il 13 maggio 2020, subito ritirato dopo 24 ore e poi diventato una sorta di scandalo internazionale. Non si sa cosa abbia riferito, né cosa i magistrati abbiano chiesto al braccio destro del ministro. I pm potrebbero però aver concentrato le domande sugli sms scambiati tra Ranieri Guerra (assistant director Oms) e Silvio Brusaferro (presidente Iss) in cui si parla di incontri con Zaccardi e dei tentativi di far “cadere nel nulla” il report Oms. I magistrati stanno infatti cercando di capire chi abbia fatto ritirare quel dossier che conteneva alcuni spunti critici sulla gestione italiana “improvvisata, caotica e creativa”. Guerra, indagato per false dichiarazioni, è ritenuto dai pm colui che si adoperò “personalmente alla rimozione dal sito Oms del report”. Il mistero è capire se il ministero della Salute ha avuto un ruolo sulla rimozione dello scomodo documento. Speranza ha sempre escluso la prima ipotesi, ritenendo la questione “tutta interna” all’Oms. E anche i pm pare non abbiano ancora raccolto prove su un eventuale coinvolgimento del ministero prima del 14 maggio, data della “scomparsa” del dossier. Guerra sostiene che a rimuoverlo dal web sia stato il coordinatore del team di autori, Francesco Zambon, a causa delle pressioni provenienti da Pechino su un “box Cina”. Zambon si è dimesso dall’Oms e ha ammesso di averlo tolto dalla circolazione per correggere alcune imprecisioni, ma anche che era pronto a ricaricarlo nel giro di poche ore prima che gli venissero negate le autorizzazioni. Sul destino del documento, scrive il Giornale, si sa poco o nulla. Se non che il 28 maggio Guerra informò Brusaferro dell’accordo raggiunto nella “riunione di ieri con Zaccardi e con Speranza".

Documento esclusivo. Oms: «Controllate la Procura di Bergamo, devono rispettare la nostra immunità». Report Rai il 14 aprile 2021. Report può mostrarvi in esclusiva la note verbale del 3 novembre scorso [PDF] con cui la direzione europea dell'Oms chiede al nostro ministero degli esteri di vigilare sul lavoro dei pm orobici, una invasione di sovranità. Vi si legge: «L'Organizzazione richiede cortesemente che il Ministero faccia tutti i passi necessari per assicurare che la summenzionata immunità dell'Organizzazione e dei suoi funzionari sia pienamente rispettata nel contesto del suddetto procedimento giudiziario». Alle telecamere di Report la pm Rota risponde: «Noi non volevamo ficcare il naso negli affari di Oms, solo fare luce sul famoso report e sul piano pandemico in relazione ai fatti accaduti nell'ospedale di Alzano Lombardo».

Covid, la procura di Bergamo: "Speranza non chiese di far cadere nel nulla il report che evidenziava le falle italiane". Il ministro non è indagato. Paolo Berizzi su La Repubblica il 19 aprile 2021. Nei prossimi giorni altri interrogatori: l'obiettivo dei magistrati è arrivare a capire a chi sia da attribuire la malagestione dell'emergenza nella bergamasca. “Irritato” sì, ma non più di questo. E comunque, non intervenì per chiedere la rimozione e “far cadere nel nulla” quel rapporto . La procura di Bergamo ha messo dunque a tacere, almeno per il momento, le voci che da giorni vorrebbero il ministro della Salute, Roberto Speranza, coinvolto (con un’ipotetica quanto inesistente iscrizione nel registro degli indagati) nella vicenda del report redatto dal team di ricercatori della divisione europea dell’Oms, report nel quale si metteva a nudo le falle del sistema Italia nell’affrontare l’epidemia di Coronavirus.

"Speranza lo sapeva da aprile". L'accusa sul dossier Oms. Giuseppe De Lorenzo il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Il ministro della Salute si difende dall'Annunziata. Ma le carte parlano chiaro. Locati: "Speranza non può scaricare tutto sull'Oms". Siamo ancora qui. Al dossier dell’Oms pubblicato il 13 maggio e subito ritirato il giorno successivo, abortito in gran segreto e mai rimesso online. Roberto Speranza era a conoscenza della pubblicazione del report critico sull’Italia redatto dagli “scemarelli di Venezia”? Lui o i suoi uffici si sono mobilitati per attenuarlo, “farlo morire” o “farlo cadere nel nulla”? Il ministro sostiene di no. Dice che è tutta una roba interna all’Oms e nulla c'azzeccano l’Iss e il ministero. Ma le carte suggeriscono tutta un’altra lettura. La questione, ci teniamo a dirlo, non è tanto giuridica. Sul piano pandemico mai attivato, sul piano segreto non rivelato, sulla risposta italiana alla prima ondata di coronavirus sarà (forse) l’indagine della Procura di Bergamo guidata da Antonio Chiappani ad arrivare a un qualche punto. Qui invece la questione è squisitamente politica: come fa notare Robert Lingard, consulente del team di legali delle vittime bergamasche, secondo l’articolo 95 della Costituzione i ministri sono responsabili “individualmente degli atti dei loro dicasteri”. Speranza dovrebbe dunque almeno spiegare quelle chat tra Silvio Brusaferro e Ranieri Guerra, contenute nella rogatoria spedita dai pm all’Oms, in cui il presidente dell’Iss sul report si diceva “d’accordo di rivederlo insieme”. Dovrebbe Speranza spiegare perché Guerra sostiene di essere stato contattato dallo stesso ministro, manifestando il suo “disappunto”. Oppure ci piacerebbe capire per quale motivo in un sms l’ex membro del Cts annunciava riunioni con Goffredo Zaccardi, Capo di Gabinetto di Speranza, affermando di aver avuto indicazioni di “farlo cadere nel nulla”. E ancora: come mai in una mail inviata anche a Hans Kluge, direttore europeo dell’Oms, Guerra assicura che il documento verrà “rivisto dal ministero, apparentemente colto di sorpresa”? E come mai in un’altra chat parla di “accordi” dopo una “riunione con Zaccardi e Speranza” per rimettere mano al tutto con un gruppo di lavoro congiunto tra Iss e dicastero? E perché Kluge si preoccupa così tanto che il ministero resti "felice" del lavoro dell'Oms, evitando così di mandare a monte il progetto sull'ufficio di Venezia? Anche per questo l’avvocato Cansuelo Locati, che difende i familiari delle vittime, stamattina lancia bordate di fuoco dopo aver sentito ieri sera Speranza da Lucia Annunziata. La decisione di abortirlo è stata solo dell’Organizzazione e non del governo? “Speranza non può scaricare completamente sull'Oms - dice Locati all’Adnkronos - considerando che, rispetto a quello che risulta dalla rogatoria, lui sapeva del dossier fin dal 15 aprile del 2020, quindi ancora prima della pubblicazione del documento. Bastava dire che ne era a conoscenza dal 15 aprile e che rendere pubblico quel dossier che fotografava la risposta dell'Italia alla pandemia sicuramente lo avrebbe messo in imbarazzo”. Certo l’Oms ci ha messo del suo, visto l’attivismo con cui Guerra e la dirigente Cristiana Salvi hanno cercato di edulcorare con ben 106 modifiche il contenuto del documento, correzioni rispedite al mittente da Zambon. Senza dimenticare le pressioni fatte sul ricercatore, prima indirizzato verso la Bulgaria e poi costretto alle dimissioni. Ma “il fatto che ci sia anche Brusaferro in questo scambio di mail con Guerra e faccia riferimento anche al capo di gabinetto", sostiene Locati, "mi pare che sia abbastanza evidente che non sia stato solo un atto che faceva capo all'Oms perché Brusaferro con l'Oms non c'entra nulla". C'entra, invece, e non poco, col ministero della Salute. Insomma, magari “non è stato Speranza a farlo rimuovere", però “ciò non significa che lui non sia stato a conoscenza del report, che è una cosa diversa”.

Test gonfiati e protocolli errati: Speranza è nei guai. Felice Manti e Edoardo Montolli il 24 Aprile 2021 su Il Giornale. Le affermazioni di ieri sera di Claudio D'Amario a Quarta repubblica sono la conferma della catena di negligenze costata quasi 120mila morti e del possibile nesso di causalità tra alcune omissioni e la pandemia. Quando l'ex responsabile della Prevenzione del ministero della Sanità Claudio D'Amario ha ammesso l'altra sera a Quarta repubblica di aver gonfiato il 4 febbraio 2020 il test di autovalutazione della capacità dell'Italia di resistere a una pandemia, qualcuno in Procura a Bergamo - alle prese con il difficilissimo puzzle dell'indagine per epidemia colposa tra documenti, chat, email dei vertici di Iss, ministero della Sanità e membri del Cts degli ultimi 14 mesi - è saltato sulla sedia. È la conferma della catena di negligenze costata quasi 120mila morti e del possibile nesso di causalità tra alcune omissioni e la pandemia. «La sanità funziona così, più investi in prevenzione oggi e più risparmierai domani», ha scritto nel suo libro Perché guariremo il ministro Roberto Speranza, il cui capo di gabinetto Goffredo Zaccardi è nel mirino della Procura e potrebbe essere presto sentito. È solo una delle tante frasi imbarazzanti, tanto che il libro è sparito quasi subito dalla circolazione. E come il report Oms, insabbiato perché non consono alla narrazione tranquillizzante del governo dal dirigente Oms Ranieri Guerra (predecessore di D'Amario al ministero e indagato con l'accusa di aver mentito ai pm), anche il volume è rispuntato dal nulla. In questi giorni nei tribunali di mezza Italia c'è un viavai di ricorsi e di esposti contro l'esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Il Giornale ne ha intercettati diversi: in quello presentato a Roma dall'associazione European Consumers si contesta che «fin dalla prima circolare ministeriale 1997 del 22 gennaio 2020 Polmonite da nuovo coronavirus (2019 nCoV) in Cina non viene fatta menzione di alcuna profilassi e terapia con antivirali (disponibili), altri farmaci e cure di supporto», si accusa la decisione (circolare 11285 del 1° aprile 2020) di «vietare le autopsie», che a detta dei ricorrenti «ha determinato un forte ritardo nella diagnosi dei fenomeni trombotici» e si punta il dito contro la terapia domiciliare decisa dall'Aifa solo a fine dicembre 2020, in cui si raccomanda come unica strada da seguire «una vigilante attesa e la somministrazione di paracetamolo o fans». Una ricetta ribaltata lo scorso 31 marzo dai risultati dello studio dell'Istituto Mario Negri di Bergamo, che al posto della tachiprina, ritenuta «più dannosa che utile» punta su aspirina e su antinfiammatori come l'Aulin in caso di dolori. Il Senato ha chiesto all'esecutivo di rivedere i protocolli, ma il ministero li sta difendendo, persino davanti al Consiglio di Stato. Se si fosse puntato subito sulle cure domiciliari con antidolorifici e antivirali - come prevedeva il piano pandemico, anche quello non aggiornato del 2006 - mentre i medici di base impazzivano scambiandosi consigli e suggerimenti, si potevano salvare delle vite? Soprattutto nella Bergamasca, come sottolineano i legali dei familiari delle vittime guidati da Consuelo Locati? La risposta finale, forse scontata, dovrà darla la magistratura.

"Piano pandemico non sufficiente". Ma un dossier smentisce Speranza. Giuseppe De Lorenzo l'1 Maggio 2021 su Il Giornale. Il ministro in Senato si è autoassolto. Ma un rapporto Oms del 2018 avverte: le pandemia sono eventi imprevedibili ma ricorrenti". Chissà se Roberto Speranza, mentre parlava a Palazzo Madama, oltre a rivolgersi ai senatori presenti stava indirizzando quelle sue parole anche alla procura di Bergamo. Già, perché tra le contestazioni al ministro scritte nelle tre mozioni di sfiducia (tutte respinte), una in particolare è contenuta anche nei fascicoli dei pm bergamaschi. I magistrati guidati da Antonio Chiappani, infatti, sospettano che il piano pandemico italiano non solo non sia mai stato aggiornato dal 2006, ma non sia neppure stato “attivato” durante la prima fase dell’epidemia. Ha ragione da vendere Speranza quando afferma che non spettava certo a lui aggiornare il piano. Le linee guida dell’Oms e la decisione (vincolante) dell’Ue risalgono al 2013. E lui a quel tempo era “solo” capogruppo del Pd alla Camera. Ben diverso invece il discorso per quanto riguarda la sua applicazione. Per quanto obsoleto, infatti, il piano pandemico conteneva delle indicazioni utili per affrontare il coronavirus. Tant’è che l’Oms il 5 gennaio inviò un alert in cui suggeriva di mettere in pratica le misure di sanità pubblica e quelle sulla sorveglianza dell’influenza. Il motivo era la presenza di una polmonite di eziologia sconosciuta in Cina. In pratica, l’Oms chiese ai Paesi di far riferimento ai piani pandemici nazionali per prepararsi ad un eventuale sbarco del virus in Europa: in quel momento sarebbe dovuta scattare la fase 3 di “allerta pandemica”, prevista per l’appunto nel momento in cui si registrano infezioni nell’uomo da parte di un nuovo sottotipo di virus. L’Italia lo fece? Non secondo quanto trapelato nei mesi scorsi. La task force ministeriale venne infatti inaugurata solo 17 giorni dopo, il 22 gennaio. Ma anche il blocco dei voli dalla Cina, lo stato di emergenza, la ricerca di mascherine: tutto sarebbe partito in ritardo. In uno dei verbali delle riunioni della task force, quello del 29 gennaio, emerge inoltre che anche Giuseppe Ippolito suggerì (nonostante il ritardo già accumulato) di “riferirsi alle metodologie del piano pandemico di cui è dotata l’Italia e di adeguarle alle linee guida appena rese pubbliche dall’Oms”. Il suggerimento venne seguito? A gennaio 2021 la procura ha ascoltato alcuni dirigenti ministeriali i quali avrebbero detto che, nonostante l’alert dell’Oms e i suggerimenti Ippolito, il piano non venne applicato e si “navigò a vista”. Il motivo? Si ragionò, riporta l’Ansa, sul fatto che “non si trattava di influenza ma di un virus proveniente dalla Cina di cui poco si sapeva”. Posizione confermata in un’intervista pubblica anche da Claudio D’Amario, ex direttore generale della prevenzione: “Quel piano non è scattato dopo le prime avvisaglie (…)”, disse, ma fu proposto dall’Iss “uno studio per poter fare un piano contro Covid dedicato a questa nuova tipo di pandemia”. Perché? Da allora la linea difensiva di Speranza non è cambiata. In Senato è stato chiaro: “Di fronte a questo virus totalmente nuovo è del tutto evidente che il Piano pandemico antinfluenzale del 2006 non era sufficiente, né lo erano le successive raccomandazioni emanate dall’OMS”. Per questo il ministero, invece di “attendere istruzioni” o “tenere in ordine le carte”, decise di “andare decisamente oltre”. Scrivendo, ad esempio, un “piano segreto” nuovo di zecca. Ora, il problema - per Speranza - è che in realtà i piani pandemici servono proprio a casi come il coronavirus. Un documento ufficiale dell’Oms del 2018, infatti, spiega chiaramente che le pandemie influenzali “sono eventi imprevedibili ma ricorrenti” e che iniziano “con l’emergere di un virus a cui le persone non hanno una immunità pre-esistente e che può diffondersi da persona a persona”. Se sapessimo esattamente di cosa si tratta, non servirebbe certo un “piano pandemico”: avremmo i vaccini già pronti e vivremmo felici e contenti. Invece la risposta ad un virus sconosciuto, si legge nella relazione dell’Oms, è composta di diversi elementi “che dovrebbero riflettersi in piani nazionali completi di preparazione alla pandemia che siano stati testati attraverso esercitazioni regolari”. Che senso ha avere un “piano” se poi quando arriva un virus sconosciuto lo si mette da parte per realizzarne un altro? Speranza in aula ha detto che quel documento venne “valorizzato” nelle parti “utili e funzionali” a contrastare questo virus. Di quali capitoli parla? E perché il resto del testo venne scartato?

"Da Speranza bugie vergognose: vi svelo tutte le sue omissioni". Giuseppe De Lorenzo il 2Bocciata la mozione di sfiducia contro Speranza. Che si è difeso in aula. Bignami replica: "Troppe omissioni". “L’attitudine di Speranza a nascondere la verità è inquietante. Viene da pensare sia incompatibile col ricoprire un ruolo istituzionale visto che nasconde la verità e distorce i fatti”. È un fiume in piena, Galeazzo Bignami (FdI). Ha appena finito di ascoltare l’intervento al Senato di Roberto Speranza poco prima del voto sulla mozione di sfiducia (poi bocciata) e non riesce a trattenersi. “Sto esplodendo - dice - non posso credere che il ministro lo abbia fatto davvero”.

Di cosa parla, onorevole?

“Oggi aveva l’opportunità di fare chiarezza su tutto e invece ha deciso di rispondere solo a quei temi che riteneva più agevoli, ha distorto le richieste di chiarimenti e ha del tutto omesso di spiegare fatti che gli venivano contestati. Non si è neppure degnato di smentirli, ma evidentemente perché non poteva farlo”.

Andiamo con ordine. E partiamo dal tema più fresco, l’ormai famoso report dell’Oms scritto da Francesco Zambon e rimosso dal sito dell’Oms. Speranza in aula ha detto: “Non siamo stati noi a farlo ritirare”.

“Nessuno lo ha mai accusato di questo. Noi abbiamo domandato se lui o qualcuno del suo ministero si sia adoperato affinché quel documento non tornasse online”.

E secondo voi il dicastero c’entra?

“Nelle mail e negli sms tra Ranieri Guerra e Silvio Brusaferro si riferisce di incontri tra Guerra, Speranza e il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi. Quei file, in mano alla procura di Bergamo, dimostrano che Zaccardi si adoperò affinché quel report ‘morisse’ e venisse fatto ‘cadere nel nulla’”.

E Speranza?

“Le opzioni sono due: o sapeva, e sarebbe grave; oppure non sapeva, e allora politicamente sarebbe anche peggio perché si dimostrerebbe un incapace”.

Beh ma mica può sapere cosa fanno tutti i suoi sottoposti.

“Lui in Senato ha citato l’articolo 94 della Costituzione. Bene, dovrebbe ripassarsi pure il 95 dove si dice chiaramente che il ministro è individualmente responsabile degli atti compiuti dal suo dicastero. E le questioni di cui parliamo riguardano persone alle sue dirette dipendenze. E poi…”

E poi?

“Ho trovato vergognoso, vergognoso, proprio senza alcun ritegno, il richiamo ai medici che si sono spesi in questa pandemia. Perché tra le modifiche che Guerra suggerì sul dossier di Zambon ci fu proprio questa: cancellare il riferimento ai medici che morivano in corsia. Erano eroi ma non si doveva dire che morivano”.

Altra accusa respinta da Speranza. Dice che il piano pandemico del 2006 non spettasse a lui aggiornarlo, ma ai 7 ministri che lo hanno preceduto.

“L’obbligo giuridico di aggiornamento c’è dal 2013, con la decisione 1082. Da allora abbiamo avuto solo Ministri di centrosinistra. E comunque non abbiamo mai chiesto a Speranza perché non ha rivisto il piano. Gli abbiamo chiesto perché non lo ha attivato”.

Perché riguardava l’influenza e non il coronavirus?

“Ma non è vero. In una circolare del 5 gennaio 2020 della direzione prevenzione a firma Francesco Maraglino si dice che andavano attivati tutti gli strumenti di contrasto all’influenza. Inoltre da un verbale della task force del 29 gennaio emerge che Giuseppe Ippolito, direttore dello Spallanzani, suggerisce al ministro di utilizzare il piano pandemico aggiornandolo alle indicazioni dell’Oms. Se tu chiami un consigliere alla task force e questo ti dice di fare una cosa e poi non la fai, ci devi spiegare perché”.

Anche la procura si è posta la stessa domanda.

“Fdi non è connotata da disonestà intellettuale. Sappiamo benissimo che Speranza è arrivato al ministero nel 2019. Ma vorrei far notare una cosa”.

Dica.

“Chi era ministro nel 2013 quando avremmo dovuto aggiornare il piano? Beatrice Lorenzin. E sapete chi sedeva sulla sedia di capogruppo del Pd allora al governo? Roberto Speranza”.

E perché secondo lei il piano non venne attivato e si preferì scriverne uno da zero, il famoso “piano segreto”?

“Perché non volevano si sapesse che il vecchio piano non era aggiornato, mettendo a nudo le mancanze di anni dell’intera macchina del ministero. L’interesse degli italiani è stato subordinato all’interesse del dicastero”.

Da gennaio però un piano pandemico lo abbiamo. Il ministro l’ha sottolineato in Senato.

“Se ritiene non fosse utile contro la Covid, mi chiedo allora perché lo abbia rivendicato con tanto ardore. L’attitudine a distorcere i fatti di Speranza è davvero inquietante”.

Cos’altro ritiene che non abbia detto ieri il ministro e che avrebbe potuto chiarire sulla gestione del virus?

“Ci sono decine di omissioni nel suo discorso”.

Mi dica la più grossa.

“Si è dimenticato di affrontare il tema della trasparenza, che lui nel suo libro sostiene essere la stella polare della sua azione politica”.

E non è così?

“Robert Lingard, cui va tutto il merito sull’opera di ricostruzione della verità, dice giustamente che la trasparenza è un grosso problema per Speranza. Anzi: il ministro ha addirittura rivendicato il fatto che il Cts, dove lui aveva nominato persone del suo ministero, operava sotto obblighi di riservatezza. Il tutto violando palesemente il punto 17 della decisione 1082 dell’Ue, che durante una pandemia impone di mantenere processi decisionali totalmente trasparenti”.

E poi?

“Un’altra menzogna l’ha detta quando sostiene che FdI gli contesti il rigore delle misure. È falso. Noi contestiamo l’irragionevolezza di alcune decisioni che non vengono adeguatamente spiegate alla popolazione in violazione della Regolamentazione Sanitaria Internazionale, secondo cui occorre coinvolgere i cittadini se si vuole davvero sconfiggere un virus”.

Speranza ha ricordato che quando lui predicava rigore e attenzione lo scorso marzo era l’unico a farlo.

“Certo, ma solo perché era l’unico che aveva i dati i mano. Perché non li ha divulgati? Ed è inutile, come ha fatto, continuare a mescolare lo studio Merler col piano segreto”.

Questa è una delle sue battaglie. Non l’ha ancora ricevuto questo benedetto documento?

“No”.

E perché?

“Credo che all’interno di quell'atto, e dei verbali della task force che pure non ci forniscono, ci siano degli elementi che comprovano la responsabilità politica di Speranza sulla tragedia che abbiamo vissuto”.

Se l'aspettava un’arringa difensiva così decisa, ieri in Senato?

“No. Mi aspettavo trovasse un briciolo di umiltà per chiedere scusa”.

Il ministro ha mentito?

“È evidente. Se poi ha detto bugie per dolo o per incapacità è una questione di cui dovrà rispondere di fronte agli italiani e credo anche di fronte ai giudici”.

I familiari delle vittime si sono molto risentite per le parole di ieri in Senato.

“Queste persone hanno intrapreso azioni civili contro lo Stato e non chiedono risarcimenti roboanti: basterebbe anche solo un euro. O forse anche solo le scuse del ministro”.

A quali altre domande avrebbe voluto avere risposta?

“Perché abbiamo inviato autovalutazioni all’Oms in cui dicevamo di essere pronti e non era vero? Perché non sono stai rimossi dal Cts componenti che erano responsabili del mancato aggiornamento del piano pandemico? Perché sono ancora lì? Perché non ha smentito le mail di Ranieri Guerra? Perché non ha spiegato il suo incontro con Guerra e le manovre del suo capo di gabinetto”.

Speranza dice di volersi tenere alla larga dalle polemiche politiche.

“Vergognosa strumentalizzazione. È lui che sta cercando di confondere le acque nel tentativo di intorbidirle”.

Mi dica la verità: la mozione di sfiducia di ieri era pretestuosa?

“In questi mesi abbiamo chiesto alcuni documenti e non ce li hanno dati. Abbiamo fatto ricorso al Tar e non ce li hanno dati durante il giudizio. Il Tar ci ha dato ragione e loro ci hanno fornito atti diversi da quelli ordinati dai giudici. Abbiamo presentato oltre 20 interrogazioni e non ci hanno mai risposto. Gli abbiamo chiesto di riferire in aula e non è venuto. Abbiamo chiesto risposte e non ne ha date. Le dimissioni erano il minimo".

Non ha ragione il ministro quando sostiene che ‘non si fa politica su una tremenda pandemia’?

“Il primo a buttarla in politica è proprio lui. Ricordo che ha scritto un libro alternando la zona di Codogno ai congressi della Figc. È lui ad usare la pandemia per scopi politici”.

Il giudice condanna Speranza: "Deve mostrare i verbali segreti". Giuseppe De Lorenzo il 7 Maggio 2021 su Il Giornale. Una sentenza terremota il ministero della Salute. FdI fa ricorso e vince. Lollobrigida: "È una battaglia per la trasparenza". Due a zero e di nuovo palla al centro. Dopo la prima condanna inflitta al ministero della Salute dal Tar del Lazio sul piano segreto, arriva oggi la seconda batosta che si abbatte su Roberto Speranza: il Tribunale Amministrativo laziale ha infatti emesso la sua sentenza “in nome del popolo italiano” costringendo il dicastero a fornire i verbali della task force anti coronavirus. Fino ad oggi tenuti segreti. Breve riassunto, per chi non ha seguito sin dall’inizio la vicenda. Torniamo al 22 gennaio del 2020, prima dell’inizio dell’epidemia, il giorno in cui Speranza annuncia la creazione di una task force da lui presieduta e formata dai “migliori cervelli” di cui dispone il Paese. Il gruppo di lavoro si riunisce tutti i giorni per diverse settimane, tutte le mattine alle nove e sempre alla presenza del ministro di Leu. È in quella sede che nascono le prime strategie per il contenimento del virus cinese. Lì che sorge la decisione di chiedere lo stato di emergenza. Lì che viene ascoltato il 27 gennaio Ranieri Guerra, ex direttore aggiunto dell’Oms poi coinvolto nel putiferio del dossier di Zambon. Ma soprattutto è lì che si decide, come emerso dalle carte dell’inchiesta di Bergamo, cosa fare (e cosa non fare) del piano pandemico anti-influenzale. Giuseppe Ippolito, direttore dello Spallanzani, il 29 gennaio suggerisce di far riferimento a quel documento aggiornandolo alle linee guida dell’Oms. "È stato fatto?", si chiedono in molti. Forse basterebbe leggere i verbali delle riunioni per capirlo. Ed è qui che sorgono i problemi. Il 22 dicembre del 2020, infatti, il deputato FdI Galeazzo Bignami presenta un’istanza di accesso civico per ottenere i “documenti nella disponibilità del Ministero della Salute e a qualsiasi titolo da essi redatti e detenuti inerenti lo svolgimento delle riunioni della task force”. Il motivo di tanta indeterminatezza sta tutta nel fatto che il dicastero ha opposto diniego asserendo al fatto che gli incontri dei “migliori cervelli” si erano svolti in maniera “informale”. E dunque in assenza di procedimenti o verbali veri e propri. Insomma: trasparenza portami via. Bignami, difeso dall’avvocato Silvia Marzot, decide allora di rivolgersi ai giudici come già successo nel caso del piano segreto. E, come ilGiornale.it può rivelare in esclusiva, vince su tutta la linea. Per la seconda volta. Il ministero, va detto, si era difeso con le unghie e con i denti. Per l’avvocatura dello Stato infatti “non esistono i "verbali e/o documenti inerenti le riunioni della task force" ma “solo resoconti informali, con allegato l’elenco dei presenti acquisito nel corso della riunione”. Cosa cambia? Nulla dal punto di vista sostanziale: sempre di fogli scritti si tratta. Ma il ministero ha provato a giocare sul cavillo da azzeccagarbugli: trattandosi di un tavolo non ufficiale, la task force non avrebbe posto in essere “atti, documenti o provvedimenti”, ma solo “resoconti redatti da un funzionario, di volta in volta presente alla specifica riunione, che annota sinteticamente i diversi interventi, ma non trascrive testualmente gli interventi stessi”. Tradotto: trattasi di atti non formali che dunque il parlamentare FdI non avrebbe diritto a richiedere. Peccato che i giudici della Sezione Terza Quater del Tar non la pensino allo stesso modo. “La circostanza che la task force si sia limitata a fornire al ministro ‘aggiornamenti e considerazioni al fine delle determinazioni da assumere, non ponendo in essere atti/documenti/provvedimenti- si legge nella sentenza - è del tutto irrilevante”, perché “per ‘documento amministrativo’ si intende ‘ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non, relativi ad uno specifico procedimento (...) indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale’”. Poco importa insomma se il tavolo era informale e se gli atti non sono stati protocollati: il diritto di accesso di ogni cittadino “prescinde dalla natura dei documenti richiesti”. E deve essere garantito soprattutto oggi che ci troviamo “in una situazione di così grave preoccupazione per la salute pubblica e individuale”. “Per la seconda volta i Giudici condannano il ministro Speranza e danno ragione a FdI nella battaglia per la trasparenza condotta nell’interesse di tutti gli italiani”, dice al Giornale.it Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera. “Si tratta di documenti fondamentali, che, come affermato dallo stesso ministero, hanno condotto alla dichiarazione dello Stato di emergenza del 31 gennaio 2020 determinando tutte le scelte operate dal governo nella gestione della pandemia”. Entro 30 giorni il dicastero dovrà consegnare quanto richiesto a Bignami. E così presto sapremo cosa c’è scritto davvero in quei documenti. Rimasti fino ad ora nel cassetto di Speranza.

"Così ho incastrato Speranza scovando un dossier segreto". Giuseppe De Lorenzo il 23 Aprile 2021 su Il Giornale. Parla Robert Lingard, il giovane italiano emigrato a Londra che ha ripescato dalla rete il dossier Oms scomodo per il governo: "Speranza si dimetta". Tutto il patatrac di questi giorni ha un punto di inizio. Una miccia che si è accesa in silenzio, un po’ per caso, a migliaia di chilometri dal ministero della Salute. Lo scandalo che sta facendo traballare Roberto Speranza sul dossier scomparso dell’Oms nasce a Londra, nella casa di un 30enne bresciano espatriato per lavoro, all’interno del pc utilizzato da Robert Lingard per scovare quel report che l’Oms pensava di aver fatto scomparire nel nulla. “Hanno fatto male i loro conti - dice lui al Giornale.it - Quello che pubblichi nel world wide web alla fine una traccia la lascia sempre”

Ci dica: chi è Robert Lingard?

“Sono un emigrato che lavora a Londra e ha una sua agenzia di pubbliche relazioni”

Un cervello in fuga?

(ride) “Direi più uno che si dà da fare”

E come mai da Londra si è messo a indagare gli errori nella risposta italiana al coronavirus?

“Nella prima ondata ho perso due parenti e tre sono finiti in terapia intensiva. Uno di questi, dopo cinque mesi di ospedale, ha rischiato anche la paralisi. Volevo capire perché era successo”

E perché non si è accontentato di chi diceva: “Non potevamo fare di più per impedirlo”?

“Sono appassionato di giornalismo investigativo. E so che in Italia il settore della sanità dal punto di vista amministrativo ha tanti scheletri nell’armadio. Poi a un certo punto ho notato una cosa strana…”

Quale?

“In Italia siamo passati improvvisamente dallo sminuire il problema ad utilizzare una comunicazione dell’emergenza, bypassando a piedi uniti la comunicazione del rischio. Avevo l’impressione che le istituzioni stessero cercando di costruire una narrativa particolare…”

Quale tipo di narrativa?

“Accomodante verso di loro e che le de-responsabilizzasse”.

Mi sta dicendo che quando ci raccontavano che è stato uno "tsunami" imprevisto, mentivano?

“Credo di si. Perché se ripeti questa bugia, e sostieni di essere in "guerra con il virus", in realtà stai solo de-responsabilizzando te stesso perché sai che la gente il virus non può portarlo in tribunale. I governanti invece sì”.

Robert Lingard

È passata l’idea che l’Italia sia stato il primo Paese Ue investito dal morbo. Eppure altri focolai erano già esplosi in Francia e Germania. Perché allora siamo diventati una sorta di “vittima inerme” d’Europa?

“Anche questa storiella faceva comodo al governo e, documenti alla mano, ritengo si tratti di una campagna di disinformazione studiata a tavolino per costruire una narrativa compiacente”. 

E quale è la verità?

“Questa: in Europa i primi focolai sono nati in altri Paesi, ma la pandemia - cioè la diffusione incontrollata del virus - è scoppiata qui”. 

Perché?

“Perché noi eravamo totalmente impreparati”

Che poi è quello che emerge dal dossier dell’Oms scritto dai ricercatori guidati da Francesco Zambon.

“La famosa risposta improvvisata, caotica e creativa”

In questi giorni si parla molto di quel dossier che uscì il 13 maggio 2020 e 24 ore dopo venne ritirato. Nessuno ne seppe nulla finché a un certo punto lei l’ha tirato fuori dal cappello. Come ha fatto a sapere della sua esistenza?

“Ad inizio agosto entro in contatto con il generale Lunelli che aveva scritto un rapporto sulla risposta italiana al Covid confrontandola con quella di altri Stati. Il generale stimava che avremmo potuto risparmiare fino a 10mila morti se solo avessimo avuto un’adeguata preparazione”.

E poi?

“A quel punto chiamo un mio contatto al The Guardian per parlargli del report di Lunelli. Loro scrivono un pezzo e all’interno rivelano l’esistenza del dossier Oms scomparso. A quel punto inizio a cercarlo”

Come riesce a trovarlo?

“Con un po’ di open source intelligence”. 

In pratica smanettando su internet.

“Esatto”. 

Lei è un esperto oppure l’Oms non ha nascosto bene le tracce?

“Beh, come si legge nella rogatoria dei pm, Ranieri Guerra si sarebbe adoperato personalmente per far rimuovere quel documento, inclusi i link in cui sarebbe stato possibile reperirlo. Ma quello che pubblichi nel world wide web alla fine una traccia la lascia sempre”

Allora possiamo dire che lei è l’uomo che ha incastrato Speranza.

(ride) “Quello che siamo riusciti a fare è stato merito di un lavoro di squadra: mio, del team dei legali, alcuni parlamentari, la stampa. Sicuramente, il fatto di averlo trovato ha permesso di far emergere le responsabilità politiche di quanto successo”

A settembre 2020 lo avete presentato alla stampa.

“Esatto. E insieme ai legali delle vittime abbiamo fatto emergere i temi più scottanti: che non c’era una linea di comando ben precisa, che nessuno sapeva bene cosa doveva fare, che il piano pandemico era stato solo "riconfermato" e non "aggiornato" dal 2006”.

Perché quel dossier è così importante?

“Perché rappresenta una contro narrativa (quella vera e fattuale) rispetto a quella artificiosa venduta dalle istituzioni. Non dimentichiamo che quel rapporto è stato scritto da scienziati, i quali dati alla mano dimostrano la totale impreparazione italiana: basti pensare che la raccolta dei dati della sorveglianza epidemiologica veniva fatta in alcuni casi con carta e penna e che il primo lockdown venne definito da un membro del CTS una misura di cieca disperazione”.

Il ministro della Salute Roberto Speranza

Però dice Roberto Speranza: “Alla fine tutti i Paesi hanno fatto come noi”.

“Mica tanto… Per utilizzare le parole di Kluge nell'introduzione al rapporto del team di Zambon, se ci hanno seguito è perché abbiamo terrorizzato il mondo”

Altro appunto: il ministro sostiene che il piano pandemico del 2006, aggiornato o meno, era dedicato alle influenza e il Covid non è un’influenza. Quindi sarebbe stato inutile.

“Una delle tecniche di propaganda consiste nel creare confusione. E Speranza (e non solo lui) da molti mesi pare stia tentando di gettare nel caos il circolo della comunicazione mass mediatica. Ed attraverso di essa, l'opinione pubblica italiana. L’Oms parla di pianificazione per l’influenza pandemica, ma non significa che si applica solo all’influenza stagionale. Gli Stati devono tenersi pronti per essere capaci di sapere far fronte ai vari scenari pandemici con le terapie intensive, con i dispositivi di protezione individuale, con piani intermisisteriali da attivare in caso di emergenza, indipendentemente dal tipo di virus che provoca la pandemia”.

Guerra e Cristina Salvi provarono ad edulcorare il report dell’Oms. Come giudica questa ingerenza?

“È stato un tentativo di riscrivere la storia. Direi tanto vano quanto fallimentare, a questo punto. Hanno cercato di cancellare la verità sulla mancata pianificazione, di sminuire i meriti del Veneto per proteggere le mancanze romane e lombarde”.

Stando ad una mail di Guerra del 14 maggio, la pubblicazione del report provocò delle “turbolenze istituzionali” al ministero della Salute.

“Il giorno successivo l’Eurogruppo si riuniva per definire le linee guida del Recovery Fund”

E quindi?

“Questo rapporto non era pensato per essere letto da Speranza. Ma per essere messo a disposizione delle autorità di salute pubblica di altri Paesi. Si potrebbe allora pensare che potesse mettere in discussione una narrazione funzionale alla strategia di Conte in Europa. Mi spiego. La ripartizione dei fondi avvenne in base ai danni subiti dai Paesi a causa del Covid: un rapporto scientifico simile poteva far traballare la tesi della ‘fatalità’ sostenuta da Conte e che è stata alla base della negoziazione per l’assegnazione dei fondi. Non credo che i "frugali" si sarebbero prestati”.

Ma Speranza dice che quel report fu “indifferente” al governo.

“Dal suo ufficio stampa dissero anche che nessuno del ministero lo aveva letto, e invece dalla rogatoria emerge tutt’altro…”.

Guerra in una chat scrive che ci fu un incontro con il capo di Gabinetto e con lo stesso ministro per parlare di come mettere mano al dossier.

“Magari di sua iniziativa non si sarà mobilitato per farlo sparire, ma ricopre una figura istituzionale su cui ricade il peso delle azioni dei suoi collaboratori”.

Perché Guerra era così interessato a modificarlo?

“Lui era a capo del dipartimento che avrebbe dovuto attivarsi per aggiornare il piano pandemico. Ed il fatto di essersi prodigato per fare sparire quel documento farebbe pure comprendere l'importanza di una pianificazione adeguata. Ma credo che la sua maggior preoccupazione fosse quella di non procurare il disappunto del ministro Speranza”

Ma perché?

“Pare che Guerra fosse interessato ad un ruolo nel G20. E poi c’è quella mail in cui lui parla di un’Oms come ‘consapevole foglia di fico’ per le scelte impopolari del governo in cui si fa accenno al fatto che, dopo anni di magra, l’Italia avesse finalmente deciso di destinare 10 milioni di euro di finanziamento proprio all’Oms”. 

Ha letto il libro di Speranza?

“Alcune parti”. 

Cosa l’ha colpita?

“Quando sostiene non ci fosse un manuale di istruzioni contro la pandemia: un manuale c’era, e si chiamava piano pandemico attorno a cui costruire delle capacità fondamentali che noi non abbiamo mai sviluppato”.

Eppure l’Italia con le sue autovalutazioni ha sempre detto all’Oms e all’Ue di essere pronta.

“Bugie documentate su cui pure la Procura di Bergamo mi risulta stia indagando”.

A che punto è la verità su quanto successo un anno fa?

“Un pezzo di verità storica è emersa. Ormai è chiaro che le istituzioni, negligenti, hanno delle responsabilità su quanto successo. Per questo oltre a risponderne dal punto di vista penale (se e dove ci saranno gli estremi) è necessario che lo Stato si adoperi per risarcire le famiglie delle vittime del Covid. A partire dai parenti in causa presso il Tribunale civile di Roma”.

Speranza si fregia del fatto di aver fatto della trasparenza la sua stella polare. È così?

“Bisogna chiederlo agli onorevoli di Fdi, che per riuscire a ottenere il piano segreto o i verbali della task force sono dovuti ricorrere al Tar. E vorrei dire una cosa in merito...”. 

Prego.

“Vorrei dare atto all’onorevole Galeazzo Bignami di FdI di essere stato l’unico esponente del mondo della politica (locale, regionale e nazionale) ad entrare in contatto con i familiari delle vittime non per interessi di parte, ma al solo scopo far emergere la verità su quanto successo”.

Mi dica: secondo lei Speranza dovrebbe dimettersi?

“Sono valutazioni politiche. Ma sarebbe un atto di trasparenza istituzoinale e di rispetto nei confronti dei familiari delle vittime. Se lo facesse significherebbe ammettere che in Italia non è andato tutto bene e che la sua gestione, sia nella prima che nella seconda fase, è stata decisamente carente. Basta fare il confronto con gli altri Paesi. E poi lo dice pure il Global Preparedness Monitoring Board dell’Oms: la prima lezione appresa dalla Covid è che la leadership politica fa la differenza. E lui l’ha fatta in negativo”.

Giusy Caretto per startmag.it il 27 aprile 2021. Inviti (inascoltati) 15 mesi fa a comprare respiratori e incrementare le terapie intensive. Rassicurazioni (poi rivelatesi farlocche) di Ranieri Guerra sull’aggiornamento del piano pandemico. Verbali del Cts chiesti e mai ricevuti. E addirittura collaboratori diretti di Sileri non pagati per mesi dal ministero. Ecco le ultime accuse del sottosegretario al Ministero della Salute, Pierpaolo Sileri, ai vertici amministrativi del dicastero della Salute retto da Roberto Speranza. Ecco tutti i dettagli. “Ranieri Guerra, a dicembre 2020, continuava a dirmi che aveva lasciato un piano aggiornato. Piano che io non ho mai trovato”. Non ha mezzi termini il sottosegretario al Ministero della Salute, Pierpaolo Sileri, che intervenendo ad Omnibus, programma di La7 racconta quanto è avvenuto nei mesi scorsi. Partiamo da uno degli argomenti più spinosi di questi mesi: il mancato aggiornamento del piano pandemico. “Alcune cose si capiscono nel tempo. Fino a dicembre, quindi per tutto maggio, giugno luglio, agosto, continuavano a dirmi, alcuni che ora non sono più qui al Ministero, che il piano pandemico era stato aggiornato. C’è voluta la procura d Bergamo per confermare che il piano era quello del 2006”, afferma Sileri intervenendo ad Omnibus. “Le garantisco che nonostante un e-mail ricevuta il 15 aprile del 2020, nella quale si diceva che era stato aggiornato nel 2008-2009 ci sono stati soggetti all’interno del Ministero che erano convinti, forse a forza di dire una bugia diventa verità, che il piano pandemico era stato aggiornato”, continua Sileri, aggiungendo che “Ranieri Guerra a dicembre del 2020 continuava a dirmi che aveva lasciato un piano aggiornato. Piano che io non ho mai trovato. Lei capisce che è anche difficile avere risposte”.  Risposte, secondo quanto afferma il sottosegretario alla Salute mai concesse anche dal Cts, il Comitato Tecnico Scientifico. “Lei dimentica che probabilmente che io non ho mai avuto i verbali del Cts. Lei dimentica che su 30 domande fatte al Cts io non ho mai avuto risposta”, sostiene Sileri. “Agostino Miozzo, candidamente, nel mese di ottobre 2020 mi dice <<Si guarda, io ho avuto disposizioni di non dare informazioni>>. Ancora devo capire chi è che aveva dato queste disposizioni”. Sileri, dunque, tagliato fuori, Eppure settimane prima dello scoppio della pandemia era stato proprio l’attuale sottosegretario alla Salute, come racconta lui stesso, a capire il pericolo e a chiedere interventi seri. “Io il 28-29 gennaio 2020 ho chiesto di comprare i respiratori. Io avevo detto che forse il virus sarebbe arrivato da noi e che quindi era meglio assumere nuovo personale ed aumentare i posti di terapia intensiva, in medicina interna”, racconta Sileri lasciando intendere che l’allarme è rimasto inascoltato. Le accuse di Sileri vanno ben oltre la sola pandemia. “Abbiamo un’Italia, e purtroppo il Ministero della Salute lo ha dimostrato, che quando venivano fatte le certificazioni di qualità inviate all’Oms eccetera, veniva scritto che era tutto apposto”. Una prevenzione fatta di sola burocrazia, spiega Sileri: “Io ho sentito una sconcertante intervista fatta dal Direttore Generale della prevenzione, in cui riferiva che questi report che mandavano all’Oms, di cui l’ultimo fatto i primi di febbraio 2020, era burocrazia. Come può cambiare un Paese se non si responsabilizza l’amministrativo”. E dalla burocrazia dipenderà il mancato pagamento dell’ufficio di Sileri? “Io ho avuto un ufficio completamente non pagato. Ho un capo della segreteria, da quando sono stato viceministro, mai retribuito. Ho avuto un Generale dei Carabinieri mai consolidato nel mio ufficio, un Tenente dell’Aeronautica che non è mai stato pagato, in tutto per sei mesi. Tutto si può dire al sottoscritto, tranne che non abbia lavorato a testa bassa e con il massimo della trasparenza”. “Sarà un piacere per me, quando avrò finito il mio mandato, chiamare i giornalisti, dare la password del mio computer e lasciarlo a vostra completa disposizione”, spiega Sileri sostenendo che “ci sarà modo” di parlare della verità, ma “Prima dobbiamo portare i morti a 10, 5, 0 morti al giorno e poi fare i conti con chi ha sbagliato”. Pierpaolo Sileri, comunque, non è nuovo a queste dichiarazioni. Sul mancato aggiornamento del piano pandemico, intervenendo a Report, aveva confessato: “Che il piano pandemico fosse vecchio è vero”. “Credo che qualche spiegazione da questo punto di vista dovrebbe essere data”, aveva detto Sileri, smentendo Ranieri Guerra e chi lo difendeva, ovvero il ministro alla Salute Roberto Speranza. Lo stesso sottosegretario alla Salute, intervistato da La Verità retrodata il piano al 2006, aggiungendo: il punto non è avere un piano ‘vintage’, bensì avere un piano che, anche se vecchio, sia stato declinato a livello periferico”. “Che cosa è stato fatto per l’influenza? – aggiunge Sileri – Io, da quando sono tornato in Italia, cioè tra il 2005 e il 2018, in ospedale non ho mai fatto un corso sull’influenza. O sul bioterrorismo. O sugli attacchi nucleari”. E sempre al quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, Sileri aveva aggiunto: “Guerra ha mandato una lettera datata 15.09.2017 in cui c’è un appunto sul rinnovo del piano. La stessa cosa ha fatto Claudio D’Amario nel 2018 con il ministro Giulia Grillo”. “E infatti Lorenzin e Grillo si sono mosse. La prima ha istruito la pratica, la seconda l’ha portata avanti con tanto di gruppi di lavoro“. Il punto è che “se io fossi stato direttore generale avrei scritto una nota relativa al piano che riepilogasse quanto avvenuto negli ultimi dieci anni. Non una semplice paginetta”. Il disappunto di Sileri con le scelte Ministeriali, viene fuori anche sulle scelte delle siringhe luer lock per le vaccinazioni fatte da Domenico Arcuri, l’ex Commissario Straordinario all’emergenza. Per Sileri, più che ad evitare lo spreco della dose del vaccino (improbabile anche con le siringhe standard) bisognava fare attenzione alla sicurezza degli operatori. “Sarei molto più attento invece alla copertura dell’ago: un conto è vaccinare qualche decina di persone; un altro qualche milione di italiani. E io devo tutelare i miei colleghi, che non raramente si pungono mentre si rincappuccia la siringa. Avere l’ago che si può coprire, per poi gettare tutto, è l’aspetto più importante. Questo protegge l’operatore”, aveva detto Pierpaolo Sileri a Quarta Repubblica. “Le luer, che si avvitano, permettono di evitare qualche spreco, come avviene quando magari la siringa si apre. Ma, francamente, è molto improbabile che accada. Quasi impossibile, a dire il vero”, aveva aggiunto Sileri.

Estratto dell’articolo di Felice Manti per "il Giornale" " il 27 aprile 2021. Alla vigilia delle mozioni di Fdi ed ex Mx5 in Senato anche il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri sfiducia il «suo» ministro Roberto Speranza sul piano pandemico. (…) Il sottosegretario in tv ha lanciato accuse pesanti anche a Ranieri Guerra, ex responsabile della Prevenzione del ministero oggi all' Oms, («A dicembre del 2020 continuava a dirmi che aveva lasciato un piano aggiornato, piano che non ho mai trovato») e al suo successore Claudio D' Amario, che nei giorni scorsi in tv ha ammesso di aver gonfiato il test Oms del 4 febbraio 2020 sull' autovalutazione della capacità dell' Italia di resistere a una pandemia come il coronavirus. All' Agi qualche giorno fa Sileri disse che proprio D' Amario lo aveva rassicurato sull' aggiornamento del piano pandemico («È stato rinnovato al 2016, ed è pronto anche il nuovo», gli avrebbe detto). Non basta. Sileri ha anche detto che alla vigilia della pandemia avrebbe chiesto (invano) al ministero di comprare dei respiratori e di aumentare i posti disponibili nelle terapie intensive. «Non ho mai avuto i verbali del Comitato tecnico scientifico, a cui ho fatto una trentina di domande. Non ho mai avuto risposta, mai!». Tra le «mele marce» (Sileri dixit) che l' avrebbero rassicurato sul piano pandemico, oltre a Guerra e D' Amario ci sarebbe anche Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute, già ascoltato per sei ore come persona informata sui fatti dai magistrati di Bergamo lo scorso 18 gennaio. L' assenza di un piano sarebbe precisa responsabilità di Guerra e D' Amario, come confermano diverse carte in mano agli inquirenti che il Giornale ha potuto consultare, ed è per questo che Guerra si sarebbe speso in prima persona per cancellare il report Oms redatto a maggio dall' equipe guidata dal funzionario della sede Oms di Venezia, Francesco Zambon. Il documento che sbugiardava il ministero - poi ripescato da Robert Lingard, il consulente dei legali dei familiari delle vittime della Bergamasca - era sparito dopo 24 ore anche perché Zambon si sarebbe rifiutato di postdatare il piano, facendolo sembrare aggiornato al 2017. Ma questo non discolpa Speranza, che probabilmente sapeva del report già ad aprile, perché informato dal suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi. (…)

È caduta la foglia di fico. Report Rai PUNTATA DEL 19/04/2021 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini. Cosa è successo la mattina del 14 maggio 2020, poche ore prima che il rapporto dell'OMS critico sulla gestione italiana della prima ondata Covid-19 fosse rimosso? E in che modo qualche mese più tardi l'OMS ha tratto un ritorno in termini di immagine da questa censura? Report svela nuovi documenti esclusivi che mostrano cos'era la strategia della foglia di fico e perché la foglia ora è caduta.

“E’ CADUTA LA FOGLIA DI FICO” Di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini

GIULIO VALESINI - LA CONSAPEVOLE FOGLIA DI FICO - REPORT - 30/11/2020 Allora risponda a questa domanda, ci spieghi cos’è la strategia delle foglia di fico e come ha fatto l’Oms a diventare da organismo tecnico e indipendente delle Nazione Unite alla foglia di fico del governo italiano. Risponda… Lei di questa strategia della foglia di fico ne avrebbe parlato perfino con Tedros. Perché non dovevamo urtare la sensibilità politica del ministro Speranza, dottor Guerra… Risponda, è una domanda. Io non manipolo nulla, se lei risponde alle domande. L’Oms può diventare la foglia di fico di un governo? Dottor Guerra, risponda, l’ha scritto lei.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Pochi giorni prima che Report svelasse al mondo la strategia della foglia di fico, la reciproca protezione tra Oms e governo italiano, chiedemmo al ministro Speranza se avesse letto il rapporto Oms censurato e se conosceva le ragioni della rimozione. Il ministero ci rispose che non si trattava di un documento ufficiale dell’Oms e che non era mai stato trasmesso al dicastero, che quindi non lo aveva mai né valutato né commentato. Oggi, possiamo rivelare che le cose sono andate diversamente. È il 14 maggio, ore 9 e 18 del mattino. Il rapporto scritto dai ricercatori di Francesco Zambon è stato pubblicato solo un giorno prima e verrà ritirato poche ore dopo questa missiva. Ranieri Guerra è preoccupato e scrive un’email al ministro Roberto Speranza. Silvio Brusaferro è in copia. L’oggetto è “Rapporto Venezia confidenziale”.

RANIERI GUERRA – DIRETTORE AGGIUNTO OMS – E-MAIL “Buongiorno ministro e buongiorno Silvio. È con molto dispiacere personale che confermo la pubblicazione del rapporto elaborato dall’ufficio di Venezia senza l’autorizzazione degli uffici centrali di Ginevra, che era stata negata venerdì e ribadita lunedì dopo mio intervento piuttosto pesante. Avevo imposto la discussione preliminare con te, Silvio, Franco Locatelli, Andrea Urbani e Ruocco, per lo meno, al fine di evitare di accendere inutili e dannose polemiche. Il momento è delicato. Si sarebbe potuto utilizzare il rapporto come camera di amplificazione degli straordinari provvedimenti di governo. Purtroppo mi è stata negata ogni possibilità di intervento, invocando da parte degli autori, la libertà, l’autonomia e l’indipendenza senza valutare i danni collaterali e l’inevitabile crollo della reciproca fiducia. Non so che dire, al di là della mia personale dissociazione dal rapporto, che però farà danni ugualmente. Ranieri Guerra

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Speranza è in una posizione di estrema debolezza perché lui aveva detto che non ne sapeva niente. Se non lui, il suo ufficio stampa ha dichiarato “noi non ne sappiamo niente” e comunque non è un rapporto Oms, aveva detto il ministero.

GIULIO VALESINI Lei Speranza non l'ha mai sentito?

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Mai. Perché evidentemente c’era un accordo tra di loro. Cioè evidentemente la triplice alleanza Tedros Guerra Speranza esisteva veramente. Io pensavo fosse soltanto una boutade di guerra. Invece non era così.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il rapporto dei ricercatori di Venezia però certificava l’impreparazione italiana e la vera età del piano pandemico. A differenza di quanto sostiene Guerra, era stato approvato proprio dagli uffici centrali di Ginevra.

RANIERI GUERRA – DIRETTORE AGGIUNTO OMS - MESSAGGIO “Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia. Ho mandato scuse profuse al ministro. Alla fine sono andato su Tedros e fatto ritirare il documento”.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Molti in effetti sapevano dell’insabbiamento del rapporto sulla gestione italiana del Covid, a partire da Goffredo Zaccardi, il capo di gabinetto di Speranza.

RANIERI GUERRA – DIRETTORE AGGIUNTO OMS - MESSAGGIO “Capo di gabinetto dice se riusciamo a farlo cadere nel nulla. Se entro lunedì nessuno ne parla, vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme”.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Brusaferro aveva garantito di non aver mai protestato con l’Oms per i contenuti del dossier critico ma solo di aver protestato per non essere stato avvisato della sua uscita.

SILVIO BRUSAFERRO – PRESIDENTE ISS MESSAGGIO “Sul testo Oms sono anche d’accordo di rivederlo assieme. Domani ne parliamo. Buona serata”

LORENZO VENDEMIALE - CONFERENZA STAMPA DEL 16 APRILE 2021 Ci può spiegare il senso di quei messaggi, perché sembra che avete voluto nascondere una verità scomoda, quando invece magari poteva essere una occasione per imparare dagli errori commessi.

SILVIO BRUSAFERRO – PRESIDENTE ISS Credo che proprio non c’è stata da parte mia personale, ma certamente l’Istituto di nascondere mai nessuna verità. È successo che il dottor Guerra mi ha mandato una serie di considerazioni personali rispetto alle quali io ho preso atto, non ho espresso giudizi. Ho preso atto di quanto mi stava dicendo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il 18 maggio Guerra incontra Zaccardi e poi tra il 26 e il 28 maggio parla di un vero e proprio accordo con Speranza e il capo di gabinetto per rivedere insieme il testo, come scrive a Tedros in una relazione di cui Report è entrato in possesso. Alla fine il rapporto viene lasciato morire proprio come suggerito da Zaccardi. Guerra in una relazione inviata a Tedros lo informa che ha incontrato Speranza a metà luglio e ha scritto una dichiarazione per conto dell’Italia a supporto all'Oms. Insomma, Guerra sembra quasi ghost writer di Speranza che in effetti il 4 agosto loderà l’Oms in una videoconferenza con Tedros.

SIGFRIDO RANUCCI Dobbiamo riconoscere al ministro Speranza, al quale abbiamo chiesto più volte invano un’intervista, che è sottoposto in questo momento a un tiro incrociato, che sta affrontando una sfida epocale. Tuttavia, gli avremmo voluto chiedere perché ha preferito la strada dell’adulaizone a quella invece di una opportunità che gli veniva offerta. Quella di utilizzare un dossier, seppur critico, ma scritto in maniera indipendente e libera che ci avrebbe aiutato a comprendere quegli errori che abbiamo commesso e che ci hanno portato a contare in percentuale sulla popolazione uno dei più alti numeri di morti per Covid nel mondo. Ecco, gli avremmo chiesto perché si è fatto anestetizzare, forse dal ruolo apicale all’interno dell’Oms di Ranieri Guerra, che mentre gli scriveva la mail di scuse si rammaricava di non aver potuto utilizzare quel dossier critico come camera addirittura di risonanza delle imprese straordinarie che aveva compiuto il governo in materia di contrasto al virus. Ecco, questo effettivamente ci sembrava un po’ troppo. Per fortuna, per fortuna la verità è come un fiume carsico, è capace di viaggiare in maniera sotterranea per tanti chilometri salvo poi riemergere quando meno te lo aspetti.

Così Guerra e Speranza concordarono un report per salvare Oms e Conte. Felice Manti l'11 Aprile 2021 su Il Giornale. Il documento sparito evidenziava i limiti del protocollo anti Covid e gli errori del governo. Finché c'è Guerra c'è Speranza. Il titolo del film di Alberto Sordi si presta perfettamente alla pessima sceneggiatura sulla gestione italiana della pandemia, che i pm di Bergamo stanno (ri)costruendo grazie a carte, documenti e testimonianze, compresa la rogatoria all'Oms inviata nei giorni scorsi con le accuse al direttore vicario dell'Oms Ranieri Guerra, indagato per aver mentito affermando che «il piano pandemico del 2006 non doveva essere aggiornato» e che «sino a quando sono stato direttore generale il piano è stato rivisto annualmente e confermato in validità». Bugie che si intrecciano con il ruolo del ministro della Salute Roberto Speranza, che ha scelto il dirigente Oms come consulente. «Gli errori e le mancanze sono di Speranza e dell'ex premier Giuseppe Conte, che devono essere sottoposti ad indagine. Draghi se ne liberi. Avrà gli applausi da tutti gli italiani», dice il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. E in effetti, leggendo i capi di accusa dei pm bergamaschi nei confronti di Guerra balzano agli occhi due o tre cosette che imbarazzano il ministro della Salute. Come quando Guerra, il 22 maggio del 2020, dopo una riunione con Speranza scrive a Silvio Brusaferro del Cts per lamentarsi del report Oms dal titolo An unprecedent challenge: Italy's first response to Covid-19 che imbarazzava il governo italiano perché definiva la gestione italiana della pandemia «caotica e creativa». Report scritto da Francesco Zambon, sparito 24 ore dopo per il pressing di Guerra sui vertici Oms, come emerge dalla chat in mano ai pm: «Se mi dai un paio di persone con cui interagire attacchiamo su tutti i fronti, primariamente sul rapporto. Che ne dici?», dice lo stesso Guerra a Brusaferro (che per ora non risulta indagato), a cui inoltra la lettera che ha appena scritto all'Oms di Ginevra e Copenhagen nella quale evoca finanziamenti per la sede di Venezia, dove lavorava Zambon. «Un meccanismo per oscurare la verità», denuncia la trasmissione Report, che nella puntata di domani annuncia altre mail imbarazzanti. La chiave è nel documento ritrovato da Robert Lingard, consulente dell'avvocato Consuelo Locati che difende i familiari delle vittime della Bergamasca. Perché tra i delusi del report sparito c'era anche Speranza. Sebbene ai pm il 29 gennaio scorso l'esponente Leu avesse detto che quel report era «del tutto indifferente per lo Stato italiano», stando alle parole captate nella chat con Brusaferro, Speranza e il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi avevano visto Guerra per concordare una nuova shared compilation, una versione di comodo. Non più un report indipendente. L'Oms sapeva ma non ha fatto nulla. E perché? Perché, come ammette Guerra, quel report inchiodava sia l'Italia sia l'Oms. A pagina 19, infatti, il ricercatore italiano metteva in evidenza il paradosso del cosiddetto «paziente zero» di Codogno, Mattia Maestri. Secondo le linee guida dell'Oms, cambiate in corsa come testimoniano le direttive del ministero della Sanità del 22 e del 27 gennaio 2020, non si potevano testare tutti i casi sospetti ma solo le persone con sintomi che arrivavano dalla Cina. Fu solo grazie all'intuizione del medico anestesista Annalisa Malara, nominata per questo Cavaliere al merito dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che si scoprì il paziente zero e si tentò di circoscrivere il cluster di Codogno. Troppo tardi. Scriveva infatti Zambon: «Il paziente zero non rispettava il profilo del paziente Covid-19, non era tornato dalla Cina e non aveva avuto contatti con casi confermati (...) Secondo le linee guida Oms il test non andava fatto, ma fu ordinato. E tornò positivo». Nel report si ragiona sul fatto che questo episodio smontava il sistema di sorveglianza dell'Oms, e poi si saprà che «il virus in Italia circolava da molto tempo prima», già a settembre stando all'opinione del virologo Giorgio Palù, oggi presidente dell'Aifa. In poche righe Zambon inchioda l'Oms e l'Italia al loro fallimento. Troppo per Guerra, che avrebbe voluto edulcorare quel passaggio scrivendo: «Abbiamo cercato di giustificare quanto accaduto senza incolpare l'Italia fino a questo momento sui media. Questa è una questione critica per noi (Oms, ndr) e per il Paese». Ecco perché quel report doveva sparire per sempre.

Le chat che fanno tremare Speranza. Ora l'inchiesta punta su di lui. Felice Manti il 12 Aprile 2021 su Il Giornale. Nelle carte dei pm la conferma che gli uomini del ministero fecero pressioni per ritirare il report Oms che definiva "caotica e creativa" l'azione anti Covid del governo a guida Conte. C' è una domanda alla quale il ministro della Salute Roberto Speranza deve rispondere. È vero che il governo italiano concordò una versione di comodo con l'Organizzazione mondiale della Sanità per sminuire le reciproche responsabilità, vale a dire l'assenza di un piano pandemico aggiornato e un errore grave nelle procedure Oms sul tracciamento dei positivi? Dalle chat in mano ai pm di Bergamo che indagano per epidemia colposa sembra proprio di sì. Ieri Speranza era a Chetempochefa su Raitre ma né lui né Fabio Fazio hanno deciso di affrontare l'argomento. Chi ha letto le carte capisce perché. L'indagine sembra infatti puntare su di lui. All'ex responsabile della Prevenzione del ministero della Sanità Ranieri Guerra, oggi numero due dell'organismo delle Nazioni le conversazioni con il portavoce del Comitato tecnico scientifico Silvio Brusaferro - mostrate ieri a Non è l'Arena su La7 - quelle chat sono già costate un avviso di garanzia per false informazioni ai pm. Per i magistrati guidati da Antonio Chiappani il report del gruppo di lavoro Oms con base a Venezia, guidato da Francesco Zambon, che definiva l'azione anti Covid-19 del governo di Giuseppe Conte «caotica e creativa» venne fatto sparire in 24 ore grazie alle pressioni dello stesso Guerra ai vertici dell'Organizzazione mondiale della Sanità, smentite ai pm ma cristallizzate nelle chat: «Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia - scrive Guerra - Ho mandato scuse profuse al ministro (Speranza, ndr) e (...) e fatto ritirare il documento». E ancora, dopo un incontro con il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi: «Dice di vedere se riusciamo a far cadere il report nel nulla». Cosa che succederà, finché il consulente del team di legali che ha innescato l'inchiesta di Bergamo Robert Lingard lo ripesca, lo rende noto in una conferenza stampa rilanciata dal Guardian e lo porta in Procura, dove diventa la testata d'angolo dell'inchiesta. Perché il report faceva a pezzi l'Italia e i criteri sul tracciamento con cui l'Oms cercava di stare dietro alla pandemia. Un guaio per Guerra, che per colpa di quel report vedeva sbriciolarsi «un percorso di costruzione di fiducia e confidenza», dice ancora a Brusaferro. Nonostante Zambon avesse segnalato a tutti i vertici Oms le indebite pressioni subite per modificare il report, compreso Gebreyesu, l'Oms lasciò che il report sparisse, anzi fece pressioni anche sulla Farnesina chiedendo una sorta di «vigilanza sull'operato della Procura. Una cosa non piacevole», ha detto alle telecamere di Report il procuratore aggiunto di Bergamo Maria Cristina Rota nella puntata che andrà in onda stasera e che promette «nuove prove che rivelano una realtà alquanto diversa dalla versione ufficiale sin qui raccontata al pubblico». Mentre il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri chiede la testa di Speranza («L'opportunità di mantenerlo al ministero è venuta meno da tempo») e chiede di allargare l'indagine «ad altri soggetti come Brusaferro e Zaccardi», l'avvocato Consuelo Locati che rappresenta i familiari delle vittime della Bergamasca è ancora più netta: «Emerge inconfutabilmente una responsabilità, quantomeno istituzionale, anche del ministro Speranza, consapevole di come quel rapporto mettesse in scacco la narrativa della fatalità artatamente costruita per nascondere le negligenze delle istituzioni. Nonostante Draghi abbia avuto parole di encomio ha rimosso alcuni elementi chiave della squadra costituita per fronteggiare l'emergenza». Di fatto, commissariandolo. 

Brunella Bololli per “Libero Quotidiano" il 16 aprile 2021. «Corpi accatastati» non si può scrivere. «Senza una degna sepoltura» neppure. Cos'è tutto questo sensazionalismo? All'Oms non piace e poco importa se sono morte migliaia di persone e tutti hanno visto in televisione le scene delle bare portate via dall'Esercito. La frase sul «sistema vicino al collasso in Italia» non si deve mettere. Via. Togliere tutto. E guai a elogiare il governatore del Veneto, a dire che Luca Zaia ha gestito bene la pandemia: per l'Oms è una pubblicità inutile a un cattivone leghista. L'inchiesta di Bergamo sulla mancata zona rossa in Lombardia si arricchisce di particolari che non giovano certo all'immagine del governo italiano, gestione giallorossa. Stiamo parlando dello scambio di mail tra Cristiana Salvi, responsabile della comunicazione dell'Oms Europa, e Ranieri Guerra, allora direttore vicario dell'organizzazione, ora indagato perché accusato di avere reso falsa testimonianza ai pm. L'inchiesta è cruciale non soltanto per accertare le responsabilità di chi doveva agire a tutela della salute dei cittadini e non l'ha fatto - ci sono decine di famiglie delle vittime che chiedono giustizia - ma anche per capire il destino del ministro della Salute Roberto Speranza, finora sentito cinque volte dai magistrati come persona informata sui fatti. Speranza era al corrente del mancato piano pandemico? Perché sono state depennate intere righe dal rapporto redatto dal ricercatore di Venezia Francesco Zambon (che ora si è dimesso e ha pure fatto causa all'Oms)? Quelle frasi potevano nuocere all'immagine di un esecutivo già traballante? O forse il contrario: mostravano l'efficienza veneta e per questo andavano tolte? La procura di Bergamo potrebbe a breve indagare altri soggetti di questa vicenda che ha al centro funzionari pubblici incaricati di occuparsi di prevenzione, totalmente assente, a quanto risulta, visto che il piano pandemico non era aggiornato dal 2006 per stessa ammissione degli scienziati del Cts. In pratica il nostro Paese non era pronto ad affrontare un'epidemia né a curare i cittadini, ma nessuno a Roma ha voluto ammetterlo dove erano impegnati, più che altro, a edulcorare i documenti e ad evitare che deflagrasse una «bomba mediatica». Solo la voglia di verità delle famiglie delle vittime di Covid, coordinate dall'avvocato Consuelo Locati, ha fatto emergere «ulteriori prove documentali che chi doveva fare non ha fatto e quindi ha grosse responsabilità istituzionali per violazione di legge, oltre che eventuali responsabilità penali, alle quali penserà la procura», fa sapere Locati. La risposta dell'Italia alla pandemia è stata «improvvisata, caotica e creativa». «È chiaro», aggiunge, «che emerge una responsabilità omissiva e di violazione di legge, addirittura a livello europeo e della normativa europea internazionale». Quindi, lo scambio di chat che suona come un tentativo di censura del testo di Zambon. «Credo che prima di far uscire un documento così articolato sull'esperienza in Italia», dice Salvi a Guerra, «non possiamo non condividerlo col ministero: non si tratta di una panoramica sul rapporto Oms ma sull'operato dell'esecutivo. Potremo sollevare il disappunto del governo». «Francesco», scrive la donna all'allora funzionario che ha poi denunciato le pressioni del suo superiore per addolcire il dossier, «il rapporto è dettagliato e ricco. Io penso che abbia un notevole potenziale ma conoscendo il campo di azione vedo questo rapporto come una vera e propria bomba mediatica. Ranieri e io abbiamo cercato di arginare le critiche che questo rapporto denuda completamente. Il mio suggerimento è di rivedere il tono e mitigare le parti più problematiche». Ad esempio guai a dire che al paziente uno di Codogno non è stato fatto il tampone, o che i medici di base rischiano la vita. E poi, ecco l'affondo contro i "nemici", «il collasso fu nel nord del Paese e non direi che ha provocato il panico». La mail risale all'11 maggio 2020, due giorni prima della repentina pubblicazione del report, poi sparito, sul sito dell'Oms. In precedenza, si erano scambiati valutazioni Zambon e Guerra. Quest'ultimo fa presente al ricercatore che «siamo in una fase estremamente delicata, dobbiamo pesare le parole in maniera molto cauta, soprattutto se rimangono scritte e se lo sono su un documento ufficiale dell'Oms. In più come sai», aggiunge, «sto per iniziare col ministro il percorso di riconferma parlamentare (e finanziaria) del centro di Venezia e non vorrei dover subire ritardi o contrattacchi da parte di chi non ci vuole bene. Vedrai inseriti commenti in giallo nelle varie pagine». Insomma, meglio non disturbare troppo il ministro. E la frase sui «corpi accatastati senza degna sepoltura» è stata cambiata in «senza un vero funerale».

Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 16 aprile 2021. Ai piani alti della procura di Bergamo c'è un ragionamento che in queste ore viene ripetuto come un mantra: «Tra i mille dubbi che, ragionevolmente e utilmente, ci si dà quando si indaga su vicende così complesse, di una cosa sola si è certi: si va dritti fino in fondo, indagando a 360°». A prescindere - è la sottolineatura - dall'«evoluzione della situazione sanitaria in corso». Un monito che suona più o meno così: se c'è qualcuno che - sperando magari nel salvacondotto mediatico derivato dalla situazione emergenziale in cui ancora si trova l'Italia, alle prese coi contagi e i ritardi della campagna vaccinale - per questo motivo ritiene o si ritiene al "riparo" dalle pinze con cui gli inquirenti da mesi stanno acquisendo le pezze mancanti di una brutta storia da ricostruire ex post, ecco, non dorma sonni troppo tranquilli. Ogni riferimento a fatti e persone è da decifrare. Ma conviene chiarire un punto. Riguarda le voci, circolate nelle ultime ore, su un possibile coinvolgimento nell'inchiesta - non più soltanto come persona informata dei fatti, ma come indagato - del ministro della Salute, Roberto Speranza, o degli uomini a lui più vicini. I rumors, alimentati ad arte dal centrodestra che ha scatenato un attacco ad alzo zero contro il ministro, risulterebbero, allo stato, totalmente infondati. È ciò che trapela da fonti inquirenti. Dopodiché questo non può escludere, ovviamente, l'ipotesi di eventuali futuri sviluppi. Tanti ce ne sono stati da marzo ad oggi nell'inchiesta della procura di Bergamo: anche clamorose. Molto è stato scritto, altro attende la classica chiusura del cerchio. Per dire. La "penna rossa" e le dimenticanze di Ranieri Guerra. Le "imperfezioni da correggere" di Francesco Zambon ovvero uno dei "somarelli di Venezia" (per dirla con il direttore vicario dell'Oms, Guerra appunto, indagato per falsa testimonianza). Le "bombe mediatiche" da sminare. I non detti e i detti per metà. Sia dei big - i vertici della sanità italiana convocati a Bergamo o sentiti a Roma - sia dei dirigenti della Lombardia. L'"eccellenza sanitaria" che come un gigante d'argilla si è sgretolata sotto il peso dei disastri e di un imbarazzo senza fine. Un flusso inquietante di mail, messaggini, verbali, documenti, chat più o meno istituzionali, alcune dai toni rilassati. Mentre le vite degli italiani continuavano a cadere come birilli sotto i colpi del Covid, sull'asse Roma-Ginevra-Copenaghen-Venezia si materializzavano le tante, troppe spigolature dello scandalo Oms-piano pandemico nazionale. Vicenda che pare diventata la pietra angolare di un'inchiesta - la prima in Italia - aperta sì per epidemia colposa e falso, sì per far luce sulla mancata zona rossa nella bergamasca e sulla chiusura-riapertura lampo (era il 23 febbraio 2020) del pronto soccorso dell'ospedale di Alzano Lombardo nella valle Seriana martoriata dal virus. Ma che, muovendo da quei tre filoni di indagine, col tempo ha centrato la sua lente sulla spinosa questione del piano pandemico mai aggiornato: come invece prevede la stessa Oms e come ha deciso il parlamento europeo a partire dall'ottobre 2013.

E dunque: l'Italia è stata messa in ginocchio dal virus perché non ha mai ammodernato il suo "scudo protettivo"? È la domanda, centrale, a cui sta cercando di dare una risposta il pool di magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Maria Cristina Rota. Secondo i pm, come è noto, Guerra sulla storia del piano ha raccontato bugie. Le più rumorose, stando alle accuse, oltre ai motivi del mancato aggiornamento, riguardano le circostanze che hanno portato al ritiro del rapporto steso dal veneziano Zambon (prima pubblicato e poi sparito dal sito dell' Oms). Con due inequivocabili linee rosse Guerra interviene nel pdf di testo cancellando i passaggi "scomodi". Il primo: "L'Italia non era totalmente impreparata".

Il secondo: "Il piano, comunque, rimase più teorico che pratico con pochi investimenti o traduzione delle intenzioni in misure concrete". In sostanza: quel report metteva in luce le negligenze italiane, e Guerra, ex direttore della Prevenzione al ministero della Salute, ci teneva a smussare o addolcire certi passaggi. A Zambon, che lo ha poi denunciato per pressioni, Guerra scriveva "dobbiamo pesare le parole in maniera molto cauta".

Ecco: per il ricercatore veneziano quel bavaglio era rivelatore di un «accordo per insabbiare tutto e proteggere il governo italiano». È l'ipotesi dei magistrati. Guerra, dall'alto del suo incarico, avrebbe avuto tutto l'interesse a voler nascondere lo studio da cui trasparivano le lacune dell'Italia nella preparazione a un'eventuale pandemia. Che poi è arrivata, provocando, ad oggi, 116mila morti, di cui 32mila nella sola Lombardia.

Se per Zambon, poi dimessosi dall'Oms, c'erano «cose che non potevano essere taciute», un altro capitolo si aggiunge al giallo che ruota intorno al piano pandemico "fantasma". Altro scambio di mail. Cristina Salvi, relazioni esterne Oms, scrive ai due litiganti Guerra e Zambon. "Credo che prima di far uscire un rapporto così articolato sull'esperienza in Italia non possiamo non condividerlo col ministero (...) Si tratta di una panoramica sull'operato del governo (...) Potremmo sollevare il disappunto del governo, altrimenti». È la «bomba mediatica» che Oms vorrebbe evitare. Come? «Rivedendo i toni e mitigando le parti problematiche», suggerisce Salvi. Chiudiamo col fronte indagini. Ieri zero interrogatori. La prossima settimana i pm incontreranno i consulenti per fare il punto. Decisiva sarà la perizia affidata ad Andrea Crisanti. Dovrebbe essere depositata entro fine maggio.

«Perché nessuno ha fermato il focolaio di Alzano?»: Francesca Nava in un libro-inchiesta. Il saggio è candidato al Premio Leogrande 2021. Giuseppe Di Matteo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Gennaio 2021. Sono passati nove mesi dal giorno in cui l’Italia è stata inghiottita dal lockdown. Ma l’emergenza è tutt’altro che conclusa. Ecco perché capire cosa sia accaduto durante la prima ondata, e perché, è un’esigenza irrinunciabile. Ed è ciò che ha provato a fare Francesca Nava, giornalista investigativa di lungo corso, in un’inchiesta corposa che parte da un ospedale della val Seriana, in provincia di Bergamo, e racconta quella che rischia di passare alla storia come la più grave crisi sanitaria ed economica della storia d’Italia. Una tragedia costata migliaia di morti su cui la Procura di Bergamo sta indagando. Le accuse sono di epidemia colposa e falso. Ma Il focolaio - Da Bergamo al contagio nazionale, edito da Laterza (pagg. 241, euro 15), ci restituisce anche il corpo martoriato di una classe politica (e non solo) superficiale. E lo fa mettendo in fila fatti, testimonianze e documenti, alcuni dei quali esclusivi. Il big bang del disastro - questa la tesi di fondo - nasce dal non isolamento di un focolaio ad Alzano, nel Bergamasco. Il libro è tra i candidati al Premio Leogrande 2021.

Nava, la sua è una radiografia impietosa di errori e negligenze. Cosa avrebbe dovuto e potuto fare la politica?

«Ci sono almeno tre livelli di analisi per questa domanda: Organizzazione Mondiale della Sanità, Governo e Regioni. Per ognuno di questi livelli sono stati commessi errori e sottovalutazioni, che abbiamo pagato a caro prezzo. La sensazione è che ci siano state delle falle nella cosiddetta “catena di comando”. Il 5 gennaio, l’OMS segnala l’esistenza in Cina di 44 pazienti con polmonite da eziologia sconosciuta. Le prime ammissioni sulla trasmissione inter-umana arriveranno il 22 gennaio. Quel giorno, il Ministro della Salute Speranza attiva la task force dell’emergenza sanitaria. La domanda è: il 22 gennaio viene attivato anche il piano pandemico nazionale? Oggi sappiamo, grazie a inchieste giornalistiche e alle denunce del Comitato dei parenti delle vittime di Covid-19 “Noi Denunceremo”, che quel piano pandemico - fermo al 2006 - non è mai stato aggiornato. Il dubbio è che la politica non abbia fatto la politica. Attivare un piano pandemico è una misura logica e preparatoria. Un atto dovuto. Sembra banale a dirsi, ma la politica serve a questo: a proteggere i cittadini da eventi che, seppur improvvisi, prevedono piani di azione per mitigarne gli effetti devastanti. Bisognava preparare i sanitari, stoccare dpi, fare un censimento dei posti letto in terapia intensiva e far scattare dei campanelli di allarme, per spegnere focolai epidemici sul nascere. Se avessimo attivato questo monitoraggio ci saremmo accorti di eventuali picchi anomali di infezioni respiratorie dentro agli ospedali lombardi? Ai tempi, purtroppo, l’indicazione dell’OMS era quella fare il tampone solo ai pazienti provenienti dalla Cina. Altro errore fatale. La Procura di Bergamo, che indaga sul caso Alzano con l’ipotesi di reato di epidemia colposa e falso, sta approfondendo anche questo filone di indagine: il Governo aveva un piano pandemico adeguato?».

Lei è lombarda. E non risparmia pesanti accuse alla sua regione.

«Al netto della impreparazione nazionale, per quanto riguarda la Val Seriana, appare sempre più evidente che abbia contribuito moltissimo anche l’incompetenza di Regione Lombardia. Quello che accade il 23 febbraio all’ospedale di Alzano Lombardo è un vero film dell’orrore. Gli operatori sanitari mi hanno raccontato di non aver ricevuto dalla Regione nessuna linea guida da seguire in caso di pandemia. Non c’erano tamponi, né dpi, quell’ospedale non aveva nemmeno un reparto di malattie infettive. In un tale scenario, aver lasciato aperto il pronto soccorso e l’ospedale intero, ormai infetto, senza sanificarlo adeguatamente, senza tracciare i contatti e soprattutto senza lanciare l’allarme alla popolazione, ha innescato una vera e propria bomba epidemiologica».

Dalla sua inchiesta vien fuori un’idea inquietante: l’economia viene prima della salute…

«Ho intervistato il capo degli industriali lombardi a fine marzo. Senza giri di parole ha ammesso che in Lombardia non si potevano fare zone rosse. La Val Seriana è la culla industriale della Lombardia. A fine febbraio la Regione aveva in mano dati allarmanti sulla diffusione del contagio in Lombardia. Doveva e poteva chiudere. C’è una legge che glielo consente, la 833 del 1978, che istituisce il servizio sanitario nazionale. Quando il governo ha saputo che la situazione in Lombardia era fuori controllo (2 marzo) era già tardi per fare una zona rossa circoscritta ad Alzano e Nembro e ha a sua volta tentennato, perché chiudere un polmone economico dell’Italia non conveniva a nessuno a livello di consenso politico. La “zona rossa” con la chiusura delle fabbriche è arrivata per tutta Italia un mese dopo i fatti di Alzano, il 23 marzo. Dopo i carri militari di Bergamo. Dopo migliaia di morti».

Siamo preparati alla terza ondata?

«Il sacrificio di Bergamo ha salvato l'Italia, attraverso la spinta a fare il lockdown. Ma poi non è servito a mettere in campo una reale politica collegiale per prepararsi alla seconda ondata...».

·        Succede nel mondo.

Variante Delta, il Portogallo col record di vaccinati: "Un caso di studio", cosa sta succedendo. Libero Quotidiano il 26 ottobre 2021. Il caso Portogallo è un modello per l'Europa: record mondiale di vaccinati, e il Covid sta velocemente sparendo. Solo lo scorso febbraio, il Paese era in (durissimo) lockdown, con dati di contagio tra i più alti al mondo. Oggi, al contrario, il bollettino lusitano riferisce di 300 nuovi casi al giorno, 5 morti, circa 60 pazienti ricoverati in terapia intensiva. Numeri trascurabili, soprattutto se comparati a quanto sta accadendo nella vicina Spagna, in Francia, in Gran Bretagna, ma anche alla stessa Italia. L'obbligo di esibire il corrispettivo del nostro Green pass resta per accedere allo stadio e altri grandi eventi, le mascherine sono obbligatorie sui mezzi pubblici, a scuola, per il personale in negozi, ristoranti e bar. Per il resto, è un lento ritorno alla vita pre-pandemia. Soprattutto, come sottolinea il Corriere della Sera, "l’allentamento delle restrizioni non ha avuto contraccolpi sull’andamento dei contagi" e questo grazie alla campagna vaccinale condotta a spron battuto e senza sostanziale opposizione da parte della cittadinanza. I vaccinati a doppia dose sono l'86,9% della popolazione, il dato più alto al mondo (al secondo posto gli Emirati all'86,1%), soprattutto è vaccinato il 100% degli over 65, la fascia a più alto rischio, mentre gli over 50 sono coperti con una sola dose al 100%, al 95% tra i 25 e i 49 anni, all'88% gli under 17. A capo della campagna vaccinale il vice-ammiraglio Henrique Gouveia e Melo, il generale Figliuolo portoghese. Sessantenne, nato in Mozambico e nuovo eroe nazionale. Lui è il simbolo di tutto quello che in Italia non siamo riusciti a raggiungere. Forse perché qui è mancata, come sottolinea il Financial Times a proposito del Portogallo, "la cooperazione tra medici, militari e funzionari locali" e in generale manca quel senso di fiducia generalizzata nei confronti di autorità sanitarie e vaccini. 

(ANSA-AFP il 23 aprile 2021) Tredici pazienti con Covid-19 sono morti stamattina in un incendio scoppiato in un ospedale alla periferia di Mumbai (ex Bombay), la più grande città dell'India. "Diciassette pazienti erano nell'unità di terapia intensiva del Vijay Vallabh Hospital quando è avvenuto il rogo: 13 sono morti e gli altri quattro sono stati trasferiti in altre strutture", hanno comunicato i vigili del fuoco. "L'incendio è stato ora estinto", hanno aggiunto affermando che il rogo è iniziato intorno alle 3 del mattino (le 23:30 di ieri in Italia) GMT) per cause ancora non chiare. (ANSA-AFP).

Covid: nuovo record mondiale casi in India, oltre 330.000.  (ANSA il 23 aprile 2021) Per il secondo giorno consecutivo l'India ha registrato il record mondiale di nuovi casi di coronavirus: 332.730 nelle ultime 24 ore, per un totale di 16 milioni. Lo riporta il Guardian citando i dati del ministero della Sanità. Impennata anche del numero di morti, 2.263 in un solo giorno, 186.920 dall'inizio della pandemia di Covid. Intanto continua l'emergenza ossigeno negli ospedali. A New Delhi sei strutture hanno finito le scorte da ieri sera.

Covid: Usa superano i 570.000 morti, oltre 32 milioni i casi.  

(ANSA il 22 aprile 2021)  I morti per Covid-19 negli Stati Uniti superano i 570.000, per l'esattezza 570.082, su 32 milioni di casi. E' quanto emerge dai dati della Johns Hopkins University. Negli Usa sono state somministrate finora 218,9 milioni di dosi di vaccini.

Il coronavirus nel mondo. Da “Anteprima il 22 aprile 2021. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”. Il Centro europeo per la previsione e il controllo delle malattie (Ecdc), l’agenzia dell’Unione europea che coordina la risposta sanitaria degli Stati membri alla pandemia, ora sostiene che le persone vaccinate, quando si incontrano, possono anche togliersi la mascherina.

A Berlino il presidente Frank-Walter Steinmeier ha promulgato la nuova legge sul «freno d’emergenza», che permette di limitare il federalismo per ragioni sanitarie. «Il governo centrale potrà frenare l’autonomia dei Lander (i 16 Stati della Federazione) laddove l’incidenza settimanale superi i 100 casi ogni 100 mila abitanti. E un sistema che permette il conferimento al governo federale di poteri extra se il carico di lavoro supera determinati livelli e include misure come il coprifuoco notturno e limiti ai contatti sociali» [Zunini, Fatto].

Nonostante il vaccino russo Sputnik non abbia ancora ricevuto il via libera dall’Ema, la Germania intende acquistarne trenta milioni di dosi. L’ha detto il Ministerprasident della Sassonia Michael Kretschmer. In Germania e stato vaccinato il 21,6% della popolazione con la prima dose (17,9 milioni di persone) e il 6,9% con la seconda (5,7 milioni) (dati Robert Koch Institut).

Dal 3 maggio in Francia saranno tolte le restrizioni agli spostamenti, attualmente limitati a dieci chilometri dalla propria abitazione. Il primo ministro Jean Castex ha anche detto che da quella data ci sarà la possibilità di riaprire «i negozi, certe attività culturali e sportive e gli spazi all’aperto di bar e ristoranti».

Nell’ultima settimana nel Regno Unito il numero di morti per Covid e calato del 26,1% rispetto ai sette giorni precedenti, quello dei contagi e sceso del 7,4%.

Negli Stati Uniti «i vaccini vengono somministrati nelle chiese, nei supermercati, perfino nei bar: alcuni di quelli di New Orleans cercano di attirare i cittadini con la formula “shot for a shot”: una iniezione di siero anti Covid e un drink, vino o liquore, offerto a chi si immunizza» [Gaggi, CdS].

«Molti americani non vogliono vaccinarsi: almeno il 25 per cento secondo i sondaggi. La speranza era che, con l’evidenza dell’utilità dei vaccini e un calo delle tensioni ideologiche tra i conservatori (anche Trump si e vaccinato e ha invitato i suoi fan a fare altrettanto), fosse possibile erodere l’area degli scettici e arrivare alla sospirata immunità di gregge che richiede un tasso di immunizzazioni almeno dell’85 per cento. Non sta succedendo. Stati del Sud come Georgia e Mississippi o del Nord come il Montana, hanno giacenze di vaccini inutilizzati che rischiano di scadere: troppo lente le somministrazioni nelle aree rurali. Il Kansas sta già rimandando indietro le dosi inutilizzate anche se i vaccinati sono solo il 37 per cento.  In North Dakota, per invogliare i cittadini, sono stati aperti centri vaccinali anche nei supermercati Walmart, cosi come in Louisiana si prova a portare i sieri in bar e ristoranti. Non e solo un problema dei conservatori e dell’America rurale. Anche tra gli afroamericani vecchi timori, diffidenza verso un potere politico spesso ostile o semplice apatia, rallentano le somministrazioni».

L’Iraq e diventato il primo Paese nel mondo arabo a superare il milione di casi di Covid-19. Ieri e stato registrato il record di nuovi contagi: 8.696. Ieri l’India ha registrato 314.835 nuovi casi. E il Paese con più nuove infezioni in 24 ore, dall’inizio della pandemia. A Delhi si bruciano le pire di cadaveri nei parcheggi. «Negli ospedali infilano anche due sconosciuti per brandina che si stringono terrorizzati l’uno all’altro, succhiando vita dai respiratori. La gente disperata offre di acquistare ventilatori nei social. I programmi del governo per produrne in dosi massicce si sono persi nella nebbiolina della negligenza, che si sviluppa in volute di errori, che sono una lezione per il resto del mondo. Il più grave e lo sciocco trionfalismo che in gennaio fa dire al ministro della Salute che “l’India ha contenuto con successo la pandemia”. E in marzo: “Siamo alle battute finali”. Impaziente propaganda in vista di 5 appuntamenti elettorali tra marzo e aprile in Stati chiave per il premier Narendra Modi, dove tre candidati sono già morti di Covid. Cosi ecco le riaperture precoci con gli stadi di cricket pieni di tifosi, i cinema di amanti di Bollywood, mentre le folle accorrono ai raduni religiosi: tra i piu bizzarri, la battaglia a colpi di sterco di vacca nell’Andhra Pradesh, e poi le famose abluzioni nel Gange della Kumbh Mela di Hardiwar, dov’è scoppiato un focolaio. Bisognava far credere che l’India aveva vinto una battaglia che America ed Europa stavano perdendo. Forse perchè, si mormorava, gli indiani hanno un sistema immunitario più preparato. Ma, in questi giorni, nella fascia tra i 40 e i 60 anni, il Covid sta uccidendo più qui che in Occidente» [Pizzati, Rep].

La Siria ha ricevuto il primo lotto di 203.000 dosi di vaccini tramite il programma Covax.

Primo caso di contagio durante la staffetta olimpica in Giappone. Un poliziotto e risultato positivo al Covid- 19 il giorno dopo aver prestato servizio mentre la torcia passava nella prefettura di Kagawa. Gli organizzatori delle Olimpiadi assicurano che l’incidente non influenzerà il percorso della fiaccola, che si concluderà con l’inaugurazione dei Giochi il prossimo 23 luglio.

·        Succede in Germania. 

Da ANSA il 7 dicembre 2021. Aveva falsificato la certificazione di vaccinazione anticovid della moglie e ora temeva di essere incarcerato e che per questo motivo venissero levati i figli a lui e alla madre. È questo il movente, spiegato in una lettera d'addio trovata in casa, che ha spinto l'insegnante di 40 anni a uccidere tutta la famiglia in Germania prima di togliersi la vita. Lo scrive la Dpa, che cita il procuratore che si occupa dell'inchiesta. Sabato erano stati trovati i cadaveri della coppia e dei tre figli in una casa del Brandeburgo, con ferite da taglio e da proiettili. La falsificazione del certificato vaccinale era stata scoperta dal datore di lavoro della donna e la coppia temeva di poter incorrere in seri problemi con la legge. I due genitori erano inoltre angosciati dall'idea che le autorità giudiziarie potessero levargli i figli, secondo quanto si legge nella lettera di cui ha riferito il procuratore Gernot Bantelon. Per questo motivo, il padre avrebbe ucciso a colpi di proiettile i bambini di 4, 8 e 10 anni, la moglie e poi si sarebbe suicidato. In casa è stata trovata una pistola, ma non è confermato che fosse l'arma del delitto.

Alessio Lana per il "Corriere della Sera" il 12 agosto 2021. Mentre in Europa si discute di terza dose c'è chi, in Germania, dovrà rifare la prima. Il Paese ha richiamato 8.557 persone dopo aver scoperto che un'infermiera avrebbe somministrato soluzione salina al posto del vaccino. Secondo le prime indagini il fatto sarebbe accaduto tra marzo e aprile al centro vaccinale di Roffhausen, nel Nordovest del Paese, dove la donna lavorava per la Croce Rossa. Le prime avvisaglie sono arrivate quando l'infermiera ha confidato a un collega di aver iniettato della banale soluzione fisiologica a sei pazienti per nascondere la caduta di una fiala di Pfizer-BioNTech. Una confessione che è stata subito riportata ai superiori facendo scattare un'inchiesta che deve rispondere a molte domande. La prima è il movente che ha spinto l'infermiera a un tale gesto anche se alcune sue esternazioni sui social fanno pensare sia una no vax. La seconda è se si è limitata a quei sei pazienti o se è andata avanti. Proprio da qui nasce il richiamo di massa per accertare chi ha gli anticorpi e quindi ha ricevuto il vaccino. Non si sa poi se la donna è stata fermata o arrestata e con quale accusa. Non è infatti la soluzione iniettata a rappresentare un problema, è del tutto innocua come assicurano gli esperti, ma il periodo in cui ciò sarebbe avvenuto. Si era infatti ai primi passi delle vaccinazioni, quando avevano la precedenza le persone più esposte al virus, ovvero anziani over 70, medici, insegnanti e personale sanitario. In via cautelativa comunque è stato attivato un numero verde per informare la popolazione e i diretti interessati sono stati contattati via mail o per posta per capire se devono ricevere ancora la prima dose mentre si discute già della terza. Gli esperti sono divisi e l'Oms la giudica prematura. Raccomanda di dare la priorità ai Paesi più poveri così da colmare il distacco ma alcuni governi si sono già mossi. Il primo è l'Ungheria che fin dal primo agosto dà la possibilità, a chi ha completato il ciclo da almeno quattro mesi, di decidere se fare un terzo richiamo scegliendo da un menù di otto vaccini diversi. Oltre ai soliti noti ci sono il russo Sputnik V, i cinesi Cansino e Sinopharm e Covishield, la versione indiana di AstraZeneca. Anche Israele ha già cominciato a offrire il richiamo ter agli immunodepressi e agli over 60 vaccinati da almeno cinque mesi mentre la Francia ha confermato ieri che da metà settembre offrirà il «booster» alla popolazione più fragile. Si parla di settembre anche per la Gran Bretagna, che ancora non ha ufficializzato la propria posizione ma sta lavorando a un piano imponente, da quasi 2,5 milioni di somministrazioni alla settimana, che coinvolgerà anche le farmacie. Stesso periodo per la Germania, che vorrebbe coprire soprattutto immunodepressi, anziani e operatrici delle case di riposo. Un mese dopo, a ottobre, dovrebbe scattare il piano italiano. Controversa invece la situazione negli Stati Uniti: almeno 1,1 milioni di persone soprattutto in Florida, Ohio, California e Illinois avrebbero ricevuto il richiamo ter ma senza alcuna autorizzazione ufficiale e si crede che la stima sia al ribasso perché il rapporto del locale Cdc considera solo chi ha ricevuto Pfizer e Moderna ma non Johnson & Johnson. Nei prossimi giorni comunque dovrebbe arrivare il via libera dall'Fda. L'obiettivo è partire dagli immunodepressi il prima possibile.

(ANSA il 9 giugno 2021) - Il Tribunale della Ue ha annullato per "insufficienza di motivazione" la decisione con la quale la Commissione europea aveva approvato due prestiti da 550 milioni di euro della Germania alla compagnia aerea charter tedesca Condor nel contesto della pandemia di Covid-19. Tuttavia, gli effetti dell'annullamento (tra i quali il recupero dell'aiuto) sono per ora sospesi in attesa di una nuova decisione della Commissione, precisa il Tribunale. La sentenza arriva dopo un ricorso di Ryanair che contestava il regime di aiuti concesso alla concorrente.

Marco Bresolin per "la Stampa" il 9 giugno 2021. Bruxelles contro Berlino. Non capita spesso, ma questa volta la Commissione europea - guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen - non poteva fare diversamente. Oggi l' esecutivo Ue aprirà infatti una procedura d' infrazione contro la Germania per contestare la sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe che nel maggio dello scorso anno aveva bocciato il piano di acquisto di titoli pubblici della Bce perché avvenuto «oltre i limiti del proprio mandato». Una sentenza che aveva fatto discutere perché poneva il diritto tedesco al di sopra di quello europeo, visto che la legittimità del piano era stata precedentemente riconosciuta anche dalla Corte Ue. Oggi la Commissione invierà una lettera formale, avviando un procedimento che punta a ribadire la primazia del diritto Ue su quello nazionale e che potrebbe portare la Germania sul banco degli imputati davanti ai giudici in Lussemburgo.

(ANSA il 24 marzo 2021) "È stato un errore, e gli errori vanno corretti in tempo, questo è ancora possibile. Me ne assumo la responsabilità". Secondo Spiegel è quello che avrebbe detto Angela Merkel, all'inizio del vertice Stato-Regioni, annunciando l'annullamento del lockdown rafforzato per Pasqua. "Chiederò scusa al Paese", avrebbe anche aggiunto la cancelliera. Angela Merkel ha invitato a sorpresa i ministri presidenti dei Laender a nuove consultazioni sulle misure anti-Covid per oggi alle 11. Lo ha annunciato il presidente della Cdu Armin Laschet, parlando al consiglio regionale della Vestfalia. L'invito arriva dopo le forti critiche alle conclusioni del vertice notturno di due giorni fa, che ha deciso il lockdown rafforzato per i giorni di Pasqua e il prolungamento delle chiusure fino al 18 aprile. Laschet ha ribadito al necessità del lockdown.

Uski Audino per "La Stampa" il 25 marzo 2021. Indietro tutta a Berlino. Nessuna «pausa pasquale» di 5 giorni per contenere la terza ondata del virus, come annunciato 33 ore prima. Giovedì e sabato prima di Pasqua torneranno a essere giorni feriali. «L'idea aveva i suoi buoni motivi ma non poteva essere messa in pratica con così poco anticipo», ha spiegato la cancelliera Angela Merkel affrontando le telecamere, dopo una nuova riunione in video-conferenza con i vertici dei Länder. «Un errore deve essere chiamato con il suo nome e deve essere corretto» perché è stato «solo e soltanto un mio errore» e perciò «chiedo scusa ai cittadini», ha aggiunto la Cancelliera. La misura aveva suscitato critiche nel merito e nel metodo. Nel merito era finita sotto accusa la dicitura «giorno di riposo» usata per definire il giovedì e il sabato prima di Pasqua. «Nel diritto del lavoro è un'espressione priva di significato», spiega un giurista. E infatti l'ambiguità della formulazione aveva già cominciato a generare caos nelle aziende. Festivo o feriale? Alcuni avevano mandato il personale in vacanza, altri no, e tutto lasciava presagire tribunali intasati dai ricorsi. Ma lo scontento era arrivato anche dal mondo economico. Il presidente dell'istituto IW, Michael Huether, martedì aveva quantificato i mancati guadagni di un festivo in circa 7 miliardi e la Bdi, la confindustria tedesca, aveva reso noto di non apprezzare la strategia di un lockdown eterno. Nel metodo invece, i rappresentanti di alcuni Länder avevano lasciato intendere di essere stati bypassati. Il primo ministro della Turingia Bodo Ramelow ha denunciato un buio di comunicazione durante le 6 ore di pausa della riunione con i Länder. «Fino alle 23:45 non sapevo dove fosse finita la Cancelliera e i gli altri ministri presidenti», ha detto a Spiegel. In quel lasso di tempo la cancelliera ha proseguito le trattative in un circolo ristretto: il ministro delle Finanze Olaf Scholz, il governatore bavarese Markus Söder e il sindaco di Berlino Michael Müller. Poi la decisione sulla «pausa pasquale» è piombata nella discussione a tarda notte, trovando tutti impreparati ed esausti. Ieri mattina, dopo l'ammissione, per qualche ora si è pensato che Merkel potesse spingersi addirittura al passo indietro. Il suo insolito rifiuto a rispondere alle domande della stampa e la fretta di riferire al Bundestag hanno tenuto i media tedeschi con il fiato sospeso. Quando ha preso la parola in Parlamento, replicando la dichiarazione alla stampa, c'è chi ha tirato un sospiro di sollievo. Ma il question-time che è seguito ha visto le opposizioni della Linke (sinistra), dei Liberali del Fdp e della destra nazionalista di AfD unite nell'attacco lancia in resta. Merkel si sottoponga al voto di fiducia, hanno chiesto. «La cancelliera non può più essere certa del sostegno unitario della sua coalizione», ha scritto su twitter il numero uno del Fdp Christian Lindner. Se le opposizioni non hanno i numeri per imporre un voto di fiducia, è vero che il credito della società tedesca nel governo Merkel non è mai stato così basso. E i sondaggi lo denunciano in modo impietoso: da febbraio a oggi l'Unione Cdu-Csu ha perso circa 10 punti percentuali passando dal 37% al 28,5% secondo l'istituto Allensbach. Riusciranno delle pubbliche scuse a recuperare la fiducia incrinata dei cittadini? La partita ora si gioca su vaccini e test.

Paolo Valentino per il "Corriere della Sera" il 21 marzo 2021. «Nel sedicesimo anno di governo della cancelliera Merkel, si ha a volte la nauseante sensazione di vivere in un Paese rotto. Il maestro di scuola tedesco di una volta, che in tutti i suoi quaderni faceva stampare il marchio di qualità Made in Germany , è diventato nei confronti internazionali un pigro ritardatario che insegue». Suona impietoso il j' accuse di Der Spiegel , che nella sua storia di copertina offre un quadro drammatico e sconsolante. Quello di un grande Paese che, mentre infuria la terza ondata della pandemia, «oscilla tra caos e ribellione» e i cui apparati «si mostrano oggi incapaci di organizzare una campagna di vaccinazione» rapida e capillare. Nel momento in cui l'Europa guarda alla Germania come riferimento e guida, lo specchio tedesco restituisce un'immagine di confusione, inefficienza, assenza di visione. La promessa della cancelliera che tutti i tedeschi avranno un'offerta di vaccinarsi entro la fine dell'estate non è più credibile. Anche se presto dovessero cominciare ad arrivare le sei milioni di dosi settimanali promesse, occorrerebbe un'infrastruttura per la loro distribuzione e somministrazione: «Chi crede che nella Germania di oggi questo sia ancora possibile?», si chiede il settimanale. E non si tratta, secondo lo Spiegel , di errori o incidenti, inevitabili e comprensibili in una situazione di emergenza. Cresce in realtà l'impressione di «debolezze sistemiche» e di «uno Stato disfunzionale», mentre il governo appare «passivo, stanco, privo di ambizioni ed erratico nella sua azione». La lista delle recriminazioni è lunga. Non c'è stata alcuna prevenzione, la deregulation della sanità ha deresponsabilizzato la mano pubblica, che non ha mai pensato a creare scorte di materiali necessari in casi di emergenze sanitarie. Giudicate inutili all'inizio, non c'erano riserve di mascherine quando si è scoperto che erano indispensabili. Per avarizia e grettezza di vedute, Berlino non ha spinto in modo energico a livello europeo perché fossero prenotati più vaccini, tanto più che il primo di questi era stato sviluppato in Germania. Con grande ritardo il governo federale ha preso in considerazione i test rapidi, che già nella primavera del 2020 erano stati indicati dagli esperti come un mezzo efficace per facilitare le riaperture. Quando lo ha fatto, invece di ordinarli per tempo e distribuirli a tappeto, ha cincischiato esprimendo dubbi e discutendo dei rischi. Infine, la madre di tutti i fallimenti, la campagna di vaccinazione iniziata benino prima di Natale e poi naufragata non solo per la scarsità delle dosi, ma anche perché non funziona nulla: la distribuzione, gli appuntamenti, l'amministrazione digitale. La scorsa settimana, al momento del controverso stop ad Astra Zeneca, che ha finito per trascinare nell'errore anche il resto d'Europa, su 3,1 milioni di dosi del vaccino anglo-britannico già consegnate, 1,3 milioni non erano state ancora inoculate. Ad aggravare il quadro, c'è un sistema federale che fa acqua da tutte le parti. Che si tratti di chiusure di parrucchieri e bordelli, di scuole, dell'obbligo delle mascherine o dell'organizzazione delle vaccinazioni, ogni Land fa a modo suo. Con esiti esilaranti. A maggio i cori religiosi erano proibiti in Sassonia, ma permessi ad Amburgo. A ottobre chi stava a Colonia non poteva andare e pernottare a Magonza, mentre era possibile il contrario. Ogni ministro-presidente cerca di profilarsi a spese degli altri, un occhio alle scadenze elettorali e un altro alle lotte interne di partito: «La Conferenza periodica della cancelliera con i premier regionali è diventata il simbolo della confusione amministrativa e dell'impotenza della politica», dice il settimanale. In tutto questo, Angela Merkel continua a voler moderare: «Se c'era una cosa che questa cancelliera sa fare è gestire le crisi. Non vale più. Dalla seconda ondata, la politica del governo è una cronaca delle promesse infrante». Merkel conosce i dettagli, media strenuamente, tiene sempre i nervi saldi. Ma rimane estranea all'idea di battere per una volta i pugni sul tavolo con i premier riottosi. O di farsi carico di coordinare un approvvigionamento dei vaccini a livello europeo. «I suoi discorsi puntuali ma melodrammatici al Bundestag - così der Spiegel -, i suoi appelli preoccupati sembrano a volte quelli di una nonna che chiede ai nipoti se abbiano indosso vestiti abbastanza caldi».

Da "lastampa.it" il 21 marzo 2021. Il Ministero della salute tedesco, guidato da Jens Spahn, ha acquistato lo scorso anno oltre mezzo milione di mascherine Ffp2 dalla società Burda Gmbh, il cui ufficio di rappresentanza è affidato al marito dello stesso Spahn, Daniel Funke. Lo riporta lo Spiegel online sottolineando che un documento in merito, di cui ha preso visione, è stato inviato dal ministero al Bundestag. Rischia così di ampliarsi lo scandalo sugli affari legati ai dpi anti-covid che ha già travolto alcuni deputati dei conservatori tedeschi dell'Unione Cdu-Csu. Il settimanale tedesco evoca un potenziale conflitto d'interesse per il ministro Spahn, anche perché l'acquisto delle mascherine è stato concordato direttamente tra il ministero della Salute e la società, senza gara d'appalto. Secondo i documenti inviati dal ministero della Salute al Bundestag, la Burda GmbH ha venduto 570 mila mascherine al ministero guidato da Spahn. Il contratto, spiega un portavoce del ministero rispondendo allo Spiegel, è stato «concluso ed elaborato dopo aver ricevuto l'offerta secondo una procedura standardizzata a prezzi di mercato», considerata «l'urgenza» di dispositivi protettivi. Ed è stato proprio l'ad della Burda, Paul-Bernhard Kallen, a contattare Spahn per offrire le sue mascherine. L'acquisto è indicato come «appalto diretto», una sorta di procedura semplificata a cui il ministero ha fatto ricorso a marzo e aprile per acquistare mascherine da ogni fornitore che soddisfaceva determinati criteri. Nella prima fase della pandemia in cui i dispositivi scarseggiavano. Circa l'eventuale ruolo del marito di Spahn nell'acquisto di questa partita di mascherine, l'azienda ha spiegato che «non è mai stato informato o coinvolto nella transazione». E non gli è stata pagata neanche una commissione. La Burda ha parlato anche a nome dell'interessato, Daniel Funke (lobbista e responsabile dell'ufficio di rappresentanza a Berlino), che non ha risposto personalmente alle domande dello Spiegel. 

Daniel Mosseri per "il Giornale" il 9 marzo 2021. «Non sarà stata violata la legge ma la vicenda resta altamente immorale». Le parole consegnate alla Bild da Lars Klingbeil, segretario generale del partito socialdemocratico (Spd), riassumono bene la reazione di tanti tedeschi davanti allo scandalo in cui è coinvolto Nikolas Löbel. Il deputato della Cdu, il partito di Angela Merkel, ha ammesso che la sua azienda ha intascato 250 mila euro in commissioni su contratti per l'acquisto di mascherine. Un guadagno ottenuto grazie alla mediazione condotta fra il Land Baden-Württemberg e due aziende locali. Purtroppo per Löbel, il Land in questione va al voto domenica prossima e la vicenda è finita nell'occhio del ciclone. Klingbeil ha sollecitato la restituzione di un guadagno ottenuto mentre sul Paese veniva imposto un lockdown severissimo, con scuole e negozi chiusi ormai dallo scorso 16 dicembre. Questi comportamenti, ha concluso l'esponente della Spd, «distruggono la fiducia nella politica». Furiosa con il collega anche Susanne Eisenmann, la candidata premier della Cdu nel ricco Land meridionale: «È inaccettabile - ha affermato - che i parlamentari si arricchiscano durante questa grave crisi». Per gran parte dei tedeschi parimenti inaccettabile è stato il comportamento del deputato 34enne. Appena la stampa ha reso la vicenda di dominio pubblico, Löbel ha dichiarato: «Mi assumo la responsabilità delle mie azioni e ne traggo le conseguenze». Così si è dimesso dalla Commissione Esteri ma è rimasto ben ancorato allo scranno di parlamentare. Solo l'intervento di un imbarazzato presidente del partito, Armin Laschet, ha spinto Löbel ad annunciare le dimissioni immediate dal Bundestag e l'abbandono della politica attiva. Nel frattempo resta ancora parlamentare Georg Nüßlein: il deputato 51enne della Csu, la costola bavarese della Cdu, avrebbe intascato 660 mila euro in bustarelle ottenute da un produttore di mascherine per favorire l'assegnazione di una commessa pubblica al produttore dei dispositivi. Più grave di quello di Löbel, il suo caso ha portato il Bundestag lo scorso 25 febbraio a sospendere l'immunità di Nüßlein per permettere alla magistratura di fare luce sulle accuse di corruzione. Il parlamentare ha lasciato l'incarico di vicecapogruppo dell'Unione Cdu-Csu ma il doppio scandalo ha comunque permesso al leader dei Verdi Robert Habeck di affermare che all'interno del blocco moderato esiste un problema «strutturale e sistemico». Il politico ecologista ha tutto da guadagnare dall'imbarazzo in cui è precipitata l'Unione: in Baden-Württemberg i due partiti sono alleati ma gli ecologisti guidano il governo regionale uscente. Il caso Löbel potrebbe ridimensionare la Cdu regionale accreditata dai sondaggi di metà febbraio a circa il 30% dei consensi. A salvare la corsa della Eisenmann può intervenire però il voto per corrispondenza: per evitare le file al seggio in piena pandemia, molti elettori hanno già votato. La questione resta però aperta sul piano federale: tanto Armin Laschet quanto il governatore bavarese Markus Söder cercano in queste settimane di accreditarsi quali candidati cancellieri alle legislative del prossimo settembre (alle quali Angela Merkel non si ricandiderà). Il loro compito è oggi marcare la distanza dai due deputati arricchitisi grazie al Covid e la strada da oggi si fa più in salita: secondo l'ultima rilevazione dell'Istituto Kantar, la Cdu è scesa al 32% dal 34% di due settimane fa.

Dagospia l'8 marzo 2021. Articolo di “El Pais” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione”. La pandemia, leggiamo su El Pais, ha messo a nudo due miti tedeschi: la competizione e la superiorità. La marea è cambiata. Gli errori seriali del governo tedesco nella sua gestione della pandemia hanno messo fine a qualsiasi nozione di competenza o superiorità tedesca. La settimana scorsa, durante un dibattito, un gruppo di esperti ha concordato su quello che uno di loro ha definito un fallimento dello Stato, riferendosi allo stato disfunzionale dell'intero apparato di governo e del parlamento. La Merkel, essendo lei stessa una scienziata di formazione, è più disposta ad ascoltare i consigli scientifici, ed è forse più probabile che capisca la sottigliezza delle raccomandazioni che fanno. Ma, quando è sotto pressione, è incline al panico come gli altri politici. La settimana scorsa è stata costretta a fare un'inversione a U. Gli scienziati che lei ascoltava normalmente volevano che il governo mantenesse la soglia precedentemente concordata di 35 infezioni per 100.000 abitanti per poter togliere il contenimento. La Merkel ha appoggiato un compromesso per portarlo a 100, che è superiore all'attuale tasso medio nazionale di circa 60. Questo autorizza alcuni primi ministri dei Länder a porre fine alle limitazioni, se lo desiderano, nonostante i ritardi nella vaccinazione. A partire da questo fine settimana, solo il 6% dei tedeschi ha ricevuto l'iniezione, rispetto al 40% nel Regno Unito. Non è una coincidenza che nel Regno Unito le fortune politiche si siano invertite. L'ultimo sondaggio YouGov mette i conservatori 13 punti davanti ai laburisti. Lo scorso gennaio, cioè non molto tempo fa, questi ultimi erano in vantaggio di quattro punti. Anche nelle isole britanniche la fortuna è cambiata. E potrebbe cambiare ancora. Le oscillazioni politiche massicce non sono un rumore. Gli inglesi hanno deciso che il loro governo sta facendo un buon lavoro, comprese le persone che si sono opposte alla Brexit. I tedeschi hanno deciso che il loro governo ha sbagliato la strategia di vaccinazione, compresi gli elettori della CDU. Alla fine, i vaccini saranno distribuiti. Da aprile, la vaccinazione dovrebbe accelerare in tutta l'Unione europea. Se tutto va bene, un certo grado di immunità di gregge dovrebbe essere raggiungibile entro la fine dell'estate. Anche nel Regno Unito, con il suo servizio sanitario nazionale, ci sono voluti circa tre mesi per raggiungere quel livello. Vaccinare un'intera popolazione è una sfida logistica estrema, specialmente in paesi con sistemi sanitari decentralizzati, come la Germania. I sondaggi in Germania hanno iniziato a registrare l'insoddisfazione per la gestione della crisi da parte del governo già lo scorso novembre. A gennaio, quando l'umore ha cominciato a cambiare, i sondaggi sulle intenzioni di voto per le elezioni generali davano ancora un vantaggio significativo alla CDU/CSU. Ora anche i grandi numeri si sono ammorbiditi. Questa domenica ci sono importanti elezioni in due stati federali: Baden-Württemberg e Renania-Palatinato. Gli ultimi sondaggi statali hanno mostrato un leggero calo del sostegno alla CDU. Se questi numeri reggono, sarebbe un brutto risultato, ma non catastrofico. Non è chiaro dove questo lascerebbe Armin Laschet, il nuovo leader della CDU, nella sua ambizione di diventare il candidato cancelliere del suo partito. Peggio fa la CDU questo fine settimana, più possibilità ha il primo ministro bavarese e leader della CSU Markus Söder di succedere alla Merkel. La fortuna della CDU cambierà una volta che il programma di vaccinazione sarà in funzione? La gente penserà che il governo ha fatto un errore perdonabile o sarà d'accordo che lo Stato ha fallito? Quando i programmi di vaccinazione raggiungeranno la massa critica, la gente sarà sollevata che sia tutto finito. Potrebbero essere inclini a lasciare il passato alle spalle. D'altra parte, ad un certo punto sarà possibile misurare gli errori della politica governativa in termini di numero di morti. Quindi, anche se vogliono voltare pagina, non è affatto chiaro perché dovrebbero voler eleggere con la forza le stesse persone. Non prevedo che la questione si dissolva così rapidamente. Gli analisti politici tedeschi hanno coniato l'utile ma vago concetto di Wechselstimmung per riferirsi a uno stato d'animo diffuso nel paese che combina la sensazione che un governo non stia più facendo bene le cose con la speranza che uno nuovo porti un cambiamento. Per la prima volta da quando la Merkel è diventata primo ministro nel 2005, penso che questo sia quello che c'è nell'aria. Durante le elezioni del 2017, la destra politica è rimasta delusa dalla sua politica sui rifugiati, ma il centro è rimasto fermo. Ora, sia il centro che la destra sono insoddisfatti, e la sinistra non vuole più essere in una coalizione con lei. È difficile immaginare che siamo nel terzo mese del 2021 e, guardando indietro, vediamo i bei vecchi tempi del 2020, quando la Cancelliera tedesca era ammirata per la sua forte leadership in patria e all'estero, e quando il numero di infezioni e morti da covid-19 era basso per gli standard europei. Questo ci ricorda che la Germania non è poi così diversa, solo che il divario tra la percezione di se stessa e la realtà è un po' più ampio. E ci ricorda anche il potere degli eventi inaspettati.

Pierluigi Mennitti per startmag.it il 5 marzo 2021. Sic transit gloria mundi. L’ultimo vertice del gabinetto di crisi tedesco che ha varato una cervellotica road map per l’allentamento progressivo delle misure restrittive potrebbe essere stato un momento di cesura nel consenso dei cittadini verso il loro governo. Le decisioni hanno scontentato tutti: gli aperturisti e i prudenti, i commercianti e i consumatori, gli economisti e gli imprenditori, gli insegnanti e i genitori, gli epidemiologi e forse anche i complottisti. Il compromesso elaborato può a buon diritto smentire l’antico detto secondo il quale, se la politica scontenta tutti, allora agisce bene. Non è così. La nuova strategia del governo per gestire la seconda primavera ai tempi della pandemia può riassumersi in un barocco, bislacco e contorto rebus degno della Settimana Enigmistica, tanto che per pubblicizzarlo i presidenti regionali (che per inciso vi hanno contribuito in maniera determinante) sono dovuti ricorre a un lungo lenzuolo di carta, pieno di tabelle (se l’incidenza è tot scatta questo, ma appena raggiunge tot scatta quest’altro) e degno della scheda elettorale di un’elezione amministrativa. Prescrizioni peraltro già superflue, giacché ogni Land sta agendo di testa sua, aggiustando, modificando, forzando quelle linee guida in nome dell’autonomia federale. Per raggiungere questo capolavoro politico-burocratico, sedici presidenti di Länder e alcuni ministri del governo, guidati da una cancelliera che appare di nuovo tanto stanca quanto stufa, si sono accapigliati per ore seppur in forma digitale. Oltre nove ore di confronto, al termine delle quali l’unica cosa che resterà a futura memoria è lo scazzo verbale tra il presidente della Baviera Markus Söder (Csu) e il ministro delle Finanze Olaf Scholz (Spd), che potrebbe aver rappresentato il primo battibecco della prossima campagna elettorale (episodio che ha spiazzato l’altro pretendente alla candidatura per i conservatori, Armin Laschet). Il tono del confronto: “Non so cosa ti sei bevuto, qui non sei il cancelliere, non sei il re della Germania o il sovrano del mondo” le parole di Söder, irritato per come il ministro delle Finanze stesse disponendo dei finanziamenti in capo alle regioni; “Ma quello di cui tu vuoi liberamente disporre è esso stesso denaro dei contribuenti”, la replica del socialdemocratico. Insomma, soldi. L’ennesimo vertice di crisi ha certificato platealmente la difficoltà della Germania di fronte all’onda lunga della pandemia, tanto da far venire il sospetto che la brillante gestione della prima ondata sia stata dovuta più alla fortuna che alla capacità: la fortuna di aver avuto un mese di vantaggio rispetto allo scoppio del virus in Italia e di aver chiuso tutto prima che il Covid potesse insinuarsi in maniera irrimediabile. Poi ordinaria amministrazione. È una débacle che non coinvolge solo il governo federale, ma l’intero sistema tedesco. L’estate è trascorsa senza che le linee di difesa fossero state rafforzate, basti l’esempio tragico delle scuole, in cui le misure di igiene e sicurezza sono rimaste quelle della scorsa primavera, e la seconda ondata autunnale ha travolto anche quello che pochi mesi prima era sembrato il primo della classe (è sempre poco elegante autocitarsi: ma ricordate le corrispondenze dalla Germania colme di elogio che leggevate sulla stampa italiana ancora a novembre e dicembre? Beh, qui su Startmag.it leggevate altro). A tutto questo si è aggiunto l’avvio della campagna di vaccinazione, bollato dagli stessi giornali come “catastrofico”. E non solo per colpa delle incertezze di Bruxelles. Ora la stampa tedesca presenta il conto. “Se il disincanto per la politica dovesse raggiungere presto nuove vette, ciò avrà molto a che fare con la cancelliera e il ministro della Sanità”, scrive lo Spiegel. “Né Angela Merkel né Jens Spahn hanno svolto il loro compito dalla scorsa estate. Il paese e i suoi cittadini avrebbero fortemente desiderato un governo fresco ed energico. Quello attuale ha ora dimostrato in modo permanente che non è possibile”. Il titolo del commento è “Un nuovo governo”, ma per averlo bisognerà attendere ancora molti mesi, fino alle elezioni del 26 settembre. E chissà se le previsioni da tempo stabili di una futura maggioranza nero-verde (Cdu-Csu e Grünen) non verranno rimescolate da improvvisi cambi di umore degli elettori, soprattutto verso la Cdu: nei sondaggi si nota qualche prima crepa, mentre quelli sul gradimento verso la gestione della pandemia indicano che solo la metà ancora le supporta, qualche mese fa le percentuali si aggiravano sul 70%. Ma la critica va più in profondità, supera la riscoperta debolezza di una formula di governo. Questa situazione “scuote anche le auto-attribuzioni coltivate a lungo”, riprende lo Spiegel, “per molto tempo noi tedeschi siamo stati convinti di vivere in un paese moderno, innovativo e ben organizzato. La pandemia ci ha portato via questa delusione. Se la Repubblica Federale fosse effettivamente un paese moderno, innovativo e ben organizzato – e allo stesso tempo avesse la fortuna di avere una leadership politica vivace, ambiziosa e vigile, la situazione ora apparirebbe più rosea. Allora ora ci sarebbero state buone prospettive per la cultura, la gastronomia o per i negozianti, ci sarebbero state prospettive per più socialità, per più felicità nella vita”. “La reputazione della Germania nel mondo è sempre meno in linea con la realtà”, rincara il Tagesspiegel di Berlino, che nel suo titolo parla di “retrocessione”. Le critiche si appuntano sul settore amministrativo, quello cui è demandata l’implementazione sul campo delle strategie politiche. “La lentezza è un lusso che ci si deve poter permettere”, riprende il quotidiano che denuncia invece un settore pubblico tedesco “appesantito che, come si sta ora dimostrando, non è in grado di erogare servizi in maniera efficiente neppure in caso di emergenza”. L’esempio della campagna di vaccinazione è emblematico. L’elenco dei paesi dove le somministrazioni procedono più rapidamente, anche in situazione di carenza di dosi, imbarazza i tedeschi: il Tagesspiegel cita Messico, Serbia, naturalmente per non parlare di Israele, il sogno proibito, dove ora ci si immunizza nei pub dopo aver ottenuto un barcode sul proprio smartphone. Qualche giorno fa il tabloid Bild aveva pubblicato una bandiera britannica in prima pagina, con il titolo: “Vi invidiamo”. Deve essergli costato molto, dopo i tanti sfottò inviati lo scorso anno all’indirizzo di “Mad Boris”, ma sempre meno della risposta di ritorno del popolare The Sun, “Noi non vi invidiamo”, pubblicata in un tedesco impeccabile. “C’è stato un tempo in cui la Germania era invidiata per la sua efficiente amministrazione”, scrive ancora il Tagesspiegel, assumendo toni malinconici, “Lenin voleva modellare il socialismo sull’esempio della Deutsche Post, le università tedesche erano l’invidia del mondo”. Una reputazione tramandata di generazione in generazione: “I baby boomer, ora incamminati verso la sessantina, sono cresciuti sapendo di vivere nel paese più funzionante del mondo”. Poi è arrivata una crisi drammatica per svelare che il re è nudo. L’auspicio del Tagesspiegel è che il paese diventi consapevole di questi ritardi e realizzi un colpo d’ala: “L’attuale crisi dovrebbe essere un’occasione per intraprendere una profonda riforma amministrativa. Le loro strutture sono così incrostate che i responsabili trovano più facile rinchiudere un intero popolo che dotare le autorità sanitarie di un software uniforme”. Non proprio un gran bilancio al termine di 16 anni di governi Merkel.

Covid, Germania verso l’ipotesi del “tampone lasciapassare”. Notizie.it il 17/02/2021. Grazie al "tampone lasciapassare" in Germania potrebbe diventare possibile recarsi al cinema, visitare un museo o andare al ristorante. La Germania è la nazione europea che sta affrontato il più duro dei lockdown sanciti a livello continentale per contrastare la minaccia incarnata dal coronavirus. In questo contesto, particolarmente teso e drammatico, si stanno scandagliando varie ipotesi che consentano al Paese un graduale ritorno alla normalità tra le quali figurano test gratis e tamponi lasciapassare. Nella giornata di martedì 16 febbraio, il ministro federale della Sanità tedesco, Jens Spahn, ha annunciato che, a partire dal 1° marzo, i tamponi saranno gratis, compresi i “fai-da-te”. A questo proposito, tramite un post pubblicato sul suo account Twitter, il ministro Spahn ha affermato: «I comuni possono incaricare le farmacie e i centri per il tampone». La novità recentemente comunicata dal politico si inserisce in un periodo estremamente singolare. Da alcuni giorni, infatti, in Germania si discute sul cosiddetto “tampone lasciapassare” da sfruttare per incrementare il processo di ritorno alla normalità. Tramite un simile espediente, ad esempio, potrebbe diventare possibile recarsi al cinema, visitare un museo o andare al ristorante. La proposta fortemente supportata relativa al tampone lasciapassare non è ancora stata commentata dal governo tedesco. Tuttavia, sono sempre più frequenti e incalzanti le pressioni esercitate sull’esecutivo da parte del settore industriale e del mondo accademico. Un team di scienziati con sede a Marburgo ha elaborato un sistema computerizzato destinato a registrare tutti i cittadini negativi al tampone, in modo tale da permettere loro l’accesso a luoghi pubblici senza incappare in alcun pericolo. Il virologo Florian Klein, di Colonia, poi, ha anche specificato che il tampone lasciapassare avrebbe una validità di un solo giorno e, proprio per questo motivo, consentirebbe alla Nazione di riappropriarsi in modo graduale e tutelato della propria normalità. In Germania, il lockdown nazionale si protrae da oltre due mesi: da altrettanto tempo, quindi, risultano chiusi bar, ristoranti, negozi, cinema, musei e palestre. Dissensi e proteste si stanno diffondendo a tutti i livelli della popolazione tedesca: ne è una testimonianza la tumultuosa riunione organizzata nella giornata di martedì 16 febbraio tra Peter Altmaier e circa quaranta associazioni imprenditoriali. In seguito alla conclusione dell’incontro, il ministro dell’economia Altmaier si è impegnato con le singole imprese a disporre l’erogazione di ristori per tutte le aziende, comprese quelle che possiedono un fatturato che supera i 750 milioni di euro. Il ministro, inoltre, ha ulteriormente promesso alle industrie che parteciperanno al prossimo dibattito governativo sul lockdown che vedrà Angela Merkel confrontarsi con i governatori tedeschi il prossimo 5 marzo. Intanto, le imprese – dai grandi magazzini Peek & Cloppenburg a Woolworth – si sono già dichiarate favorevoli all’introduzione del tampone lasciapassare, sostenendo che «i nuovi test fai-da-te» potrebbero essere una buona possibilità per uscire dal lockdown». L’idea del tampone lasciapassare è stata particolarmente apprezzata anche da colossi del turismo come TUI, dalla Lega calcio tedesca, dalle catene di cinema come Cineplex, dal board della Fiera di Francoforte o, ancora, da proprietari locali. A questo proposito, la catena di alberghi Deutsche Hospitality ha espresso la convinzione che «l’uso di test rapidi sarebbe una soluzione più pratica e veloce» per consentire alla popolazione e alle aziende di tornare alla normalità «rispetto a un passaporto vaccinale», strumento inizialmente proposto dal governo. Il problema principale del tampone lasciapassare, tuttavia, consiste nella discriminazione che, inevitabilmente, si originerebbe nei confronti dei cittadini meno abbienti, dati i costi del test per rilevare il Covid. La recente comunicazione del ministro della Salute, tuttavia, apre un nuovo scenario per gli abitanti tedeschi e rende decisamente più accessibile l’ipotesi avanzata. 

 (ANSA il 10 febbraio 2021) Il lockdown duro in Germania sarà prolungato fino al 7 marzo. È quanto emerge dal vertice fra Stato e Regioni, appena terminato, sulle misure anti-Covid. Le riaperture nel commercio al dettaglio potranno avvenire, a marzo, in Germania, soltanto nelle regioni in cui l'incidenza settimanale su 100 mila abitanti calerà fino al livello di 35 nuove infezioni da Covid-19. È questo uno dei criteri che emergono dal vertice fra Stato e regioni, secondo quanto ha riferito il presidente della Sassonia alla stampa. Fino ad oggi l'obiettivo indicato dal governo era sempre stato 50, ma il Robert Koch Institut aveva chiesto di abbassarlo.

Antonio Grizzuti per “La Verità” il 12 febbraio 2021. Non capita spesso che una tutta d' un pezzo come la cancelliera Angela Merkel faccia autocritica. E invece quello recitato ieri di fronte ai membri del Bundestag sulla gestione della pandemia suona esattamente come un mea culpa. «Non siamo stati abbastanza attenti, né sufficientemente veloci», ha ammesso parlando ai deputati tedeschi, «non abbiamo chiuso la vita pubblica quando c' erano i segni di una seconda ondata e gli avvertimenti di vari scienziati». Tradotto, la politica ha commesso degli errori. Forse illusi dalla mortalità piuttosto blanda sperimentata fino alla fine dell' estate, la Germania si è seduta troppo presto sugli allori. Oggi, per contro, la paura legata alla diffusione delle mutazioni del coronavirus ha convinto il governo a prolungare il lockdown almeno fino al 7 marzo prossimo e, notizia di ieri, a introdurre controlli alla frontiera con la Repubblica Ceca e il Tirolo. «La Baviera e la Sassonia hanno chiesto al governo di catalogare queste zone come particolarmente colpite dalle varianti», ha spiegato ieri il ministro dell' Interno Horst Seehofer. Per effetto dell' ultimo blocco, i casi in Germania sono in calo ormai da circa un mese. Nelle ultime settimane, la media mobile dei contagi si è più che dimezzata passando dal picco di 22.000 casi di metà gennaio agli attuali 8.400 casi. In rapida discesa anche il numero dei decessi, tornati in questo periodo per la prima volta ai livelli di metà dicembre (media mobile degli ultimi sette giorni intorno ai 550 morti). Vietato, però, abbassare la guardia. «Gli esperti ci dicono che è soltanto questione di tempo perché queste mutazioni diventino prevalenti e prendano il posto del virus originario», perciò «dobbiamo essere molto, molto vigili per evitare di cadere nuovamente in una crescita esponenziale dei contagi». Tuttavia, la cancelliera ha assicurato che le restrizioni non dureranno «un giorno più del necessario». Un gioco del bastone e della carota che riflette il lungo braccio di ferro tra il governo centrale e i Lander, i quali invece chiedono a gran voce chiedono un rilassamento delle misure di contenimento del virus. Risultato, una sorta di versione moderna dell' incontro a Teano, con la riapertura dei parrucchieri al 1° marzo, e degli altri esercizi commerciali qualora il numero dei nuovi contagi dovesse scendere al di sotto dei 35 casi alla settimana ogni 100.000 abitanti. Libertà ai singoli Stati, invece, in materia di riapertura delle scuole: già dal 22 febbraio gli studenti di alcuni territori dovrebbero tornare in classe. C' è da rilevare che il discorso pronunciato ieri da Angela Merkel non ha convinto l' opposizione e, in buona parte, nemmeno la stampa tedesca. Contestato in particolare lo scarso coinvolgimento del Parlamento. Il leader del gruppo parlamentare «Die Linke» Dietmar Bartsch ha definito «inaccettabile» il fatto che il Bundestag venga informato delle decisioni solo una volta che queste sono state già prese dal governo. Ma anche i media non hanno risparmiato critiche all' indirizzo della cancelliera. L' equilibrato Tagesschau, pur apprezzando l' approccio, ha definito «torbida» l' analisi della Merkel, accusandola di sviare attraverso l' uso di un generico «noi» quando si è trattato di parlare apertamente degli errori commessi. Durissimo invece Die Welt, che prima rimprovera alla cancelliera di aver scaricato sugli Stati federati la colpa dell' aumento dei contagi, poi giudica blanda la sua autocritica e infine la accusa di aver messo in scena un «patetico auto-elogio». Una cosa è certa: dopo aver scansato la prima ondata, oggi Berlino si trova a fare i conti con gli sconvolgimenti - politici, economici e sanitari - causati dal virus.

Paolo Valentino per corriere.it l'11 febbraio 2021. Voleva di più Angela Merkel. Chiedeva che il lockdown fosse prolungato fino a metà marzo e oltre, chiedeva che le scuole non riaprissero almeno fino alla fine di febbraio, chiedeva che la linea dura contro la pandemia non subisse cali di intensità, di fronte alla minaccia rappresentata dalle nuove varianti del Covid-19. Ancora una volta però la cancelliera si è scontrata con le resistenze di molti premier regionali, preoccupati dalle conseguenze per l’economia e dalla tenuta sociale dei loro Länder. Così Merkel ha dovuto accettare il compromesso di un lockdown fino al 7 marzo e di una riapertura progressiva e differenziata di scuole e nidi, affidata cioè alle valutazioni di ogni singolo Land, con la maggior parte dei premier orientata a iniziare dal 22 febbraio. Ma la cancelliera non ha rinunciato al suo ruolo di madre della nazione e questa mattina al Bundestag si è rivolta direttamente ai tedeschi, in uno di quei discorsi lucidi e appassionati allo stesso tempo che sono diventati la sua specialità. Attenzione, ha avvertito Merkel, le nuove forme del Covid-19 sono già tra noi, attualmente rappresentano il 5,7% dei casi totali: «Ma gli esperti ci dicono che è soltanto questione di tempo perché queste mutazioni diventino prevalenti e prendano il posto del virus originario. Dobbiamo quindi essere molto, molto vigili per evitare di cadere nuovamente in una crescita esponenziale dei contagi». Merkel ha ammesso che sono stati fatti degli errori, che la «politica ha mancato di restringere la vita pubblica in modo sufficientemente tempestivo di fronte alla crescita dei contagi». Ma dopo i picchi di fine anno e gennaio, la cancelliera ha spiegato che Germania è ora sulla buona strada grazie al lockdown duro deciso dal 16 dicembre: «Il numero dei nuovi contagi è sceso (nelle ultime 24 ore sono stati 10237 con 666 decessi n.d.r.) e abbiamo evitato un eccessivo stress sul nostro sistema sanitario, grazie a Dio». Ma secondo Merkel prolungare il lockdown, sia pure soltanto fino al 7 marzo, era indispensabile per continuare su questa strada: «Il virus non dipende da una data ma dal numero delle infezioni e dal modo in cui si propaga». La cancelliera non perde però il punto di vista generale e ha ricordato l’alto prezzo pagato dall’intera società tedesca in questo anno di pandemia: «Una grave limitazione della libertà senza precedenti nella storia della Repubblica Federale, forte pressione personale, solitudine, preoccupazioni economiche, ansie esistenziali: tutto questo l’ho presente ogni singolo giorno». Merkel tuttavia ha sottolineato che tutte le misure varate «hanno rispettato le regole della democrazia», respingendo le critiche di chi, come l’estrema destra radicale di AfD, le rimprovera di aver violato i diritti fondamentali. Le misure però, secondo Merkel, «non devono durare un giorno più del necessario». Le prossime aperture saranno decise dai Länder ma questa volta secondo un criterio di incidenza più severo: 35 e non più 50 nuovi casi per 100 mila persone nell’arco di una settimana. Dovrà però essere, ha spiegato Merkel, un valore stabile, cioè verificato per almeno tre giorni di seguito.

Paolo Valentino per corriere.it il 10 febbraio 2021. La Germania si prepara a estendere fino al 7 marzo il lockdown duro contro la pandemia. La decisione sarà annunciata al termine del vertice in corso tra la cancelliera Merkel e i premier dei 16 Länder federali. Nonostante il numero dei nuovi contagi sia sensibilmente sceso (sono stati 8 mila nelle ultime 24 ore con una incidenza media settimanale di 68 casi su 100 mila abitanti) il livello di allarme rimane alto per via dei troppi morti (813 nelle ultime 24 ore) e soprattutto per il fatto che fra i nuovi infettati siano state identificate nuove varianti del Covid-19, in particolare quelle britannica e sudafricana. Ma il calo dei contagi ha di nuovo alimentato la polemica tra Angela Merkel, convinta sostenitrice di una linea dure sulle restrizioni, e alcuni leader regionali, che invece chiedono un calendario automatico di riaperture, legate al diminuire dell’incidenza, che la cancelliera vuole riportare a 50 casi per 100 mila abitanti su sette giorni prima di allentare il lockdown. Uno dei punti più controversi riguarda la riapertura delle scuole elementari e dei nidi, che molti Länder vorrebbero riaprire già il 1° marzo, per sgravare i genitori che lavorano e assicurare che i bambini meno abbienti non accumulino ritardi nell’istruzioni. La comunità medica ha espresso tuttavia parere contrario, perché teme che la riapertura potrebbe riaccendere dei focolai infettivi. Secondo la bozza di accordo preparata prima del vertice, verrebbe consentita la riapertura dal 1° marzo dei parrucchieri, mentre rimarranno chiusi ristoranti, bar, palestre, centri estetici, cinema, teatri, negozi e bordelli. Ma sullo sfondo del dibattito sulle riaperture, resta il grande enigma di come sia stato possibile che dopo aver superato molto meglio di qualsiasi altro Paese la prima ondata del Covid, la Germania abbia subito tutta la forza distruttiva della seconda ondata, con un’impennata dei contagi, che complessivamente hanno superato quota 2,3 milioni e soprattutto dei decessi. Se per i primi nove mesi i morti da Covid-19 sono rimasti infatti sotto i 10 mila, in poco più di due mesi si sono moltiplicati per sei, raggiungendo la drammatica cifra di 63 mila. Le risposte non sono semplici. La Germania, con un po’ di condiscendenza, ha probabilmente sottovalutato la portata devastante dell’ondata infettiva seguita alla tregua estiva. I rientri dalle vacanze, soprattutto dalla Spagna meta prediletta dei tedeschi, hanno riportato a casa moltissime persone infette. Eppure, la cancelliera Merkel già in ottobre aveva ammonito che, a meno di drastiche misure restrittive, la curva dei contagi sarebbe tornata a impennarsi. Ma il suo appello venne ignorato dalla maggioranza dei premier regionali, ai quali anche in tempi di emergenza spetta la competenza primaria sulla sanità. È un fatto che fino a dicembre si è andati avanti con un lockdown light, che Der Spiegel ora definisce «il più grave errore politico dell’anno». Così, mentre in primavera i contatti erano stati ridotti del 63%, questa volta, secondo i dati del Robert Koch Institut, la riduzione è stata solo del 43%. Un altro elemento decisivo è stata la crisi dei Gesundheitsämter, gli Uffici sanitari sparsi in tutto il territorio che sono la prima linea di difesa e che durante la prima ondata avevano fatto un ottimo lavoro di tracciamento e monitoraggio: «Sono sopraffatti, rischiano di non poter seguire più la catena dei contagi», aveva ammonito Merkel. Previsione puntualmente confermata. Un’altra ragione è stata l’insufficienza di personale, denunciata in un documentario della Zdf, la seconda rete pubblica, che rende inutile l’ampia disponibilità di terapie intensive. Sembra incredibile, ma pur avendo un alto numero di medici e infermieri rispetto alla popolazione (rispettivamente 4 e 13 per ogni mille abitanti) la Germania sta messa molto peggio nel rapporto con i posti letto: c’è infatti 1 infermiere ogni 10 pazienti, contro i 5 della Svizzera, i 4 dell’Olanda e i 3 della Norvegia. Anche il drastico aumento dell’età media dei contagiati ha contribuito al disastro, soprattutto sul fronte dei decessi. Mentre nella prima ondata quella tedesca era stata infatti fra le più basse d’Europa, ora la pandemia ha colpito soprattutto gli anziani, che rappresentano anche la quota principale dei decessi (fino all’86% in alcune città e regioni): secondo Lothar Wieler, direttore del Koch Institut, nelle case di riposo della Germania si registra attualmente il doppio di contagi rispetto alla primavera. La Deutsche Welle ha definito la situazione degli ospizi per anziani «scandalosa». È poi calato il numero dei test effettuati, che nella prima ondata erano arrivati a 1,5 milioni la settimana. Coma ha spiegato Die Zeit, per non sopraffare il sistema è cambiata la strategia e nella seconda ondata sono state testate soprattutto le persone con forti sintomi. Questo ha probabilmente fatto sì che molte persone asintomatiche o con sintomi leggeri siano sfuggite al controllo e ne abbiano a loro volta infettato altre. Inoltre, sono emerse insufficienza ignorate per anni dalla politica. La scarsa digitalizzazione per esempio, che Merkel non si è mai stancata di denunciare, che ha impedito un ricorso più massiccio all’home working, in modo da consentire minori contatti Infine, le scuole, che con una decisione molto coraggiosa sono state tenute aperte fino al 16 dicembre. Anche se gli studenti non sono fra i gruppi con la più alta incidenza, Wieler ammette che sono stati «una parte della nuova ondata». Ora infatti si è molto più cauti di fronte all’ipotesi di riaprirle. Intanto continua ad andare a rilento la campagna di vaccinazione, che finora ha riguardato 2,4 milioni di cittadini, quasi il 3% della popolazione. Di questi, solo 1 milione ha avuto somministrata anche la seconda dose. Il governo ha promesso che tutti i tedeschi saranno vaccinati entro il 21 settembre.

Da liberoquotidiano.it il 2 gennaio 2021. In Germania si estrae a sorte chi vaccinare nelle case di riposo. La denuncia choc arriva dall'ex segretario di Stato alla Sanità, Lutz Stoppe, che ha raccontato la vicenda di sua madre di 88 anni “residente in una struttura per anziani a Francoforte". Una vera e propria lotteria quindi: sarebbe questo il modo in cui il Paese di Angela Merkel avrebbe deciso di far fronte alla carenza di dosi, scatenando una valanga di polemiche. "La vaccinazione contro il Covid è iniziata questa settimana. Le dosi non sono sufficienti, ora verrà estratto a sorte chi potrà essere vaccinato per primo. Descrivere i miei sentimenti è proibito dall'etichetta", ha dichiarato Stoppe.

Coronavirus, dati gonfiati nel report in Germania: "Un milione di morti" per giustificare il lockdown. Angela Merkel sapeva? Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. In Germania si è scoperto che le misure restrittive decise per limitare la diffusione del coronavirus erano state adottate dopo aver studiato un documento, commissionato dal ministero dell'Interno, che conteneva numeri gonfiati. Si parlava di un milione di morti e ben sette tedeschi su dieci contagiati dal virus. Nulla di reale, invece, infatti oggi in Germania ad un anno dallo scoppio della pandemia, sono quasi 63mila i morti e 2,29 milioni di contagiati. Quel documento sarebbe stato usato come  giustificazione per spiegare ai cittadini il lockdown imposto dal governo di Angela Merkel. E la drammatizzazione dei dati sarebbe stata voluto proprio dal ministro dell'Interno, Horst Seehofer. Un brutto episodio che mette in grosso imbarazzo la cancelliera, al suo ultimo mandato dopo 16 anni di governo. Lo scoop è stato realizzato dal settimanale Die Welt. Si parla di un lavoro continuo tra la politica e  la scienza proprio per decidere come drammatizzare le minacce del coronavirus, in modo di convincere l’opinione pubblica ad accettare le rigide misure di contenimento. Difatti, lo scorso anni, poco dopo le misure restrittive adottate in Italia anche in Germania si prese la decisione di chiudere  le scuole e i negozi, "oltre alla limitazione di gran parte delle libertà individuali dei cittadini e l’elevazione a dogma imprescindibile del cosiddetto distanziamento sociale", come riporta il sito Insideover. Il ministro Seehofer avrebbe incontrato il virologo Christian Dorsen e Lothar Wieler, a capo dell’Istituto Robert Koch, l’organizzazione responsabile del controllo e della prevenzione delle malattie infettive in terra tedesca. Dopo quell'incontro proprio Wieler convinse il ministro a tenere tutto chiuso fin oltre il periodo pasquale. Si sarebbe così creata una strana alleanza tra i rappresentanti di alcune università tedesche e istituti e alcuni politici, come Markus Kerber, sottosegretario all’Interno nonché braccio destro del ministro Seehofer. Adesso si cerca di scoprire se questa decisione abbia coinvolto anche la Merkel: se fosse a conoscenza di questo trucco o se fosse stata tenuta all'oscuro. In entrambi i casi per la Cancelliera la notizia sia fonte di grande imbarazzo. 

 Il report segreto che imbarazza Berlino: dati gonfiati per giustificare le misure anti Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 9 febbraio 2021. Un documento commissionato per conto del ministero dell’Interno tedesco, e firmato da un gruppo di autorevoli esperti, sarebbe servito a giustificare le misure restrittive decise dalla Germania per limitare la diffusione del Sars-CoV-2. Peccato che quel report, rimasto top secret, conteneva numeri gonfiati e profezie drammatiche mai avveratesi. Il rapporto parlava di un milione di morti e ben sette tedeschi su dieci contagiati dal virus. Niente a che vedere con la realtà dei fatti, visto che oggi, a un anno dallo scoppio della pandemia, la Germania conta quasi 63mila morti e 2,29 milioni di contagiati. In sostanza, le tetre previsioni degli scienziati, riunite nel citato documento richiesto dal ministro dell’Interno, Horst Seehofer, sarebbero state utilizzate da Berlino come giustificazione. Per cosa? Semplice: per spiegare ai cittadini le ferree chiusure imposte dall’alto. Ma non è finita qui, perché pare che il tutto sarebbe stato volutamente drammatizzato per volere di Seehofer. Rischiamo di trovarci di fronte a un caso che, se dovesse essere confermato, potrebbe avere serie ripercussioni sul governo tedesco e fungere da pericoloso precedente per tanti altri Paesi. Anche perché sul web, da mesi, stanno circolando teorie del complotto di ogni ordine e grado. Una notizia del genere non farebbe altro che gettare benzina sul fuoco e alimentare sospetti e sfiducia nei confronti delle istituzioni.

Il report segreto. La bomba è stata lanciata da uno scoop realizzato dal settimanale Die Welt, che ha fatto luce su vari aspetti sconcertati. Si parla, ad esempio, di una fitta corrispondenza interna, tra mondo politica e della scienza, finalizzata a drammatizzare a dismisura le minacce portate dal coronavirus. L’unico obiettivo sarebbe stato quello di convincere l’opinione pubblica ad accettare le rigide misure di contenimento. Ricordiamo infatti che un anno fa, quando furono scoperti i primi contagi in Italia, anche la Germania stava iniziando a fare i conti con alcuni focolai. L’esecutivo tedesco doveva scegliere che cosa fare, tra l’affidarsi a un approccio soft o a un secco giro di vite. Alla fine prevalse la seconda opzione che, di lì a poco, avrebbe provocato la chiusura di scuole e negozi, oltre alla limitazione di gran parte delle libertà individuali dei cittadini e l’elevazione a dogma imprescindibile del cosiddetto distanziamento sociale. In altre parole, la quotidianità di una nazione stava cambiando per sempre. Lo stesso sarebbe poi avvenuto praticamente in tutto il resto del mondo, tranne sporadiche eccezioni. In ogni caso, in quei giorni Seehofer avrebbe incontrato il virologo Christian Dorsen e Lothar Wieler, quest’ultimo a capo dell’Istituto Robert Koch, l’organizzazione responsabile del controllo e della prevenzione delle malattie infettive in terra tedesca. L’incontro convinse il ministro a tenere tutto chiuso fin oltre il periodo pasquale.

Giustificare le chiusure. Si sarebbe così creato un conciliabolo tra i rappresentanti di alcune università tedesche e istituti – soggetti in prima linea nel fornire indicazioni sulla pandemia – e alcuni rappresentanti della politica (si fa il nome di Markus Kerber, sottosegretario all’Interno nonché ombra del ministro Seehofer). Il 19 marzo Kerber scrisse un messaggio ai suoi interlocutori, spiegando che il Ministero avrebbe voluto creare “una piattaforma di ricerca ad hoc” con vari istituti al fine di “pianificare la situazione” e programmare le prossime mosse. Ovvero: scegliere quali “misure preventive e repressive” adottare. Sembra che il sottosegretario abbia paragonato la situazione Covid a quella dell’Apollo 13. Kerber avrebbe persino chiesto ai suoi interlocutori – professori e ricercatori – i loro numeri di telefono privati perché nessuno sapeva “per quanto tempo le reti funzioneranno in maniera affidabile”. A parlare, ricordiamolo, secondo il Die Welt sarebbe un responsabile della sicurezza nazionale della Germania. In seguito, il Ministero avrebbe dettato la linea da seguire agli scienziati e seguito minuziosamente il loro lavoro. Nel giro di qualche giorno, sui media tedeschi iniziarono ad apparire messaggi sconcertanti (“Molte persone gravemente malate verranno portate in ospedale, per poi essere respinte e morire a casa agonizzanti”). Insomma, il senso di una simile mossa sarebbe stato evidente: infondere un po’ di sana paura così da giustificare il pugno duro.

·        Succede in Olanda.

Da "rainews.it" il 26 gennaio 2021. È il commento del sindacato di polizia a riassumere i violenti disordini in Olanda: "Era da 40 anni che non vedevamo una violenza simile", un fenomeno che si è ripetuto di nuovo. Due notti di follia in Olanda con forze di polizia che hanno dovuto contrastare gruppi di persone intente a saccheggiare negozi, appiccare il fuoco ad autovetture, bici, cassonetti e lanciare pietre e petardi. Un'altra nottata di proteste contro il coprifuoco notturno imposto da sabato dal governo dimissionario olandese per arginare la diffusione del coronavirus. Di nuovo, la polizia antisommossa ha usato gli idranti contro i manifestanti nel tentativo di disperderli. Da Amsterdam a Eindhoven, da Rotterdam alla piccola città meridionale di Geleen, nei pressi di Maastricht, le proteste contro il coprifuoco notturno anti-Covid hanno portato a 250 arresti. La polizia ha dovuto utilizzare cannoni ad acqua, cani e agenti a cavallo per sedare gli animi. "Quando gli agenti di polizia hanno detto ai manifestanti che stavano violando le regole del lockdown, questi hanno tirato fuori le armi e li hanno attaccati", ha riferito il sindaco di Eindhoven, John Jorritsma. Il premier dimissionario Mark Rutte ha condannato senza se e senza ma le violenze definendole "violenza criminale". Secondo la Johns Hopkins University, in Olanda il bilancio della pandemia è di 962 mila contagi totali e più di 13.600 vittime. Da metà dicembre, nei Paesi Bassi sono state chiuse scuole e negozi non essenziali. Da sabato scorso, il governo ha optato per un coprifuoco notturno tra le 21 e le 4:30 del mattino, rispettato - secondo Rutte - dal 99% della popolazione.

·        Succede in Francia.

Dagotraduzione da The Sun il 6 ottobre 2021. Secondo il quotidiano “The Sun”, la Francia avrebbe rubato quasi cinque milioni di dosi di vaccino destinate alla Gran Bretagna. Il presidente Emmanuel Macron avrebbe complottato con Bruxelles «come un moderno napoleone» scrive il giornale. Un enorme lotto del vaccino Oxford/AstraZeneca, che doveva arrivare nel Regno Unito, è stato invece deviato dall’Olanda. Il 22 marzo scorso, il capo di AstraZeneca, Ruud Dobber, aveva dichiarato pubblicamente che un lotto di vaccini, sufficiente per milioni di dosi, sarebbe dovuto arrivare in Gran Bretagna dal sito Halix in Olanda. Ma non è stato mai consegnato. È arrivato invece tra le scorte della Ue, scatenando un dibattito tra Boris Johnson e Macron. L’Ue ha quindi bloccato il trasferimento nel Regno Unito, chiarendo che non sarebbe mai stata concessa una licenza per l’esportazione. All’epoca un diplomatico della Ue aveva dichiarato: «AstraZeneca ha fatto promesse sia al Regno Unito che alla Ue che non può mantenere. Quindi ci sarà bisogno di una sorta di accordo. Ma vale la pena ricordare che queste dosi di Halix si trovano nell'UE e AstraZeneca ha bisogno del permesso per spedirle nel Regno Unito, quindi le carte sono a sfavore del Regno Unito». Inoltre la Francia avrebbe minacciato velatamente Boris Johnson di tagliare le forniture di Pfizer prodotte nel continente in caso di contenzioso. Alti esponenti del governo hanno paragonato il comportamento a «un atto di guerra» e hanno criticato Macron per essersi comportato come un mini Napoleone. Una fonte del governo ha dichiarato al The Sun: «I francesi hanno rubato i nostri vaccini mentre li screditavano in pubblico e suggerivano che non erano sicuri da usare». «Sospendere i vaccini impedendo loro di lasciare l'UE è costato la vita a persone in attesa sia della prima che della seconda dose. Avevamo un solido piano di vaccinazione in atto e questo significava che potevamo continuare a vaccinare la popolazione. Ma è stata una cosa sorprendente e oltraggiosa da fare». All'inizio di quest'anno il vaccino ha messo in crisi le relazioni della Gran Bretagna con l'UE meno di un mese dopo che aveva formalmente lasciato il blocco. I capi dell'UE hanno lanciato un assalto a tutto campo a Oxford/AstraZeneca, con Macron che ha falsamente affermato che non ha funzionato negli over 65 e lo ha bollato come «quasi inefficace».

Da corriere.it il 5 aprile 2021. Alcuni ministri francesi avrebbero partecipato a «cene clandestine» in ristoranti di Parigi esclusivi ma «illegali», perché aperti in barba alle restrizioni volute dal governo per arginare l’epidemia di coronavirus. Lo ha rivelato uno speciale mandato in onda venerdì sera dal canale televisivo M6 e registrato con una telecamera nascosta, in cui un organizzatore di queste serate ha ammesso che vi avevano partecipato membri dell’esecutivo, pur non identificandoli. L’uomo, la cui identità — precisa BfmTv — resta da confermare, afferma di aver «cenato questa settimana in due o tre ristoranti illegali con un certo numero di ministri». L’hashtag #OnVeutLesNoms (#Vogliamo i nomi) è diventato di tendenza su Twitter. Più di 16.000 utenti vogliono sapere i nomi dei partecipanti e ne chiedono le dimissioni. La prefettura di Parigi ha aperto una indagine. «Ho chiesto al prefetto della polizia di Parigi di verificare la veridicità dei fatti in modo da, se fossero veri, perseguire gli organizzatori e i partecipanti», ha twittato il ministro dell’Interno, Gerald Darmanin. La sua vice delegata alla Cittadinanza, Marlene Schiappa, ha aggiunto che se si dovesse scoprire la partecipazione di componenti del governo a simili eventi non ci saranno sconti né privilegi. «Se ministri o deputati hanno infranto le regole, è necessario che ci siano multe e che siano sanzionati come qualsiasi altro cittadino», ha sottolineato. «Non ci saranno privilegi per nessuno», le ha fatto eco il ministro delle Finanze, Bruno Le Maire, che allo stesso tempo si è detto convinto che i suoi colleghi non abbiano partecipato alle cene e si è chiesto perché l’organizzatore non abbia fornito i nomi. Le immagini diffuse da M6 mostrerebbero un evento, con tanto di menù compreso tra 160 e 490 euro, «in un ristorante sotterraneo in un quartiere bene». Si vede che né i partecipanti né i camerieri indossano le mascherine. Il canale televisivo ha anche ottenuto le riprese di una serata a pagamento, in cui si vedono decine di ospiti senza mascherine, alcuni dei quali si baciano, prima di condividere il menù a base di caviale e champagne. «Una volta che si varca la porta non c’è nessun Covid. Vogliamo che le persone si sentano a proprio agio. Questo è un club privato. Vogliamo che le persone si sentano a casa», dice una delle persone interpellate.

Parigi e lo scandalo delle cene vip: ministri, caviale e niente mascherine. La procura indaga su due video (poco chiari): potenti a cena durante il lockdown. Ora la Francia vuole nomi (e dimissioni). Francesco De Remigis - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. Menù serali da 200 a 500 euro alla faccia del coprifuoco. Una quarantina di invitati. Due diversi luoghi di lusso. E un reportage con telecamere nascoste. Questi gli ingredienti dello scandalo che ha travolto il governo francese su cui ora indaga anche la procura della Repubblica: eventi vip nel cuore di Parigi alla vigilia del terzo lockdown. Cene clandestine, in cui potenti vari si incontrano in barba ai divieti. Tra loro, due giornalisti imbeccati da una «spiata». Fanno domande, filmano e proseguono fino a scoprire altre cene a cui avrebbero partecipato pure ministri e deputati. Questo la Francia ha visto in un video non proprio nitido venerdì sera. E ha continuato a guardarlo, provando a riconoscere «colpevoli» illustri, politici che però non sono emersi. E l'hashtag #vogliamoinomi spopola. Siamo in un ristorante sotterraneo, in un quartiere chic. Caviale, Champagne e piatti dei migliori chef. Non sarà che la stessa politica che ha deciso di riconfinare l'Esagono per un mese, costretto i negozi a chiudere, si rintana nei club della Ville Lumière a fare bisboccia alla faccia del distanziamento? In queste serate, infatti, i gesti barriera sarebbero stati «dimenticati». Anzi, obbligatorio togliere la mascherina, lasciarla all'ingresso come un orpello che non ha ragione d'esistere sulle labbra dei privilegiati. «Una volta entrati, niente Covid, è un club privato», dice uno dei promoter nel video di M6, tra camerieri senza protezioni e ospiti in effusioni ravvicinate. La ministra per la Cittadinanza Marlène Schiappa è durissima: «Se ministri o deputati hanno partecipato a cene clandestine di lusso a Parigi, come afferma M6, devono essere perseguiti, chi viene riconosciuto si dovrebbe dimettere». Il ministro dell'Interno Gérald Darmanin incarica il prefetto di «verificare le informazioni trasmesse». Ci sono però dubbi sulla veridicità complessiva della denuncia tv. Solo un ristorante è stato filmato direttamente. Le immagini dell'altro locale, che avrebbe ospitato i ministri, arrivano per vie traverse: «Sono 560 metri, qui puoi avere 6, 8, 10 persone nelle varie sale». Uno dei protagonisti - uscito allo scoperto - si vantava così già il 1° febbraio. È il collezionista Pierre-Jean Chalençon, che ha le chiavi del Palais Vivienne nel II arrondissement. Tra i promotori di queste cene diventate business con la chiusura dei ristoranti da ottobre, Chalençon accenna ai «molti amici nel governo». Per esempio «Attal, che verrà presto a cena» al Palais Vivienne. Il portavoce dell'esecutivo Gabriel Attal, chiamato in causa, ieri ha fatto sapere di non conoscere Chalençon e di non aver «mai partecipato a nessuna cena o serata, non ho creduto neppure per un secondo a questa storia». Il ministro Darmanin ipotizza la gogna pubblica affinché siano «perseguite e condannate quelle persone». La caccia diventa fruttuosa. Identificato da Libération anche lo chef delle star Christophe Leroy. Franceinfo è infine riuscita a risalire al locale del presunto misfatto ministeriale: un ritratto di Napoleone lascia pochi dubbi. Sarebbe proprio il Palais Vivienne gestito da Chalençon. Il 14 marzo, Chalençon annunciava infatti su Instagram un «momento eccezionale al Palais Vivienne il 1° aprile», una «cena serale». Annuncio ora rimosso. Il collezionista di cimeli napoleonici, tradito dalla sua passione, ha prima smentito su Twitter ritenendo «falso e calunnioso» il reportage di M6 che lo vede coinvolto. Poi, tramite legale, ha ammesso di essere la persona che dice d'aver «cenato in due o tre locali con un un certo numero di ministri». Ma precisa: «Era solo umorismo». Le cene vip sono invece realtà: la polizia ne ha già scovate decine.

Da “il Giornale” il 3 gennaio 2021. Mentre il governo britannico si accaparra da AstraZeneca due milioni di dosi a settimana (ma il Regno Unito tocca il record di 58mila contagi a causa del nuovo ceppo, e chiude tutte le scuole), quello francese è nella bufera per la lentezza con cui procede la campagna di vaccinazioni nel Paese. Le somministrazioni stanno a dir poco arrancando, soprattutto se si confrontano i numeri con quelli virtuosi della Germania. Nel Paese d'Oltralpe in una settimana sono state inoculate solo poche centinaia di dosi (332 persone a venerdì, secondo CovidTracker) contro le 6mila in Austria o le 36mila in Polonia (dati del 30 gennaio, ndr). Nonostante il presidente Emmanuel Macron nel suo saluto ai francesi la sera di Capodanno abbia assicurato la volontà di accelerare, diversi esponenti della comunità sanitaria puntano l'indice sulla strategia vaccinale adottata dal governo. «La Germania oggi è probabilmente a più di 100mila persone vaccinate nelle nostre stesse condizioni. Noi non abbiamo ancora raggiunto il migliaio», deplora Frèdèric Bizard, docente all'Esc ed economista della sanità. A differenza dei suoi vicini europei, la Francia vaccina «50 persone al giorno», lamenta Mehdi Mejdoubi, capo del polo presso il Centre Hospitalier de Valenciennes. L'Olanda, invece, ha annunciato che la campagna vaccinale partirà la settimana prossima, prima della data inizialmente prevista. È l'unico Paese Ue a non aver ancora iniziato la somministrazione, una decisione che l'esecutivo ha motivato con l'esigenza di assicurare al meglio il funzionamento del programma. Il piano originale prevedeva un inizio simbolico l'8 gennaio, per poi avviare la campagna a pieno ritmo il 18. Ma le associazioni dei medici hanno protestato, chiedendosi perché non usare subito le 175mila dosi già arrivate. E di fronte alle proteste il governo ha annunciato l'imminente vaccinazione di 30mila medici e infermieri. In Russia, invece, già da un mese hanno cominciato a somministrare lo Sputnik V, il vaccino sviluppato nel Paese di Putin, e oltre 800mila cittadini hanno ricevuto la prima dose. Il ministro della Salute della Federazione russa, Mikhail Murashko, ha precisato che 1,5 milioni di dosi sono state inviate in tutto il Paese, meno dei due milioni previsti dal presidente. Critiche su gestione e tempi della vaccinazione anche oltreoceano. Negli Usa, prima nazione al mondo per contagi, l'operazione Warp Speed organizzata da Donald Trump ha fornito milioni di dosi, ma non è al passo con le promesse. I media prevedono che serviranno anni, al ritmo attuale, per vaccinare un numero di statunitensi sufficiente a fermare la pandemia. Secondo le previsioni, 20 milioni di persone avrebbero dovuto ricevere la prima dose entro il 2020: sono state meno di 3 milioni. Il presidente eletto Joe Biden ha duramente criticato l'amministrazione Trump, promettendo di velocizzare le operazioni. Nei prossimi giorni, intanto, prenderà il via la campagna di vaccinazione all'interno dello Stato della Città del Vaticano.

Anais Ginori per “la Repubblica” il 3 gennaio 2021. Una settimana dopo il Vax Day, la Francia è fanalino di coda tra i grandi paesi occidentali nel lancio della campagna di vaccinazione: solo 352 persone hanno ricevuto la prima dose secondo un calcolo non ufficiale. Un dato incredibilmente basso se paragonato con i vicini europei. Le autorità d'Oltralpe non danno cifre ma la stessa Accademia di Medicina ha calcolato solo 100 vaccinati tre giorni dopo il lancio del 27 dicembre quando Mauricette, ospite di una casa di riposo, ha aperto la corsa all'immunità. «È una partenza troppo lenta» lamenta l'Accademia che parla di «prudenze eccessive». «Siamo lo zimbello del mondo intero » tuonano medici in prima linea come Frédéric Adnet, capo del pronto soccorso nell'ospedale Saint-Saint-Denis, banlieue a nord della capitale dove l'epidemia ha colpito duro. Sotto accusa la procedura stabilita Oltralpe: visita medica obbligatoria preventiva, cinque giorni di "riflessione" prima di dare il consenso informato. «Prendiamo il tempo della spiegazione e della pedagogia per conquistare la fiducia» si giustifica il ministro della Salute, Olivier Véran, che conferma l'obiettivo di un milione di persone vaccinate entro febbraio nelle categorie prioritarie: Rsa e personale medico. La Francia ha il triste record di No-Vax: 6 cittadini su 10 non sono convinti di volersi far vaccinare contro il Covid nonostante gli oltre 64mila morti. «La cautela del governo aggrava la resistenza di una parte della popolazione» commenta Axel Kahn, presidente della Lega nazionale contro il cancro. La Francia ha ricevuto per il Vax Day 19.500 dosi del prodotto sviluppato da Pfizer e BioNTech. Il governo ha nominato un "Monsieur Vaccin", l'immunologo Alain Fischer, affiancato da un comitato di cittadini estratti a sorte per garantire trasparenza. Tanti buoni propositi a cui per ora non seguono i fatti. L'economista Antoine Levy sospetta una clamorosa débâcle logistica e vede la prova di un «terribile impoverimento organizzativo e tecnologico». Emmanuel Macron ha promesso che non ci sarà una «lentezza ingiustificata » nella distribuzione del vaccino. «Siamo la terra dell'Illuminismo e di Pasteur, la ragione e la scienza devono guidarci» è l'appello di Macron contro il virus della sfiducia documentato in uno studio della fondazione Jean Jaurès. «Lo scetticismo nel vaccino ricalca quello nella politica in generale» spiega Antoine Bristielle, autore della ricerca. «La sfiducia nelle istituzioni - aggiunge - è ormai un fenomeno strutturale difficile da combattere».

·        Succede in Inghilterra.

Covid Gran Bretagna, "gestione fallimentare della pandemia". Il rapporto che accusa Boris Johnson. Il Tempo l'11 dicembre 2021. Una gestione fallimentare della pandemia da Covid-19 che ha causato migliaia di morti evitabili. E' l'atto di accusa che un rapporto parlamentare rivolge al governo britannico di Boris Johnson. Il governo, secondo i legislatori, ha aspettato troppo a lungo per imporre un blocco nei primi giorni della pandemia di Covid-19, perdendo la possibilità di contenere la malattia e portando a migliaia di morti inutili. Il ritardo sarebbe derivato dalla mancata discussione delle raccomandazioni dei consulenti scientifici da parte dei ministri. Questo ha portato a un pericoloso livello di "pensiero di gruppo" che li ha indotti a respingere le strategie più aggressive adottate nell'est e nel sud-est asiatico, secondo il rapporto congiunto del Comitati scientifici e sanitari della Camera dei Comuni. È stato solo quando il servizio sanitario nazionale britannico ha rischiato di essere sopraffatto dalle infezioni in rapida crescita che il governo conservatore del primo ministro Boris Johnson ha finalmente ordinato un lockdown. Il rapporto di 150 pagine si basa sulla testimonianza di 50 persone, tra cui l'ex segretario alla sanità Matt Hancock e l'ex membro del governo Dominic Cummings. È stato approvato all'unanimità da 22 legislatori dei tre maggiori partiti in Parlamento: i conservatori al governo, il partito laburista all'opposizione e il Partito nazionale scozzese. "C'era il desiderio di evitare un blocco a causa dell'immenso danno che avrebbe comportato per l'economia, i normali servizi sanitari e la società", afferma il rapporto. "In assenza di altre strategie come un rigoroso isolamento dei casi, un'operazione di test e tracciamento significativa e solidi controlli alle frontiere, un lockdown completo era inevitabile e sarebbe dovuto avvenire prima". I legislatori affermano che la loro indagine è stata progettata per scoprire perché la Gran Bretagna si è comportata "significativamente peggio" rispetto a molti altri paesi durante i primi giorni della pandemia, in modo che il Regno Unito possa migliorare la sua risposta alla minaccia in corso da Covid-19 e prepararsi per le minacce future. Giudizi negativi anche sul programma di tracciamento del governo, considerato lento, incerto e spesso caotico, tanto da ostacolare la risposta della Gran Bretagna alla pandemia. In mezzo a tante critiche, un solo punto di merito. Il comitato ha infatti elogiato l'attenzione del governo sui vaccini come via di uscita definitiva dalla pandemia e la decisione di investire nello sviluppo stesso dei sieri. Queste risoluzioni hanno portato al successo del programma di inoculazione della Gran Bretagna, che vede quasi l'80% delle persone dai 12 anni in su completamente vaccinate. "Milioni di vite saranno alla fine salvate grazie allo sforzo globale di vaccinazione in cui il Regno Unito ha svolto un ruolo di primo piano", hanno affermato i comitati.

Luigi Ippolito per corriere.it l'8 dicembre 2021. Boris Johnson si prepara a imporre nuove restrizioni in Gran Bretagna: una risposta all’avanzare della variante Omicron, ma anche un tentativo di distogliere l’opinione pubblica dallo «scandalo della festa di Natale», che in queste ore scuote il governo dalle fondamenta. Nel pomeriggio di oggi, 8 dicembre, dovrebbe essere annunciata l’indicazione a lavorare da casa, quando possibile, e anche l’introduzione, per la prima volta, di una forma di Green Pass, seppure limitato a discoteche a grandi eventi. Sono misure che fino a ieri sera avevano spaccato il governo: ma poi si è deciso di accelerare i tempi di fonte al deflagrare dello scandalo. Per più di una settimana Johnson ha cercato – inutilmente – di scrollarselo di dosso: il Daily Mirror aveva rivelato che nel dicembre dell’anno scorso si era svolta a Downing Street una festa di Natale, nel periodo in cui i regolamenti anti-Covid lo vietavano. Per giorni ministri e portavoce si sono attorcigliati in improbabili giustificazioni, negando che si fosse trattato di un vero party e insistendo che le norme erano state rispettate. Ma ieri sera è emerso un clamoroso video in cui si vede lo staff di Downing Street, in una finta conferenza stampa, che scherza sul party e su come lo si potrebbe giustificare in pubblico: e stamattina l’immagine della allora portavoce di Boris, Allegra Johnson, ripresa a sghignazzare, campeggiava su tutte le prime pagine dei giornali. Le reazioni sono state di sconcerto e indignazione. Stamattina Johnson ha provato goffamente a scusarsi in Parlamento, nel corso di una seduta caotica, e ha promesso una indagine interna. Ma ha insistito a dire che nessuna regola era stata violata. La credibilità sua e del governo sono però a pezzi. Come farà adesso Boris a imporre divieti alla popolazione, quando è stato lui il primo a violarli? In un Paese dove il rispetto delle regole, fin dall’inizio della pandemia, è stato sempre affidato alla spontanea collaborazione dei cittadini più che a veri controlli, il rischio è che questa volta l’opinione pubblica risponda con una scrollata di spalle. Ma è soprattutto l’impressione di un governo alla deriva che emerge dagli avvenimenti degli ultimi giorni. All’interno dello stesso partito conservatore cresce il disorientamento di fronte a una leadership caotica o assente: e i nazionalisti scozzesi hanno già chiesto le dimissioni di Johnson. Forse è presto per parlarne: ma in questo momento appare difficile capire come Johnson possa riuscire a risalire la china.

Vittorio Sabadin per “Specchio - la Stampa” il 15 novembre 2021. Con il Covid di nuovo pericoloso il governo britannico avrebbe cose più importanti a cui pensare, ma la ministra dell'Interno Priti Patel ha dato uno sguardo alle statistiche della criminalità, e ha visto che le cifre non tornavano. Dopo una breve indagine, si è scoperto che in numerosi distretti di polizia molti reati erano classificati dagli agenti come delitti femminili solo perché l'autore del crimine aveva dichiarato agli agenti di "sentirsi donna". Anche le azioni criminali commesse dai transessuali finivano nella casella femminile, favorendo l'impressione che le donne fossero diventate all'improvviso più violente. Priti Patel ha così inviato un richiamo ai dirigenti della polizia, invitandoli ad applicare con maggiore buon senso la cultura "woke" che ormai permea anche la società britannica. Vanno bene il risveglio, l'inclusione, il rispetto di ogni tendenza sessuale e delle diversità di genere, ma bisogna finirla di scrivere nei rapporti che il colpevole di uno stupro è una donna solo perché lui lo dichiara. Il problema è nato quando il "Mail on Sunday" ha scoperto che un maschio di nome Zoe Watts, incarcerato per una serie di reati, tra cui la costruzione di una bomba, era stato inserito nel casellario femminile dalla polizia del Lincolnshire solo perché Watts si identificava come donna. Patel ha scoperto che non era un caso isolato e ha invitato gli agenti ad accertare meglio il sesso degli arrestati senza fermarsi alle apparenze o alle dichiarazioni del reo, in modo da non gonfiare impropriamente le statistiche della criminalità femminile. Il problema è più serio di quello che sembra, visto che gli uomini cominciano a fingere di avere cambiato orientamento sessuale per accedere ai bagni femminili, o per evitare condanne in reati molto gravi: in Gran Bretagna, ad esempio, la legge non prevede che una donna possa essere accusata di stupro. Per i distretti di polizia occorrerà inventarsi qualcosa, forse cominciando a pensare che ci devono essere dei limiti pure nel rispetto delle identità sessuali percepite dagli individui.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" l'8 novembre 2021. La Gran Bretagna finisce sul banco degli imputati. L'atto d'accusa più duro lo ha scagliato - dalle colonne di Repubblica - Walter Ricciardi, l'igienista consulente del nostro ministero della Salute: gli inglesi «hanno sbagliato tutto fin dall'inizio», «si sono illusi che la campagna vaccinale avesse risolto tutto», ora «facendo circolare il virus in modo incontrollato, agevolano la formazione di nuove varianti». Cosa ne pensano a Londra? Sostanzialmente, nulla. Perché qui da mesi, tranne qualche sprazzo, il Covid è praticamente scomparso dalla conversazione pubblica. Sui giornali si fa fatica a trovare qualche articolo dedicato alla pandemia (e il fenomeno italiano dei virologi che pontificano a tutte le ore non esiste e non è mai esistito). Il dibattito politico si occupa di altro: la corruzione dei conservatori, la battaglia della pesca con la Francia, la Cop26 a Glasgow: non certo del coronavirus. Vista da qui, l'Italia sembra davvero vivere in un universo parallelo. Cose come il green pass e le mascherine in Inghilterra sono sconosciute: a luglio sono state abolite tutte le restrizioni e la popolazione, dopo qualche esitazione, ha abbracciato con slancio la libertà ritrovata. Da due mesi la vita è tornata alla normalità: club, feste, palestre, tutto funziona a pieno regime. E i contagi? A metà ottobre c'è stata una fiammata, con i casi arrivati a 50 mila al giorno. È stato in quel momento che sono sembrati preoccuparsi: da più parti - soprattutto dall'opposizione laburista - si è invocata l'immediata introduzione del piano B, ossia il ritorno alle mascherine al chiuso, al lavoro da casa e una blanda forma di green pass (che qui incontra forti resistenze ideologiche in tutto lo spettro politico, in un Paese con un Dna liberale). Ma Boris Johnson ha tenuto duro: e da allora i casi hanno cominciato a calare in maniera costante (adesso sono scesi a 30 mila al giorno). Gli esperti britannici ritengono che il picco sia ormai passato e la questione è stata di nuovo derubricata. Certo, con numeri del genere da noi sarebbe comunque allarme rosso. Ma sembra evidente che in Gran Bretagna hanno un approccio filosoficamente diverso: in Europa di fatto pare che si punti al «Covid zero», una strategia che a Londra è considerata palesemente assurda; i britannici hanno accettato che il Covid è ormai una malattia «endemica», con la quale bisogna convivere. D'altra parte, non è di gran lunga la prima causa di morte: ben avanti vengono i tumori, gli ictus, gli infarti, le altre malattie respiratorie... E allora, l'importante per loro è che non ci sia una pressione insostenibile sul sistema sanitario nazionale: finché ci sono letti liberi negli ospedali e non muore troppa gente, il resto conta poco. Forse c'entra anche il tradizionale stoicismo britannico, keep calm and carry on, state calmi e andate avanti; o il fatto che grazie all'approccio ultra-liberale l'economia corre come nessun'altra in Europa, con una crescita annua stimata al 6,5 per cento. Come che sia, a Londra il dibattito sul Covid fa tanto 2020...

Antonello Guerrera per repubblica.it il 12 ottobre 2021. "Il disastro peggiore nella storia della sanità britannica, costato decine di migliaia di morti che potevano essere salvate". È pesantissimo il rapporto della commissione parlamentare per la Sanità e quella per la Scienza del parlamento di Westminster pubblicato ieri notte e che ha analizzato azioni e politiche del governo di Boris Johnson per fronteggiare la pandemia di Coronavirus. Il rapporto contiene ciò che per mesi hanno scritto media, giornalisti e varie inchieste. Ora però quelle accuse vengono messe nero su bianco e ufficializzate da un organismo ufficiale parlamentare bipartisan. Le commissioni hanno come presidenti addirittura due parlamentari conservatori, ossia dello stesso partito del primo ministro: ovvero Jeremy Hunt, ex ministro della Salute e sfidante di Johnson alle primarie del 2019, e Greg Clark per la Scienza. Il report è di 150 pagine e critica soprattutto il responso iniziale alla pandemia da parte del governo di Boris Johnson. Viene confermato ciò che l'esecutivo ha sempre provato a smentire, nonostante alcuni media, tra i quali Repubblica, avessero riportato immediatamente ciò che oggi viene definita la realtà dei fatti: il governo, nelle prime settimane di pandemia a inizio 2020, ha tentato la strada dell'immunità di gregge, senza che all'epoca fosse disponibile alcun vaccino contro il Covid.

"Migliaia di vite potevano essere salvate", scrivono le commissioni di indagine

Un approccio che ha provocato decine di migliaia di morti in più, che ha fatto fuggire migliaia di italiani dal Regno Unito a inizio dell'anno scorso, e che poi è stato abbandonato in favore del lockdown, annunciato solo a fine marzo 2020, mentre Italia e mezza Europa avevano già chiuso tutto. E dire che i primi casi di Coronavirus in Uk erano stati riscontrati il 31 gennaio. "Si è agito troppo tardi" per la Commissione, "perché così si sono perse settimane preziose e soprattutto migliaia di vite potevano essere salvate".  A finire nel mirino dei parlamentari è stato non solo il governo, ma anche le autorità scientifiche che inizialmente avrebbero sottovalutato il pericolo. Non a caso, oggi il ministro Steven Barclay ha ripetuto più volte in tv: "Noi abbiamo seguito la scienza". "L'approccio iniziale del governo era quello di arrivare a una immunità di gregge attraverso le infezioni", si legge nel report, "lasciando circolare il virus: una sorta di fatalismo per cui questo sarebbe stato alla fine l'unico modo per fermare la diffusione del virus". Eppure, è scritto sempre nel documento, ciò che avveniva in Cina e Italia avrebbe dovuto lanciare l'allarme nel governo: il Coronavirus era già definito molto contagioso, causava una grave malattia e non c'era una cura. "Il livello di ignoranza attraverso il quale il Regno Unito ha considerato la sua risposta alle prime settimane di pandemia è stato parzialmente auto-inflitto". 

Il ministro non si scusa

"I provvedimenti del governo si sono rivelati sbagliati ed è evidente che questo ha causato molti più morti di quanti se ne sarebbero avuti" con misure più restrittive. Un altro grave errore dell'esecutivo, per la Commissione, è stato far rientrare immediatamente nelle case di riposo anziani ricoverati in ospedale, senza che questi venissero sottoposti a un test preventivo. Questo, nell'intenzione delle autorità, per liberare quanti più posti letto della sanità pubblica travolta dal virus, causando "però migliaia di morti nelle case di riposo, che potevano essere evitate". Tuttavia, il report loda l'operato del governo Johnson nella seconda parte della pandemia. Non tanto il sistema di test e tracciamento che ha avuto molte pecche all'inizio, quanto la campagna di vaccinazione partita quasi un anno fa, "una delle più efficienti e organizzate di sempre". Oggi il Regno Unito ha rimosso ogni restrizione (mascherine al chiuso incluse) contando sul muro di immunizzazione: l'85,5% della popolazione con più di 12 anni ha ricevuto almeno una dose di vaccino e il 78,6% due dosi. I numeri però restano molto alti: ieri 40.224 nuovi casi di Coronavirus (su 970mila test), per un totale di 265.934 negli ultimi sette giorni (+11,2 % rispetto alla settimana precedente). I morti restano più o meno stabili: ieri 28 (ma il lunedì sono sempre più bassi) per un totale di 780 negli ultimi 7 giorni (due in più rispetto alla settimana precedente). Anche i ricoverati in ospedale sembrano stabilizzati: ieri 816 per un totale di 5.155 negli ultimi sette giorni (+0,9 % rispetto alla settimana precedente). In ogni caso, oltre al report delle Commissioni Salute e Scienza, ci sarà presto una inchiesta pubblica sugli errori del governo britannico nella lotta alla pandemia. Nel frattempo, ha attirato molte critiche l'intervento del ministro Barclay stamattina alla radio Lbc. Il conduttore Nick Ferrari, alla luce dei risultati del rapporto, ha chiesto per otto volte al membro dell'esecutivo di chiedere scusa al popolo britannico per gli errori nella prima fase dell'emergenza, ma Barclay si è sempre rifiutato di dire "sorry". 

Luigi Ippolito per corriere.it il 22 luglio 2021. La Gran Bretagna è messa in ginocchio dalla quarantena di massa. Supermercati mezzi vuoti, pub e ristoranti chiusi, treni cancellati, metropolitana a singhiozzo, pompe di benzina a secco: una situazione per certi versi peggiore di quella che si era verificata l’anno scorso, allo scoppio della pandemia. La app di tracciamento che la maggioranza della popolazione ha scaricato è implacabile: basta venire in contatto anche lontanamente con qualcuno che è positivo al virus e sul telefonino arriva il «ping», il segnale che bisogna mettersi in isolamento. Si stima che al momento siano un milione e 700 mila i lavoratori costretti alla quarantena: e fra di loro ci sono pure il primo ministro Boris Johnson e il leader dell’opposizione laburista, Keir Starmer. Il risultato è che i supermercati non riescono a rifornirsi adeguatamente, perché i camionisti non possono lavorare alle consegne e il loro stesso personale è decimato: dunque in tutta l’Inghilterra si segnalano penurie di prodotti freschi, dal pesce alla frutta e verdura, dal pane alla carne, ma anche di acqua minerale e carta igienica. Certe catene sono state perfino costrette a chiudere alcuni punti vendita. La serrata forzata ha colpito però soprattutto pub e ristoranti, a corto di cuochi e camerieri: e la vittima più illustre è il mitico ristorante dell’hotel Ritz a Londra, che era rimasto aperto pure durante i bombardamenti nazisti ma adesso ha finito per soccombere alla quarantena. Anche le consegne di cibo a domicilio, diventate per molti un’abitudine durante la pandemia, sono in sofferenza. Male pure i trasporti. Lo scorso weekend diverse linee della metropolitana di Londra sono state sospese e su tutta la rete ferroviaria nazionale i treni viaggiano a ritmo ridotto. Problemi anche per gli automobilisti: la Bp ha annunciato la chiusura di molti distributori di benzina perché non arrivano le consegne di carburante. La Royal Mail ha ammesso ritardi nelle consegne della posta, tanti ospedali cancellano le operazioni e molte scuole hanno dovuto chiudere in anticipo a causa delle assenze di massa degli allievi (qui il calendario scolastico arriva a fine luglio). Anche la spazzatura in alcune aree non viene più raccolta e ci sono matrimoni annullati all’ultimo momento perché gli sposi sono stati «pingati» dalla app di tracciamento. Il problema è che la fine di tutte le restrizioni scattata a inizio settimana, nel pieno della terza ondata del Covid dovuta alla variante Delta, ha provocato una impennata dei contagi, forzando sempre più persone all’isolamento: solo nell’ultime settimana sono 600 mila quelli finiti in quarantena. Da più parti si chiede che chi è completamente vaccinato sia esentato dalla quarantena, ma il governo è irremovibile: il sistema attuale rimarrà in vigore fino al 16 agosto, tranne rare eccezioni nei settori dell’energia e delle telecomunicazioni. Per la Gran Bretagna sarà un’estate calda.

Antonello Guerrera per repubblica.it il 21 luglio 2021. Boris Johnson non voleva richiudere il Paese lo scorso autunno perché per lui di coronavirus "morivano solo quelli con 80 anni di età, o più anziani". Anzi, disse che "il Covid allungava la vita", se gli anziani fossero sopravvissuti. Sono le pesantissime dichiarazioni di Dominic Cummings, l'ex consigliere supremo e "rasputin" di Boris Johnson, in un'intervista esclusiva alla Bbc, la prima rilasciata in tv da quando è stato brutalmente licenziato dal primo ministro britannico alla fine dello scorso anno, dopo due settimane di fuoco a Downing Street degne di House of Cards, conclusesi con il suo addio appoggiato dall'allora fidanzata e attuale moglie di Johnson, Carrie Symonds. Da settimane, Cummings attacca e critica fortemente Johnson per la gestione della pandemia, disastrosa secondo l'ex consigliere. Una vendetta, quella del 49enne architetto della Brexit e mago della comunicazione, che però sembra corroborata da prove. Come già fatto nelle ultime settimane sui suoi account Twitter e Substack, Cummings ha condiviso anche con la Bbc i messaggini privati di Johnson scambiati su Whatsapp. La tv pubblica britannica, che manderà in onda stasera alle 20 italiane l'intervista integrale, promette altre rivelazioni. Da quanto filtrato sinora, tramite la Bbc Cummings accuserà Johnson di aver sottovalutato enormemente lo tsunami Covid in arrivo. Secondo il resoconto del suo ex massimo consigliere, il primo ministro il 15 ottobre avrebbe scritto su Whatsapp "non possiamo fermare l'economia solo perché muoiono persone con più di 80 anni. In media le vittime hanno 82 anni, è oltre l'aspettativa di vita. Dunque, prendere il Covid [e guarire] allunga la vita. Queste esagerazioni della sanità pubblica (Nhs) non mi convincono più. Amici", riferito al suo staff nella chat di gruppo, "credo che qui dobbiamo cambiare strategia". Non solo. Secondo Cummings, Johnson si sarebbe pentito addirittura anche del primo lockdown, che nel marzo 2020 approvò con almeno due settimane di ritardo, con conseguenze catastrofiche per la salute pubblica. "Non avrei dovuto chiudere tutto", è il resoconto del suo ex consigliere durante alcuni meeting a Downing Street, "è un disastro, non avremmo mai dovuto farlo, avevo ragione a febbraio: avremmo dovuto ignorare la cosa, far sì che il Covid circolasse in tutto il Paese e non distruggere l'economia così. Il Telegraph e mezzo partito conservatore ora mi distruggeranno". Ma c'è un'altra grave accusa di Cummings. Johnson sarebbe stato così sprezzante del Covid che avrebbe messo in pericolo anche la Regina, o almeno stava per farlo, prima di essere bloccato dal suo consigliere. L'ex rasputin ricorda come il primo ministro nel marzo 2020 gli dicesse "ok, vado a trovare Sua Maestà". Allora Cummings si sarebbe arrabbiato: "Boris, non puoi andare dalla Regina, è una cosa folle e pericolosa, abbiamo avuto casi di Covid qui a Downing Street, magari sei infetto anche tu (come poi realmente accadde, ndr), potresti ucciderla!". E Johnson: "Fanculo, è mercoledì, come ogni mercoledì mi devo vedere con la Regina e ci andrò". Allora Cummings: "Boris, stai facendo una pazzia, fermati!". Infine Johnson: "Merda, ok. Non ci vado". Non è la prima volta che Johnson viene accusato di aver sottovalutato la crisi del Covid. All'inizio della pandemia, il suo massimo consigliere scientifico Sir Patrick Vallance (ieri autore di un'altra gaffe clamorosa) si lasciò scappare come il governo non escludesse l'immunità di gregge senza vaccini, scatenando una valanga di polemiche. Qualche settimana fa, il Daily Mail riportò alcune presunte frasi di un Johnson in apparenza molto riluttante ad approvare il secondo lockdown dello scorso autunno. In quel caso, il primo ministro avrebbe detto: "Meglio pile di morti ammassati nelle strade che chiudere di nuovo tutto!". Downing Street ha sempre smentito queste ricostruzioni e oggi aggiunge come "il primo ministro abbia approvato ben tre lockdown per salvare vite e la sanità pubblica".

(ANSA-AFP il 19 luglio 2021) Quasi tutte le restrizioni legate alla pandemia di Covid-19 sono state revocate in Inghilterra con lo scattare della giornata odierna, ribattezzata 'Freedom Day', nonostante una fiammata di contagi che preoccupa in molti tra scienziati e politici. A partire dalla mezzanotte ora locale (l'1:00 in Italia) auditorium e stadi possono riaprire a pieno regime, le discoteche tornano ad accogliere il pubblico, il servizio bar è nuovamente autorizzato nei pub e non c'è più limite al numero di persone che possono radunarsi. Indossare la mascherina non è più obbligatorio nei trasporti e nei negozi, e il telelavoro non è più obbligatorio. Il nuovo coronavirus ha ucciso più di 128.700 persone nel Regno Unito, dove la contaminazione è salita alle stelle per settimane. Il Paese è il più colpito in Europa per numero di casi e per due giorni consecutivi ha superato i 50.000 nuovi contagi giornalieri. Tra i contagiati c'è anche il ministro della Salute, Sajid Javid. Scozia e Galles dal canto loro mantengono l'obbligo di indossare la mascherina nei luoghi pubblici al chiuso e nei trasporti.

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 19 luglio 2021. L'Inghilterra oggi entra ufficialmente nello Step 4, l'ultimo passaggio del piano elaborato dal governo Johnson. Cade l'obbligo della mascherina nei luoghi chiusi e del distanziamento sociale mentre non ci sono più limiti di numero per gli assembramenti. Suona paradossale, tuttavia, che alla vigilia del soprannominato Freedom Day a privarsi della loro libertà siano stati proprio il primo ministro e il cancelliere dello scacchiere Rishi Sunak, costretti all'isolamento da ieri perché entrati in contatto con il collega alla salute Sajid Javid, risultato positivo sabato scorso. Un'imposizione che entrambi hanno cercato di aggirare nella mattinata di ieri (senza successo), quando Downing Street aveva annunciato la partecipazione di Boris Johnson e Sunak a un progetto pilota, secondo il quale l'isolamento non sarebbe stato necessario. Entrambi avrebbero potuto continuare a frequentare il luogo di lavoro purché si fossero sottoposti a un test quotidiano. Una decisione che ha scatenato l'indignazione dell'opposizione, con i laburisti e i liberaldemocratici che hanno accusato ancora una volta il governo di usare due pesi e due misure. In rete sono esplosi commenti sarcastici sulla possibilità dei membri di governo di evadere le restrizioni da essi stessi imposte, in un momento particolarmente delicato per l'economia. A causa dell'aumento vertiginoso dei contagi nella scorsa settimana secondo la BBC più di 500mila persone hanno ricevuto la notifica sull'app Test and Trace del sistema sanitario NHS, con cui si richiedeva l'isolamento di dieci giorni per il contatto avvenuto con un positivo. Il 43% in più rispetto alla settimana precedente. Se aggiunti ai 747mila gli studenti costretti a casa e ai 337mila avvisati direttamente dall'NHS si arriva a un totale di 1,8 milioni di persone in isolamento, scrive il Daily Mail. Numeri che hanno bloccato piccole attività, mezzi di trasporto e perfino luoghi di intrattenimento. Il Globe di Londra ha dovuto annullare uno spettacolo, la carenza di autisti nelle metropolitane di Londra ha causato alcuni ritardi e cancellazioni. E lo stesso vale per pub e parrucchieri costretti a chiudere a poche settimane dalla riapertura. Uno scenario che potrebbe peggiorare rapidamente a partire da oggi, con l'eliminazione delle ultime misure restrittive anti contagio. Un caos - soprannominato pingdemic, parola che gioca con ping, notifica, e pandemia - che deve aver fatto cambiare rapidamente idea a BoJo. E due ore e mezza dopo è arrivata la smentita con un video su Twitter: «Abbiamo brevemente considerato l'ipotesi di prendere parte a un progetto pilota con test quotidiani - ha tagliato corto Johnson - ma credo sia molto più importante che tutti seguiamo le stesse regole. Pertanto mi isolerò fino al 26 luglio. Chiedo a tutti di attenersi alle regole e di prendere le giuste precauzioni quando venite contattati dal programma Test and trace». Il primo ministro ha colto l'occasione per ribadire le ragioni del Freedom Day, nonostante i numeri preoccupanti (ieri erano 48.161 i nuovi positivi, 25 i morti e 740 i ricoverati): «Se non lo facciamo adesso lo dovremo fare in autunno e inverno quando il virus avrà il vantaggio del clima più freddo e le scuole non saranno più chiuse. Questo è il momento giusto ma dobbiamo farlo con cautela. Dobbiamo ricordare che il virus è ancora là fuori e i contagi stanno aumentando. Abbiamo tuttavia la grande consolazione che i vaccini hanno indebolito il legame tra le infezioni e i ricoveri. Per favore siate cauti durante lo step 4, siate prudenti e rispettosi delle altre persone». Un rispetto che tuttavia non è più un obbligo di legge. E molte società private hanno colmato la lacuna imponendo la mascherina: per esempio, Transport for London, British Airways, EasyJet, Virgin, Ryanair, grandi catene di supermercati come Tesco e le librerie Waterstones.

Da huffingtonpost.it il 2 giugno 2021. Certamente ricorderete Christian Jessen, il presentatore tv, medico e comico inglese, 44 anni, che all’inizio della pandemia disse che secondo lui, il lockdown e il “restate in casa” a causa del Covid in Italia erano “scuse per continuare a fare la siesta” e non lavorare. Dichiarazioni che scatenarono proteste in tutta Italia. Ora Jessen dice di “essere in bancarotta”: guai anche stavolta causati da improvvide dichiarazioni che però hanno avuto conseguenze ancora più serie. Scrive Repubblica: Questo perché un giudice britannico, in una causa civile tra Jessen e la prima ministra nordirlandese uscente, Arlene Foster, ha dato ragione a quest’ultima: non è vero che Foster avesse una relazione extraconiugale, come aveva sostenuto in pubblico Jessen, in un’altra sua controversa e criticata uscita. Così, ora Jessen deve risarcire con 125mila sterline (circa 150mila euro) la ex leader del partito unionista nordirlandese. Ma c’è un problema: “Sono soldi che non ho. Vi chiedo dunque di aiutarmi a pagare questo debito”, ha scritto il presentatore sui social. Jessen ha aperto un crowdfunding su GoFundMe.

DA leggo.it il 27 maggio 2021. Un'audizione dal sapore di vendetta, esplicita e circostanziata, per denunciare ritardi e negligenze nella gestione della pandemia di coronavirus da parte del governo britannico, dal quale era stato allontanato lo scorso novembre: ha atteso poco più di sei mesi Dominic Cummings, l'ex eminenza grigia del premier Boris Johnson, per regolare i conti con i suoi nemici a Downing Street. A cominciare dallo stesso primo ministro, «inadeguato al ruolo ricoperto», e accusato dal suo ex consigliere principe di aver prima ignorato e poi sottovalutato la gravità dell'emergenza Covid. Anche quando, lo scorso marzo, la pandemia si era ormai diffusa in tutta Europa. «Considerava il coronavirus alla stregua dell'influenza suina, una storiella spaventosa - ha raccontato oggi Cummings davanti ad una commissione parlamentare -. Era pronto ad andare in tv e farsi inoculare il virus in diretta per dimostrarne l'innocuità». Un errore di valutazione, il primo di una lunga lista secondo Cummings, pagato tragicamente dal Regno Unito, che oggi conta quasi 128 mila morti da Covid, il totale più alto d'Europa. «La verità è che il governo, in tutte le sue componenti, ha fallito in maniera disastrosa proprio quando la gente ha avuto più bisogno di noi. Desidero scusarmi per le migliaia di morti che potevano essere evitate», ha dichiarato Cummings, già architetto della Brexit, al fianco di Johnson dall'aprile 2019 al novembre 2020, quando è stato costretto alle dimissioni dopo essere entrato in rotta di collisione con la fidanzata di BoJo, Carrie Symonds. Nonostante le ripetute smentite del governo, Cummings ha confermato che l'iniziale strategia di Downing Street prevedeva il raggiungimento entro l'autunno di una sorta di immunità di gregge, ritenuta dal premier «un fattore inevitabile». «Il governo in quelle settimane era nel caos più completo. In molti a metà febbraio erano ancora a sciare. Fino alla fine di quel mese non c'è stato nel governo alcun senso di urgenza, tanto meno una precisa direzione». Solo di fronte ai modelli statistici sviluppati dall'Imperial College, che prefiguravano scenari catastrofici (in termini di decessi) per il Regno, il premier si è infine persuaso, nella prima metà di marzo, a cambiare rotta, introducendo il primo lockdown il 23 marzo 2020. «È folle che persone come Johnson o il sottoscritto abbiano avuto simili responsabilità. Migliaia di altre persone avrebbero potuto guidare meglio il Paese. I sanitari in prima linea contro il coronavirus si sono dimostrati dei leoni, comandati però da scimmie». Nel corso di una testimonianza fiume durata più di sette ore, Cummings ha elencato ogni singolo elemento di disaccordo con Johnson, dalle incertezze iniziali alla mancanza di un piano di tracciamento dei contagi, fino alle reticenze nell'introdurre un secondo lockdown lo scorso autunno. Rinviato «in maniera irresponsabile» dal premier, il quale - nella ricostruzione dell'ex consigliere - avrebbe piuttosto preferito «lasciare accatastare i cadaveri» (espressione già smentita da Downing Street). Altrettanto duro l'affondo che Cummings ha riservato al ministro della Salute, Matt Hancock, «che sarebbe dovuto essere licenziato 15 o 20 volte per le sue azioni vergognose e criminali, un vero bugiardo». Accuse prontamente riprese dal leader laburista Keir Starmer: nel corso del settimanale Question Time ha invitato Johnson a scusarsi per gli errori compiuti, soprattutto nella prima fase della pandemia. Il capo dell'opposizione ha anche chiesto in aula se fosse stata effettivamente pronunciata la frase, attribuita da Cummings a Johnson, «il Covid uccide solo gli ottantenni». Per il momento il diretto interessato non ha voluto replicare al durissimo j'accuse del suo ex Rasputin: ha ribadito che ogni decisione è sempre stata presa «per ridurre al minimo i decessi», sottolineando i passi compiuti negli ultimi mesi grazie all'efficacia del piano vaccinale. Che ha drasticamente abbassato il numero dei contagi e dei morti, consentendo un graduale riapertura della società in vista del 21 giugno, scadenza ultima per la fine di ogni misura restrittiva.

VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 27 giugno 2021. La storia pecoreccia del ministro della sanità britannica, Matt Hancock, dimostra che gli inglesi se si impegnano riescono a essere più fessi di noi. L' illustre politico, che ha combattuto con buoni- non eccezionali - risultati la pandemia, è stato sorpreso mentre negli uffici istituzionali baciava una propria consulente, insomma una sua amante. E subito è scoppiato uno scandalo a sfondo moralistico. Un quotidiano di Londra, impossessatosi delle immagini "peccaminose", ha provveduto a pubblicarle con evidenza. Sono scaturite polemiche di fuoco. Laburisti e conservatori, un po' bigotti, hanno chiesto e ottenuto le dimissioni del focoso uomo di governo. Motivo: questi sarebbe venuto meno alle sue stesse disposizioni in materia di prevenzione sanitaria. Infatti baciando la sua bella avrebbe violato le distanze di sicurezza tra lui e un' altra persona. Il che è vero però sembra pretestuoso. Si dà il caso che costui avesse già contratto il virus e ne sia guarito, pertanto ora è immune, mentre della signora non sappiamo nulla se non che è sposata esattamente come sposato è il suo provvisorio compagno. E allora dove è il problema? Entrambi i protagonisti della piccante vicenda, a parte i vincoli matrimoniali, sono liberi di fare tutte le corna che vogliano ai loro coniugi. Trattasi di affari privati che non incidono negativamente sulla amministrazione di uno Stato. In altri termini, non mi pare che la violazione della fedeltà sia rara tra i comuni mortali e non meriti di suscitare tanto scalpore, al punto da richiedere l' allontanamento del citato capo dal dicastero della sanità. Se tutti coloro che hanno inflitto un tradimento (termine esagerato) alla propria metà dovessero essere presi a calci l' intera cittadinanza avrebbe i glutei lividi e dolenti. Pensavo che solo in Italia le scappatelle fuori dal bosco fossero considerate peccato mortale, e invece scopriamo che pure i sudditi della regina sono bacchettoni. Evidentemente la gelosia è un sentimento universale (di cui non soffrono soltanto gli islamici dediti alla poligamia) difficile da sradicare dai cervelli occidentali che coltivano abitudini tribali. Libere corna in libero Stato: ecco la civiltà. 

Luigi Ippolito per "corriere.it" il 25 giugno 2021. Il ministro della Sanità britannico beccato in flagrante con l’amante: stamattina il Sun pubblica le foto di Matt Hancock, l’uomo che ha gestito la pandemia in Gran Bretagna, mentre agguanta e bacia la sua più stretta consulente, per di più proprio negli uffici del ministero. Il ministro, 42 anni, è sposato, così come la sua consulente, la lobbista milionaria 43enne Gina Coladangelo: è uno scandalo che con ogni probabilità costerà la poltrona a Hancock ma che rischia di destabilizzare tutto il governo di Boris Johnson. Le immagini sono inequivocabili e sono state riprese dalle telecamere a circuito chiuso: si vede il ministro nel suo ufficio che controlla il corridoio fuori prima di chiudere la porta; dopo di che arriva Gina e i due si lanciano in un abbraccio appassionato. Secondo il Sun, la relazione tra i due era nota a tutti nel ministero e veniva pure commentata nelle chat su Whatsapp. Gina Coladangelo è madre di tre figli ed è la direttrice delle comunicazioni di Oliver Bonas, il marchio di moda fondato da suo marito, Oliver Tress, oltre che una direttrice dell’agenzia di lobbying Luther Pendragon: Hancock, che la conosce dai tempi dell’università a Oxford, l’ha nominata di recente consulente del ministero della Sanità. Ma sono tanti gli errori imputati a Hancock per la gestione delle prime fasi della pandemia: dalla decisione di trasferire gli anziani dagli ospedali alle case di riposo al caos del sistema di tracciamento fino agli sprechi nel procurare gli equipaggiamenti protettivi al personale sanitario. Tuttavia Boris Johnson lo ha sempre difeso, anche se l’ex super-consigliere Dominic Cummings ha rivelato che il premier in privato definiva il ministro «fottutamente negato» (e pure la regina ha chiamato Hancock «il pover’uomo»). Resta da vedere di chi sia la «manina» che ha fatto avere le clamorose immagini al Sun: ma sta di fatto che negli ultimi tempi proprio Cummings, l’ex «Rasputin» estromesso da Downing Street e che ha giurato vendetta, ha preso a cannoneggiare in tutti i modi Hancock. E c’è chi ritiene che il fuoco sul ministro della Sanità sia solo una manovra per destabilizzare l’intero governo e mettere nel mirino lo stesso Boris. Quello che a prima vista sembra uno scandalo «rosa» apre in realtà una partita molto delicata a Londra.

Lo scandalo in UK. Matt Hancock si dimette: il bacio con l’amante fatale per l’ex ministro della Salute inglese. Fabio Calcagni su Il Riformista il 26 Giugno 2021. Un bacio e una relazione clandestina costata la poltrona di ministro. Matt Hancock, ministro della Salute del Regno Unito, ha rassegnato le proprie dimissioni dall’incarico, come riferito in serata da Downing Street. Hancock era finito nella bufera dopo la pubblicazione venerdì, da parte del tabloid "The Sun", di baci ed effusioni con l’assistente Gina Coladangelo, in violazione delle norme sul distanziamento sociale. “L’ultima cosa che voglio è che la mia vita privata distragga attenzione dall’unico obiettivo che ci sta portando fuori da questa crisi”, ha affermato nella sua lettera ripresa dai media britannici. “Voglio ribadire le mie scuse per aver infranto le regole e scusarmi con la mia famiglia e i miei cari per averli fatti passare attraverso questo. Ho anche bisogno di stare con i miei figli in questo momento”, ha aggiunto Hancock. Ma il ministro non era nel mirino dell’opposizione per la relazione clandestina, quanto per aver fatto assumere la donna, sposata e con figli come lui, amica dell’ex ministro dai tempi dell’università, come direttrice non esecutiva presso il dipartimento della Sanità l’anno scorso. Il ministro inoltre ha violato le regole Covid che al momento del bacio, ripreso lo scorso 6 maggio, imponevano il distanziamento da persone non conviventi o estranee alla cerchia familiare. Nella lettera di dimissioni Hancock ha aggiunto: “Lo dobbiamo alle persone che hanno sacrificato così tanto in questa pandemia, di essere onesti quando le abbiamo deluse come ho fatto io violando le linee guida”. La posizione di Hancock si era fatta sempre più complicata da difendere per gli stessi Conservatori: oggi il parlamentare Tory Duncan Baker ne aveva apertamente chiesto le dimissioni, così come i parlamentari del Labour e il gruppo "Covid-19 Bereaved Families for Justice". Non sono bastate quindi le scuse di ieri da parte di Hancock: “Riconosco che ho violato le linee guida sul distanziamento sociale. Ho deluso la gente e mi dispiace molto”, aveva detto l’ormai ex responsabile della sanità. Il premier Boris Johnson aveva accettato le scuse, spiegando di “considerare la questione chiusa”, ma la probabile apertura di una inchiesta sulla nomina di Coladangelo all’incarico nel dipartimento della Salute, considerata da molti osservatori “opaca”, alla fine ha spinto Hancock (e Johnson) a fare una marcia indietro totale.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Chi è Matt Hancock, il ministro dimissionario del governo Johnson. News Mondo.it il 26/6/2021. Matt Hancock fa tremare Downing Street. Il ministro inglese è stato sorpreso mentre bacia la sua amante. LONDRA (INGHILTERRA) – Un bacio potrebbe mettere in difficoltà il governo Johnson. Come riferito dal The Sun, il ministro della Salute Matt Hancock è stato sorpreso dalle telecamere di videosorveglianza mentre bacia in modo appassionato la sua amante Gina Coladangelo. Vicenda destinata a far parlare tutta la Gran Bretagna e che, come ipotizzato il Corriere della Sera, ha portato alle dimissioni del ministro della Salute in piena pandemia.

Chi è Matt Hancock, la biografia del politico inglese. Nato a Chester il 2 ottobre 1978, Matt Hancock è uno dei politici inglesi più conosciuti in tutto il mondo. Avvicinatosi al mondo della politica da giovane, l’uomo ha condotto una lunga carriera nel partito Repubblicano tanto da essere voluto da Boris Johnson come ministro della Salute. Un incarico che è stato ricoperto anche durante la pandemia. Una emergenza vissuta in prima linea da Hancock, chiamato nei mesi delle diverse ondate a prendere decisioni importanti per fermare l’andamento dei contagi. Un ruolo che, secondo come anticipato della stampa internazionale, è stato lasciato da Hancock dopo la foto del bacio con l’assistente Gina Coladangelo.

La moglie, i figli e la vita privata di Matt Hancock. Il politico inglese ha sempre cercato di lasciare fuori dalla luce dei riflettori la sua vita privata. Il suo nome, però, è finito sulle pagine di gossip nella giornata di venerdì 25 giugno dopo le foto pubblicate dal The Sun di un suo bacio con la consulente Gina Coladangelo. Come precisato dal Corriere della Sera, la relazione tra i due molto probabilmente va avanti da tempo anche se è stata la foto del tabloid britannico a portare il ministro a fare un passo indietro. Una decisione destinata a mettere in grossa difficoltà Johnson in piena pandemia. .

Alessandra Rizzo per la Stampa il 26 giugno 2021. Il bacio proibito dell'uomo politico colto in flagrante e sbattuto in prima pagina ha distrutto molte carriere. Anche per Matt Hancock, il già traballante ministro britannico della Salute, le foto che lo ritraggono in atteggiamento compromettente con una donna che non è sua moglie rappresentano ben più di mero gossip. È accusato di conflitto di interessi e violazione delle norme sul Covid, lui che da mesi chiede al Paese di rispettare il lockdown: la presunta amante ha un lavoro di consulenza al ministero pagato con i soldi pubblici, e l'abbraccio appassionato non è certo rispettoso del distanziamento sociale. Il Labour ne chiede le dimissioni, tanto più che Hancock è già stato accusato di essere incompetente nella gestione della crisi e poco trasparente nell' assegnazione di contratti del suo dicastero. Le inequivocabili foto pubblicate in esclusiva dal tabloid «Sun» mostrano Hancock, 42 anni, sposato da 15 e padre di tre figli, mentre abbraccia e bacia la sua consulente, Gina Coladangelo. Sono fotogrammi di un filmato delle telecamere di sorveglianza del ministero passati da chissà quale «gola profonda», e risalgono al 6 maggio, quando nel Paese vigeva ancora il divieto di contatti extrafamiliari al chiuso e il governo raccomandava due metri di distanza negli uffici. Coladangelo, sposata con il fondatore di una nota catena di negozi, tre figli, è direttore e azionista di una società di lobbying. Dal settembre scorso è direttore non esecutivo del ministero della Salute, 15.000 sterline l'anno per circa 15 giorni di lavoro in tutto, secondo i media inglesi. Lei e il ministro si conoscono dai tempi dell'università ad Oxford. «Ho deluso le persone e chiedo scusa», ha detto Hancock in una dichiarazione nel primo pomeriggio, quando il Mattgate ormai impazzava. Il ministro ha ammesso di aver violato le linee guida sul distanziamento ma si è detto determinato a continuare a impegnarsi contro la pandemia. Per ora Boris Johnson lo difende. Il primo ministro, che con tre matrimoni e un numero imprecisato di figli a suo carico di scandali extra-coniugali se ne intende, accetta le scuse e «considera chiusa la questione», ha fatto sapere Downing Street. Ma per quanto ancora? Secondo il Labour, la posizione di Hancock è «insostenibile» dato il «palese conflitto di interessi» e «l'abuso di potere». I Liberal Democratici lo accusano di «totale ipocrisia», peccato che da queste parti è più grave di una scappatella sentimentale. «Non si governa il Paese con due pesi e due misure», ha detto il segretario Ed Davey. È questo che impedisce ad Hancock, e al partito, di trattare la vicenda come un semplice fatto privato: l'accusa di ipocrisia, e quella di aver messo l'amante sul libro paga del contribuente. Per un governo tacciato di clientelismo, lo scandalo rinforza l'idea che i Tory gestiscano la cosa pubblica facendo favori ad amici ricchi e potenti conosciuti nelle scuole di élite. E rischia di minare ulteriormente il rispetto delle regole da parte di cittadini stufi delle restrizioni. Nelle settimane scorse Hancock era già stato al centro di polemiche. L'ex braccio destro del premier, Dominic Cummings, aveva pubblicato una serie di messaggi WhatsApp con Johnson in cui il primo ministro definiva il suo ministro «completamente incapace».

Regno Unito, morto l’81enne William Shakespeare: primo uomo inglese a vaccinarsi contro il Covid. Ilaria Minucci il 25/05/2021 su Notizie.it. L’81enne William Shakespeare è morto nel Regno Unito: è stato il primo uomo inglese ad essersi vaccinato contro il Covid a dicembre 2020. Nel Regno Unito, il primo cittadino di sesso maschile ad aver ricevuto il vaccino contro il coronavirus è deceduto a causa di una malattia non correlata al SARS-CoV-2. Nel Regno Unito, l’81enne William Shakespeare, omonimo del drammaturgo e poeta inglese che visse tra il XVI e il XVII secolo, si è spento presso la casa di cura nella quale risiedeva da tempo, situata a Coventry, nel West Midlands. Sulla base delle informazioni rilasciate, l’uomo è morto a causa di una malattia recentemente contratta e non correlata al Covid. La notizia della scomparsa di William Shakespeare, chiamato Bill da parenti e amici, è stata confermata da Jayne Innes, consigliera di Coventry e amica intima dell’81enne. L’omonimo del drammaturgo e poeta inglese è stato il primo cittadino di sesso maschile a vaccinarsi contro il coronavirus nei primi giorni del mese di dicembre 2020. William Shakespeare, pertanto, è stato il secondo paziente a ricevere la prima dose dell’attesissimo prototipo del siero prodotto dalla collaborazione tra Pfizer e BioNTech, inoculata alla University Hospital Coventry. La paziente uno, infatti, è stata Margaret Keenan, una donna di 91 anni, anch’essa vaccinata presso la medesima struttura sanitaria di Coventry nella quale era stato vaccinato anche l’81enne. L’uomo era stato inserito tra gli abitanti da vaccinare in modo prioritario nel Regno Unito dall’NSH ossia dal servizio sanitario nazionale britannico, conferendogli un importante e significativo primato. In occasione della somministrazione del vaccino PfizerBioNTech, Shakespeare si sottopose alla procedura in presenza di fotografi e troupe televisive, ostentando serietà e fierezza. In questa circostanza, inoltre, il paziente ricoverato nella casa di cura britannica commentò l’evento al quale aveva partecipato, asserendo con convinzione: “Questo farmaco cambierà le nostre vite, e soprattutto il nostro modo di vivere”. A proposito della morte di William Shakespeare, si è espressa l’amica e consigliera di Coventry Jayne Innes. La consigliera ha dichiarato che l’81enne è deceduto la settimana scorsa e ha deciso di ricordarlo, sottolineando l’importante ruolo che ha avuto nell’inaugurare la campagna vaccinale nel Regno Unito. Jayne Innes, infatti, ha spiegato che “il miglior tributo a Bill è aver fatto il vaccino”, ribadendo la necessità di vaccinarsi contro il SARS-CoV-2 per sconfiggere il virus e tornare al più presto alla normalità.

Oltre 30 milioni i cittadini vaccinati. Zero morti per covid a Londra, 18 in tutta l’Inghilterra: parte l’happy monday, meno restrizioni. Redazione su Il Riformista il 29 Marzo 2021. Zero morti per covid registrati a Londra nelle ultime 24 ore. E’ la prima volta in sei mesi stando ai dati dell’Istituto per la salute pubblica inglese (Public Health England), riportati dalla “Bbc“. Al culmine della crisi, lo scorso aprile, nella capitale britannica si sono registrati circa 230 decessi al giorno. “Questo è un traguardo fantastico, ma siamo molto lontani dal tornare alla normalità”, ha detto un medico citato dall’emittente britannica. Londra ha registrato il 12% di tutti i decessi per coronavirus nel Regno Unito ed è stata l’epicentro della prima ondata della pandemia nel Paese lo scorso anno. Il Sistema sanitario nazionale (Nhs) ha poi annunciato che nelle ultime 24 ore 18 persone, che avevano contratto il covid-19, sono morte in ospedale nel Regno Unito, precisando sul suo sito che i nuovi dati portano a 86.194 il numero delle persone malate di covid decedute in ospedale dall’inizio della pandemia. Secondo l’Nhs, i pazienti avevano tra i 58 ed i 95 anni e tutti, ad eccezione di un 62enne, avevano patologie preesistenti. Un risultato importante quello raggiunto da Londra dopo oltre tre mesi di lockdown con gli ospedali della capitale, lo scorso gennaio, quasi al collasso con centinaia di ricoverati al giorno. Un traguardo raggiunto sia grazie alle misure restrittive che, soprattutto, alla campagna vaccinale che in Inghilterra è stata spedita e senza particolari polemiche. Sono circa 30milioni infatti i cittadini che hanno ricevuto almeno la prima dose. Vaccini che il governo ha già detto di non voler esportare perché “la nostra prima priorità è proteggere i cittadini britannici. La vaccinazione continua a questo fine. Al momento – ha dichiarato a Sky News un portavoce del premier britannico Boris Johnson –  non abbiamo un surplus di vaccini, ma considereremo il modo migliore per distribuirli non appena saranno disponibili. Vogliamo assicurarci di offrire a tutti gli over 50 la loro prima dose entro il 15 aprile, poi a tutti gli adulti la loro prima dose entro la fine di luglio, mentre continuiamo a lavorare sulla nostra road map”, ha aggiunto.

Allentamento delle restrizioni ma con “prudenza”. In Inghilterra è iniziato l’allentamento delle misure restrittive dell’ultimo blocco dovuto al Covid-19 entrato in vigore all’inizio dell’anno, con famiglie e amici che potranno incontrarsi negli spazi all’aperto e con molti sport che saranno nuovamente consentiti. La giornata è stata ribattezzata ‘happy monday‘. Il primo ministro Boris Johnson ha invitato il pubblico alla cautela. “Tutti devono continuare a rispettare le regole e le misure sanitarie” ha avvertito il premier invitando i cittadini a farsi vaccinare. Johnson ha aggiunto che spera che l’allentamento “dia il via a una grande estate sportiva britannica”.  Con gli allentamenti, gruppi fino a sei persone, o di due famiglie, potranno riunirsi in parchi e giardini, mentre gli impianti sportivi all’aperto potranno riaprire. Anche gli sport di squadra organizzati, come i club di calcio per bambini, potranno ricominciare. Uno dei primi, se non il primo, a riaprire i battenti oggi è stato il Morley Hayes Golf Club, vicino a Derby, nell’Inghilterra centrale, per un torneo di beneficenza. Le altre parti del Regno Unito – Scozia, Galles e Irlanda del Nord – stanno adottando misure sostanzialmente simili. In Galles, sabato, migliaia di persone si sono riversate in spiaggia e in montagna, dopo che le autorità hanno revocato le restrizioni di viaggio in vigore da dicembre. Restano per ora chiusi negozi non essenziali, pub, ristoranti (salvo asporto), cinema, teatri, piscine e luoghi d’intrattenimento. Per negozi e parrucchieri la riapertura, se la tendenza al calo dei contagi da Covid proseguirà, è fissata per il 12 aprile, quando tornerà ad essere consentito anche il servizio solo all’aperto in pub e ristoranti.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. «Abbiamo fatto degli errori»: il governo britannico non ha potuto non ammettere che qualcosa - parecchio - è andato storto. Di fronte a più di 100 mila morti, non è più possibile scaricare le responsabilità. «Errori monumentali», incalza il Partito laburista dall' opposizione: e il suo leader Keir Starmer, in Parlamento, martella Boris Johnson con una sola, ripetuta domanda, «perché?». Il primo ministro resta evasivo, svicola, ma non potrà evitare quella che ormai si profila come l' inaggirabile commissione d' inchiesta. Anche se in realtà le risposte sono sotto gli occhi di tutti: una catena di errori, omissioni e retromarce che hanno scandito l' ultimo anno. Johnson è stato sempre lento a reagire, rimandando le decisioni difficili fino al momento in cui non erano più evitabili ma risultavano ormai tardive. Sempre un passo indietro rispetto agli eventi, con un' unica strategia apparente: chiudere ogni volta la stalla quando i buoi erano ormai scappati. Il premier britannico aveva preso sottogamba l' emergenza fin dall' inizio. Nel febbraio dell' anno scorso, portata a termine la Brexit, si era dileguato chissà dove assieme alla giovane fidanzata: e aveva saltato tutte le riunioni del comitato di emergenza che si occupava di quello strano virus in arrivo dalla Cina. Solo ai primi di marzo Boris si era palesato, quando in Italia erano già scattate le prime zone rosse: ma per dire che non c' era nulla da preoccuparsi e che bastava lavarsi bene le mani. La prima vittima britannica è del 5 marzo scorso, una donna settantenne. Ma il governo non fa nulla: incredibilmente, mentre il resto d' Europa avvia i lockdown, in Inghilterra viene autorizzato il festival di Cheltenham, un evento pubblico dove si ammassano mezzo milione di persone. E lo stesso Boris si vanta di essere andato negli ospedali a stringere le mani a tutti. C' è da dire che pure i consiglieri medico-scientifici del governo lo spingevano su quella strada: la loro opinione, all' inizio, era che bisognava solo abbassare la curva dei contagi, non sopprimerla del tutto. Era la famigerata strategia dell' immunità di gregge, quello che si è rivelato il peccato originale dell' approccio di Londra alla pandemia. È così che, quando alla fine di marzo, messo di fronte a scenari apocalittici, Boris fa marcia indietro e si decide a imporre il primo lockdown, il virus si è già diffuso a macchia d' olio. Ma al peggio non c' è fine: perché gli ospedali, al limite del collasso, dimettono gli anziani e li spediscono nelle case di riposo. È una strage, ma è solo la prima. E per poco il premier stesso non ci lascia le penne, visto che finisce in ospedale e se la cava solo per un soffio. Quella sulle residenze per anziani non è l' unica decisione che appare incomprensibile. La primavera scorsa, al picco della prima ondata, il governo continuava a dire che le mascherine erano inutili: e nessuno le indossava, neppure al chiuso. Ci sono voluti molti mesi perché venissero imposte, ma solo sui mezzi pubblici e nei negozi. Poi è arrivata l'estate, l'epidemia è andata scemando e si è fatto finta che fosse ormai alle spalle. Ed è arrivato un altro errore clamoroso: lo schema per dare a tutti la pizza gratis al ristorante, ad agosto, per incoraggiare la gente a uscire e a spendere. È stata un' iniziativa del Cancelliere dello Scacchiere, ossia il ministro dell' Economia, Rishi Sunak, ansioso di risollevare il Paese dalla recessione: ma si è rivelata fatale. A settembre scorso il virus aveva rialzato la testa e appariva di nuovo fuori controllo. Questa volta dagli scienziati arrivano inviti a imporre un breve lockdown per spezzare la curva dei contagi: ma Boris non ci sente, e ancora a inizio settembre incoraggia tutti a tornare in ufficio. E così si arriva a ottobre, quando i dati cominciano a somigliare di nuovo a quelli di marzo. Dovrebbe essere sufficiente a far scattare l' allarme, ma Boris continua a resistere: finché non resta travolto ed è costretto a imporre un mese di lockdown a novembre. Ma a quel punto è troppo tardi, perché si sta già diffondendo la nuova, subdola «variante inglese» del virus, molto più contagiosa. Dunque quando il secondo lockdown finisce, dopo quattro settimane, i livelli dell' epidemia sono ancora troppo alti. Ma Boris sembra ansioso di garantire un Natale «normale» alla gente e annuncia che ci si potrà riunire come se niente fosse. La situazione a quel punto scappa di mano e Johnson deve all' improvviso schiacciare il freno, sospendendo all' ultimo minuto le deroghe natalizie. Troppo tardi: i contagi dilagano, ma c' è tempo per un ultimo passo falso. Il 4 gennaio il governo fa riaprire le scuole, solo per chiuderle il giorno dopo, quando è costretto a far scattare il terzo lockdown nazionale. Sembra una farsa, se non fosse una tragedia.

·        Succede in Russia.

Mosca cieca. Putin non riesce a convincere i russi a vaccinarsi. Lucio Palmisano su L'Inkiesta il 5 novembre 2021. Nonostante la propaganda di regime, in pochi si fidano dello Sputnik V: solo il 39 per cento della popolazione russa ha ricevuto una dose. Ma i casi crescono, così come i decessi. Il dittatore che un tempo girava per gli ospedali negli ultimi mesi ha ridotto le sue uscite pubbliche in patria e costringe a 40 giorni di quarantena chiunque lo incontri. Oltre 39 mila nuovi casi e 1157 decessi. La Russia è già nella quarta ondata. Secondo il John Hopkins Coronavirus Resource Center la crescita costante dei casi e dei decessi è in atto ormai dai mesi. Nonostante le lodi decantate dai media di regime sulle qualità dello Sputnik V, la campagna di vaccinazione procede a rilento: appena il 39 per cento della popolazione ha ricevuto una dose di vaccino e solo un terzoha completato il ciclo. «La popolazione si comporta come se non ne avesse idea, o non gliene importasse più, mentre la gente ha iniziato a morire come mosche. È una catastrofe», ha raccontato al Financial Times il demografo indipendente Alexey Raksha, ex lavoratore dell’agenzia russa Rosstat. Eppure l’epidemia sembra essere finita nei bar affollati della capitale dove non si vedono più mascherine e distanziamento. Un azzardo, vista la situazione dei contagi, ancora più inspiegabile se si pensa che i russi non mostrano di credere nel vaccino propagandato da Putin, che ancora al G20 si lamentava del suo mancato riconoscimento da parte delle autorità sanitarie europee e statunitensi. «La campagna è stata gestita male fin dall’inizio, perché i vaccini sono entrati nel mercato russo prima della conclusione degli studi clinici su larga scala. Questo ha minato seriamente la fiducia», ha affermato Alexey Erlikh, capo del reparto di cardiologia presso l’ospedale 29 di Mosca, diventato per ben due volte hub per il trattamento dei pazienti. A causa della crescita dei contagi il governo ha disposto la chiusura delle attività non essenziali in tutto il Paese per un totale di 10 giorni fino al prossimo 7 novembre. La decisione ha causato un diffuso malcontento. «Non è giusto che altri non vengano vaccinati mentre noi abbiamo dovuto farlo. Questo blocco è colpa di chi non si è vaccinato», ha dichiarato Nikolai Rish, gestore di alcuni saloni di bellezza di Mosca, al The Moscow Times. Per loro, come per le aziende che hanno fatto vaccinare i loro dipendenti, questa ulteriore chiusura è vista come una sconfitta. «È strano che persone ben istruite, persone con titoli di studio avanzati, non vogliano farsi vaccinare. Abbiamo un vaccino sicuro ed efficace», ha dichiarato il presidente Putin. A nulla finora sembrano essere serviti i premi per chi si vaccina decisi dal governo, come i permessi extra di due giorni dal lavoro, perché la convinzione dei russi pare ancora granitica: un sondaggio dello scorso settembre raccontava infatti come il 52 per cento dei russi non fosse interessato a vaccinarsi, una percentuale molto vicina a quel 55 per cento che sosteneva di non aver paura di ammalarsi di coronavirus. I russi evidentemente non si fidano né del vaccino né dei mirabolanti risultati raccontati dal suo produttore: secondo il Russian Direct Investment Fund (Rdif), coloro che commerciano lo Sputnik all’estero, lo Sputnik light, la versione monodose del vaccino, avrebbe un’efficacia del 70 per cento contro la versione Delta del virus. 

Le fobie di Putin

All’inizio della pandemia Putin era stato uno dei primi capi di Stato a verificare personalmente la situazione negli ospedali, bardato ovviamente con una tuta ignifuga gialla, ma negli ultimi tempi, come rileva l’Economist il “nonno nel bunker” (soprannome affibbiato a Putin da Alexei Navalny) ha da tempo ridotto le interazioni con l’esterno, costringendo alla quarantena di una settimana chiunque entri in contatto con lui (l’ultimo esempio sono gli atleti vittoriosi a Tokyo, che hanno dovuto fare anticamera prima di essere ricevuti).

Non solo: all’ingresso della sua residenza, la dacia fuori Mosca, a Novo-Ogaryevo, ha fatto montare tunnel speciali per inumidire i visitatori di disinfettante. A marzo, la BBC ha raccontato come il Cremlino avesse speso la bellezza di 73,5 milioni di euro in alloggi di quarantena per il personale e i visitatori che entravano in contatto con Putin, al fine di garantire la sua sicurezza. Questa cifra è tanto più sorprendente se si considera che il presidente si sarebbe vaccinato appena due mesi dopo (il condizionale è d’obbligo visto che non sono note le modalità e, soprattutto, il tipo di vaccino utilizzato) e a settembre si è posto due settimane in autoisolamento, dopo la scoperta di alcuni positivi all’interno della sua cerchia ristretta, prima del viaggio di Stato in Turchia dal presidente Erdogan. L’unico che riesce ancora a vederlo, al contrario dei russi. 

La situazione politica

Gli ultimi sondaggi del centro Levada accreditano al presidente russo il favore del 67 per cento degli intervistati, nonostante la situazione sanitaria nel Paese. Una decisa crescita rispetto alle precedenti rilevazioni di settembre e di agosto, in cui aveva ricevuto il benestare rispettivamente del 64 e del 61 per cento degli intervistati, che però risente ancora del crollo legato alle impopolari riforme delle pensioni e al tenore di vita decisamente più modesto rispetto all’Occidente.

La fiducia del presidente si misura perciò molto sui temi interni e poco sull’estero (rimane un’eccezione l’annessione della Crimea, che ha fatto schizzare la fiducia verso Putin al massimo), mentre peso quasi nullo ha la politica sanitaria. Eppure la Russia fino a poco tempo fa era uno dei Paesi a più bassa esitazione vaccinale.

L’alta instabilità politica dopo il 1991, anno in cui crollò ufficialmente il regime comunista sovietico, aveva accresciuto la sfiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni russe, che sfidavano andando anche in controtendenza rispetto alle scelte imposte dal governo. Per alcuni, quindi, divenne quindi naturale esprimere il proprio dissenso anche attraverso la contestazione degli obblighi vaccinali, una diffidenza ancora oggi presente e che spiega perché la ragione di questo alto grado di astensionismo.

Persino dentro il governo la scelta di inasprire le misure ha fatto storcere il naso a più di qualcuno. Uno di questi è il presidente del Parlamento, Pyotr O. Tolstoy, iscritto al movimento putiniano Russia Unita, che ha dichiarato come «sfortunatamente, abbiamo condotto un’intera campagna di informazione sul coronavirus in modo scorretto e l’abbiamo persa. Le persone non hanno fiducia nell’andare a farsi vaccinare, e questo è un fatto». Un vero e proprio attacco in piena regola al leader, come se ne ricordano pochi altri.

Vedremo se adesso sarà sufficiente la nuova stretta a livello nazionale, visto che il governo ha sempre lasciato che le misure sanitarie fossero decise dagli enti locali (sono una prova il tentativo del sindaco di Mosca di arrivare al 60 per cento di vaccinati e quello delle autorità di San Pietroburgo di introdurre un certificato simile al Green Pass) salvo poi sconfessarle a settembre in prossimità delle elezioni, per il timore di vedere scendere il consenso del suo partito, Russia Unita. 

Dagospia il 23 giugno 2021. Lettera di Sergey Razov, ambasciatore della Federazione Russa in Italia, pubblicata da “la Repubblica”. Stimato Direttore, ha richiamato la nostra attenzione l'articolo "Bergamo, virus, spie e vaccini" del 20 giugno, in cui il giornale ripercorre i fatti di marzo-aprile 2020, quando un gruppo di medici virologi e disinfettatori russi ha operato nel Nord Italia. Tre righe e mezzo contengono l'ammissione che "i soldati russi a Bergamo hanno fornito assistenza concreta, curando decine di pazienti, durante le ore più buie della storia recente e disinfettando decine di centri per anziani". Le restanti quasi 500 sono una congerie di invenzioni su quella che sarebbe stata una missione militare dell'intelligence russa nello spirito delle "guerre ibride". Gli scrittori di La Repubblica ci attribuiscono la colpa di aver inviato in Italia i nostri migliori medici virologi ed epidemiologi e di aver utilizzato sul posto un moderno laboratorio mobile che avrebbe analizzato "la struttura genetica del virus e inviato i dati a Mosca con il sistema satellitare di comunicazione criptata". Sì, anche allora abbiamo parlato di questo laboratorio mobile impegnato esclusivamente nel monitoraggio della salute del contingente. (A proposito abbiamo registrato casi di infezione da coronavirus tra i nostri militari che hanno lavorato nelle zone più pericolose d' Italia). Di quali altri compiti di questo laboratorio possono parlare gli autori, se loro stessi ammettono che nessun estraneo ha potuto accedervi? Poi, l'affermazione forse più ridicola: "il vaccino Sputnik V è nato dal virus italiano". (I russi hanno rubato il Covid italiano?!) Gli autori cercano di tracciare un legame causale e temporale tra il lavoro della nostra missione e l'invenzione del vaccino russo. I conti non tornano. Fonti sanitarie e militari in Italia - dice il giornale - confermano che "i russi non erano autorizzati a portare campioni e provette fuori dagli ospedali dove curavano i pazienti". Inoltre, la Russia ha iniziato a testare lo Sputnik V su volontari già a giugno e ad agosto questo vaccino è stato il primo al mondo ad essere certificato. È chiaro che l'invenzione del vaccino non poteva che essere il risultato di anni di ricerca su altre malattie virali. È ovvio che il lavoro eroico dei nostri militari in Italia, durato ben 46 giorni, ha fornito una certa esperienza nella comprensione del pericolo di questa malattia arrivata in Russia tre o quattro settimane dopo. E questa esperienza è stata debitamente utilizzata per sviluppare le nostre misure contro la pandemia. Ma dove sarebbe il crimine?! Si tratta di un percorso di collaborazione naturale e accettato, che peraltro prosegue ancora oggi. L' Istituto Spallanzani di Roma sta conducendo studi clinici su Sputnik V con la partecipazione di specialisti russi. Se Repubblica dedicasse anche solo un centesimo a tale lavoro comune, volto a combattere l'epidemia, a nostro parere offrirebbe un servizio migliore ai lettori. E infine, un'ultima cosa. Gli autori definiscono Bergamo "un campo di prova per nuovi conflitti ibridi". Noi partiamo dall' assunto che questo è il luogo in cui al popolo italiano in difficoltà i vertici e il popolo della Russia hanno disinteressatamente dato una mano. Qui sta la principale divergenza con il giornale.

Risposta di Floriana Bulfon e Gianluca Di Feo. Gli italiani guardano con amicizia al popolo russo e hanno accolto con gratitudine l'invio degli aiuti a Bergamo. Tra quei militari russi c' erano molti virologi, epidemiologi e scienziati di grande livello ma meno di dieci tra medici e infermieri esperti di terapia intensiva. A cosa servivano quindi le loro competenze? Le dichiarazioni rese da questi ufficiali alla stampa governativa russa dimostrano come abbiano subito trasmesso a Mosca informazioni sulla pandemia, mai condivise con le autorità italiane. Tra loro c' erano molti ufficiali del 48° Istituto Centrale di Ricerca, decisivo per lo sviluppo del vaccino Sputnik-V. È infondato parlare di "conflitti ibridi"? La disinformazione sulla pandemia in Italia diffusa da media vicini al governo russo è nota. E proprio in quel periodo personale militare dell'ambasciata russa ha iniziato un'operazione di spionaggio contro il nostro Paese, poi sventata con il fermo in flagranza di un ufficiale russo.

La Guerra Fredda contro la Russia si gioca sul terreno dell’informazione (manipolata). Rec News il  20 Giugno 2021. Meno male che le Fake News le confezionavano gli altri. Dal “furgone inaccessibile” alle Autorità che non si sono accorte di 15 velivoli ad ampia capienza, cosa non torna nella narrazione dei complottisti di sistema. Meno male che le Fake News le confezionava la Russia. La fantasia sembra non mancare nemmeno al mainstream, che da settimane si produce in tripli salti carpiati con avvitamento per tentare di restituire l’immagine di un Putin dalla vita sociale degradata e dal passato pieno di ombre. Che diventa – nella mente dei complottisti di sistema che lo vedono ovunque – il mandante di un’azione di spionaggio in salsa sanitaria che avrebbe toccato Bergamo, i medici russi venuti in soccorso dell’Italia, le basi NATO “da proteggere” e le Autorità militari che non si erano accorte di 15 velivoli ad ampia capienza che atterravano a Pratica di Mare. Sono questi gli ingredienti di un lungo articolo (furbescamente riservato agli abbonati) di un sito-quotidiano che tenta di far passare l’idea che i 106 medici russi atterrati in Italia non fossero qui per aiutare, ma per elaborare in gran segreto lo Sputnik. E i vaccini – affermano i detrattori del personale sanitario altamente specializzato – non sarebbero serviti a salvare vite umane (narrativa che piace a certa parte politica ma che in questo caso non sarebbe tornata utile) ma ad intavolare una guerra commerciale caratterizzata da una corsa a chi arriva prima. Come fa la testata a giungere alla conclusione che ci fosse questo “piano segreto”? A partire da “cinque furgoni inaccessibili agli italiani”, che avrebbero contenuto le strumentazioni per elaborare il vaccino made in Russia a partire dal materiale refertato in Italia. In realtà, tra le unità di supporto giunte in Italia – come scritto dettagliatamente da Rec News – figuravano anche un laboratorio di analisi mobile, tre complessi per la sanificazione di ambienti e mezzi, tre stazioni di sanificazione di ambienti e superfici e due macchine per l’analisi dei tamponi rapidi. Il fatto che alcuni di questi mezzi attrezzati (non “furgoni”, che sa di appostamento) fossero “inaccessibili”, sarebbe inoltre presto spiegato con l’ovvia necessità di proteggere il materiale sanitario da contaminazioni. E a testimonianza del fatto che il contingente russo fosse ben accetto e ben visto ci sono, inoltre, le collaborazioni ripetute con l’Esercito Italiano, con la Regione Lombardia e e con la stessa Asl lombarda, che sono andate avanti serenamente fino ad aprile inoltrato. C’è da dire che il tentativo di sminuire la qualità del supporto offerto dai russi è iniziato lo scorso anno. Ora la questione si ripresenta con urgenza perché un certo universo progressista crede di intravedere in Giuseppi un avversario politico in grado di spostare voti. Ecco allora che Conte diventa quello che “favorì Putin” (mentre prima il filo-russo era Salvini) appunto dando modo ai sovietici di approntare in gran segreto il loro preparato anti-covid e rispondendo favorevolmente alla proposta di aiuto inviata dal presidente della Federazione. In quelle settimane concitate, però, erano stati accolti anche gli albanesi (tale è il marito dell’allora sottosegretario agli Esteri Emanuela Del Re), i cubani (che poi sono stati selezionati per un concorso pubblico ad orologeria) e i cinesi, “gli angeli” delle mascherine ultra-slim che in alcuni casi si sono rivelate contaminate. Questi ultimi si sono trattenuti per settimane su suolo italiano, ma questo non basta a concludere che pensassero al vaccino made in China mentre infilavano le mascherine anche nelle buche delle lettere. Non sono mancate le reazioni all’articolo. Non solo quelle entusiastiche della stampa di matrice berlusconiana ormai perfettamente allineata all’altra parte, ma anche quelle critiche di fonti vicine al Cremlino. “Uno dei giornali più popolari in Italia che promuove l’agenda di sinistra – scrive il Network di Analisi militare AHHA – ha pubblicato un articolo in cui ha cercato di presentare l’assistenza russa fornita all’Italia un anno fa nella lotta al coronavirus come operazione di intelligence russa. Il giornale – ricordano dall’organo di informazione – afferma che l’accordo sull’arrivo dell’esercito russo non è stato concordato né con il ministero degli Esteri né con i generali” e che “gli italiani avrebbero ignorato cosa fosse stato scaricato da 15 aerei militari”. In realtà il 21 marzo era avvenuto un primo contatto telefonico tra il presidente russo e l’allora capo di governo italiano. Qualche giorno dopo la Farnesina, pur senza ringraziare esplicitamente del supporto ricevuto, parlava di “Materiali e capacità giunte dalla Russia” che “sono stati ampiamente descritti e documentati con la consueta trasparenza da parte delle istituzioni”. Ma allora dov’è l’inganno? Dove la spy-story? AHHA un’idea ce l’ha, ed è connessa a quello che definisce il “business high-tech dei vaccini”. Si tratti di preparati sperimentali da piazzare, del Conte riesumato o di qualcosa che non è andato giù dopo l’incontro-scontro con Joe Biden, fa tutto parte del genere letterario anti-Putin sempre e comunque. E tanto basta.

Ecco come la Russia ha fatto tesoro della missione sanitaria in Italia durante la pandemia. Paolo Mauri su Inside Over il 18 giugno 2021. “From Russia with love”. Così si leggeva sulle fiancate dei camion militari russi sbarcati alla base aerea di Pratica di Mare lo scorso marzo carichi di aiuti sanitari, sistemi per la sanificazione e disinfestazione delle strade, ma soprattutto con circa 120 uomini e donne dei reparti militari di quello che in occidente si definisce nucleo Nbcr (Nucleare Batteriologico Chimico Radiologico). Un aiuto importante quello russo, sicuramente scenografico, giunto in un momento drammatico della storia della pandemia in Italia: in quei giorni si contavano 80539 positivi e 8165 decessi. A Bergamo, epicentro del contagio, erano 7458 gli infetti. Un aiuto giunto come un fulmine a ciel sereno per i nostri organismi militari, che non erano a conoscenza della decisione presa dalle massime cariche governative. Un aiuto che non è stato originato da un puro moto di altruismo per un Paese, l’Italia, che pure nella cultura russa ha un posto speciale. Proprio mentre la colonna dei mezzi russi si dirigeva verso la provincia di Bergamo, nelle pagine di InsideOver scrivevamo che quella missione sanitaria aveva una doppia finalità, che non era affatto quella di spiare le basi della Nato in Italia, come qualcuno aveva allarmisticamente e gratuitamente ventilato. La nostra tesi era che la Russia, grazie all’esperienza sul campo fatta dai suoi esperti militari, sarebbe stata in grado di fronteggiare meglio il possibile esplodere del contagio entro i suoi confini, che, come avevamo già avuto modo di dire in precedenza, erano stati blindati, ma questa misura si riteneva non sarebbe comunque stata sufficiente per evitare la diffusione del contagio. Così è stato. Dopo poche settimane la pandemia è esplosa anche in Russia portando il Cremlino ad adottare misure che hanno preso ampiamente spunto da quelle messe in pratica in Occidente. Del resto, a quel tempo, sarebbe bastato leggere la nota ufficiale del Ministero della Difesa russo sull’emergenza pandemica per capire l’intento finale della spedizione in un Paese della Nato di un contingente della sanità militare. In una riunione tenuta tra le massime cariche civili e militari russe, veniva detto che “lo scopo è aumentare il livello di prontezza delle unità per risolvere, se necessario, i compiti per combattere l’infezione da coronavirus”. A quanto pare così è stato. Un recente articolo di Repubblica “scopre” che quella missione non è stata fatta esclusivamente per aiutare un Paese in difficoltà, ma anche per ottenere dei dati preziosi per contrastare il virus e soprattutto per mettere a segno un importante colpo propagandistico. Tutte possibilità che avevamo ampiamente previsto. Avevamo anche detto che il vero problema di quella missione sarebbe stato quello di mostrare la debolezza di un intero sistema sanitario nazionale, che non è solo italiano ma di quasi tutto l’Occidente. Un fattore per nulla insignificante in un contesto militare, perché rappresenta la capacità di resilienza del sistema Difesa. Scrivevamo che l’aver accettato l’aiuto russo, avrebbe potuto palesare, potenzialmente, le nostre carenze dal punto di vista del sistema sanitario a degli osservatori sul campo che, una volta tornati in patria, avrebbero steso dei rapporti dettagliati su come l’Italia stava affrontando l’emergenza epidemica. È proprio quello che è avvenuto. Repubblica, infatti, ci ricorda che due famosi virologi che hanno fatto parte della spedizione, Natalia Yurievna Pshenichnaya e Aleksandr Vladimirovich Semenov, un paio di mesi dopo hanno pubblicato un articolo scientifico sulla situazione italiana, in russo e in inglese, con giudizi spietati sulle iniziative del nostro governo, andando poi più volte sui media russi a rassicurare la popolazione che “siamo in grado di impedire che da noi si sviluppi una situazione all’italiana”. Si tratta di un modus operandi da spie? Al loro posto chiunque avrebbe fatto altrettanto, anche i nostri esperti. Repubblica poi si sofferma su quello che è il vero risultato di quella missione, stante il fatto che nonostante l’esperienza accumulata, la Russia comunque non è riuscita ad arginare la pandemia: aver messo a segno un colpo di propaganda antioccidentale non da poco. Sempre lo scorso marzo vi avevamo anticipato questo meccanismo della Hybrid Warfare, quando avevamo avuto modo di dire che la strategia russa (ma anche quella cinese) è sempre quella di cercare di disgregare l’unità di intenti in Europa e di allontanarla, per quanto possibile, dall’influenza statunitense. Si presagiva, cioè, quella battaglia geopolitica giocata sugli aiuti sanitari – vaccini compresi – che è funzionale non solo al prestigio di una nazione, ma che offre anche una leva strategica importante proprio perché crea una narrazione polarizzante tra il mondo occidentale, capitalista e regolato dai mercati che ha messo a rischio la popolazione, e quello orientale che ha salvaguardato prima la vita rispetto all’economia. Ovviamente tutto questo non è vero. Proprio guardando all’Italia e al disastro in cui versa la nostra economia, è evidente che i nostri governanti abbiano scelto di salvaguardare prima la salute rispetto al resto, ma nel campo della propaganda internazionale funzionale alla guerra ibrida quella missione è bastata a far passare questo messaggio. La campagna vaccinale, con Mosca prima a mettere a punto un vaccino efficace – forse anche grazie ai dati raccolti in Italia – che ha offerto a chiunque lo richiedesse (Paesi europei compresi) ha fatto poi il resto. L’Italia è stata complice o ha subito questa iniziativa? In quel momento storico, con la pandemia che mieteva vittime e coi Paesi europei che egoisticamente ma comprensibilmente si davano “all’autarchia”, non ci sentiamo affatto di giudicare come colposa la decisione di richiedere l’aiuto russo, ma, come abbiamo scritto da subito, è chiaro che non sarebbe stato elargito a titolo gratuito.

Felice Manti per "il Giornale" il 18 giugno 2021. C' è una spy story in salsa russa che rischia di inguaiare l'ex premier Giuseppe Conte. Repubblica ha ricostruito la storia della presenza dei militari russi a Bergamo nella primavera del 2020 - siamo alle prime settimane della pandemia - con un retroscena che riscrive i rapporti tra Conte e il Cremlino, chiamando in causa il Copasir, la commissione di vigilanza sui servizi segreti da qualche giorno presieduta da Adolfo Urso di Fdi. Il primo dubbio riguarda la genesi della missione Dalla Russia con amore, quando domenica 22 marzo 2020 106 russi sbarcarono da 13 aerei Ilyushin a Pratica di Mare per aiutare la Bergamasca a sconfiggere il virus. Una missione decisa in 24 ore, «un'iniziativa concordata» tra Putin e Conte. Chiesta da Roma, come dicono i russi, o suggerita da Mosca, come replica sdegnato Conte? Al Copasir l'ardua sentenza. Secondo le fonti di intelligence citati dal quotidiano romano, il ruolo dei medici russi è stato decisivo nel debellare con fatica l'avanzata del Covid. Ma il sospetto sollevato nell' inchiesta è che la missione sia servita più ai russi che ai medici bergamaschi, perché avrebbe messo le basi per arrivare al vaccino a «vettore virale» Sputnik-V, che secondo l'autorevole rivista medica The Lancet, si sarebbe rivelato efficace al 91,6% contro le forme sintomatiche di Covid-19, quindi tra i vaccini più performanti ma che ancora Ema tiene sotto osservazione. Quindi, con la scusa di aiutare l'Italia, i medici russi che di giorni aiutavano i nostri medici in corsia, di notte lavoravano a un vaccino made in Russia «in cinque furgoni, inaccessibili agli italiani, parcheggiati nell' aeroporto di Orio al Serio». Con l'aggravante che la missione segreta dell'esercito russo nel territorio di un Paese della Nato, organizzata in fretta e furia, scrive ancora Repubblica, «aveva spiazzato sia la Farnesina sia i generali tagliandoli fuori dall' organizzazione». Tanto più che della missione facevano parte anche due civili: Natalia Y. Pshenichnaya e Aleksandr V. Semenov, due epidemiologi russi tra i più influenti, poi diventati referenti del Cremlino nella lotta contro la pandemia. Secondo Repubblica l'ex premier avrebbe offerto a Putin su un piatto d' argento non solo la chance di lavorare a un virus o di proteggere la Russia dal coronavirus, ma soprattutto la possibilità di «lanciare una campagna di propaganda interna ed internazionale», da cui Putin avrebbe tratto enorme vantaggio dal punto di vista elettorale, «in una sorta di competizione ibrida o guerra irregolare» che in quei mesi avrebbe garantito a Mosca «una momentanea supremazia nel settore in cui tutte le potenze si stavano confrontando», perché Mosca vedeva nella pandemia «l' occasione per ribaltare il sistema, incuneandosi nell' emergenza con gli aiuti e con la propaganda». Insomma, Conte avrebbe fatto un super favore a Putin, il quale non avrebbe condiviso con l'Italia né i risultati scientifici a cui i suoi ufficiali e i due scienziati sarebbero arrivati, né i vari dossier sull' epidemia. Anzi, negli studi pubblicati in russo e in inglese sulla situazione italiana i giudizi sulle iniziative del nostro governo sarebbero stati «spietati». E come dar loro torto? Giuseppi non si è reso conto che il Paese andava chiuso subito perché si è fatto influenzare dalla propaganda cinese e dalle direttive (sbagliate) dell'Oms, figurarsi se sgamava il doppio gioco dei russi. Lui pensava solo a Rousseau...

Giovanni Longoni per "Libero quotidiano" il 18 giugno 2021. Il vaccino russo Sputnik V è nato a Bergamo. Lo scrive il sito internet di Repubblica in un servizio di Gianluca di Feo e Floriana Bulfon che vorrebbe essere la denuncia di un sofisticato gioco spionistico sul nostro territorio nazionale portato a termine dagli agenti del Cremlino tramite la missione "Dalla Russia con amore". Sì, quella che nel marzo 2020 Mosca inviò per aiutare la provincia orobica allora alle prese con il momento peggiore della pandemia. Ma, invece di svelare una operazione da 007 contro il nostro Paese, Repubblica finisce per mostrare come sia stata l'Italia a rivelarsi incapace di comprendere il fenomeno Covid-19 mentre proprio la piccola spedizione russa, mentre aiutava i malati bergamaschi, studiava a fondo l'agente virale SARS-CoV-2. E preparava le basi per il vaccino oggi utilizzato in 40 Paesi, dall' Argentina alla Turchia, dall' Ungheria alla Serbia. Un medicinale che ha pressoché debellato il Covid a San Marino. Senza dubbio è singolare che il governo giallorosso - a capo di un Paese della Nato abbia dato l'ok a una missione russa quasi totalmente di natura militare; certo, si dirà, le forze armate sono la cosa più efficiente oggi nella Federazione che obbedisce a Putin. Però resta molto strano e dimostra quanto meno l'impreparazione dell'esecutivo nella gestione dell'emergenza. LA SPEDIZIONE Dei 106 membri della spedizione, solo due non avevano le mostrine: Natalia Y.Pshenichnaya e Aleksandr V.Semenov che, scrivono di Feo e Bulfon, sono i due epidemiologi più influenti al loro Paese. Una volta rientrati a Mosca, «saranno tra i referenti del Cremlino nella lotta contro la pandemia». Mentre i medici militari si dedicavano a soccorrere i bergamaschi, i due virologi raccoglievano informazioni sul morbo, grazie anche al sofisticato laboratorio da campo dell'esercito russo sistemato per qualche mese all'aeroporto di Orio. E inaccessibile agli italiani. Insomma, se i cinesi evitavano di fornire informazioni sul contagio ai loro amici russi realmente offerto un aiuto concreto, curando decine di pazienti nell' ora più buia della storia recente e hanno sanificato dozzine di centri per anziani, spesso dimenticati dalle nostre autorità».

COLPA NOSTRA E tuttavia di Feo e Bulfon sostengono che «"Dalla Russia con amore" è stata soprattutto una grande operazione di spionaggio. Non contro le installazioni militari italiane e neppure contro le basi della Nato. L' obiettivo era un nemico molto più feroce, che in quel momento in tutto il pianeta era considerato la minaccia suprema: il Covid». Forse la vicenda risulterebbe più chiara spiegata così: la Russia è riuscita a ideare un vaccino efficace a partire da informazioni raccolte in poche settimane da due suoi scienziati n Italia. Non avremmo potuto fare altrettanto noi, che siamo una economia avanzata e membro fisso del G7? A quanto pare no.

Lo strano caso delle morti da Covid-19 in Russia. Andrea Walton su Inside Over l'8 marzo 2021. L’agenzia ufficiale di statistica della Federazione russa (Rosstat) ha segnalato che dall’inizio della pandemia alla fine di gennaio del 2021 sono state registrate 394mila morti in eccesso rispetto agli anni precedenti.  Questo dato viene calcolato mettendo a confronto i decessi avvenuti durante la pandemia con i tassi mortalità degli stessi mesi degli anni passati ed è considerato uno dei migliori indicatori dei costi umani provocati dal Covid-19. Le morti in eccesso registrate in Russia sono tra le più alte al mondo ed i ricercatori, come ricordato dal Moscow Times, sostengono che il reale bilancio delle vittime potrebbe essere anche maggiore di quanto mostrato dai dati. Rosstat ha evidenziato come oltre 200mila russi avrebbero perso la vita a causa del Covid-19 ma questo dato è in contraddizione con il bilancio delle vittime ufficiale, fermo a 86.821 decessi.

Problemi e sospetti. Il vice primo ministro Tatiana Golikova era stata costretta ad ammettere alla fine del 2020, come ricordato dal British Medical Journal, che il numero di decessi provocato dalla pandemia fosse superiore ai 180mila e non corrispondesse ai 57mila dichiarati dalle statistiche. Diversi elementi aneddotici, dagli ospedali sovraffollati ai decessi registrati tra gli operatori sanitari, sembrano indicare che il paese sia stato colpito duramente dalla pandemia e le stesse evidenze emergono dai racconti degli osservatori stranieri e di alcuni medici russi. Alcune voci critiche avevano affermato, nel maggio del 2020, che il numero di casi dichiarati fosse molto inferiore a quello delle infezioni reali e come esempio avevano citato la regione del Daghestan, dove molte persone con sintomi da Covid-19 avevano ricevuto una diagnosi di polmonite. Un medico del posto aveva detto che la situazione era legata all’assenza di test diagnostici per il Covid-19 ed il governatore Vladimir Vasiliyev aveva negato che le autorità stessero nascondendo i casi di Covid-19. Secondo altri critici la classificazione metodologica avrebbe dato modo ai funzionari di fare pressione sui patologi per sottostimare il numero di morti o per manipolare le cifre. Queste accuse non hanno però trovato riscontri o conferme ufficiali. La necessità di tenere sotto controllo il nuovo coronavirus è stata uno degli obiettivi primari del presidente Vladimir Putin. Il Capo di Stato ha voluto trasmettere l’immagine di un paese tutto sommato funzionante ed in grado di far fronte alle avversità, anche per evitare che le opposizioni potessero approfittare della situazione e metterlo in cattiva luce. Il voto favorevole ad una serie di emendamenti costituzionali da parte della popolazione, nel luglio del 2020, gli ha garantito la possibilità di ripresentarsi alle elezioni presidenziali che avranno luogo nel 2024.

Il punto della situazione. La pandemia sta attraversando una fase di remissione nella Federazione russa. La curva dei contagi ha toccato il picco alla fine di dicembre, quando sono stati registrati fino a 29.499 nuovi casi nell’arco di ventiquattro ore, per poi iniziare a declinare in maniera sostenuta. La media mobile a sette giorni dei contagi, che nei primi giorni di gennaio sfiorava quota 26mila, è ora attestata intorno agli 11mila e sembra aver raggiunto una sorta di plateau. Il miglioramento della situazione sembra più legato all’immunità naturale sviluppata da una parte consistente della popolazione dopo l’infezione che ai successi della campagna vaccinale, che invece stenta. Il 62 per cento dei russi, secondo quanto emerso da un sondaggio indipendente realizzato nel paese, rifiuta il vaccino Sputnik V e ne teme gli effetti collaterali. La percentuale degli scettici è significativamente più alta tra i giovanissimi e nella fascia di età compresa tra i 18 ed i 24 anni. Il 10 febbraio il ministro della Salute Mikhail Murashko aveva dichiarato che due milioni di russi, su una popolazione di 145 milioni di persone, avevano ricevuto almeno la prima dose dello Sputnik V.  Un numero insufficiente anche tenendo conto del fatto che la campagna di vaccinazione di massa è iniziata a dicembre. Il paradosso è che lo Sputnik V sembra più popolare all’estero che in patria. Il Cremlino lo sta utilizzando come parte della cosiddetta diplomazia dei vaccini e sta inviando un certo quantitativo di dosi alle nazioni amiche o politicamente vicine.

 “Metà popolazione immune”, Mosca riapre bar e discoteche. Merito del vaccino Sputnik V? Le Iene News il 28 gennaio 2021. In Russia i casi di coronavirus sono ancora vicini a quota 20mila, ma nella capitale le autorità sanitarie hanno annunciato che “metà della popolazione è immune” e ha rimosso praticamente tutte le restrizioni. Bar, ristoranti e discoteche tornano ad aprire. Per le autorità è anche grazie al vaccino Sputnik V, anche se ci sono dubbi sui veri numeri della campagna di immunizzazione. Bar, ristoranti e discoteche che riaprono, restrizioni ormai quasi completamente annullate, una vita che tende a tornare alla normalità. E’ questo che sta accadendo a Mosca: nella capitale della Russia le autorità sanitarie hanno annunciato che “metà della popolazione è immune”, e quindi le limitazioni imposte per contenere il coronavirus non sarebbero più necessarie. Negli ultimi 7 giorni a Mosca si sono registrati in media meno di 3mila contagi giornalieri, e i posti negli ospedali dedicati ai pazienti Covid-19 sono occupati per meno del 50%. Come si è arrivati a questo? Grazie anche - almeno secondo le autorità russe - alla corsa alla vaccinazione con lo Sputnik V, iniziata il 5 dicembre nella capitale e il 10 in tutto il paese. Un vaccino che come vi abbiamo raccontato è disponibile anche al supermercato. La situazione della Russia, bisogna dire, non è certo rose e fiori: ieri i casi sono stati 17.464, con una media settimanale di 19.794 nuovi positivi giornalieri. Le vittime ieri sono invece state 580, sopra alla media settimanale di 537 morti quotidiani per il coronavirus. Nella capitale però le cose sembrano andare un pochino meglio: negli ultimi 7 giorni i casi medi sono stati “meno di 3mila”, ha annunciato il sindaco Serghei Sobyanin. Come detto le autorità russe hanno elogiato l’efficacia e la distribuzione del vaccino Sputnik V, anche se i dati sul numero di vaccinati non sono pubblici. Nei giorni scorsi le stime parlavano di circa un milione di persone inoculate, quasi tutte a Mosca: ma considerando che la capitale russa ha circa 12 milioni di abitanti, sarebbe una quota ben lontana dalla metà della popolazione immune. Insomma mentre la Russia elogia il suo vaccino, rimangono dubbi sullo Sputnik V, sono solo sulla sua effettiva distribuzione ma anche sulla reale efficacia: i risultati della fase 3 della sperimentazione del prodotto infatti non sono stati resi pubblici. Ciò non ha fermato però l’Europa, alle prese con le difficoltà con la sua campagna vaccinale e con i nuovi problemi con AstraZeneca a prendere in considerazione la verifica e l’acquisto dello Sputnik V. L’Agenzia europea del farmaco, come abbiamo detto, sta valutando l’approvazione del vaccino russo per permettere eventualmente all’Ue di acquistarlo. Ma c’è già chi si è mosso in questa direzione: l’Ungheria pochi giorni fa ha autonomamente approvato lo Sputnik V, con un duro atto d’accusa all’Unione europea. “Se da Bruxelles le dosi arrivano a questa velocità, siamo costretti a ricorrere a fonti alternative”, ha dichiarato il portavoce del primo ministro Gergely Gulyas. E anche l’ambasciatore italiano a Mosca Pasquale Terracciano ha deciso di farsi inoculare il prodotto russo, ufficialmente per “ragioni famigliari”. La stessa scelta è stata fatta da Melita Vujnovic, la rappresentate di Mosca all’Organizzazione mondiale della sanità. Anche la vicepresidente ed ex presidente dell’Argentina Cristina Kirchner lo ha ricevuto lunedì. Insomma, la discussione sul vaccino russo resta aperta: sarà lo Sputnik V a soccorrere l’Europa in difficoltà con l’immunizzazione contro il coronavirus?

·        Succede in Cina. 

Contagi zero. Report Rai PUNTATA DEL 27/12/2021 di Giuliano Marrucci 

Come girano i contagi in Cina? 

A quasi due anni dallo scoppio della pandemia, la Cina è rimasta sostanzialmente l'unico paese al mondo a perseguire con determinazione la strategia "zero contagi". Al centro, una serie di app per il tracciamento e una macchina logistica e organizzativa poderosa in grado di avviare in poche ore campagne di test di massa coinvolgendo milioni di persone non appena emerge un focolaio. Seguono lockdown mirati e restrizioni severissime sugli spostamenti, a prescindere se si sia effettuato o meno il vaccino.

CONTAGI ZERO di Giuliano Marrucci consulenza Gabriele Battaglia

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Rimaniamo in tema di controlli e andiamo a vedere che cosa sta accadendo nel paese laddove è cominciato tutto.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Shanghai. Primo novembre. Dentro la gigantesca Disneyland locale, 35 mila persone stanno assistendo allegramente alla classica sfilata in maschera. Quando dagli altoparlanti, esce questo annuncio

ANNUNCIO ALTOPARLANTE Gentili visitatori, purtroppo siamo costretti ad annunciarvi che ieri le autorità sanitarie hanno accertato la presenza di un paziente risultato positivo al Covid19. Quindi è vietata al momento la possibilità di uscire dal parco, invitiamo tutti a tenere la mascherina e ad attendere in ordine l’esecuzione dei tamponi

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Nel giro di pochi minuti, il parco divertimenti si trasforma in un gigantesco hub per tamponi. E tra le persone testate c’erano anche Shi Chen e sua figlia SHI CHEN Tramite una app ci hanno assegnato subito i turni per il test, in modo da non creare assembramenti. Le autorità poi hanno contattato immediatamente tutti i comitati di distretto, le unità di lavoro e le scuole dei visitatori per informarle che al rientro avremmo dovuto sottoporci a due giorni di isolamento.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sono riusciti a fare 33 mila tamponi dal nulla in meno di 4 ore. Dopo poche ore, avevano i risultati: erano tutti negativi. Tuttavia, sono dovuti rimanere due giorni in isolamento e prima di uscire sono stati sottoposti a nuovo tampone e dopo una settimana a un terzo SHI CHEN Hanno anche immediatamente sospeso tutti i trasporti pubblici e in poche ore avevano già organizzato tutti i pullman speciali per riportarci a casa in piena sicurezza

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Peng Lei è il chitarrista dei New Pants, una storica band pop punk cinese. A metà ottobre avrebbero dovuto inaugurare il loro tour con un megaconcerto nello stadio di Suzhou, a 100 km da Shanghai. Un investimento gigantesco e 28 mila biglietti venduti in meno di mezz’ora

PENG LEI – MUSICISTA Proprio due giorni prima del concerto, hanno scoperto tre casi di Covid a Changzhou, che è una cittadina a circa 100 km da Suzhou. Le autorità allora hanno deciso immediatamente di cancellare tutti i grandi eventi in tutta la provincia. E’ finita che abbiamo dovuto rimborsare tutti i 28 mila biglietti. Ci abbiamo rimesso una fortuna

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Nonostante gli enormi disagi, che a noi spesso sembrano del tutto sproporzionati, non se la prendono granché: e così improvvisano un concertino da soli sul prato dello stadio.

PENG LEI – MUSICISTA Alla fine, è andata bene così. Perché altrimenti per la libertà di qualcuno si corre il rischio di aggravare di nuovo l’epidemia

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora la Cina ha percorso sin dall’inizio la strategia del contagio zero pur avendo l’84%, 84,5% dei vaccinati doppia dose, ha continuato in maniera massiccia a fare test di massa a fare tracciamento, lockdown mirati, l’ha fatto alla sua maniera, in maniera vigorosa e capillare. Il risultato però è che mentre gli altri paesi sono alle prese con la quarta ondata e con le imprevedibilità delle varianti, in Cina ancora non hanno avuto la seconda ondata. Ecco, come hanno fatto? Si sono blindati innanzitutto con chi veniva dall’esterno perché non si fidavano come negli altri paesi veniva affrontato il virus. Il risultato è che chi vuole ritornare o rientrare in Cina deve passare una vera e propria epopea. Il nostro Giuliano Marrucci.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Gabriele Battaglia vive da oltre 10 anni a Pechino, e da 3 è corrispondente della tv svizzera italiana. Quando è rientrato, a settembre, dopo una pausa di 14 mesi, ha dovuto affrontare una piccola odissea. Il volo, organizzato direttamente dalla Camera di Commercio, è atterrato Tianjin, a 100 km da Pechino. Dove ha dovuto affrontare tre settimane di quarantena in una struttura dedicata.

GABRIELE BATTAGLIA – GIORNALISTA Calcola che per rientrare in Cina uno deve fare entro le 72 ore precedenti il tampone e poi, il giorno precedente, il tampone e il sierologico. Dopodiché inserisci i risultati che ti arrivano in uno specifico sito e a quel punto stai lì a fare refresh continuamente per vedere se ti viene fuori il codice verde. Ci sono tantissimi casi di persone che dopo aver pagato, essersi preparati e così via all’ultimo secondo non hanno potuto salire su quell’aereo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Quando dopo tutta questa trafila finalmente atterri, la scena è questa

GABRIELE BATTAGLIA – GIORNALISTA Quando arrivi in Cina i tuoi unici contatti umani sono persone completamente ricoperte con queste tute bianche, di cui non capisci neanche il sesso fondamentalmente, a meno che non si mettano a parlare. Potresti essere in una stazione orbitante

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Uscito dall’aeroporto vieni caricato su dei pullman ad hoc. Anche qua sono tutti scafandrati, compreso l’autista, che se ne sta dietro una barriera di plexiglas. La destinazione è una delle strutture dedicate alla quarantena dei passeggeri in ingresso, dove vieni accolto così

CONTROLLORE 1 Ecco, questa è la lista dei passeggeri

CONTROLLORE 2 No, non devi scendere ora. Aspettate prima di scendere, vado a controllare

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Una volta terminati i controlli, si entra da un ingresso secondario riservato, e quando finalmente si arriva al piano ci si ritrova in corridoi così, completamente avvolti nel cellophane. Arrivati in stanza, si trova un termometro che verrà usato per comunicare la temperatura circa quattro volte ogni giorno. I pasti vengono lasciati fuori dalla porta tre volte al giorno da personale totalmente imbacuccato, e le bevande ti vengono offerte da un robottino dai modi gentili.

ROBOTTINO Lo sportello è aperto, ricordati di premere il pulsante per chiuderlo. Sei la persona più simpatica che abbia mai visto in tutto l’universo, perché non ci facciamo una foto insieme? Diciamo ‘cheese’! Spero avrai un piacevole ricordo del mio servizio per un secolo. Io faccio sempre del mio meglio!

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Passate 3 settimane di clausura totale, Gabriele era finalmente pronto per festeggiare il tanto atteso ritorno nella sua casa di Pechino

GABRIELE BATTAGLIA – GIORNALISTA Qual è il problema, che c’è da un lato l’amministrazione di quelli che gestivano la quarantena che dovevano dire “ok, hai finito la quarantena. Sei pulito. Puoi uscire”. In mezzo ci sono le ferrovie cinesi che ti devono prendere sul treno e portarti a Pechino, e infine c’è il tuo zhuei hui, cioè il tuo comitato di vicinato del gruppo di case dove vivi, che sono quelli che devono inserire i tuoi dati all’interno di un sistema che ti dà il codice verde

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Sarebbe il green pass in salsa cinese. Un QR code generato da delle app che devi mostrare continuamente. Se è verde, passi. Se è giallo, no. E se è rosso scatta la quarantena. E il vaccino c’entra poco o niente. Il problema è che se non ce l’hai non puoi andare sul treno, ma se non prendi il treno non puoi prendere il codice verde.

GABRIELE BATTAGLIA – GIORNALISTA Non mi davano il codice verde finché io non mi presentavo di persona davanti a loro. Le ferrovie non mi prendevano sul treno finché non avevo il mio codice verde, come facevo da Tianjin ad arrivare a Pechino e presentarmi davanti a loro senza il codice verde?

GIULIANO MARRUCCI E quindi alla fine te come hai fatto?

GABRIELE BATTAGLIA - GIORNALISTA Mentre ero lì desolato davanti alla stazione, s’è avvicinato un tassista e mi ha detto “dove vai, vai a pechino? Sì, ok, vieni, vieni”. E allora ho speso tantissimi soldi e alla fine sono riuscito ad arrivare a Pechino

WANG JIAYIN - EDITORE Ogni città ha la sua app specifica. Io ad esempio ora sul telefono ne ho tre: quella di Pechino, dove siamo adesso. Questa invece è quella di Hangzhou dove sono stato pochi giorni fa, e questa invece è quella della provincia dello Anhui, che è dove vive la mia famiglia. Poi c’è quest’altra app che tiene traccia delle località dove sei stato negli ultimi 14 giorni. Io appunto ho Pechino e Hangzhou. Come vedi qua c’è un asterisco: significa che ad Hangzhou c’è stato un focolaio. Per rientrare a Pechino, ad esempio, per prendere il treno dovevo presentare un tampone negativo fatto nelle ultime 48 ore. Nelle app poi vengono registrati anche tutti I tamponi e tutte le vaccinazioni, ma che tu sia vaccinato o meno, se sei passato da un focolaio, scattano le restrizioni a prescindere.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Tramite il QR code e le app di tracciamento, sostanzialmente registri la tua posizione ovunque tu vada. Lo devi scansionare quando entri in un bar, in un ristorante, in un qualsiasi negozio, ma anche per salire sul treno o sulla metro. E addirittura quando te ne torni a casa, che nei grandi centri urbani è sostanzialmente sempre fatta così, per compound, dove per entrare passi da un cancello sorvegliato da uno come Mister Lin SIGNOR LIN L’altro giorno un rider è entrato a tutta velocità, e non si è fermato. Quando è riuscito, ho chiesto di fare la scansione, ma si è rifiutato. Allora ho chiamato la polizia, e indovina un po’? Hanno fatto la ramanzina a me perché l’avevo fatto entrare senza pass

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Dal punto di vista tecnologico le app di tracciamento cinesi non hanno assolutamente niente di sofisticato, ma anche se dal punto di vista della privacy sono decisamente invasive, sostanzialmente tutti le usano continuamente senza farsi troppi problemi, anche quando non c’è nessuno a sorvegliare. Xiao Pan è un’imprenditrice che fa la spola tra Pechino e Wuhan, laddove tutto è iniziato

XIAO PAN - IMPRENDITRICE È una questione di priorità: libertà o sicurezza. E in nome della sicurezza la popolazione è pronta a collaborare. Le nostre risorse sanitarie sono in gran parte concentrate nelle città principali. Se avessimo permesso alla pandemia di espandersi per noi sarebbe stato un vero disastro.

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Pechino, 22 ottobre. Quartiere di Dongcheng. Il giorno prima nel vicino distretto di Fengtai è stato scoperto un caso positivo e in meno di 12 ore è partita una campagna di test di massa che ha coinvolto oltre 700 mila persone. E per far scattare quarantena e test non c’è nemmeno bisogno di un contatto diretto. Basta anche un contatto di secondo grado. E anche di terzo, come nella scuola di Li Ya LI YA – STUDENTESSA Ci hanno tenuti a casa una settimana e fatto il tampone a tutti, ma non c’era stato nessun caso nella scuola. Semplicemente, un’insegnante era entrata in contatto nemmeno con un positivo, ma con un’altra persona che a sua volta era entrata in contatto con un positivo. E anche se era già risultata negativa ai test, sono comunque scattate le misure restrittive

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Con questi meccanismi di prevenzione muoversi all’interno della Cina è diventata una vera e propria corsa ad ostacoli. Lo sa bene Laura, che da qualche anno segue insieme a un altro collega italiano un progetto per la costruzione di un caseificio sugli altipiani tibetani dello Qinghai. Anche loro dopo quasi due anni di attesa a settembre, finalmente, riescono a tornare in Cina. Anche loro si sono fatti le loro tre settimane di clausura, ma per loro poi l’epopea è continuata

ANDREA DOMINICI – VETERINARIO Prendiamo un volo Pechino-Xining, quando arriviamo tutto è normale. Dovevamo andare su in montagna a visitare il caseificio e cominciare il nostro lavoro in quota, sono emersi tre casi. Una città vitale con bar, caffè, etc… in un attimo tutto si è paralizzato

LAURA TROMBETTA PANIGADI – SINOLOGA Sì, nel giro… nel giro di mezza giornata

ANDREA DOMINICI – VETERINARIO Nel giro di mezza giornata,

LAURA TROMBETTA PANIGADI – SINOLOGA E in mezza giornata hanno chiuso gli accessi

ANDREA DOMINICI – VETERINARIO In due giorni hanno fatto 1 milione e mezzo di test, quindi

LAURA TROMBETTA PANIGADI – SINOLOGA E su un milione e mezzo nessun positivo

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Finalmente Laura e Andrea, possono esplorare gli altipiani sconfinati della provincia. Quattro lunghe ore di auto circondati da una natura ostile e primitiva, dove la vita scorre immutabile tra riti arcani e misteri ancestrali. E poi alla fine, quando la destinazione ormai è a una manciata di chilometri, ecco l’inaspettato ennesimo check point

LAURA TROMBETTA PANIGADI – SINOLOGA E questo veramente era abbastanza impressionante. Diciamo che eravamo, cioè, all’aperto, a 3500 metri di altitudine, con pochissime persone, e loro vestiti cioè come fossero infermieri negli ospedali, con la tuta bianca di protezione. Avevano paura che noi dalla città in cui c’erano tre casi su un milione e mezzo potessimo…

ANDREA DOMINICI – VETERINARIO Essere vettori

LAURA TROMBETTA PANIGADI – SINOLOGA E noi avevamo fatto un tampone

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Impanicati, i funzionari del check point decidono di impedirgli di proseguire. E così, dopo quasi due mesi passati in Cina senza concludere niente, Andrea e Laura si rassegnano e decidono di tornare a Pechino

ANDREA DOMINICI – VETERINARIO Abbiamo chiamato la nostra agenzia per prendere un biglietto per Pechino

, poi siamo andati a fare un po’ di compere di cose tibetane, per avere qualche ora di relax, fin quando riceviamo la telefonata dell’agenzia, ha detto “No, voi a Pechino non potete tornare”, e quindi ho detto “cavoli”. Da una parte non possiamo andare, dall’altra non possiamo andare

GIULIANO MARRUCCI FUORI CAMPO Per tornare a pechino alla fine son dovuti passare prima da Xi’an, poi da Tianjin, e poi di nuovo via terra con un’auto privata. Per chiudere così una vacanza forzata durata due mesi dove non sono riusciti a fare niente di niente, se non qualcosa come 20 tamponi a testa

ANDREA DOMINICI – VETERINARIO Gli amministratori locali immagino avessero paura che saltassero i loro posti, che saltassero le teste, perché lì nel momento in cui c’è un caso chiaramente il responsabile è il leader locale che sarebbe stato fatto fuori

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, se scoppia un focolaio salta la testa di un amministratore locale. Allora, a parte gli amministratori, abbiamo capito che la politica della Cina per contenere il contagio è quella oltre tutto del green code, di una sorta di green pass, soprattutto quella della tracciabilità, tracciabilità del positivo o del contatto diretto, ma anche del contatto indiretto. Conta anche il luogo dove si sviluppa il focolaio. Ovviamente la privacy si va a fare benedire perché loro lo fanno nella loro maniera e sarebbe improponibile esportare quel modello nel nostro paese. Tuttavia, c’è una via di mezzo insomma. Noi avevamo messo in piedi un app per il tracciamento, Immuni, che era anche più sofisticata dal punto di vista informatico, meno invasiva dal punto di vista della privacy e anzi qualcuno, dal punto di vista degli esperti, l’aveva giudicata la migliore app prodotta per la pubblica amministrazione. È stata introdotta nel giugno del 2020, da allora a oggi, pensate un po', ha contato solo poco più di 35mila positivi, cioè meno di quanto oggi contiamo i nostri contagi che sono arrivati ad una media giornaliera di circa 50mila positivi. Insomma, in merito alla tracciabilità c’è chi fa decisamente meglio, a partire anche dalle smart tv.

Da leggo.it il 5 dicembre 2021. Rischia di morire in carcere l'attivista blogger cinese che ha girato un documentario su Wuhan durante la pandemia. Zhang Zhan, in carcere per aver denunciato sui social media la gestione della pandemia di Covid-19, «rischia di morire se non viene rilasciata urgentemente per ricevere cure mediche». L'allarme è lanciato da Amnesty International che, in una nota, afferma che la giornalista cinese ed ex avvocato di 38 anni è in agonia dopo un lunghissimo sciopero della fame. Zhang Zhan si era recata a Wuhan nel febbraio 2020 per raccogliere notizie sul posto e aveva postato messaggi sui social in cui denunciava gli arresti di giornalisti indipendenti e le pressioni esercitate dalle autorità su famiglie di pazienti affetti dal Covid. È stata, dunque, condannata a quattro anni di carcere con l'accusa di avere provocato disordini, spesso inflitta ad attivisti e dissidenti in Cina. La denuncia delle sue condizioni di salute è arrivata dalla famiglia: il fratello ne ha descritto le condizioni fisiche sul suo account Twitter, aggiungendo che «potrebbe non sopravvivere all'inverno, visto che pesa meno di 40 chili». Amnesty International ha chiesto il rilascio immediato di Zhang per potere ricevere il trattamento medico di cui ha bisogno, e senza il quale è a rischio di morire. La famiglia avrebbe chiesto di incontrarla nelle scorse settimane nella prigione dove è detenuta a Shanghai, secondo fonti anonime, ma senza ricevere risposte.

Covid nato in laboratorio a Wuhan, l'attivista che ha denunciato tutto rischia di morire in carcere. Libero Quotidiano il 06 novembre 2021. La Cina non fa sconti a nessuno: un'attivista e blogger cinese, Zhang Zhan, rischia di morire in carcere. La sua colpa? Aver girato un documentario su Wuhan durante la pandemia. La giovane aveva deciso di denunciare sui social media la gestione dell'emergenza Covid-19. Adesso "rischia di morire se non viene rilasciata urgentemente per ricevere cure mediche". L'allarme è stato lanciato da Amnesty International, secondo cui la giornalista 38enne sarebbe in agonia dopo un lunghissimo sciopero della fame. Tutto è iniziato nel febbraio 2020, quando Zhang Zhan si era recata a Wuhan per raccogliere notizie sul posto. Lì aveva fatto sapere a tutti che diversi giornalisti indipendenti erano stati arrestati e che le autorità esercitavano forti pressioni sulle famiglie dei pazienti affetti da Covid. Dopo queste denunce, è stata condannata a quattro anni di carcere con l'accusa di avere provocato disordini. Un'accusa spesso contestata ad attivisti e dissidenti in Cina. A denunciare le sue condizioni precarie in carcere è stata la sua famiglia: il fratello su Twitter ha scritto che "potrebbe non sopravvivere all'inverno, visto che pesa meno di 40 chili". Amnesty International, intanto, ne ha chiesto il rilascio immediato, per permetterle di ricevere il trattamento medico necessario. Stando a fonti anonime, poi, la famiglia avrebbe chiesto di incontrarla nella prigione dove è detenuta a Shanghai, ma senza ricevere nessuna risposta.

La città focolaio in Cina. Wuhan riscopre il covid, 7 contagiati e scattano lockdown e tamponi a 11 milioni di persone. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Agosto 2021. Ritorno a Wuhan, un anno e mezzo dopo l’esplosione della pandemia da coronavirus che ha sconvolto e cambiato la storia di questi anni. La cittadina dell’Hubei, la città-focolaio che il mondo ha imparato a conoscere, dove per la prima volta fu rilevato il nuovo coronavirus a fine 2019, riscopre il contagio e corre subito ai ripari. È lockdown e tamponi a tappeto, altro che Green Pass come si dibatte in Italia. Non badano alle mezze misure in Cina. Era toccato alla capitale Pechino nei giorni scorsi, dove diversi quartieri erano stati chiusi dopo il tracciamento della cosiddetta variante Delta – la stessa diventata dominante in Italia e che ha fatto schizzare le curve dei contagi in tutta Europa e in tutto il mondo. Il primo focolaio cinese di Delta era stato riconosciuto all’aeroporto di Nanchino. Lo scalo è stato chiuso. La preoccupazione a Wuhan è scattata dopo la segnalazione di sette casi nell’ultima settimana, i primi in dodici mesi. I casi riguarderebbero tutti lavoratori immigrati. È stata quindi stretta nel lockdown l’area di Zhunkou Street dov’è stata tracciata Delta. E sono partiti i test a tappeto, a 11 milioni di abitanti. Sono comunque oltre 300 i contagiati registrati in quindici diverse province cinesi, tutti variante Delta, in appena dieci giorni. Il virus è stato tracciato in almeno 27 città. L’ondata – con numeri comunque imparagonabili a quelli con i quali stanno convivendo gli italiani – ha spinto le autorità a rinviare l’apertura delle scuole. L’epicentro del contagio sembra essersi intanto spostato da Nanchino a Zhangjiajie nello Hunan. Le autorità, che stanno provando a prevenire una vera e propria nuova ondata, attribuiscono i casi alla stagione turistica interna, con milioni di persone che si spostano da una parte all’altra del Paese o che semplicemente raggiungono amici e parenti. Sarebbero circa cinquemila i potenziali portatori di virus secondo le autorità. Nonostante i numeri contenuti le misure di Pechino lasciano trasparire apprensione.

Le origini del virus. Non si è mai placato il dibattito sulle origini del virus: l’ultimo capitolo della saga che ha visto protagonisti soprattutto Cina, Stati Uniti e Organizzazione Mondiale della Sanità ha riguardato Pechino che ha accusato l’Oms di mostrare “arroganza verso la scienza”. L’Organizzazione aveva proposto una nuova missione di ricerca sulle origini del covid-19 in Cina. Origini che non escluderebbero una “fuga dal laboratorio”.

Skynews Australia lo scorso giugno ha pubblicato un video nel quale si mostrano pipistrelli vivi in gabbia all’interno dell’Istituto di Virologia della città dello Hubei. L’Oms aveva precedentemente definito l’ipotesi “cospirazionista” nel suo rapporto. Un report dell’intelligence americana diffuso dal Wall Street Journal ha inoltre raccontato il caso di tre ricercatori dell’Istituto di virologia della città cinese, nella Regione dello Hubei, dove l’epidemia è esplosa, contagiati gravemente già a novembre 2019. Dubbi sulle informazioni recuperate dall’Oms e fornite da Pechino sono stati espressi anche dal virologo della Casa Bianca Anthony Fauci e dal Presidente americano Joe Biden.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Gian Micalessin per il Giornale il 30 maggio 2021. Ora è ufficiale: la Cina sul Covid ci ha ingannato due volte. La prima nascondendoci la sua origine e la sua diffusione, la seconda raccontandoci di averlo sconfitto e di aver messo a punto dei vaccini efficaci. Già smentita sulla prima bugia la Cina fa ora i conti con la seconda grande menzogna. Ma questo secondo inciampo, prevedibile alla luce delle stesse ammissioni di Pechino sulla scarsa efficacia dei suoi vaccini, potrebbe rivelarsi ancor più complicato. Non solo in termini di immagine e di credibilità politica, ma anche di danni strutturali ed economici. La pandemia sta, infatti, riesplodendo nel cuore di Guangzhou, la vecchia Canton, capitale della provincia del Guangdong, la più popolosa e a più alto sviluppo industriale del Paese, dove si producono molti dei prodotti destinati ai mercati internazionali. Come sempre le autorità cinesi cercano di ridimensionare e contenere l'allarme. Ma la versione degli eventi, per quanto edulcorata, non basta a celare la gravità della situazione. Stando alle autorità provinciali citate dal Global Times - quotidiano in inglese rigorosamente allineato - il contagio si diffonde in maniera «forte e veloce». E le misure di prevenzione messe in atto per contenerlo sono lì a confermarlo. Il Global Times riferisce di una conferenza stampa in cui Shen Ying, responsabile dei trasporti municipali, ha annunciato la chiusura di sette stazioni della metropolitana, 177 degli autobus e la cancellazione di 83 linee di bus. Il tutto mentre veniva ordinata la chiusura di scuole e ristoranti non all' aperto e gli abitanti di quattro distretti cittadini venivano segregati in casa. E tutto questo per la scoperta di appena cinque casi manifesti e di 15 asintomatici. Il tutto ufficialmente per colpa dei soliti stranieri. All'origine del contagio vi sarebbe infatti una 75enne rientrata dall' estero dopo esser stata a contatto variante indiana. Ma il vizietto di ridimensionare l'entità del contagio e attribuirlo a infezioni sviluppatesi nel resto del mondo fa a pugni con le informazioni riferite a Il Giornale da imprenditori occidentali che operano nella provincia del Guangdong. Il primo segnale di un allarme assai più vasto di quello segnalato dalle fonti governative cinesi è contenuto in un dispaccio della Maersk. Nel dispaccio, indirizzato venerdì a tutti i propri operatori, la compagnia danese leader mondiale nella movimentazione di container spiega che nel porto di Yantian «la situazione continua ad aggravarsi dopo la conferma di nuovi casi di positività da Covid» e «tutte le operazioni nell' area occidentale del Terminal Container Internazionali di Yantian sono state sospese». Non si tratta di una chiusura temporanea. «Ci aspettiamo - sottolinea il dispaccio - una continua congestione del terminal con ritardi superiori ai cinque giorni entro poche settimane». Uno scenario da incubo sia dal punto di vista sanitario che da quello economico. I 155 chilometri di distanza tra il porto di Yantian e Guangzhou bastano a far capire che la diffusione del contagio è assai più vasta ed estesa di quanto non ammettano le autorità. Un elemento da brivido per una provincia dove il progetto di fusione dell'agglomerato di Guangzhou con quello di nove altre città, tra cui Hong Kong e Macao, ha dato vita a una megalopoli di oltre 70 milioni di abitanti che rischia ora di trasformarsi nell' epicentro di un contagio difficilmente contenibile. E le conseguenze economiche rischiano di essere non meno devastanti. Guangdong, punto di partenza delle riforme lanciate da Deng Xiaoping nel 1978, contribuisce oggi per circa il 12 per cento alla produzione economica totale della Cina ed è sede degli impianti di produzione e degli uffici di migliaia di società cinesi e straniere. Bloccarla per contenere il virus equivarrebbe a paralizzare l'economia cinese con conseguenze dal punto di vista finanziario decine di volte peggiori rispetto a quelle subite quando il virus colpì Wuhan e la provincia dell'Hubei.

La Cina accelera sulle vaccinazioni: ecco il piano di Pechino. Federico Giuliani su Inside Over il 22 marzo 2021. Un conto è vaccinare qualche decina di milioni di persone. Un altro è pensare di immunizzarne centinaia di milioni. Un altro ancora, infine, è immaginare di fare la stessa identica cosa, ma con 1.4 miliardi di individui. È esattamente questo l’Everest che deve scalare la Cina prima di somministrare il vaccino anti Covid a tutta la sua popolazione. Senza contare l’iniezione delle seconde dosi, cioè il classico “richiamo”, e l’avvio dei futuri, nuovi giri di vaccinazione, visto che, come ripetono gli esperti, sarà probabilmente necessario rinnovare la vaccinazione almeno una volta all’anno per respingere le varianti del Sars-CoV-2. Per quanto riguarda le vaccinazioni, nelle varie classifiche prese in considerazione dai media internazionali le prime posizioni sono occupate più o meno dai soliti Paesi: Israele, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti, Regno Unito, Bahrain, oltre alle sorprese Cile e Serbia. Non c’è quasi mai traccia della Cina, relegata nella voce “altre nazioni” o neppure presa in esame. Il motivo è semplice. Il grosso delle graduatorie considera il numero di dosi di vaccino somministrate per 100 persone. È ovvio che uno Stato che sfonda il tetto del miliardo di abitanti risulta penalizzato da un conteggio del genere. Eppure, in proporzione agli altri, Pechino non è affatto rimasto indietro. Anzi, la sensazione è che il Dragone possa presto accelerare bruciando la concorrenza.

Il piano vaccinale cinese. Prendiamo la classifica che registra il numero di vaccini somministrati per 100 persone aggiornata con i dati del 20 marzo. Israele guida la graduatoria con 111.91, gli Stati Uniti sono sesto posto con 36.31 mentre la Cina è nella parte bassissima del quadro con appena 4.86 vaccini inoculati ogni 100 persone. A vedere questi numeri, almeno a prima vista, si potrebbe pensare che Pechino sia in affanno. Basta leggere una classifica più dettagliata per scoprire che non è affatto così. Se consideriamo il numero di dosi complessive di vaccino somministrate, sempre prendendo in esame i dati del 20 marzo, notiamo come gli Stati Uniti siano al comando con 124.44 milioni di dosi iniettate, ma la Cina è al secondo posto con 70 milioni di dosi consumate. Dai dati diffusi è possibile fare anche un’altra riflessione. Il governo cinese aveva avviato un timido piano vaccinale già in estate, a livello locale, solo in alcune città, e dedicato ad alcune categorie di persone a rischio, come i lavoratori impegnati all’estero o gli addetti alla dogana. I numeri erano pressoché irrisori ma comunque emblematici della situazione che stava attraversando la Cina. Il Dragone, che da mesi aveva ormai messo una bella museruola al virus, non doveva più pensare a ad abbattere la curva epidemiologica. Senza più contagi, e con la quotidianità ormai quasi tornata alla normalità, per le autorità non aveva senso accelerare sulle vaccinazioni interne. Nel periodo compreso tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, tre-quattro vaccini cinesi erano tuttavia già pronti. Al netto di qualche test ancora da completare, il governo ha pensato bene di dedicarsi all’esportazione dei sieri piuttosto che a un loro massiccio utilizzo interno. Il piano vaccinale cinese, a differenza di quello americano e britannico, è quindi iniziato in anticipo ma in sordina. Una volta pronti i vaccini occidentali, Washington ha però accelerato al massimo, sorpassando Pechino (per dosi somministrate) alla metà di gennaio. Ora, dopo un periodo di sostanziale e lenta crescita, la Cina potrebbe nuovamente accelerare.

Organizzazione ed efficienza. A ben vedere, la Cina può contare su diversi vantaggi rispetto alla concorrenza occidentale: non deve rincorrere il virus, il suo motore economico è ripartito da mesi e non deve fare i conti con pressioni di alcun tipo. A gennaio, i media riportavano che il governo era convinto di vaccinare il 3.5% della popolazione – circa 50 milioni di persone – prima del Capodanno cinese in programma l’11 febbraio. I numeri si sono fermati al 2.8%, circa 40.5 milioni di individui: un numero tutto sommato comunque considerevole. Attenzione però, perché il vero e proprio piano vaccinale della Cina è entrato nel vivo soltanto da poche settimane. Già, perché fino a febbraio, le autorità hanno pensato bene di coprire le categorie a rischio e i gruppi chiave. La vaccinazione di massa per il resto della popolazione inizia sostanzialmente adesso – addirittura prima che in Occidente – e durerà fino a maggio. L’emittente cinese Cgtn ha raccontato che cosa sta succedendo a Pechino in questi giorni. Il vaccino è ora disponibile per tutte le persone sane di età compresa tra i 18 e i 59 anni. La notizia è riportata pressoché ovunque. In una comunità residenziale situata nel distretto di Tongzhou, sempre nella capitale, gli avvisi sono stati affissi persino sulle porte d’ingresso di ogni edificio. Un residente ha raccontato di aver ricevuto sul proprio smartphone un avviso inviato dalla direzione della proprietà del palazzo. Il messaggio era chiaro: è possibile fissare l’appuntamento per il vaccino usando un Qr Code e recandosi nel luogo designato e nel giorno stabilito, per ricevere le due dosi a distanza di qualche settimana l’una dall’altra. Stando a quanto comunicato dalla Tongzhou Healthcare Commission, il distretto ha istituito 17 siti per la vaccinazione. Ogni centro può vaccinare più di 20.000 persone al giorno. Nel distretto Chaoyang, almeno 43 siti per la vaccinazione sono stati allestiti in blocchi residenziali. Sono stati adibiti siti di vaccinazione temporanei anche negli edifici che ospitano gli uffici. Giusto per fare un esempio, lo Yintai Center e il Wanda Plaza, due dei centri commerciali e degli edifici per uffici più importanti della zona, stanno funzionando a pieno regime. All’interno dello Yintai Center, uno spazio un tempo utilizzato per le mostre, ci sono quattro aree distinte: una di attesa, dove il personale medico spiega ai cittadini come si svolgono le operazioni; una di registrazione; una in cui si effettuano le iniezioni e, infine un’ultima area di osservazione. Il nuovo obiettivo della Cina? Vaccinare il 40% della popolazione entro la fine di giugno.

Il mistero dei pensionati di Wuhan “scomparsi”. Federico Giuliani su Inside Over il 19 febbraio 2021. A quanto ammontano i decessi complessivi causati dalla pandemia di Sars-CoV-2? È letteralmente impossibile rispondere a questa domanda. Anche se ogni giorno vengono aggiornati bollettini che registrano il numero di nuove vittime, ci sarà sempre qualcuno che rimarrà fuori dal conteggio finale. A causa degli errori involontari commessi dalle autorità competenti o per via del semplice fatto che non tutti i Paesi hanno la stessa possibilità di aggiornare con precisione l’evolversi dell’emergenza sanitaria, bisogna sempre guardare ai dati con il beneficio di un possibile margine di errore. In alcuni Stati, soprattutto quelli più estesi geograficamente e con una quantità di cittadini piuttosto elevata, è difficile arrivare in ogni meandro e captare qualsiasi movimento avvenuto in ciascun villaggio. Passino le metropoli e le città più importanti, ma che dire delle realtà agrarie sperse in mezzo al nulla? Ecco, più o meno è questo il quadro della situazione ogniqualvolta leggiamo i bollettini dell’epidemia per informarci su contagi e decessi. Ci sono poi casi particolari, come ad esempio la Cina. Questo Paese è invischiato in una vera e propria Guerra Fredda con gli Stati Uniti e, tra diffidenze reciproche e versioni contrapposte su ogni tematica mondiale, le polemiche sono ormai infinite.

I numeri della pandemia. Uno dei tanti terreni di scontro tra Washington e Pechino riguarda il numero di contagi e decessi provocati dalla pandemia di Covid-19. Ai tempi dell’amministrazione guidata da Donald Trump, era impressione diffusa che il governo cinese non solo avesse nascosto informazioni vitali riguardanti l’emergenza sanitaria in atto a Wuhan, ma che avesse perfino celato il reale numero di infezioni e morti correlate al misterioso virus che stava mettendo in ginocchio la provincia dello Hubei. In merito alle origini del Sars-CoV-2, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), appena rientrata alla base in seguito a una missione proprio a Wuhan di quattro settimane, deve ancora risolvere un bel po’ di misteri. L’Oms ha tuttavia escluso una fuga dal laboratorio cittadino e, di fatto, ha decretato la quasi certa origine naturale del virus. Diverse sono le altre due tematiche sollevate. La Cina ha mentito sui numeri? Impossibile rispondere con certezza, anche se la sensazione è che possano essere stati commessi degli errori, soprattutto a livello locale.

A dicembre 2019, a ridosso del Capodanno cinese, una delle festività più importanti del Paese, è probabile che i leader locali dello Hubei – e in particolare di Wuhan – non volessero creare allarmismi né tanto meno generare problemi al governo centrale. Considerando che il Sars-CoV-2 era all’epoca un virus ancora sconosciuto, facilmente scambiabile per una polmonite, è probabile che la vicenda sia stata presa sottogamba. Non solo: pare che il virus circolasse in Cina – e chissà in quanti altri Paesi – già da diversi mesi prima rispetto alla scoperta ufficiale.

I pensionati di Wuhan. In un simile mare magnum, molte informazioni sono andate perdute, anche per quanto riguarda contagi e decessi. Se diamo uno sguardo alle statistiche, notiamo come la Cina conti 89.806 casi totali e 4.636 vittime. Numeri irrisori se paragonati con i dati americani (quasi 29 milioni di casi e più di 500mila morti), con il Regno Unito (oltre 4 milioni di casi e quasi 119mila decessi) e con quasi tutto il resto del mondo. A sollevare ulteriori dubbi non confermati né confermabili sui numeri diffusi dalla Cina c’ha pensato Radio Free Asia, un’emittente radio finanziata dal governo americano. Secondo quanto riferito dalla testata, nel primo trimestre del 2020 i nomi di oltre 150mila anziani residenti nello Hubei, primo epicentro noto di Covid, sarebbero spariti dall’elenco di coloro che avrebbero dovuto ricevere sussidi statali. Stiamo parlando, in altre parole, dell’elenco dei cittadini over 80 ai quali viene garantito un sussidio di vecchiaia a fronte di situazioni disagianti (ad esempio, vivere da soli). Che cosa significa tutto ciò? Potrebbe voler dire che il reale numero di persone decedute a causa del Covid a Wuhan, e quindi nello Hubei, sia molto più elevato rispetto ai dati ufficialmente diffusi, oppure potrebbe esserci stata una semplice revisione dei criteri di assegnazione del sussidio. Al momento non è possibile stabilire con certezza quale sia la versione corretta. Ma il “mistero” sta già facendo discutere.

 (ANSA il 25 gennaio 2021) La pandemia del Covid-19 "è tutt'altro che finita. La recente recrudescenza dei casi ci ricorda che dobbiamo portare avanti la lotta". Intervenendo in video al World Economic Forum di Davos, il presidente cinese Xi Jinping ha detto di rimanere "convinto che l'inverno non possa fermare l'arrivo della primavera e che l'oscurità non potrà mai avvolgere la luce dell'alba", rilanciando il multilateralismo. "Nessun problema globale può essere risolto da alcun Paese da solo, e ci deve essere una azione globale, una risposta globale e una cooperazione globale", ha aggiunto Xi. (ANSA).

(ANSA il 25 gennaio 2021) La pandemia del Covid-19 "non è una scusa per invertire la globalizzazione". Il presidente cinese Xi Jinping, parlando in video al Forum di Davos, ha detto che "la storia e la realtà hanno chiarito che l'approccio fuorviante di antagonismo e di confronto, sia esso sotto forma di guerra fredda, guerra calda, guerra commerciale o guerra tecnologica, alla fine danneggia gli interessi di tutti i Paesi e mina il benessere di tutti". Il 'multilateralismo selettivo' non dovrebbe essere "la nostra opzione": la Cina vuole relazioni che si basino "sul rispetto reciproco" e non sul gioco a somma 'zero', dove "chi vince piglia tutto". (ANSA).

(ANSA-XINHUA il 25 gennaio 2021) Pechino ha visto le sue esportazioni di forniture mediche aumentare drasticamente nel 2020: lo dimostrano i dati doganali diffusi oggi. Le esportazioni tessili e di abbigliamento di Pechino, la maggior parte delle quali erano maschere chirurgiche e tute ignifughe, lo scorso anno sono aumentate del 202,7% dal 2019 a 35,21 miliardi di yuan (circa 5,4 miliardi di dollari). Le esportazioni di strumenti e dispositivi medici hanno totalizzato 11,34 miliardi di yuan nel 2020, in crescita del 138,5% su base annua, e le esportazioni di materiali e farmaci farmaceutici hanno registrato un aumento del 64,3% a 6,77 miliardi di yuan, secondo la dogana di Pechino. Il commercio estero di Pechino è stato duramente colpito dal nuovo coronavirus nella prima metà del 2020, ma gradualmente è tornato alla normalità con il diminuire dell'epidemia e la ripresa della produzione. Nella seconda metà del 2020, il commercio estero di Pechino ha raggiunto 1,19 mila miliardi di yuan, in aumento del 5,7% rispetto ai primi sei mesi. Il commercio estero a Pechino è sceso del 19,1% a 2,32 mila miliardi di yuan per l'intero anno. Oltre alle forniture mediche, Pechino ha esportato telefoni cellulari per un valore di 65,6 miliardi di yuan nel 2020, con un aumento del 50% anno su anno e rappresentando circa il 14,1% delle esportazioni totali della città. Le importazioni di automobili lo scorso anno sono aumentate, crescendo dell'8% rispetto all'anno precedente. Anche le importazioni di ferro minerale e concentrati di ferro minerale sono aumentate, salendo dell'11% dal 2019. (ANSA-XINHUA).

DAGONEWS il 23 gennaio 2021. A un anno dal lockdown, i giovani di Wuhan tornano ad affollare i nightclub della città. I mercati da dove sarebbe esplosa la pandemia hanno riaperto e c'è persino un film in uscita per lodare la risposta della città al coronavirus. Nel frattempo, gran parte del resto del mondo continua la sua battaglia contro il Covid, rilevato per la prima volta nella città cinese, che ha causato la morte di oltre due milioni di persone in tutto il mondo e sta sconvolgendo l’economia mondiale. Le immagini di Wuhan nella provincia dell'Hubei del 21 e 22 gennaio 2021 - prima dell'anniversario del lockdown di Wuhan - mostrano una città vivace con le persone che svolgono la loro normale vita quotidiana. Di notte, i giovani residenti di Wuhan vanno in discoteca. In pochissimi indossano le maschere o rispettano il distanziamento sociale, qualcosa che sembra impossibile immaginare in molti altri paesi. La Cina sta persino lanciando un film sostenuto dallo stato che elogia Wuhan in vista dell'anniversario del lockdown di 76 giorni.

Coronavirus e lockdown, la severità della Cina paga più delle restrizioni europee? Le Iene News il 13 gennaio 2021. Il governo di Pechino ha messo in lockdown oltre 22 milioni di persone nella provincia dell’Hebei, che ieri ha registrato 115 nuovi positivi. Dopo otto mesi senza vittime, è stato registrato un nuovo morto per Covid-19. In Europa invece i paesi stanno imponendo restrizioni più leggere in presenza di molti più casi, anche per via del differente assetto politico delle due realtà: ecco come stanno andando le cose. Uno spettro si aggira per l’Europa, ed è quello della terza ondata. E’ proprio il caso di storpiare il manifesto del partito comunista di Marx ed Engels del 1848, perché mentre i paesi del Vecchio continente faticano a trovare una risposta rapida ed efficace contro il coronavirus, in Cina le cose sembrano andare in maniera molto differente. Parliamo di una più rapida risposta all’insorgenza di nuovi focolai, di misure molto più restrittive, di libertà dei cittadini fortemente compresse dalla dittatura e - forse - di numeri che potrebbero non essere proprio affidabili, come vi avevamo raccontato qui. La Cina, a differenza della stragrande maggioranza dei Paesi europei, impone misure rigidissime anche in presenza di relativamente pochi nuovi positivi: nell’ultima settimana i casi ufficialmente confermati dal governo sono stati oltre 500, di cui 115 solo ieri. Sempre nella giornata di martedì 90 casi sono stati registrati nella provincia dell’Hebei, dove tre città sono state poste sotto un severo lockdown che riguarda circa 22 milioni di persone. Anche nella provincia di Heilongjiang sono state imposte restrizioni a causa di un aumento dei contagi, che ieri sono stati 16. Dopo otto mesi senza vittime, nel Paese c'è stato un nuovo decesso per Covid-19 registrato nella provincia dell'Hebei. Numeri apparentemente molto bassi, che hanno però spinto Pechino ad agire immediatamente per stroncare la nascita di nuovi focolai. E qui si nota una sostanziale differenza con l’azione dei governi occidentali: senza arrivare al caso estremo degli Stati Uniti, dove si viaggia quasi senza restrizioni mentre gli ospedali collassano, in Europa la maggior parte dei Paesi ha imposto misure meno severe e meno tempestive. L’Italia per esempio ha imposto il sistema delle “zone” - comunque meno severe del lockdown generalizzato della scorsa primavera - il 6 novembre, quando i nuovi casi giornalieri erano 37.802. La Francia, che ha imposto restrizioni meno rigide quali il coprifuoco in autunno, ieri ha registrato 19.752 nuovi casi e il governo ha assicurato che non intende al momento imporre un nuovo lockdown. La Germania tra i paesi europei è quello che ha agito in modo più rigido, imponendo il lockdown il 16 dicembre quando il conteggio dei nuovi casi segnava 32.744 positivi. Ieri, con 27.210 nuove infezioni, Angela Merkel ha annunciato che le restrizioni proseguiranno per almeno “altre 8-10 settimane”. Caso a parte è quello del Regno Unito, letteralmente travolto dalla variante inglese del coronavirus che solo nella scorsa settimana ha contagiato oltre 350mila persone: il paese è entrato in un severo lockdown il 5 gennaio, quando i nuovi casi erano 60.916, e durerà fino a fine febbraio. Non è però solo la rapidità delle decisioni di Pechino a essere differente da quella dei Paesi europei, ma anche la rigidità delle restrizioni, ovviamente favorite dal fatto che la Cina è una dittatura mentre nel Vecchio continente i governi hanno molta meno libertà d’azione. Nella città di Langfang, terza città dell’Hebei a entrare in lockdown, è stato imposto agli abitanti (5 milioni di persone) l’isolamento domiciliare per sette giorni mentre si procede a test di massa sulla popolazione. A Shijiazhuang, capoluogo dell’Hebei, le autorità hanno fatto sapere che mezzi e persone non possono lasciare la città e si sta procedendo a test di massa. Per chi lavora in prima linea (dal personale medico agli autisti di autobus) è stata disposta la necessità di effettuare un tampone al giorno, come riporta Al Jazeera. Nella provincia in generale sono state chiuse alcune autostrade e stazioni ferroviarie e sono state reintrodotte le lezioni scolastiche a distanza. Nella provincia settentrionale di Heilongjiang è stato introdotto lo “stato di emergenza”: non si può lasciare i propri territori se non è strettamente necessario e eventi pubblici e raduni sono stati cancellati. Nello specifico, nella contea di Wangkui, tutte le attività non essenziali sono state chiuse e le persone non possono lasciare la città. Ogni famiglia nella contea può avere una sola persona che esce di casa ogni tre giorni per comprare i beni necessari. Come vi abbiamo raccontato nel servizio di Roberta Rei, che potete vedere qui sopra, la strategia cinese contro la pandemia si è basata finora principalmente su tre punti fondamentali: testare, tracciare, trattare. Da un lato un impiego massiccio dei tamponi, dall’altro il tracciamento massiccio della popolazione grazie ai big data, raccolti tramite applicazioni come WeChat e la piattaforma di pagamento Alipay, che insieme hanno più di un miliardo di utenti che condividono in tempo reale la posizione di ognuno. Questi dati vengono poi incrociati con dichiarazioni spontanee dei cittadini e altri dati ottenuti grazie ai sistemi di screening basati sul riconoscimento facciale. In questo modo si riesce a rintracciare tutti i possibili contatti di un positivo. Un sistema molto invasivo della privacy. C’è poi il terzo punto: trattare. In Cina sono tati creati nuovi ospedali in grado di accogliere positivi, eliminando così ogni contatto e senza dover chiudere altri reparti per riconvertirli. Insomma, approcci differenti che portano a numeri molto diversi. Ammesso, come abbiamo anticipato in apertura, che i dati cinesi siano davvero quelli comunicati dal governo.

Guido Santevecchi per il “Corriere della Sera” il 2 gennaio 2021. Migliaia di ragazzi felici a mezzanotte sotto la Torre dell' Orologio, uno dei simboli di Wuhan. Mentre in quasi tutto il mondo il Capodanno è trascorso incerto e ansiogeno, nella città cinese dove esplose l' epidemia l' ultima notte del 2020 chi ha voluto è potuto scendere in strada a festeggiare. E i più giovani si sono aggregati, nonostante la polizia avesse piazzato delle barriere intorno alla torre, per limitare l' afflusso. Però, quando la polizia cinese vuole davvero far rispettare un ordine non esita a intervenire con durezza e se non lo ha fatto è perché questa volta le autorità hanno deciso di dimostrare al mondo che Wuhan è tornata alla normalità. All' ora di cena, il tg ha portato nelle case dei cinesi il volto rassicurante di Xi Jinping, che dalla sua scrivania di Pechino ha pensato di celebrare il 2020 che noi vorremmo dimenticare come «un anno straordinario». Straordinaria, ha detto il presidente, è stata la nazione cinese che «con solidarietà e resistenza ha scritto un' epopea nella battaglia contro la pandemia». La tv di Stato ha montato sul discorso di Xi le immagini del 2020: gli ospedali per i malati di Covid-19 costruiti a tempo di record a Wuhan, i reparti medici dell' esercito che arrivavano in città con le bandiere di guerra per partecipare alla lotta contro l' epidemia, poi i pazienti che venivano dimessi e salutati con mazzi di fiori, infine i vertici politici tenuti in teleconferenza con il leader cinese al centro (ultimo quello per l' accordo commerciale con l' Unione europea). Quello di Xi, che ha esaltato «l' eroismo dei singoli cittadini» è stato un discorso di vittoria sul coronavirus. Ed ecco perché ai ragazzi di Wuhan è stato permesso di festeggiare sotto la Torre dell' Orologio, di abbracciarsi e liberare palloncini in aria, indossando sempre la mascherina, come si fa da molti mesi in tutta la Cina. Sui social network internazionali non sono mancate recriminazioni e accuse per questa esibizione festosa dei giovani cinesi, ma è da maggio che a Wuhan non si registrano casi di contagio e la città ha raggiunto l' obiettivo con grande sacrificio: un lockdown strettissimo durato 76 giorni, dal 23 gennaio all' 8 aprile. Ci sono state reticenze e colpe politiche all' inizio, quando i dignitari comunisti di Wuhan insistevano a parlare di «polmonite sconosciuta» e censuravano i medici che avevano capito la gravità del coronavirus; ma dal 23 gennaio le autorità cinesi si sono mosse con decisione ed efficienza. Dalla primavera, il «modello Wuhan» è stato rimodulato e raffinato. Quando emerge un focolaio anche di poche decine di casi, come è successo a Pechino a giugno e dicembre, si sottopongono a tampone milioni di persone, si mettono in quarantena (obbligatoria, non fiduciaria) coloro che sono entrati in contatto con soggetti positivi; si viaggia e si entra negli spazi pubblici solo mostrando una app di controllo e tracciamento; gli ingressi dall' estero sono contingentati e tenuti sotto osservazione per tre settimane. Restano ancora punti oscuri sul successo cinese. Wuhan, con i suoi 11 milioni di abitanti, ha ufficialmente chiuso la fase critica con 50 mila casi accertati e 4 mila morti. In base a quel dato solo lo 0,4% degli abitanti sarebbe stato contagiato. Però qualche giorno fa è stata pubblicata un' indagine epidemiologica di aprile, alla fine dei 76 giorni di emergenza: allora furono rilevati anticorpi nel 4,4% della popolazione, significa che i casi di cittadini entrati in contatto con il coronavirus sono stati dieci volte di più, almeno 500 mila. Hanno ragione di festeggiare l' uscita dall' incubo i ragazzi di Wuhan, ma ha ragione il resto del mondo a chiedere alla Cina un' indagine indipendente da parte degli esperti dell' Organizzazione mondiale della sanità. Uno studio sul campo per capire che cosa è successo e trarre insegnamenti utili per tutti. Solo allora questa «epopea», come la definisce Xi Jinping, sarà conclusa.

LA RINASCITA DI WUHAN. Carlo Pizzati per “La Stampa” il 2 gennaio 2021. A metà del primo tempo della partita di calcio tra la squadra di Wuhan e quella di Suzhou l' arbitro fischia un rigore. Gli spalti dei tifosi vestiti di nero e di arancione, assembrati qui nella prima trasferta da quando Wuhan si è chiusa nel primo lockdown della pandemia da Covid-19, sono esplosi di gioia. Lo stadio tremava sotto i piedi di centinaia di fan. Striscioni con scritto «Forza (in italiano, ndr.) Wuhan Zall» e grida di pura gioia, come se quell' urlo al limite del truculento liberasse tutte le frustrazioni e le difficoltà che la provincia di Hubei ha dovuto affrontare dal Capodanno del 2019. Un anno terribile (il 31 dicembre di dodici mesi fa Pechino avvisava l' Oms di una «polmonite di origine sconosciuta»), che proprio attraverso lo sport si chiude svelando i primi bagliori di speranza, accompagnati da dati economici eccellenti. Certo, quell' 1 a 0 è importantissimo per lo Wuhan Zall che rischiava la retrocessione e con questa rete può restare invece nella serie A cinese, la Super League, battendo lo Zhejiang Greentown. Ma questo risultato ha un significato ben più ampio che non sfugge a nessuno dei tifosi venuti in trasferta e nemmeno a quelli rimasti in città a guardare la partita sullo schermo. «È stato un momento catartico, questo gol», confessa il tifoso Qin Youxiong a «Time». «C' è una sensazione di vittoria, ma anche l' emozione di aver sconfitto la pandemia. Ciò vuol dire molto per Wuhan». Gli fa eco He Xinping dello Wuhan Zall Supporter club: «Nel 2020 la nostra eroica città è stata traumatizzata. Per noi tifosi la vittoria in questa partita vuol dire finire in bellezza». La redenzione dopo l' angoscia. Il 2020 da incubo è finito davvero con tanta speranza, aprendo le porte a un 2021 che promette bene per Wuhan, per la provincia di Hubei e per tutta la Cina. Come diceva Mandela, lo sport ha il potere di cambiare il mondo. E in questo caso la vittoria di una squadra di calcio serve a ricordare ai cinesi la tipica capacità di recupero e inventiva, caratteristiche per le quali gli abitanti della provincia di Hubei sono famosi nel resto della Cina. Sono, si dice, come l' uccello a 9 teste della mitologia cinese che non si lascia mai uccidere. A Wuhan ci sono stati ufficialmente almeno 50 mila casi di coronavirus e 4 mila morti, l' 80 % del totale in Cina, anche se molti esperti indipendenti dicono che siano cifre sottostimate. Ma dopo 76 giorni di durissima quarantena, in cui nessuno degli 11 milioni di abitanti di Wuhan poteva uscire di casa e il fiume Yangtze lo poteva vedere solo dalla finestra o in tv, sono e riusciti a contenere il mostro. Quindi ora la città che prima del Covid era famosa per le università e i tifosi rumorosi si avvia alla normalità. Certo, molti negozietti e ristorantini restano ancora chiusi e lo Wuhan Zall non può ancora giocare nello stadio cittadino, per ora solo in trasferta, ma i centri commerciali sono di nuovo pieni e le strade intasate dal traffico tipico di queste laboriose città. A novembre del 2020, le esportazioni cinesi erano il 21% in più in confronto al novembre del 2019, l' aumento più marcato dal 2011. Il merito, va detto, è del Covid, perché questo balzo è dovuto alle vendite nel resto del mondo di materiale sanitario, maschere, tute e dispositivi di protezione individuale. La capacità di rialzare la testa viene anche dall' agilità nell' aver saputo trasformare una catastrofe sanitaria globale in fonte di guadagno. Normalità e ripresa. Lo si vede in quei treni stipati di tifosi che sono partiti dalla loro città (moltissimi alla loro prima uscita in quasi un anno), per affollare un treno dove intonare gli inni alla squadra, canti tribali che adottano le stesse ritmiche melodie in ogni parte del mondo, e viaggiare 600 chilometri tra le nebbie e il freddo per arrivare allo Stadio Olimpico di Suzhou a fare il tifo. «Durante la pandemia», racconta il tifoso Zhu Fulei, «dovevamo starcene tutti a casa perché era proibito uscire. Per mesi, anzi per metà anno, non abbiamo potuto vedere nessuna partita di calcio. Ci siamo rimasti malissimo. È stata davvero dura». Eccoli adesso, tutti assieme, finalmente senza mascherina, liberi di sgolarsi con gli occhi lucidi, tra le urla di tripudio e di gioia, liberi anche di abbracciarsi, finalmente, cercando di dimenticare le morti di conoscenti e di amici, quell'asfissiante claustrofobia della vita nei piccoli appartamenti. E poter cominciare a credere che il 2021 riporterà il mondo che c' era prima, o forse addirittura un mondo dove la Cina, come sembrano indicare i dati, sarà ancora più forte. Anche grazie al Covid-19.

Wuhan, migliaia in piazza a Capodanno? "Perché Pechino lo ha permesso". Covid, l'ultimo sospetto sulla Cina. Libero Quotidiano il 02 gennaio 2021. Cosa ci sta nascondendo la Cina? Le immagini di migliaia di persone in piazza a Wuhan a Capodanno, con la mascherina ma incuranti delle distanze di sicurezza, hanno sconvolto il mondo: com'è possibile che la città da cui ufficialmente un anno fa è partita la pandemia di Covid sia riuscita già a cancellare l'emergenza e riprendere la vita normale, mentre il resto del pianeta è ancora in ginocchio per la seconda ondata? Complottisti scatenati, critici dei governi occidentali pure. Ma forse, come spiega il Corriere della Sera, non tutto era come sembrava. Mentre i cittadini di Wuhan erano per strada in favore di telecamere, il presidente Xi Jinping parlava alla Nazione celebrando il 2020 come un "anno straordinario".  All'ora di cena il messaggio da mandare ai cinesi era il seguente: "Il Paese è tornato alla normalità". Ecco perché la polizia cinese è stata insolitamente tenera con chi era in piazza a Wuhan. Non si poteva turbare l'affresco di un Paese in grado di superare per primo il virus che ha contribuito ad esportare in giro per il mondo. Ammesso e non concesso che, effettivamente, la pandemia sia stata definitivamente debellata anche in Cina. Il punto è che come ricorda il Corriere della Sera, restano molti punti da chiarire su quanto accaduto in Cina e a Wuhan, città da 11 milioni di abitanti, che ha ufficialmente chiuso la fase acuta del coronavirus con 50mila contagi e 4mila morti. In base a questi ultimi dati, solo lo 0,4% della popolazione cittadina sarebbe stato contagiato. Eppure solo pochi giorni fa è stata pubblicata un'indagine epidemiologica relativa allo scorso aprile, al termine dei 76 giorni di emergenza, secondo la quale furono rilevati gli anticorpi al Covid-19 nel 4,4% della popolazione: insomma, solo a Wuhan sarebbero stati 500mila i cittadini entrati in contatto col Covid, dieci volte tanti quelli riportati dai dati ufficiali. Una serie di incongruenze che depone a favore di chi, un po' in tutto il mondo, chiede da parte dell'Oms una indagine indipendente circa quanto accaduto. Fosse soltanto per capire come uscire dalla pandemia in tempi rapidi. Come sono stati rapidi i tempi cinesi...

 “A Wuhan almeno 500mila contagi”: la ricerca che potrebbe cambiare tutto. Federico Giuliani il 30 dicembre su Inside Over. Dallo scoppio dell’epidemia di Covid-19 a oggi, a Wuhan, primo epicentro noto dell’emergenza sanitaria, potrebbero aver contratto il Sars-CoV-2 oltre mezzo milione di residenti. Un numero, questo, dieci volte superiore a quello ufficialmente dichiarato. A rilevare la singolare discrepanza, uno studio realizzato dal Chinese Center for Disease Control and Prevention (CDC), basato su un campione di 34mila abitanti del capoluogo della provincia dello Hubei, di Pechino, Shanghai e delle province di Guangdong, Jiangsu, Sichuan e Liaoning. L’obiettivo della ricerca era quello di stimare con estrema precisione i tassi di infezione da Covid-19 in Cina. Il complesso lavoro, condotto prelevando campioni di sangue, ha rilevato la presenza di anticorpi nel 4,43% dei residenti di Wuhan. Ricordiamo che nella megalopoli vivono circa 11 milioni di persone e che, al 29 dicembre, le cifre ufficiali della Wuhan Municipal Health Commission riportavano 50.354 casi confermati di contagio. I numeri della ricerca, al contrario, suggeriscono che i contagiati possano essere stati almeno 500mila. Continuando a leggere il documento, notiamo come la percentuale si abbassi notevolmente fuori da Wuhan. In altre città dell’Hubei, infatti, solo lo 0,44 per cento delle persone che hanno partecipato allo studio ha sviluppato anticorpi al coronavirus. Fuori dalla provincia, gli anticorpi sono stati rilevati in appena due persone su 12 mila.

Quanti contagi? Leggendo lo studio cinese è possibile interrogarsi sul reale numero delle infezioni rilevate a Wuhan. A detta di Yanzhong Huang, esperto di salute pubblica del Council on Foreign Relations, citato dalla Cnn, la ricerca rifletterebbe un problema di sottostima dei contagi durante il picco dell’epidemia. Per quale motivo? Difficile dare una risposta esatta. Altrettanto difficile immaginare che Pechino abbia volutamente nascondere i dati, a pandemia ormai esplosa. Molto più probabile, come d’altronde ha ipotizzato lo stesso Huang, che la sottostima possa esser stata provocata da due fattori. Quali? In parte dal caos creatosi nei primi giorni dell’emergenza sanitaria, e in parte a causa del mancato inserimento delle infezioni asintomatiche nel computo totale dei contagi. È tuttavia importante fare un paio di precisazioni. La prima: lo studio è stato effettuato “un mese dopo che la Cina conteneva la prima ondata del Covid-19”. Dunque, a fine primavera. La seconda: il CDC ha diffuso i risultati del suddetto studio attraverso un post sui social media cinesi. Non sappiamo se la ricerca sia stata pubblicata anche su qualche rivista accademica. In Cina, dall’inizio della pandemia a oggi, si contano complessivamente 87mila casi e 4634 decessi. Un numero probabilmente sottostimato per i motivi sopra menzionati.

Un problema comune. Al netto di tutte le speculazioni, nessun Paese sarà mai in grado di stabilire con matematica certezza quanti suoi cittadini sono stati contagiati dal coronavirus. Tra gennaio e febbraio, quando si scatenò l’inferno, gli ospedali di Wuhan furono invasi da pazienti febbricitanti. In città mancavano le risorse mediche necessarie per affrontare un simile evento. Quindi fu suggerito a molti cittadini di tornare a casa e isolarsi dal resto del mondo. Alcuni finirono per infettare altri membri della famiglia, altri morirono senza essere registrati nel bilancio delle vittime del Covid-10. Fu una vera e propria tragedia. Archiviato un primo periodo infernale – contrassegnato da errori e ritardi, soprattutto delle autorità locali di Wuhan e dello Hubei – la Cina è tuttavia riuscita a bloccare la corsa del virus. Lo studio, da molti letto come un j’accuse all’indirizzo del governo cinese, contiene in verità altre informazioni interessanti. Ad esempio, i tassi di contagio nettamente più bassi in altre città rispetto a Wuhan, evidenziano come gli sforzi di contenimento messi in atto da Pechino siano stati davvero rapidi ed efficaci, a maggior ragione se confrontati con le misure varate nel resto del mondo. La sottostima resta in ogni caso un problema rilevante. Un problema che, come detto, soprattutto nelle prime fasi emergenziali, è stato spesso causato dalla mancanza di capacità e risorse. Certo, l’amministrazione di Wuhan non sembrerebbe essere stata trasparente fin da subito, visto che i funzionari locali hanno fornito al pubblico dati più ottimistici di quelli a cui avevano accesso da dietro le quinte. In ogni caso, studi sugli anticorpi condotti da ricercatori in altri Paesi hanno evidenziato come il coronavirus fosse molto più diffuso di quanto non suggerissero le statistiche ufficiali praticamente in ogni angolo del pianeta. Giusto per fare un esempio, una ricerca sponsorizzata dal Dipartimento della Salute dello Stato di New York ha mostrato che, alla fine di marzo, un adulto di New York su sette aveva il Covid-19. Un rapporto, questo, superiore di dieci volte rispetto ai dati ufficiali.

Condannata a 4 anni la giornalista che denunciò la pandemia a Wuhana Pechino. Guido Santevecchi il 28/12/2020 su Il Corriere della Sera. Il processo è durato meno di tre ore: Zhang Zhan, 37 anni, cittadina giornalista arrestata a maggio dopo che sul suo blog aveva documentato la tragedia di Wuhan, è stata condannata a 4 anni di carcere. A febbraio aveva filmato i malati ammassati nelle corsie degli ospedali, aveva denunciato i ritardi della risposta politica, aveva intervistato commercianti disperati nella città paralizzata dalla quarantena. Scene simili scorrono da mesi sui tg dall’Europa agli Stati Uniti. Ma in Cina non si possono muovere critiche pubbliche al Partito-Stato che si vanta di aver sconfitto il Covid-19 e vuole riscrivere la narrazione cancellando le prove del disastro iniziale. Ieri mattina il giudice ha detto che le notizie diffuse dalla blogger «hanno provocato disordine sociale». A Zhang Zhan non è stato contestato di aver distorto i fatti, ma di averli mostrati senza filtro ai cinesi sui loro social network e anche (forse soprattutto) al resto del mondo su YouTube e Twitter. L’ultimo post pubblicato a inizio maggio diceva: «Il governo amministra le città della Cina con intimidazioni e minacce, è questa la vera tragedia del nostro Paese». La blogger si riferiva alla vicenda che aveva scosso l’opinione pubblica a gennaio: la censura ricevuta dal dottor Li Wenliang, medico ospedaliero di Wuhan, per aver dato l’allarme sull’epidemia che si stava diffondendo in città mentre ancora le autorità parlavano solo di «polmonite misteriosa» e negavano che la malattia si trasmettesse tra persone. Il dottor Li fu convocato dalla polizia e ammonito a non «diffondere voci», ma quando qualche giorno dopo si ammalò e morì per il coronavirus diventò un eroe popolare e le autorità dovettero ammettere che si era sacrificato invano per la comunità. Qualcuno si era illuso che la fine di Li potesse servire da insegnamento e cambiare le cose. Tra questi Zhang Zhan, che aveva lasciato il suo lavoro di avvocato a Shanghai per trasformarsi in cittadina giornalista ed era andata a Wuhan. Ora la sua condanna dimostra che se il medico non fosse morto e se avesse continuato a parlare, sarebbe finito anche lui sotto processo. L’accesso al tribunale di Shanghai dove ieri si è tenuta la brevissima udienza è stato negato alla stampa «per evitare assembramenti pericolosi in tempi di epidemia»; l’imputata è stata portata in aula su una sedia a rotelle, indebolita dallo sciopero della fame attutato come unica forma di protesta possibile contro l’ingiustizia. Il suo avvocato ha informato la corte che da giugno Zhang è stata alimentata a forza con un tubo e che per evitare che se lo strappasse la polizia carceraria le ha legato le mani; che da settimane la donna soffre di dolori addominali, senso di vertigine, infezione alla gola e bassa pressione; la blogger è determinata a proseguire il rifiuto del cibo fino alle estreme conseguenze, ha concluso la difesa. Ma di queste circostanze il magistrato non si è occupato, doveva solo leggere la sentenza di colpevolezza per «turbativa della stabilità sociale». Altri tre blogger di Wuhan sono in cella, in Cina nel 2020 sono stati messi in carcere 47 giornalisti e le «preoccupazioni» espresse dall’Alto Commissariato Onu per i diritti umani non ricevono risposte. La tragedia del Covid in Cina non ha fatto compiere alcun progresso al sistema di censura sull’informazione, al contrario, ha accresciuto la durezza della reazione da parte delle autorità. Inutile sperare che proteste ufficiali dall’estero possano far cambiare linea al Partito-Stato: o vengono ignorate o sono respinte per «ingerenza in affari interni», come quella sollevata ieri da Washington a favore dei 12 ragazzi di Hong Kong catturati mentre cercavano di andare in esilio. Sono stati bloccati in agosto su un motoscafo diretto verso Taiwan e ieri sono comparsi in tribunale in Cina. Rischiano una dura condanna per attentato alla legge sulla sicurezza nazionale cinese.

Antonio Fatiguso per l'ANSA il 29 dicembre 2020. A quasi un anno dallo scoppio della crisi del Covid-19, Zhang Zhan, ex avvocato diventata giornalista-cittadina, è stata condannata a 4 anni di carcere per la copertura in diretta fatta da Wuhan, l'epicentro dell'epidemia in Cina trasformatasi in pochi mesi in pandemia. La sentenza del tribunale di Shanghai, maturata dopo una breve udienza, ha motivato la colpevolezza per aver "raccolto litigi e provocato problemi" in scia alla segnalazione dei fatti iniziali dell'emergenza quando, nella città dove il letale coronavirus è stato individuato per la prima volta, si parlava di "polmonite misteriosa". I resoconti di Zhang, 37 anni, furono a febbraio seguitissimi e diventarono virali sui social media, attirando inevitabilmente l'attenzione delle autorità. Il controllo del flusso di informazioni durante la crisi sanitaria è stato fondamentale per consentire alle autorità cinesi di definire la narrativa degli eventi a proprio favore, malgrado le incertezze iniziali la cui denuncia ha provocato conseguenze per i loro autori. Su tutti, la sorte di Li Wenliang, il giovane medico che per primo lanciò inascoltato l'allarme sul virus che gli ricordava la Sars: fu fermato dalla polizia, minacciato, screditato prima di essere riabilitato e fatto tornare al lavoro, morendo poi a soli 34 anni per il contagio del virus. "Zhang Zhan sembrava devastata alla lettura della sentenza", ha riferito Ren Quanniu, uno dei legali della difesa della gionalista-cittadina, secondo i media locali, confermando la pena detentiva di quattro anni fuori dal Tribunale popolare di Shanghai Pudong. La donna, in arresto da maggio, è in condizioni di salute preoccupanti a causa dello sciopero della fame iniziato a giugno e che ha portato all'alimentazione forzata tramite un sondino nasale. "Quando sono andata a trovarla la scorsa settimana ha detto: 'Se mi danno una condanna pesante, rifiuterò il cibo fino alla fine'... Pensa che morirà in prigione", ha aggiunto Ren. "È un metodo estremo per protestare contro questa società e questo ambiente". La condanna è maturata a poche settimane dall'arrivo in Cina del team internazionale di esperti dell'Oms per indagare sulle origini del Covid-19. Zhang è stata critica nei confronti della risposta messa in campo a Wuhan dal governo centrale, scrivendo a febbraio che il governo "non ha fornito alla gente tutte le informazioni sufficienti, quindi ha semplicemente bloccato la città (il lockdown di fine gennaio, ndr). Questa è una grande violazione dei diritti umani". Zhang è stata la prima ad avere avuto un processo nel gruppo dei 4 giornalisti cittadini - Chen Qiushi, Fang Bin e Li Zehua -, detenuti dalle autorità all'inizio dell'anno per aver scritto degli eventi di Wuhan. Anche i gruppi per i diritti umani hanno richiamato l'attenzione sul caso di Zhang. Le autorità "vogliono usare il suo caso come esempio per spaventare altri dissidenti dal sollevare domande sulla situazione pandemica a Wuhan all'inizio di quest'anno", ha commentato Leo Lan, consulente di ricerca e difesa della Ong cinese per i difensori dei diritti umani, denunciando un gioco altamente rischioso.

·        Succede in India.

Dagotraduzione dalla Reuters il 12 maggio 2021. I medici indiani hanno messo in guardia i loro connazionali, in particolare gli abitanti dello stato del Gujarat, nell'India occidentale: devono smettere di usare lo sterco di vacca per curare il Covid. Qui i credenti visitano una volta alla settimana i rifugi delle mucche e si ricoprono con sterco di vacca e urina nella speranza che aumenti la loro immunità al coronavirus o che li aiuti a riprendersi. Nell'induismo, la mucca è un simbolo sacro della vita e della terra, e per secoli gli indù hanno utilizzato i suoi escrementi per pulire le case o per rituali di preghiera convinti che abbia proprietà terapeutiche e antisettiche. «Vediamo ... anche i medici vengono qui. La loro convinzione è che questa terapia migliori la loro immunità e gli permetta di curare i pazienti senza paura», ha detto Gautam Manilal Borisa, manager associato di un'azienda farmaceutica, convinto che la pratica lo abbia aiutato a riprendersi dal Covid l'anno scorso. Da allora il manager è stato un assiduo frequentatore della Shree Swaminarayan Gurukul Vishwavidya Pratishthanam, una scuola gestita da monaci indù che si trova proprio di fronte al quartier generale indiano di Zydus Cadila, che sta sviluppando il proprio vaccino Covid. Mentre i partecipanti aspettano che la miscela di letame e urina si asciughi sul loro corpo, abbracciano o onorano le mucche al rifugio e praticano lo yoga per aumentare i livelli di energia. Il rituale si chiude con un lavaggio a base di latte vaccino. Medici e scienziati in India e in tutto il mondo hanno ripetutamente messo in guardia contro i trattamenti alternativi al Covid, perché possono portare a un falso senso di sicurezza e complicare i problemi di salute. «Non ci sono prove scientifiche concrete che lo sterco di vacca o l'urina funzionino per aumentare l'immunità contro COVID-19, è una pratiche che si basa interamente sulla fede», ha detto il dottor JA Jayalal, presidente nazionale della Indian Medical Association. «Spalmare o consumare questi prodotti può portare anche a rischi per la salute - altre malattie possono diffondersi dall'animale all'uomo». A preoccupare i medici è anche la possibilità di assembramenti presso queste strutture. Per questo motivo alcuni rifugi per mucche stanno limitando il numero di partecipanti. La pandemia di coronavirus ha devastato l'India, che conta 22,66 milioni di casi e 246.116 morti segnalati finora. Gli esperti dicono che i numeri effettivi potrebbero essere da cinque a 10 volte più alti e i cittadini di tutto il paese stanno lottando per trovare letti ospedalieri, ossigeno o medicinali, mentre tantissimi sono quelli lasciati a morire per mancanza di cure.

Mauro Evangelisti per "il Messaggero" il 3 magio 2021. C'è anche un caso di variante indiana tra i positivi trovati sul volo atterrato a Fiumicino mercoledì scorso proveniente da New Delhi. In queste ore si stanno completando i sequenziamenti (una tecnica di ricerca complicata che richiede comunque diversi giorni) eseguiti allo Spallanzani di Roma e che riguardano la maggioranza dei contagiati (23 compreso il comandante) del volo di Air India. L'esito sarà noto solo oggi, anche se gli esperti ritengono altamente probabile la presenza della variante indiana. Ma per una piccola parte, almeno cinque, l'approfondimento è avvenuto nel laboratorio all'avanguardia dell'ospedale militare Celio. Dai primi riscontri trasmessi al Ministero della Salute emerge che almeno un caso corrisponde con la variante indiana, un secondo con la variante inglese.

SCENARIO. Nulla di sorprendente visto che l'aereo era partito da New Delhi, capitale di un Paese falcidiato dal coronavirus, con 400mila contagi al giorno, in cui variante inglese e variante indiana sono rappresentate entrambe in modo molto consistente. Ciò che ha fatto scattare il campanello d'allarme nella storia dell'aereo giunto mercoledì non è solo la percentuale molto alta di positivi, il 9 per cento dei passeggeri. C'è da capire come sia possibile che, nonostante fosse obbligatorio presentare un certificato di negatività prima dell'imbarco, in tanti a Fiumicino siano risultati infetti. Alcuni dei passeggeri hanno raccontato di avere acquistato quei certificati falsi al mercato nero. E i media indiani parlano di inchieste giudiziarie sul commercio di esiti di tamponi mai eseguiti. Ad oggi non ci sono studi che confermino una maggiore pericolosità della variante indiana; la peculiarità di quanto sta avvenendo in India, con un contagio esploso a causa di enormi raduni religiosi ma anche per la campagna elettorale, rende difficile avere un quadro preciso. Ieri in un giorno sono stati registrati 3.689 morti, un dato altissimo anche per un Paese con quasi 1,4 miliardi di abitanti, visto che secondo molti osservatori i decessi ufficiali per Covid rappresentano solo una parte del numero reale. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, la settimana scorsa ha firmato due ordinanze per fermare gli arrivi dall'India in Italia. La prima (quella in vigore quando è atterrato il volo di mercoledì scorso) consentiva il rientro a chi ha qui la residenza, la seconda invece limita la possibilità di tornare solo a chi ha la cittadinanza italiana. Per mercoledì a Fiumicino è atteso un nuovo volo di Air India, altri sono probabili nei giorni successivi. A Orio al Serio (Bergamo) oggi atterrerà un Airbus 330 della compagnia charter HiFly, che vola per conto dell'indiana SpiceJet, proveniente da Amistar (Punjab). Sono attesi 150 passeggeri residenti in Italia che dovranno mostrare l'esito del tampone. Saranno a loro volta sottoposti a un nuovo test e comunque dovranno restare altri 14 giorni nei Covid hotel. Ci sono però due problemi: prima delle ordinanze in Italia sono rientrate centinaia di persone dall'India, in teoria devono mettersi in isolamento domiciliare, ma nessuno ha gli elenchi e quindi tutto dipende dal senso di responsabilità del singolo. Inoltre, anche oggi il rischio che con una triangolazione qualcuno riesca a raggiungere il nostro Paese dopo essere partito dall'India è solido. Intanto, è ancora bloccata in India Simonetta Filippini, la donna della provincia di Firenze, che si trova a New Delhi insieme al marito. La coppia ha adottato una bimba, ma al momento di salire in aereo per tornare in Italia il tampone della donna è risultato positivo. Simonetta Filippini è ancora in ospedale, la febbre è passata ma non sta bene. «Ho svenimenti e mal di testa» racconta. Non può tornare su un aereo di linea, perché ancora positiva, e chiede allo Stato italiano di organizzare un volo sanitario: «Qui è una ecatombe».

Jacopo Storni per "corrierefiorentino.corriere.it" il 30 aprile 2021. Sono partiti per l’India quindici giorni fa. La missione di Simonetta Filippini e suo marito Enzo Galli, era una missione d’amore: prendere la loro bambina di due anni, appena adottata e, dopo aver sbrigato le pratiche per l’adozione, tornare in Italia. Quella missione d’amore si è trasformata in un incubo per la coppia fiorentina. Partita per l’India 15 giorni fa con l’associazione International Adoption di Firenze per una adozione internazionale insieme ad altri 70 italiani, la coppia che vive in provincia di Firenze, a Campi Bisenzio, chiede aiuto per poter rientrare da New Delhi. La donna è risultata positiva al Covid, motivo per cui è stata portata prima in ospedale e ora si trova in un albergo sanitario mentre il marito è in albergo con la bimba, 2 anni, avuta in adozione. La storia è raccontata da La Nazione a cui moglie e marito, Simonetta Filippini e il marito Enzo Galli, hanno spiegato cosa sta accadendo. L’iter di adozione si è svolto in tempi tutto sommato celeri. Niente imbarco però poi sull’aereo che li avrebbe dovuti riportare a casa: «Mercoledì mattina - racconta Enzo - Simonetta è risultata positiva al Covid mentre io» e la bambina «eravamo negativi. A quel punto la situazione è precipitata». Simonetta è stata portata in ospedale e poi trasferita in un hotel Covid, tornando raggiungibile al telefono. «Ero in una stanza di due metri per due metri con sette persone - le sue parole riportate dal quotidiano - e alcune sono morte davanti ai miei occhi. La nostra polizza prevede la possibilità del volo contingentato e l’ambasciata e il Governo devono aiutarci». Poi, raggiunta al telefono dal Corriere Fiorentino, la signora Simonetta ha aggiunto: «Ho visto morti sdraiati per terra nei corridoi dell’ospedale, ho visto corpi ansimanti su barelle di fortuna, ho visto cadaveri bruciare sui marciapiedi e nei parchi di New Delhi, sono rimasta in una stanza d’ospedale di due metri per due con altre persone malate di Covid. Qui è l’apocalisse, si vivono quotidianamente scene da film dell’orrore, vi prego, aiutateci a tornare in Italia». «Dalle finestre dell’hotel - racconta Enzo - vediamo che bruciano i cadaveri dei morti di Covid in strada. È impressionante e siamo preoccupati. Siamo stati tutti separati, con noi ci sono coppie di varie zone d’Italia e hanno anche bambini bisognosi di cure in Italia. Abbiamo il permit exit dello Stato indiano per uscire ma non ci fanno partire: restare qui in attesa di un tampone negativo significa farci morire. Fuori c’è l’odore della morte ed è indescrivibile». L’ambasciata italiana in India si è attivata individuando l’ipotesi del volo Air France New Delhi Parigi ma le autorità indiane non si deciderebbero a far imbarcare persone straniere positive. «Attualmente la situazione della signora e del marito Enzo Galli, è complicata, ma sotto controllo», fa sapere Andrea Zoletto, direttore generale di International Adoption, l’associazione che ha seguito la coppia. «Siamo costantemente in contatto con il signor Galli - spiega Zoletto -, lui e la bambina sono in un albergo a 5 stelle in assoluta sicurezza e stanno bene. La signora si trova in un albergo sanitario, in camera con un’altra persona. Questa mattina, grazie al medico dell’ambasciata italiana, ha potuto fare un altro tampone, il risultato è atteso in 48 ore: se fosse negativo l’ambasciatore garantisce l’imbarco su un volo Klm o Air France, ma fosse positiva dovrà rimanere lì almeno una decina di giorni, le autorità indiane sono di un rigore estremo su questo». Nel caso fosse positiva, il prossimo tampone dovrebbe essere fatto tra 8 giorni, tempo durante il quale la donna resterà nella struttura. A complicare la situazione, secondo quanto appreso, anche problemi di comprensione per lingua e «purtroppo il loro accompagnatore, un nostro uomo - aggiunge Zoletto -è rimasto bloccato con il lockdown e può fare soltanto assistenza da remoto». Tuttavia la situazione sembra essere più serena grazie all’intervento dell’ambasciata. «Il console sente il marito più volte al giorno - conferma Zoletto - devo dire che da parte delle autorità italiane l’assistenza è massima». «Quando i signori sono partiti - ha detto ancora Zoletto - la situazione in India non era così» drammatica: «È precitata all’improvviso e noi abbiamo bloccato tutto. Le altre coppie stanno rientrando perché nessuno è risultato positivo».

Alessandra Muglia per il "Corriere della Sera" il 27 aprile 2021. Chi ci riesce, la sera si addormenta con la morte negli occhi a New Delhi e dintorni. Centinaia di pire di legno accatastate bruciano, del tutto illegali, lungo le rive della Yamuna che attraversa la città. «È il nostro Olocausto» denuncia la commentatrice Rini Khanna, nel Paese dove si registrano oltre 2.800 morti al giorno. Circolano immagini di parenti svenuti o con le mani sul viso, straziati. Tanti ormai non escono nemmeno più di casa in cerca di soccorso, sanno che nessuno li aiuterà: negli ospedali i letti sono esauriti da giorni. Soprattutto manca l' ossigeno: respirare è diventato un lusso, si muore soffocati. «Mascherina in casa» Dopo cinque giorni di fila con 350 mila nuovi casi al giorno il malandato sistema sanitario indiano è al collasso. Per arginare una pandemia ormai fuori controllo ieri il governo ha suggerito di indossare la mascherina anche in casa. E pensare che fino a qualche settimana fa molti leader politici non la mettevano nemmeno nei loro comizi oceanici. La confusione è tale che persino molte persone abbienti non riescono a ottenere medicine per i propri cari. Alcuni hanno «sospeso» la propria vita per dare una mano. Come la fotografa Debahuti Chowdhury che a Varanasi sta lavorando come volontaria in un ospedale. «Mi sento al fronte - dice -, stiamo assistendo a un incubo senza fine». Sempre nella città sacra indù, Shivam Sareen che faceva la guida turistica ora coordina gli aiuti e chiede sostegno agli amici all' estero. Critiche e censura Appelli per medicinali e ossigeno affollano i social, invasi anche da video strazianti di malati boccheggianti sdraiati per strada. Ieri il premier Modi, sott' attacco per la gestione della pandemia, ha ordinato ai social media di oscurare i post critici, definendoli tentativi di creare il panico. Alla sofferenza diffusa si sono aggiunte rabbia e indignazione.  «Per lui è più facile far rimuovere i tweet che assicurare rifornimenti di ossigeno» polemizza Aftab Alam, professore di scienze politiche all' università di Delhi. Tra le cose che vengono rimproverate al governo, il fatto di aver promosso pellegrinaggi e manifestazioni elettorali di massa, i ritardi nella campagna vaccinale, e soprattutto di aver negato la crisi fino all' ultimo e non aver quindi pianificato una risposta tempestiva e coordinata.  Soltanto ieri le ferrovie indiane hanno lanciato gli Oxygen Express, per consegnare i cilindri con l' ossigeno agli ospedali. L' India è senza fiato e il premier nazionalista indù ha chiesto aiuto «fuori». Dopo la mano tesa della presidente della Commissione Ue von der Leyen e della cancelliera Merkel, ieri è arrivata la telefonata del presidente Joe Biden. E persino l' arcinemico Pakistan si è fatto avanti.

(ANSA il 25 aprile 2021)  Continua a crescere la curva dell'epidemia di Covid in India, che ha stabilito il quarto record consecutivo per contagi quotidiani. Nelle ultime 24 ore sono stati 349.691, portando il totale a 16,96 milioni, rende noto Sky News. I decessi in un giorno sono stati 2.767, il numero più alto finora. Le vittime totali sono 192.311. Nella capitale New Delhi muore una persona ogni quattro minuti ed è un dramma anche la sepoltura, tanto che molti corpi vengono bruciati in strada.

(ANSA-AFP il 25 aprile 2021)  New Delhi estenderà il lockdown di una settimana, vista la drammatica situazione sul fronte dell'epidemia di Covid in tutta l'India. "Non c'è tregua, la devastazione del coronavirus continua", ha spiegato il primo ministro del territorio di Delhi, Arvind Kejriwal, assicurando che "tutti sono favorevoli a prorogare il blocco".

Carlo Pizzati per “La Stampa” il 25 aprile 2021. «Mamma, mamma, continua a respirare. Non ti succederà niente se continui a respirare». Il figlio esce dall'automobile dove giace la madre, in attesa di trovare un letto d'ospedale. E scoppia a piangere. «Sono qui da stamattina», dice un altro figlio disperato, «mi hanno detto di accompagnare mia madre e aspettare. Non è venuto nessuno. Non c'è più ossigeno, né medicine». L'India è un Paese a cui manca l'aria. Nella capitale il sistema ospedaliero è al collasso, così come nel Maharastra e nel Gujarat a ovest, nell'Haryana a nord e nel Madhya Pradesh in India centrale. In Uttar Pradesh, come anche a Delhi, gli ospedali affiggono cartelli con scritto: «Ossigeno esaurito. Non si accettano pazienti». Questa tremenda seconda ondata di Covid-19 che ha visto un record mondiale di un milione di contagi in tre giorni (e solo ieri oltre 800mila) ha colto di sorpresa una nazione immensa che aveva abbassato la guardia perché a febbraio contabilizzava «solo» 11 mila nuove infezioni al giorno e si crogiolava nelle riaperture, nei comizi elettorali sovraffollati, nelle feste a Goa, nei raduni religiosi della Kumbh Mela, negli stadi di cricket, nei cinema. E ora paga caro. «Mio marito è in condizioni gravissime, lasciatemi passare» dice, all'entrata di un ospedale di Delhi, una sessantenne che trascina da sola la barella con sopra il marito seminudo. La bloccano. Niente ossigeno, niente letti. «Dottore, la prego, dia un'occhiata a mia madre», urla un altro dal cortile verso la porta del pronto soccorso, e scoppia a piangere. Un medico s' impietosisce e visita una paziente parcheggiata in un'ambulanza con le porte aperte. «Brutte notizie», dice uscendo, mentre il marito della vittima geme di dolore. Nella terapia intensiva all'Holy Family Hospital, il dottor Sumit Ray arringa la sua squadra, scioccata dal vedere pazienti che muoiono nelle barelle del parcheggio. «Stiamo finendo l'ossigeno. L'intero Paese sta finendo l'ossigeno. È così per la città, per l'ospedale, per tutti. Voi ve la state cavando benissimo. Ma se finisce l'ossigeno non c'è margine di speranza per molti pazienti. Moriranno». Al Jaipur Golden Hospital, 20 morti per mancanza di ossigeno. Le scorte dovevano arrivare alle 17, sono arrivate a mezzanotte. È bastato a fare una strage. Al Sri Gangam Hospital di Delhi, altri 25 morti per carenza di ossigeno. E la lista continua in altri Stati. Le scene nei parcheggi degli ospedali sono uguali. I più fortunati restano in auto, attaccati a una bombola, sperando che non finisca, condividendola con qualcuno nell'auto accanto, in questi improvvisati drive in, sperando si trovi un posto letto. E se si trova, rischi di dover condividere una brandina con uno sconosciuto, a succhiare vita da un respiratore. Sui social media tantissimi scrivono le loro disperate richieste. Cercasi valvola per misurare l'ossigeno, bombole, ventilatori. È una società allo sbando, dove la salute pubblica è venuta a mancare, considerando che in questi anni si è investito appena l'1% del Pil per le strutture mediche. Venerdì sera, dopo che la Corte Suprema gli ha imposto di presentare un piano nazionale per la fornitura di ossigeno, medicinali, ventilatori e vaccinazioni (solo il 10 % della popolazione ha ricevuto la prima dose in India, il più grande produttore di vaccini al mondo), il premier Narendra Modi ha finalmente affrontato il tema, togliendo i dazi all'ossigeno e alle importazioni di vaccini. E ha delegato le decisioni sul lockdown ai governatori locali. Arvind Kejriwal, governatore di Delhi, ha implorato i colleghi: «Mandateci ossigeno». L'aviazione indiana sta trasportando interi impianti per l'ossigeno dalla Germania. Partono gli "Oxygen Express" vagoni di treni che trasportano 30mila litri di ossigeno confiscati dalle acciaierie, mentre nelle autostrade sfrecciano convogli di autobotti con la scorta. Una fabbrica di ossigeno di Hyderabad ha assunto squadre di buttafuori per difendere le scorte dagli assalti. Ci sono cremazioni di massa all'aperto in molti Stati, improvvisati in ampi cortili, sui marciapiedi, nei parcheggi. Ed è qui che si scopre che i numeri vengono falsati. Ad Ahmedabad, capitale del Gujarat, il crematorio brucia 24 ore al giorno, come una fabbrica che non chiude mai. «Mai visto così tanti morti», ammette Suresh Bhai, incaricato di documentare le cause dei decessi. «Ma non scrivo "Covid", scrivo sempre "malattia" perché me l'hanno ordinato i miei capi». Così è anche a Bhopal, a Chhattisgarh e in tanti altri crematori che tingono di nero i cieli di un'India cui manca l'aria. Ed è così a Delhi, dove Rohit deve costruirsi da solo la pira per la madre Deepika. «È triste vederla andar via a 59 anni. Era appena andata in pensione e sperava di passare degli anni felici con noi. Adesso è lì».

Dagotraduzione dal The Guardian il 25 aprile 2021. Affacciandosi su un mare di facce senza mascherina, riunitesi sabato per una manifestazione politica nel Bengala occidentale, il primo ministro indiano, Narendra Modi, anche lui senza mascherina, ha proclamato con orgoglio di «non aver mai visto una folla così grande». Quello stesso giorno, l'India ha registrato un record di 234.000 nuovi casi di coronavirus e 1.341 morti, e da allora i numeri hanno continuato a crescere. Il paese è precipitato in una tragedia di proporzioni senza precedenti. In una settimana sono stati registrati quasi 1,6 milioni di casi, in totale sono oltre 15 milioni. In soli 12 giorni il tasso di positività del Covid è raddoppiato al 17%, mentre a Delhi ha toccato il 30%. Gli ospedali in tutto il paese si sono riempiti al massimo, ma questa volta sono prevalentemente i giovani a occupare i letti; a Delhi il 65% dei casi ha meno di 40 anni. La diffusione senza precedenti del virus è stata in parte attribuita a una variante più contagiosa. Ma il governo è sotto accusa per gli atteggiamenti rilassati, poi emulati dai leader statali e locali, che hanno portato l'India a credere falsamente di aver sconfitto il Covid. «La leadership in tutto il paese non ha comunicato adeguatamente che si trattava di un'epidemia che non era scomparsa», ha detto K Srinath Reddy, presidente della Public Health Foundation of India. «La vittoria è stata dichiarata prematuramente e il paese si è fatto contagiare dall'umore dei politici, desiderosi di far ripartire l'economia e di tornare alla campagna elettorale. Così il virus è risorto». Nel Bengala occidentale, dove il governo di Modi ha rifiutato di ridurre le lunghe elezioni statali che il suo Bharatiya Janata Party (BJP) spera di vincere, Modi e il suo ministro degli interni, Amit Shah, questa settimana hanno continuato i loro incontri pubblici nonostante le file di ambulanze fuori dagli ospedali. Sabato, lo stesso giorno della manifestazione di Modi, lo stato ha registrato 7.713 nuovi casi, il più alto dall'inizio della pandemia. Tre candidati in corsa per le elezioni sono morti a causa del virus. Da domenica, l'hashtag #ModiMadeDisaster ha iniziato a fare tendenza su Twitter. I medici in prima linea hanno avuto un crollo parlando della quantità di pazienti Covid morenti che non erano stati in grado di curare a causa della mancanza di letti e della preparazione inadeguata del governo centrale e statale. Il dottor Amit Thadhani, direttore dell'ospedale Niramaya di Mumbai, che sta curando solo pazienti con Covid, ha detto di aver dato avvertimenti su una seconda ondata virulenta a febbraio, ma di essere stato ignorato. «Il mio ospedale è pieno e quando un paziente viene dimesso, il letto si riempie in pochi minuti». Dieci giorni fa, l'ospedale ha finito l'ossigeno, ma sono state trovate forniture alternative appena in tempo. «Ci sono persone in fila fuori dall'ospedale che cercano di entrare e ogni giorno riceviamo ogni 30 secondi chiamate da qualcuno che cerca di trovare un letto», ha detto Thadhani. «La maggior parte di queste chiamate sono per pazienti gravemente malati che hanno bisogno di cure ospedaliere, ma non c'è abbastanza capacità e quindi la mortalità è alta. Tutti sono stati portati al limite». Thadhani ha detto che questa volta il virus è «molto più aggressivo e molto più contagioso» e colpisce prevalentemente i giovani. «Sono le persone tra i 20 ei 30 anni che stanno arrivando con sintomi molto gravi, c'è un alto tasso di mortalità tra i giovani», ha detto. Il suono inquietante delle sirene delle ambulanze ha continuato a risuonare in tutta la capitale quasi senza sosta. All'interno dell'ospedale governativo di Lok Nayak a Delhi, la più grande struttura Covid della capitale, i letti vengono spartiti tra più pazienti, mancano le bombole di ossigeno, i corridoi sono pieni di barelle e le ambulanze sono costrette a restare in coda fuori, in attesa di entrare. Alcuni muoiono così, nel parcheggio, aspettando un posto letto. A Mumbai, che è stata la prima città a sopportare il peso della seconda ondata, il dott. Jalil Parkar dell'ospedale di Lilavati ha affermato che «l'intero sistema sanitario è crollato e i medici sono esausti. C'è carenza di letti, carenza di ossigeno, carenza di farmaci, carenza di vaccini, mancanza di test», ha detto Parkar. «Anche se abbiamo aperto un'altra ala per i pazienti Covid, non ci sono abbastanza letti, e abbiamo dovuto mettere alcuni pazienti nei corridoi. Il seminterrato è diventato un'area di triage per i malati Covid. Abbiamo persone che aspettano in ambulanze,  sedie a rotelle fuori dall'ospedale e talvolta dobbiamo dare loro ossigeno là fuori. Cos'altro possiamo fare?». Anche quelli chi si trovano al vertice del potere ha combattuto per trovare un letto ai suoi cari. Vijay Singh Kumar, ministro nazionale dei trasporti e deputato del BJP nello stato dell'Uttar Pradesh, ha fatto ricorso a Twitter con la supplica: «Per favore, aiutateci, mio fratello ha bisogno di un letto per il trattamento del coronavirus». Il primo ministro di Delhi, Arvind Kejriwal, non ha usato mezzi termini annunciando un blocco di sei giorni per impedire il completo collasso del sistema sanitario: «La situazione del Covid a Delhi è triste», ha detto lunedì. Più del 99% dei letti in terapia intensiva nella capitale è occupato, molti dei migliori ospedali di Delhi, tutti con centinaia di pazienti Covid, hanno dichiarato carenze di ossigeno, avvisando che hanno solo poche ore di autonomia. Stati come il Gujarat e l'Uttar Pradesh sono stati accusati di aver coperto il vero bilancio delle vittime del coronavirus: il numero di corpi accatastati negli obitori degli ospedali supera di gran lunga i dati ufficiali sulla mortalità. Tra le città più colpite nell'Uttar Pradesh c'è stata Lucknow, dove è morta di covid la 22enne Deepti Mistri. Suo zio Saroj Kumar Pandey, un autista di ambulanze che l'ha cresciuta fin dall'infanzia, ha detto di aver cercato senza successo di trovarle un letto d'ospedale quando, due giorni dopo aver contratto il virus, il suo livello di ossigeno ha cominciato a scendere pericolosamente al di sotto del 50%. Solo una clinica privata ma senza le attrezzature per il Covid, ha deciso di ospitarla per una notte. «La mattina la clinica l'ha dimessa alle 5, e l'abbiamo portata a casa. Deepti è morta poche ore dopo perché non aveva ossigeno e cure ospedaliere. Dovrebbe essere viva oggi». Twitter e Facebook sono diventati un catalogo devastante di centinaia di migliaia di richieste urgenti di aiuto per trovare letti d'ospedale, ossigeno, plasma e remdesivir, il farmaco utilizzato in via sperimentale per curare i pazienti Covid, che rimane scarsamente disponibile negli ospedali di tutto il paese. I morti, nel frattempo, hanno continuato a sovraccaricare crematori e cimiteri negli stati di Uttar Pradesh, Gujarat e Delhi più velocemente di quanto potessero essere bruciati, e le famiglie hanno aspettato giorni per cremare i loro cari. Domenica, il più grande impianto di cremazione di Delhi, Nigambodh Ghat, ha esaurito lo spazio, nonostante abbia raddoppiato le sue pire funebri a più di 60. I governi statali di Delhi e Mumbai si sono affrettati a ricostruire le strutture temporanee di Covid che avevano smantellato mesi prima, mentre il governo centrale ha annunciato un ampliamento del programma di vaccinazione a tutte le persone maggiori di 18 anni dal 1 ° maggio, ma la carenza di rifornimenti resta un problema. Un decreto del governo ha stabilito di distribuire negli ospedali tutto l'ossigeno destinato all'uso industriale. Le ferrovie indiane hanno approntato alcuni treni speciali, gli «Oxygen Express», che saranno utilizzati per il trasporto di ossigeno liquido e bombole. Altri, sono stati destinati ad ospitare malati Covid. Tuttavia, molti temono che sia troppo poco, troppo tardi. «La gravità della situazione avrebbe dovuto essere compresa mesi fa, ma i governi hanno negato e diffuso messaggi dicendo che il virus non era più così pericoloso», ha detto Thadhani. «Sono preoccupato perché non abbiamo ancora visto il peggio».

·        Succede negli Usa.

Da ilgiornale.it  l'1 dicembre 2021. Donald Trump è risultato positivo al Covid-19 tre giorni prima del suo primo confronto televisivo contro Joe Biden. Lo rivela in un nuovo libro il quarto e ultimo capo dello staff dell'ex presidente, Mark Meadows. Come riporta il Guardian, Meadows scrive anche che, sebbene sapesse che a ogni candidato era richiesto «di risultare negativo al coronavirus entro settantadue ore dall'ora di inizio del dibattito, niente avrebbe impedito a [Trump] di andare là fuori». Il dibattito si tenne a Cleveland, il 29 settembre dello scorso anno, ma Trump e sua moglie Melania annunciarono di avere il Covid soltanto qualche giorno dopo, il 2 ottobre. Secondo quanto ricostruito al tempo da diversi media, i due sarebbero stati contagiati da Hope Hicks, una delle più strette collaboratrici del presidente, che si era sentita male durante un viaggio sull'Air Force One. Il 5 ottobre l'ex presidente venne ricoverato al Walter Reed National Military Medical Center. Il libro di memorie di Mark Meadows, The Chief's Chief, sarà pubblicato la prossima settimana dalla casa editrice conservatrice All Seasons Press. L'ex capo staff di The Donald ricorda che la notizia della positività dell'ex presidente fu uno choc per la Casa Bianca che aveva appena organizzato una trionfante cerimonia al Rose Garden per la nomina alla Corte suprema di Amy Coney Barrett. Era il 26 settembre, tre giorni prima del confronto con Joe Biden. Meadows ricorda che il capo della Casa Bianca in quei giorni sembrava "un po' stanco" e aveva un lieve raffreddore. Quel giorno Trump e i suoi collaboratori erano diretti a Middletown, in Pennsylvania, quando venne diffusa la notizia della positività dell'ex presidente. Il test anti-Covid venne ripetuto e Donald Trump risultò fortunatamente negativo al tampone. A quel punto tutti, nella cerchia del tycoon, pensarono che si trattasse di un falso positivo. Meadows ricorda che Trump interpretò la notizia della negatività al test come «il pieno permesso di andare avanti come se nulla fosse successo». Il suo capo staff, tuttavia, ordinò in via precauzionale che tutte le persone nella sua cerchia lo trattassero «come se fosse positivo» durante il viaggio in Pennyslvania. «Non volevo correre rischi inutili», scrive Meadows, «ma non volevo nemmeno allarmare il pubblico se non c'era nulla di cui preoccuparsi. E secondo l'ultimo, più accurato test, non c'era effettivamente nulla di cui preoccuparsi». Domenica 27 settembre Mark Meadows ricorda che il magnate andò a giocare a golf in Virginia e presenziò a un evento per le famiglie dei militari. Successivamente, secondo lo stesso l'ex presidente Donald Trump è proprio in quell'occasione che si infettò. Per Meadows, il giorno del dibattito Donald Trump stava meglio dei giorni precedenti. «Il suo viso, almeno in gran parte, aveva riacquistato la sua solita tonalità di bronzo chiaro e la voce era tornata normale» osserva nel libro in uscita nei prossimi giorni. Difficile tuttavia stabilire con esattezza se durante il confronto con Biden Trump fosse effettivamente positivo al Covid o no.

Federico Rampini per il “Corriere della Sera” l'11 novembre 2021. L'America ha riaperto, i turisti italiani tornano. La trovano cambiata? Più di quanto ci si poteva aspettare in venti mesi. C'entra il Covid ma non solo: dalle anomalie della ripresa economica (cresce l'inflazione, mancano lavoratori essenziali) all'aumento della criminalità. E ancora dalle nuove attrazioni turistiche di New York alla fine della luna di miele con Joe Biden, le sorprese sono tante per i turisti europei che da lunedì sono riammessi, purché vaccinati e con tampone. La compagnia aerea Delta ha visto aumentare del 450% le prenotazioni da quando l'Amministrazione Biden ha annunciato la levata delle restrizioni. È previsto il tutto esaurito a New York, in Florida, in California, a Natale e Capodanno. Ci sarà un crescendo di visitatori italiani per recuperare una lunga assenza forzata. Un primo avvertimento viene dalle linee aeree: prevedono file ancora più lunghe all'arrivo negli aeroporti, per la dogana. Tra le altre cause, anche tra gli organici della polizia di frontiera ci sono buchi creati dai no vax, in una fase in cui l'autorità federale obbliga alla vaccinazione i suoi dipendenti. Lo shock del carovita è garantito nelle destinazioni turistiche come New York, Los Angeles, San Francisco. Quasi tutto costa di più, spesso molto di più. Il tasso ufficiale d'inflazione al 5,4% è inadeguato a fotografare la situazione in alcuni settori come i ristoranti. E rassegnatevi se la qualità del servizio non è all'altezza della «mancia obbligatoria» (almeno il 15%). «Ripresa con penurie» definisce lo stato dell'economia: in testa c'è la scarsità di manodopera. Colpisce i lavori disagiati, con meno prestigio sociale e remunerazioni basse. Ha ricadute sulla vita di tutti i giorni. Mancano camionisti, fattorini delle consegne, camerieri, poliziotti, cassiere e commesse, infermiere, insegnanti di scuole materne e asili nido. Nei settori in sofferenza i datori di lavoro devono pagare di più e pretendere di meno, è la legge del mercato. Dopo decenni di pace sociale (o quasi) si segnalano scioperi, a conferma che i rapporti di forze sono cambiati in favore dei dipendenti. È difficile conciliare i numeri di un'economia schizofrenica: ancora ci sono quattro milioni di disoccupati in più rispetto all'economia pre-Covid; molti però non cercano un posto, se significa tornare a fare gli stessi lavori pesanti e sottopagati; possono permettersi di aspettare anche per la generosità dei sussidi che fino a due mesi fa arrivavano dal Tesoro federale e dalle finanze locali. Rispetto a marzo 2020 i risparmi degli americani sono aumentati di 2.300 miliardi di dollari, la giacenza media sui conti correnti è più alta del 50%. Tra quelli che non tornano a lavorare - non in ufficio, per la precisione - c'è una fascia privilegiata: gli innamorati dello smart working, a cui il periodo del lockdown ha fatto abbracciare uno stile di vita diverso. Wall Street, Downtown Manhattan, così come il centro direzionale di San Francisco, non hanno recuperato tutta la popolazione residente di venti mesi fa. Penurie, ingorghi e strozzature nella logistica globale o nelle infrastrutture americane, potrebbero rendere questo Paese meno fedele alla sua reputazione di Bengodi del consumismo: via via che si avvicina il Natale la grande distribuzione teme ritardi nell'arrivo dei container di merci con cui riempire gli scaffali in vista dei grandi assalti. Ai visitatori in arrivo dall'Europa, New York sembrerà scivolata un po' più verso il caos. Un vero newyorchese non si accontenta del verde per attraversare sulle strisce pedonali, prima guarda a destra e a sinistra per l'inevitabile ciclista o motorino in contromano col rosso. Il rispetto di regole «minori» è diventato un optional anche perché la polizia si volta dall'altra parte. Un agente in divisa che osi arrestare qualcuno - soprattutto se appartenente a una minoranza etnica - viene circondato da smartphone in modalità video, pronti ad accusarlo. Il disordine del traffico newyorchese è la manifestazione più bonaria e innocua di altri cambiamenti. Per gli italiani assenti dal marzo 2020: questa è l'America post-post-Floyd. In venti mesi ha vissuto rivoluzione e contro-rivoluzione. Il movimento antirazzista Black Lives Matter egemonizzato dalle frange radicali ha ottenuto che molte città tagliassero i fondi alla polizia. I sindaci democratici Bill de Blasio (New York) ed Eric Garcetti (Los Angeles) hanno seguito l'onda, come quelli di Minneapolis e Portland, Oregon. L'aumento del 30% degli omicidi nel 2020 ha segnato il balzo più grave dagli anni Sessanta. Le dimissioni dai corpi di polizia delegittimati dalle accuse di razzismo continuano a ridurre gli organici. La contro-reazione successiva è partita dai quartieri poveri, dagli afroamericani vittime del crimine violento: le zone popolari di Brooklyn, Queens, Bronx e Staten Island hanno plebiscitato come nuovo sindaco di New York un ex capitano di polizia, Eric Adams. L'apertura delle frontiere segue di una settimana la sua elezione, è presto per dire se manterrà le promesse sulla sicurezza. Il degrado non si limita alla delinquenza. New York vede crescere la spazzatura, anche la nettezza urbana subisce il doppio impatto dei no vax e della «grande dimissione» dalle mansioni meno appetibili. Insieme a Los Angeles e San Francisco, la Grande Mela continua a vantare il record nazionale dei senzatetto, un mondo che sembra rimasto ai margini della distribuzione di denaro pubblico. Nella psiche nazionale non c'è quell'euforia da scampato pericolo, e da boom economico, che vorrebbero le statistiche. Gli ultimi turisti italiani lasciarono l'America con un Donald Trump in difficoltà - non solo per la gestione della pandemia - e avviato verso la sconfitta. I primi a tornare trovano un Biden a picco nei sondaggi e reduce da una sconfitta: i democratici hanno perso quota in molte elezioni locali. Due cicli politici consumati in venti mesi. I democratici sperano di rimontare grazie alle manovre di spesa pubblica, il piano d'investimenti in infrastrutture appena varato, e quello in cantiere che vuol dare all'America un Welfare quasi europeo. Hanno un anno per invertire la tendenza prima delle elezioni legislative. New York accoglie il turismo europeo con novità anche seducenti. Gli italiani non fecero in tempo a vedere l'inaugurazione dello Edge, terrazza panoramica con vista sulla metropoli, in vetta agli Hudson Yards. E lì sotto, sul lungofiume, Little Island at Pier 55, giardino pensile sull'acqua. La Grande Mela aspettava con ansia di essere invasa, vorrà risolvere con fantasia e flessibilità i piccoli problemi pratici come la differenza tra green pass europeo e certificato di vaccinazione locale, richiesto per l'accesso a molti luoghi pubblici, come i musical di Broadway. Anche su questi controlli i visitatori saranno alle prese con due nazioni diverse: dalla Florida alle Montagne Rocciose, dominano tolleranza o lassismo. Portare la mascherina in certi Stati repubblicani può perfino attirarvi ostilità. Le due Americhe sono altrettanto distanti di come le avevate lasciate.

Covid, negli Usa i morti e i vaccinati dipendono dal «colore» dello Stato: così la politica influenza i contagi. Andrea Marinelli e Cristina Marrone su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021. L’orientamento politico dei governatori influisce sul numero dei decessi sia direttamente, attraverso politiche più o meno restrittive di controllo dei contagi, sia indirettamente, attraverso l‘adesione alla campagna vaccinale. Il rifiuto del vaccino è una delle ragioni principali per cui le infezioni Covid-19 continuano ad aumentare negli Stati Uniti. Da mesi sono disponibili vaccini sicuri ed efficaci ma a metà settembre solo il 64% degli americani idonei (sopra i 12 anni di età) risultava completamente vaccinato (il 55% della popolazione totale). In molte zone la maggioranza degli adulti non ha approfittato dell’opportunità di vaccinarsi e sono le stesse aree in cui crescono le infezioni e i ricoveri tra i bambini che, non potendo vaccinarsi, non godono neppure della protezione indiretta degli adulti immuni. I sondaggi effettuati sull’intenzione a vaccinarsi hanno confermato del resto che l’emergenza sanitaria è sempre stata trattata, sin dall’inizio, come un fatto politico: i sei Stati che fra marzo e aprile del 2020 non hanno indetto un lockdown, ad esempio, erano tutti governati dai repubblicani. Addirittura, i partecipanti al meeting estivo del Cpac, la conferenza dei conservatori, hanno esultato quando gli Stati Uniti non hanno raggiunto gli obiettivi di vaccinazione che Biden avrebbe voluto ottenere entro il 4 luglio (il 70% di americani con almeno una prima dose). Come mostra il grafico elaborato da Elena Stanghellini, professoressa ordinaria di statistica all’Università di Perugia, gli Stati governati dai democratici mostrano tassi di vaccinazione più elevati e una incidenza di decessi per 100 mila abitanti inferiore rispetto agli Stati guidati da un governatore repubblicano. Nel grafico (i dati sono della settimana 17-23 settembre) sono evidenziati in blu gli Stati Democratici e in rosso quelli Repubblicani. «I dati mostrano come l’orientamento politico del governatore influisce sul numero dei decessi sia direttamente, attraverso politiche più o meno restrittive di controllo dei contagi, sia indirettamente, attraverso la maggiore o minore adesione alla campagna vaccinale», commenta Stanghellini, che ha fatto parte dell’advisory board dell’Istat per la realizzazione dell’indagine sierologica e studia i numeri del Covid dall’inizio della pandemia. «Il grafico mette in evidenza due regolarità. La prima: l’addensamento degli Stati rossi nella parte in alto a sinistra e di quelli blu in basso a destra, con la conseguente interpretazione che gli Stati repubblicani sono più indietro nella vaccinazione e meno efficaci nel prevenire l’incidenza della mortalità. La seconda: a prescindere dal colore degli Stati, il numero atteso di morti per 100 mila abitanti segue un andamento decrescente lineare rispetto alla proporzione di persone completamente vaccinate, che è ben rappresentato da una retta di regressione, che ha parametri statisticamente significativi». I numeri mostrano dunque come i tassi di vaccinazione siano inversamente proporzionali all’orientamento politico dei singoli Stati, con quelli repubblicani colpiti più duramente dal virus. In Florida, sopraffatta dalla variante Delta, con ospedali al collasso e una popolazione molto anziana — il 20,5%, qui svernano gli americani benestanti in pensione — il governatore repubblicano Ron DeSantis ha sostenuto aperture a oltranza per non danneggiare l’economia, si oppone alle norme anti Covid e ha vietato l’uso delle mascherine nelle scuole, minacciando di far licenziare chi sceglie di proteggersi. «Non a caso — commenta Elena Stanghellini — la Florida ha una incidenza settimanale della mortalità per 100 mila abitanti pari circa a un quadruplo a quella attesa in base al livello di vaccinazione». Anche in Texas il governatore Greg Abbott ha minacciato di trascinare in tribunale i presidi che impongono l’uso della mascherina a scuola. L’orientamento politico pesa, e parecchio, sui tassi di vaccinazione negli Usa. Secondo un sondaggio di Kff Covid-19 Vaccine Monitor, i repubblicani hanno quattro volte più probabilità dei Democratici di affermare che «sicuramente non si vaccineranno contro il Covid-19». Un altro sondaggio del Pew Research Center ha rilevato nel mese scorso che l’86% degli elettori democratici aveva ricevuto almeno una dose di vaccino, rispetto al 60% degli elettori repubblicani. Secondo l’analista Charles Gaba da quando la variante Delta ha iniziato a circolare in modo massiccio negli Stati Uniti il bilancio più pesante di vittime Covid si è registrato nell’America rossa: nelle contee in cui Donald Trump ha ottenuto almeno il 70% dei voti alle elezioni del 2020 il virus ha ucciso circa 47 persone su 100 mila a partire dalla fine di giugno; in quelle in cui ha ottenuto meno del 32% dei voti si contano circa 10 vittime ogni 100 mila abitanti. La negazione politicamente motivata dell’efficacia del vaccino si accompagna alla politicizzazione della fiducia nella scienza. Come segnala Adrian Bardon, professore di filosofia alla Wake Forest University in un articolo pubblicato su The Conversation, un sondaggio condotto tra giugno e luglio da Gallup ha rilevato che la percentuale di repubblicani che esprimono «grande» o «abbastanza» fiducia nella scienza è scesa, sorprendentemente, dal 72% nel 1975 ad appena il 45% di oggi. Nello stesso periodo, la fiducia nella scienza tra i democratici è aumentata dal 67% al 79%. Ma cosa c’entra l’orientamento politico di una persona con la fiducia nella scienza? Secondo il filosofo Bardon la negazione della scienza include fattori come la sfiducia nelle istituzioni pubbliche e le minacce percepite alla propria identità culturale. Più studi suggeriscono che identificarsi come repubblicani è fortemente associato all’avere convinzioni anti-scientifiche. Inoltre, poiché il Covid-19 è stato fortemente politicizzato dall’inizio della pandemia, le misure di salute pubblica sono state direttamente associate alla politica di sinistra. Il rifiuto di tali misure è di conseguenza diventato un segnale di identità politica e culturale, come si è visto ad esempio con le rivolte istigate da Trump in Michigan contro la governatrice democratica Gretchen Whitmer, che aveva imposto uno dei lockdown più restrittivi a livello nazionale. Ed ecco perché alcune aree degli Stati Uniti faticano ad uscire dalla pandemia. Rimangono 18 Stati che devono ancora vaccinare completamente almeno la metà di tutti i residenti: Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Idaho, Indiana, Louisiana, Mississippi, Missouri, Montana, North Carolina, North Dakota, Ohio, Oklahoma, South Carolina, Tennessee, West Virginia e Wyoming. Solo due, Louisiana e North Carolina, hanno un governatore democratico, ma alle elezioni del 2020 hanno votato per Donald Trump e hanno una lunga tradizione conservatrice. Di questi 18 Stati, solo la Georgia è stato vinto da Joe Biden a novembre, di 11 mila voti. Come in ogni regola sono ammesse anche eccezioni, come evidenzia il grafico. Ad esempio il North Dakota è uno Stato repubblicano guidato dalla trumpiana Kristi Noem che, pur con un basso tasso di vaccinazioni è riuscito a contenere il tasso di mortalità, decisamente più basso di quello atteso. Si tratta tuttavia di uno Stato con appena 700 mila abitanti e una densità di popolazione pari a 3,8 abitanti per chilometro quadrato (l’Italia ne ha 192), privo di aree metropolitane, e sappiamo che la scarsa densità abitativa è uno dei fattori che possono limitare la diffusione del contagio da coronavirus. All’opposto l’Alabama, roccaforte del partito conservatore, ha oltre il doppio della mortalità attesa calcolata sulla base del livello di vaccinazione: recentemente il Montgomery Advertiser notava che in Alabama sono state uccise più persone dal Covid — 14.469 al 2 ottobre 2021 — di quante ne siano morte nelle guerre Mondiali, in quella di Corea e in quella del Vietnam. Il debole sistema sanitario locale è stato mandato in tilt dalla variante Delta a luglio, quando lo Stato era ultimo per tasso di vaccinazione: solo a quel punto ha accelerato, e oggi il 42,5% della popolazione ha ricevuto entrambe le dosi. «Nel 2020, per la prima volta nella Storia, il nostro Stato ha avuto più morti che nascite: si è letteralmente rimpicciolito», ha affermato a metà settembre il ministro della Sanità dell’Alabama Scott Harris. Anche la Louisiana è in una situazione anomala: ha un governatore democratico, ma è profondamente conservatrice e alle presidenziali Trump ha ottenuto il 62% dei voti contro il 36,5% di Biden. «Questo Stato del Sud — commenta Stanghellini — è un’eccezione alla prima regola, ma non alla seconda. Il tasso di vaccinazione infatti è basso e questa scelta svela la tradizione conservatrice, tuttavia il suo livello di incidenza dei decessi non è distante da quello atteso calcolato sulla base della percentuale di vaccinati». Il Massachusetts e il Vermont ricadono in questa categoria, ma in direzione opposta: si tratta di Stati governati dai repubblicani, che alle presidenziali hanno però largamente preferito il candidato democratico (Biden ha ottenuto il 65% nel primo e il 53% nel secondo). «In entrambi i livelli di vaccinazione sono molto elevati, hanno addirittura fatto meglio dei più virtuosi Stati democratici e infatti hanno un basso livello di incidenza di mortalità da Covid-19», aggiunge la professoressa. Il Massachusetts, che ha vaccinato con due dosi il 67,8% della popolazione, è l’unico Stato che garantisce una copertura sanitaria a quasi tutti i cittadini — grazie a una riforma approvata nel 2006, quando il repubblicano Mitt Romney era governatore — ed è lo Stato con meno residenti non assicurati d’America. I dati mostrano dunque che negli Stati Uniti la politica ha un ruolo determinante, con evidenti conseguenze sulle capacità del Paese di superare una profonda crisi economico-sanitaria e affrontare con decisione quella che ormai è a tutti gli effetti la quarta ondata di Covid-19.

Da leggo.it il 14 agosto 2021. Un totale di 74 persone a Martha's Vineyard sono risultate positive al Covid-19 dopo aver partecipato alla festa di compleanno dei 60 anni dell'ex presidente Barack Obama sabato scorso. Tuttavia, i funzionari sanitari notano che è ancora «troppo presto» per sapere se le centinaia di ospiti riuniti per l'evento «senza mascherina» abbiano contribuito all'aumento dei casi. «In questo momento non siamo a conoscenza di alcun caso collegato al partito Obama», ha detto a DailyMail.com l'agente sanitario di Tisbury e il portavoce del consiglio sanitario Maura Valley. «È un po' troppo presto e l'unico modo per saperlo è attraverso una tracciabilità completa dei contatti». Centinaia di persone però, hanno partecipato alla festa, volando da tutto il paese per ballare, mangiare e bere la notte nella sua tenuta a Edgartown. E in zona tutti sono convinti che il cluster sia collegato al grande evento. Nonostante l'insistenza dell'ex presidente, che ha cercato di invitare meno gente possibile  tranne la sua famiglia e gli amici intimi, «da 300 a 400 persone si sono presentate alla sua festa: Da Jay Z e Beyoncé a Chrissy Teigen e John Legend», ha detto a DailyMail un membro dello staff che lavorava all'evento. Molti degli ospiti sono arrivati in aereo con un jet privato e sono rimasti a Edgartown, dove è poi scoppiato il focolaio. Diverse celebrità, tra cui Bradley Cooper, si sono registrate all'Harbour View Hotel, dove sei membri dello staff sono risultati positivi. L'Harbour View era tra i tre nuovi cluster a Edgartown, insieme all'Alchemy Bistro & Bar con 14 casi e al ristorante Port Hunter con 5 positivi al virus, stando al report dei funzionari sanitari locali. Gli ultimi due ristoranti hanno temporaneamente chiuso, insieme a molti altri locali tra cui lo storico pub Newes from America, il Wharf Pub e il Covington Restaurant a Edgartown. Obama ha insistito sul fatto che stava tenendo i suoi ospiti e il personale ad un livello elevato di attenzione. È stato assunto un «coordinatore del coronavirus» per assicurarsi che tutto fosse in regola. I partecipanti sono stati tenuti a fare i test e a presentare i loro risultati per ottenere l'accesso all'evento.

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" l'8 giugno 2021. L' Italia che sorpassa gli Stati Uniti sulle vaccinazioni? Può sembrare una battuta, ma in realtà il quesito non è poi così ozioso ora che nel nostro Paese stanno arrivando molte dosi e il meccanismo di distribuzione è ormai ben oliato, mentre negli Stati Uniti, leader dei mondiali dei sieri immunizzanti, il problema si è capovolto: non è più di offerta ma di domanda di vaccini. Nelle somministrazioni quotidiane il sorpasso è già a portata di mano: l'Italia è passata in poche settimane da quasi zero a 600 mila inoculazioni quotidiane. Gli Stati Uniti (cinque volte e mezzo la popolazione dell'Italia) sono scesi dalle 3,4 milioni di dosi giornaliere di aprile a meno di un milione. E la prospettiva è quella di cali ulteriori perché l'abbondanza di vaccini che tanto abbiamo invidiato continua a essere invidiabile, ma ormai serve a poco ai fini del raggiungimento dell'immunità di gregge: il problema non è più quello di avere abbastanza dosi ma quello di trovare gente disposta a farsele inoculare. Bisogna fare campagne mirate andando a stanare uno per uno timorosi e scettici mentre non c' è molto da fare con i tanti oppositori ideologici dei vaccini (ce ne sono molti più che in Italia). Ciò porta gli esperti a ritenere che Joe Biden - dopo aver superato la prova dei suoi primi 100 giorni di presidenza addirittura raddoppiando le somministrazioni promesse - non potrà centrare l'obiettivo di vaccinare il 70% della popolazione entro la festa nazionale del 4 luglio. Mentre le proiezioni indicano che, continuando a questo ritmo, l'Italia potrebbe arrivare al 70% di vaccinati a fine agosto e il generale Figliuolo ieri ha detto al Parlamento che l'obiettivo del governo è quello di immunizzare entro settembre 54 milioni di cittadini, compresi i ragazzi di 12-15 anni: l'80% della popolazione. In altre parole l'Italia potrebbe arrivare all' immunità di gregge (anche se con la diffusione delle varianti più contagiose molti immunologi alzano la soglia dal 70 all' 80-85%) mentre questo obiettivo sembra fuori dalla portata degli Stati Uniti, visto il gran numero di persone che, soprattutto negli Stati dell'interno, ha deciso di non vaccinarsi.  Hanno fatto notizia i modi più bizzarri escogitati per incentivare le vaccinazioni - birre e ciambelle gratis, biglietti per eventi sportivi, lotterie, in West Virginia vaccinandosi si può anche vincere un fucile - ma tutto dipende dal rapido esaurimento degli americani disposti a vaccinarsi: almeno il 30% non vuole saperne. La prospettiva è quella di un'America a macchia di leopardo: Stati dove si arriverà all' immunità (il Maine è al 75% di vaccinati e anche le metropoli delle due coste, da New York a Los Angeles, dovrebbero centrare l'obiettivo) e altri nei quali, faticando a stare sopra il 60% di vaccinati, il virus continuerà a circolare in modo endemico, sia pure depotenziato e più controllabile, senza gravi emergenze ospedaliere.

Quella pandemia fantasma nascosta dai liberal dem. Alessandro Ferro e Roberto Vivaldelli il 20 Maggio 2021 su Il Giornale. Con l'aiuto di un politologo abbiamo cercato di mettere in luce come il Covid colpisca anche la maggior parte della popolazione ispanica degli Stati Uniti pur in secondo piano rispetto agli afroamericani. Il Covid-19 ha colpito duramente l'America nera, con il virus che negli Stati Uniti ha ucciso gli afroamericani ad un tasso doppio rispetto ai bianchi americani. Ma in realtà tutte le minoranze, ad eccezione degli asiatici americani, hanno visto i risultati peggiori rispetto ai bianchi durante la pandemia di Coronavirus. Un caso particolare, che andremo a vedere, riguarda gli ispanici di cui si è parlato pochissimo.

Quali sono i numeri. In questa triste classifica, gli afroamericani hanno il primato con un tasso di mortalità che, aggiornato al marzo 2021 da Covidtracking, di 178 persone ogni 100mila; al secondo posto ci sono gli indiani americani o nativi dell'Alaska con 172 morti ogni 100mila; in terza posizione troviamo gli ispanici o latini con 154 decessi ogni 100mila. A seguire i nativi hawaiani o altri isolani del Pacifico (144 ogni 100mila), poi i bianchi americani (124 ogni 100mila), altro (97 ogni 100mila) ed, i meno colpiti, sono gli asiatici americani con 95 morti ogni 100mila. Questi dati sono integrati da ricerche ancora più approfondite pubblicate sul Washington Post: prendendo in esame gli uomini sulla sessantina, i neri muoiono del 37% in più rispetto ai bianchi, un'enormità.

Lo strano "caso" degli ispanici. Si parla della gente di colore ma molto meno degli ispanici, cioé messicani e sudamericani che da anni o generazioni vivono in condizioni precarie negli Stati Uniti. Anche per loro il Covid significa essere più a rischio di altri, morti frequenti e mancanza di cure. Già durante la prima ondata si era capito che il virus stesse colpendo in modo sproporzionato non soltanto gli afroamericani ma anche gli ispanici: gli ultimi aggiornamenti di marzo mostrano come sia morta una persona ogni 680 (o 143,7 morti ogni 100mila) di questa etnia, un numero altissimo. Come riporta sempre il Washington Post, i numeri dimostrano come il tasso di mortalità ispanico sia maggiore del 16% rispetto ai bianchi. Inoltre, un rapporto pubblicato dal New York Times dimostra come, addirittura, i latinos siano stati a lungo in testa anche alla classifica per casi di coronavirus ogni 10.000 persone (73), davanti a neri (62) e bianchi (23). Numeri confermati anche dal Cdc che ha dimostrato come neri e ispanici sono stati danneggiati dal virus a tassi più elevati degli altri. I residenti latinoamericani e afroamericani degli Stati Uniti hanno una probabilità tre volte maggiore di contrarre l'infezione rispetto ai loro vicini bianchi, secondo i nuovi dati, che forniscono caratteristiche dettagliate di 640mila infezioni rilevate in quasi mille contee degli Stati Uniti. E i neri e i latini hanno quasi il doppio delle probabilità di morire a causa del virus rispetto ai bianchi. Ci si aspettava che gli appartenenti alle minoranze fossero più di frequente ricoverati in ospedale ma non è andata così. "Il vero problema degli Stati Uniti è che non esiste una sanità pubblica, c'è soltanto una sanità privata che, ovviamente, sconta il fatto che ci siano alcune categorie di persone, tendenzialmente quelle più ricche e benestanti, che versano dei contributi per poi accedere alla sanità. Questo, di riflesso, determina il fatto che in situazioni pandemiche ma anche in altre più normali, una grossa fetta della popolazione, in particolare quella nera e quella ispanica, obbliga loro a sostenere spese di cui non riescono a farsi carico", ha dichiarato in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Paolo Natale, politologo del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell'Università di Milano.

"Latino-americani al secondo posto per decessi". Infatti, come ci spiega il docente, la mortalità tra la popolazione nera ed ispanica è sempre più alta di quella bianca esattamente per questo motivo. "E poi, in situazioni come questa in cui le cure sono essenziali per mantenere in vita delle persone, vedi terapie intensive e tutto il resto che ormai sappiamo, ovviamente la penalizzazione maggiore colpisce coloro i quali non hanno accesso alla sanità e devono ricorrere a risorse proprie per farsi curare oppure rimangono in casa senza cure. La tendenza generale che ho letto anch'io è che la popolazione nera si cura a casa contagiando, di fatto, l'intera famiglia e da qui partono i focolai più importanti a livello familiare". Ma la stessa cosa vale anche per gli ispanici o latino-americani che dir si voglia, i quali hanno sofferto e soffrono la pandemia da Covid-19 e la classifica è lì a dimostrarlo. "Quei numeri sono attendibili - afferma Natale - nella classifica per mortalità in prima posizione ci sono i neri americani, in seconda posizione gli ispanici o latino-americani che dir si voglia, poi gli indigeni, gli abitanti delle isole e quelli meno colpiti sono gli asiatici e l'etnia bianca, quelli in percentualmente meno colpiti". Il problema pandemico si è instaurato su una situazione di mancanza di risorse economiche e sanitarie per le etnie più povere degli Stati Uniti ed era qualcosa che potevamo aspettarci. È ovvio, purtroppo, che ci fosse un maggior rischio di mortalità in queste categorie.

Così i dem hanno dimenticato le altre minoranze. Eppure per quasi tutto il 2020 associazioni vicine ai democratici, giornali, politici, commentatori ed editorialisti hanno denunciato a più riprese il fatto che la minoranza più colpita dalla pandemia da Covid-19 - in particolare durante la prima ondata, gestita dall'amministrazione Trump - fosse quella afroamericana. Una rappresentazione parziale sposata da movimenti come Black Lives Matter, che peraltro ha organizzato manifestazioni nei più svariati momenti, con buona pace del distanziamento sociale e delle restrizioni anti-Covid. E che ha infiammato il dibattito pubblico per tutta l'estate fino alle elezioni presidenziali vinte dal dem Joe Biden. Ora, come abbiamo visto, i dati sono molto più complessi di quanto una lettura parziale potesse dar conto, ma ormai nessuno ne parla più: l'unica minoranza colpita dal Covid nell’immaginario collettivo è rimasta quella afroamericana, mentre le altre sono state praticamente cancellate dal dibattito pubblico. Una tesi, quella della pandemia da coronavirus che colpisce di più gli afroamericani e alimenta il “razzismo sistemico”, portata avanti e sfruttata abilmente dai democratici in chiave elettorale, probabilmente perché altre minoranze presenti negli Usa - come i latinos in Florida e Texasm - sono di base più conservatrici e, non a caso, hanno votato alle ultime elezioni presidenziali per Donald Trump più di quanto non abbiano fatto nel 2016, e quindi meno suscettibili alla propaganda avanzata dai liberal sulle conseguenze della pandemia.

"Trump? Colpe limitate". Come riportato da Focus, tra l'altro, l'analisi delle cartelle mediche di 11.547 pazienti eseguite dal Langone Health system dell'Università di New York tra marzo e aprile 2020 ha rivelato che ispanici e afroamericani sono più spesso contagiati dal Covid ma, per i motivi sanitari prima spiegati, non venivano e non vengono ricoverati in ospedale più di tanto. "Le colpe sono state attribuite a Trump per la sua negligenza nel fronteggiare immediatamente la pandemia e nel cercare di dire che in realtà non fosse così grave: le colpe le ha ma il problema si instaura in una situazione che, di base, è già parecchio precaria per la popolazione più debole dal punto di vista socio-sanitario con lavori precari e con assistenza sanitaria molto più debole e meno diffusa", ci ha spiegato il politologo. La pandemia non ha fatto che accentuare le diseguaglianze presenti nella società americana. Quando ci fu "l'Obama Care" è accaduto qualcosa che per noi è abbastanza stravagante perché negli Stati Uniti, paradossalmente, la maggioranza della popolazione era contraria in quanto, avendo tradizioni più puritane, affermava che se qualcuno non aveva il lavoro era giusto che non avesse la sanità pubblica che spetta soltanto a coloro i quali sono produttivi. "Erano, quindi, contrari ad una misura che per noi sarebbe stata giudicata come propaganda elettorale - ci dice Natale - Questa idea deriva anche un po' dalla tradizione religiosa come in Germania per i calvinisti: se tu sei bravo, allora sei amato anche da Dio, trovi lavoro e trovi la copertura assicurativa; al contrario non ottieni lavoro e le altre cose. È come se prevalessero le capacità individuali rispetto al bene collettivo".

La disparità degli Stati Uniti. Trump non ha una colpa specifica ma, come fece Johnson in Inghilterra, ha sottovalutato un po' il fenomeno Covid e non è riuscito a correre ai ripari immediatamente, è stata soltanto una colpa iniziale. "Dopodiché, l'inadeguatezza del sistema sanitario si è espansa in maniera differente a seconda delle popolazioni e delle razze perché avevano una situazione di base parecchio differente". Le ragioni di questo diverso impatto sono, quindi, puramente socio-economiche e legate alla maggiore esposizione al virus dei cittadini appartenenti a minoranze etniche: disuguaglianze strutturali che avrebbero potuto essere colmate con interventi politici ma che invece si sono fatte più profonde prima della pandemia, causando un numero abnorme di morti che si sarebbero potute evitare. Anche adesso che la vaccinazione procede spedita, tra ispanici e afroamericani esiste un aumentato rischio di contagio dovuto alla difficoltà di mantenere le distanze in case, mezzi pubblici e luoghi di lavoro sovraffollati. E si continua a morire, silenziosamente, senza che venga fatta veramente qualcosa.

(ANSA il 25 marzo 2021) - NEW YORK, 24 MAR - L'amministrazione di Andrew Cuomo ha concesso un accesso speciale e privilegiato alla famiglia del governatore e ad altre persone influenti ai test per il Covid-19 quando questi ancora scarseggiavano all'inizio della pandemia. Lo riporta il New York Times citando alcune fonti, secondo le quali hanno beneficiato dei test facili il fratello del governatore, la star della Cnn Chris Cuomo, e la mamma di Cuomo, Matilda. Per Cuomo si apre così anche lo scandalo dei test, dopo quello delle accuse di molestie sessuali e dei numeri truccati sulle morti per coronavirus nelle case di cura.

Rebecca Falconer per axios.com il 25 marzo 2021. Il governatore democratico di New York Andrew Cuomo avrebbe dato ai membri della sua famiglia, tra cui il conduttore della CNN Chris Cuomo, un "accesso speciale" ai test COVID-19 somministrati dallo stato all'inizio del 2020. Perché è importante: I funzionari statali non possono usare le loro posizioni per ottenere privilegi per se stessi o per gli altri secondo la costituzione di New York. L'ufficio di Cuomo ha respinto le accuse in una dichiarazione via e-mail, con il consigliere anziano Rich Azzopardi che dice: "Dovremmo evitare gli sforzi insinceri di riscrivere il passato". Si presume che "alti funzionari della sanità statale" abbiano condotto i test in un momento in cui "la gravità del virus stava ancora diventando chiara al grande pubblico e i test non erano ampiamente disponibili per la maggior parte delle persone", secondo il New York Times. È l'ultima di una serie di accuse contro il governatore, che sta affrontando indagini su accuse di cattiva condotta sessuale e sulla gestione delle morti nelle case di riposo dello Stato.

Per la cronaca: Cuomo nega tutte le precedenti accuse e ha respinto gli appelli a dimettersi, arrivati anche dalle fila del suo partito.

Le ultime accuse: Chris Cuomo, che è risultato positivo al coronavirus lo scorso marzo, avrebbe "beneficiato del programma di test prioritari", secondo il Washington Post, che cita persone a conoscenza della questione.

Al conduttore della CNN "è stato effettuato un tampone da un medico del Dipartimento della Salute di New York, che ha visitato la sua casa negli Hamptons per raccogliere campioni da lui e dalla sua famiglia", ha riferito il Post. "Lo stesso medico, Eleanor Adams, ora consigliere di punta del commissario di stato per la salute, è stato arruolato anche per testare diversi altri membri della famiglia Cuomo", secondo quanto riferisce il Post.

Cosa dicono: Il portavoce della CNN Matt Dornic, in una dichiarazione inviata via email, ha detto: "Generalmente non siamo coinvolti nelle decisioni mediche dei nostri dipendenti. "Tuttavia, non è sorprendente che nei primi giorni di una pandemia globale, quando Chris stava mostrando i sintomi ed era preoccupato per la possibile diffusione, si sia rivolto a chiunque potesse per consigli e assistenza, come farebbe qualsiasi essere umano". L'ufficio di Cuomo non ha affrontato direttamente le accuse specifiche. Ma Azzopardi ha detto che l'amministrazione Cuomo ha fatto tutto il necessario " e oltre per far testare le persone" nei primi giorni della pandemia. Azzopardi ha detto che questo includeva "in alcuni casi andare a casa della gente, porta a porta ... per prendere campioni da coloro che si credeva fossero stati esposti a COVID al fine di identificare i casi e prevenirne altri". "Tra coloro che abbiamo assistito c'erano membri del pubblico in generale, tra cui legislatori, giornalisti, lavoratori statali e le loro famiglie che temevano di aver contratto il virus e di avere la capacità di diffonderlo ulteriormente", ha detto Azzopardi. C'era "una forte enfasi sulla ricerca di contatti", secondo Azzopardi. Il portavoce del N.Y. State Department of Health, Gary Holmes, ha commentato in una dichiarazione via e-mail: "State chiedendo a professionisti che hanno giurato di proteggere la privacy di un paziente di violare quel giuramento e compromettere la loro integrità. "Più di 43 milioni di newyorkesi sono stati testati. Abbiamo costruito un'infrastruttura di test leader a livello nazionale per garantire che chiunque abbia bisogno di un test possa ottenerlo.  Quel lavoro continua oggi".

Massimo Gaggi per corriere.it il 23 febbraio 2021. Ce l’ho fatta: alle due di notte, tra sabato e domenica, sotto una tenda allestita nel parcheggio di un ospedale di Staten Island, il quartiere di New York situato al di là della baia, di fronte all’oceano, ho ricevuto la mia prima dose di vaccino Moderna. Per arrivarci ho dovuto affittare un’auto, raggiungere un quartiere isolato, pressoché privo di trasporti pubblici, attraversare il Verrazzano Bridge il ponte dal quale ogni novembre parte la maratona di New York. Non mi lamento di certo. Sono un fortunato rispetto ai tantissimi nel mondo e anche in Italia per i quali il siero anti Covid è ancora un miraggio a oltre due mesi dall’inizio delle somministrazioni (primo vaccinato Usa il 16 dicembre). Ma anche nell’America invidiata (e anche detestata) perché ha più dosi degli altri Paesi avendo in casa i principali produttori di vaccini, ottenere un appuntamento è un’impresa assai complicata anche per uno come me che ha da tempo i requisiti che lo rendono eligibile per la sospirata puntura. E anche, va detto, i vantaggi di essere bianco: benefici non codificati eppure reali, visti i tassi di vaccinazione finora raggiunti, molto più bassi per gli afroamericani e gli ispanici (come ho raccontato sul Corriere qualche giorno fa). In America ogni Stato fa a modo suo e, in assenza di organizzazioni centralizzate e sistemi di supervisione, si passano ore a cercare di prenotare una vaccinazione sui siti dello Stato, della città, delle farmacie, degli ospedali e sulle piattaforme come Turbovax che mettono insieme gli appuntamenti che ognuno dei centri di vaccinazione mette in palio giorno per giorno, sulla base delle dosi ricevute. Appuntamenti dati col contagocce: la mancanza di supervisione significa, infatti, anche che Stati e città non sanno in anticipo quante dosi verranno inviate loro dal governo federale. Così, nell’incertezza, tengono milioni di fiale bloccate nei frigoriferi per essere certi di avere, dopo tre settimane, la seconda dose da somministrare ai vaccinati. Dopo giorni di tentativi online — giorni e soprattutto notti quando la concorrenza degli altri aspiranti vaccinati è minore — riesco ad ottenere un appuntamento: il 12 febbraio al Jacobi Medical Center, un ospedale nel nord del Bronx. Studio il percorso, riempio tutti i moduli digitali che certificano il mio diritto alla somministrazione (età, patologie, residenza a New York), preparo i documenti ma, un’ora prima della prevista somministrazione, mi arriva una telefonata: «Abbiamo esaurito i vaccini, resti a casa. La chiameremo quando avremo le nuove forniture». Non si fa più vivo nessuno. Ricomincia la caccia, ma il numero dei follower sui siti di ricerca cresce a vista d’occhio e con essi la concorrenza. Le discussioni su Twitter sono feroci: Turbovax viene accusato di discriminazioni nei confronti degli anziani, meno rapidi dei giovani nel compilare i moduli digitali quando un ospedale o una farmacia mettono in palio qualche slot. Come per la vendita online dei biglietti di un concerto rock molto ambito, vince chi è più rapido nel digitare. Senti di amici che hanno avuto successo, provi e riprovi senza risultato. Tutto esaurito: farmacie, ospedali, siti municipali, quelli allestiti in stadi e palasport. Anche nel sito dello Stato di New York c’è il tutto esaurito. Salvo che nell’ambulatorio di Potsdam. Sembra un miraggio, ma un rapido controllo su Google Map aiuta a capire il perché di questa disponibilità: Potsdam è una cittadina a quasi sei ore d’auto da New York, oltre i monti Adirondacks, al confine col Canada. Per un momento penso di andare, ma le incognite sono troppe: strade di montagna ghiacciate, il rischio di arrivare e scoprire che il vaccino è esaurito anche qui. E poi bisognerà tornare fra tre settimane per la seconda dose. Alla fine si apre uno spiraglio notturno a Staten Island, in uno dei centro aperti 24 ore su 24. Mi è andata bene: l’America vaccina molto (1,8 milioni di cittadini ogni giorno, 61 milioni che alla fine della scorsa settimana avevano ricevuto almeno la prima dose su 330 milioni di abitanti), ma la frammentazione del sistema costa cara anche su questo fronte: per settimane milioni di dosi sono rimaste inutilizzate, accantonate per le case di riposo sulla base di calcoli sbagliati (ci si basava sui posti letto disponibili senza considerare quelli rimasti vuoti per la morte degli ospiti o perché molti anziani hanno lasciato gli ospizi tornando a vivere dai parenti). E poi c’è stato l’effetto dell’eccezionale ondata di freddo della scorsa settimana con mezza America paralizzata da temperature polari e duemila centri di vaccinazione rimasti senza energia elettrica. Ma conseguenze pesanti per le vaccinazioni ce ne sono state anche dove il gelo non ha colpito duramente, come a New York o in California: FedEx e UPS, i due spedizionieri ai quali è stata affidata la distribuzione del vaccino, smistano ogni notte tutto il loro traffico da due aeroporti nel centro del Paese — Memphis in Tennesse e Louisville in Kentucky — chiusi per giorni a causa del gelo. A New York 35 mila appuntamenti sono stati cancellati e sabato il sindaco DeBlasio ha avvertito che la scorta dei vaccini si era ridotta a meno di mille dosi: sono stato fortunato.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 22 febbraio 2021. Mezzo milione di morti. Il Covid-19 continua a seminare lutti negli Stati Uniti, anche se la curva dei decessi è in discesa: -35% negli ultimi 14 giorni. Questa triste contabilità ha sempre diverse chiavi di lettura. La media settimanale delle vittime è pari a circa 1.900 persone: in caduta rispetto al picco di un mese fa, ma è ancora più o meno allo stesso livello dell' aprile 2020, uno dei momenti peggiori della pandemia in America. L' opinione pubblica, comunque, si ferma a riflettere. Nel marzo del 2020 Anthony Fauci e Deborah Birx, allora a capo della task force voluta da Donald Trump, avevano previsto un totale di morti tra i 100 e i 240 mila, «anche se adotteremo tutte le cautele necessarie». Oggi i giornali cercano di spiegare la dimensione di una catastrofe storica. Il New York Times osserva che non si arriva a questa somma neanche mettendo insieme i caduti dei due conflitti mondiali e della guerra in Vietnam. Il Washington Post pubblica una cartina geografica della Costa Est: «Se 500 mila persone viaggiassero in pullman si formerebbe una colonna ininterrotta da New York a Philadelphia: 94,7 miglia». Ci sono anche altri dati che raccontano la storia di questa catastrofe: per esempio la vita cancellata di 163 mila anziani, ospiti delle case di riposo. Il presidente Joe Biden prova a infondere fiducia: «Siamo vicini alla svolta, ad agosto staremo molto meglio». Anche la media dei contagi è in flessione: circa 66 mila al giorno, il 44% in meno rispetto alle ultime due settimane. Oltre 28 milioni di positivi dal febbraio 2020. Fauci, però, resta prudente: dobbiamo fare presto per non farci sorprendere dalle varianti, in particolare quella sudafricana. Dal territorio arrivano segnali contraddittori. I portavoce di Biden fanno notare come il ritmo delle iniezioni stia prendendo velocità, con una media di 1,7 milioni al giorno. Gli americani che hanno ricevuto una dose sono ora 42,8 milioni; 17,9 milioni hanno ottenuto la seconda. Biden ha promesso di toccare quota 100 milioni entro la fine di aprile, senza chiarire, però, se si riferisca solo al primo round o al ciclo completo. Le tempeste di neve e l'ondata di maltempo hanno rallentato la distribuzione. Ma il vero problema è che le forniture procedono a strappi. Sulla carta il siero anti-Covid scorre a fiumi. L' 11 febbraio scorso Biden ha assicurato che saranno disponibili 600 milioni di dosi «entro luglio». Giovedì 18 febbraio, Albert Bourla, amministratore delegato di Pfizer, ha garantito che l'azienda raddoppierà la sua capacità di produzione «nelle prossime settimane», sfornando 10 milioni di confezioni ogni sette giorni. Ma il problema è proprio questo. La macchina delle vaccinazioni rischia di girare a scartamento ridotto per almeno un mese, un mese e mezzo. Nelle metropoli, da New York a Los Angeles, a Washington, i laboratori, i centri medici sono stati costretti a cancellare migliaia di prenotazioni. Il governo Biden ha mobilitato la Fema, cioè la protezione civile federale, l' esercito. Si lavora per raggiungere anche i territori più remoti, coinvolgendo la rete delle grandi catene farmaceutiche e predisponendo speciali «unità mobili». Ma per il vero cambio di passo manca il flusso continuo della materia prima, il vaccino. Entro una decina di giorni dovrebbe arrivare il via libera della Food and Drug administration al prodotto della Johnson & Johnson. Sarebbero altri 100 milioni di dosi solo per gli americani, da consegnare, fa sapere la società, «entro la metà dell' anno».

New York, Andrew Cuomo è nella bufera: bugie sui morti Covid. La principale collaboratrice di Andrew Cuomo ha ammesso di aver insabbiato i numeri reali dei morti per Covid-19 nelle case di riposo nello Stato di New York. Democratici e repubblicani ora chiedono un'indagine federale. Roberto Vivaldelli, Lunedì 15/02/2021 su Il Giornale. Da "statista" a "bugiardo" il passo è breve. Andrew Cuomo, governatore dello Stato di New York ed illustre esponente del Partito democratico americano, è nella bufera. Nei giorni scorsi il New York Post ha diffuso un filmato di una videoconferenza con esponenti democratici durante la quale Melissa DeRosa, principale assistente di Cuomo, ammette che i suoi uffici hanno nascosto il vero numero dei morti da Covid-19 delle case di riposo: circa 13 mila anziché 9.000 temendo strumentalizzazioni da parte dei repubblicani e dell'ex Presidente Usa Donald Trump. Temevamo, spiega De Rosa, che quei numeri sarebbero stati "usati contro di noi" dai procuratori federali e di favorire la campagna elettorale del tycoon. Un'ammissione sbalorditiva che, naturalmente, ha provocato un vero e proprio pandemio, con accuse di insabbiamento che provengono da tutte le parti e in maniera bipartisan. A chiedere un'indagine federale è, ad esempio, il deputato democratico di New York, Antonio Delgado. "La politica non dovrebbe mai venire prima della vita delle persone", ha twittato Delgado , che rappresenta la Valle dell'Hudson. "Le osservazioni del Segretario del Governatore sono più che preoccupanti e richiedono un'indagine completa. Migliaia di newyorkesi hanno perso un proprio familiare nelle case di cura a causa del Covid-19, un dolore aggravato dall'incapacità di confortare i propri cari nelle ultime ore", ha continuato Delgado in un secondo tweet. "Meritano risposte e responsabilità". Venerdì scorso, 14 senatori dem dello stato hanno chiesto la revoca dei poteri di emergenza di Cuomo, richiesta avanzata anche dai senatori repubblicani che hanno invocato una seduta speciale. Come ricorda il Corriere della Sera, lo scorso marzo, più che un governatore, Cuomo sembrava l’angelo custode dell’America spaventata dal virus e i media lo dipingevano come un grande statista. Un gigante di fronte a un presidente - Donald Trump - che prendeva l’epidemia sottogamba. Con le sue esaurienti conferenze stampa quotidiane il governatore dem divenne quasi un simbolo della buona politica, quella che seguiva la "scienza", a differenza dei "negazionisti" come The Donald. Tant'è che molti lo avrebbero voluto candidato alla Casa Bianca al posto di Joe Biden. Ma quella narrazione ora si scontra con la realtà. Secondo il deputato Gop Matt Gaetz, fedelissimo di Donald Trump, la colpa è proprio dei media che hanno ampiamente sopravvalutato le capacità di Andrew Cuomo ed esaltato la sua figura quando la realtà era ben diversa: "I media sono assolutamente colpevoli di aver promosso questa mitologia di Cuomo che è smentita dai fatti, fatti che continuano a diventare sempre più brutti, sia per il governatore di New York che per i media" ha sottolineato Gaetz.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2021. Da paterno protettore e umanissimo consolatore dell'America colpita da un virus invisibile e micidiale a leader inaffidabile che abusa dei suoi poteri e nasconde la verità ai cittadini su una diffusione mortale del Covid-19 nelle case di riposo. E adesso Andrew Cuomo deve fronteggiare non solo gli attacchi dei repubblicani che chiedono le sue dimissioni immediate da governatore dello Stato di New York (minacciano addirittura una procedura di impeachment), ma anche le dure critiche dei suoi compagni di partito: 13 senatori democratici lo accusano di aver tradito la fiducia dei cittadini e sono decisi a votare la revoca dei poteri d'emergenza per gli interventi contro la pandemia che il Parlamento dello Stato gli aveva concesso a inizio crisi. Marzo dello scorso anno: più che un governatore, Cuomo sembrava l'angelo custode dell'America spaventata dal virus. Un gigante di fronte a un presidente che prendeva l'epidemia sottogamba, con cinismo e dilettantismo. Con le sue esaurienti conferenze stampa quotidiane divenne il confessore di un popolo, l'ostinato difensore delle ragioni della scienza contro un Donald Trump che trattava il coronavirus come un problema minore ingigantito dai suoi avversari a fini politici. Mentre Biden veleggiava, ormai, verso la nomination democratica, mezza America avrebbe voluto salire sulla macchina del tempo e tornare indietro per poter designare Cuomo come sfidante di Trump. Il quale, sorpreso dall'improvvisa popolarità del governatore, cercò di tagliargli la strada mettendosi anche lui a fare conferenze stampa quotidiane sul virus. Un anno dopo, ecco la metamorfosi di Andrew Cuomo da santo protettore a demonio irascibile. Dapprima, criticato da più parti per gli insuccessi recenti della sua strategia di contenimento del virus e per la cattiva organizzazione della campagna vaccinale, se l'è presa con tutti: stampa, dirigenti sanitari dello Stato (andati via in massa, dimissionari o licenziati) e perfino con quegli scienziati che erano il suo faro: «Se quanto parlo degli esperti vi do la sensazione che non credo in loro, be', è proprio così: non credo in loro». Sortita sorprendente che si è rivelata solo l'inizio di una caduta a precipizio: l'errore madornale di un attacco ai suoi stessi elettori («Se aveste indossato le mascherine e rispettato il distanziamento sociale, tutto questo non sarebbe successo: non puoi mangiare la cheesecake e pretendere di dimagrire») poi le repliche dure a Letitia James, attorney general (il procuratore generale di New York) del suo stesso governo che aveva reso nota una forte sottovalutazione nel calcolo dei residenti delle case di riposo dello Stato morti per il coronavirus. Infine il colpo più micidiale assestato, con una sortita maldestra, addirittura dalla sua segretaria personale, Melissa DeRosa. Il New York Post ha pubblicato il filmato di una videoconferenza con esponenti democratici durante la quale DeRosa ammette che i suoi uffici hanno nascosto il vero numero dei morti da Covid delle case di riposo (15 mila anziché 9.000 se si contano anche quelli deceduti in ospedale), giustificandosi col timore di una strumentalizzazione politica da parte dei repubblicani e dello stesso Donald Trump. Immediata la tempesta politica, non arginata dal tentativo di ridimensionare il caso con un'altra dichiarazione: «Non abbiamo mai mentito - ha detto DeRosa - ma, stretti tra richieste del Parlamento statale, del ministero della Giustizia e dalla necessità di fronteggiare la seconda ondata della pandemia, ci sono stati ritardi». Severa («la verità non va mai nascosta») Andrea Stewar-Cousins, capo della maggioranza democratica del Senato di New York mentre il deputato repubblicano Tom Reed chiede addirittura l'arresto immediato della segretaria di Cuomo che accusa di aver commesso un reato penale.

Da “il Giornale” il 12 febbraio 2021. In Usa decine di migliaia di persone sono morte di Covid19 a causa della gestione scellerata del presidente Donald Trump. Un giudizio senza sconti quello emesso dalla Lancet Commission on Public Policy and Health in the Trump Era pubblicato sulla rivista The Lancet mentre gli Stati Uniti stanno per segnare il triste record di mezzo milione di morti per Covid. «Trump ha tagliato tasse per trilioni di dollari alle fasce più abbienti creando un buco di bilancio, per giustificare il quale ha a sua volta tagliato la spesa sociale e quella sanitaria», scrive The Lancet. Gli esperti hanno anche sottolineato la fragilità e il degrado in cui versava il sistema sanitario americano. La spesa pubblica per la salute tra il 2002 e il 2009 è scesa dal 3,21 al 2,45 per cento, circa la metà di quella in Canada e nel Regno Unito. Per determinare quante vite si sarebbero potute salvare, la commissione ha paragonato il tasso di mortalità negli Usa con la media di quello di altri Paesi simili del G7, come Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone e Gran Bretagna. Si sarebbe potuto evitare dunque il 40 per cento delle vittime. Sotto accusa anche il tentativo di Trump di abrogare la riforma sanitaria di Obama. Tentativo fallito ma che ha comunque indebolito la copertura e aumentato il numero di persone non assicurate di circa 3 milioni di unità accelerando la privatizzazione dei programmi sanitari del governo. «Il disprezzo per la scienza e i tagli ai programmi sanitari globali e alle agenzie di sanità pubblica», conclude The Lancet hanno causato decine di migliaia di morti inutili.

Michele Galvani per ilmessaggero.it il 12 febbraio 2021. Donald Trump ha avuto il Covid-19 ed è guarito. E questo si sapeva. Ma non era noto che la gravità della sua malattia fosse «stata tenuta nascosta» dal suo staff e chiaramente dalla famiglia: l'ex presidente aveva infatti livelli di ossigeno nel sangue «estremamente bassi e un problema polmonare associato alla polmonite causata dal coronavirus», secondo quando riportato da quattro persone che avevano familiarità con la sua condizione. In sostanza, «ha rischiato di morire». La sua prognosi divenne così preoccupante, prima di essere portato al “Walter Reed National Military Medical Center” lo scorso ottobre, che i funzionari credevano che «avrebbe dovuto essere messo in ventilazione». La notizia è riportata in esclusiva dal “New York Times”, che snocciola tutta la storia tappa per tappa, con dichiarazioni di fonti che - chiaramente - preferiscono restare anonime. Le fonti vicine a Trump hanno detto che erano stati scoperti degli «infiltrati polmonari, che si verificano quando i polmoni sono infiammati e contengono sostanze come fluidi o batteri». La loro presenza, soprattutto quando un paziente mostra altri sintomi, può essere un segno di un caso acuto della malattia. A quel punto, il livello di ossigeno nel sangue di Trump è stato motivo di estrema preoccupazione, perché era sceso fino al valore 80. La malattia è considerata grave quando il livello di ossigeno nel sangue scende al di sotto dei 90. In precedenza era stato sostenuto che Trump avesse avuto problemi di respirazione e febbre il 2 ottobre, il giorno in cui è stato portato in ospedale, e il tipo di trattamento che ha ricevuto indicava che le sue condizioni fossero gravi. Ma non così gravi. I nuovi dettagli sulle sue condizioni e sullo sforzo all'interno della Casa Bianca per ottenere un accesso speciale a un farmaco non approvato per combattere il virus, aiutano a ricostruire uno degli episodi più terribili della presidenza di Trump. Le nuove rivelazioni  sul suo virus sottolineano anche la natura limitata e talvolta fuorviante delle informazioni divulgate all'epoca della sua presidenza. Trump non voleva essere portato dalla Casa Bianca al Walter Reed, cedendo solo quando gli assistenti gli hanno detto che poteva «morire da solo» o rischiare di aspettare fino a quando i servizi segreti statunitensi non fossero stati costretti a portarlo fuori se si fosse ammalato», raccontano due persone vicine a lui. Mentre Trump era ricoverato in ospedale al Walter Reed, il suo team medico ha cercato di «minimizzare la gravità della situazione, dicendo che era in ripresa». A 74 anni e in sovrappeso, era invece «a rischio di malattie gravi e gli è stato prescritto un ciclo di trattamenti aggressivi». Poi, ha lasciato l'ospedale dopo tre giorni. Ci sono poi ancora domande senza risposta sul fatto che Trump fosse già malato di Covid-19 quando ha partecipato a un dibattito presidenziale il 29 settembre, solo due giorni prima dell'annuncio pubblico che gli era stata diagnosticata la malattia e tre giorni prima del suo peggioramento. Il medico di Trump, il dottor Sean P. Conley, «ha ripetutamente minimizzato le condizioni dell'ex presidente durante la sua malattia». Ma quando gli è stato chiesto se c'erano prove di polmonite o danni al tessuto, ha risposto solo che c'erano «risultati attesi, ma niente di grande preoccupazione clinica». Il dottor Conley ha anche fatto sapere che il livello di ossigeno di Trump era al 93%, non era mai sceso ai valori bassi di 80». Trump invece, ha avuto serissimi problemi a respirare alla Casa Bianca. Gli è stato somministrato due volte ossigeno prima di essere portato al Walter Reed. Mentre era ancora alla Casa Bianca, ha ricevuto un farmaco sviluppato dalla società di biotecnologie Regeneron Pharmaceuticals. Il cocktail di anticorpi - non ampiamente disponibile in quel momento - aiuta le persone infettate dal virus a combatterlo. E ha ricevuto un corso di cinque giorni del famoso farmaco antivirale remdesivir. Gli esperti medici dell'epoca credevano che il suo corso di terapia farmacologica fosse un chiaro segnale di problemi significativi legati ai suoi polmoni. In una conferenza stampa fuori dall'ospedale quel fine settimana, il dottor Conley ha offerto dati che facevano sembrare che il suo paziente si stesse riprendendo rapidamente. Ha specificato che Trump è andato bene con un test spirometrico, che misura la capacità polmonare. «Sta andando al massimo», disse Conley. «Sta andando alla grande». Quando Mark Meadows, il capo dello staff della Casa Bianca, ha cercato di dire di nascosto ai giornalisti che la situazione era più grave, Trump «è esploso di rabbia», secondo le persone che hanno parlato con lui. Solo il4 ottobre, il dottor Conley ammise di aver fornito una versione rosea delle condizioni del signor Trump.  Il team medico parlò di "febbre alta" di somministrazione di ossigeno. Sabato il livello di ossigeno di Trump era sceso di nuovo. Trump sembrava ancora alle prese con la malattia quando è tornato alla Casa Bianca, dove si è piazzato su un balcone in una scena coreografata, strappandosi la mascherina e salutando il suo elicottero. I medici dell'epoca notarono come usasse i muscoli del collo per aiutarsi a respirare, un classico segnale che i polmoni di non stanno assorbendo abbastanza ossigeno. Nelle settimane successive al suo ricovero in ospedale, l'ex presidente era convinto che il trattamento Regeneron gli avesse salvato la vita, dicendo agli assistenti: «Sono la prova che funziona». Quella frase è diventata uno scherzo tra i massimi funzionari sanitari, che si chiedevano se qualcuno avesse intenzione di dire a Trump che era in realtà un risultato di sperimentazione clinica fallita per Regeneron, poiché l'obiettivo è impedire alle persone di essere ricoverate in ospedale.

Articolo di “The Guardian”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” l'1 febbraio 2021. Con più di 50 piani di vaccinazione unici in tutti gli Stati Uniti, l'accesso al vaccino Covid-19 dipende in gran parte da dove si vive. In Wisconsin, gli allevatori di visoni sono considerati per la prossima fase di priorità del vaccino. Nel New Jersey, i fumatori possono avere accesso prioritario al vaccino. In Colorado, i giornalisti rientrano nella categoria dei lavoratori in prima linea. Questo complesso sistema ha dato origine a un nuovo tipo di viaggio pandemico - soprannominato "turismo del vaccino" - in cui le persone attraversano i confini dello stato o addirittura del paese per ottenere un accesso anticipato. Senza un protocollo standardizzato, e a causa della frattura del sistema sanitario americano, decine, se non centinaia, di migliaia di persone hanno ottenuto i vaccini fuori dai loro stati di origine – scrive The Guardian. "Vengono dal Canada, dal Brasile, da New York, dalla Georgia, gente di Minneapolis è venuta qui. Alcuni miei amici a San Petersburg [Florida] mi hanno detto che erano in fila per la vaccinazione con gente del Venezuela", ha detto il dottor Jay Wolfson, professore di salute pubblica alla University of South Florida. Egli accredita le pubblicità delle agenzie di viaggio internazionali per una parte dell'afflusso turistico del vaccino. "Ricevo continuamente chiamate da persone che dicono, "Jay, puoi farmi entrare da qualche parte?" - e non posso. E non lo farò". La Florida è stata una delle destinazioni di turismo vaccinale più popolari per i viaggiatori nazionali e internazionali, a causa della politica iniziale dello stato di vaccinare chiunque abbia più di 65 anni. Lo stato ha recentemente implementato nuove regole di identificazione nel tentativo di indirizzare più vaccini ai residenti della Florida, ma non prima che circa 50.000 destinatari fuori dallo stato abbiano ricevuto una dose. Anche se alcuni di questi destinatari del vaccino sono residenti stagionali dello stato, i cosiddetti snowbirds, la cui decisione di passare l'inverno in Florida non era legata alle loro prospettive di vaccinazione, molte migliaia sono venuti nello stato solo per un'iniezione. Le 50.000 dosi rappresentano solo circa il 3,4% del totale delle vaccinazioni somministrate in Florida, ma anche una piccola percentuale che va a destinatari fuori dallo stato in qualsiasi stato può influenzare l'intera infrastruttura di vaccinazione del paese. Le città e gli stati generalmente ricevono lotti di vaccino dal governo federale in base alla popolazione adulta della zona e pianificano la loro strategia di distribuzione di conseguenza. "I turisti del vaccino stanno usando il loro potere per creare un'opportunità ingiusta per loro stessi. Ci sono difetti di progettazione che le persone stanno sfruttando, approfittando di alcuni punti deboli in questi sistemi", ha detto Ferguson. "Niente di tutto questo dovrebbe riguardare la dignità o il merito, ma quando qualcuno viaggia per il vaccino, sta usando risorse, sia le dosi che tutti i meccanismi di consegna, che sono stati assegnati a una comunità diversa". Il turismo del vaccino può anche essere rischioso per i pazienti e gli operatori sanitari. "Se si dà una dose di vaccino a qualcuno che potrebbe non essere in grado di tornare e ottenere la seconda dose o se c'è un evento avverso, chi è responsabile? Si chiede Wolfson. Tuttavia, molti sono disposti a correre il rischio, soprattutto se sono particolarmente suscettibili alle complicazioni di salute del virus o se non devono viaggiare molto per farsi vaccinare oltre confine. Un abitante di New York ha visto diversi suoi amici e familiari pianificare di attraversare i confini dello stato per i vaccini. "La mamma di una mia amica, residente a New York, che attualmente risiede Florida, sta andando in New Jersey per un vaccino a febbraio", ha detto. "Ha la pressione alta e ha fatto ricerche in diversi stati dove potrebbe essere idonea per il vaccino e il New Jersey risponde alla necessità". Suo fratello, un insegnante che spera di rientrare in sicurezza in classe, aveva da allora abbandonato i piani di viaggiare da New York al New Jersey per farsi vaccinare secondo la politica di vaccinazione prioritaria dello stato per gli insegnanti con condizioni preesistenti. "Non c'è un onere della prova nel New Jersey per dimostrare che sei un ex fumatore, quindi è una facile scappatoia da sfruttare", ha detto. Un'altra amica di famiglia che ha più di 65 anni ed è immunodepressa, che vive nel New Jersey, ha firmato per ottenere il vaccino a New York a causa della mancanza di appuntamenti disponibili nel suo stato di origine. Wolfson ha detto che questo tipo di decisioni sono comprensibili, anche se non necessariamente lodevoli, specialmente data la diffusa cattiva gestione governativa della pandemia e l'istinto umano di autoconservazione. "Quando abbiamo scorte limitate di un prodotto altamente richiesto e salvavita e la gente non sa nemmeno come ottenerlo o le linee telefoniche sono affollate e le iscrizioni via computer non funzionano e si siedono online alle 3 del mattino a 85 anni aspettando che esca la prima dose, questo riduce solo la quantità di fiducia che la gente ha in questo sistema", ha detto. Ma i turisti del vaccino che sono in grado di attraversare le linee di stato per farsi vaccinare sono in gran parte quelli con i mezzi e la capacità di viaggiare a distanza - due volte - per il vaccino e la conoscenza tecnologica o le connessioni per richiedere un appuntamento. Questo ha contribuito alle disparità razziali e socioeconomiche nella distribuzione del vaccino finora: da New York al New Jersey a Chicago, i destinatari del vaccino sono stati prevalentemente bianchi, residenti in codici postali più ricchi. "La cosa più importante è: non sprecare i vaccini. Preferisco di gran lunga che finisca nel braccio di qualcuno piuttosto che in un bidone della spazzatura", ha detto Caplan della realtà che alcune dosi di vaccino stanno andando non reclamate nei siti di distribuzione in tutto il paese. "Ma non abbiamo completato la vaccinazione degli operatori sanitari e degli anziani. Quindi tagliare la fila davanti a persone che hanno un rischio maggiore di morire davvero, spesso da persone che sono più giovani, possono stare a casa, in quarantena, indossare maschere e proteggersi, questo è da condannare". Al di là di queste decisioni individuali, tuttavia, è un problema sistemico, ha detto Caplan. "Che cosa è successo alla fornitura di vaccini? Come mai non sappiamo quanto ne abbiamo? C'è stato un enorme fallimento della leadership".

Stati Uniti, Fauci oltre Trump: "Far parlare la scienza è qualcosa di liberatorio. La normalità in autunno". Repubblica tv il 22 gennaio 2021. Sorridente e rilassato, il virologo americano si mostra la prima volta nell'era Biden e si mostra disteso. Cancella le teorie poco scientifiche sui farmaci per curare o prevenire il Covid rilanciate spesso in pubblico dall'ex presidente: "È molto chiaro che c'erano cose che sono state dette, sia riguardo l'idrossiclorochina e altre cose del genere, che erano davvero scomode, perché non erano basate su fatti scientifici. L'idea che salire qui e parlare di ciò che sai, di scienza è un sentimento liberatorio. Se riusciremo a vaccinare entro l'estate il 70-80% della popolazione, arriveremo in autunno a una specie di normalità".

Da corriere.it il 25 gennaio 2021. Alla Casa Bianca e nel giro del presidente Trump avevano trovato un nomignolo per Anthony Fauci, il responsabile scientifico, diciamo così, «dissidente», della task force anti-Covid. Lo chiamavano simpaticamente «la puzzola al picnic». Non è una bella cosa, il paragone con l’animale appestato e puzzolente per antonomasia. Ma Fauci ne parla con leggerezza al New York Times, senza fare l’offeso, in quella che vogliamo considerare la confessione definitiva dell’ottantenne infettivologo su questo anno di pandemia da lui vissuto cocciutamente sul filo di lana: da una parte le verità scientifiche, dall’altra le cosiddette «realtà alternative». Ecco alcuni punti salienti nel racconto del «dottor puzzola», the skunk che (per fortuna) Donald Trump non ha potuto cacciare dal picnic.

Primi screzi. Tra lo scienziato e il presidente le cose cominciano a mettersi male «nel periodo della prima grande emergenza nel Nord-Est», soprattutto a New York. «Gli dicevo che la situazione era grave, e la sua risposta era: “Be, non è poi così male, vero?”».

L’escalation. «C’era gente che chiamava il presidente, amici suoi, persone nel mondo del business, e gli parlava di certi rimedi fenomenale contro il Covid. Me ne parlava e io ribattevo che non c’erano studi clinici a provare la loro efficacia, e lui rispondeva: “No, no, no, no, no, questa roba funziona davvero”».

Rispetto e scontri. «Ho grande rispetto per la carica di presidente, ma non potevo avallare certe falsità. Nessuno però mi ha mai detto: “Smettila di contraddire il presidente”. Una volta Peter Navarro (consigliere di Trump, ndr) mi affrontò a muso duro: “Come osi sostenere che l’idrossiclorochina non funziona? Ho 25 studi che dimostrano il contrario”. La situazione quella volta si fece parecchio tesa nella Situation Room».

Telefonate. «Certe volte — racconta Fauci — il presidente mi chiamava e diceva: “Hei, perché sei così disfattista? Devi avere un approccio più positivo, sei negativo»”.

Le minacce. «Sono cominciate in primavera. Il 28 marzo. Dopo due settimane mi hanno dato la scorta. La cosa che più mi ha preoccupato sono state le minacce a mia moglie e ai miei figli. Sapevano dove abitavano i miei ragazzi, li chiamavano direttamente a casa. Come diavolo facevano ad avere queste informazioni?».

La polvere nella busta. «Un giorno ho ricevuto una busta nella posta dell’ufficio: l’ho aperta e una nuvola di polvere si è sparsa sulla mia faccia e sul petto. Gli esperti l’hanno analizzata. Non era niente di velenoso, ma è stato brutto. I miei familiari si sono preoccupati più di me. Certo, fosse stata ricina, sarei rimasto secco: bybye Fauci».

Licenziamento. Quando il presidente in pubblico ha ventilato la possibilità di licenziarlo, Fauci non si è preoccupato: «Non ho mai pensato che volesse farlo. Sapete com’è, era soltanto Donald Trump che faceva la parte di Donald Trump».

Dimissioni. «Mai pensato di dimettermi. Mia moglie, che è una persona incredibilmente saggia, mi diceva di prendere in considerazione questa possibilità. Ma alla fine mi dava ragione. Se avessi lasciato, si sarebbe creato un vuoto. Ci doveva pur essere qualcuno che non aveva paura di dire la verità. Loro avevano la tendenza a minimizzare sempre la gravità dei problemi, a farsi la loro piccola conversazione felice su come le cose andavano bene».

La puzzola. «E io saltavo su — racconta Fauci —: “Un momento, folks, questa è roba seria”. Nel gruppo usavano un’espressione scherzosa, certo amichevole, per definirmi: io ero la puzzola al picnic». Donald McNail gli chiede se pensa che l’atteggiamento di Trump sia costato all’America decine o centinaia di migliaia di vite. E il dottore risponde con un no comment: “La gente me lo chiede sempre, facendo un collegamento diretto. Ma io non voglio entrarci. Sorry».

Il futuro. Passerà i prossimi quattro anni collaborando con il presidente Biden? Anthony Fauci, l’uomo che ha consigliato i presidenti Usa da Ronald Reagan in poi sui temi di salute pubblica, risponde che non lo sa. «Affrontiamo una pandemia storica, una di quelle che non si vedevano da 102 anni». Quello che vorrebbe l’ex puzzola che ha rovinato i picnic di Trump è «continuare a dare il mio contributo finché non sarà finita». E poi ha ancora qualche lavoretto: «L’Aids, per cui ho investito la maggior parte della mia vita professionale. E poi l’influenza, la malaria, la tubercolosi. Insomma, il mio lavoro».

Da "huffingtonpost.it" il 25 gennaio 2021. Come una “puzzola al picnic”. Così Anthony Fauci, immunologo a capo della task force americana anti-Covid, era percepito e apostrofato con un’espressione idiomatica alla Casa Bianca durante la presidenza Trump. A raccontarlo è lo scienziato stesso in un’intervista al New York Times, ripercorrendo quest’anno di pandemia. Tra l’esperto e il tycoon un rapporto non semplice, fin dall’inizio dell’epidemia. “Nel periodo della prima grande emergenza nel Nord-Est, gli dicevo che la situazione era grave, e la sua risposta era: ‘Be, non va poi così male, vero?’”, ha ricordato Fauci. L’immunologo ha proseguito affermando che talvolta, dinanzi al presidente che gli parlava di potenziali rimedi contro il Covid, si trovava costretto a ribattere che non c’erano studi clinici a provare la loro efficacia. E Trump rispondeva: “No, no, no, no, no, questa roba funziona davvero”. “Certe volte” - ha proseguito lo scienziato - “il presidente mi chiamava e diceva: "Perché sei così disfattista? Devi avere un approccio più positivo, sei negativo"”. “Ho grande rispetto per la carica di presidente”, ha raccontato Fauci sottolineando come però non potesse avallare decisioni e posizioni che avrebbero compromesso la sua integrità. L’esperto ha riferito che una volta Peter Navarro, consigliere di Trump, lo affrontò dicendogli: “Come puoi sostenere che l’idrossiclorochina non funzioni? Ho 25 studi che dimostrano il contrario. Allora la situazione si fece parecchio tesa”. Ricordando il momento in cui il tycoon ventilò in pubblico la possibilità di licenziarlo, il capo della task force anti-Covid ha affermato di non essersi preoccupato: “Non ho mai pensato che volesse farlo davvero. Sapete com’è: era soltanto Donald Trump che faceva la parte di Donald Trump”. “Dimissioni? Mai pensato di rassegnarle. Mia moglie, che è una persona molto saggia, mi diceva di prendere in considerazione questa possibilità. Ma alla fine mi dava ragione. Se avessi lasciato, si sarebbe creato un vuoto. Serviva qualcuno senza paura di dire la verità. Loro avevano la tendenza a minimizzare sempre la gravità dei problemi, a conversare su come le cose andassero bene. E io dicevo sempre: "Aspettate un attimo, questa è una cosa seria". Quindi c’era una battuta amichevole: dicevano che ero la ‘puzzola al picnic’”, ha continuato. Durante quest’anno, per Fauci anche la brutta esperienza delle minacce anonime, iniziate in primavera, il 28 marzo scorso. “La cosa che più mi ha preoccupato sono state le minacce a mia moglie e ai miei figli. Sapevano dove abitavano i miei ragazzi, li chiamavano direttamente a casa. Come diavolo facevano ad avere queste informazioni?”, ha detto il capo della task force anti-Covid americana. “Un giorno ho ricevuto una busta nella posta del mio ufficio: l’ho aperta e della polvere mi è finita in faccia e sul petto.... Gli esperti l’hanno analizzata. Non era niente di velenoso, ma è stato spaventoso. Mia moglie e i miei figli si sono preoccupati più di me”, ha ricordato lo scienziato. 

I danni devastanti del Covid-19 sulle società basate sul consumo. La pandemia ha messo in crisi il modello economico basato sulla spesa privata e per gli Usa si tratta di un problema nel problema: perché si tratta di un Paese pensato per bisbigliare costantemente all’orecchio dei cittadini un solo mantra: comprare, comprare, comprare. Giovanna Pancheri su L'Espresso il 14 gennaio 2021. Solo a New York City, i 78 giorni di lockdown della prima ondata sono costati secondo le stime 13,5 miliardi di dollari; il tasso di disoccupazione è passato da uno dei minimi storici, il 3,4% di febbraio, al 20,4% di giugno. Certo New York non è l’America, ma sicuramente ne è uno dei motori economici, la goccia da cui si capisce la temperatura del mare, un mare che non è mai stato così agitato dal dopoguerra. Gli analisti del Fondo Monetario Internazionale stimano un calo del Pil americano nel 2020 del 4,3%; non è poco, e in un’economia come quella americana questo dato è destinato ad avere un impatto devastante. Ma è un dato comunque più contenuto di quello delle altre grandi economie del G7, e questo anche grazie agli ingenti pacchetti di aiuti che sono stati messi in campo: 3.000 miliardi di dollari stanziati solo tra marzo e luglio per aiutare l’economia. Gli Usa non hanno certo risparmiato la loro potenza di fuoco impressionante se si pensa che l’Unione Europea tra Recovery Fund, Mes, programma Sure per l’occupazione e prestiti della Banca europea per gli investimenti non arriva a mobilitare la metà dei fondi americani, fra l’altro con tempi di erogazione molto più lunghi. D’altronde, in un anno elettorale in cui l’economia doveva essere il suo fiore all’occhiello, il Presidente Trump non ha voluto risparmiare risorse, aiutato anche in una prima fase dal Congresso che ha provato a mettere da parte le differenze per raggiungere inizialmente una serie di accordi bipartisan che evitassero il collasso di famiglie e imprese in un paese dove tradizionalmente si va avanti di settimana in settimana senza ammortizzatori sociali. Finanziamenti per la sanità, rinvio dei pagamenti delle tasse, moratorie sugli affitti, investimenti per l’istruzione, prestiti alle piccole e medie imprese, sussidi di disoccupazione federali da 600 dollari al mese poi scesi a 400, e soprattutto un assegno da 1.200 dollari firmato da Donald Trump per tutti i redditi inferiori ai 100.000 dollari l’anno: gli americani hanno improvvisamente scoperto i benefici dell’assistenza pubblica, anche se i risultati a livello macroeconomico non sono stati quelli sperati. Secondo le stime dell’Ufficio budget del Congresso, il debito schizzerà in alto nel 2020 con un deficit al 16% del prodotto interno lordo, numeri che non si vedevano dal 1945. Tuttavia, e questo va annoverato tra i meriti di Trump che non ha mai esitato quando si è trattato di mettere mano al denaro federale, questa crisi è riuscita a edulcorare la rigida idiosincrasia della politica americana, e in particolare dei repubblicani, verso la spesa pubblica. Un cambio di rotta improvviso e rivoluzionario che è destinato ad aprire scenari inediti. Rinascita Americana, il libro di Giovanna Pancheri di cui anticipiamo un branoAd anticipare la positività di questo nuovo approccio è stata Wall Street che ha segnato un’estate di record al rialzo anche per questo, ma non solo. «Il mercato ormai è staccato dall’economia reale: questa crisi viene percepita come transitoria, l’impressione è che con la cura o il vaccino la ripresa sarà rapida», mi spiega l’executive vice president di Goldman Sachs, John F. W. Rogers, quando ci incontriamo per un colloquio che per lo più dovrà rimanere off the record. Siamo ancora nelle fasi iniziali della riapertura di New York. Il quarantaduesimo piano che ospita gli uffici degli executives di Gs è completamente deserto. A differenza di quanto accade in Italia, qui i singoli uffici si somigliano tutti, e anche i massimi dirigenti hanno degli spazi personali relativamente modesti e rigorosamente con pareti di vetro trasparente. A essere riservate sono invece alcune sale riunioni che, a seconda delle esigenze, possono essere allestite per pranzi, cene e prime colazioni. L’unica costante è la vista a 360° da togliere il fiato: New York e la finanza mondiale sono letteralmente ai tuoi piedi, una scelta architettonica che non credo sia casuale. Dal lato sud-ovest si possono ammirare i 1.776 piedi (esattamente come l’anno della firma della Dichiarazione d’Indipendenza) della Freedom Tower progettata da Daniel Libeskind, una lancia di cristallo che ha ridato luce al cielo ferito di Manhattan. «L’11 settembre la nostra sede era dalla parte opposta delle torri rispetto a dove siamo noi ora», mi racconta John con una voce insolitamente più esitante. «Non sono tornato a casa per una settimana, ho dormito in ufficio, sono uscito solo la sera dell’attacco perché volevo vedere come era la situazione per strada e perché volevo raccogliere un po’ di questa», dice mostrandomi una piccola fiala di vetro piena di polvere: la polvere delle Torri Gemelle disintegrate che uno degli uomini più potenti della finanza mondiale tiene sempre a vista nella libreria del suo ufficio per ricordarsi che nella vita anche ciò che sembra più saldo, solido e indistruttibile può finire in frantumi in un attimo. «E questa di crisi come sarà? Perché la borsa sta reagendo così positivamente? Solo perché la vede come passeggera?». «Per questo e perché stiamo assistendo a un cambio degli investimenti verso prodotti a rischio più basso e, in questo momento, ad altissimo rendimento come i tecnologici e i farmaceutici. Gli investitori stanno indirizzando i loro portafogli su questi settori e vedono anche che lo Stato sta intervenendo con massicce iniezioni di liquidità per mitigare i danni. Ma l’autunno sarà lungo e complesso e non solo per le elezioni: bisogna capire se riprenderà la spesa dei consumatori». I consumi, infatti, hanno subito un crollo preoccupante: -12,9% ad aprile, + 8,6% a maggio quando sono iniziati ad arrivare i primi assegni pubblici, per poi riscendere al 6,2% a giugno e all’1,9% a luglio e appena allo 0,5% a ottobre. Non una bella notizia in un paese in cui il Pil è composto per due terzi dai consumi privati (in Italia l’impatto dei consumi sul Pil è di circa il 60%, mentre scende attorno al 50-52% in Francia e in Germania). E qui risiede la vera beffa della pandemia per l’economia americana: questo è un virus che infetta e distrugge dall’interno le società basate sui consumi. Obbliga a fermarsi, a restare a casa, a non interagire, a non viaggiare, a evitare gli spazi chiusi e le strade affollate; questo virus è la peste nera per le economie che sono fondate sulla spesa dei cittadini, che sono costruite per spingerla all’estremo. Dai megastore di New York ai centri commerciali, principali luoghi d’incontro nelle periferie urbane di tutto il paese, dai megaschermi di Times Square alle strategie pubblicitarie pervasive dei colossi della Silicon Valley, l’America è pensata per bisbigliare costantemente all’orecchio dei cittadini un solo mantra: comprare, comprare, comprare... Ma il Coronavirus ha silenziato questa voce, ha resettato le priorità, non c’è più spazio o disponibilità per il superfluo, ogni acquisto viene ponderato. L’incertezza diffusa induce al risparmio mettendo in discussione meccanismi economici e sociali consolidati e obbligando a riconsiderare il paradigma finora predominante all’ombra del toro di Wall Street o della cupola del Campidoglio secondo cui ogni persona, prima di essere cittadino, è consumatore.

·        Succede in Brasile.

Siamo sicuri che Bolsonaro sia colpevole di genocidio? La Commissione del Senato brasiliano dà il via libera all'imputazione del presidente per la sciagurata gestione della pandemia. Ma le accuse sono esagerate. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 28 ottobre 2021. Le accuse sono pesantissime, degne di un Goering, di un Himler o di un Pol Pot: omicidio di massa, genocidio, crimini contro l’umanità. E ancora: incitamento alla criminalità, violazione dei diritti sociali, diffusione di notizie false, prevaricazione e attentato alla dignità del mandato. La decisione della commissione di inchiesta del senato brasiliano di autorizzare l’incriminazione del presidente Bolsonaro per la sciagurata gestione della pandemia che nel paese sudamericano ha causato oltre 600mila morti potrebbe essere un macigno per la carriera politica di uno dei leader più controversi nella recente storia brasiliana. Il rapporto dei senatori (1300 pagine) individua nel capo di Stato il principale responsabile dell’ecatombe da Covid 19 che avrebbe condotto il Brasile verso la catastrofe sanitaria senza alcuna attenuante: «Il caos creato da Bolsonaro ha fatto sprofondare il nostro paese nella sua più grave crisi sociale di sempre, raggiungendo livelli di indigenza inimmaginabili» si legge nel testo redatto dal senatore centrista Renan Calheiros che chiede l’incriminazione del presidente anche alla Corte internazionale dell’Aja. In ogni caso il rapporto sarà trasmesso nelle prossime ore al procuratore generale del Brasile Augusto Aras che dovrà decidere se rinviare a giudizio Bolsonaro. Oltre al presidente sono accusate altre 78 persone tra cui diversi membri dell’esecutivo e i suoi tre figli. Senza dubbio il governo dell’emergenza Covid da parte di Bolsonaro è stato un disastro dal negazionismo iniziale, alla ciarlataneria medica diffusa tramite twitter, dai ritardi fatali nel confinare il Paese alle sconvolgenti dichiarazioni sui vaccini «che trasmettono l’Aids». Negligenze, bugie, esternazioni irresponsabili, insomma, comportamenti indegni di un presidente eletto che ne fanno a pezzi la credibilità e la leadership senza possibilità di appello. Ma le accuse di genocidio e di crimini contro l’umanità sono francamente fuori dal mondo, per enfasi e mitomania accusatoria: da una parte permettono a Bolsonaro di denunciare «una manovra politica senza fondamento giuridico» e dall’altra banalizzano dei capi di imputazione che dovrebbero essere riservati ai crimini di guerra, alle pulizie etniche, alle purghe politiche, trasformando un’azione giudiziaria in una teatrale parodia di se stessa.

Da adnkronos.it il 21 ottobre 2021. Jair Bolsonaro deve essere accusato di crimini contro l'umanità per la risposta all'epidemia di Covid che ha provocato uno "stratosferico" numero di decessi. Sono queste le conclusioni dell'inchiesta del Senato brasiliano, contenute in un rapporto di oltre mille pagine, che verrà pubblicato oggi, ma che la stampa brasiliana ha già anticipato. Nel rapporto si descrive come il devastante mix di negligenza, incompetenza e negazionismo anti-scientifico abbia guidato la risposta dell'amministrazione del presidente di estrema destra portando l'epidemia ad uccidere oltre 600mla brasiliani. L'accusa più grave è relativa alla decisione «deliberata e cosciente» di Bolsonaro di ritardare l'acquisto dei vaccini che ha condannato ad una morte non necessaria migliaia di cittadini, aggiunge il rapporto. «La decisione di non acquistare vaccini tra il luglio 2020 e il gennaio 2021, mancante di non fondamento scientifico, ed in violazione delle raccomandazioni di tutte le autorità sanitarie internazionali - si legge nel rapporto - ha finito per provocare la morte di migliaia di brasiliani che avrebbero usato quei vaccini». «La matematica della situazione era chiara: più infezioni, più morti. Senza i vaccini la mortalità sarebbe stata stratosferica e così è stato - conclude il documento - noi non dimenticheremo». Nel rapporto, che è il frutto di un'inchiesta durata sei mesi, con alcune delle audizioni che sono state anche trasmesse in diretta televisiva, Bolsonaro viene accusato di 11 crimini, tra i quali "epidemia che ha portato alla morte", uso illegale di fondi pubblici, falsificazione di documenti, promozione di false cure e crimini contro l'unamità. Alla fine la commissione ha deciso però di eliminare l'accusa di genocidio delle popolazioni indigene del Brasile, perché non c'era consenso tra i suoi membri, ha spiegato il presidente Omar Aziz. Nel rapporto viene raccomandata l'incriminazione anche di decine di esponenti del governo e del partito di Bolsonaro, tra il quali il figlio, il senatore Flavio Bolsonaro, e il ministro per la Sanità delle popolazioni indigene, Robson Santos da Silva. Bolsonaro - che dall'inizio della pandemia ha minimizzato la minaccia del virus, scoraggiato l'uso della mascherina, i vaccini e promosso cure non riconosciute come l'idrossiclorichina, ha definito l'inchiesta una "barzelletta" ed una mossa politicamente motivata. «Il rapporto è un'allucinazione, non si regge in piedi ed è un oltraggio alle 600mila vittime di Covid», ha dichiarato Flavio Bolsonaro affermando che le accuse «non hanno fondamento e senso: ogni vaccino fatto in questo Paese è stato acquistato dall'amministrazione Bolsonaro».

Covid-19, cosa sta succedendo in Brasile. Andrea Muratore su Inside Over il 25 aprile 2021. Il Brasile è sommerso da una nuova ondata di Covid-19 che sta provocando grande preoccupazione nella popolazione, ha messo il Paese in ginocchio, mostrato la fragilità e la debolezza del sistema sanitario nazionale e ha allarmato il mondo intero: la nuova variante in via di diffusione mentre nel gigante latinoamericano si avvicina la stagione invernale appare estremamente virulenta.

La catastrofe brasiliana. Quanto raccontato nelle scorse settimane da un’infermiera dell’ospedale Albert Schweitzer di Realengo, nella zona orientale di Rio de Janeiro, al sito G1, e cioè che in diversi punti di soccorso la mancanza di sedativi e di farmaci impone ai sanitari di intubare i malati di Covid mentre sono ancora coscienti dà l’idea della drammaticità di una vicenda che il presidente Jair Bolsonaro non ha mai cessato di minimizzare. 189mila i morti da inizio anno fino al 23 aprile, quasi tanti quanti quelli registrati in un lasso di tempo più che doppio da inizio pandemia fino alla fine del 2020, 393mila quelli complessivi, un numero di decessi superiori a quelli causati dall’Aids nel Paese dal 1996 al 2019, pari a 281.156. Nel 2020 i decessi complessivi hanno sfondato per la prima volta nella storia del Paese quota 1,4 milioni, risultando 230mila in più rispetto all’anno precedente. I morti per milione d’abitanti attribuiti al Covid in Brasile, 1812 al 23 aprile, sono tutt’ora inferiori a quelli registrati da Regno Unito (1901) e Italia (1962), ma questo dato è destinato a cambiare notevolmente in peggio se il Paese continuerà nel preoccupante trend che lo contraddistingue. In primo luogo, il Brasile (al contrario dei Paesi europei) ha sperimentato solo una stagione fredda in tempo di pandemia e, in secondo luogo, i Paesi del Vecchio continente sono contraddistinti da trend demografici con una popolazione in ben più rapido invecchiamento. L’età media dell’Italia, terzo Paese più “vecchio” al mondo, è di 44,3 anni con poco meno del 18% della popolazione con meno di 20 anni; quella del Brasile è di oltre un quarto inferiore, di poco superiore ai 30 anni, e il 28,9% dei suoi cittadini è nato negli Anni Duemila.

Boom di morti tra i giovani. La questione più preoccupante legata alla nuova ondata pandemica che sta colpendo il Brasile è quella dell’aumento del numero di vittime proprio tra la fascia della popolazione di età inferiore ai 50 anni, che si riteneva gradualmente più libera dalla minaccia di severe conseguenze legate al contagio da Covid. Secondo le statistiche di Lagom Data a marzo sono morti di Covid nel Paese 7.170 individui tra i 40 e i 50 anni, contro i 1.840 di gennaio, 3.405 tra i 30 e i 39 anni (il quadruplo rispetto a due mesi prima) e addirittura 880 persone di età compresa tra i 20 e i 29 anni (245 a gennaio). Gli under 60 sono ora un terzo delle vittime della pandemia nel Paese. La variante P1 scoperta a novembre a Manaus, epicentro della prima ondata in Brasile, ha posto fine al periodo di calma connesso all’insorgenza dell’estate australe e portato alla saturazione, se non letteralmente all’esplosione, le terapie intensive e i reparti ordinari. Da almeno due settimane, quando le terapie intensive erano completamente sature in Mato Grosso e colme tra il 90 e il 99% a San Paolo, Rio e nella capitale Brasilia, il sistema sanitario pubblico, trascurato dal governo di Bolsonaro, è letteralmente collassato “per la prima volta nella storia”, ha dichiarato alla Bbc il dottor Miguel Nicolelis, docente di neuroscienze alla Duke University.

Una campagna di vaccinazione incompleta. La complessità della situazione è acuita dalla frastagliatezza della campagna di vaccinazione. Nonostante abbia distribuito oltre 16,5 dosi per 100 abitanti (oltre 30 milioni) il governo di Bolsonaro è ora sotto pressione per la mancanza di rifornimenti e, inoltre, paga la scelta di aver affidato l’80% della campagna vaccinale a Sinovac senza poter garantire una massiccia copertura di seconde dosi in assenza delle quali, secondo una ricerca cilena, l’efficacia del siero cinese risulterebbe fortemente ridimensionata (in alcuni casi al 16%). Problemi nell’approvvigionamento, scarsa consapevolezza a livello sociale dell’importanza della seconda dose e lentezze organizzative per i continui avvicendamenti al Ministero della Salute hanno contribuito a rallentare l’immunizzazione, con la conseguenza di contribuire a un falso senso di sicurezza che ha spinto la corsa dei contagi e la crescita del numero medio settimanale di morti al giorno da quota 1000 ai 2927 degli ultimi giorni.

I limiti della sanità pubblica brasiliana. Il 7 aprile Bolsonaro aveva detto di ”non piangere sul latte versato” e che ”la pandemia in parte viene utilizzata politicamente non per sconfiggere il virus ma per abbattere il presidente”, mentre il presidente del Senato Rodrigo Pacheco ha accolto la richiesta della Corte costituzionale di istituire una commissione d’inchiesta sulla gestione del Covid-19. In larga parte emerge che la negligenza di Bolsonaro è stata dettata dal rifiuto di concepire un intervento statale a sostegno della sanità in un Paese lacerato da profonde disuguaglianze e problematiche sistemiche. Si nota dunque il peso delle conseguenze della visione politico e ideologica del liberista Bolsonaro. Il presidente, appoggiato dai potentati economici e agrari che hanno il loro referente nell’ultimo dei Chicago Boys, il ministro dell’Economia Paulo Guedes, ha a lungo negato il fatto stesso che il contagio potesse essere pericoloso, anche mentre nelle principali città del Paese i morti venivano seppelliti nelle fosse comuni e il religioso Frei Betto accusava il governo di Brasilia di un vero e proprio “genocidio” per le conseguenze a cascata sui popoli indigeni colpiti dalla pandemia. Henrique Mandetta, uno dei Ministri della Sanità silurati dal presidente, ne aveva contestato il catastrofico lassismo, sottolineando le grandi divergenze interne al mondo delle cure nel Paese e facendo notare che per contrastare il Covid “la soluzione è integrare il sistema sanitario nazionale con quello privato” . Come scritto da Paolo Manzo su Aspenia, nel Paese “solo un 15% della popolazione, quella più ricca, può permettersi assicurazioni private che costano in media centinaia di euro al mese”. E sulla presidenza di Bolsonaro pende l’accusa dell’allontanamento dei medici volontari cubani che nei villaggi più remoti dell’Amazzonia fornivano un sostegno essenziale.

Bolsonaro traballa? Americas Quarterly sottolinea che la crescente instabilità politica, la difficoltà nella gestione della pandemia, i continui cambi nell’esecutivo e l’inizio di un’incrinatura del rapporto tra Bolsonaro e uno dei maggiori centri di potere nel Paese, le forze armate, possono spingere il presidente su posizioni ancora più oltranziste e radicalizzare i suoi sostenitori, incentivati da una serie di decreti che permettono agevolazioni nella circolazione delle armi. Tra i sostenitori di Bolsonaro c’è il terrore che la disastrosa gestione della pandemia possa aprire la strada a un ritorno al potere dell’ex presidente Lula al voto del 2022. E sulla scia della rottura col ministro della Difesa, l’ex generale Fernando Azevedo e Silva recentemente licenziato, si è ipotizzato che proprio dai militari potrebbero venire pressioni sul potere nazionale in caso di ulteriori stravolgimenti legati al Covid-19. Le proiezioni parlano di un Brasile che potrebbe avere 500mila morti di Covid entro luglio mentre la variante insorta nel gigante verdeoro si sta diffondendo in tutta l’America latina. Paese sistemico e gigante coi piedi d’argilla il Brasile ha nel coronavirus la punta dell’iceberg di un’immensa serie di problemi. E la difficoltà di Bolsonaro di rendersene conto acuisce ulteriormente la situazione.

·        Succede in Cile.

Vaccini e pandemia: la scommessa del Cile. Federico Giuliani su Inside Over il 3 aprile 2021. Il Cile conta circa 19 milioni di abitanti. All’inizio di aprile, il 36.3% della sua popolazione aveva ricevuto almeno una dose di vaccino. L’obiettivo del governo cileno è ambizioso: raggiungere la fantomatica immunità di gregge entro la metà del 2021. Di questo passo, visto e considerando che il Paese si trova quasi a metà strada, gli esperti ritengono che il traguardo prefissato potrà essere tagliato senza troppi problemi. Ma come ha fatto una piccola – e spesso dimenticata – nazione dell’America Latina ad allestire un modello di vaccinazione efficace ed efficiente, anche più di quello organizzato dall’Europa? Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, la chiave del successo cileno è aver scommesso sul vaccino cinese Sinovac. Il CoronaVac, da somministrare attraverso l’iniezione intramuscolare di due dosi, ricevute a distanza di un paio di settimane l’una dall’altra, avrebbe avuto un ruolo primario nel trionfo vaccinale del Cile. E questo, nonostante Sinovac non abbia ancora rilasciato i dati della fase finale dei suoi test.

Il segreto del Cile. Tutto è iniziato nel maggio di un anno fa, quando il Cile doveva fare i conti con una delle situazioni epidemiologiche più complesse della regione, se non del mondo. Il suo sistema sanitario era descritto dai media come prossimo al collasso. In quel preciso momento, le autorità decisero di intavolare le prime discussioni con i produttori di potenziali vaccini, indipendentemente dalla loro provenienza geografica. Il Cile ha quindi prima acconsentito alla conduzione di studi clinici sui vaccini sul proprio territorio, e poi ha aperto le porte agli antidoti per un loro successivo lancio a livello nazionale. Risultato: oggi c’è chi parla di “modello Cile” per indicare l’ottimo piano d’azione precoce allestito dal governo. Il segreto del Cile – se così vogliamo chiamarlo – è stato quello di procurarsi dosi da più fonti (e fronti), in particolare dalle case farmaceutiche cinesi. Oltre 6.6 milioni di persone hanno ricevuto almeno un vaccino, mentre più di 3.5 milioni – cioè quasi un quinto del totale – entrambe le dosi.

Il ruolo di Sinovac. C’è un aspetto da sottolineare con particolare attenzione. In Cile, la maggior parte delle dosi inoculate sono targate Sinovac. Il viceministro del Commercio cileno, Rodrigo Yanez, ha spiegato che il Paese ha fatto una scommessa sul vaccino cinese in questione. Allo stesso tempo, le autorità si sono mosse rapidamente per acquistare anche il Pfizer-BioNTech. “Direi che la strategia è stata quella di mettere le uova in cestini diversi e di avviare i colloqui con le aziende farmaceutiche molto presto. Sbbiamo iniziato a maggio dello scorso anno”, ha detto Yanez, aggiungendo di aver ricevuto 12 milioni di CoronaVac e 1.3 milioni di Pfizer. Soffermiamoci sulla casa farmaceutica cinese. Ha condotto gli studi clinici di fase 3 in Cile, e questo ha permesso allo Stato sudamericano di avere una sorta di accesso anticipato alle dosi. Al netto dell’indifferenza generale mostrata da una parte dell’opinione pubblica nei confronti dei vaccini cinesi, l’80% della popolazione anziana cilena ha fin qui ricevuto dosi principalmente dal prodotto realizzato da Sinovac. Un vaccino, questo, che a detta dello stesso Yanes ha mostrato un “profilo di sicurezza e una generazione di anticorpi estremamente buoni”. Gli scienziati cileni sono al lavoro per condurre ulteriori analisi sul vaccino Sinovac. Una volta completate, tutte le ricerche saranno rilasciate per poter essere liberamente consultate.

Lo strano caso del Cile, vaccinazioni record ma contagi in crescita. Federico Giuliani su Inside Over il 10 marzo 2021. Fino a una decina di giorni fa, il Cile era il miglior Paese dell’America Latina in quanto a numero di vaccinazioni effettuate. Oggi, il piano di immunizzazione adoperato da Santiago del Cile è diventato un modello da studiare e, possibilmente, imitare in tutto il mondo. Già, perché il governo cileno è riuscito a far meglio perfino di Israele, Regno Unito e Stati Uniti, considerati tutti leader nella corsa all’inoculazione delle dosi. È la rapidità l’arma in più con cui il Paese sudamericano sta riuscendo nell’impresa di proteggere i suoi circa 19 milioni di abitanti dal Sars-CoV-2. Secondo quanto riportato dai dati registrati negli ultimi sette giorni, la media quotidiana cilena di dosi somministrate ogni 100 abitanti oscilla tra 1.10 e 1.06. Un valore più alto di Tel Aviv (tra 1.04 e 1.06), Washington (tra 0.65 e 0.64) e Londra (0.52). L’Italia, giusto per fare un paragone, è ferma alla misera media dello 0.27. Il risultato è dunque sotto gli occhi di tutti: il Cile è lo Stato più rapido al mondo nelle immunizzazioni contro il Covid. “Nel ranking mondiale il Cile compare al primo posto tra i paesi che vaccinano più rapidamente, possiamo essere orgogliosi di questo processo”, ha spiegato ministro della Salute cileno, Enrique Paris. Eppure, così come sta salendo alle stelle il numero dei vaccinati, aumenta, di pari passo, anche quello dei nuovi casi.

Boom di Vaccinati e positivi. Il Cile rischia quindi di essere un caso più unico che raro. Santiago del Cile ha somministrato una dose del vaccino anti Covid a oltre 4.2 milioni di persone dallo scorso 3 febbraio, giorno zero della campagna. Gli obiettivi sono chiari: vaccinare 5 milioni di persone entro la fine di marzo, per poi toccare tra i 15 e i 18 milioni di abitanti entro luglio. Per quanto riguarda le frecce nella faretra del governo, il Cile può contare sull’approvazione di tre vaccini: il Pfizer-BioNTech, il Sinovac e l’AstraZeneca. Il punto è che, proprio mentre i media internazionali stanno lodando lo sprint vaccinale del Paese latinoamericano, questa nazione deve fare i conti con un grave aumento dei contagi. In alcuni dei principali distretti, come quello della capitale Santiago, del Biobio e dell’Araucania, le autorità hanno perfino annunciato il ritorno alle fase 1 e 2 della quarantena. Se sul tema dei vaccini Paris è apparso soddisfatto e raggiante, il ministro ha cambiato espressione sulla ripresa delle infezioni. “Ci preoccupa moltissimo il forte aumento dei casi in queste regioni”, ha dichiarato l’alto funzionario, sottolineando che tale contesto implica “un passo indietro” nella quarantena.

Luci e ombre. Per quale motivo, con l’aumentare delle vaccinazioni, sono risaliti anche i contagi? Difficile dare una spiegazione precisa, anche alla luce di quanto sta accadendo in Argentina, dove le vaccinazioni proseguono a passo di lumaca (media dosi quotidiane somministrate per 100 abitanti negli ultimi sette giorni: 0.17) mentre le infezioni stanno scendendo (dopo i circa 10-12 casi di gennaio, a marzo i contagi si sono attestati intorno ai 5 mila). Sappiamo che il governo cileno ha fatto entrare nella fase più dura della quarantena, fino a nuovo ordine, nove comuni del Paese, all’interno dei quali sono scattate limitazioni della circolazione, chiusura di attività ristorative e ricreative. Altri 34 comuni sono invece finiti in fase 2, con limitazioni previste sono nei week end. Tornando alla domanda iniziale, si possono soltanto fare ipotesi. È possibile che gran parte dei sieri non siano stati oculati in maniera del tutto appropriata, vanificando la rapidità vaccinale del Paese, o che uno dei tre antidoti approvati e somministrati non sia del tutto efficace per le varianti presenti sul territorio cileno (se così fosse, dal momento che i primi due vaccini a esser stati approvati sono stati il Sinovac e il Pfizer, il sospetto potrebbe ricadere su di loro). In ogni caso, il Cile resta comunque un interessante esempio da seguire. Pur essendo un Paese dalle risorse economiche limitate, proprio come la Serbia, il suo governo è stato velocissimo nel negoziare direttamente con le Big Pharma, prenotando in anticipo decine di milioni di vaccini. Santiago, inoltre, ha diversificato la domanda, accogliendo sieri occidentali ma anche provenienti dal resto del mondo, ed è pronto a ricevere altre fiale dal programma Covax, un piano pensato dalla comunità internazionale per distribuire dosi a Paesi a medio e basso reddito.