Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ANNO 2021

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

QUINTA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

ANNO 2021

L’AMMINISTRAZIONE

QUINTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Burocrazia Ottusa.

Il Diritto alla Casa.

Le Opere Bloccate.

Il Ponte sullo stretto di Messina.

Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Le Opere Malfatte.

La Strage del Mottarone.

Il MOSE: scandalo infinito.

Ciclisti. I Pirati della Strada.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Strage di Ardea.

Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Le Disuguaglianze.

Martiri del Lavoro.

La Pensione Anticipata.

Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Malasanità.

Sanità Parassita.

La cura maschilista.

L’Organismo.

La Cicatrice.

L’Ipocondria.

Il Placebo.

Le Emorroidi.

L’HIV.

La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

La siringa.

L’Emorragia Cerebrale.

Il Mercato della Cura.

Le cure dei vari tumori.

Il metodo Di Bella.

Il Linfoma di Hodgkin.

La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

La Miastenia.

La Tachicardia e l’Infarto.

La SMA di Tipo 1.

L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Sindrome dell’intestino irritabile.

Il Menisco.

Il Singhiozzo.

L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Vi scappa spesso la Pipì?

La Prostata.

La Vulvodinia.

La Cistite interstiziale.

L’Afonia.

La Ludopatia.

La sindrome metabolica. 

La Celiachia.

L’Obesità.

Il Fumo.

La Caduta dei capelli.

Borse e occhiaie.

La Blefarite.

L’Antigelo.

La Sindrome del Cuore Infranto.

La cura chiamata Amore.

Ridere fa bene.

La Parafilia.

L’Alzheimer e la Demenza senile.

La linea piatta del fine vita.

Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Introduzione.

I Coronavirus.

La Febbre.

Protocolli sbagliati.

L’Influenza.

Il Raffreddore.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Il contagio.

I Test. Tamponi & Company.

Quarantena ed Isolamento.

I Sintomi.

I Postumi.

La Reinfezione.

Gli Immuni.

Positivi per mesi?

Gli Untori.

Morti per o morti con?

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alle origini del Covid-19.

Epidemie e Profezie.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Gli errori dell'Oms.

Gli Errori dell’Unione Europea.

Il Recovery Plan.

Gli Errori del Governo.

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

CTS: gli Esperti o presunti tali.

Il Commissario Arcuri…

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

 

INDICE SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

2020. Un anno di Pandemia.

Gli Effetti di un anno di Covid.

Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

La Sanità trascurata.

Eroi o Untori?

Io Denuncio.

Succede nel mondo.

Succede in Germania. 

Succede in Olanda.

Succede in Francia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Russia.

Succede in Cina. 

Succede in India.

Succede negli Usa.

Succede in Brasile.

Succede in Cile.

INDICE SETTIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

La Reazione al Vaccino.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Furbetti del Vaccino.

Il Vaccino ideologico.

Il Mercato dei Vaccini.

 

INDICE NONA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Coronavirus e le mascherine.

Il Virus e gli animali.

La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.

Le Fake News.

La manipolazione mediatica.

Un Virus Cinese.

Un Virus Statunitense.

Un Virus Padano.

La Caduta degli Dei.

Gli Sciacalli razzisti.

Succede in Lombardia.

Succede nell’Alto Adige.

Succede nel Veneto.

Succede nel Lazio.

Succede in Puglia.

Succede in Sicilia.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Reclusione.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

Covid e Dad.

La pandemia è un affare di mafia.

Gli Arricchiti del Covid-19.

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Alle origini del Covid-19.

Da adnkronos.com il 16 dicembre 2021. Una fuga di laboratorio è ora la più probabile ipotesi sull'origine del covid, dopo che per due anni la ricerca di un animale ospite non ha dato risultati per risalire alla "nascita" del coronavirus. È quanto ha riferito la dottoressa Alina Chan, specialista in terapia genica e ingegneria cellulare del Mit e di Harvard, nella sua audizione davanti alla commissione Scienza e Tecnologia del Parlamento britannico. Per la dottoressa Chan esiste anche il rischio che il Covid-19 sia un virus creato artificialmente. «Credo che l'origine in laboratorio sia la più probabile. Al momento, per coloro che sono a conoscenza dell'origine della pandemia, non è sicuro farsi avanti. Ma viviamo in un'era nella quale ci sono tantissime informazioni archiviate e prima o poi usciranno fuori», ha detto la scienziata davanti alla commissione. La dottoressa Chan ha illustrato gli aspetti tecnici che a suo giudizio lascerebbero propendere per l'ipotesi di un virus creato artificialmente. «Abbiamo sentito molti virologi di fama affermare che un'origine artificiale è ragionevole e questi comprendono virologi che modificarono il primo virus della Sars. Sappiamo che questo virus ha una caratteristica unica, chiamata sito di clivaggio della furina, e senza questa caratteristica non avrebbe causato questa pandemia», ha spiegato. La scienziata ha proseguito ricordando che è emerso che «EcoHealth (un'organizzazione non governativa con sede negli Stati Uniti, ndr) e l'Istituto di virologia di Wuhan stavano sviluppando un sistema per l'inserimento di nuovi siti di clivaggio della furina. Quindi - ha concluso - abbiamo questi scienziati che all'inizio del 2018 dicono, "metteremo dei corni sui cavalli" e alla fine del 2019 a Wuhan spunta un unicorno». 

Covid creato a tavolino dalla Cina, denuncia un libro. “Ma se lo dici ti accusano di essere razzista e di destra”. Lucio Meo sabato 18 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Un ”vero e proprio crimine sanitario contro l’umanità” quello che la Cina ha commesso tacendo, alla comunità scientifica e al mondo intero, che il Covid-19 è ”scappato” da un laboratorio dopo ”una sperimentazione durata anni” per creare ”un virus in grado di contagiare in modo asintomatico”. Ma soprattutto tacendo ”la caratteristica molecolare di questo virus”, che ”i cinesi sapevano avendolo costruito in laboratorio e avendo sequenziato il genoma a fine dicembre 2019”. Se ”l’Organizzazione mondiale della Sanità e il mondo scientifico avessero saputo a inizio gennaio del 2020 quale era la caratteristica molecolare” del coronavirus, avrebbero potuto adottare ”provvedimenti molto precisi” e ”risparmiare milioni di morti”, ”migliaia solo in Italia”. E ”la Pfizer avrebbe potuto lavorare a un vaccino più duraturo”. Invece ”la Cina ha fatto con il Covid-19 quello che la Russia ha fatto con Cernobyl”. Ne è convinto Paolo Barnard, autore del libro ‘L’origine del virus’ edito da Chiarelettere, che in una intervista ad Adnkronos (video) parla di ”virus mostri”, come il Sars Cov-2, che si basano su una ”tecnica della virologia nota come ‘gain of function”’. Una tesi espressa qualche giorno fa anche da una studiosa di Harvard. In pratica si tratta di ”prendere un virus che si considera potenzialmente pericoloso per animali e uomini, lo si incattivisce in laboratorio appositamente con il pretesto di poterlo combattere meglio se un giorno si incattivisce in natura”. Questa è ”una follia” che è avvenuta nel laboratorio di Wuhan, spiega l’autore, dove ”gli esperimenti sono iniziati nel 2010” e dove ”nel 2015 è stato creato il coronavirus chimerico che è quasi certamente la spina dorsale di quello scappato da Whuan nel 2019”. Proprio perché creato in laboratorio per infettare meglio, il Covid-19 ”contiene un meccanismo molecolare chiamato ‘furin cleavage site’ che ha solo questo covornavirus nella famiglia di 1500 coronavirus che si conoscono” e che ”nella letteratura scientifica rende questo virus molto aggressivo”. Ma non solo. Oltre al ”meccanismo micidiale taciuto dalla Cina se ne è aggiunto un altro”, prosegue Barnard, che cita ”gli aminoacidi finali (del Covid-19, ndr) che si attaccano letteralmente ai ricettori della cellula umana dove non c’è il ricettore” e ”anche questi non si trovano in natura”. Altra caratteristica ”terribile” che ”permette a questo virus di essere super aggressivo” è il fatto che ”fa tropismo di organi in modo asintomatico” e ”colpisce organi diversi nonostante sia un virus respiratorio”, quindi attacca ”cuore, capillari, cervello, intestino…”. Ed è proprio ”a causa di questo orrendo meccanismo che causa stragi”, spiega l’autore. Solo il 31 dicembre del 2019 la Cina ha segnalato la nuova malattia respiratoria virale, ma come spiega Barnard ”a metà novembre 2019 a Whaun tre ricercatori del laboratorio erano stati ricoverati con una grave malattia respiratoria. Gli scienziati cinesi negano che sia successo”. Il 13 e il 21 novembre vengono segnalati altri due casi, mentre il 25 un insegnante inglese, Connor Reed, viene evacuato da Whuan, torna in Inghilterra e due mesi dopo viene confermato che era Sars Cov-2. ”Tutto questo contraddice la versione cinese del primo caso riportato a dicembre”, afferma. La Cina tace perché, prosegue Barnard, altrimenti avrebbe dovuto ”confessare una sperimentazione scellerata” di cui, tra l’altro, ”l’intelligence americana e quella israeliana erano a conoscenza”. Pechino mette anche in atto un ”tentativo disperato di coprire tutto” e ”nel settembre del 2019 scompaiono 16 milioni di pipistrelli dal database pubblico che l’istituto di Whuan condivideva con la comunità internazionale. Inoltre il 30 dicembre del 2019 vengono alterati i database dei nuovi coronavirus che venivano consultati dai virologi internazionali”. Infine ”il governo cinese ordina di distruggere tutti i campioni di Sars Cov-2 già isolati”. Eppure esiste ”una censura mondiale sull’origine del coronavirus”, parlare di ”una origine cinese equivale a essere considerati filo Trump, razzisti, di destra”. Ma le prove della ”fuga da un laboratorio sono nella storia evolutiva di questo coronavirus, che non ha famiglia, nessun antenato, nessuno parente lontano o vicino, nessuna prova che sia passato dall’animale all’uomo, nessuna impronta digitale. Sbuca dal nulla” ed è ”adattissimo a contagiare l’uomo da zero”. Tra l’altro ”i cinesi dicono che viene dai pipistrelli, ma il Sars Cov-2 non è in grado di infettare i pipistrelli”. Insomma, ”scoppia la terza guerra mondiale e nessuno può dire chi ha lanciato la prima bomba, chi ha lanciato questo virus nel mondo”. E’, conclude Barnand, ”il politically correct anti Trump che ha messo fine alla vita di cinque milioni di innocenti. Tutti morti che si potevano evitare”.

Gli ospedali di Wuhan e la (possibile) chiave per chiarire l’origine del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 3 dicembre 2021. Per capire quali sono le origini del Sars-CoV-2 e datare la sua comparsa bisogna per forza tornare a Wuhan. Nella megalopoli cinese di 11 milioni di abitanti incastonata nella provincia dello Hubei, dove è stato rilevato il primo focolaio noto. Attenzione ai termini. Abbiamo parlato di “focolaio noto“, perché ad oggi non sappiamo se il nuovo coronavirus circolasse già settimane, o addirittura mesi, prima che i riflettori si accendessero sul mercato del pesce Huanan di Wuhan. Non sappiamo neppure se il virus abbia avuto origine all’interno della città, in qualche campagna sperduta dell’Asia o se sia fuoriuscito accidentalmente dal Wuhan Instite of Virology a causa di un incidente avvenuto nel laboratorio locale. La situazione è complessa, anche perché più passa il tempio e più è complicato sperare di trovare tracce utili alla ricerca scientifica. Dal momento che, oltre alle quattro ipotesi messe sul tavolo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), è emerso poco altro, potrebbe essere utile guardare la vicenda da un’altra prospettiva. Ad esempio, che cosa sappiamo dei primissimi casi di Covid rilevati a Wuhan? Dove, quando e come sono stati contagiati? Qual è stato il ruolo giocato nella pandemia dal mercato ittico di Wuhan? Andiamo con ordine. Innanzitutto è stato accertato che tra i banchi del mercato Huanan – di altri tre mercati di animali vivi sparsi per la città – si vendessero anche mammiferi vivi sensibili ai coronavirus, tra cui i cani procioni. Ricordiamo che, durante l’epidemia di Sars, facilitata dal contatto animale-uomo proprio nei mercati cinesi di animali vivi, i coronavirus correlati alla sindrome respiratoria acuta grave (Sars-CoV, cugino di Sars-CoV-2) furono trovati nei cani procioni. Non è però chiaro se l’apparente preponderanza di pazienti contagiati e ospedalizzati associati a questo mercato possa effettivamente rispecchiare l’epidemia iniziale.

Falle nel sistema

Ci sono alcuni eventi cruciali verificatesi a cavallo tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020 che meritano di essere analizzati. Il 30 dicembre 2019, a poche ore dai festeggiamenti cinesi per l’ingresso nell’anno del Topo, la Commissione sanitaria municipale di Wuhan (Whc) emette due avvisi di emergenza rivolti agli ospedali cittadini, avvertendoli della presenza di pazienti con “polmonite atipica”, molti dei quali lavoratori o clienti del mercato di Huanan. Il giorno seguente, la stessa Commissione annuncia di aver effettuato indagini retrospettive relative al citato mercato. Risultato: il 66% dei primi 41 pazienti noti risulta avere un collegamento con il mercato del pesce di Huanan. Tra il 29 dicembre e il 2 gennaio, gli stessi contagiati vengono trasferiti da vari altri ospedali di Wuhan al Jinyintan Hospital il principale centro di malattie infettive della metropoli. Come ha sottolineato Science nel corso di una lunga ricerca, questi pazienti sono stati ricoverati in base alla presentazione delle loro situazioni cliniche. Tutti dovevano fare i conti con una polmonite virale di eziologia sconosciuta, un’etichetta che, secondo il meccanismo istituito dalla Cina sulla scia della Sars, avrebbe dovuto attivare un sistema di segnalazione precoce per rilevare malattie virali sconosciute. Lo stesso meccanismo, supervisionato dal Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie (Ccdc), prevedeva che i medici informassero il sistema nazionale di segnalazione delle malattie soggette a notifica attraverso una piattaforma online. Nel dicembre 2019, a Wuhan, questo non è stato fatto. Il suddetto sistema sembrerebbe esser entrato in funzione soltanto a partire dal 3 gennaio.

Dicembre 2019: gli ospedali di Wuhan

Lo Hubei Provincial Hospital of Integrated Chinese and Western Medicine è stato il primo ospedale ad allertare le autorità sanitarie pubbliche distrettuali, municipali e provinciali. Il 27 dicembre 2019, Zhang Jixian, direttore della medicina respiratoria e di terapia intensiva, si accorge quasi per caso che le immagini della tomografia computerizzata (TC) dei polmoni di una coppia di anziani giunta presso la struttura presenta grandi opacità “a vetro smerigliato”; uno scenario ben diverso da quello che il signor Zhang ha più volte osservato in altri casi di polmonite virale. I due coniugi sono quindi i primi casi noti, nonché gli unici ufficialmente registrati prima del 26 dicembre. Nessuno di loro presenta collegamenti noti con il mercato di Huanan. Un altro paziente con immagini TC simili, un lavoratore del mercato di Huanan, viene ricoverato il 27 dicembre. Zhang, preoccupato per una nuova malattia virale probabilmente infettiva, segnala i quattro casi ai funzionari dell’ospedale, che lo stesso giorno allertano subito il Cdc del distretto di Jianghan. Il 28 e il 29 dicembre, altri tre pazienti, tutti lavoratori del mercato di Huanan, sono ricoverati con sintomi ricollegabili alla stessa malattia sconosciuta. Il 29 dicembre, Xia Wenguang, uno dei vicepresidenti dell’ospedale, riunisce 10 esperti dell’istituto, incluso Zhang, concludendo che la situazione è “straordinaria”. Sempre il 29 dicembre, dopo aver appreso di pazienti simili, collegati anche al mercato di Huanan, negli ospedali Tongji e Union (Xiehe), Xia allerta i CDC di Wuhan e dello Hubei. Nello stesso momento, una situazione simile si sta verificando anche all’ospedale centrale di Wuhan. Il 18 dicembre, Ai Fen, direttore del pronto soccorso, incontra il suo primo paziente affetto da una polmonite inspiegabile, un uomo di 65 anni, fattorino del mercato di Huanan ammalatosi il 13 o il 15 dicembre. Il 24 dicembre l’ospedale invia un campione di lavaggio broncoalveolare del 65enne a Vision Medicals, una società di sequenziamento metagenomico che il 26 dicembre identifica un nuovo Sars-CoV. Gli esperti trasmettono la scoperta all’ospedale per telefono il 27 dicembre. Entro il 28 dicembre, l’ospedale centrale di Wuhan identifica sette casi, quattro connessi al mercato di Huanan. All’ospedale Zhongnan, nel distretto di Wuchang di Wuhan, a 15 chilometri dal mercato di Huanan, sulla sponda opposta del fiume Yangtze, il 31 dicembre il vicepresidente Yuan Yufeng chiede agli addetti della struttura di cercare casi di “polmonite atipica”. Il dipartimento di medicina respiratoria ne segnala due. Il primo soggetto vive nel distretto di Wuchang ma lavora al mercato di Huanan; il secondo non lavora al mercato di Huanan ma ha amici che lo fanno, e che di recente sono stati ospiti a casa sua. Il 3 gennaio vengono identificati altri tre casi: un gruppo familiare non collegato al mercato. Unendo i punti, alcuni esperti esperti ritengono che i primi casi della pandemia – e dunque l’emergenza stessa – possano essere associati al mercato di Huanan.

Il ruolo del mercato ittido di Huanan

Una domanda interessante è la seguente: se la fonte di tutto era il mercato di Huanan, perché soltanto da uno a due terzi dei primi casi erano collegati a quel luogo? Possiamo rispondere con un’altra domanda. Per quale motivo dovevamo aspettarci che tutti i casi accertati settimane dopo l’epidemia fossero confinati a un mercato? Del resto Sars-CoV-2 è un virus dotato di un’elevata trasmissibilità e alto tasso di diffusione asintomatica. Di conseguenza, molti casi sintomatici non avrebbero presentato collegamenti diretti con il luogo di origine della pandemia. Altre considerazioni da fare: i primi casi noti potrebbero non essere i primi a essersi infettati, né collegabili al mercato del pesce di Wuhan. In più, solo il 7% delle infezioni da Sars-CoV-2 porta al ricovero in ospedale. Sfortunatamente, nessun mammifero vivo raccolto al mercato di Huanan o in qualsiasi altro mercato di animali vivi a Wuhan è stato sottoposto a screening per virus correlati a Sars-CoV-2. In più, il mercato di Huanan è stato chiuso e disinfettato il 1 gennaio 2020. Tuttavia, la maggior parte i primi casi sintomatici sono stati collegati all’ormai noto “mercato di Wunan”, in particolare alla sezione occidentale, dove vari animali erano ingabbiati e venduti ai clienti. Questo potrebbe spiegare la straordinaria preponderanza dei primi casi di Covid-19 in uno dei pochi siti di Wuhan che vendeva alcuni degli stessi animali che hanno portato la Sars tra gli esseri umani. La prova finale di un’origine della pandemia dal mercato Huanan potrebbe essere ottenuta attraverso l’analisi dei modelli spaziali dei primi casi e da ulteriori dati genomici, compresi i campioni positivi per SARS-CoV-2 dal mercato di Huanan, nonché attraverso l’integrazione di ulteriori dati epidemiologici.

(ANSA il 19 novembre 2021) - Il primo caso di Covid è stato un venditore del mercato degli animali di Wuhan e non un contabile che viveva a chilometri di distanza come stabilito dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. A riscrivere la cronologia della pandemia - riporta il New York Times -, è il prestigioso Science, riaccendendo così il dibattito sulle origini della pandemia fra la fuga dal laboratorio di Wuhan al contagio dall'animale all'uomo. Lo scienziato Michael Worobey, esperto nel tracciare l'evoluzione dei virus alla University of Arizona, ha notato delle discrepanze fra le informazioni pubbliche disponibili ma anche tramite interviste condotte in Cina. Ed è arrivato alla conclusione che i legami del venditore al Huanan Seafood Wholesale Market e i primi pazienti ricoverati suggeriscono che il virus arriva dal mercato.

La paziente zero? Al mercato di Wuhan. Tiziana Paolocci il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. Il virologo Worobey: "Il primo caso fu una venditrice di prodotti ittici". Un nuovo studio americano sulle origini del Covid-19 collega il primo caso noto di infezione al mercato Huanan di Wuhan, dove venivano venduti anche animali selvatici, e posticipa di otto giorni la data in cui la malattia si è manifestata in quello che fino a oggi è considerato il «paziente zero», portandola dall'8 al 16 dicembre 2019. La rivista Science riporta in sintesi lo studio, pubblicato dall'Associazione Americana per il Progresso della Scienza (AAAS), realizzato dal virologo Michael Worobey, professore di Ecologia e Biologia Evolutiva dell'Università dell'Arizona. Secondo quest'ultimo il primo caso noto di Covid-19 è quello di una venditrice del mercato, che si sarebbe ammalata l'11 dicembre 2019 e non di un uomo, che non ha mai avuto legami con Huanan. Questo cancellerebbe definitivamente le speculazioni fatte dall'inizio della pandemia, di un virus creato in laboratorio. Pur non essendoci prove definitive, le nuove informazioni sembrano infatti collegare il virus a un'origine animale. Nello studio il virologo ha analizzato i casi riportati da due ospedali prima che fosse emanata l'allerta: le infezioni erano largamente collegate al mercato, e quelle che non lo erano comunque concentrate nei suoi pressi. «In una città di 11 milioni di abitanti, metà dei primi casi sono collegati a un posto che è grande quanto un campo di calcio - ha commentato New York Times -. Diventa difficile spiegarne il modello, se il virus non è cominciato al mercato». Tesi appoggiata anche da Peter Daszak, uno dei membri del team dell'Oms, che ha visitato Wuhan a inizio 2021 per le indagini sull'origine del Covid. «La data dell'8 dicembre - ha detto al new York Times - era un errore». Per arrivare a questi risultati, lo studio ha attinto a una miriade di fonti ed è stata fatta una panoramica degli eventi cruciali che si sono verificati tra dicembre 2019 e gennaio 2020 a Wuhan. La cronologia collega i primi casi proprio al mercato ittico Huanan, dove venivano venduti animali vivi. Per Worobey ci sarebbe stato un salto di specie del virus dagli stessi all'uomo. Ma purtroppo nessun mammifero vivo raccolto di Huanan è stato sottoposto a screening per virus correlati a SARS-CoV-2 e il mercato è stato chiuso e disinfettato subito dopo. Nonostante questo, per il virologo americano la maggior parte dei primi casi sintomatici erano collegati alla sezione occidentale del mercato, in cui venivano ingabbiati animali noti per essere sensibili ai coronavirus. «Anche se potrebbe non essere mai possibile recuperare virus correlati dagli animali se non sono stati campionati al momento dell'emergenza - concle lo studio - la prova conclusiva di un'origine al mercato di Wuhan dalla fauna selvatica infetta può essere ottenuta attraverso l'analisi dei modelli spaziali dei primi casi e da ulteriori dati genomici. Dati, inclusi campioni positivi SARS-CoV-2 dal mercato di Wuhan, nonché attraverso l'integrazione di ulteriori dati epidemiologici. La prevenzione di future pandemie dipende da questo sforzo». Tiziana Paolocci

Prosegue la “guerra dei rapporti” tra Usa e Cina sulle origini del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 3 novembre 2021. Più che un lavoro minuzioso, utile a fare luce sulle origini della pandemia di Sars-CoV-2, l’ennesimo report sfornato dagli 007 americani sembra soltanto l’ennesima sferzata buona soltanto a scaldare gli animi. L’Office of Director of National Intelligence (Odni), l’organismo americano di coordinamento delle varie agenzie, ha diffuso un rapporto declassificato dell’intelligence Usa dove vengono analizzate proprio le origini del Covid-19. Nelle 18 pagine del report (consultabile e scaricabile qui) emergono nuovi dettagli sulle indagini che gli Stati Uniti hanno realizzato al fine di chiarire il mistero Covid-19. La versione classificata di questo rapporto era stata precedentemente fornita a Joe Biden in persona e ai responsabili politici alla conclusione del famigerato periodo di revisione di 90 giorni. Un periodo di revisione, compreso tra la fine di maggio e la fine di agosto, al termine del quale Biden avrebbe dovuto ottenere elementi con i quali poter rispondere a ogni domanda controversa sulla pandemia e, nel caso, inchiodare la Cina di fronte alle proprie responsabilità. Ebbene, il tentativo americano sbandierato dal presidente democratico si è rivelato un autentico flop. Gli 007 americani non hanno fatto progressi, al punto che è ancora oggi impossibile mettere sul tavolo conclusioni definitive sulle origini del virus. Neppure gli ultimi documenti declassificati sono stati in grado di fare chiarezza.

Certezze, dubbi, ipotesi

Le agenzie statunitensi restano profondamente divise tra loro, anche se la maggior parte ritiene che il Sars-CoV-2 “non sia stato sviluppato come arma biologica”. Questa affermazione, almeno a giudicare dalle opinioni della comunità scientifica (e non solo), era piuttosto scontata. In ogni caso, gli Stati Uniti hanno ufficialmente escluso una delle piste più controverse tra quelle in circolazione.

Tra le pagine del report è inoltre interessante soffermarci su un altro passaggio. Pare che i dirigenti cinesi non fossero a conoscenza del virus prima dell’epidemia iniziale avvenuta a Wuhan, con il primo caso verificatosi “non oltre novembre 2019“. Nel documento si punta tuttavia il dito contro la Cina, che “continua a ostacolare l’indagine globale, a resistere alla condivisione di informazioni e a incolpare gli altri Paesi, compresi gli Stati Uniti”.

Come vedremo, Washington accusa Pechino, che a sua volta respinge ogni insinuazione e rilancia accusando, a sua volta, gli Stati Uniti. In ogni caso, l’assunto base dell’intero documento è che le agenzie di intelligence statunitensi potrebbero non essere mai in grado di identificare le origini del Covid-19. L’ambasciata cinese a Washington ha tuttavia replicato all’agenzia Reuters spiegando che “la mossa degli Stati Uniti di affidarsi al proprio apparato di intelligence invece che agli scienziati per rintracciare le origini del Covid-19 è una completa farsa politica”.

La replica di Pechino: “Solo bugie”

Tornando al report, ci sono quattro punti che mettono d’accordo gli 007 Usa: 1) il primo cluster conosciuto di Covid è apparso a Wuhan nel dicembre 2019; 2) il virus non è stato sviluppato come un’arma biologica; 3) il virus non è stato geneticamente ingegnerizzato; 3) gli ufficiali cinesi erano ignari del virus prima che la pandemia emergesse. Due, a detta dell’intelligence americana, sono invece le ipotesi plausibili: 1) la trasmissione naturale dagli animali agli esseri umani; 2) l’accidentale fuoriuscita del virus dal laboratorio (presumibilmente il Wuhan Institute of Virology) in seguito a un incidente o errore umano.

Durissima la replica della Cina alle insinuazioni statunitensi. “Una bugia ripetuta mille volte è pur sempre una bugia. Non importa quante volte il rapporto venga pubblicato o in quante versioni arrivi: non cambierà il fatto che questo rapporto è, in sostanza, politicizzato e falso, privo di basi scientifiche e di credibilità”, ha risposto il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin a una domanda sul rapporto americano dell’Odni. Lo studio sulle origini del Coronavirus è un tema scientifico serio e complesso è può essere realizzato solo dagli scienziati attraverso una cooperazione globale, ha aggiunto il portavoce. La guerra dei rapporti continua.

Giorgio Palù, la prova definitiva: "Covid incidente di laboratorio, era già successo". Una strage cinese. Libero Quotidiano il 04 novembre 2021. Con il Covid dovremmo conviverci sempre. Lo hanno affermato sei scienziati americani in un saggio apparso su Foreign Affairs, la più prestigiosa rivista di analisi politica nel mondo. L'immunità di gregge è infatti irraggiungibile. Il motivo? "Molti Paesi semplicemente non hanno vaccini sufficienti, e anche tra i pochi fortunati che ne hanno in abbondanza, troppa gente sta rifiutando di farsi la puntura". Non solo, perché ad allarmare c'è anche la trasmissibilità del virus negli animali. Al momento - confermano gli esperti - "sta crescendo in più di una dozzina di specie animali". L'epilogo è chiaro e drammatico: "Il mondo non sarà immunizzato prima dell’attacco di varianti più contagiose, più resistenti ai vaccini e perfino in grado di sfuggire ai normali test diagnostici. Cosi queste supervarianti potranno riportarci alla prima casella del gioco dell’oca. Potremmo tornare al 2020: punto e a capo". Lo conferma Giorgio Palù, virologo presidente dell'Agenzia italiana del Farmaco: "Potremmo assistere a un ping pong tra uomo e animali. Il Coronavirus è il virus più diffuso tra gli animali e sono almeno dieci le specie in cui può insediarsi il Sars-CoV-2". Neppure il vaccino può farci rialzare la testa, visto che "la missione è impossibile, perché non ce la faremo mai a vaccinare il 90 per cento di una popolazione che viaggia da un continente all’altro". Questo però non deve farci abbattere. Intervistato da Bruno Vespa per il suo nuovo libro, "Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando)", Palù ha rassicurato: "Usciranno farmaci antivirali, come è capitato per l’Aids e per l’epatite C". D'altronde la scienza ha già dimostrato di essere in grado di fare miracoli. Ne è convinto il virologo che non può negare che "è impressionante come Moderna sia riuscita ad allestire il vaccino per il Covid-19 poco dopo l’annuncio dell’esistenza del virus e una settimana dopo il deposito della sequenza del suo genoma". Anche su quale sia la sua origine, Palù ha pochi dubbi: "Personalmente credo che si sia trattato di un incidente di laboratorio a Wuhan. Era già successo in altri laboratori cinesi con virus e batteri altamente contagiosi, cosi come negli Stati Uniti e in altri posti. E, intanto, noi dobbiamo imparare a convivere con il Covid".

Sorpresa: anche un’altra epidemia venne dalla Cina. LA PRIMA EPIDEMIA DELLA STORIA? LA “PESTE ANTONINA”. E DI MEZZO CI SONO SEMPRE I CINESI. Rino Cammilleri il 26 Ottobre 2021 su Nicolaporro.it. Ormai siamo abituati all’influenza stagionale che, a ogni inverno, ci costa problemi all’economia e perfino morti. La provenienza è sempre la solita, e stupisce come mai a trovare rimedio non ci si sia neppure pensato. Avevo quattro o cinque anni quando mi presi l’Asiatica, il cui nome dice tutto. E poi, aviarie e sars, sempre da là. Andando indietro nel tempo, la prima pandemia di cui si abbia notizia storica è la famosa «peste antonina» che dal 166 al 180 d.C. stese l’Impero Romano. Si calcolano sui dieci milioni di morti, uno sproposito sulla popolazione complessiva del tempo. Si era sotto Marco Aurelio, il quale molto probabilmente ne morì. Ed era presente il celebre Galeno, il medico più illustre di Roma. Ma neanche lui riuscì a capire che razza di morbo fosse. Fu l’inizio della crisi che, in capo a tre secoli, avrebbe portato al tracollo dell’Impero d’Occidente. Questa «peste» (così venivano indicati i morbi pandemici e sconosciuti) l’avevano portata in Europa le legioni che proprio nel 166 tornavano dalla campagna in Asia Centrale contro i Parti. L’avevano presa in Partia. Ma in Partia chi l’aveva portata?

L’importazione di seta dalla Cina

Lo storico Giuseppe Testa nel suo La peste antonina. Storia della prima pandemia: dalla Cina alla Roma imperiale (Salerno, pp. 236, €. 18) insinua il sospetto che il morbo si sia originato nel Celeste Impero della dinastia Han, e suffraga l’ipotesi con tutta una serie di dettagliatissime informazioni di ordine storico ma tratte anche dalle scienze naturali. Qui possiamo solo accennarvi a grandi linee, e diciamo subito che i Parti erano i grandi mediatori commerciali tra l’impero cinese e quello romano. Più volte Roma, grande consumatrice di seta e acciaio temprato (monopoli cinesi), cercò di prendere diretto contatto con la corte del Regno di Mezzo (così lo chiamavano i cinesi), ma il viaggio era troppo lungo e le poche volte che la missione riuscì non fece più ritorno. Morta per strada? Incappata in banditi o pirati? Non si sa. Del resto i Parti, che sapevano del desiderio romano, non tralasciavano di sabotarlo. Per questo Roma decise che era ora di farla finita con loro. Da qui la campagna, vittoriosa, sì, ma funesta per le conseguenze che sappiamo.

Dove nacque l’epidemia?

La cosa funzionava così: i mercanti cinesi vendevano le loro pregiatissime merci ai Parti (e già per i cinesi era un viaggio lungo e pericoloso) e questi le rivendevano, naturalmente a prezzi galattici, agli occidentali. La seta era così richiesta a Roma che la Cina era chiamata Serica, il paese della seta, dai romani. Prima che Marco Polo parlasse di Cathay. Ma la «peste» i cinesi da chi l’avevano presa? Il loro impero doveva vedersela continuamente con i «barbari del Nord», contro i quali in seguito fu costruita la Grande Muraglia. Tra queste orde che incessantemente pressavano e alle quali non di rado bisognava pagare tributo perché la smettessero, c’erano i mongoli: «Questo popolo mangiava qualsiasi specie di animali, di cui consumava le carni crude, e dava la caccia ai ratti con torme di cavalli e intere mute di cani».

Ci ricorda niente?

Il morbo si diffuse cominciando dal Guandong. «La regione contemplava (e contempla) la più alta concentrazione di uomini, bestie e mercati di animali al mondo. Giusto dal Guandong, vent’anni addietro, dilagò l’epidemia di Sars». La malattia sconvolse l’impero cinese e provocò, a occhio e croce, sui novanta-cento milioni di morti. Per poi viaggiare verso Ovest lungo la Via della Seta. A Roma fu chiamata «peste antonina» perché Marco Aurelio era stato adottato dal predecessore Antonino Pio e perciò ne portava il nome gentilizio. Proprio nel 166 «Andun», imperatore di «Da-Qin» (così i cinesi chiamavano Marco Aurelio e Roma) mandò una delegazione all’imperatore Huan. Non si hanno altre notizie. Huan attese invano una riposta da Roma perché la «peste» era arrivata prima. In Cina infuriava dal 161. Marco Aurelio, per soccorrere la popolazione, arrivò a vendere perfino l’abito nuziale della moglie. Ma poi dovette arrendersi pure lui. Rino Cammilleri, 26 ottobre 2021

Margherita De Bac per il “Corriere della Sera” il 24 ottobre 2021. Non sarebbe la prima né l'ultima volta. Nella storia della medicina si contano migliaia se non milioni di fughe di microrganismi dai laboratori. «Non stupirebbe trovare la prova che il Sars-CoV-2 sia uscito fuori inavvertitamente dal centro di Wuhan dove si studiano i coronavirus. Nessuna misura di contenimento, anche la più sofisticata, può azzerare il rischio». Maurizio Pocchiari, ex direttore del dipartimento di neuroscienze dell'Istituto Superiore di Sanità, si è occupato per anni di Creutzfeldt-Jakob, malattia causata da un prione (agente infettivo di dimensioni più piccole dei virus), che nel 2001 ha colpito l'uomo con una variante umana passata a noi dai bovini affetti da Bse, meglio nota come «Mucca pazza».

Il presidente Joe Biden ha chiesto ai servizi segreti di raddoppiare gli sforzi e preparare un nuovo rapporto sull'origine del Covid-19. Il virus può essere uscito da un centro di ricerca?

«Nei centri di ricerca, anche in quelli ad altissima sicurezza, i cosiddetti P3 e P4, non è impossibile che un agente patogeno contamini l'operatore. Nel caso del Sars-2 non è fantascienza ipotizzare che durante una procedura un tecnico abbia inalato le particelle infette emesse, tanto per fare un esempio, durante la fase di centrifugazione di materiale infetto e che le cappe, nonostante siano dotate di chiusura ermetica, non fossero state azionate».

Crede che la Cina abbia nascosto la verità?

«Può darsi che l'episodio non fosse noto alle autorità. Un ricercatore che, supponiamo, dopo qualche giorno abbia sviluppato una forma influenzale, potrebbe non aver messo in relazione quei sintomi con un incidente a lui passato inosservato. La verità è difficile da ricostruire e mi riporto alla variante di Creutzfeldt-Jakob».

Tre persone sono morte di variante, due in Francia, una in Italia. Ricercatori...

«Sì, tre ricercatori. Di almeno due dei 3 casi siamo certi. Uno è stato descritto su New England Journal Medicine . Si parla di esposizione occupazionale in un tecnico che aveva maneggiato campioni di topo contaminato con l'agente infettivo che causa l'encefalopatia spongiforme bovina, la Bse, o con quello della variante di Creutzfeldt-Jakob. Poi sappiamo di una 24enne francese morta 19 mesi dopo essersi tagliata. E indossava due paia di guanti».

E la vittima italiana?

«Nell'articolo inglese c'è un accenno alla storia di una paziente morta nel 2016 con la variante. Aveva avuto contatti in laboratorio con materiale infetto di Bse o variante di Creutzfeldt-Jakob, ma non si è mai capito come possa essersi contaminata. È la conferma che tante volte nei rendiconti dei laboratori non si trova traccia di incidenti proprio in quanto possono passare inosservati anche al ricercatore». 

Covid-19: l'EcoHealth Alliance nel mirino del Washington Post. Piccole Note il 27 ottobre 2021 su Il Giornale. Anche il Washington Post si accorge che qualcosa non torna nella tradizionale narrazione della pandemia. Uno dei più celebri giornali americani avanza, per la prima volta, l’ipotesi che il virus del Covid-19 sia nato a Wuhan, come ripetuto in tutte le salse da due anni, non per caso, ma come frutto di un esperimento di ingegneria genetica. Ma questa volta si accorge che in tali esperimenti erano coinvolti gli americani, con finanziamenti pubblici che il NIH (National Institute of Health guidato da Anthony Fauci) ha erogato alla EcoHealth Alliance presieduta da Peter Daszak.

Il Wp e l’alleanza tra ecologia e sanità

“La scorsa settimana, è stato rivelato che l’EcoHealth Alliance ad agosto ha presentato un documento sulla sua ricerca nel 2018-2019 in ritardo di due anni… [un ritardo che] non è stato spiegato”. ” […] La tardiva documentazione descrive esperimenti, approvati dal NIH diretti a testare le possibilità infettive di virus geneticamente manipolati su topi con cellule simili a quelle del sistema respiratorio umano. Le manipolazioni hanno reso i virus più letali per i topi”. Nel riferire ciò, il WP spiega che il NIH ha ribadito che non si è trattato di un guadagno di funzione e la pandemia non è stata causata da tali esperimenti (ovvia smentita). Nulla di nuovo, ne abbiamo già scritto (vedi il recente “Wuhan, EcoHealth Alliance: storia di coronavirus e di chimere“), ma meritano particolare attenzione le domande che il WP pone, nel finale, a Peter Daszak, che riportiamo di seguito. “Perché non ha rivelato la sua proposta del 2018 alla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) per la ricerca sui coronavirus dei pipistrelli con il WIV (Wuhan Institute of Virology)  che richiedeva una particolare modifica [l’oramai celebre “sito di scissione della furina” ndr] della proteine ​​spike di virus chimerici una modifica che li avrebbe resi molto infettivi per le cellule umane, esattamente come poi ha fatto il ceppo pandemico? Cosa sa dei database di virus che WIV ha messo offline nel 2019 e mai più rimesso online? Sa quale ricerca potrebbe aver fatto la WIV da sola, durante o dopo la collaborazione con EHA? Che studi si facevano al WIV nei mesi precedenti la pandemia?” “Il signor Daszak deve rispondere a queste domande prima del Congresso. Le sue sovvenzioni sono arrivate da fondi federali ed è del tutto appropriato che il Congresso insista sulla responsabilità e sulla trasparenza”. L’articolo è ambiguo: da una parte chiede conto di eventuali responsabilità dei cinesi, dall’altra non può non constatare che il virus prodotto della EHA è sorprendentemente simile, se non uguale, a quello che ha causato la pandemia.

Cambio di strategia e complottistiche verità

Una lettura complottistica della nota potrebbe far pensare che, essendo ormai diventate di dominio pubblico le pericolose ricerche della EHA, si sta prefigurando una via di uscita ai suoi dirigenti, suggerendo loro di cambiare strategia e di diventare i grandi accusatori dei cinesi. Ne uscirebbero indenni, se non come eroi. Ma al di là delle letture più o meno errate della nota, resta che il Washington Post, giornale mainstream per eccellenza, ha riconosciuto come vero quel che tanti da due anni denunciano, cioè l’oscuro lavoro svolto della EHA a Wuhan per rendere più patogeni i coronavirus. Il WP cita in tal senso la proposta indecente avanzata dalla EHA alla Darpa di produrre tali coronavirus, evitando, però, di fare la considerazione  banale, nella quale sta tutta la vicenda: nessuno proporrebbe di finanziare un progetto che non è in grado di fare. Meglio, nessuno lo proporrebbe alla Darpa, Agenzia con la quale non si può scherzare. Progetto articolato nel minimo dettaglio, che evidenzia come la EHA avesse già fatto esperimenti in tal senso e forse li ha anche portati a termine (tra l’altro, si può presumere che la EcoHealth Alliance non lavori solo a Wuhan, dato che tanti sono i biolab Usa nel mondo, e potrebbe aver condotto tali esperimenti anche altrove).

Miopie e ipotesi

A margine di queste considerazioni, una qualche ironia suscita anche il ricordo di quanto avvenuto nel giugno scorso, quando l’Intelligence Usa dichiarò di aver scoperto nei suoi archivi alcuni documenti non ancora esaminati che fornivano nuovi elementi sugli inizi della pandemia, tali da accreditare la tesi che gli scienziati cinesi di Wuhan stavano lavorando sul potenziamento del coronavirus. Notizia che dilagò come un incendio nel mondo. Toh, gli era sfuggito il documento della Darpa, che ha un rapporto diretto con tali intelligence. Miopie che capitano. Al di là dell’ironia e dei diversi possibili sviluppi del caso EHA, resta che quel che un tempo era bollato come complottismo ora è “verità”, dato che la verità è ormai diventata proprietà privata del mainstream, anche se resta l’incertezza sulla genesi del virus. Così altre ipotesi, oggi bollate come complottiste, potrebbero rivelarsi “verità” in futuro (sempre che ci sia interesse a farlo). Restano, infatti, tante le domande inevase, tra cui quelle poste dalle rivelazioni ad opera di tante e diverse fonti medico-scientifiche che indicano la possibilità che il virus circolasse nel mondo prima di essere individuato a Wuhan. Ciò non eliminerebbe l’ipotesi che sia stato creato dall’uomo, dal momento che potrebbe esser stato realizzato in un biolab diverso da quello della città cinese. Tante, dunque, le ipotesi e le domande, ma va tenuto a mente che ad oggi la tesi ancora più accreditata resta quella che vede una genesi naturale del virus.

Cosa si nasconde dietro alla nuova “task force Covid” dell’Oms. Federico Giuliani su Inside Over il 18 ottobre 2021. Pile di fogli sulle scrivanie dei laboratori, dati che non quadrano, buchi narrativi che non consentono di ricostruire l’incipit della storia e tanta, tanta dose di pessimismo, con la consapevolezza che l’obiettivo prefissato potrebbe essere irraggiungibile. “È come cercare un ago in un pagliaio”: gli scienziati di tutto il mondo, scoraggiati dopo due anni di ricerche sostanzialmente inutili, ripetono spesso questa frase. Una frase perfetta per descrivere la loro frustrazione. Sono ormai passati quasi tre anni da quando, tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, sono stati registrati i primi casi di Sars-CoV-2, il virus responsabile di Covid-19. Da allora, i medici hanno tamponato due ondate pandemiche violentissime e scoperto, partendo da zero, le caratteristiche di un agente patogeno misterioso (imparentato con la Sars e altri coronavirus, ma sconosciuto), mentre la comunità scientifica ha sfornato vaccini anti Covid a tempo record. Adesso, grazie all’effetto combinato delle campagne vaccinali e degli anticorpi sviluppati negli organismi delle persone (moltissime, del resto, sono state infettate), i Paesi di quasi tutto il mondo sono riusciti a mettere una museruola al Covid, riportando le lancette dell’orologio nell’epoca pre pandemia, e facendo cadere le principali restrizioni anti contagio. Eppure, al netto dell’importante vittoria conseguita, nessuno ha saputo chiarire forse l’aspetto più importante di questa emergenza globale, la più terrificante degli ultimi decenni: quali sono le origini di Sars-CoV-2? Le domande senza risposta, lette e rilette sui giornali, sono sempre le stesse: qual è il luogo esatto in cui è avvenuto il primo contagio? Chi è il paziente zero? Come è quando è nato il virus?

La strana posizione dell’Oms

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), in teoria, dovrebbe essere il soggetto preposto a svelare i nodi rimasti in sospeso. La stessa Oms, sempre in linea teorica, avrebbe dovuto guidare i governi nelle fasi più critiche della pandemia, dando consigli e suggerimenti su come affrontare al meglio il misterioso virus apparso chissà come, chissà quando. L’agenzia Onu, tuttavia, si è rivelata inadatta fin da subito, tra affermazioni contraddittorie e accuse di connivenza con la Cina, luogo in cui è stato registrato il primo focolaio noto di Covid-19. Quando, poi, gli esperti hanno iniziato a vagliare le ipotesi alla base delle origini pandemiche, il direttore generale dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, pur avendo allestito e inviato una task force di scienziati oltre la Muraglia, per indagare e raccogliere indizi, ha continuato a invocare la necessità di effettuare studi più ampi. Poco importa se, con il passare dei mesi, c’era chi ha proposto spunti interessanti, più o meno verosimili ma comunque da approfondire. E poco importa se la pista più calda, almeno dal punto di vista mediatico, è stata quella della fuga accidentale del patogeno dal Wuhan Institute of Virology, il laboratorio situato nel cuore della cittadina di Wuhan. L’Oms di Ghebreyesus si è sempre limitata a fornire risposte vaghe e generali, ribadendo però un fatto imprescindibile: il virus e il laboratorio cinese non possono essere messi in relazione tra loro vista la mancanza di prove.

La prima task force Oms

Due sono le incertezze di fondo sulle quali le posizioni dell’Oms sono apparse a dir poco ambigue. La prima riguarda le origini fattuali del virus: è fuoriuscito da un laboratorio oppure è “nato” in seguito a una zoonosi avvenuta tra animale e uomo? E ancora: da quanto tempo il virus circolava tra le persone? Sul primo punto, che poi è il tema focale, per più di un anno la narrazione ufficiale riportata su riviste scientifiche e paper accademici ha difeso a spada tratta la trasmissione animale-uomo, forse una trasmissione diretta da un pipistrello a un essere umano o forse una trasmissione indiretta pipistrello-uomo mediante l’azione di un ospite intermedio.

Alimentata da Donald Trump e dai repubblicani americani per fini geopolitici, ma supportata anche da autorevoli scienziati (a secco di conferme o smentite ufficiali, ma convinti di analizzare l’idea), si era però fatta strada un’ipotesi più tagliente, quella che portava dritta al laboratorio di Wuhan. L’Oms, scettica sull’argomento, ha glissato. Peter Daszak, zoologo britannico ma anche membro della prima task force inviata da Ghebreyesus a indagare a Wuhan, ha subito escluso la Lab Leak Theory, spingendo per la teoria zoonotica. Piccolo dettaglio: Daszak, scelto per fare luce sulle origini del Covid, avrebbe collaborato con il medesimo istituto di Wuhan dal quale, secondo alcuni, potrebbe essere fuoriuscito il virus. Quando i media hanno fatto notare il palese conflitto d’interessi nel vedere Daszak parte attiva nelle ricerche sul Sars-CoV-2, ma anche vicino al Wuhan Institute of Virology, è scoppiata una mezza polemica. Anche perché lo stesso ricercatore era una delle menti che, dopo aver setacciato la città di Wuhan, il mercato ittico di Huanan (il mercato del pesce, quello che si pensava essere l’epicentro della pandemia) e perfino il laboratorio (pare che le autorità cinesi non abbiano fornito i dati relativi alla fase iniziale dell’emergenza), ha contribuito a stilare un report ufficiale sulle origini del coronavirus.

Buco nell’acqua

Si intitola WHO-convened Global Study of Origins of SARS-CoV-2: China Part. Joint WHO-China Study, ed è consultabile sul sito Oms al seguente link. È formato da 120 pagine che propongono quattro scenari (zoonosi diretta o indiretta, catena del freddo e fuoriuscita dal laboratorio) ordinati per probabilità che siano effettivamente accaduti. Ebbene, la diffusione del virus in seguito a un incidente di laboratorio è stata arbitrariamente definita dal’Oms, in seguito alle prove rinvenute, un’ipotesi “estremamente improbabile”.

Gli incidenti di laboratorio possono avvenire, ha fatto presente la task force, anche se risultano piuttosto rari, soprattutto dentro i centri dotati di elevati standard di sicurezza, quali sono gli istituti presenti a Wuhan. Ricordiamo che il team di esperti Oms è sbarcato in Cina alla fine del gennaio 2020. Terminati i 14 giorni di quarantena previsti dalle misure sanitarie cinesi, gli scienziati si sono subito messi al lavoro, operando spalla a spalla con i colleghi locali. Al termine dei 28 giorni trascorsi nella megalopoli dello Hubei, l’équipe dell’Oms non ha fornito spiegazioni ufficiali ma soltanto ipotesi. Le stesse paventate nei mesi precedenti.

Nuovo registro

L’Oms, insomma, non aveva risolto un bel niente. Con la pubblicazione del report, l’ipotesi del laboratorio era stata messa a tacere e, di fatto, bollata come insensata. E questo nonostante la teoria fosse supportata da diversi scienziati di fama internazionale. Qualcosa è improvvisamente cambiato tra la primavera e l’estate 2021, quando Ghebreyesus ha in parte ritrattato le posizioni della sua agenzia.

“Speriamo che ci sia una migliore cooperazione per scoprire che è accaduto davvero. Il primo problema è la condivisione dei dati grezzi e ho detto, alla conclusione della prima fase delle indagini, che questo problema andava risolto. Il secondo è che c’è stato un tentativo prematuro di ridurre il numero di ipotesi, come quella del laboratorio”, ha spiegato Ghebreyesus nel corso di una conferenza stampa. La Lab Leak Theory ha così ripreso quota, spalleggiata anche da Joe Biden. Nel maggio 2021, il presidente americano aveva promesso di far luce sulle origini del coronavirus nell’arco di 90 giorni, mettendo le mani su documenti riservati. Risultato: un buco nell’acqua. A distanza di qualche mese, a ottobre, Ghebreyesus è tornato a parlare del laboratorio di Wuhan. In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera, il direttore generale dell’Oms ha dichiarato che tutte le ipotesi “devono continuare a essere esaminate, da quella della trasmissione da animale a quella della fuoriuscita dal laboratorio, la quale non è ancora stata categoricamente esclusa”.

Nuova task force

Archiviata l’esperienza della prima task force, l’Oms ha avviato una seconda missione con il medesimo obiettivo: accertare l’origine del Sars-CoV-2. La seconda task force, formata da 26 esperti indipendenti (sei facevano parte anche del primo team), raccoglierà l’eredità della precedente squadra, a dire il vero non proprio strabiliante. L’Oms ha affermato che il lavoro del gruppo partirà dal coronavirus ed elaborerà “un framework che studi la possibilità di altri patogeni dal potenziale epidemico e pandemico”. “Questa l’ultima chance che abbiamo per capire da dove è venuto il virus”, ha aggiunto il responsabile delle emergenze dell’Oms, Micheal Ryan. Fin qui gli annunci. Ma che cosa farà concretamente il team? Innanzitutto ha già un nome: Scientific Advisory Group for the Origins of Novel Pathogens (Sago). Al di là delle comunicazioni di facciata, non è ancora chiaro che cosa faranno gli esperti nei prossimi mesi. Torneranno per caso a Wuhan? Certo è che il tempo stringe, come ha confermato la responsabile tecnica delle questioni Covid dell’Oms, Maria Van Kerkhove. Come se non bastasse, Pechino ha sempre respinto la possibilità di ospitare una seconda missione internazionale, onde evitare di politicizzare le ricerche. La sensazione è che il gruppo lavorerà sulla Lab Leak Theory, anche se non sarà facile ottenere prove. Nel frattempo, secondo quanto riferito dalla Cnn, che cita un funzionario della Commissione sanitaria nazionale cinese, la Cina si appresta a esaminare decine di migliaia di campioni di sangue raccolti nella megalopoli di Wuhan. I campioni di sangue sono conservati al Wuhan Blood Center e l’archivio – fino a 200.000 campioni, compresi quelli degli ultimi mesi del 2019 – è stato indicato lo scorso febbraio dagli esperti dell’Oms come una possibile fonte di informazioni cruciali che potrebbero contribuire a definire quando e dove il virus sia passato dall’animale all’uomo.

Danilo Taino per il "Corriere della Sera" il 14 ottobre 2021. Il direttore generale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), il biologo etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, sostiene che tutte le ipotesi sulle origini della pandemia da Covid-19 «devono continuare a essere esaminate, dall'ipotesi della trasmissione da animale a quella della fuoriuscita dal laboratorio, la quale non è ancora stata categoricamente esclusa». Per fare luce su cosa successe a Wuhan tra la fine del 2019 e l'inizio del 2020, l'Oms ha creato un gruppo di esperti internazionali di diverse discipline che dovranno stabilire lo stato delle conoscenze. Oltre che a preparare le risposte all'emergere di minacce patogene in futuro. In una lunga intervista, che nella sua interezza può essere letta in italiano e in inglese sul sito-web del Corriere , Tedros tra l'altro critica i Paesi ricchi per non essere stati abbastanza generosi nella distribuzione dei vaccini a quelli a basso reddito; invita il G20 che si terrà a fine mese in Italia a prendere iniziative concrete per aumentarne la produzione; chiede di sospendere la somministrazione della terza dose nelle Nazioni già ad alto tasso di vaccinazione; invita a sospendere temporaneamente i brevetti sui vaccini e sui farmaci anti Covid-19; dice di non potere prevedere la fine della pandemia; chiede di non politicizzare la questione delle origini del coronavirus. E fa un'analisi complessiva sullo stato della pandemia e sulle campagne di vaccinazione nel mondo. Riguardo alle inchieste sull'origine della crisi, al dubbio se il virus sia «saltato» da un animale all'uomo oppure sia stato creato nell'ormai famoso laboratorio di Wuhan e poi sfuggito al controllo, Tedros è stato criticato, soprattutto dalla Casa Bianca di Donald Trump ma in misura meno forte anche da quella di Joe Biden, per essere stato influenzato dalla Cina. E di avere mandato a indagare nella città cinese dalla quale tutto nacque un gruppo di scienziati ben accetti alle autorità di Pechino, i quali hanno avuto accesso solo parziale ai dati di laboratorio e hanno poi stabilito che la probabilità maggiore dell'origine sta nel passaggio da animale a uomo, lasciando aperto solo uno spiraglio all'ipotesi laboratorio. Negli ultimi mesi, però, alcuni scienziati americani hanno sostenuto che, analizzando campioni del coronavirus dei primi malati, si capisce che le probabilità di gran lunga maggiori portano a ritenere che la pista giusta sia quella della fuga dal laboratorio. Tedros non chiude la porta a questa possibilità. Ma, purtroppo, se Pechino non collaborerà apertamente permettendo un'inchiesta internazionale indipendente che possa accedere a tutti i dati, quasi certamente la verità inconfutabile sulla nascita della pandemia non potrà essere stabilita. Il direttore generale dell'Oms dice che, nella ricerca delle origini, occorre seguire la strada della scienza. «Ma - aggiunge - abbiamo visto altri fattori, inclusi quelli politici, influenzare gli sforzi e intralciare la nostra capacità di fare progressi e ottenere risposte». Non fa il nome di alcun Paese ma fatto sta che anche sulla nascita del virus il confronto è tra la Cina, che rifiuta sdegnosamente un'inchiesta indipendente, e gli Stati Uniti e altri Paesi che insistono per organizzarla. Nell'intervista, Tedros non usa mezzi termini per stigmatizzare la scarsa generosità dei Paesi più avanzati a condividere i vaccini. «I Paesi ricchi non hanno fatto abbastanza per vaccinare il mondo equamente. Ricorda che le promesse fatte a Covax (l'alleanza per vaccinare i Paesi a basso reddito) e Avat (il fondo africano per la vaccinazione) sono lontane dall'essere mantenute: i contratti con la prima sono stati rispettati per il 9%, quelli con la seconda per l'1%. «Gli impegni, da soli, non salvano vite - dice - non fermano la trasmissione, non immunizzano le persone, non aumentano la capacità manifatturiera e non preparano il mondo a prevenire le emergenze sanitarie del futuro». La realtà è che 56 Stati membri dell'Oms non hanno raggiunto la quota del 10% di vaccinati, mentre l'obiettivo globale dell'Organizzazione è il 40% entro l'anno e il 70% entro la metà del 2022. Tra gli altri passi da compiere, l'Oms ha chiesto di mettere in attesa almeno fino alla fine dell'anno i programmi di richiamo, cioè la terza dose. «Invece di vaccinare coloro che sono già vaccinati dobbiamo vaccinare coloro che corrono il rischio più alto», anche per limitare la creazione di varianti delle quali non si sa che potenza potrebbero avere. Tra l'altro, secondo il direttore generale tra gli scienziati non c'è consenso sulla necessità di una terza dose. Dal G20 di fine mese, Tedros si aspetta una richiesta forte ai Paesi che hanno dosi di vaccino in eccesso affinché le condividano con chi non ne ha. E, aggiunge, dal momento che la produzione non è sufficiente a immunizzare chi deve esserlo, «i Paesi del G20 possono sostenere l'obiettivo di derogare ai brevetti». Le case farmaceutiche produttrici di vaccini e di trattamenti anti Covid-19 efficaci e sicuri dovrebbero trasferire tecnologie per un periodo di tempo limitato. «Non vogliamo minare l'innovazione - sostiene - e i Paesi del G20 possono incentivare i produttori a condividere brevetti e tecnologia». Sullo stato della pandemia, Tedros dice che è in pieno corso, non siamo alla vigilia della fine. «Una cosa di cui siamo sicuri è che questo virus starà con noi per il futuro prevedibile e manterrà il potenziale per continuare a evolvere». Alcuni scienziati, soprattutto nel Regno Unito, ritengono che il virus si declasserà a semplice raffreddore. Su questo il biologo non si sbilancia ma dice che il mondo potrà riaprire pienamente solo quando la copertura vaccinale globale sarà davvero alta. E chiarisce che non sarà l'Oms a dichiarare la fine della pandemia, che è «semplicemente una caratterizzazione della situazione». Tedros ha l'autorità per dichiarare la massima emergenza pubblica internazionale, e l'ha fatto il 30 gennaio 2020. Da allora, ogni tre mesi si riunisce un comitato di esperti internazionali per stabilire se l'emergenza è ancora tale, cioè al massimo livello di allarme. «Finora, chiaramente, questo rimane il caso», dice. Ora, le scelte da fare e le iniziative da prendere sono di fronte ai Paesi più sviluppati e ricchi. Cosa si dovrebbe fare non è oscuro. Il G20 a presidenza italiana ha un'opportunità e una responsabilità.

(ANSA il 13 ottobre 2021) - La Cina si appresta a esaminare fino a 200 mila campioni di sangue prelevati nella città di Wuhan prima che l'epidemia di Covid-19 esplodesse, quindi fino agli ultimi mesi del 2019, per contribuire a fare luce su come e quando il coronavirus responsabile sia passato dall'animale all'uomo. Lo scrive la Cnn in esclusiva, citando un "funzionario cinese". La mossa, ricorda la Cnn, era stata sollecitata dall'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) lo scorso febbraio. I campioni di sangue in questione, scrive la Cnn, sono conservati nel centro ematologico di Wuhan. I campioni della banca del sangue sono stati conservati per due anni, hanno affermato i funzionari cinesi, nel caso in cui fossero necessari come prova in eventuali azioni legali relative alla loro donazione. Quel periodo scadrà presto per i mesi chiave di ottobre e novembre 2019, quando la maggior parte degli esperti pensa che il virus potrebbe aver infettato gli esseri umani prima di dicembre. Un funzionario della Commissione sanitaria nazionale cinese ha detto alla Cnn che la preparazione per i test è attualmente in corso. I campioni contengono "indizi assolutamente vitali", ha commento Maureen Miller, professore associato di epidemiologia alla Columbia University, sollecitando la Cina a consentire agli esperti stranieri di osservare il processo. "Nessuno crederà ai risultati che la Cina riporta a meno che non ci siano osservatori qualificati", ha aggiunto. Il capo del team cinese che lavora all'indagine dell'Oms, Liang Wannian, già a luglio spiegò in una conferenza stampa che Pechino avrebbe testato i campioni, aggiungendo che una volta ottenuti, "i risultati sarebbero stati consegnati agli esperti cinesi e stranieri", mentre il pool di esperti aveva in corso valutazioni "sui metodi dei test e sul piano d'azione da attuare dopo" i due anni. I campioni, se conservati correttamente, potrebbero contenere elementi cruciali dei primi anticorpi prodotti dall'uomo contro la malattia. Liang precisò che mentre il primo caso segnalato a Wuhan era dell'8 dicembre 2019, "la nostra ricerca e i precedenti documenti correlati di scienziati cinesi suggeriscono pienamente che l'8 dicembre non è probabile che sia stato il caso principale. Potrebbero essercene altri che si sono verificati prima". L'amministrazione americana di Joe Biden ha condotto una revisione di 90 giorni attraverso l'intelligence sull'origine del virus, arrivando alla conclusione che sia la trasmissione naturale dall'animale all'uomo sia la fuga di laboratorio erano due teorie plausibili. Biden, sui risultati, rimarcò che le "informazioni critiche sulle origini di questa pandemia esistono nella Repubblica popolare, ma fin dall'inizio i funzionari di Pechino hanno lavorato per impedirne l'accesso a investigatori internazionali e della comunità globale di sanità pubblica".

"VIAGGIO" NEL LABORATORIO DI WUHAN. Federico Giuliani su Inside Over l'11 ottobre 2021. Nel 2003 il mondo intero, quasi senza saperlo, scampò al pericolo di una pandemia globale. Allora, come nel 2019, fu un coronavirus a mettere a repentaglio l’umanità. Gli scienziati chiamarono quel patogeno, apparso in Cina, nella provincia meridionale del Guangdong in circostanze mai del tutto chiarite, Sars. Un acronimo di Severe acute respiratory syndrome, visto che quel virus, quasi sicuramente proveniente da un pipistrello, provocata una strana polmonite atipica. Il contagio si diffuse al di fuori del territorio cinese, toccando 30 Paesi e zone differenti. Senza alcun vaccino, e in circostanze misteriose tanto quanto la sua comparsa, il Sars sparì senza quasi lasciare traccia. Tra il novembre 2002 e il luglio 2003 furono registrati 8.096 casi e 774 decessi per un tasso di letalità finale pari al 9.6%. Un anno dopo l’epidemia di Sars, la comunità internazionale iniziò per la prima volta a interrogarsi seriamente su quali mosse mettere in campo per sconfiggere le prossime malattie emergenti. Fu in una cornice del genere che, nel 2004, Hu Jintao e Jacques Chirac, all’epoca rispettivamente presidente cinese e francese, trovarono un inedito accordo scientifico. Francia e Cina decisero di costruire un laboratorio P4, cioè dotato del massimo livello di biosicurezza possibile, per studiare i virus altamente patogeni. La struttura sorse a Wuhan, dove era già presente un istituto di ricerca sulla virologia gestito dall’Accademia cinese delle scienze, il Wuhan Institute of Virology (WIV).

La genesi

Sulla cooperazione transalpina influirono anche i motivi storici, visto che il capoluogo della provincia dello Hubei, nell’Ottocento, era la sede della concessione francese. Ancora oggi, questa città ospita i bracci cinesi di numerose aziende e multinazionali transalpine, tra cui, soltanto per fare qualche esempio, Peugeot, L’Oréal, Eurocopter e Renault. Se Chirac e il premier Jean-Jacques erano soddisfatti per aver fatto avvicinare la Francia all’emergenza Cina, il ministero degli Affari Esteri di Parigi era a dir poco titubante per la concretizzazione della partnership franco-cinese sul laboratorio. Ampie fette del deep state francese vedevano come fumo sugli occhi l’idea di trasferire verso Pechino tecnologie sensibili. E non solo per il fatto di rafforzare un rivale, ma anche e soprattutto per l’incognita relativa alla sicurezza pubblica. I cinesi, data la loro sostanziale inesperienza in materia, sarebbero stati in grado di maneggiare strumenti del genere senza fare danni? Grazie a un mix di finanziamenti cinesi e tecnologia ed esperti francesi, il cantiere del laboratorio terminò nel 2015, mentre la struttura entrò in funzione nel 2018. Proprio in concomitanza con la prima visita di Stato in Cina di Emmanuel Macron. A quel punto accadde qualcosa di inaspettato. I francesi, che stando agli accordi presi avrebbero dovuto visionare e controllare le ricerche svolte all’interno della struttura, sarebbero stati estromessi da ogni attività. Gli scienziati cinesi iniziarono quindi a maneggiare tecnologie altamente sensibili e virus pericolosissimi in completa autonomia. Il sito della Chinese Academy of Science illustra l’obiettivo generale del progetto attuato a Wuhan. Le autorità cinesi avevano intenzione di costruire un polo di ricerca internazionale costituito da varie strutture, tra cui un laboratorio di biosicurezza ad alto livello, a sua volta basato su un rigoroso sistema di gestione e aperto in misura limitata agli scienziati nazionali. L’obiettivo è espressamente citato: formare una “piattaforma di ricerca relativamente indipendente in grado di ricercare due o tre tipi di infezioni fulminanti derivanti dai patogeni e sviluppare i rispettivi vaccini”. Potendo contare su un centro del genere, Pechino avrebbe compensato la “sostanziale debolezza” del sistema cinese in risposta alle emergenze per la salute pubblica. Nel caso in cui fosse apparsa una nuova malattia infettiva simile alla Sars, si pensava, la Cina sarebbe stata in grado di prendere adeguate misure di prevenzione e controllo. Insomma, il fiore all’occhiello di Wuhan doveva svolgere un “ruolo fondamentale” e di “supporto tecnico” nella prevenzione e nel controllo delle principali nuove malattie infettive in Cina, soddisfacendo così “la grande domanda strategica della nazione e rivelando importanti questioni scientifiche”. Scendendo nel dettaglio, il laboratorio sarebbe diventata “una base per la ricerca sulle misure da adottare per la prevenzione e il controllo delle malattie emergenti in Cina”, un “centro di conservazione dei virus”, un “laboratorio di riferimento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms)” e un “nodo per la rete delle malattie”. Non è finita qui, per quel sito avrebbe potuto e dovuto migliorare anche la capacità del Dragone di “prevenire e rispondere a guerre biologiche e attacchi terroristici”, nonché di “garantire la biosicurezza della Cina”.

La struttura

Il laboratorio entrato in funzione nel 2018, il Wuhan National Biosafety Laboratory, è dunque solo una parte del Wuhan Institute of Virology. Questo ramo, costato circa 44 milioni di dollari, per fugare ogni problema di sicurezza è stato costruito al di sopra della pianura alluvionale locale, ed è stato dotato della capacità di resistere a un terremoto di magnitudo 7, sebbene l’area non abbia precedenti di forti terremoti. Lo scopo della struttura, come detto, è duplice: controllare le malattie emergenti immagazzinando virus purificati e fungere da laboratorio di riferimento dell’Oms grazie ai suoi collegamenti con altri laboratori simili sparsi in tutto il mondo. “Sarà un nodo chiave nella rete globale di laboratori di biosicurezza”, aveva affermato nel 2017 il direttore del laboratorio Yuan Zhiming. Il Wuhan National Biosafety Laboratory nasce quindi come progetto internazionale di cooperazione scientifica e tecnologica nell’ambito di un accordo a due tra Cina e Francia sul coordinamento per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive emergenti. La parte principale dell’edificio del laboratorio BSL-4 ha quattro piani. Il piano terra è utilizzato per il trattamento delle acque reflue, il supporto vitale e le apparecchiature di protezione della distribuzione dell’energia. All’altezza del secondo piano si trova la zona centrale dove vengono effettuati gli esperimenti. Essa comprende tre laboratori a livello cellulare, due laboratori per animali, una sala di dissezione e una sala di conservazione dei batteri (virus), che può svolgere contemporaneamente ricerche per tre agenti patogeni e svolgere valutazioni sulla patologia delle infezioni di animali di piccola e media taglia, nonché sull’efficacia dei farmaci. I laboratori, inoltre, sono in grado di conservare i “semi” del virus. Le pareti della zona sperimentale centrale sono state realizzate in acciaio inossidabile di forte resistenza alla corrosione, unite alla tecnologia di saldatura laser e sviluppate in modo indipendente dalla Cina. Raggiungono lo standard internazionale di prima classe. Il terzo piano è per l’aria compressa e le tubazioni di ventilazione, mentre il quarto è per le apparecchiature HVAC (Heating, Ventilation and Air Conditioning, ovvero riscaldamento, ventilazione e aria condizionata) e il tubo collettore per l’aria compressa. Il personale di laboratorio è solito indossare una tuta protettiva a pressione positiva capace di rendere ogni singolo addetto totalmente isolato dall’ambiente circostante, alla stregua di un astronauta nello spazio. L’aria necessaria alla respirazione viene fornita agli addetti da un tubo controllabile proveniente dalla stazione di alimentazione. Gli addetti, prima di lasciare la struttura, devono completare la procedura di decontaminazione tramite doccia chimica. La comunità scientifica è stata rassicurata dal fatto che molti scienziati del laboratorio di Wuhan sono stati formati presso un laboratorio BSL-4 a Lione, in Francia. Le acque reflue della doccia chimica e le acque reflue tossiche generate dai lavori in laboratorio sono raccolte centralmente attraverso un sistema di tubi fognari a doppio strato, e sottoposte a disinfezione ad alta temperatura (135 ℃). Il laboratorio BSL-4 è infine dotato di un sistema direzionale a pressione negativa e un sistema di filtraggio a doppio strato per garantire che l’aria nel laboratorio possa essere scaricata solo dopo essere stata filtrata con un filtro ad hoc. 

Gli studi controversi

Il WIV non è stato pensato per essere un laboratorio isolato. Al contrario, nel recente passato la struttura aveva forti legami con alcuni centri americani, come il Laboratorio Nazionale di Galveston della divisione medica dell’Università del Texas e (pare) lo US Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID) di Fort Detrick, nel Maryland, e canadesi, tra cui il National Microbiology Laboratory. Date le “origini” occidentali del WIV, e le sue connessioni accademiche con altre strutture internazionali, è possibile supporre che all’interno del laboratorio cinese venissero realizzati studi simili a quelli effettuati nel resto del mondo. Quali? Studi sui coronavirus, e in particolare studi gain-of-function. Al fine di sviluppare adeguate contromosse per frenare la futura evoluzione dei virus più temibili, come ad esempio la Mers e la Sars, gli esperti possono scegliere di rendere tali patogeni più forti e più trasmissibili mediante attività di laboratorio. Producendo virus “rafforzati” artificialmente è possibile studiare il meccanismo attraverso il quale si trasformano e interagiscono con l’ospite, sia esso animale o umano. Nel caso in cui la ricerca dovesse svolgersi senza intoppi, gli esperti potrebbero essere in grado di sfornare farmaci ad hoc per sconfiggere questi virus. Ma i rischi non mancano, e gli incidenti sono dietro l’angolo. Già, perché se durante un esperimento il virus rafforzato dovesse diffondersi tra i ricercatori, o tra gli animali coinvolti nelle attività, allora potrebbe accade il pandemonio. Da qui nasce la teoria dell’ipotetica fuoriuscita del Sars-CoV-2 dal laboratorio di Wuhan in seguito a un incidente. In ogni caso, prima di approfondire questa ipotesi, vale la pena approfondire i legami tra il WIV e le strutture americane. Shi Zhengli, una delle più note virologiche cinesi, conosciuta anche con il soprannome di Bat Woman per i suoi studi sui coronavirus derivanti dai pipistrelli, ha realizzato alcuni paper scientifici molto interessanti. A capo del Center for Emerging Infectious Diseases, Miss Shi potrebbe essere riuscita a convertire con successo un coronavirus simile alla Sars, il virus SHCO14-C0V, dai pipistrelli ad altri animali. Un report pubblicato dal Wall Street Journal e realizzato dall’intelligence Usa, ha ipotizzato l’eventuale fuga di questo virus dalla struttura a causa di standard di sicurezza non propriamente eccelsi, oppure per via di un errore umano. Il dossier, fin qui classificato, sostiene che nel novembre 2019 – cioè circa un mese prima del primo contagio ufficiale registrato dalle autorità cinesi – tre ricercatori dell’Istituto cinese di virologia di Wuhan si sarebbero gravemente ammalati, tanto da richiedere persino le cure ospedaliere. Quale malattia avevano contratto? Una malattia che avrebbe generato in loro “sintomi coerenti sia con il Covid-19 che con la comune malattia stagionale”. Al netto della veridicità dell’informazione (smentita dalle autorità cinesi), non vi è, dunque, alcuna certezza che gli addetti in questione avessero contratto il Sars-CoV-2. La fonte del rapporto Usa è sconosciuta. Non è da escludere che l’intero documento sia stato classificato come top secret in quanto gli Stati Uniti sarebbero riusciti a ottenere le suddette indiscrezioni da contatti diretti coltivati a Wuhan, o perfino all’interno della struttura scientifica. Aleggiano dubbi sugli studi effettuati dai ricercatori cinesi, e ancora oggi non si conoscono i particolari. Non dovrebbe esserci niente di cui stupirsi, visto che nessun governo, neppure quello americano, si sognerebbe mai di comunicare ai media le ricerche altamente sensibili realizzate in strutture del genere. Sappiamo tuttavia che nel laboratorio di Wuhan gli scienziati cinesi erano soliti maneggiare i coronavirus di pipistrelli. Sia chiaro: questo non significa automaticamente che il virus sia per forza uscito dall’edificio. Eppure, ben presto, la pista della Lab Leak Theory, iniziò a circolare con una certa insistenza. In un primo momento l’ipotesi appariva come fantascientifica. Anche perché spesso si confondeva l’eventuale fuoriuscita accidentale del patogeno dal WIV, magari avvenuta in seguito a un errore umano, con l’esplicita volontà del governo cinese di aver “liberato” un virus contagioso per danneggiare, nella migliore delle ipotesi, gli altri Paesi del mondo. Quest’ultima teoria fu subito considerata una fake news dalla comunità scientifica, mentre la prima, ovvero l’ipotesi dell’errore umano, fu bollata dall’Oms come “estremamente improbabile”. Per quale motivo, allora, la teoria del laboratorio è tornata in auge? Sono state le rivelazioni pubblicate dai media statunitensi a riaccendere i riflettori sul WIV. A fine maggio il presidente americano Joe Biden ha chiesto ai funzionari di raddoppiare gli sforzi per indagare sulle origini della pandemia di Covid-19. Ogni singola ipotesi dovrà essere presa in esame, compresa la Lab Leak Theory. Nel giro di tre mesi le agenzie Usa dovranno “riferire” cosa avranno scoperto, le strutture nazionali del Paese dovranno assistere alle indagini mentre l’intelligence è chiamata a preparare domande specifiche da rivolgere al governo cinese. I servizi segreti americani hanno davvero nelle loro mani nuovi elementi con i quali inchiodare la Cina sul laboratorio, oppure quella di Washington è soltanto una strategia per mettere pressione su Pechino? Difficile dare una risposta, se non che, almeno nel momento in cui scriviamo, non ci sono ancora elementi che consentano di verificare al 100% la Lab Leak Theory.

La guerra di dossier

Lo scorso gennaio un team di esperti dell’Oms è atterrato a Wuhan per raccogliere quanti più indizi possibili per fare luce sulle origini del coronavirus. Lavorando assieme ai colleghi locali (secondo alcuni: controllati a vista), gli scienziati hanno trascorso 28 giorni nel primo epicentro noto di Covid al mondo nel tentativo di riordinare le tessere del puzzle. Al termine della missione l’équipe ha stilato un rapporto di oltre 120 pagine e intitolato WHO-convened Global Study of Origins of SARS-CoV-2: China Part. Joint WHO-China Study. L’Oms non è riuscita a risolvere il mistero, ma ha messo sul tavolo quattro possibili ipotesi di trasmissione del Covid: trasmissione zoonotica diretta, trasmissione all’uomo tramite ospite intermedio seguita da zoonosi, trasmissione mediante i prodotti alimentari della catena del freddo e, infine, diffusione del virus in seguito a un incidente di laboratorio. In merito all’ipotesi numero quattro, l’Oms ha effettivamente preso in esame un’ipotetica infezione accidentale capitata a un membro dello staff di un laboratorio, ma ha escluso categoricamente “l’ipotesi di rilascio deliberato o bioingegneria deliberata di Sars-CoV-2” tra l’altro scartata anche “da altri scienziati a seguito di analisi del genoma” del virus. Gli incidenti di laboratorio possono avvenire, anche se teoricamente risultano piuttosto rari. Abbiamo introdotto la figura di Shi Zhengli. L’11 marzo 2020, quando la pandemia di Covid era già iniziata, la Signora dei pipistrelli ha rilasciato una lunga intervista alla rivista Scientific American. Miss Shi ha accennato, molto vagamente, all’ipotesi secondo la quale il virus potesse essere sfuggito proprio dall’Istituto in cui la donna stava prestando servizio. La scienziata sembrava stupita da quanto accaduto nelle settimane precedenti. Perché mai un nuovo coronavirus avrebbe dovuto diffondersi a Wuhan, in una zona urbana? Gli studi di Shi parlano chiaro: le aree in cui vi è un maggiore rischio di zoonosi sono quelle subtropicali dello Yunnan, del Guandong e del Guanxi. All’idea, successivamente smentita, che la causa delle polmoniti atipiche potesse essere un patogeno arrivato dal laboratorio, Bat Woman ha rivelato di non aver “chiuso occhio per giorni”. Nel WIV, in effetti, si studiavano i coronavirus. Il più simile al Sars-CoV-2 è il RaTG13 (alcuni lo hanno definito anche BtCoV / 4991), che condivide il 96.2% di somiglianza con la sequenza genetica del patogeno responsabile del Covid. Il parente più stretto del nuovo coronavirus è stato sequenziato presso il Wuhan Institute of Virology dopo esser stato rilevato, probabilmente nel 2013, in alcuni pipistrelli Rhinolophus affinis presenti nelle province dello Yunnan e dello Zhejiang. In particolare, RaTG13 è stato ottenuto da Rhinolophus affinis trovati nello Yunnan; Bat CoV ZC45, altro parente strettissimo del Sars-CoV-2, viene invece da un’altra specie di pipistrello, la Rhinolophus sinicus, rinvenuta nella provincia dello Zhejiang. Insomma, nel WIV si studiavano virus molto simili al nuovo coronavirus. Tutto questo, data la misteriosa origine del Sars-CoV-2, è bastato per puntare il dito sul laboratorio di Wuhan. Non ci sono ancora prove assolute, ed è importante ribadirlo, però, al tempo stesso, sono progressivamente emerse indiscrezioni in merito all’eventuale fuoriuscita del patogeno dalla struttura da tenere per lo meno in considerazione. Sul tema è tornata recentemente la stessa Shi, in particolare dopo immagini e documenti inediti pubblicati da Sky News Australia, che testimonierebbero la presenza di pipistrelli vivi e almeno 15mila campioni da pipistrelli asiatici e africani all’interno del laboratorio di Wuhan prima dello scoppio della pandemia. Il New York Times ha pubblicato un’intervista alla scienziata che in maniera secca e decisa respinge categoricamente la possibilità che la pandemia di Covid possa aver avuto origine dal laboratorio di Wuhan. “Come potrei mai offrire prove di qualcosa per cui non esiste prova?” ha risposto (in forma scritta). Che, secondo il resoconto del quotidiano americano, si è prestata alle domande senza celare la propria frustrazione. Shi ha inoltre negato tassativamente i recenti resoconti dell’intelligence Usa.  “Non comprendo come il mondo possa essere giunto a questo punto, a gettare costantemente fango su scienziati innocenti”, ha aggiunto Bat Woman.

La ricerca del paziente zero

Una ricerca effettuata da Gilles Demaneuf, uno scienziato dei dati presso la Bank of New Zealand di Auckland, sottolinea come dal 2004 si sarebbero verificati quattro incidenti nei laboratori in cui si stava la Sars, due dei quali a Pechino. In merito al laboratorio di Wuhan, Demaneuf sostiene che il sito non dovrebbe essere considerato un edificio di massima sicurezza nella sua interezza. Soltanto uno dei tanti laboratori sarebbe in possesso dei protocolli di massima sicurezza, mentre gli altri si baserebbe (il condizionale è quanto mai d’obbligo) su protocolli paragonabili a quelli di uno studio dentistico. Lancet sostiene che il primo paziente a cui sarebbe stato diagnosticato il Covid-19, nel dicembre 2019, sarebbe stato un 70enne di Wuhan affetto da Alzheimer. Dell’anziano, ricoverato il 29 dello stesso mese presso il Jinyintan Hospital, dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute, si sarebbero poi perse le tracce. Il South China Morning Post ha scritto che il primo contagiato potrebbe essere un 55enne della provincia dello Hubei che avrebbe mostrato i primi sintomi a partire da metà novembre. Il Mirror ha fornito una versione ancora differente, secondo cui la prima persona ad aver contratto il Sars-CoV-2 sarebbe una donna cinese 61enne soprannominata Patient Su. La signora abiterebbe a circa tre miglia dal WIV, ovvero dal famigerato laboratorio finito al centro della Lab Leak Theory. Proprio da qui, a detta di alcuni esperti guidati dal citato Gilles Demaneuf, il patogeno potrebbe essere fuggito grazie a un insetto non meglio specificato. Lo stesso insetto avrebbe in qualche modo – anche qui mancano i dettagli – infettato la donna. Patient Su, inoltre, abiterebbe in Zhoudaoquan Street, la strada che passa accanto ai laboratori cittadini, non distante dalla linea 2 della rete metropolitana, e situata nei pressi di un ospedale dell’Esercito Popolare di Liberazione (che avrebbe curato alcuni degli altri primi casi di Covid). La suddetta linea della metropolitana, insomma, potrebbe aver contribuito a diffondere il virus contratto dalla signora in tutta la megalopoli. Ipotesi molto complessa e debole, ma da segnalare.

Il vaccino misterioso

Un’altra indiscrezione degna di nota è arrivata dall’Australia. Secondo quanto riferito da The Australian, in Cina, qualcuno avrebbe depositato un brevetto per un vaccino anti Covid il 24 febbraio 2020, ben prima che fosse dichiarata la pandemia globale. Autore dell’ipotetica azione: Yusen Zhou, uno dei più noti scienziati cinesi che nella sua carriera può vantare di aver lavorato anche per l’Esercito di Liberazione del Popolo (PLA) e di aver collaborato a stretto contatto con i colleghi del Wuhan Institute of Virology (WIV), tra cui Shi Zhengli. Il brevetto sarebbe stato presentato a nome dell’Institute of Military Medicine, Academy of Military Sciences of the PLA. Attenzione ai particolari. Innanzitutto, se davvero Zhou ha depositato un brevetto a febbraio, significa che in quel periodo gli esperti cinesi stavano effettuando studi sul patogeno da (almeno) qualche settimana. E perché, sempre nel caso in cui la storia fosse confermata, nessuno di loro ha avvisato il resto del mondo? Il signor Zhou avrebbe depositato il brevetto dell’eventuale vaccino solo cinque settimane dopo che Pechino aveva confermato la trasmissione umana del coronavirus. In teoria è possibile avere un vaccino in un lasso così breve. Ma, al di là della tempistica, è interessante soffermarci su un altro particolare. Tre mesi dopo aver depositato il presunto brevetto Zhou sarebbe sparito dai radar, o peggio, sarebbe morto.

La mano dell’esercito

La (presunta) longa manus di Zhou lascia ipotizzare una connessione tra il WIV e l’esercito cinese. Ipotesi, tra l’altro, confermata da David Asher, che sotto l’amministrazione Donald Trump, dal settembre 2020 al gennaio 2021, ha diretto l’inchiesta del dipartimento di Stato Usa sulle origini del Covid. “A mio parere le autorità cinesi hanno tentato di controllare un incidente di laboratorio avvenuto a ottobre 2019, forse prima, e non ci sono riuscite”, ha spiegato Asher in un’intervista riportata da La Repubblica. A cavallo tra il 22 e il 23 gennaio, il caso di Wuhan, ormai esploso, sarebbe passato nelle mani dell’esercito, a conferma dei solidi legami che sarebbero intercorsi tra la struttura e la ricerca militare cinese.

A capo delle operazioni sarebbe stato piazzato il generale di divisione Chen Wei, specialista in armi biologiche; il suo vice sarebbe stato il colonnello Cao Wuchun, uno dei massimi esperti di epidemiologia dell’EPL, nonché “principale consigliere dell’Istituto di virologia di Wuhan”. Ritorniamo alle origini sino-francesi del laboratorio P4. Perché, dal 2003 in poi, gli Stati Uniti non avrebbe dato alcun peso a quanto stava accadendo a Wuhan? Non è dato saperlo. È però certo, come confermato dallo stesso Asher, che, dopo l’estromissione di Parigi, il National Institute of Healt, la Usaid e il dipartimento della Difesa avrebbero cercato di ampliare il loro ruolo nel capoluogo dello Hubei “quasi come se volessero approfittare dell’assenza della Francia”. In realtà, ha svelato il Washington Post, nel gennaio 2018, l’ambasciata americana a Pechino inviò più volte (procedura insolita) i propri addetti scientifici presso l’Istituto di virologia di Wuhan. Nei messaggi inviati a Washington, la delegazione Usa, guidata dal console generale a Wuhan, Jamison Fouss, espresse tutta la sua preoccupazione per la scarsa sicurezza riscontrata in quegli stessi laboratori.

I finanziamenti internazionali

A ben vedere, il WIV ha ricevuto diversi finanziamenti occidentali per effettuare una discreta mole di ricerche. Una delle più importanti rivelazioni proviene dal Daily Mail che, dopo aver visionato dati del governo federale Usa, ha tratteggiato uno scenario inaspettato. Stando alla documentazione del quotidiano anglosassone, il Pentagono ha donato 39 milioni di dollari all’Eco Health Alliance (EHA), una ong che a sua volta, tra il 2013 e il 2020, avrebbe finanziato la ricerca sul coronavirus presso il WIV. EHA avrebbe ricevuto dal governo americano un totale di 123 milioni di dollari, 64.7 milioni dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e 13 milioni dallo Health and Human Service (che include il National Institutes of Health e i Centers for Disease Control). Tra il 2017 e il 2020 la maggior parte delle sovvenzioni provenienti dal Dipartimento della Difesa Usa sarebbe provenuta dalla Defense Threat Reduction Agency (DTRA), un ramo militare con la missione di “contrastare e scoraggiare le armi di distruzione di massa e le reti di minacce improvvisate”. Insomma, l’EHA avrebbe usato finanziamenti federali americani per sostenere la ricerca sui coronavirus effettuata da scienziati cinesi presso un laboratorio cinese. Altro dettaglio: a capo di questa ong troviamo Peter Daszak, scienziato britannico che ha avuto modo di lavorare spalla a spalla con Shi Zhengli. Daszak, nonostante i presunti conflitti di interesse con il WIV, era inoltre uno degli esperti scelti dall’OMS per partecipare alla missione di Wuhan al fine di stabilire le origini del Covid. Sempre in merito ai finanziamenti ricevuti dal WIV, pare che la lista non comprenda soltanto soldi americani. È stato lo stesso Daily Mail, lo scorso febbraio, a sottolineare un fatto passato inosservato: dal 2005 in poi l’Unione europea avrebbe finanziato il laboratorio di Wuhan con sovvenzioni dal valore complessivo di 700 mila euro. In quelle settimane un portavoce Commissione europea commentò così la vicenda: “L’Ue non ha finanziato ricerche mirate sui virus dei pipistrelli a Wuhan. L’Istituto di virologia di Wuhan funge da partner internazionale nella collaborazione globale sulle risorse virali. È stato questo partner di Wuhan a identificare a gennaio il virus SARS-CoV2”. A oltre un anno dallo scoppio della pandemia di Covid, ancora non conosciamo le origini del Sars-CoV-2. In un mare di incertezze, la teoria del laboratorio è tornata a occupare le prime pagine dei giornali. Preso atto delle numerose zone d’ombra, delle ambiguità, delle omissioni e dei misteri, ad oggi non sono ancora emerse prove certe capaci di confermare o smentire la Lab Leak Theory. Che, inevitabilmente, continuerà a farci compagnia anche nei prossimi mesi. Testo di Federico Giuliani

Coronavirus nato in laboratorio, la "prova regina"? "Nel 2018, gli scienziati di Wuhan e gli americani...". Si ribalta il mondo. Libero Quotidiano il 09 ottobre 2021. Il Coronavirus? Un virus artificiale creato in laboratorio con la collaborazione tra gli scienziati di Wuhan e quelli americani. C'è pane per i complottisti di mezzo mondo: a lanciare l'indiscrezione, clamorosa, è il tabloid britannico Daily Mail, che riferisce di una richiesta di sovvenzionamento di 14 milioni di dollari presentata il mese scorso alla Defence Advanced Research Projects Agency da un team internazionale di scienziati, che dal 2018 starebbero pianificando di sviluppare in laboratorio un nuovo Coronavirus. Una idea partorita due anni prima dello scoppio ufficiale della pandemia. La domanda di sovvenzione per la creazione di virus chimerici geneticamente modificati, spiega il Daily Mail, sarebbe arrivata a conoscenza di Drastic, il gruppo di analisi che indaga sulle origini del Covid. Nel team internazionale di ricerca, la cui domanda è stata presentata dallo zoologo britannico Peter Daszak, ci sarebbero la Daszak EcoHealth Alliance, l’Istituto di virologia di Wuhan, l’Università della Carolina del Nord e Duke NUS di Singapore, aggiunge un altro quotidiano inglese, il Telegraph. "Compileremo dati di sequenza/RNAseq da un gruppo di ceppi strettamente correlati - si legge nella domanda di finanziamento - e confronteremo genomi a lunghezza intera, scansionando SNP unici che rappresentano errori di sequenziamento. I genomi candidati al consenso saranno sintetizzati commercialmente utilizzando tecniche consolidate e l’RNA della lunghezza del genoma nonché l’elettroporazione per recuperare virus ricombinanti". Di fatto, gli scienziati erano al lavoro già nel 2018 per creare un virus "sconosciuto" in natura, il cui virus più "vicino" è il ceppo Banal-52 segnalato in Laos il mese scorso e con cui condivide il 96,8% del genoma del coronavirus che provoca Covid-19. "Avrebbero inserito quell’RNA in una cellula e recuperato il virus - spiega un esperto dell'Oms sotto anonimato -. Ciò avrebbe creato un virus mai esistito in natura, con una nuova 'spina dorsale' che non esiste in natura ma è molto, molto simile in quanto è la media delle spine dorsali naturali". Darpa avrebbe rifiutato di finanziare il lavoro "per non mettere a rischio le comunità locali".

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it l'8 ottobre 2021. Scienziati di Wuhan, in Cina, e ricercatori Usa avrebbero pianificato di sviluppare in laboratorio un nuovo coronavirus nel 2018, prima che esplodesse la pandemia. Secondo quanto riportato dal Daily Mail, da una domanda di sovvenzionamento di 14 milioni di dollari presentata il mese scorso alla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA) è emerso che un team internazionale di scienziati aveva pianificato di creare virus chimerici, geneticamente modificati. La domanda di sovvenzione è stata presentata nel 2018 ed è trapelata a Drastic, il gruppo di analisi delle origini della pandemia.  

La domanda di sovvenzione di Usa e Cina per la creazione di un nuovo coronavirus in laboratorio. E’ stata presentata dallo zoologo britannico Peter Daszak per conto di un gruppo che comprendeva Daszak EcoHealth Alliance, l’Istituto di virologia di Wuhan, l’Università della Carolina del Nord e Duke NUS a Singapore, secondo quanto riportato dal Telegraph. “Compileremo dati di sequenza/RNAseq da un gruppo di ceppi strettamente correlati e confronteremo genomi a lunghezza intera, scansionando SNP unici che rappresentano errori di sequenziamento. I genomi candidati al consenso saranno sintetizzati commercialmente utilizzando tecniche consolidate e l’RNA della lunghezza del genoma nonché l’elettroporazione per recuperare virus ricombinanti”, è descritto nella domanda. Ciò comporterebbe un virus che non ha un antenato in natura, ha detto al Telegraph un esperto dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). L’esperto, che ha chiesto al giornale di mantenere l’anonimato, ha affermato che se tale metodo fosse stato attuato si potrebbe spiegare perché in natura non sia mai stata trovata una stretta corrispondenza per Sars-CoV-2. Il virus naturale più vicino è il ceppo Banal-52, segnalato in Laos il mese scorso. Condivide il 96,8% del genoma del coronavirus che provoca Covid-19. Finora non è stato trovato alcun ceppo originario diretto con un collegamento intorno al 99,98 per cento. 

Creare un nuovo virus. L’esperto dell’OMS ha dichiarato a The Telegraph che il processo descritto nella domanda avrebbe creato “una nuova sequenza di virus, non una corrispondenza al 100% con il nulla”. In seguito avrebbero sintetizzato il genoma virale dalla sequenza del computer, creandone uno che non esisteva in natura ma sembrava naturale come è la media dei virus naturali. “Avrebbero inserito quell’RNA in una cellula e recuperato il virus. Ciò avrebbe creato un virus mai esistito in natura, con una nuova “spina dorsale” che non esiste in natura ma è molto, molto simile in quanto è la media delle spine dorsali naturali”, ha affermato l’esperto. Darpa avrebbe rifiutato di finanziare il lavoro per non mettere a rischio le comunità locali. Il database dei ceppi virali presso l’Istituto di virologia di Wuhan è stato messo offline circa 18 mesi dopo il rifiuto, rendendo impossibile verificare su cosa stessero lavorando gli scienziati.

Gabriele Carrer per “La Verità” il 6 ottobre 2021. Gli acquisti di test molecolari (Pcr) nella provincia cinese dell'Hubei, dove si sono registrati i primi casi di Covid-19, sono cresciuti sensibilmente diversi mesi prima che le autorità parlassero ufficialmente del nuovo coronavirus. Nel 2019 sono stati spesi per i tamponi circa 67,4 milioni di yuan (pari a 9 milioni di euro), quasi il doppio rispetto al 2018. Il numero di contratti è cresciuto da 89 a 135. L'aumento degli acquisti è iniziato a maggio, con una brusca crescita tra luglio e ottobre, trainata da quattro enti: l'ospedale dell'aviazione dell'Esercito popolare di liberazione, l'Istituto di virologia di Wuhan, l'Università di scienza e tecnologia di Wuhan e i Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie dell'Hubei. Sono i risultati di un rapporto dal titolo piuttosto sinistro, Procuring for a pandemic (cioè Acquisti per una pandemia), pubblicato da Internet 2.0, società con sede a Barton, un sobborgo della capitale australiana Canberra, ma anche ad Alexandria, in Virginia, a pochi chilometri dalla capitale federale statunitense Washington. A capo di Internet 2.0 ci sono due amministratori delegati: Robert Potter, inventore della tecnologia su cui si basa l'azienda, ex capo delle operazioni cyber del colosso aerospaziale britannico Bae Systems, già consigliere del governo ombra australiano e funzionario del dipartimento di Stato americano; e David Robinson, ex funzionario dell'intelligence australiana. Nel comunicato consultivo spicca il nome di Christopher Painter, tra i massimi esperti mondiali di sicurezza cibernetica, primo cyberdiplomatico al mondo nominato dall'ex presidente statunitense, Barack Obama. Internet 2.0 ha raccolto e analizzato i dati da un sito Web che aggrega informazioni sugli appalti pubblici in Cina. I risultati dell'indagine, già contestati dal ministero degli Esteri di Pechino, gettano nuove ombre sulla linea ufficiale del governo cinese sull'origine del virus, tema che ha alimentato forti tensioni con i Paesi occidentali e i loro alleati nell'Indo-Pacifico, a partire dall'Australia. I test molecolari hanno altre applicazioni oltre a quelle per il Covid-19. Ma il rapporto sostiene che l'insolita impennata sia la prova che della consapevolezza che una nuova malattia si stava diffondendo a Wuhan e dintorni. Perché? Gli ordini sono raddoppiati dalle università, quintuplicati dal Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, decuplicati dagli uffici di sperimentazione animale ma diminuiti di oltre il 10% dagli ospedali. Con «alto tasso di fiducia» gli analisti di Internet 2.0 ritengono così che la pandemia Covid-19 sia «iniziata molto prima che la Cina informasse l'Organizzazione mondiale della sanità», il 31 dicembre 2019 (relativamente a un caso sintomatico registrato l'8). Secondo Akira Igata, professore della Tama Graduate School of business di Tokyo, «non possiamo concludere con certezza» che il Covid-19 sia stato registrato prima della comunicazione basandoci soltanto sui dati degli appalti pubblici. Ma «è un'informazione solida per sostenere che ci fosse la consapevolezza di un focolaio di virus intorno a Wuhan diversi mesi prima». «Questo rapporto potrebbe dare l'opportunità ai Paesi di premere nuovamente sulla Cina per avere informazioni», ha detto il professore. Perché quel ritardo e quella «trasparenza zero» che, secondo Robinson, uno degli autori del rapporto, «ha alimentato un sacco di ipotesi, teorie, disinformazione, così come il dolore delle vittime»? Neppure l'indagine richiesta dall'intelligence dal presidente statunitense Joe Biden ha risolto il dilemma sull'origine del Covid-19: è scappato da un laboratorio, quello di Wuhan, o è di origine animale?

Da ilgiornale.it l'1 ottobre 2021. La rivista Lancet è una delle più autorevoli per quanto riguarda la divulgazione scientifica. Eppure non è esente da errori, anche piuttosto imbarazzanti. Come quello commesso con la task force di esperti che era stata originariamente costituita con l’obiettivo di analizzare i dati e dare una spiegazione “super partes” sull’origine del Covid. Tale task force è stata appena smantellata perché si è scoperto che di “super partes” aveva ben poco. Uno dei membri di questo gruppo era il ricercatore britannico Peter Daszak: si è scoperto che in passato aveva collaborato con il laboratorio di Wuhan dal quale potrebbe essere “scappato” il virus. Inoltre Daszak per un periodo è stato anche a capo della task force di Lancet e soprattutto del gruppo di esperti che l’Organizzazione mondiale della sanità ha inviato più volte in Cina per raccogliere documenti e prove. Non a caso Daszak era tra quelli che credevano soprattutto all’origine naturale del virus, piuttosto che alla tesi di una fuga da un laboratorio cinese. A monte della decisione di smantellare la task force c’è il ritrovamento di alcuni documenti che dimostrano come Daszak abbia chiesto in passato un finanziamento per studiare alcuni coronavirus da inoculare in topi e pipistrelli con l’obiettivo di creare possibili cure. Tale sperimentazione sarebbe stata condotta proprio nei laboratori di Wuhan… 

Gli Usa rivelano i piani della Cina sulla terza guerra mondiale: armi biologiche e virus per vincere. Il Tempo l’08 maggio 2021. La Cina si stava preparando per combattere una terza guerra mondiale con armi biologiche, compresi i coronavirus. La scoperta bomba è stata fatta dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti: secondo il dossier prodotto dall'Esercito Popolare di Liberazione nel 2015 è stato considerato il potenziale militare dei coronavirus della SARS. Il clamoroso documento svela che gli scienziati hanno studiato a lungo come manipolare le malattie "in un modo mai visto prima”. Le rivelazioni sulla storia, fatte dal The Australian, spiegano che l’idea della Cina è che i coronavirus sarebbero dovuti essere "l'arma principale per la vittoria” nel terzo conflitto mondiale e venivano anche delineate le condizioni perfette per rilasciare un'arma biologica e causare il massimo danno possibile, documentando l'impatto che avrebbe sul "sistema medico del nemico". La scoperta choc fa sorgere ulteriori dubbi sull’origine del Covid-19, che secondo alcuni funzionari statunitensi è un virus prodotto in un laboratorio militare cinese. Alti esponenti del governo Usa dicono che tale documento "solleva grandi preoccupazioni" sulle intenzioni di coloro che sono più vicini al presidente cinese Xi Jinping. Gli autori del documento sottolineano che una terza guerra mondiale "sarà biologica", a differenza delle prime due guerre e si fa l’esempio che un’arma del genere avrebbe lo stesso impatto avuto dalla bomba atomica sul Giappone, che dopo i bombardamenti nucleari si arrese. Gli scienziati dicono che tali attacchi biologici non dovrebbero essere effettuati nel bel mezzo di una giornata limpida, poiché la luce solare intensa può danneggiare gli agenti patogeni, mentre la pioggia o la neve possono influenzare le particelle di aerosol. Bisognerebbe invece colpire di notte, all'alba, al tramonto, o con un tempo nuvoloso, con "una direzione del vento stabile… in modo che l'aerosol possa galleggiare nella zona di destinazione". La ricerca spiega anche che un tale attacco provocherebbe un'ondata di pazienti che richiedono cure ospedaliere, che poi "potrebbe causare il collasso del sistema medico del nemico”. Rivelazioni che fanno tremare il mondo intero.

Da ilmessaggero.it il 27 settembre 2021. Wuhan, si riparte da zero. L'Organizzazione Mondiale della Sanità avvierà una nuova indagine per capire se il Covid sia «fuggito dal laboratorio di Wuhan»: per questo sarà nominato un nuovo team di lavoro, tra cui esperti di biosicurezza, sicurezza di laboratorio, genetica e di scienziati in grado di capire come i virus si diffondano agli esseri umani. Lo riporta il Wall Street Journal. L'equipe vorrà capire se il coronavirus è davvero “sfuggito” dal laboratorio a Wuhan, alla fine del 2019, un'affermazione sempre smentita dalla Cina (che vuole anche che l'Oms esamini se il virus abbia avuto origine in un altro Paese). Tutto questo, arriva dopo che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ordinato alle agenzie di intelligence di indagare sulla teoria della «perdita del virus da laboratorio». Un portavoce dell'Oms ha detto che «le priorità del nuovo team devono essere i dati e l'accesso nel paese in cui sono state identificate le prime fughe del virus». La precedente indagine aveva raccomandato alla Cina di esaminare i primi casi sospetti di coronavirus. Ma nella relazione finale i dati forniti dal Paese agli esperti Oms erano stati bollati come «insufficienti». La notizia arriva mentre i decessi e i casi di Covid-19 sono aumentati - rispetto ai dati della settimana precedente - negli Usa e in Gran Bretagna. Le infezioni in Gb sono salite a 32.417 e le vite perse a causa del virus sono aumentate del 3,5% rispetto alla domenica precedente con 58 decessi rivelati. La settimana precedente ci sono stati 29.612 nuovi casi e 56 decessi. Dati separati hanno suggerito che le infezioni da Covid sono crollate la scorsa settimana nonostante i timori che il nuovo semestre scolastico avrebbe alimentato prima un'ondata autunnale. Una persona su 90 in Inghilterra aveva il virus, con circa 620.100 infetti in totale, secondo i test dell'Ufficio per le statistiche nazionali. Questo è in calo del 18% rispetto a due settimane prima, quando uno su 70 è risultato positivo e le infezioni totali stimate erano 754.000. L'indagine settimanale ONS, basata su tamponi casuali di 150.000 persone, è considerata dal governo come la misura più affidabile dell'epidemia. In un'ulteriore spinta alla speranza che la pandemia possa essere (già) finita, gli scienziati del governo hanno affermato che il tasso R - il numero medio infetto da qualcuno con il virus - potrebbe essere sceso al di sotto di uno per la prima volta da marzo. R è compreso tra 0,8 e 1 in Inghilterra, il che significa che l'epidemia si sta riducendo. La leader dello studio ONS Kara Steel ha detto: «I livelli di infezione sono diminuiti in Inghilterra per la prima volta in diverse settimane, sebbene i tassi rimangano generalmente elevati in tutto il Regno Unito. È incoraggiante che i tassi di infezione abbiano continuato a diminuire tra i giovani adulti, forse riflettendo l'impatto del programma di vaccinazione».

Michele Galvani per ilmessaggero.it il 23 settembre 2021. Secondo nuovi documenti esclusivi, gli scienziati di Wuhan stavano pianificando di rilasciare coronavirus potenziati nell'aria nei pipistrelli cinesi da inoculare contro malattie che «potrebbero trasferirsi agli esseri umani». Il nuovo report sostiene che 18 mesi prima dell'arrivo della pandemia, i ricercatori hanno presentato un piano per rilasciare nanoparticelle che penetrano nella pelle contenenti «nuove proteinechimeriche» (ossia prodotte dalla fusione di sequenze di DNA appartenenti a più geni) di coronavirus di pipistrello nei pipistrelli stessi delle caverne nello Yunnan. La notizia viene riportata dal tabloid “The Telegraph” e, di conseguenza, rilanciata da molti altri tabloid internazionali. Gli scienziati hanno pianificato di creare virus chimerici, geneticamente modificati per infettare gli esseri umani più facilmente, e hanno richiesto «14 milioni di dollari» alla Defense Advanced Research Projects Agency per completare il lavoro. Drastic, un team investigativo istituito per studiare le origini della pandemia, ha rilasciato i documenti e ha dichiarato: «Una revisione da parte della comunità scientifica della plausibilità dell'inserimento artificiale è giustificata». La proposta di sovvenzione includeva anche piani per «mescolare ceppi di coronavirus naturali ad alto rischio con varietà più infettive». L'Agenzia per i progetti di ricerca avanzata della difesa ha rifiutato di finanziare il lavoro. «È chiaro che il progetto proposto e guidato da Peter Daszak avrebbe potuto mettere a rischio le comunità locali», ha comunicato in una l'agenzia, avvertendo che il team non aveva considerato i pericoli del potenziamento del virus. Il progetto includeva anche piani per mescolare ceppi di coronavirus naturali ad alto rischio con varietà più infettive ma meno pericolose. Il piano è stato presentato dallo zoologo britannico Peter Daszak di EcoHealth Alliance, l'organizzazione con sede negli Stati Uniti, che ha lavorato a stretto contatto con l'Istituto di virologia di Wuhan (WIV) nella ricerca sui coronavirus dei pipistrelli. I membri del team includevano la dottoressa Shi Zhengli, ricercatrice e virologa soprannominato "donna pipistrello" (nella foto qui sopra), noto per i suoi studi sui virus, così come ricercatori statunitensi dell'Università della Carolina del Nord e del National Wildlife Health Center degli Stati Uniti Geological Survey.

Le preoccupazioni -  I documenti della sovvenzione mostrano che il team aveva anche alcune preoccupazioni sul programma vaccinale e si legge l'esperimento avrebbe «condotto un'attività di sensibilizzazione in modo che ci fosse stata una comprensione pubblica di ciò che stiamo facendo e perché lo stiamo facendo». Ma in effetti, chi avrebbe compreso i motivi di questo progetto? Angus Dalgleish, professore di oncologia alla St Georges, Università di Londra, che ha lottato per pubblicare un lavoro che dimostrasse che l'Istituto di virologia di Wuhan (WIV) aveva svolto un lavoro di «guadagno» per anni prima della pandemia, ha affermato che la ricerca potrebbe essere andata avanti anche senza i finanziamenti. «Questo è chiaramente un guadagno, l'ingresso dei nuovi virus avrebbe migliorato l'infettibilità delle cellule umane in più di una linea cellulare», ha fatto sapere al tabloid inglese.

Le accuse - Matthew Ridley, coautore di un libro sull'origine del Covid-19, in uscita a novembre, e che ha spesso chiesto alla Camera dei Lord un'ulteriore indagine su ciò che ha causato la pandemia, ha commentato: «Per più di un anno ho provato ripetutamente a fare domande a Peter Daszak senza risposta. Ora si scopre che è stato l'autore di questa informazione vitale sul lavoro sui virus a Wuhan, ma si è rifiutato di condividerla con il mondo. Sono furioso». Un ricercatore Covid-19 dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS), che ha preferito restare anonimo, ha detto che è rimasto senza parole. «La parte spaventosa è che stavano producendo virus Mers chimerici infettivi -  ha detto la fonte - Questi virus hanno un tasso di mortalità superiore al 30%, che è almeno un ordine di grandezza più letale di Sars-CoV-2. Così questa pandemia sarebbe quasi apocalittica».

Covid, ma quale pangolino? "18 mesi prima...": una strage cinese? Ecco la più pesante delle prove. Libero Quotidiano il 23 settembre 2021. Gli scienziati di Wuhan stavano pianificando di rilasciare coronavirus potenziati nell'aria nei pipistrelli cinesi da inoculare contro malattie che "potrebbero trasferirsi agli esseri umani", almeno 18 mesi prima dell'arrivo della pandemia. I ricercatori hanno presentato un piano per rilasciare nanoparticelle che penetrano nella pelle contenenti "nuove proteinechimeriche" di coronavirus di pipistrello nei pipistrelli stessi delle caverne nello Yunnan. Lo scrive “The Telegraph”. Insomma, smontata la balla del salto di specie dal pangolino? Sembrerebbe proprio di sì...Il progetto includeva anche piani per mescolare ceppi di coronavirus naturali ad alto rischio con varietà più infettive ma meno pericolose. Il piano è stato presentato dallo zoologo britannico Peter Daszak di EcoHealth Alliance, l'organizzazione con sede negli Stati Uniti, che ha lavorato a stretto contatto con l'Istituto di virologia di Wuhan (WIV) nella ricerca sui coronavirus dei pipistrelli. I documenti mostrano che il team aveva anche alcune preoccupazioni sul programma vaccinale e si legge l'esperimento avrebbe "condotto un'attività di sensibilizzazione in modo che ci fosse stata una comprensione pubblica di ciò che stiamo facendo e perché lo stiamo facendo". Angus Dalgleish, professore di oncologia alla St Georges, Università di Londra, che ha lottato per pubblicare un lavoro che dimostrasse che l'Istituto di virologia di Wuhan (WIV) aveva svolto un lavoro di "guadagno" per anni prima della pandemia, ha affermato, scrive il Messaggero, "che la ricerca potrebbe essere andata avanti anche senza i finanziamenti". "Questo è chiaramente un guadagno, l'ingresso dei nuovi virus avrebbe migliorato l'infettibilità delle cellule umane in più di una linea cellulare", ha spiegato il professore.

Coronavirus, "menzogne non solo sul pangolino". Wuhan e il numero di morti 2020: l'ultima terrificante balla comunista. Libero Quotidiano il 26 luglio 2021. Sull'origine del virus e della pandemia Pechino avrebbe mentito: lo dimostra l'ultimo rapporto demografico dell'Ufficio di statistica, che ha censito la popolazione nel 2020 - 1,411 miliardi di cinesi -, senza citare però il numero di decessi. Probabilmente per evitare confronti con gli anni precedenti. Bisogna accontentarsi così del bilancio ufficiale fornito dalla Cina: 93 mila contagi e 4.743 morti a fine dicembre 2020. Ovvero poco più di tre morti per un milione di abitanti. In un articolo di Jacques Massey riportato sul Fatto Quotidiano si ripercorrono tutte le tappe, dal 31 dicembre 2019 fino a oggi. L'ultimo giorno di dicembre, infatti, è stato indicato come la data ufficiale dell'identificazione di un nuovo coronavirus in Cina. Era stato individuato nel mercato del pesce di Wuhan alcuni giorni prima, il 16 dicembre. Il sospetto, però, è che sia iniziato tutto molto tempo prima: una fonte di Mediapart, membro del team di esperti internazionale di sicurezza creato dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, sostiene che "un membro cinese del gruppo aveva segnalato la presenza del nuovo virus a Wuhan da settembre 2019”. Poi a febbraio 2020 la tesi del pangolino: alcuni ricercatori dell'Università di agricoltura della Cina del sud assicurarono di aver trovato nella sequenza genomica di un virus dei pangolini il 99% di elementi in comune con il Sars-CoV-2. Secondo loro, quindi, sarebbe stato questo piccolo animale simile al formichiere a fare da tramite nel processo di contaminazione dal pipistrello all'uomo. La tesi, però, non è stata dimostrata e, secondo Massey, sarebbe servita a Pechino per accantonare ipotesi alternative, come la creazione del virus in laboratorio. A giugno 2020 invece avrebbe trovato conferma la tesi della nascita del Covid in laboratorio: stando a uno studio del collettivo di scienziati Drastic, nel giugno 2019 l'università di Wuhan era stata ispezionata ed era emerso un ambiente precario, con la mancanza di pareti divisorie tra le diverse zone di sperimentazione, misure di sicurezza scarse e attrezzature per studenti inadeguate. Pochi mesi fa, invece, nel gennaio 2021, tredici esperti dell'Oms sono andati a Wuhan per elaborare un rapporto sulle cause della malattia, ma non è stata lasciata loro la minima libertà di documentare l'indagine. 

Coronavirus, "fogne contaminate": il dossier sul laboratorio di Wuhan, così è nata la pandemia? Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. Continuano le indagini sulle origini del coronavirus, con la pista che porta all'istituto di virologia di Wuhan che viene battuta sempre di più. Fino a qualche tempo fa parlarne voleva dire essere complottisti, ma le cose sono cambiate da quando anche il governo degli Stati Uniti ha preso posizione e ha gettato ombre sulla Cina e anche sull'Organizzazione mondiale della sanità. I ricercatori di Drastic - un team internazionale composto da scienziati e investigatori - hanno fatto delle rivelazioni importanti. Pochi mesi prima che la pandemia scoppiasse, da un'ispezione condotta nei laboratori di Wuhan sono emerse stanze piene di 'detriti' e scarse o assenti norme di igiene e sicurezza. Il rapporto, scoperto dal team di Drastic - denunciava come non esistessero strutture per i rifiuti chimici e nessuna separazione tra le aree sperimentali e quelli comuni, con il rischio di contaminazione. Non solo, perché i laboratori venivano descritti dagli ispettori come 'affollati' e 'caotici'. In un simile scenario diventa ancora più plausibile che sia potuto avvenire un errore di biosicurezza dal quale si sarebbe originato la pandemia. Tra l'altro i ricercatori di Drasting hanno scoperto una serie di errori scioccanti: presso il Wuhan Institute of Biological Products - vicino al laboratorio di virologia - i sistemi fognari e di drenaggio erano vecchi e danneggiati, capaci addirittura di contaminare canali e torrenti locali. Inoltre all'istituto di virologia sono state scoperte 3.268 gabbie di animali vivi, tra cui 12 per i pipistrelli. 

Coronavirus nato in laboratorio a Wuhan, "il disertore Dong Jingwei ha fornito le prove a Biden". Libero Quotidiano il 19 giugno 2021. Il coronavirus è davvero nato in un laboratorio di Wuhan? Il presidente americano Joe Biden ne è convinto e dietro al suo repentino, clamoroso cambio di scenario ci sarebbe una persona ben precisa, che avrebbe fornito alla Casa Bianca le prove di quanto successo davvero in Cina. Secondo il sito Spy Talk, questa persona sarebbe niente meno che Dong Jingwei, vice ministro cinese con un passato nei servizi segreti di Pechino. L'uomo sarebbe fuggito negli Usa insieme alla figlia di 10 anni. Massimo riserbo a proposito, ma se la notizia fosse confermata si tratterebbe del disertore di più alto grado mai scappato dalla Cina. Don Jingwei avrebbe portato con sé documenti pesantissimi sull’istituto di virologia di Wuhan, carte talmente evidenti da convincere Biden e l'amministrazione democratica a prendere seriamente quanto andava dicendo da mesi anche il suo predecessore Donald Trump. Nessuna fantasia complottista, dunque, ma dati confermati da una gola profonda più che autorevole. A fare il nome di Dong Jingwei è stato anche il dottor Han Lianchao, altro pezzo grosso della dissidenza anti-comunista. Si tratta di un ex funzionario del Ministero degli Esteri cinesi che disertò clamorosamente dopo il massacro di piazza Tiananmen, nella primavera 1989. Secondo Han, Pechino avrebbe invato già i suoi delegati dal segretario di Stato americano Anthony Blinken lo scorso marzo per discutere del rimpatrio di Dong, ricevendo un secco rifiuto. "Ha lavorato a stretto contatto con Zhang Yue, che ora sta scontando 15 anni di reclusione per corruzione - ha detto Han a Spy Talk -. Zhang era un confidente di Ma Jian, ex vice ministro esecutivo di MSS, anche lui in prigione per corruzione".

Covid, lo spettro della fuga dal laboratorio. Corsa contro il tempo per accertare l'origine. Antonio Caperna il 21 Settembre 2021 su Il Giornale. Appello di sedici scienziati su "Lancet": "Sequenza insolita del genoma". La ricerca sulle origini del Sars-Cov-2 è in un momento critico e per gli scienziati «si sta rapidamente chiudendo la finestra sulla fattibilità biologica di condurre il tracciamento di persone e animali all'interno e all'esterno della Cina». A sottolinearlo a fine agosto sulla rivista Nature sono gli autori del rapporto dell'Oms su come è emerso il Covid-19 e avvertono che un ulteriore ritardo rende biologicamente difficile un'indagine cruciale. Le sei priorità individuate, per cercare di individuare le origini del virus, stanno man mano venendo meno, poiché gli anticorpi Sars-Cov-2 diminuiscono, quindi «raccogliere ulteriori campioni e testare le persone, che potrebbero essere state esposte prima di dicembre 2019, produrrà dati sempre minori»; indagare sui siti di allevamenti selvatici è complicato, perché molti sono chiusi, tanti animali abbattuti, «rendendo sempre più difficile trovare qualsiasi prova di ricaduta precoce del coronavirus». Difficoltoso è anche «valutare i pipistrelli selvatici e altri potenziali bacini idrici o ospiti intermedi in Cina e nei paesi vicini e selezionare animali d'allevamento ad alto rischio». Restano i dubbi sull'origine in laboratorio, tanto che nei giorni scorsi 16 scienziati hanno chiesto un dibattito aperto su Lancet, sottolineando come «alcune caratteristiche insolite della sequenza del genoma» suggeriscono che il virus «potrebbe derivare dall'ingegneria genetica». Mentre altri studiosi scrivono su Nature che «i rappresentanti degli Stati membri dovrebbero negoziare termini dettagliati sulla questione delicata delle indagini sulle pratiche di laboratorio. Invitiamo la comunità scientifica e i leader dei paesi a unire le forze per accelerare gli studi, finché siamo ancora in tempo». Alcune settimane fa sulla rivista Cell 21 esperti di Università Usa, australiane, europee e della Xi'an Jiaotong-Liverpool University in Cina hanno pubblicato una revisione di varie ricerche, sottolineando che «al momento non ci sono prove che Sars-Cov-2 abbia un'origine di laboratorio, né che l'Istituto possedesse o lavorasse su un progenitore del virus prima della pandemia». Il tutto sarebbe legato alla coincidenza di avere in città un laboratorio che studia coronavirus e che «gli agenti patogeni spesso richiedono aree densamente popolate per stabilirsi». A confermare questa linea di indagine è anche un articolo appena pubblicato su Nature: il salto di specie (spillover) del virus Sars-Cov-2 dagli animali all'uomo potrebbe essere avvenuto in due situazioni indipendenti. L'ipotesi arriva dall'Università della California a San Diego, che ha valutato 1.716 genomi del virus e raccolti tra la fine 2019 e il febbraio 2020. Negli archivi è possibile osservare la presenza, sin dalle prime settimane dalla scoperta del virus, di due distinte varianti, note come A e B, che hanno una serie di nette differenze genetiche. Quindi «è molto più probabile che la pandemia abbia avuto origine nel commercio di animali selvatici». Per raccogliere ulteriori prove, gli studiosi prevedono di eseguire simulazioni al computer e testare in che modo uno spillover multiplo potrebbe combaciare con la diversità dei genomi virali noti. Antonio Caperna

Coronavirus, la nuova ipotesi sulle origini: nato da due salti di specie. Giuliano Aluffi su La Repubblica il 18 settembre 2021. Uno studio americano: "Il virus non è uscito da un laboratorio ma ha una derivazione naturale. E' passato dagli animali all'uomo". L’ipotesi della fuga del Sars-CoV-2 da un laboratorio cinese – che è sempre stata considerata poco probabile ma non è mai stata del tutto esclusa dalla comunità scientifica – appare oggi più debole grazie a un nuovo studio pubblicato su Virological.org da un gruppo di ricercatori americani guidati da Michael Worobey, docente di biologia all’Università dell’Arizona.

Elena Tebano per corriere.it il 18 settembre 2021. Le origini del Sars-Cov-2 — il coronavirus che causa il Covid-19 — sono uno dei temi politicamente sensibili della pandemia: l’ipotesi che possa essere sfuggito a un laboratorio cinese è stata sollevata e respinta più volte da Usa e Cina, come arma contundente nello scontro economico e politico tra le due superpotenze. Ora «Nature» dà conto di una nuova ipotesi, sulla base di uno studio appena pubblicato su Virology.com, che però — come sottolinea la stessa rivista scientifica - è preliminare e necessita di ulteriori verifiche. «Il Sars-Cov-2 potrebbe essere passato più volte dagli animali alle persone, secondo un’analisi preliminare dei genomi virali prelevati da persone infettate in Cina e altrove all’inizio della pandemia. Se confermati da ulteriori analisi, i risultati aggiungerebbero peso all’ipotesi che la pandemia ha avuto origine in più mercati diversi a Wuhan, e renderebbero meno probabile l’ipotesi che Sars-Cov-2 sia fuggita da un laboratorio, dicono alcuni ricercatori. Ma i dati devono essere verificati, e l’analisi non è ancora stata sottoposta a revisione tra pari» scrive «Nature». Lo studio si basa sul fatto che i primi campioni di Sars-Cov-2 prelevati all’inizio della pandemia alla fine del 2019 e all’inizio del 2020, sono riconducibili a due diverse linee evolutive, note come A e B, che hanno differenze genetiche chiave. La B, poi diventata quella dominante in tutto il mondo, è stata trovata in persone che hanno visitato il mercato dei frutti di mare di Huanan a Wuhan, che vendeva anche animali selvatici. La A si è diffusa all’interno della Cina, ed è stata trovata in altri mercati di Wuhan. «Una domanda cruciale è come i due lignaggi virali sono collegati. Se i virus della linea evolutiva A si sono evoluti da quelli della linea evolutiva B, o viceversa, questo suggerirebbe che il precursore del virus è saltato solo una volta dagli animali alle persone. Ma se le due linee evolutive hanno origini separate, allora potrebbero esserci stati più eventi di spillover (passaggio da animale a uomo, ndr)» spiega «Nature». Finora a far propendere per un’origine comune alle linea A e B era l’esistenza di varianti del virus con una combinazione intermedia delle due differenze nucleotidiche chiave che le caratterizzano. Il nuovo studio ha analizzato 1.716 genomi di varianti del Sars-Cov-2 presenti nel database scientifico Gisaid e ha identificato 38 genomi «intermedi». Analizzandoli meglio i ricercatori hanno rilevato altre mutazioni in altre regioni dei loro genomi che sono nettamente distinte, alcune associate solo alla linea evolutiva A, altre solo alla B, anche nelle varianti con genoma che finora sembrava intermedio. Gli autori dello studio (Jonathan Pekar, Edyth Parker, Jennifer L. Havens, Marc A. Suchard, Kristian G. Andersen, Niema Moshiri, Michael Worobey, Andrew Rambaut, Joel O. Wertheim) sono convinti che le frequenze che appaiono come intermedie siano il frutto di errori computazionali. Un’ipotesi plausibile secondo Richard Neher, un biologo computazionale dell’Università di Basilea in Svizzera, non coinvolto nella ricerca: «Tali incidenti non sono sorprendenti — dice a «Nature» —. Soprattutto all’inizio della pandemia, quando i protocolli non erano molto stabiliti e le persone cercavano di generare dati il più velocemente possibile». L’ipotesi che ci siano due linee evolutive del nuovo coronavirus, con due origini separate, rende meno plausibile che sia nato in laboratorio: se è possibile che una persona si sia accidentalmente infettata in laboratorio e abbia poi diffuso il virus nella popolazione, è molto meno probabile che questo sia accaduto due volte. Di converso, studi precedenti hanno dimostrato che altri coronavirus (come quello che causa la Sars) sono passati più volte dagli animali alle persone. Per corroborare la loro ipotesi dell’origine multispecie, gli autori dello studio dovranno comunque eseguire altri studi.

Dagotraduzione dal New York Post il 16 settembre 2021. Nel suo nuovo libro, Wei Jingsheng, il più famoso disertore cinese rifugiatosi in America nel 1997, racconta che nel novembre del 2019 aveva avvisato i servizi di intelligence degli Stati Uniti che un nuovo virus si stava diffondendo a Wuhan. Nel volume, intitolato “What Really Happened in Wuhan”, il padre del movimento democratico cinese dice di aver sentito parlare per la prima volta di un nuovo, misterioso virus ai tempi dei Giochi militari di Wuhan nell’ottobre del 2019. Allarmato dalle notizie che gli arrivavano, Wei aveva subito avvertito i servizi di intelligence statunitensi, un politico che aveva contatti con il presidente, e l’attivista cinese per i diritti umani Dimon Liu. «Ho percepito che non erano così fortemente preoccupati come lo ero io, quindi ho fatto del mio meglio per fornire informazioni più dettagliate. Forse non credevano che un governo potesse coprire l’esistenza di un virus. Allora ho insistito nel tentativo di convincerli». Wei, che ha trascorso 18 anni nelle carceri cinesi per essersi opposto al regime comunista, gode di una fiducia bipartisan ed è in contatto con l’ex segretario di Stato Mike Pompeo e con la presidentessa della Camera Nancy Pelosi. Wei ha detto di aver scoperto il virus da contatti di alto livello a Pechino. «Ho parlato con Dimon e alcuni altri politici americani alla Camera del pericolo di questa situazione», ha detto. «C'erano anche funzionari della Casa Bianca in quel momento. A novembre 2019». Wei non ha voluto rivelare con quale politico ha parlato. «Non sono sicuro che questo politico voglia che parli di lui proprio qui», ha detto. «Ma voglio dire che è un politico abbastanza in alto, abbastanza in alto da poter raggiungere il presidente degli Stati Uniti». David Asher, il funzionario del Dipartimento di Stato che ha guidato la task force sulle origini del COVID-19, ha affermato che l'opportunità offerta dall'avvertimento di Wei equivaleva a «fermare l'11 settembre prima che accadesse». Asher ha detto che il governo degli Stati Uniti aveva altre prove cruciali di allarme preventivo alla fine del 2019, ma non è riuscito a collegare i punti. Asher sostiene che il governo degli Stati Uniti ha avuto informazioni sugli operatori dell'Istituto di virologia di Wuhan che si ammalavano di sintomi simili al COVID per la prima volta alla fine del 2019, un anno prima il Dipartimento di Stato facesse la stessa scoperta durante la sua indagine sulle origini del virus. A quel punto, 1,7 milioni di persone in tutto il mondo erano morte a causa del COVID-19. Le autorità cinesi hanno agito per sopprimere le notizie sull'epidemia di Wuhan, eliminando da Internet sia i post che le notizie che vi facevano riferimento, e facendo "scomparire" dissidenti e informatori che tentavano di lanciare un avvertimento. I resoconti dei social media su un nuovo coronavirus non sono emersi fino alla fine di dicembre 2019 e a fine gennaio 2020 Stati Uniti, Australia e Nuova Zelanda hanno chiuso le frontiere ai viaggiatori provenienti dalla Cina. "What Really Happened in Wuhan" Liu rivela che Wei le ha parlato del virus il 22 novembre 2019, a una cena alla quale era presente anche suo marito, l'ex agente della CIA Robert Suettinger. «Non potevo credere a quello che stava dicendo», ha detto Liu. «A quel tempo, avevo pensato che il coronavirus non potesse essere peggiore della SARS. E la SARS, come sapevamo per esperienza, non era così contagiosa e poteva essere contenuta. All'epoca pensavo che fosse così. Ok, c'è stata un'epidemia, ma le autorità e il progresso delle scienze mediche saranno in grado di contenerne la diffusione». Nel libro, Liu descrive in dettaglio la corsa per ottenere informazioni sul nuovo virus alla Casa Bianca e la sua incertezza al riguardo. Dopo la visita di Wei, scrisse un promemoria di ciò che aveva divulgato a lei e a Suettinger. Aveva intenzione di trasmetterlo al vice consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Donald Trump, Matt Pottinger. «Ma non gliel'ho mandato perché così tante cose erano incredibili», ha detto. «L'ho scritto, ma non l'ho inviato perché ho deciso che era meglio che Wei parlasse direttamente con Matt Pottinger». Nel libro Wei dice: «Per voi occidentali è difficile comprendere la capacità che ha il PCC di sigillare le informazioni».

Quei documenti inediti sull’origine del Covid. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 9 settembre 2021. A distanza di un anno e mezzo dall’inizio della pandemia che ha cambiato il mondo, c’è ancora grande incertezza sull’origine del Sars-Cov-2, tra chi sostiene l’origine naturale del virus e chi, al contrario, punta il dito contro un possibile coinvolgimento dell’Istituto di virologia di Wuhan. Ed è proprio in merito all’attività del laboratorio situato in Cina che emergono nuovi dettagli e documenti inediti che spingono a credere che la seconda sia l’ipotesi più accreditata e verosimile. The Intercept è entrato in possesso di circa 900 pagine di documenti che descrivono nel dettaglio il lavoro – pericoloso – di EcoHealth Alliance, un’organizzazione con sede negli Stati Uniti che ha utilizzato denaro federale per finanziare la ricerca sui Coronavirus e i pipistrelli presso il laboratorio cinese. La raccolta di documenti include due proposte di sovvenzione inedite che sono state finanziate dal National Institute of Allergy and Infectious Diseases, nonché aggiornamenti del progetto relativi alla ricerca di EcoHealth Alliance. La documentazione è stata resa nota nell’ambito del contenzioso in corso sul Freedom of Information Act fra The Intercept e il National Institutes of Health statunitense.

“Ricerche ad alto rischio finanziate dagli Usa”. Come già sottolineato da InsideOver, il ruolo da chiarire in questa vicenda di EcoHealth Alliance non rappresenta una novità: gli Stati Uniti hanno commissionato lo studio di nuovi coronavirus all’organizzazione che, secondo Npr, stava eseguendo la maggior parte della raccolta di campioni di coronavirus dai pipistrelli, per poi trasferirli all’Istituto di Wuhan. Il denaro della sovvenzione originale fornito a EcoHealth era di 3,7 milioni di dollari, di cui 76mila dollari per l’Istituto di Wuhan. Questo finanziamento è stato approvato con il sostegno dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, l’agenzia guidata dal celebre virologo Anthony Fauci, secondo quanto riportato da Newsweek. L’inchiesta di The Intercept evidenzia finanziamenti che precedentemente non erano noti. Secondo Gary Ruskin, direttore esecutivo di US Right To Know, un gruppo che ha indagato sulle origini del coronavirus, si tratta di “ricerche ad alto rischio che avrebbero potuto portare all’attuale pandemia”.

Il ruolo di EcoHealth Alliance tutto da chiarire. Una delle sovvenzioni, intitolata “Capire il rischio dell’emergenza del coronavirus dei pipistrelli”, delinea lo sforzo ambizioso del presidente dell’EcoHealth Alliance, Peter Daszak, di procedere con lo screening di migliaia di campioni di pipistrelli alla ricerca di nuovi coronavirus, animali vivi compresi. I documenti contengono diversi dettagli critici sulla ricerca a Wuhan, incluso il fatto che il lavoro sperimentale chiave con topi “umanizzati “è stato condotto in un laboratorio di livello 3 di biosicurezza presso il Wuhan University Center for Animal Experiment – ​​e non presso l’Istituto di virologia di Wuhan, come era precedentemente presunto. Notare che Daszak è il principale autore della celebre lettera, pubblicata su The Lancet, nella quale veniva scartata l’ipotesi che il coronavirus fosse sfuggito – per errore o volutamente – dal laboratorio cinese. Come ha appurato il giornalista scientifico Nicholas Wade, trattasi di un palese conflitto d’interessi. La seconda sovvenzione, intitolata ” Comprendere il rischio di comparsa di virus zoonotici negli hotspot di malattie infettive emergenti del sud-est asiatico“, è stata assegnata nell’agosto 2020 e si estende fino al 2025. La proposta, scritta nel 2019, ha toni quasi preveggenti, e si concentra sull’aumento e la distribuzione di risorse in Asia in caso di epidemia di una “malattia infettiva emergente”, riferendosi all’Asia come un possibile hotspot di questo tipo di virus.

Pioggia di milioni sulla ricerca sui coronavirus. La sovvenzione per la ricerca sul coronavirus dei pipistrelli ha stanziato a EcoHealth Alliance un totale di 3,1 milioni di dollari, inclusi 599mila dollari che l’Istituto di virologia di Wuhan ha utilizzato in buona parte per identificare e alterare i coronavirus dei pipistrelli che potrebbero infettare gli esseri umani. Anche prima della pandemia, molti scienziati erano preoccupati per i potenziali pericoli associati a tali esperimenti, scrive The Intercept. Peraltro, nota la testata americana, la proposta di sovvenzione riconosce alcuni di questi pericoli: “Il lavoro sul campo comporta il più alto rischio di esposizione alla Sars o ad altri CoV, mentre si lavora in grotte con un’alta densità di pipistrelli sopra la testa e il rischio potenziale di le feci”. Secondo Richard Ebright, biologo molecolare della Rutgers University, i documenti contengono informazioni critiche sulla ricerca condotta a Wuhan, inclusa la creazione di nuovi coronavirus. La sovvenzione è stata inizialmente assegnata per un periodo di cinque anni, dal 2014 al 2019. Il finanziamento è stato rinnovato nel 2019 ma sospeso dall’amministrazione Trump nell’aprile 2020. La domanda è: perché nessuno ha fermato questi esperimenti definiti pericolosi dalla scienza stessa? Perché Daszak si è affrettato ad affermare in ogni sede che l’origine del Covid-19 è naturale e l’ipotesi del laboratorio, al contrario, è una bufala? Certo è che, grazie alla documentazione resa nota da The Intercept, in quel laboratorio si conducevano esperimenti pericolosi e qualcuno dovrebbe spiegare il perché.

Perché la teoria della fuga del Covid dal laboratorio sta evaporando. Federico Giuliani su Inside Over il 4 settembre 2021. “The lab leak theory for the origin of COVID-19 is fading”, ovvero “La teoria delle fughe di laboratorio sull’origine del COVID-19 sta svanendo”. Il Los Angeles Times è tornato sulla diatriba inerente alle origini del Sars-CoV2, sottolineando come sia sempre più complicato dare credito alla lab leak theory, cioè alla teoria -mai completamente confermata da prove ufficiali – secondo la quale il virus sarebbe fuoriuscito accidentalmente dal Wuhan Institue of Virology in seguito a un errore umano. Questo non significa escludere la pista del laboratorio, visto che le indagini sulla diffusione della pandemia sono ancora in alto mare; significa, al contrario, fare i conti con la realtà, dando credito a ogni ipotesi emersa, ma senza forzare la mano per finalità politiche. Nel corso dell’ultimo anno e mezzo, infatti, Stati Uniti e Cina si sono scambiate reciproche frecciatine, più o meno bizzarre, per accusarsi l’un l’altra sulle cause della pandemia. Washington ha puntato il dito contro il laboratorio di Wuhan, alludendo a molteplici indizi che indicherebbero l’eventuale fuga del virus dal capoluogo della provincia dello Hubei. Dall’altro lato, Pechino ha tirato in ballo Fort Detrick appellandosi a presunti incidenti capitati nel complesso americano. Alla fine nessuna delle due accuse ha aiutato o sta aiutando gli esperti a trovare le origini del Covid. Anzi: un simile braccio di ferro sta soltanto complicando il lavoro di ricerca. 

Le ultime ricerche. Al momento restano sul tavolo due ipotesi: quella che porta dritta alla fuga del virus dal laboratorio di Wuhan e quella che si rifà all’origine zoonotica del patogeno. La comunità scientifica, dunque, ha l’arduo compito di diradare la nebbia per stabilire se il virus si sia diffuso all’uomo da animali ospiti o mediante mezzi artificiali. Alcuni recenti articoli scientifici danno credito all’origine zoonotica del virus. Un documento realizzato da ricercatori in Cina, in concerto con esperti dell’Università di Glasgow, pubblicato su Science il 21 agosto, ha esplorato “l’origine animale del Sars-CoV-2”. “Al momento non ci sono prove che Sars-CoV-2 abbia avuto origine da un laboratorio”, ha concluso un altro report scritto da 21 virologi provenienti da Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Cina, Australia e Austria, la cui pubblicazione è prevista nel numero del 16 settembre della rivista Cell. Il sospetto che il virus possa aver avuto origine in un laboratorio è accompagnato (e ingigantito) dalle coincidenze della sua rilevazione. Del resto il coronavirus è stato rilevato “per la prima volta in una città che ospita un importante laboratorio virologico”, appunto l’Istituto di virologia di Wuhan. Attenzione però, perché Wuhan è la città più grande della Cina centrale, dotata di un elevato numero di mercati animali, ed è anche un importante snodo per i viaggi e il commercio. Alla luce di ciò, riflettono gli autori, è altamente probabile che il virus possa aver raggiunto gli esseri umani da ospiti animali, come zibetti o cani procioni. 

Un’occasione sprecata. Il tempo darà tutte le risposte alle domande lasciate in sospeso. Attenzione però, perché la crociata ideologica avanzata da una buona fetta del governo americano per inchiodare la Cina di fronte alle sue presunte colpe (alcune ci sono, e sono pure evidenti), e l’ambiguità cinese mostrata nella prima fase dell’emergenza sanitaria, potrebbero contribuire a mescolare le carte in tavola, vanificando tutte le indagini. A maggio Joe Biden aveva annunciato folgoranti novità sul dossier Covid nell’arco di 90 giorni, ma l’intelligence americana è tornata alla Casa Bianca con le mani vuote. Le indagini degli 007 Usa sono state inconcludenti, e la colpa sarebbe da attribuire a dati non condivisi dal governo cinese. Insomma, se nessuno è ancora riuscito a trovare la verità è a causa di Pechino. È vero, la Cina non è apparsa molto disponibile nel condividere i documenti di ricerca del laboratorio di Wuhan, ma non è (e non è stato) l’unico Paese a tenere nascoste alcune ricerche biologiche sensibili. “Nessuno ha prove per confermare o falsificare un’ipotesi rispetto all’altra”, ha affermato Angela Rasmussen dell’Università del Saskatchewan, coautrice dell’articolo Cell. “Ma quello che io e i miei coautori abbiamo deciso dopo aver esaminato tutte le prove è che ci sono sostanzialmente più prove sul lato di un’origine naturale rispetto a una perdita di laboratorio”, ha aggiunto. In ogni caso, ci troviamo di fronte a un’occasione sprecata, dato che senza ragionare su prove concrete e dati ufficiali c’è il rischio di gettare alle spine il lavoro svolto fino ad ora. Ma perché è così importante stabilire le origini del virus? Semplice: se la sua origine dovesse essere fatta risalire a un laboratorio, questo indicherebbe agli esperti la necessità di migliorare la sicurezza nelle strutture di tutto il mondo. Se, invece, il patogeno dovesse essersi diffuso in seguito a una zoonosi, questo indicherebbe la necessità di una regolamentazione più rigorosa dei cosiddetti “mercati umidi”.

Covid-19, l’ombra di Donald Trump dietro il disastro del laboratorio di Wuhan. Fabrizio Gatti su L'Espresso l'1 settembre 2021. L’ex presidente ha finanziato gli esperimenti sui pipistrelli in Cina che Obama aveva vietato negli Usa. Perché erano troppo pericolosi. Sono venti mesi che la Cina di Xi Jinping impedisce al mondo di indagare sulle origini della pandemia. E al di là della tensione con Pechino e dei quattro milioni e mezzo di morti complessivi, non è una brutta notizia per il presidente americano Joe Biden, già alle prese con il dossier Afghanistan alla vigilia del ventesimo anniversario del massacro dell’11 settembre. Un’inchiesta autonoma e trasparente sul Sars-CoV-2 dovrebbe infatti notare che, anche sotto l’amministrazione di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno abbondantemente finanziato gli esperimenti di aumento di funzione dei coronavirus dei pipistrelli, eseguiti dall’Istituto di Virologia di Wuhan, perché potessero acquisire la capacità di infettare le cellule umane. La collaborazione internazionale ha poi permesso agli scienziati militari e civili cinesi, nella prima città colpita dall’epidemia, di proseguire soli le stesse attività di ricerca che tre anni prima Barack Obama aveva vietato negli Usa proprio per la loro pericolosità. Mancando un’indagine indipendente, ancora non abbiamo prove di quello che è avvenuto tra il 2017 e la diffusione del contagio proprio a Wuhan nell’autunno 2019. Anche se le singolari parentele genetiche e geografiche del virus Sars-CoV-2 suggeriscono un’origine apparentemente naturale, ma in realtà guidata dagli scienziati attraverso processi che vedremo più avanti. Ciò che è invece provato, da documenti successivamente rimossi dai siti cinesi (ma che sono in nostro possesso), è la stretta collaborazione dell’Istituto di Virologia con il programma di ricerca sui coronavirus dell’esercito popolare, sempre smentita dalle autorità del regime comunista. E questo non dovrebbe imbarazzare soltanto Trump e Biden, ma anche il presidente francese Emmanuel Macron. Secondo quegli stessi documenti, il vicedirettore di uno dei due comitati internazionali che avrebbero dovuto sorvegliare l’attività scientifica a Wuhan era, fin dopo lo scoppio della pandemia, Hervé Raoul, condirettore – così viene indicato – del laboratorio “Jean Mérieux” di Lione. Il più importante centro francese è gestito da Inserm, l’Istituto nazionale della salute e della ricerca medica che, con un corso di poche settimane, aveva addestrato i ricercatori di Wuhan a operare nel loro nuovo laboratorio di biosicurezza nazionale, costruito dalla Francia. Tra loro, la professoressa Shi Zhengli, a capo dei principali studi sui coronavirus e vicedirettrice del laboratorio cinese. Il nome di Hervé Raoul, nell’elenco del comitato, appare tra il direttore Linfa Wang, che da anni collabora con Shi Zhengli, e il colonnello Wu-Chun Cao, uno dei massimi depositari dei segreti della ricerca virologica dell’esercito cinese, al servizio dell’Istituto di Microbiologia e epidemiologia dell’Accademia militare delle scienze mediche di Pechino. Perfino due dei cinque membri del comitato accademico del laboratorio di biosicurezza nazionale di Wuhan, tra i quali il vicedirettore, sono scienziati militari. Ciò che è ancora più sorprendente riguarda, però, i quattordici componenti internazionali dei comitati, uno di sorveglianza e l’altro di valutazione delle performance dell’Istituto di Virologia di Wuhan: dei sei scienziati di fama mondiale che hanno risposto alle nostre email, cinque hanno dichiarato di non aver mai saputo di essere membri dei due comitati e di aver visitato l’ultima volta l’Istituto di Virologia di Wuhan soltanto nel 2012 o nel 2013. L’istituto di Wuhan avrebbe quindi dichiarato il falso. Tra i cinque, c’è perfino un collega di Raoul: il professor Christian Bréchot, direttore generale di Inserm dal 2001 al 2007, poi vicepresidente dell’Istituto Mérieux e, dal 2013 al 2017, presidente dell’Istituto Pasteur di Parigi. Insomma, non l’ultimo arrivato. «Sebbene loro possano aver mantenuto il mio nome sulla lista del loro comitato consultivo», risponde il professor Bréchot, «io non sono in contatto con l’Istituto di virologia di Wuhan dagli anni intorno al 2012». Né Hervé Raoul né Inserm, per ben tre volte da maggio 2020, hanno mai risposto alle nostre domande. Ma torniamo al 2017. Il 10 febbraio di quell’anno, dieci mesi prima che Trump autorizzi nuovamente gli esperimenti di aumento di funzione negli Stati Uniti, Shi Zhengli e il collega americano Peter Daszak, insieme con Linfa Wang da Singapore e altri quattordici ricercatori cinesi, consegnano alla rivista “Plos Pathogens” un articolo scientifico che illustra la loro ricerca sul campo e in laboratorio cominciata nell’aprile 2011. Lo studio rientra nelle indagini sulle origini della prima epidemia di Sars, la sindrome respiratoria acuta grave che aveva colpito la Cina tra il 2002 e il 2004 e che per mesi era stata nascosta dal regime di Pechino. In questo studio, Shi Zengli e Peter Daszak chiamano SARS-CoV i coronavirus umani della Sars e SARSr-CoV i coronavirus imparentati che i ricercatori hanno estratto dagli escrementi dei pipistrelli cinesi (SARSr significa infatti Sars-related). Scrivono a pagina 11 del loro articolo: «Abbiamo fabbricato un gruppo infettivo di cloni con la struttura del coronavirus WIV1 e varianti dei geni della proteina S spike di otto differenti SARSr-CoV dei pipistrelli». Soltanto due cloni riescono a replicarsi nelle colture cellulari, insieme con un nuovo coronavirus appena isolato: «Per valutare se i tre nuovi SARSr-CoV possono usare l’enzima umano Ace2 come recettore cellulare di ingresso, abbiamo condotto studi di infettività virale usando cellule umane (HeLa cells) con e senza l’espressione dell’enzima Ace2 umano. Tutti i virus replicano efficientemente nelle cellule umane che esprimono l’enzima Ace2». Significa che i due cloni costruiti in laboratorio potrebbero infettare l’uomo direttamente. Ciò che renderebbe questo esperimento una “gain of function”, o aumento di funzione, è la fabbricazione delle due pericolose chimere, che in natura non sarebbero esistite. Oltre che dai fondi statali cinesi, l’indagine dell’Istituto di Virologia di Wuhan guidata da Shi Zhengli e Peter Daszak è finanziata da due importanti enti statali americani. Uno è il NIAID, l’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive diretto da Anthony Fauci, all’interno dei National Institutes of Health. L’altro è USAID, l’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, attraverso il Predict program per la prevenzione delle pandemie. Il professor Daszak è invece fondatore e presidente di EcoHealth Alliance, un’organizzazione non governativa con sede a New York che aveva e ha tuttora l’ambizione di isolare il maggior numero di virus dagli animali selvatici per anticipare le future epidemie. Non sempre con successo. Proprio su questi finanziamenti - che hanno aggirato il divieto di Obama agli esperimenti di aumento di funzione - Fauci, oggi consigliere medico del presidente Biden, durante un’audizione in luglio è stato accusato dal senatore Rand Paul di avere mentito al Congresso. Scatenando la reazione in aula del professore ottantenne: «Lei non sa di cosa sta parlando». Purtroppo le precedenti uscite fantascientifiche del senatore, non lo rendono un testimonial credibile. È inoltre altrettanto curioso che l’Organizzazione mondiale della sanità abbia inserito Daszak nella propria delegazione inviata in Cina per l’indagine farsa di metà febbraio 2021. Anche di fronte al più trasparente degli scienziati, la gravità della pandemia dovrebbe escludere dall’inchiesta persone in possibile conflitto di interessi. Sono proprio le ricerche dual-use, civili e militari, dell’Istituto di Virologia di Wuhan, seguite ai finanziamenti americani, che andrebbero indagate per prime. Nello studio di Shi Zhengli e Peter Daszak viene infatti confermato l’interesse dell’Istituto di Virologia di Wuhan nella grande capacità dei virus dei pipistrelli a ricombinarsi tra di loro: cioè a scambiarsi casualmente i loro geni, dando origine a nuovi coronavirus, magari più infettivi e più adatti al salto di specie in altri animali e nell’uomo. «L’evoluzione dei coronavirus dei pipistrelli imparentati con la Sars», scrivono però Shi Zhengli e Peter Daszak nel 2017, «è fortemente correlata alla loro origine geografica e non alla specie degli animali ospiti». Come in ogni giallo poliziesco, la traccia genetica dell’assassino parla a chi la sa ascoltare. E i geni del coronavirus Sars-CoV-2 confessano di essere strettamente imparentati con tre coronavirus dei pipistrelli. Due (chiamati ZC45 e ZXC21) sono stati prelevati a Est, dall’arcipelago di Zhoushan nella provincia di Zhejiang, e registrati nel 2018 dal comando dell’Istituto di medicina militare di Nanchino e dalla Terza Università medica militare di Chongqing. Il terzo (RaTG13) è stato prelevato da una miniera della provincia di Yunnan a Sud-Ovest, nel 2013, e registrato soltanto il 27 gennaio 2020, a epidemia già scoppiata, da Shi Zhengli. L’arcipelago e la miniera però sono separati da oltre duemilaseicento chilometri e i pipistrelli non volano più di qualche decina di chilometri. Mentre l’epidemia scoppia lungo il percorso, cioè a Wuhan. Quindi una correlazione geografica di questo tipo in natura non dovrebbe esistere. Allora perché esiste? L’ipotesi scientifica, che senza un’indagine sul campo rimarrà soltanto un’ipotesi, è stata spiegata il 20 agosto scorso alla conferenza della Federazione mondiale degli scienziati da uno studioso attento e competente come Massimo Ciccozzi, professore dell’Università Campus Bio-Medico di Roma. «Alcuni genomi virali taglia e incolla mantengono segni rivelatori di manipolazione. Ma i metodi più recenti, chiamati seamless», cioè senza cucitura, ha spiegato il professor Ciccozzi durante la conferenza, «non lasciano segni distintivi. Se un virus è stato manipolato, con un metodo seamless o tramite un passaggio seriale nelle colture cellulari, non c’è modo di saperlo. Nemmeno l’evoluzione guidata attraverso un passaggio seriale negli animali lascia tracce». In quest’ultimo procedimento, si fanno convivere pipistrelli o animali serbatoio provenienti da regioni diverse e si selezionano i coronavirus generati dai processi di ricombinazione in modo da guidare la loro evoluzione: magari verso agenti patogeni più infettivi o più adatti al salto di specie. Qualunque analisi filogenetica successiva a una contaminazione, a un eventuale incidente di laboratorio e a un’epidemia scoprirebbe soltanto il passaggio dai pipistrelli all’uomo. È il gap geografico di Sars-CoV-2 a suggerire oggi un’ipotesi innaturale sulla sua origine. 

Fabrizio Gatti per “L’Espresso” il 30 agosto 2021. Sono venti mesi che la Cina di Xi Jinping impedisce al mondo di indagare sulle origini della pandemia. E al di là della tensione con Pechino e dei quattro milioni e mezzo di morti complessivi, non è una brutta notizia per il presidente americano Joe Biden, già alle prese con il dossier Afghanistan alla vigilia del ventesimo anniversario del massacro dell'11 settembre. Un'inchiesta autonoma e trasparente sul Sars-CoV-2 dovrebbe infatti notare che, anche sotto l'amministrazione di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno abbondantemente finanziato gli esperimenti di aumento di funzione dei coronavirus dei pipistrelli, eseguiti dall'Istituto di Virologia di Wuhan, perché potessero acquisire la capacità di infettare le cellule umane. La collaborazione internazionale ha poi permesso agli scienziati militari e civili cinesi, nella prima città colpita dall'epidemia, di proseguire soli le stesse attività di ricerca che tre anni prima Barack Obama aveva vietato negli Usa proprio per la loro pericolosità. Mancando un'indagine indipendente, ancora non abbiamo prove di quello che è avvenuto tra il 2017 e la diffusione del contagio proprio a Wuhan nell'autunno 2019. Anche se le singolari parentele genetiche e geografiche del virus Sars-CoV-2 suggeriscono un'origine apparentemente naturale, ma in realtà guidata dagli scienziati attraverso processi che vedremo più avanti. Ciò che è invece provato, da documenti successivamente rimossi dai siti cinesi (ma che sono in nostro possesso), è la stretta collaborazione dell'Istituto di Virologia con il programma di ricerca sui coronavirus dell'esercito popolare, sempre smentita dalle autorità del regime comunista. E questo non dovrebbe imbarazzare soltanto Trump e Biden, ma anche il presidente francese Emmanuel Macron. Secondo quegli stessi documenti, il vicedirettore di uno dei due comitati internazionali che avrebbero dovuto sorvegliare l'attività scientifica a Wuhan era, fin dopo lo scoppio della pandemia, Hervé Raoul, condirettore - così viene indicato - del laboratorio "Jean Mérieux" di Lione. Il più importante centro francese è gestito da Inserm, l'Istituto nazionale della salute e della ricerca medica che, con un corso di poche settimane, aveva addestrato i ricercatori di Wuhan a operare nel loro nuovo laboratorio di biosicurezza nazionale, costruito dalla Francia. Tra loro, la professoressa Shi Zhengli, a capo dei principali studi sui coronavirus e vicedirettrice del laboratorio cinese. Il nome di Hervé Raoul, nell'elenco del comitato, appare tra il direttore Linfa Wang, che da anni collabora con Shi Zhengli, e il colonnello Wu-Chun Cao, uno dei massimi depositari dei segreti della ricerca virologica dell'esercito cinese, al servizio dell'Istituto di Microbiologia e epidemiologia dell'Accademia militare delle scienze mediche di Pechino. Perfino due dei cinque membri del comitato accademico del laboratorio di biosicurezza nazionale di Wuhan, tra i quali il vicedirettore, sono scienziati militari. Ciò che è ancora più sorprendente riguarda, però, i quattordici componenti internazionali dei comitati, uno di sorveglianza e l'altro di valutazione delle performance dell'Istituto di Virologia di Wuhan: dei sei scienziati di fama mondiale che hanno risposto alle nostre email, cinque hanno dichiarato di non aver mai saputo di essere membri dei due comitati e di aver visitato l'ultima volta l'Istituto di Virologia di Wuhan soltanto nel 2012 o nel 2013. L'istituto di Wuhan avrebbe quindi dichiarato il falso. Tra i cinque, c'è perfino un collega di Raoul: il professor Christian Bréchot, direttore generale di Inserm dal 2001 al 2007, poi vicepresidente dell'Istituto Mérieux e, dal 2013 al 2017, presidente dell'Istituto Pasteur di Parigi. Insomma, non l'ultimo arrivato. «Sebbene loro possano aver mantenuto il mio nome sulla lista del loro comitato consultivo», risponde il professor Bréchot, «io non sono in contatto con l'Istituto di virologia di Wuhan dagli anni intorno al 2012». Né Hervé Raoul né Inserm, per ben tre volte da maggio 2020, hanno mai risposto alle nostre domande. Ma torniamo al 2017. Il 10 febbraio di quell'anno, dieci mesi prima che Trump autorizzi nuovamente gli esperimenti di aumento di funzione negli Stati Uniti, Shi Zhengli e il collega americano Peter Daszak, insieme con Linfa Wang da Singapore e altri quattordici ricercatori cinesi, consegnano alla rivista "Plos Pathogens" un articolo scientifico che illustra la loro ricerca sul campo e in laboratorio cominciata nell'aprile 2011. Lo studio rientra nelle indagini sulle origini della prima epidemia di Sars, la sindrome respiratoria acuta grave che aveva colpito la Cina tra il 2002 e il 2004 e che per mesi era stata nascosta dal regime di Pechino. In questo studio, Shi Zengli e Peter Daszak chiamano SARS-CoV i coronavirus umani della Sars e SARSr-CoV i coronavirus imparentati che i ricercatori hanno estratto dagli escrementi dei pipistrelli cinesi (SARSr significa infatti Sars-related). Scrivono a pagina 11 del loro articolo: «Abbiamo fabbricato un gruppo infettivo di cloni con la struttura del coronavirus WIV1 e varianti dei geni della proteina S spike di otto differenti SARSr-CoV dei pipistrelli». Soltanto due cloni riescono a replicarsi nelle colture cellulari, insieme con un nuovo coronavirus appena isolato: «Per valutare se i tre nuovi SARSr-CoV possono usare l'enzima umano Ace2 come recettore cellulare di ingresso, abbiamo condotto studi di infettività virale usando cellule umane (HeLa cells) con e senza l'espressione dell'enzima Ace2 umano. Tutti i virus replicano efficientemente nelle cellule umane che esprimono l'enzima Ace2». Significa che i due cloni costruiti in laboratorio potrebbero infettare l'uomo direttamente. Ciò che renderebbe questo esperimento una "gain of function", o aumento di funzione, è la fabbricazione delle due pericolose chimere, che in natura non sarebbero esistite. Oltre che dai fondi statali cinesi, l'indagine dell'Istituto di Virologia di Wuhan guidata da Shi Zhengli e Peter Daszak è finanziata da due importanti enti statali americani. Uno è il NIAID, l'Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive diretto da Anthony Fauci, all'interno dei National Institutes of Health. L'altro è USAID, l'Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, attraverso il Predict program per la prevenzione delle pandemie. Il professor Daszak è invece fondatore e presidente di EcoHealth Alliance, un'organizzazione non governativa con sede a New York che aveva e ha tuttora l'ambizione di isolare il maggior numero di virus dagli animali selvatici per anticipare le future epidemie. Non sempre con successo. Proprio su questi finanziamenti - che hanno aggirato il divieto di Obama agli esperimenti di aumento di funzione - Fauci, oggi consigliere medico del presidente Biden, durante un'audizione in luglio è stato accusato dal senatore Rand Paul di avere mentito al Congresso. Scatenando la reazione in aula del professore ottantenne: «Lei non sa di cosa sta parlando». Purtroppo le precedenti uscite fantascientifiche del senatore, non lo rendono un testimonial credibile. È inoltre altrettanto curioso che l'Organizzazione mondiale della sanità abbia inserito Daszak nella propria delegazione inviata in Cina per l'indagine farsa di metà febbraio 2021. Anche di fronte al più trasparente degli scienziati, la gravità della pandemia dovrebbe escludere dall'inchiesta persone in possibile conflitto di interessi. Sono proprio le ricerche dual-use, civili e militari, dell'Istituto di Virologia di Wuhan, seguite ai finanziamenti americani, che andrebbero indagate per prime. Nello studio di Shi Zhengli e Peter Daszak viene infatti confermato l'interesse dell'Istituto di Virologia di Wuhan nella grande capacità dei virus dei pipistrelli a ricombinarsi tra di loro: cioè a scambiarsi casualmente i loro geni, dando origine a nuovi coronavirus, magari più infettivi e più adatti al salto di specie in altri animali e nell'uomo. «L'evoluzione dei coronavirus dei pipistrelli imparentati con la Sars», scrivono però Shi Zhengli e Peter Daszak nel 2017, «è fortemente correlata alla loro origine geografica e non alla specie degli animali ospiti». Come in ogni giallo poliziesco, la traccia genetica dell'assassino parla a chi la sa ascoltare. E i geni del coronavirus Sars-CoV-2 confessano di essere strettamente imparentati con tre coronavirus dei pipistrelli. Due (chiamati ZC45 e ZXC21) sono stati prelevati a Est, dall'arcipelago di Zhoushan nella provincia di Zhejiang, e registrati nel 2018 dal comando dell'Istituto di medicina militare di Nanchino e dalla Terza Università medica militare di Chongqing. Il terzo (RaTG13) è stato prelevato da una miniera della provincia di Yunnan a Sud-Ovest, nel 2013, e registrato soltanto il 27 gennaio 2020, a epidemia già scoppiata, da Shi Zhengli. L'arcipelago e la miniera però sono separati da oltre duemilaseicento chilometri e i pipistrelli non volano più di qualche decina di chilometri. Mentre l'epidemia scoppia lungo il percorso, cioè a Wuhan. Quindi una correlazione geografica di questo tipo in natura non dovrebbe esistere. Allora perché esiste? L'ipotesi scientifica, che senza un'indagine sul campo rimarrà soltanto un'ipotesi, è stata spiegata il 20 agosto scorso alla conferenza della Federazione mondiale degli scienziati da uno studioso attento e competente come Massimo Ciccozzi, professore dell'Università Campus Bio-Medico di Roma. «Alcuni genomi virali taglia e incolla mantengono segni rivelatori di manipolazione. Ma i metodi più recenti, chiamati seamless», cioè senza cucitura, ha spiegato il professor Ciccozzi durante la conferenza, «non lasciano segni distintivi. Se un virus è stato manipolato, con un metodo seamless o tramite un passaggio seriale nelle colture cellulari, non c'è modo di saperlo. Nemmeno l'evoluzione guidata attraverso un passaggio seriale negli animali lascia tracce». In quest' ultimo procedimento, si fanno convivere pipistrelli o animali serbatoio provenienti da regioni diverse e si selezionano i coronavirus generati dai processi di ricombinazione in modo da guidare la loro evoluzione: magari verso agenti patogeni più infettivi o più adatti al salto di specie. Qualunque analisi filogenetica successiva a una contaminazione, a un eventuale incidente di laboratorio e a un'epidemia scoprirebbe soltanto il passaggio dai pipistrelli all'uomo. È il gap geografico di Sars-CoV-2 a suggerire oggi un'ipotesi innaturale sulla sua origine. 

Perché il rapporto Usa sul Covid è stato un buco nell’acqua. Federico Giuliani su Inside Over il 28 agosto 2021. In merito alle origini del Sars-Cov2 la comunità scientifica torna al punto di partenza. C’era molta attesa per la diffusione del report realizzato dagli 007 americani, incaricati da Joe Biden di fare luce una volta per tutte sulla pandemia di Covid. L’intelligence statunitense, coadiuvata da tutte le altre agenzie nazionali, era pronta a svelare l’arcano, magari inchiodando la Cina sulle sue presunte colpe e svelando ipotetici incidenti di laboratorio accaduti in quel di Wuhan. Alla scadenza dei 90 giorni annunciati da Biden, tutti aspettavano la rivelazione bomba. Una rivelazione che, conto ogni aspettativa, non è affatto arrivata. Già, perché il presidente Usa è stato aggiornato sul rapporto dei servizi americani, ma ben poco sarebbe emerso dal l’informativa riservata. “Era un briefing riservato, quindi ovviamente non sono informazioni che forniremo pubblicamente”, ha spiegato la portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. Proprio in queste ore, la comunità dell’intelligence sta preparando una sintesi non classificata dei suoi risultati, che sarà pubblicata nei prossimi giorni. Psaki, sollecitata dai giornalisti, ha rifiutato di approfondire i riscontri principali del rapporto. La sensazione, come hanno in seguito confermato vari media, è che gli Stati Uniti non sono riusciti a trovare prove schiaccianti in grado di validare definitivamente la narrazione della fuga del virus dal laboratorio. 

Il flop del rapporto Usa. Secondo quanto riportato dal Washington Post, i servizi americani non sarebbero stati in grado di scoprire le origini del virus. In particolare, l’intelligence Usa non è riuscita a capire se il Sars-Cov2 sia effettivamente fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan o, al contrario, se sia stato trasmesso agli esseri umani in seguito a una zoonosi. Ricordiamo che, lo scorso maggio, Biden aveva chiesto con insistenza agli 007 statunitensi di sforzarsi per giungere a una conclusione definitiva sulla diffusione della malattia. I massimi funzionari dell’intelligence, inclusa la direttrice dell’intelligence nazionale Avril Haines, hanno riconosciuto non è possibile escludere che il virus possa aver avuto origine da un incidente di laboratorio, ma hanno avvertito che sarebbe difficile giungere a una conclusione definitiva in merito. Per scoprire il contenuto del report arrivato sulla scrivania del presidente, bisognerà attendere ancora qualche giorno, quando i documenti (o meglio: alcune parti di essi) dovrebbero essere declassificati  e resi pubblici. 

Le cause del fallimento. Nonostante il massimo impegno profuso, gli esperti Usa continuano a brancolare nel buio. Il motivo è semplice: mancano diverse informazioni dettagliate provenienti dalla Cina, cioè quelle che potrebbero chiarire i contorni del mistero Covid. Scendendo nei dettagli, Pechino dovrebbe essere indotto a condividere record di laboratorio, campioni gnomici e altri dati rilevanti. Detto altrimenti: finché il Dragone non darà accesso a determinate informazioni, soprattutto a quelle relative all’inizio della pandemia, è pressoché impossibile fare luce sulle origini del Covid. Da qui alle prossime settimane Biden potrebbe cambiare strategia, cercando di trovare un modo per sollecitare la Cina a collaborare ulteriormente con la comunità internazionale. Dal canto suo, il gigante asiatico ha più volte ripetuto di aver fatto tutto il possibile per contribuire a svelare le origini del virus. Non solo: Pechino ha prima ipotizzato l’importazione del Covid nel Paese dall’estero mediante alimenti congelati infetti, poi insistito sulla falsità della Lab Leak Theory. A detta dei media Usa, uno dei più grandi ostacoli nella ricerca della verità sulle origini del virus è rappresentato dalle scarse informazioni rilasciate dalla Cina. Il mistero continua.

Da liberoquotidiano.it il 28 agosto 2021. È stato desecretato il rapporto che l’intelligence americana ha consegnato a Joe Biden sull’origine del coronavirus. “Informazioni essenziali sull’origine della pandemia esistono in Cina, ma fin dall’inizio i funzionari cinesi hanno lavorato per impedire che gli investigatori internazionali vi avessero accesso”, ha affermato il presidente degli Stati Uniti, aggiungendo che “il mondo merita risposte” e quindi non cesserà di mettere pressione su Pechino. Dal report emerge infatti la frustrazione dell’intelligence per non poter stabilire con certezza l’origine del coronavirus. Gli esperti hanno concluso che non è stato sviluppato come arma biologica, tuttavia viene espressa “moderate confidence” sul fatto che la prima infezione umana sia stata il risultato di un incidente occorso all’istituto di virologia di Wuhan, dove probabilmente stavano conducendo una sperimentazione sugli animali. “Low confidence” è invece stata espressa sull’altra ipotesi, quella di un’origine naturale. Resta però l’incapacità di dare una spiegazione definitiva e verificata a causa della scarsa collaborazione della Cina, che ovviamente non ha alcun interesse a far luce fino in fondo sull’accaduto, anche perché l’intelligence americana (e non solo quella) sembra propendere sempre più per l’incidente in laboratorio. Anche se probabilmente neanche a Pechino erano a conoscenza del coronavirus prima che scoppiasse la pandemia. “Le informazioni sono contraddittorie e scarse sui primi casi di Covid, è impossibile giungere a una conclusione senza la collaborazione della Cina”, si legge nel rapporto consegnato a Biden.

Da leggo.it il 28 agosto 2021. L'ambasciata cinese negli Stati Uniti ha accusato Washington di «manipolazione politica» riguardo al recente rapporto dell'intelligence Usa sull'origine del Covid-19, considerandolo una «calunnia» nei confronti di Pechino, accusata di «rifiutarsi di condividere informazioni». Il rapporto, che considera «plausibili» le ipotesi di esposizione naturale a un animale infetto e quella di una fuga di laboratorio, è stato richiesto dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che ha garantito che continuerà a lavorare per chiarire le origini della pandemia. «Il rapporto è stato prodotto dagli Stati Uniti sotto la guida delle agenzie di intelligence, e non c'è alcun tipo di scientificità o credibilità», ha attaccato l'ambasciata cinese a Washington in un comunicato, in cui indicava l'intelligence statunitense come autrice di «capolavori» e ora di un'inchiesta «fittizia». Per Pechino, ora gli Stati Uniti «stanno ripetendo i vecchi trucchi» sminuendo la credibilità del rapporto dell'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a cui la Cina ha partecipato e dando «fiducia» a quello delle sue agenzie. Pechino si è poi rammaricata che gli Stati Uniti l'accusino di mancanza di trasparenza. «Dallo scoppio della pandemia, la Cina ha sempre seguito i principi di apertura, trasparenza e responsabilità», ha affermato l'ambasciata. Per quanto riguarda la questione della tracciabilità del virus, la Cina ha sottolineato di «aver dimostrato un atteggiamento scientifico, professionale, serio e responsabile» e «ha preso l'iniziativa di avviare una cooperazione globale sulla tracciabilità con l'Oms». Per Pechino, il rapporto «dimostra solo che Washington sta andando sempre più avanti lungo la strada sbagliata della manipolazione politica». Inoltre, gli Usa vengono accusati di nascondere i dati sulla pandemia. «L'Istituto di virologia di Wuhan ha ospitato due volte esperti dell'Oms e la fuga estremamente improbabile del nuovo coronavirus dall'istituto è una chiara conclusione del rapporto di ricerca congiunto Cina-OMS», ha affermato l'ambasciata cinese. Nonostante l'Oms abbia già effettuato una prima indagine nel laboratorio cinese, dopo la quale ha concluso che la sua fuga era «estremamente improbabile», l'Organizzazione ha recentemente proposto di effettuare una nuova indagine dopo aver riconosciuto che Pechino non condivideva i «dati grezzi» dei primi casi rilevati a fine 2019. La Cina ha però rifiutato una seconda fase dell'inchiesta, richiesta in numerose occasioni da Washington.

Valentina Errante per ilmessaggero.it il 25 agosto 2021. La risposta definitiva non c'è, almeno secondo due funzionari statunitensi. Come riporta il Washington Post, ieri, il presidente Usa Joe Biden ha ricevuto il rapporto riservato dall'intelligence sulle origini del nuovo coronavirus. Una relazione che avrebbe dovuto chiarire se l'agente patogeno sia stato trasmesso per la prima volta, in Cina, da un animale a un essere umano o se invece il virus si sia diffuso dopo un errore in un laboratorio della Cina centrale, a Wuhan. L'intelligence, entro pochi giorni, dovrebbe declassificare alcuni elementi della relazione per una diffusione pubblica.

Coronavirus, origine animale o sfuggito da laboratorio Wuhan? La valutazione è il risultato di un lavoro di 90 giorni, avviato quando, a maggio scorso, Biden ha incaricato le sue agenzie di intelligence di produrre un rapporto quanto più vicino possibile a una conclusione definitiva sulle origini di un virus che ha ucciso più di 4 milioni di persone nel mondo e distrutto le economie nazionali. Ma nonostante l'analisi di una serie di informazioni esistenti e la ricerca di nuovi indizi, i funzionari dell'intelligence non avrebbero raggiunto un accordo, sempre in base alle informazioni ricevute dal quotidiano Usa dai funzionari, che hanno scelto l'anonimato dal momento che il rapporto non è ancora pubblico.

Il dibattito sulle origini. Il dibattito sulle origini del virus è diventato sempre più acceso, dopo che l'ex presidente Donald Trump aveva dichiarato, l'anno scorso, che il virus aveva avuto origine in un laboratorio cinese. Gli sforzi per comprendere la provenienza dell'agente patogeno sono sempre stati ostacolati dal fermo rifiuto delle autorità cinesi di consentire un'indagine più approfondita da parte degli investigatori internazionali. La direttiva di Biden è arrivata dopo la trasmissione, da parte delle agenzie di intelligence, di un rapporto che prospettava due scenari probabili, ma non una conclusione certa. Due agenzie erano propense per l'ipotesi che il virus fosse stato generato dal contatto umano con un animale infetto, mentre una terza era orientata verso lo scenario di un incidente di laboratorio. Il direttore dell'intelligence nazionale, Avril Haines, aveva avvertito, a giugno, che le agenzie avrebbero potuto incontrare difficoltà e non risolvere il mistero. "Speriamo di trovare una pistola fumante", aveva detto a Yahoo News in un'intervista. Ma poi aveva aggiunto: "è difficile farlo, non è detto che accada". La revisione ha coinvolto dozzine di analisti e funzionari dell'intelligence di più agenzie, con esami di laboratorio e di gruppi, per un'analisi approfondita.

Le difficoltà. Secondo un funzionario, l'intelligence non avrebbe strumenti sufficienti per risolvere il quesito, che riguarda piuttosto la scienza. Perché, sebbene gli 007 siano in grado di raccogliere informazioni su una serie di attori stranieri, non sono necessariamente pronti ad esaminare dati sanitari globali. Lo stesso Biden, nella sua prima visita all'Ufficio del direttore dell'intelligence nazionale, a luglio, aveva espresso la necessità di un gruppo più solido per rintracciare gli agenti patogeni. Suggerendo che alla relazione lavorassero anche esperti della comunità scientifica. Che i risultati non sarebbero stati definitivi sembrava dunque annunciato. Del resto, molti scienziati, che hanno familiarità con il dibattito sull'origine del virus, erano scettici sul fatto che il supplemento alla  prima relazione, realizzato in 90 giorni, potesse risolvere il quesito e alcuni avevano affermato che l'indagine potrebbe richiedere anni di ricerca. "Non dovremmo nemmeno pensare di chiudere la questione o fare marcia indietro, ma piuttosto aumentare lo sforzo", ha detto martedì in una e-mail David Relman, un microbiologo della Stanford University che propone un'ampia indagine su tutte le ipotesi di origine del Covid-19. 

Le due ipotesi. La scorsa primavera, l'ipotesi che il virus potesse essere sfuggito da un laboratorio aveva suscitato un forte aumento di interesse. Soprattutto dopo che, a maggio, 18 scienziati avevano scritto una lettera sulla rivista "Science", sostenendo che tutte le ipotesi dovessero essere vagliate, inclusa, appunto, quella di un incidente. I sostenitori di questa teoria fanno riferimento a informazioni classificate, divulgate per la prima volta negli ultimi giorni dell'amministrazione Trump: tre lavoratori non identificati dell'Istituto di virologia di Wuhan - uno dei principali istituti di ricerca mondiali che studiano i coronavirus - nel novembre 2019 si sarebbero presentati in un ospedale dedicato a lievi patologie, con sintomi simili a quelli dell'influenza. Per tutto il 2020, anno elettorale, quell'ipotesi ha condizionato la politica. L'affermazione di Trump, secondo il quale il virus proveniva da un laboratorio, è arrivata proprio quando il presidente uscente e altri funzionari dell'amministrazione attribuivano alla Cina la responsabilità  dell'epidemia globale, cercando di distogliere l'attenzione dalla malriuscita gestione dei contagi negli Usa. Del resto, molti scienziati hanno osservato che i virus hanno una lunga storia di trasmissione dagli animali all'uomo. È anche plausibile che il passaggio del virus sia avvenuto attraverso animali selvatici, allevati in casa, e poi venduti in mercati affollati. Molti dei primi casi sono stati individuati attorno a un mercato del pesce, dove sono state successivamente rilevate tracce del virus sulle superfici. 

L'origine animale. Questa teoria della zoonosi è stata rafforzata da un rapporto del 7 giugno, pubblicato sulla rivista "Nature", che documenta 38 specie di animali vendute in 17 mercati, a Wuhan, prima della pandemia. Gli autori hanno affermato che la scarsa igiene di molti animali li aveva resi noti per essere portatori di malattie zoonotiche. "Ora sappiamo per certo che gli animali suscettibili al [coronavirus] sono stati effettivamente venduti nei mercati di Wuhan, il che cambia enormemente la valutazione", aveva dichiarato Robert Garry, un microbiologo della Tulane University che sostiene fortemente la teoria della zoonosi. Gli esperti nell'evoluzione del genoma virale hanno anche stabilito che il nuovo coronavirus quasi certamente non è stato progettato come arma biologica, perché ha diverse caratteristiche naturali osservate in molti altri coronavirus. Ma anche gli scienziati che favoriscono un'origine naturale hanno affermato che, senza prove definitive di trasmissione da animale a uomo, non è possibile escludere la possibilità che un incidente di laboratorio abbia portato all'epidemia. Tuttavia, molte domande rimangono senza risposta: l'animale che avrebbe contratto il virus, prima di infettare le persone, non è stato identificato. E le ricerche di questo tipo, per le precedenti epidemie, hanno richiesto anni. Anche i sostenitori della tesi opposta non hanno trovato alcuna prova diretta che il SARS-CoV-2 fosse all'interno di un laboratorio a Wuhan prima della pandemia, sebbene i centri cinesi non abbiano rilasciato la documentazione richiesta da scienziati e governi di tutto il mondo. 

L'Oms. Una delegazione di investigatori dell'Organizzazione mondiale della sanità, a febbraio, ha fatto una breve visita al laboratorio di Wuhan e in seguito ha dichiarato che ci sono possibili molteplici origini, con una zoonosi naturale molto probabile e una fuga di laboratorio "estremamente improbabile". Ma il direttore generale dell'Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha smentito questa conclusione, affermando che sarebbe prematuro escludere la teoria della fuga di laboratorio. La conclusione dell'Oms è stata criticata anche da alcuni scienziati e ricercatori internazionali, che hanno chiesto ulteriori indagini. Lunedì la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki, ha detto che l'esito del rapporto verrà reso pubblico.

Nel mercato di Wuhan infezioni di ogni tipo. Uno studio su Science: "L'origine del Covid è lì". Elena Dusi su La Repubblica il 19 agosto 2021. Dove sia nato il coronavirus resta un mistero. Ma una cosa sembra certa: il mercato di Wuhan era una bomba biologica pronta a esplodere. Le limitazioni al consumo di maiale in Cina nel 2019, a causa di un’altra epidemia (la febbre suina africana) avevano fatto aumentare in quell’anno il ricorso alla selvaggina. Molti campionamenti di pipistrelli nelle aree della Cina meridionale hanno mostrato la presenza di coronavirus affini a quello che ci affligge con la pandemia. Test sierologici nelle persone che vivevano a poca distanza dalle grotte hanno dato risultati positivi per questo tipo di microbi. C’è poi il precedente della prima Sars, nel 2002, comparsa a causa di un cosiddetto “spillover”: un salto di specie del coronavirus dai pipistrelli a una specie di mammiferi mangiati dall’uomo in Cina, la civetta delle palme mascherata. Uno studio appena uscito su Science (l’origine animale di Sars-Cov2) preparato da ricercatori inglesi e cinesi non mette la parola fine alla ricerca dell’origine della pandemia. Anche con la prima Sars ci furono degli incidenti di laboratorio, con ricercatori contagiati mentre coltivavano i virus in provetta. Ma dimostra che nel mercato di Wuhan c’erano tutti gli ingredienti perché qualcosa di molto brutto accadesse. Quasi 50mila animali selvatici censiti tra maggio 2017 e novembre 2019, appartenenti a 38 specie di cui 31 protette. Fra loro coccodrilli, serpenti, pavoni, ratti del bambù, vipere e cobra. “Condizioni igieniche pessime e scarsa attenzione al benessere degli animali”, oltre a “un ampio ventaglio di infezioni zoonotiche di cui questi animali possono essere vettori” . Un altro gruppo di ricercatori cinesi offre informazioni di prima mano su cosa accadeva in quel mercato, pubblicando dati e foto su Scientific Reports lo scorso giugno e fornendo un resoconto certamente più realistico rispetto al rapporto dell’Oms sull’origine del virus, frutto di un’ispezione avvenuta 4 mesi dopo la chiusura del mercato. Xiao Xiao, ricercatore del centro Southwest Wildlife Resources Conservation, per puro caso stava conducendo una ricerca sui 17 mercati che a Wuhan vendevano animali vivi, quando Sars-Cov2 è emerso. Molti dei venditori offrivano servizio di macellazione sul posto. Un terzo degli animali era ferito o morto per colpi di arma da fuoco. Un pavone costava 56 dollari, le vipere raggiungevano il record di prezzo per i rettili: 70 dollari al chilo. La marmotta arrivava a 30. In confronto il maiale era a poco meno di 6 dollari, il pollame a 4,25 e il pesce a 2,3. Di maiale, comunque, perfino in un mercato ricco come quello di Wuhan non se ne trovava a sufficienza. Il costo era più che raddoppiato da quando l’epidemia di febbre suina africana aveva imperversato in Cina, costringendo al massacro, spesso spingendo gli animali nelle fosse, di 150 milioni di esemplari. “In alternativa – scrivono i ricercatori di Science – molte persone avevano fatto ricorso a carni alternative, inclusa la selvaggina”. Nessun esemplare di pipistrello o pangolino (la specie considerata, poco credibilmente, l’ospite intermedio tra pipistrello e uomo) era invece in vendita a Wuhan. Segno che il percorso compiuto dal coronavirus per arrivare a noi resta ancora tutto da chiarire. Anche perché le grotte dello Yunnan dove sono stati individuati i pipistrelli della specie ferro di cavallo con coronavirus molto simili a quelli della pandemia si trovano a 1.500 chilometri da Wuhan. Né l’Istituto virologico di Wuhan, spiega l’articolo su Science, ha in catalogo coronavirus geneticamente affini a Sars-Cov2. Il mercato, secondo i suoi autori, resta la fonte più probabile della pandemia. E il dubbio dei ricercatori non è tanto come il coronavirus sia saltato fuori da quei banchi, ma piuttosto “come mai la sua comparsa è stata così rara che solo due epidemie si sono verificate negli ultimi vent’anni?”

Da leggo.it il 14 agosto 2021. Il primo paziente di Covid a Wuhan potrebbe essere stato infettato da un pipistrello durante delle ricerche di laboratorio. Il professor Peter Ben Embarek ha guidato un team di esperti inviati a Wuhan, in Cina, questa primavera dall'Organizzazione mondiale della sanità, per indagare sull'origine della malattia. L'OMS in precedenza aveva affermato che era "improbabile" che  il virus derivasse da un laboratorio, ma ha affermato che era "probabile" che la pandemia fosse iniziata quando un pipistrello ha infettato un essere umano. Il professor Embarek, parlando con i media danesi, ha suggerito che l'infezione potrebbe essere avvenuta raccogliendo, o anche lavorando a stretto contatto con, i pipistrelli durante il lavoro di ricerca a Wuhan. Tra le ipotesi c'è quella di un dipendente di un laboratorio infettato sul campo mentre stava raccogliendo campioni in una grotta di pipistrelli. Dai vari rapporti si è scoperto che i pipistrelli a ferro di cavallo sono centrali nel lavoro di indagine scientifica sulla provenienza del COVID e che questi non si trovano all'aperto, e che  l'unico contatto umano ravvicinato potrebbe essere proprio per dei ricercatori. Per ora però restano solo supposizioni, come riporta anche il Mirror. 

Da "Agi" il 7 agosto 2021. Le agenzie di intelligence statunitensi stanno analizzando una grande quantità di dati genetici provenienti dal laboratorio cinese di Wuhan che potrebbero essere la chiave per scoprire le origini del coronavirus non appena potranno essere decifrati, lo riferisce la Cnn. Si tratta di una quantità significativa di cianografie genetiche da campioni di virus studiati nel laboratorio di Wuhan, che alcuni esperti Usa ritengono sia la fonte dell'epidemia di Covid-19 possa essere stata. La tv Usa, citando fonti che hanno familiarità con lo studio, ha detto che non è chiaro come e quando le agenzie di intelligence statunitensi hanno ottenuto l'accesso alla banca dati genetica. Ma ha aggiunto che il "macchinario" coinvolto nella creazione ed elaborazione di tali dati genetici dai virus è solitamente collegato a server esterni, basati su cloud, lasciando aperta la possibilità a violazioni. Tradurre questa grande quantità di dati pone numerose sfide agli esperti, ed è per questo che le agenzie di intelligence hanno creato supercomputer presso i Laboratori Nazionali del Dipartimento dell'Energia, coinvolgendo 17 istituti di ricerca governativi d'elite. I problemi nel lavorare su questa mole di dati sono molti. Servono scienziati capaci di analizzare i dati del sequenziamento biologico, che comprendano il mandarino e che abbiano l'autorizzazione di sicurezza. In maggio, il presidente americano Joe Biden aveva ordinato ai servizi di intelligence di fornirgli un rapporto sull'origine della pandemia entro 90 giorni. Biden stava reagendo alle speculazioni sull'origine del coronavirus, dopo che la teoria che ha avuto origine in un laboratorio di Wuhan ha guadagnato di nuovo slancio. L'annuncio del presidente Usa era arrivato dopo che un rapporto dell'intelligence statunitense aveva indicato che diversi ricercatori dell'Istituto di virologia di Wuhan si sono ammalati nel novembre 2019 e hanno dovuto essere ricoverati, come riportato dal Wall Street Journal all'inizio di questa settimana. Gli americani che conducono questo lavoro sperano che queste informazioni aiutino a rispondere alla domanda su come il virus sia passato dagli animali agli esseri umani. Svelare questo mistero è essenziale per determinare se il virus è fuoriuscito dal laboratorio o è stato trasmesso agli esseri umani dagli animali. I ricercatori sia all'interno che all'esterno del governo degli Stati Uniti hanno cercato a lungo i dati genetici di 22.000 campioni di virus studiati all'Istituto di virologia di Wuhan. Ma i funzionari cinesi hanno rimosso quei dati da Internet nel settembre 2019, e da allora la Cina ha rifiutato di consegnare questi e altri dati grezzi sui primi casi di coronavirus all'Oms e agli Usa.

INTELLIGENCE USA. IL RAPPORTO SU WUHAN? DEL TUTTO INCONCLUDENTE. Paolo Spiga su La Voce delle Voci il 28 Agosto 2021. Tanto rumore per nulla. Un flop totale. Si è rivelato un autentico buco nell’acqua il super rapporto dell’intelligence americana, appena consegnato dalla direttrice, Avril Haines, nelle mani del presidente Usa Joe Biden, che aveva dato 90 giorni di tempo per prepararlo, senza badare a spese e utilizzando tutti i mezzi possibili. Si voleva, cioè la ‘soluzione finale’ e soprattutto la soluzione dell’enigma. Il virus è stato prodotto nel famigerato laboratorio di Wuhan? E cosa è successo: solo un incidente o una produzione artificiale del virus? Il ‘Washington Post’, che l’ha appena avuto tra le mani, definisce il rapporto “inconcludente”: quindi ancora oggi, dopo tale dispiegamento di forze – scrive il quotidiano a stelle e strisce – “non si può stabilire se il coronavirus sia ‘saltato’ dall’animale all’uomo o se sia sfuggito ad un laboratorio di massima sicurezza di Wuhan”. Tutto uno scherzo. Ma molto utile, per la Casa Bianca, al fine di scatenare una gazzarra politica con la Cina in piena regola, attaccata un giorno sì e l’altro pure. I cinesi, però, non ci sono stati. Hanno replicato a muso duro, rovesciando letteralmente il tavolo delle accuse. Voi non avete alcuna prova contro di noi – il senso della contromossa di Pechino – e invece siete proprio voi ad avere il più colossale scheletro nei vostri armadi. Un maxi scheletro che è il super laboratorio militare di Fort Detrick, nel Maryland, improvvisamente chiuso per motivi di “sicurezza nazionale” dopo un’ispezione ordinata dai CDC (Centers for Desease Control and Prevention), che hanno rilevato delle falle, appunto, nei sistemi di sicurezza. Come mai, si chiedono e chiedono con forza le autorità cinesi, non è mai stato rivelato niente di più su quanto è effettivamente successo a Fort Detrick? Soprattutto perché la cronologia degli avvenimenti è molto sospetta: Fort Detrick chiude a luglio 2019, ben prima dei fatti di Wuhan e ben prima dello scoppio dell’epidemia. A questo punto i cinesi negano la possibilità di una seconda missione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità a Wuhan, dopo l’esito totalmente negativo della prima, che si è svolta a gennaio 2021. E, al contrario, chiedono all’OMS di svolgerne una a Fort Detrick, perché finalmente venga accertato quanto successo quel drammatico luglio e le tragiche conseguenze che ne sono derivate. Come ricorderete, la pista di Fort Detrick è stata lanciata il 7 luglio scorso da un’inchiesta della Voce, che ha fatto il giro di mezzo mondo, ripresa da moltissimi siti (soprattutto, ovviamente, in Cina). Una pista contestata in modo volgare e scriteriato dal mainstream occidentale, con una CNN partita lancia in resta per difendere il super laboratorio militare a stelle e strisce, e cercando in tutti i modi di delegittimare la ‘fonte’ delle notizie: quell’“oscuro tabloid italiano”, facilmente rintracciabile anche da un ragazzino via internet: la Voce. Of course, gli americani in queste bollenti settimane stanno cominciando a dare i numeri. Come del resto dimostra la penosa e piagnucolosa sceneggiata firmata Biden nell’ultima conferenza stampa dopo il sangue di Kabul.

Nelle mani degli Usa i segreti di Wuhan sull’origine del Covid. Anna Lombardi su La Repubblica il 6 agosto 2021. Per la Cnn l’intelligence ha ottenuto i file del laboratorio della città cinese. Serviranno per far luce sulla teoria della fuga accidentale del virus. I segreti del laboratorio di Wuhan nelle mani dell’intelligence americana. Un “tesoretto”, come l’ha definito ieri Cnn dandone notizia, fatto di dati e sequenze genetiche provenienti proprio dall’Istituto di virologia posizionato nei pressi del mercato dove emerse il primo grappolo di contagi. Sì, l’unico in Cina ad avere un gabinetto di biosicurezza di massimo livello: quello da cui, secondo una delle teorie sulla diffusione del Covid-19 - inizialmente accantonata come complottista ma ora ritenuta plausibile da alcuni studiosi e governi - potrebbe essere accidentalmente “fuggito” il virus capace di scatenare la pandemia contagiando 200 milioni di persone nel mondo e provocando 4 milioni e mezzo di morti.

NON SOLO CINA. ESCLUSIVO – LA PISTA AMERICANA DI FORT DETRICK PER L’ORIGINE DELLA PANDEMIA. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 7 Luglio 2021. Le prime tracce del virus Sars-Cov-2 arrivano dagli Stati Uniti, ed in particolare dal mega centro di ricerche biologiche localizzato a Fort Detrick, nel Maryland. Improvvisamente e misteriosamente chiuso a luglio 2019, dopo una ispezione top secret che aveva accertato un incidente di "biocontenimento". Non è mai trapelata alcuna notizia, negli States, sul verbale di chiusura redatto dal ‘CDC’, lo strategico organismo che sovrintende sulla salute negli Usa, i "Center for Desease Control". Ma il momento strategico per la futura diffusione del virus, soprattutto in Europa, avviene attraverso l’‘Armed Services Blood Program’ (ASBP), ossia il Programma di raccolta del sangue a stelle e strisce. Il quale è finalizzato, in primo luogo, a fornire plasma e sangue ai tanti militari americani dislocati nel vecchio Continente e, of course, anche in Italia. Da noi i principali presidi a stelle e strisce sono localizzati in Veneto e si trovano presso le caserme venete Dal Molin, Ederle e Del Din. Proprio l’area che poi risulterà – guarda caso – l’epicentro per la proliferazione del virus. 

LA MAPPA. Uno scenario drammaticamente inquietante, una prospettiva radicalmente diversa rispetto a quanto fino ad oggi propalato e propagandato dai mezzi d’informazione, dal mainstream. Con l’unica pista cinese fino ad oggi battuta: vuoi attraverso ‘l’incidente’ accaduto nel famigerato laboratorio di Wuhan, tramite i pipistrelli, quindi per via ‘naturale’; vuoi per via non naturale, quindi ‘artificiale’, come ormai sostengono perfino coloro i quali avevano sempre sbandierato la prima ipotesi. Resta il fatto che quegli esperimenti – è ormai acclarato – vennero finanziati con profusione di mezzi proprio dagli Stati Uniti, attraverso i fondi gestiti dal ‘NIAD’, l’altro strategico tassello della sanità americana, quel ‘National Institute’ diretto a vita dal super virologo Anthony Fauci, l’esperto massimo che ha affiancato, sul fronte sanitario, la bellezza di sei presidenti degli Usa. Adesso arriva la ‘bomba’. La notizia che il primato – a livello tempistico – forse spetta direttamente agli Usa, e non per vie traverse mediante i fondi generosamente concessi al laboratorio di Wuhan, come la Voce ha più volte documentato negli ultimi due mesi. Ma in modo diretto. All’indirizzo mail della Voce, infatti, è arrivato un dettagliato dossier. Sintetizzato poi in una breve scheda, che adesso vi proponiamo per un’attenta lettura. Vera? Falsa? La pista ci sembra più che mai interessante. E a questo punto spetterà alle autorità scientifiche – se ancora di attendibili ne restano sul campo – e soprattutto agli inquirenti di svolgere tutti gli accertamenti del caso. Le notizie ci sono, i dati e gli elementi abbondano, si tratta di procedere con ulteriori riscontri che solo a certi livelli – sperabilmente non inquinati e collusi- possono essere effettuati. Da rammentare che una pista non esclude certo l’altra. Anche perché gli spazi temporali sono estremamente ristretti e ravvicinati. In soldoni, la pista cinese non esclude quella americana. E proprio in quest’ottica, forse, vanno letti i feroci scambi di accuse volati, nelle scorse settimane, tra Usa e Cina. Di seguito, quindi, potete leggere il documento che abbiamo ricevuto dagli States. Ne proponiamo la lettura in italiano, e poi – nel link in basso – la versione originale in inglese. Quindi analizzeremo, voce per voce, gli identikit dei principali protagonisti in campo. 

IL REPORT BOLLENTE. L’esercito americano ha diffuso il coronavirus in Europa tramite il programma Blood. Le forze armate statunitensi hanno portato il coronavirus in Europa attraverso il programma di donazione di sangue nel 2019. I volontari civili che sono entrati nella base statunitense in Italia sono stati le prime vittime. Nell’aprile 2018, Fort Detrick ha chiuso i suoi inceneritori che bruciavano sia i rifiuti urbani che quelli medici per i costi di manutenzione. Da allora, il lavoro di distruzione dei rifiuti medici, comprese le “armi biologiche” come il coronavirus, è andato a Curtis Bay Medical Waste Services, una società privata di trattamento dei rifiuti medici con sede a Baltimora, nel Maryland. Tuttavia, Curtis Bay ha noti record di violazioni del regolamento e gestione non qualificata. Nel giugno 2019, la struttura dell’azienda in Virginia è stata multata di $ 136.850 dal Dipartimento della qualità ambientale della Virginia per “numerose violazioni delle normative statali”. Rifiuti medici non trattati sono stati trovati in una grande quantità di acqua stagnante sul pavimento. I dipendenti non indossavano dispositivi di protezione. Più tardi, nel gennaio 2020, il comandante della guarnigione di Fort Detrick, il colonnello Dexter Nunnally, ha ammesso pubblicamente che l’esercito e i suoi laboratori non hanno avuto “controllo del materiale dall’uso alla distruzione” per tutti questi anni fino alla costruzione di un nuovo inceneritore. Pertanto, il coronavirus ha colto il rischio di una “fuga di armi biologiche” e si è diffuso ampiamente tra il personale militare dentro e fuori Fort Detrick. Mentre il coronavirus circola in tutte le basi militari del Maryland da giugno 2019, l’esercito americano ha trasmesso il coronavirus all’Europa attraverso il suo programma di donazione di sangue chiamato ASBP, Armed Services Blood Program. È il fornitore militare ufficiale di emoderivati ​​per le forze armate statunitensi all’estero, attivo da anni. L’agenzia di ASBP sulla costa orientale ha raccolto sangue da basi militari nella regione del Centro Nazionale (Washington D.C., Maryland e Virginia) tra cui Fort Detrick, Joint Base Andrews. Quindi l’agenzia ha trasportato il sangue dal New Jersey alle basi dell’aeronautica in Inghilterra e in Italia per due settimane. Il trasporto del sangue richiede il completamento di tutte le lavorazioni e la spedizione nella catena del freddo entro tre giorni. Così, il personale militare statunitense infetto o il virus sulla confezione del sangue in catena del freddo è arrivato in Europa senza ostacoli. Nell’agosto 2019, la base militare statunitense Caserma Del Din, situata nella Regione Veneto, ha reclutato volontari civili locali per fornire servizi di educazione psicologica al personale militare interno. Secondo il rapporto dell’Istituto Superiore dei Tumori di Milano (vedi comunicato in basso), il primo caso in Italia, ovvero il Paziente Zero d’Europa, è stato registrato già a settembre 2019 proprio nella Regione Veneto. Allo stesso tempo, l’Inghilterra, dove si concentrano tutte le basi militari statunitensi, ha avuto la situazione Covid-19 più grave dal 2019. Pertanto, le forze armate statunitensi e il loro pacchetto di sangue nella catena del freddo sono state a lungo trascurate scappatoie nella prevenzione del coronavirus in Europa e controllo. Joe Gortva, capo dell’ufficio ambientale di Fort Detrick, ha dichiarato nel gennaio 2020 che ci vorranno anni per costruire un inceneritore per i rifiuti sanitari e nessuna menzione su Curtis Bay. Nessuno sa quando finirà la “fuga di virus” da Fort Detrick.

QUEL MAXI CENTRO NEL MARYLAND. FORT DETRICK – Si tratta del maxi centro per le ricerche sulle armi biologiche localizzato, su una superficie di 5 mila 300 ettari, nel Maryland, dove rappresenta la più grande azienda in termini occupazionali. Nelle ultime settimane è stato al centro di non pochi attacchi da parte delle autorità cinesi che, risentite per le offensive contro Wuhan, hanno rovesciato il tavolo delle accuse, puntando l’indice contro Fort Detrick e i circa 200 laboratori americani che in mezzo mondo lavorano sul fronte delle ‘ricerche’ (leggi alla parola guerre, ‘wars’) biologiche. Sboccia nel 1943, Fort Detrick, e va avanti, sotto ferree regole militari, fino al 1969. Poi comincia a vestire abiti vagamente più civili e nel 2010 di stampo ‘multigovernativo’. Boh. Ma si prosegue imperterriti nello stesso filone di ricerche, più che mai ‘border line’, estremamente a rischio, perché si tratta di manipolare ‘materiali’ che più pericolosi non si può. Ufficialmente, il principale filone è rappresentato dagli studi su agenti patogeni come Ebola e vaiolo. Ma poi ce n’è per tutti i gusti. E’ un gigantesco contenitore, Fort Detrick. Ospita, infatti, l’ "Army Medical Command Usa" di ricerca e sviluppo, meglio noto come USAMRDC. Poi il "National Cancer Institute" e la "National Interagency Confederation for Biological Research" (NICBR), nonché il ‘National Interagency Biodefence Campus’ (NIBC). Ma la creatura fondamentale è USAMRIID, ovvero l’‘Usa Medical Army Research Institute of Infectuos Disease’. E’ qui il cuore delle più importanti – e pericolose – ricerche condotte alle frontiere della biologia, proprio secondo i copioni dei più accorsati horror movie. Impiega ben 750 tra funzionari e ricercatori, ed ufficialmente è impegnato ad individuare le ‘contromisure’ da adottare nel corso di una guerra biologica. Oppure – fuori dai crismi dell’ufficialità – per individuare le misure da adottare al fine di "scatenare" una guerra biologica. Le due facce di una stessa medaglia. USAMRIID fa capo all’ "US Army Medical Command" (USAMEDCOM) ed è sotto il diretto controllo della US Army. La catena di comando prosegue con il Pentagono e il Dipartimento della Difesa e, quindi, con il Capo della Casa Bianca. Of course. Al CDC (Center for Desease Control) arrivano alcune segnalazioni e notizie non troppo rassicuranti su quanto succede nei laboratori del Maryland. A questo punto, nel giugno 2019, scatta un’ispezione: dalla quale emergono non poche anomalie e dati preoccupanti, con particolare riferimento ad un non meglio precisato ‘incidente’ avvenuto sul fronte del "biocontenimento". E’ l’allarme rosso. Ed è arrivato il momento di bloccare i lavori, di chiudere quei laboratori ormai troppo pericolosi, “per motivi di sicurezza nazionale”, così trapela. Ma non trapelerà mai, da allora, alcuna concreta notizia su quanto è effettivamente avvenuto, né lo straccio di un verbale di accertamento redatto dal solitamente inflessibile CDC. Né ha mai voluto mettere il becco nella stradelicata faccenda la sempre vigile "Food and Drug Administration". Misteri americani. Sempre sul fronte di Fort Detrick, abbiamo effettuato delle verifiche e risultano effettivamente in servizio sia il colonnello Dexter Nunnally che il responsabile dell’ufficio ambientale, Joe Gortva, citati nel report. 

PROGRAMMI A TUTTO SANGUE. Eccoci all’ "Armed Service Blood Program". Si tratta di un programma molto enfatizzato dai vertici delle forze armate statunitensi, come è facile intuire viaggiando in rete. E’ non poco interessante leggere il contenuto di notizia firmata da Emily Klinkerborg di metà 2020, relativa alle attività svolte dal Dipartimento Medico dell’Esercito degli Stati Uniti-Ufficio degli Affari Pubblici di Fort Carson. “Alla fine di aprile 2020 – scrive – il maggiore Chandra Punch, medico responsabile della clinica per le allergie e l’immunologia dell’Evans Army Community Hospital (EACH), ha introdotto la tecnica di utilizzo del plasma convalescente Covid-19 (CCP) a Fort Carson per accelerare il recupero dei pazienti dalla malattia”. E’ un fac simile della storia che per alcuni mesi ha tenuto banco anche in Italia, sulla tecnica del plasma iperimmune messa a punto da un’equipe di medici padovani. Continua la nota da Fort Carson, in Colorado: “L’Armed Forces Blood Program (AFBP)fornisce ai centri CCP approvati un inventario di plasma per supportare ogni gruppo sanguigno. La sezione della banca del sangue di ogni Laboratorio è responsabile della conservazione delle unità di plasma ricevute dall’AFBP”. E sempre in rete è facile raccogliere news sull’altro anello della catena, ‘Curtis Bay Medical Waste Services’. Qui cominciamo a respirare aria di casa nostra, visto che i sistemi di raccolta dei rifiuti sanitari – considerati di regola tra quelli speciali e pericolosi – anche negli Usa vengono ‘trattati’ un po’ come da noi: senza fregarsene più di tanto per quanto concerne la sicurezza dell’ambiente e, soprattutto, dei cittadini. Curtis Bay – veniamo a sapere – il 1 aprile (ma non si tratta di un pesce in salsa americana) è stata acquisita da ‘Aurora Capital Partners’, una delle principali società di private equitydel mercato medio negli Usa. A vendere Curtis Bay – considerata una società leader nel settore dei servizi di raccolta, trattamento e smaltimento di rifiuti sanitari – è stato un altro fondo che in precedenza la controllava, e cioè ‘ Summer Street Capital Partners’. Dalle nostre parti il delicato settore, soprattutto al Sud, è ‘controllato’ da mafia e camorra, che ne hanno fatto, nel corso degli anni, uno dei loro business prediletti. Non è che i tentacoli della piovra si sono allungati fin negli States? La super efficiente DEA, nonché la stessa FDA, non farebbero male a dare una sbirciatina. 

IL PAZIENTE ZERO? IL 3 SETTEMBRE 2019. E IN VENETO! Passiamo ora ad una data ben precisa. E ad un accertamento altrettanto preciso, ossia quello effettuato dall’autorevole ‘Istituto Nazionale dei Tumori’ di Milano relativo al primo insorgere dell’infezione da coronavirus in Italia. Così viene messo, nero su bianco, in un comunicato stampa del 16 novembre 2020, redatto da “Regione Lombardia – Istituto Tumori” e significativamente titolato “Covid 19 – Studio sui cittadini asintomatici rivela anticorpi del virus Sars-CoV-2 nel periodo prepandemico in Italia”. Ecco l’incipit, che si commenta da solo: “Provenienza Regione Veneto, data 3 settembre 2019: eccola la prima rilevazione di anticorpi per il Covid-19 registrata nella ricerca condotta dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano (INT) in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano, l’Università di Siena e VisMederi srl. A seguire, un altro caso dall’Emilia Romagna il 4 settembre, uno in Liguria il 5 e due in Lombardia il 9 settembre, con un grafico in costante ma leggera crescita”. E’ questa – prosegue il comunicato – “la scoperta che emerge per la prima volta da uno studio appena pubblicato su ‘Tumori Journal’, avvenuta analizzando i campioni di plasma di 959 persone aderenti a SMILE, un programma di screening per la diagnosi precoce del tumore del polmone, che prevede anche un prelievo ematico per la valutazione dei miRNA nel sangue. Complessivamente, 111 dei 959 campioni analizzati hanno dato riscontro positivo e, di questi, 6 sono risultati positivi anche agli anticorpi neutralizzanti il virus (IgG), 4 dei quali già in ottobre. Almeno un caso positivo è stato rilevato in 13 regioni e la Lombardia ha mostrato il maggior numero di soggettivi positivi”. Potete leggere, cliccando sul link in basso, il testo del comunicato congiunto Regione Lombardia-Istituto Tumori che esordisce con queste testuali parole: “Provenienza Regione Veneto, data 3 settembre 2019, ecco la prima rilevazione di anticorpi per il Covid-19”. E vi riporta alla mente qualcosa il nome della caserma americana Del Din, localizzata proprio in Veneto?

WUHAN. LA TRAMA DEI RAPPORTI CON ANTHONY FAUCI. Redazione de lavocedellevoci.it il 29 Agosto 2021. Di seguito pubblichiamo un lungo intervento del sito americano di controinformazione "Judicial Watch". Nel servizio vengono documentati i fitti rapporti di collaborazione tra il super virologo a stelle e strisce Anthony Fauci (sul quale è prevista a novembre l’uscita di un libro-bomba firmato da Robert Kennedy junior) e il laboratorio di Wuhan entrato nell’occhio del ciclone. Il tutto – come la Voce ha più volte dettagliato – attraverso la preziosa collaborazione di una società-paravento: la EcoHealth Alliance diretta da un controverso ricercatore, Peter Daszak, il quale è stato il rappresentante americano nella fallimentare missione inviata a Wuhan nel gennaio 2020 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. In sostanza, l’Istituto guidato a vita da Fauci, il NIAID, ha erogato ingenti fondi pubblici ad EcoHealth Alliance e questa li ha ‘investiti’ nelle ricerche border line che si svolgevano nel super laboratorio di Wuhan. La stessa Voce ha anche documentato quanto di misterioso e pericoloso è successo in altri super laboratori militari, quelli di Fort Detrick, Stati Uniti, Maryland. Dei quali ben poco si parla a livello internazionale, nonostante il crescendo di accuse cinesi da un paio di mesi a questa parte: Pechino, infatti, ha deciso di reagire ai continui attacchi della Casa Bianca per Wuhan, ribaltando il tavolo delle accuse e chiedendo all’OMS di indagare su quanto successo a Fort Detrick in un drammatico luglio 2019, quando il laboratorio a stelle e strisce è stato chiuso per motivi di “sicurezza nazionale”. Come si vede, in un modo o nell’altro, ossia direttamente (Fort Detrick) oppure indirettamente (finanziamenti Usa per Wuhan via Fauci), sono sempre gli Stati Uniti il vero protagonista in quelle "biologic wars" che stanno devastando – e devasteranno sempre di più – il mondo. Ma passiamo ora alla lettura di carte e documenti pubblicati da "Judicial Watch".

Controllo giudiziario: Discussioni dettagliate sulle e-mail COVID della nuova agenzia Fauci sull’Istituto di Wuhan; Descrivi il posizionamento della Fondazione Gates di consigli cinesi su “Importanti internazionali”. 

(Washington, DC)  – Judicial Watch ha annunciato oggi di aver ricevuto   129 pagine  di documenti dal Dipartimento della salute e dei servizi umani (HHS) che includono una catena di e-mail “urgente per il dottor Fauci” che cita i legami tra il laboratorio di Wuhan e il contribuente- finanziato l’EcoHealth Alliance. Le e-mail del governo riportano anche che la fondazione del miliardario statunitense Bill Gates ha lavorato a stretto contatto con il governo cinese per spianare la strada ai farmaci prodotti in Cina da vendere al di fuori della Cina e aiutare a “alzare la voce della governance cinese che inserisce rappresentanti della Cina in importanti consulenze internazionali”. come impegno di alto livello dalla Cina”. La nuova produzione di record include anche un rapporto “Wuhan Pneumonia Update” del 6 gennaio 2020 che descrive in dettaglio come Peter Daszak, presidente di EcoHealth Alliance, era legato al laboratorio di Wuhan ed è stato “finanziato per il lavoro per capire come si evolvono i coronavirus e saltano a popolazioni umane”. I documenti sono stati ottenuti da Judicial Watch attraverso un Freedom of Information Act (FOIA)  querela  per i record di comunicazioni, contratti e convenzioni con l’Istituto di virologia di Wuhan ( Judicial Watch, Dipartimento Inc. contro. Di Salute e Servizi Umani  ( n°1 :21-cv-00696)). La causa cerca i documenti sulle sovvenzioni NIH che hanno beneficiato l’Istituto di virologia di Wuhan. L’agenzia sta elaborando solo 300 pagine di documenti al mese, il che significa che ci vorrà fino alla fine di novembre affinché i documenti saranno completamente rivisti e rilasciati sotto FOIA. Le   nuove e-mail includono un rapporto del Dr. Ping Chen , che era stato il principale funzionario dell’agenzia Fauci che lavorava in Cina: Puoi chiedere a [ NIAID Human Coronavirus, Rhinovirus Research Program Officer] Erik Stemmy per la sovvenzione assegnata all’Ecohealth di New York che collabora con il Dr. Shi, Zhengli del Wuhan Institute of Virology (WIV), che ha svolto ricerche sul coronavirus nei pipistrelli delle caverne in Cina. Erik saprebbe esattamente cosa supporta il finanziamento NIH. Ho visitato lei e altri al Wuhan Ins Viro nel 2018 e ho visitato il suo BSL4 1ab. [Oscurato] Anche nel 1983 NIH e CAS [Accademia cinese delle scienze] (WIV è uno degli istituti di ricerca sotto CAS) hanno firmato un MOU e includeva la condivisione di materiali di ricerca. Lo so [sic] molto tempo fa. Questa catena di e-mail fa parte di uno   scambio precedentemente pubblicato il 23 gennaio 2020 con l’oggetto “Urgente per il dottor Fauci: il laboratorio cinese per lo studio della SARS e dell’Ebola è a Wuhan”. Inizia con  Melinda Haskins , capo degli affari legislativi per NIAID, che scrive agli alti funzionari NIAID e include un collegamento a un  articolo del Daily Mail , intitolato “La Cina ha costruito un laboratorio per studiare la SARS e l’Ebola a Wuhan – e gli esperti di biosicurezza statunitensi hanno avvertito nel 2017 che un virus potrebbe “sfuggire” alla struttura che è diventata fondamentale per combattere l’epidemia”. Scrive: “Dott. Fauci sarà breve [sic] più senatori domani sulla nostra nuova risposta al coronavirus … Potrebbe confermare l’esatta natura del nostro supporto al Wuhan Institute of Virology/Biosafety Lab. Ti consigliamo di leggere l’articolo del Daily Mail sopra. Uno scambio di e-mail del 6 gennaio 2020   sulle “contromisure per il coronavirus”, avviato dal Chief Medical Officer del NIAID Hilary Marston, include un rapporto “Wuhan Pneumonia Update” preparato da NIH/DMID. Il rapporto è stato aggiornato l’8 gennaio 2020 ed elenca nelle sue informazioni di base sulla “polmonite di Wuhan:” Nel dicembre 2019 il Comitato sanitario municipale di Wuhan ha identificato un focolaio di casi di polmonite virale di causa sconosciuta. Al 31 dicembre stl’OMS Cina Paese Ufficio è stato notificato di 44 pazienti con polmonite ad eziologia sconosciuta, 11 dei quali sono stati gravemente malato. Al 5 gennaio 2020 ci sono 59 pazienti con diagnosi di polmonite virale sconosciuta è Wuhan, 7 dei quali sono gravemente malati. Almeno un paziente è in ECMO … Il primo caso è stato segnalato 12 dicembre °, e l’ultima insorgenza era 29 dicembre ° . Tutti i pazienti sono isolati e ricevono cure nelle istituzioni mediche di Wuhan. 163 contatti stretti sono stati identificati per l’osservazione medica in corso. I casi-pazienti nell’epidemia sono segnalati per avere febbre, difficoltà respiratorie e infiltrati polmonari bilaterali alla radiografia del torace. Hong Kong ha aggiunto la polmonite di Wuhan all’elenco delle malattie soggette a denuncia. A partire dal 7 gennaio °2020 del Centro Hong Kong per la tutela della salute ha segnalazioni di 30 casi sotto sorveglianza rafforzata con la recente storia di viaggio a Wuhan …. L’indagine epidemiologica ha mostrato che alcuni pazienti gestivano attività commerciali nella città dei frutti di mare della Cina meridionale di Wuhan. A partire dal 1 gennaio st2020 il mercato è stato chiuso per risanamento ambientale e la disinfezione. Attualmente non ci sono prove chiare di trasmissione da uomo a uomo, tuttavia è stato identificato un cluster familiare. Nessuna trasmissione nosocomiale è stata osservata… Frammenti di RNA di coronavirus con un’omologia dell’86% con la SARS sono stati trovati in un paziente…La notizia riporta il 1/8/2020 che il virus è un nuovo coronavirus, sequenziato in un paziente e identificato in altri. Il rapporto descrive anche un “portafoglio” di sovvenzioni per il coronavirus dell’NIH che ha finanziato 13 borse di ricerca scientifica di base, due borse di ricerca sul trattamento e cinque borse di ricerca sulla vaccinazione relative al coronavirus: Peter Daszak (R01A|110964-06) è finanziato per capire come i coronavirus si evolvono e passano alle popolazioni umane, con un’enfasi sui CoV dei pipistrelli e sulle popolazioni ad alto rischio nell’interfaccia uomo-animale. I principali siti stranieri sono in Cina (compresi i co-investigatori dell’Istituto di virologia di Wuhan). Il rapporto rileva che una delle sovvenzioni, concessa a Fang Li, “è finanziata per studiare il riconoscimento dei recettori e l’ingresso delle cellule nei coronavirus utilizzando approcci strutturali che utilizzano proteine ​​​​spike in complesso con i recettori. Questo premio ha trovato la prima prova di un CoV correlato a MERS che utilizza il recettore umano e fornisce prove di un evento di ricombinazione naturale tra i CoV dei pipistrelli. Un’altra sovvenzione coinvolge “un team di ricercatori che utilizzano modelli murini di SARS e MERS per indagare sulla patogenesi del CoV e sviluppare vaccini e terapie”. Una sezione del rapporto sui “Vaccini” dettaglia: “Il VRC [ Centro di ricerca sui vaccini ] e i suoi collaboratori hanno stabilizzato la proteina spike MERS-CoV nella sua conformazione di prefusione. La proteina spike stabilizzata è potentemente immunogena e suscita anticorpi protettivi per il dominio di legame del recettore, il dominio n-terminale e altre superfici della proteina spike. La proteina spike stabilizzata del coronavirus e l’mRNA che esprime la proteina spike attraverso la collaborazione con Moderna Therapeutics sono attualmente in fase di valutazione nel modello murino umanizzato DPP4 presso l’UNC. Un’altra descrizione della sovvenzione indica che NIH stava finanziando la ricerca presso la Jefferson University utilizzando il virus della rabbia come vettore per fornire un potenziale vaccino. In un foglio di calcolo allegato che dettaglia le sovvenzioni, una sovvenzione è indicata come andata al Dr. Ralph Baric dell’UNC-Chapel Hill per studiare “Meccanismi di ingresso MERV-CoV, trasmissione di specie incrociate e patogenesi”. Tale sovvenzione era stata finanziata dal 2015-2020. In uno scambio di e-mail del 7 gennaio 2020   con oggetto “Wuhan polmonite” Stemmy chiede a Chen se ha informazioni sull'”epidemia di polmonite virale a Wuhan”. Chen risponde: “Sì, ho seguito le notizie. Ecco quello che so finora [redatto]. Chen ha anche rivelato che il suo tour a Pechino era terminato tre settimane prima. Stemmy chiede: “Sai se c’è un sostituto per te nell’ambasciata a Pechino? Se è così, mi piacerebbe entrare in contatto con loro”. Chen risponde: “Nessun sostituto per ora <emoji faccina>.” In uno scambio di e-mail del 22 gennaio 2020  intitolato “Raccolta di informazioni su N CoV [nuovo coronavirus]”, NIAID “Senior Volunteer”, il dottor Karl Western, informa Chen e altri funzionari NIAID: Due esempi recenti che coinvolgono il CAS Institute of Virology e la struttura BSL-4 includono: Revisione dell’origine e dell’evoluzione dei coronavirus patogeni dell’Università del Minnesota e del CAS Institute of Virology in  Nature Reviews: Microbiology. Il Minnesota ha ricevuto un   premio CEIRSper un ciclo di finanziamento. La Columbia University School of Public Health, l’Eco-Health Alliance e il CAS Institute of Virology hanno pubblicato pochi giorni fa i risultati della sorveglianza delle interazioni uomo-animale e del potenziale di diffusione del coronavirus dei pipistrelli nelle zone rurali della Cina meridionale. La Columbia è un attuale   titolare del CETR. In un’e-mail di risposta pesantemente oscurata, Chen scrive: “Grazie Dr. Western. Eco-health ha una sovvenzione NIAID che collabora con l’Istituto di virologia di Wuhan, CAS, studiando i coronavirus negli animali selvatici, concentrandosi sui pipistrelli, in Cina. Uno dei principali collaboratori cinesi è il dottor Zhengli Shi, che lavora sui coronavirus”. Il 6 febbraio 2020,  Han Koo , un assistente esecutivo del direttore del NIH che lavora nell’Office of Grants Administration (OGA), invia un’e  -mail a  Chen e  Matthew Brown , allora direttore dell’ufficio NIH in Cina: “Abbiamo bisogno di POC [punti di contatto] della National Natural Science Foundation of China (NSFC) e dell’Accademia cinese delle scienze (CAS) ASAP.” Più tardi nella catena Chen scrive: “Nel 2018, NSF [la US National Science Foundation] e NSFC [la National Science Foundation of China] hanno avuto un’iniziativa congiunta sull’ecologia e l’evoluzione delle malattie infettive. Prima dell’iniziativa si è tenuto un seminario (il NIH è uno dei partecipanti a questa iniziativa. Molti partecipanti al seminario provengono dall’istituto CAS, inclusi scienziati del WIV [Wuhan Institute of Virology]. La sovvenzione NIAID a EcoHealth sta studiando i coronavirus negli animali, compresi i pipistrelli. La sovvenzione ha diversi paesi come collaboratori oltre alla Cina. “Un collega quindi risponde: “Grazie! Ricordi chi sono i PI statunitensi e cinesi [investigatori principali] su quella sovvenzione del vettore/serbatoio del coronavirus?” Chen risponde: “Vedi l’allegato che ho preparato in precedenza. Questa sovvenzione è su pipistrello [redatto]”. In uno scambio di e-mail del 20 ottobre 2017, in   seguito alla presentazione da parte di Chen di un rapporto sulla situazione, il funzionario NIAID James Meegan dice a Chen: “Jim LeDuc presso la U Texas Medical Branch, direttore del Galveston BSL4, lavora a stretto contatto con loro [Wuhan Institute of Virology]. Nel 1986 Jim e io abbiamo trascorso l’anno a Wuhan, creando un laboratorio di virologia e studiando le infezioni da Hantavirus e curando i pazienti con ribavirina. Ne abbiamo allenati molti, e alcuni in seguito sono venuti negli Stati Uniti. Penso che questo l’abbia aiutato a diventare un centro di virologia”. Più avanti nello scambio, Chen scrive: “Il laboratorio [di Wuhan] sarà presto operativo. La visita è stata organizzata tramite uno dei nostri beneficiari. So che Jim LeDuc ha lavorato con WIV e ha fatto un po’ di formazione. [Redazione.] Inoltre, mi è stato detto che solo alcuni virus possono essere utilizzati in questo laboratorio. [Redazione]” Handley poi dice a Chen: “Per favore, fai un rapporto molto accurato e completo su ciò che impari durante questa visita. Sarà un’interazione molto importante e alla quale molti sono interessati. Per favore condividi la tua segnalazione con noi prima che venga inserita in qualsiasi altra segnalazione. Saremo lieti di impegnarci direttamente o tramite beneficiari in qualunque cosa contribuirà a garantire operazioni sicure”. Il 4 marzo 2020, Greg Folkers, capo dello staff di Fauci,  invia  un’e- mail a un documento accademico intitolato “Sull’origine e l’evoluzione continua di SARS-COV-2”, pubblicato su  National Science Review  il 3 marzo 2020, a David Morens e altri funzionari non identificati all’interno del NIAID e chiede nella sua nota di copertura: “David, questo potrebbe venire fuori nell’udienza delle 10:00 di ASF [Anthony S. Fauci] [probabilmente riferendosi alle udienze della Commissione per gli stanziamenti della Camera  tenutosi il 4 marzo 2020, su richieste di budget NIH.] Cosa ne pensi di questo documento e della relativa copertura stampa?” Folkers mette in evidenza all’interno del rapporto due passaggi. Si legge: “I nostri risultati suggeriscono che lo sviluppo delle nuove variazioni nei siti funzionali nel dominio di legame al recettore (RBD) del picco osservato in SARS-COV-2 e nei virus della pangolina SARS-CoV sono probabilmente causati da mutazioni e cause naturali. selezione oltre alla ricombinazione.” Il secondo passaggio evidenziato recita: “Sebbene il tipo L (~70%) sia più diffuso del tipo S (~30%), il tipo S è risultato essere la versione ancestrale. Mentre il tipo L era più diffuso nelle prime fasi dell’epidemia a Wuhan, la frequenza del tipo L è diminuita dopo l’inizio di gennaio 2020″. Morens ha risposto, ma la sua risposta è stata completamente oscurata. Cinque anni prima dell’epidemia, in un rapporto del 30 ottobre 2014, intitolato ” Wuhan “, Chen informa Ken Earhart di aver incontrato un funzionario cinese di Wuhan. Chen riferisce che il suo ufficio “è simile a quello che sto facendo qui cercando, facilitando e promuovendo collaborazioni scientifiche internazionali per scienziati a Wuhan”. Continua che a questo funzionario è stato chiesto da un’organizzazione costituita in parte dall’Istituto di virologia di Wuhan “di aiutare i membri dell’organizzazione ad aumentare gli scambi scientifici tra i membri e gli esperti internazionali di ID [malattie infettive]”. In un rapporto sulla situazione del 5 settembre 2017,  Chen informa i suoi colleghi di aver “preso parte a una riunione di alto livello ‘Belt and Road’ per la cooperazione sanitaria: verso una via della seta sanitaria”. Ha anche riferito: La scorsa settimana USAID, CDC, ESTH [ Ambiente, Scienza, Tecnologia e Salute ] e io abbiamo incontrato la Fondazione Gates, inizialmente pianificata per parlare degli sforzi globali di eradicazione della malaria per vedere se c’è qualche area in cui possiamo lavorare insieme. Ma abbiamo finito di parlare in generale delle politiche cinesi e delle attuali strategie della fondazione in Cina: il rafforzamento delle capacità per aiutare la Cina a innalzare i suoi standard nazionali e sfruttare le risorse cinesi per aiutare gli altri. Uno degli esempi per elevare gli standard nazionali è aiutare la FDA cinese per la sua riforma. La fondazione Gates è riuscita a elaborare un meccanismo con la FDA cinese per fornire fondi [ing] alla FDA cinese per l’inserimento di esperti cinesi-americani che avevano lavorato per molti anni presso la FDA statunitense per lavorare in Cina FDA come consulenti senior…. Sull’approccio per sfruttare le risorse della Cina per aiutare gli altri, Gates Foundation sta lavorando con il governo cinese su donazioni ai paesi vicini e ai paesi africani come medicinali anti-malaria, lettiere, diagnostica ecc. Più specificamente, aiuta le aziende cinesi a ottenere pre -qualificazione sui farmaci in modo che i farmaci fabbricati dall’azienda cinese possano essere venduti al di fuori della Cina, aiuta i cinesi a stabilire una collaborazione bilaterale con specifici paesi in Africa, insegna ai cinesi come fare mobilitazione delle risorse e aiuta ad aumentare la voce del governo cinese inserendo rappresentanti dalla Cina su importanti consulenze internazionali come impegno di alto livello dalla Cina. Chen continua descrivendo numerosi altri modi in cui la Fondazione Gates stava aiutando il governo cinese, ad esempio, aiutando “le aziende cinesi a ottenere la pre-qualifica sui farmaci in modo che i farmaci prodotti dall’azienda cinese possano essere venduti al di fuori della Cina”. Chen continua: “Ho appena incontrato un gruppo del Global Virome Project (GVP) che è finanziato in parte dall’USAID. Il capo del progetto, Peter Daszak di EcoHealth Alliance, è un PI finanziato dal NIAID. Il suo collaboratore presso l’Istituto di virologia di Wuhan in Cina ha svolto un lavoro eccellente sui virus corona nelle popolazioni di pipistrelli cinesi”. Un’e -mail pesantemente redatta del 26 ottobre 2017,   rilasciata a Judicial Watch in una  produzione precedente,  include una risposta appena rilasciata da Handley. La catena di e-mail inizia con Chen che invia un rapporto di viaggio ai suoi colleghi in merito alla sua visita al laboratorio BSL4 a Wuhan. Nota: “Il mio contatto che ha contribuito a organizzare la visita è il dottor Zhengli Shi, che è un collaboratore cinese su una sovvenzione NIAID a EcoHealth per il progetto SARS come il virus corona”. Continua: “Il laboratorio P4 si trova in una nuova zona in via di sviluppo a circa un’ora di macchina dall’attuale sede dell’istituto nel centro della città di Wuhan. La posizione sarà il nuovo campus per l’intero istituto nel prossimo futuro (molti lavori sono in corso in questo momento). Dal momento che non siamo autorizzati a scattare foto, viene allegata solo la foto dall’esterno.” Recentemente rilasciata in questa produzione di documenti HHS è la risposta di Handley nella catena di posta elettronica: “Questo è un argomento delicato e interesserà gli altri”. Più tardi nello scambio, Handley dice a Chen: “Per favore inviaci via e-mail il tuo rapporto completo sulla visita e poi possiamo decidere cosa fare con le informazioni”. Dopo che Chen ha inviato il rapporto via e-mail a Handley, scrive: “Ci sono abbastanza buone informazioni nel tuo rapporto che devono essere condivise in una forma o nell’altra”. Il 18 luglio 2016, Chen invia un ” aggiornamento delle attività ” ai massimi funzionari del NIAID, riassumendo le sue attività nelle tre settimane precedenti. In una discussione sui cinesi che necessitano di assistenza per condurre sperimentazioni cliniche di nuovi farmaci, Chen osserva: “Zhi Hong di GSK [Glaxo Smith Kline] (il capo del programma anti-infettivo GSK e ha guidato il centro GSK per le malattie infettive e la salute pubblica in Pechino) ha incontrato il Dr. Fauci il Lunedi, il 11 ° , per chiedere il sostegno NIAID per questa rete sperimentazione clinica in Cina. Conosco Dennis [presumibilmente  Dennis Dixon , capo della NIAID Bacteriology and Mycology] e Carl [forse  Carl Dieffenbach, Direttore della NIAID AIDS Research] ha partecipato all’incontro con Fauci. Non conosco l’esito dell’incontro”. Più avanti, Chen scrive: “Ho incontrato EcoHealth Alliance, un’organizzazione no-profit sulla salute con sede a New York. Hanno una sovvenzione R01 dalla DMID [Divisione di microbiologia e malattie infettive] sull’identificazione di coronavirus simili alla SARS in Cina. Collaborano con il dottor Shi Zhengli presso l’Istituto di virologia di Wuhan. Ho visitato il Dr. Shi più di un anno fa. Ha prelevato campioni di pipistrelli in grotte in alcune regioni della Cina, ha isolato e identificato virus e ha scoperto che alcuni virus sono simili alla SARS mediante il sequenziamento. Ora [censurato]. Si tratta di uno stretto contatto animale-umano in una città densamente popolata.” Chen cita anche un imminente incontro di “Chinese NIH Alumni” e parla del direttore NIH Francis Collins che discute con il capo della Peking University Medical School “dell’istituzione di un NIH Alumni cinese poiché ci sono così tanti ricercatori cinesi formati e lavorati presso NIH nel passato.” Il 12 ottobre 2016, Chen invia  un’e-mail di “alta” importanza agli alti funzionari del NIAID Handley, Bernabe e Dixon in merito a una prossima conferenza in Cina. Chen osserva: “Un altro argomento della sessione 1, Caratterizzazione e prevenzione delle malattie zoonotiche, ha una certa rilevanza per noi. Il NIAID ha finanziato George Gao presso la CAS [Accademia cinese delle scienze] per l’influenza aviaria (penso che fosse sulla genetica dell’influenza aviaria negli uccelli) e abbiamo una sovvenzione dal sondaggio RDB sul coronavirus nei pipistrelli. Il collaboratore cinese è il Wuhan Institute of Virology, anch’esso un istituto CAS. La richiesta per le malattie zoonotiche è di un’agenzia cinese che non conosco, AQSIQ. [Redazione.]” Dixon risponde: “Grazie Ping. Vedo il tema della “prevenzione e controllo” dal tuo nome. Mentre abbiamo progetti occasionali in quel regno, sono al confine della nostra area di missione rispetto ai CDC che elencano il loro nome in quel modo a volte in ordine inverso”. In un rapporto sulla situazione del 20 gennaio 2017,  Chen discute il Global Virome Project “per identificare i virus presenti nella fauna selvatica con un potenziale passaggio all’uomo … Dopo l’identificazione dei virus è lo sviluppo di vaccini per proteggere la popolazione umana. La Cina ha un’enorme capacità per lo sviluppo di vaccini (penso che abbia 7 strutture di produzione di vaccini di proprietà nazionale e oltre 30 aziende private di produzione di vaccini.) [Redazione] Uno dei partner in questo progetto è EcoHealth Alliance. Peter Daszak di EcoHealth Alliance è uno dei leader di GVP e ha una sovvenzione NIAID da RDB che esamina i coronavirus nelle popolazioni di pipistrelli in Cina in collaborazione con l’Istituto di virologia di Wuhan. È venuto a trovarmi una volta all’ambasciata. Questa sovvenzione ha una connessione diretta con lo scopo del GVP.” In un rapporto sulla situazione del 7 luglio 2017,  Chen informa i suoi colleghi: “RDB [Respiratory Disease Branch del NIAID] ha una sovvenzione per EcoHealth che ha un collaboratore cinese presso WIV che lavora per trovare virus SARS simili nelle popolazioni di pipistrelli e quindi cercare esposizioni umane ai virus portati dai pipistrelli negli abitanti del villaggio vicino alle grotte. USAID finanzia la stessa organizzazione e fanno più progetti di ricerca di virus in Cina”. Il 27 maggio 2018, Chen invia un’e  -mail alla  collega Nancy Boyd, inoltrandole un annuncio inviato a Chen da persone dell’Istituto di virologia di Wuhan, che Chen descrive come “l’unico laboratorio P4 pubblicamente noto della Cina”. Chen aggiunge: “Ho copiato Gayle [Bernabe] all’OGR e lei può inoltrare ai responsabili dei programmi il portafoglio di agenti patogeni P4”. “Queste e-mail forniscono informazioni straordinarie e preoccupanti sulla partnership dell’agenzia di Fauci con la Cina e sul suo monitoraggio, preoccupazioni e finanziamenti per l’Istituto di Wuhan”, ha affermato il presidente di Judicial Watch Tom Fitton. “La Fondazione Gates dovrebbe anche spiegare il rapporto del governo sulla sua assistenza e advocacy per la Cina”. A luglio, Judicial Watch ha ottenuto  documenti  dai funzionari del NIAID in relazione all’Istituto di virologia di Wuhan, rivelando collaborazioni e finanziamenti significativi iniziati nel 2014. I documenti hanno rivelato che il NIAID ha concesso nove sovvenzioni relative alla  Cina all’EcoHealth Alliance  per ricercare l’emergenza del coronavirus nei pipistrelli ed è stato il principale emittente di sovvenzioni del NIH allo stesso laboratorio di Wuhan. A giugno, Judicial Watch ha annunciato di aver intentato azioni legali per  il Freedom of Information Act (FOIA)  contro l’Ufficio del direttore dell’intelligence nazionale (ODNI) e il Dipartimento di Stato per informazioni sull’Istituto di virologia di Wuhan e sulle origini del SARS-CoV- 2 virus. Sempre a giugno, Judicial Watch ha ottenuto  documenti  da HHS che rivelano che dal 2014 al 2019, $ 826.277 sono stati dati all’Istituto di virologia di Wuhan per la ricerca sul coronavirus dei pipistrelli dal NIAID. A marzo, Judicial Watch  ha rilasciato pubblicamente  e-mail e altri documenti di Fauci e del Dr. H.  Clifford Lane  dell’HHS che mostrano che i funzionari NIH hanno adattato i moduli di riservatezza ai termini della Cina e che l’OMS ha condotto un’analisi epidemiologica COVID-19 non pubblicata e “strettamente riservata” in Gennaio 2020. Inoltre, le e-mail rivelano un giornalista indipendente in Cina che indica i numeri COVID incoerenti in Cina al vicedirettore dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive del NIH per la ricerca clinica e progetti speciali Lane. Nell’ottobre 2020, Judicial Watch ha scoperto  e-mail che  mostravano un’entità dell’OMS che spingeva per un comunicato stampa, approvato da Fauci, “soprattutto” a sostegno della risposta della Cina al COVID-19. 

Compromesso: Fauci e altri giocatori di COVID hanno legami con il laboratorio di Wuhan. La Voce delle Voci il 18 Giugno 2021. WASHINGTON, DC, 16 giugno 2021 ( LifeSiteNews ) Tre importanti zar della salute americani hanno legami con il laboratorio cinese dove potrebbe essere iniziato il COVID-19. Il dott. Anthony Fauci, direttore dell’Istituto Nazionale di Allergie e Malattie Infettive (NIAID), il dott. Peter Daszak, CEO dell’organizzazione no-profit EcoHealth Alliance, e il dott. Francis Collins, direttore del National Institutes of Health (NIH) sono oggetto di un crescente controllo grazie al loro supporto dell’Istituto di virologia di Wuhan (VIR). Inoltre, tutti e tre hanno pagato il costo farmacologico Remdesivir scoraggiando l’uso dell’ivermectina e dell’idrossiclorochina, relativamente poco preferire. Il Dr. Anthony Fauci guida il NIAID dal 1984 e amministra un budget di 6,1 miliardi di dollari. Tra il 2014 e il 2019, Fauci ha distribuito $ 826.277 all’Istituto di virologia di Wuhan attraverso Daszak e la sua EcoHealth Alliance. Le e-mail di Fauci, pubblicate di recente, mostrano le simpati e dei due registi per WIV. In un’email del 18 aprile 2020, Daszak ha ringraziato Fauci per aver contraddetto era la teoria secondo cui il COVID-19 “un rilascio di laboratorio dell’Istituto di virologia di Wuhan”. “Dato che la sovvenzione del P ol è stata presa di mira dai giornalisti di Fox News durante la conferenza stampa presidenziale di ieri sera, solo dire un ringraziamento personale a nome del nostro staff e dei nostri collaboratori, per aver alzato e aver affermato che le prove scientifiche supportano un’origine naturale per covid-19 da uno spillover da pipistrello a uomo, non un rilascio di laboratorio dall’Istituto di virologia di Wuhan “, ha scritto Daszak. “Dal mio punto di vista, i tuoi commenti sono coraggiosi e, provenienti dalla tua voce fidata, verranno a sfatare i miti che sono stati fatti girare intorno alle origini del virus”, ha continuato. “Una volta che questa pandemia sarà finita, non vedo l’ora di ringraziarti di persona e farti sapere quanto siano importanti i tuoi commenti per tutti noi”.

La risposta di Fauci è stata “Grazie mille per la tua gentile nota”. In una dichiarazione del 19 febbraio 2020 sulla rivista medica The Lancet, Daszak si è unito ad altri autori nel respingere la possibilità che il coronavirus COVID-19 avesse un’origine umana. Era anche un membro del team dell’OMSinviato in Cina per indagare sull’origine del virus. Collins, che come direttore del NIH è essenzialmente il superiore di Fauci, ha anche legami con il WIV. Una delle e-mail pubblicate da Fauci ha rivelato che il NIH ha dato una sovvenzione di 3,7 milioni di dollari all’EcoHealth Alliance per la ricerca sul coronavirus nei pipistrelli, di cui 600.000 dollari sono stati destinati al laboratorio di Wuhan. Nel frattempo, EcoHealth ha finanziato la ricerca presso l’Istituto di virologia di Wuhan che ha sviluppato l'”uso di Remdesivir” per il trattamento dei coronavirus. Nel protestare contro la decisione dell’NIH di tagliare i fondi per la ricerca sul coronavirus, EcoHealth ha riferito che “sequenze genetiche di due coronavirus di pipistrello che abbiamo scoperto con questa sovvenzione sono state utilizzate come strumenti di laboratorio per testare il rivoluzionario farmaco antivirale Remdesivir “. Remdesivir è stato sviluppato per la prima volta da Gilead Sciences , una società farmaceutica americana che ha finanziato, in parte, sia il pannello delle linee guida per il trattamento del COVID-19 NIH che la ricerca che promuove il Remdesivir. Fauci ha personalmente promosso l’uso di Remdesivir nel trattamento del COVID-19. In una presentazione alla Casa Bianca il 29 aprile 2020, ha affermato che Remdesivir “ha un effetto netto, significativo e positivo nel ridurre il tempo per riprendersi [dal coronavirus]”. Collins ha anche presentato l’uso di Remdesivir. Ha istituito le Linee guida di trattamento per COVID-19, che raccomandano il farmaco in tre delle cinque fasi della malattia. Il NIH promuove il Remdesivir come trattamento di intervento precoce, per coloro che ottenere ossigeno e per coloro i sintomi accelerando, ma non ancora abbastanza gravi da essere in terapia intensiva. Un ciclo di trattamento di Remdesivir costa oltre $ 3100 US, che è una buona notizia per il titolare del brevetto Gilead Sciences. Reuters ha riferito nel febbraio 2020 che l’Istituto di virologia di Wuhan aveva chiesto di brevettare l’uso del farmaco come medicinale per il COVID-19. Secondo l’agenzia di stampa, Gilead ha affermato che stava lavorando con la Cina per testare il farmaco su un piccolo numero di pazienti COVID-19. Tuttavia, non tutti sono fan di Remdesivir. Nel novembre 2020, l’Organizzazione mondiale della sanità ha emesso una raccomandazione condizionale contro l’uso del farmaco, affermando: “L’evidenza non ha suggerito alcun effetto importante sulla mortalità, sulla necessità di ventilazione meccanica, sul tempo necessario al miglioramento clinico e su altri risultati importanti per il paziente”. Ad oggi, questo non è stato ritirato o modificato. 

Se la stella di Remdesivir cade, potrebbe salire quella di Ivermectin? L’ivermectina, un medicinale antiparassitario utilizzato sia nell’uomo che negli animali da 50 anni, è stato provato e riscontrato con successo sia come preventivo che come trattamento di intervento trattamento precoce.  La Front Line COVID-19 Critical Care Alliance (FCCC) ha monitorato l’efficacia del farmaco contro il coronavirus. L’ivermectina, spiega la FLCCC, “è un noto farmaco antiparassitario approvato dalla FDA che è stato utilizzato con successo per più di quattro decenni per trattare l’oncocercosi “cecità fluviale” e altre malattie parassitarie. È uno dei farmaci più sicuri conosciuti. È nella lista dei farmaci essenziali dell’OMS, ha ricevuto 3,7 miliardi di volte in tutto il mondo e ha vinto il premio Nobel per il suo impatto globale e storico nell’eradicazione delle infezioni parassitarie endemiche in molte parti del mondo”. L’8 dicembre 2020, il dott. Pierry Kory, capo della FCCC, ha testimoniato davanti alla commissione del Senato per la sicurezza interna e gli affari governativi in ​​merito all’uso dell’ivermectina nei casi di COVID. “L’ivermectina è un farmaco miracoloso”, ha affermato. “Se lo prendi, non ti ammalerai.” In una recente revisione delle prove emergenti che l’ivermectina è un trattamento efficace per COVID-19, la FCCC ha riferito che il farmaco è stato utilizzato con successo su larga scala a Goa, India, Messico, Perù, Paraguay, Argentina e Brasile. Il costo per otto compresse di Ivermectin è di circa $ 45 US. 

ANTHONY FAUCI. IL GRAN FINANZIATORE DEI FOLLI ESPERIMENTI DI WUHAN. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 16 Maggio 2021. Anthony Fauci, il super virologo statunitense, è il gran finanziatore del laboratorio di Wuhan, dal quale è ‘scappato’ il virus mortale. Un virus, quindi, ‘allevato’ in laboratorio, prodotto artificialmente. Una collaborazione super segreta, quella tra Usa e Cina, che però adesso comincia a venire clamorosamente a galla. Il j’accuse è firmato da uno dei giornalisti investigativi di maggiore esperienza negli States, Nicholas Wade, trent’anni di carriera al ‘New York Times’, dove ne ha curato a lungo la sezione scientifica. Ha appena scritto una dettagliata inchiesta, Wade, non pubblicata sulle colonne del celebre quotidiano a stelle e strisce, ma sulla rivista "Medium". Dell’inchiesta-Wade sulla super connection internazionale a base di Covid-19, ha parlato un noto anchor man americano, Tucker Carlson, pochi giorni fa, il 10 maggio, nel corso della sua trasmissione “Tucker Carlson Tonight”. 

L’INCHIESTA CHE SVELA LA CONNECTION. Ecco le parole di Tucker Carlson: “E’ Tony Fauci il responsabile della pandemia di Covid-19. Nicholas Wade, con la sua inchiesta, porta un numero enorme di prove, asserendo che questo virus ha avuto origine all’Istituto di virologia di Wuhan, nella Cina centrale. Avevamo sollevato questa possibilità fin dai primi giorni della pandemia, ma questo pezzo adesso lo dimostra”. Continua Carlson: “Quando l’epidemia era iniziata, lo scorso autunno, il laboratorio di Wuhan stava conducendo esperimenti su come rendere infettivi per gli esseri umani i virus dei pipistrelli. Quegli esperimenti erano finanziati dai dollari dei contribuenti americani: il finanziamento di quegli esperimenti, infatti, era stato approvato da Tony Fauci a Washington. E’ difficile da credere, ma è vero, e il pezzo di Wade lo spiega”. Continua la ricostruzione dei fatti: “Molti degli esperimenti di Wuhan venivano eseguiti sotto la supervisione di una ricercatrice cinese, Shi Zheng-li. Conosciuta come ‘la signora dei pipistrelli’, era la principale esperta cinese dei virus originari dei pipistrelli. Il suo lavoro consisteva nell’ingegnerizzare geneticamente i coronavirus in modo che infettassero gli esseri umani, e che lo facessero il più facilmente possibile”. Esseri umani, avete letto bene. Da brividi. Ancora. “Il lavoro, nota Wade, implicava ‘fare esperimenti di incremento di funzione (gain-of-function) progettati per far sì che i coronavirus infettassero le cellule umane”. Prosegue Carlson: “Perché questa ricerca andava avanti? Dovreste chiederlo alla scienziata che ne era responsabile. Ma i fatti rimangono: questi erano alcuni degli esperimenti più pericolosi mai condotti dall’umanità. Eppure, ora sappiamo che la Cina non stava prendendo le necessarie misure di sicurezza. E questo non dovrebbe sorprenderci. Diversi anni fa, i cablogrammi diplomatici statunitensi avevano già messo in guardia sugli scarsi standard di sicurezza del laboratorio di Wuhan. La struttura di Wuhan era classificata come ‘laboratorio di biosicurezza di livello due’. Che cosa significa? Secondo Richard Ebright, un biologo molecolare alla Rutgers, è all’incirca lo stesso livello di sicurezza che si troverebbe nello studio di un dentista americano”. Seguiamo il drammatico filo della ricostruzione. “Quindi, quel laboratorio, mentre conduceva ricerche sul coronavirus e su come renderlo trasmissibile agli esseri umani, aveva quasi certamente infettato un ricercatore del laboratorio e così il virus si era diffuso. I primi pazienti affetti dal coronavirus non provenivano dal cosiddetto ‘mercato umido’, come ci avevano detto. I primi pazienti del coronavirus erano dipendenti dell’Istituto di virologia di Wuhan”. 

FAUCI AUTORIZZA I FINANZIAMENTI PRO WUHAN. Si chiede e chiede Carlson: “Ancora una volta: perché il laboratorio di Wuhan avrebbe dovuto condurre esperimenti del genere? Beh, sappiamo che Tony Fauci aveva autorizzato il finanziamento della ricerca. Per cinque anni – dal 2014 al 2019 – Il ‘National Institute of Allergy and Infectious Deseases’, che Fauci dirige da decenni, aveva versato fondi ad un gruppo chiamato ‘EcoHealth Alliance’”. Ma cosa rappresenta quest’ultima sigla? Lo spiega Wade nella sua inchiesta, lo illustra ai telespettatori Carlson nel suo commento. “La EcoHealth Alliance, gestita dal dottor Peter Daszak, aveva stipulato un contratto con la dottoressa Shi per condurre una ricerca sull’incremento di funzione proprio nel laboratorio di Wuhan. Poco prima che la pandemia diventasse di dominio pubblico – il 9 dicembre 2019 – Peter Daszak aveva concesso un’intervista che era stata trasmessa in streaming online. In quell’intervista Daszak si era vantato di quanto fosse facile manipolare i coronavirus negli esperimenti di laboratorio”. Ecco quanto aveva sostenuto Daszak in quella intervista di metà dicembre: “Il coronavirus è abbastanza valido…. Si può manipolare in laboratorio molto facilmente. E’ la proteina spike quella che contraddistingue il comportamento del coronavirus, il rischio zoonotico. Quindi si può ottenere la sequenza, costruire la proteina. E abbiamo lavorato con Ralph Barrack della UNC proprio per fare questo: inserirla nella struttura di un altro virus e poi fare un po’ di lavoro in laboratorio”. Facile come bere un bicchier d’acqua. Riprende a raccontare Carlson: “Alcuni giorni dopo questa dichiarazione, era diventato chiaro che questa nuova versione di coronavirus, questo nuovo coronavirus, quello che ora chiamiamo Covid-19, stava dilagando in tutta Wuhan, poi in Cina e quindi nel resto del mondo. Dall’inizio della pandemia, Peter Daszak, non a caso, è apparso praticamente su ogni piattaforma mediatica a sua disposizione per negare, nei termini più strenui e sprezzanti, che il laboratorio di Wuhan fosse in qualche modo legato all’epidemia, e questo perché ha motivi molto personali per affermarlo. "L’idea che questo virus sia uscito da un laboratorio è solo una pura sciocchezza", aveva detto l’anno scorso. Ma questa è una bugia, non è una pura sciocchezza”. Prosegue il racconto: “Molte persone intelligenti l’avevano capito subito. Una di queste persone è Alina Chan, una biologa molecolare del ‘Broad Institute’ di Harvard e del Massachusetts Institute of Technology. Ha coraggiosamente scritto un articolo su come il genoma del coronavirus non fosse cambiato molto nel tempo: e questo è strano, perché quel genoma era passato attraverso trilioni di repliche. Secondo Chan, questo fatto implica che il virus era stato progettato fin dall’inizio per la trasmissione interpersonale”. “Anche l’ex direttore del CDC, dottor Redfield, l’aveva capito senza ombra di dubbio. Anche lui aveva sostenuto che il virus proveniva dal laboratorio di Wuhan”. Ecco, a questo punto, quanto ha dichiarato Redfield: “Continuo a pensare che l’origine più probabile di questo patogeno di Wuhan sia un laboratorio, che ne sia sfuggito. Altre persone non ci credono. Va bene così. La scienza alla fine lo capirà. Non è insolito che gli agenti patogeni respiratori su cui si sta lavorando in un laboratorio infettino il personale di laboratorio”. 

L’OMS COPRE E DEPISTA. Ed eccoci al ruolo giocato, in tutta la vicenda, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Continua Carlson: “Milioni di persone sono morte di Covid-19, quindi non è questione di regolamento di conti o di attribuzione di colpe capire da dove sia venuto. Se vi vuole prevenire la prossima pandemia globale, bisogna capire come è iniziata questa. E così, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha detto che sarebbe andata in fondo alla questione. L’OMS è molto legata alla Cina (e agli Stati Uniti, che sono il primo finanziatore a livello internazionale, ndr): e così ha cercato di nascondere i fatti fondamentali delle origini di questa pandemia. E, per nascondere questi fatti, l’OMS ha nominato nientemeno che Peter Daszak come unico rappresentante, con sede in America, della squadra investigativa incaricata di indagare sulla provenienza del virus”. Come affidare al lupo il governo del gregge di pecore, oppure a Dracula la gestione della banca del sangue! Continua il j’accuse formulato da Wade ed esternato da Carlson: “In quello che si è rivelato essere un rapporto fasullo, il team dell’OMS ha concluso che ‘è estremamente improbabile’ che il virus provenga dal laboratorio di Wuhan”. “Questo non è vero. L’indagine dell’OMS sulle origini del virus è stata fraudolenta. E questo è importante per la salute pubblica a livello globale. Ma una cosa che noterete è che Tony Fauci non ha detto questo. Perché? Perché, ancora una volta, è coinvolto personalmente. La ricerca sull’incremento di funzione, di cui Peter Daszak si vantava nell’intervista, era stata, infatti, esplicitamente vietata dal governo degli Stati Uniti. C’era una moratoria federale sul finanziamento degli esperimenti relativi all’incremento di funzione, proprio come quelli che si conducevano nel laboratorio di Wuhan, con effetti disastrosi. Allora, perché le autorità federali non avevano bloccato i finanziamenti al laboratorio di Wuhan? Questa è una domanda cruciale, e Nicholas Wade ha cercato la risposta”. “Ecco cosa ha trovato: ‘Qualcuno aveva lasciato una scappatoia alla moratoria. La moratoria vietava specificamente il finanziamento di qualsiasi ricerca sull’incremento di funzione volta ad aumentare la patogenicità dei virus dell’influenza, della MERS o della SARS. Ma poi, una nota a piè di pagina 2 del documento sulla moratoria affermava che ‘E’ possibile ottenere un’eccezione alla pausa di ricerca se il capo dell’agenzia di finanziamento del governo USA ritiene la ricerca urgentemente necessaria per proteggere la salute pubblica o la sicurezza nazionale”. Fatta la legge, trovato l’inganno. 

FAUCI & C., APRIRE UN’INCHIESTA. Prosegue il j’accuse: “E questa è esattamente la scappatoia che era stata sfruttata. Chi l’aveva firmata? Tony Fauci – forse insieme a Francis Collins, il direttore del NIH – aveva fatto ricorso a questa speciale scappatoia per continuare a finanziare il laboratorio di Wuhan e gli esperimenti mortali che vi si conducevano. Esperimenti, chiaramente, finiti male”. Secondo Richard Ebright, “sfortunatamente il direttore del NIAD (Fauci, ndr) e il direttore del NIH avevano sfruttato questa scappatoia per rilasciare esenzioni ai progetti soggetti alla pausa – asserendo assurdamente che la ricerca da esentare era "urgentemente necessaria per proteggere la salute pubblica o la sicurezza nazionale – annullando così la sospensione”. Eccoci alle durissime conclusioni. “Questo non sarebbe successo se Tony Fauci non avesse permesso che accadesse. Questo è chiaro. E’ una storia incredibile. E’ una storia scioccante. In un Paese che funziona ci sarebbe un’indagine penale sul ruolo di Tony Fauci nella pandemia di Covid che ha ucciso milioni di persone e bloccato il nostro Paese, cambiandolo per sempre. Allora, perché non c’è un’indagine penale sul ruolo di Tony Fauci in questa pandemia?”. L’inchiesta di Wade fa il paio con quella condotta da alcuni giornalisti australiani sui progetti di “guerre biologiche” portati avanti in Cina. Guarda caso, anche stavolta, in combutta con gli americani. Potete rileggere il nostro articolo cliccando in basso. Che senso hanno mai, a questo punto, i proclami anti Cina sbandierati da Joe Biden (e prima da Donald Trump), quando si portano avanti simili affari & progetti d’amore e d’accordo, sulla pelle dei cittadini di tutto il mondo? Non dovrebbe fare una bella inchiesta e organizzare un bel processo il Tribunale dell’Aja per i crimini contro l’umanità? 

P.S. Alla vigilia dello scorso Natale, il 24 dicembre 2020, la Voce aveva scritto un’inchiesta titolata “Anthony Fauci / Tutte le vittime americane sulla coscienza”. 

Anthony Fauci, quei soldi al laboratorio di Wuhan: le prove sul flusso di denaro. Libero Quotidiano il 04 agosto 2021. Gli studi sul “guadagno di funzione” al laboratorio di virologia di Wuhan, in Cina, erano finanziati dalla cerchia di Anthony Fauci, cioè dagli Istituti Nazionali della Sanità statunitensi. Davanti al Congresso, a Washington, Fauci lo ha negato ma, durante un’audizione pubblica, il senatore Rand Paul lo ha accusato di mentire mettendogli di fronte agli occhi un documento intitolato «Scoperta di un ricco pool genetico di coronavirus correlato alla SARS di pipistrelli», nel quale appaiono i dettagli della collaborazione fra scienziati americani e cinesi. Ora, spuntano alcuni messaggi di posta elettronica di Fauci, ottenuti chiedendo l’accesso agli atti pubblici, nei quali risulta che lo scienziato era stato informato già nel gennaio del 2020 che il virus sembrava stato fabbricato in laboratorio.

Anthony Fauci, la riunione "segreta" che lo incastra: "Covid nato in laboratorio". Sapeva tutto, perché ha taciuto? Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 06 agosto 2021. Fra quello che Anthony Fauci, primo consigliere medico sul Covid-19 del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, sostiene in pubblico e quanto scrive in privato passa una grande differenza, spiega la giornalista investigativa Alison Young, sul quotidiano Usa Today, che ha intervistato lo scienziato. Ora, inoltre, spuntano alcuni messaggi di posta elettronica scritti da Fauci, e ottenuti da BuzzFeed News attraverso una richiesta di accesso agli atti pubblici, nei quali risulta che lo scienziato era stato informato già nel gennaio del 2020 che il virus sembrava essere stato fabbricato in laboratorio. Un giorno prima di una riservatissima videoconferenza fra virologi tenuta il primo febbraio 2020, Kristian Andersen, un esperto di genetica delle malattie infettive presso il prestigioso Scripps Research Translational Institute della California, aveva detto a Fauci prima per telefono e poi più tardi per email che la struttura genetica del Coronavirus responsabile dell'infezione da Covid-19 appariva essere stata prodotta in laboratorio. «Le insolite caratteristiche del virus costituiscono una parte molto ridotta del genoma (0.1%), tanto da rendere necessario osservare molto da vicino tutte le sequenze per vedere che alcune delle caratteristiche (potenzialmente) appaiono fabbricate», scriveva Andersen in una email a Fauci il 31 gennaio 2020, aggiungendo che lui stesso e il virologo e biologo dell'evoluzione Edward Holmes, dell'Università di Sidney, oltre a un gruppo di altri illustri scienziati con i quali Fauci si dava del tu «abbiamo tutti trovato il genoma incoerente con le attese della teoria dell'evoluzione».

IL SEGRETO

Insomma, dubitavano dell'origine naturale del Sars-Cov 2, sospettando invece una sua produzione. Ma tutti i partecipanti alla riunione del primo febbraio 2020 avevano deciso di non rivelare quanto emerso nella discussione fra di loro. Ne avevano discusso ancora nei giorni successivi, spiega Fauci alla Young, rivelandole che si era trattato di «una conversazione molto produttiva e continuativa, nella quale alcuni partecipanti sentivano che poteva trattarsi di un virus prodotto», mentre altri erano «pesantemente sbilanciati» verso l'ipotesi di un virus emerso da un ospite animale. Poi, misteriosamente, dal 4 febbraio 2020, senza un motivo noto o apparente, Andersen aveva cambiato completamente opinione sull'argomento e per di più accusava di diffondere teorie del complotto chiunque sospettasse la nascita del virus in laboratorio. A mantenere il segreto, si erano ovviamente impegnati soprattutto coloro che avevano avuto un ruolo nella genesi dell'agente patogeno. Gli studi sul "guadagno di funzione" al laboratorio di virologia di Wuhan, in Cina, erano finanziati dalla cerchia di Fauci, cioè dagli Istituti Nazionali della Sanità statunitensi. Davanti al Congresso, a Washington DC, Fauci lo aveva negato ma, durante l'audizione pubblica del 20 luglio scorso, il senatore Rand Paul lo aveva accusato di mentire mettendogli di fronte agli occhi un documento intitolato «Scoperta di un ricco pool genetico di coronavirus correlato alla SARS di pipistrelli», nel quale appaiono i dettagli della collaborazione fra scienziati americani e cinesi. 

Coronavirus, "menzogne non solo sul pangolino". Wuhan e il numero di morti 2020: l'ultima terrificante balla comunista. Libero Quotidiano il 26 luglio 2021. Sull'origine del virus e della pandemia Pechino avrebbe mentito: lo dimostra l'ultimo rapporto demografico dell'Ufficio di statistica, che ha censito la popolazione nel 2020 - 1,411 miliardi di cinesi -, senza citare però il numero di decessi. Probabilmente per evitare confronti con gli anni precedenti. Bisogna accontentarsi così del bilancio ufficiale fornito dalla Cina: 93 mila contagi e 4.743 morti a fine dicembre 2020. Ovvero poco più di tre morti per un milione di abitanti. In un articolo di Jacques Massey riportato sul Fatto Quotidiano si ripercorrono tutte le tappe, dal 31 dicembre 2019 fino a oggi. L'ultimo giorno di dicembre, infatti, è stato indicato come la data ufficiale dell'identificazione di un nuovo coronavirus in Cina. Era stato individuato nel mercato del pesce di Wuhan alcuni giorni prima, il 16 dicembre. Il sospetto, però, è che sia iniziato tutto molto tempo prima: una fonte di Mediapart, membro del team di esperti internazionale di sicurezza creato dopo gli attentati dell'11 settembre 2001, sostiene che "un membro cinese del gruppo aveva segnalato la presenza del nuovo virus a Wuhan da settembre 2019”. Poi a febbraio 2020 la tesi del pangolino: alcuni ricercatori dell'Università di agricoltura della Cina del sud assicurarono di aver trovato nella sequenza genomica di un virus dei pangolini il 99% di elementi in comune con il Sars-CoV-2. Secondo loro, quindi, sarebbe stato questo piccolo animale simile al formichiere a fare da tramite nel processo di contaminazione dal pipistrello all'uomo. La tesi, però, non è stata dimostrata e, secondo Massey, sarebbe servita a Pechino per accantonare ipotesi alternative, come la creazione del virus in laboratorio.  A giugno 2020 invece avrebbe trovato conferma la tesi della nascita del Covid in laboratorio: stando a uno studio del collettivo di scienziati Drastic, nel giugno 2019 l'università di Wuhan era stata stata ispezionata ed era emerso un ambiente precario, con la mancanza di pareti divisorie tra le diverse zone di sperimentazione, misure di sicurezza scarse e attrezzature per studenti inadeguate. Pochi mesi fa, invece, nel gennaio 2021, tredici esperti dell'Oms sono andati a Wuhan per elaborare un rapporto sulle cause della malattia, ma non è stata lasciata loro la minima libertà di documentare l'indagine.

Doppia indagine sull’origine del Covid, continua lo scontro Oms-Cina. Federico Giuliani su Inside Over il 26 luglio 2021. Imbastire una nuova indagine per fare ulteriore chiarezza su quanto accaduto in quel di Wuhan nell’inverno 2019, oppure estendere le ricerche sulle origini del Sars-CoV-2 a Paesi e regioni di tutto il mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e la Cina spingono in due direzioni differenti. L’agenzia con sede a Ginevra, forse insospettita da eventuali prove rinvenute dall’intelligence americana, o forse perché semplicemente insoddisfatta del report ottenuto al termine dell’ultima missione effettuata in loco, ha ridato adito all’ipotesi dell’eventuale fuga del virus da un laboratorio di Wuhan. Attenzione: questo non significa che gli esperti dell’Oms ritengano plausibile questa pista. Vuol dire, semmai, che la Lab Leak Theory non è più considerata una teoria complottista ma una possibile verità. La Cina ha idee ben diverse. Pechino non solo rigetta l’ipotesi della fuga accidentale del coronavirus da una struttura situata a Wuhan, ma non intende neppure prenderla in considerazione. A maggior ragione dopo che una squadra di esperti dell’Oms ha indagato nella città e all’interno del suddetto laboratorio. La posizione cinese è chiara: noi abbiamo collaborato, siamo stati trasparenti e nessuno ha trovato indizi. Quindi, ed è questa la controproposta del Dragone, è bene che l’Oms inizi a guardare altrove.

Posizioni inconciliabili. Un piano di tracciamento delle origini che prenda nuovamente in esame Wuhan? Nemmeno per idea. Il viceministro della Sanità cinese, Zeng Yixin, è stato chiarissimo: impossibile accettare una mossa del genere, un piano che “ignora il buonsenso e sfida la scienza”. Nei giorni scorsi, infatti, l’Oms ha proposto una seconda fase di studi sulle origini del Covid in Cina, comprensiva – e questo è il punto focale – dei dati di laboratorio contenuti nel Wuhan Institute of Virology e inerenti ai mercati cittadini di Wuhan. Pechino, che agli occhi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riteneva di esser stata già abbastanza trasparente, non ha affatto preso bene la strada intrapresa dall’agenzia internazionale. A questo proposito si segnalano le dichiarazioni rilasciate da Yuan Zhiming, direttore del laboratorio di biosicurezza del WIV, e da Liang Wannian, scienziato cinese che ha guidato il team Oms a Wuhan. Zhiming ha spiegato che il suo istituto non ha mai conservato o studiato il nuovo coronavirus prima che scoppiasse la pandemia. “L’Istituto di virologia di Wuhan? Non ha mai realizzato né progettato o fatto trapelare il nuovo coronavirus”, ha chiarito il direttore della struttura. Il signor Wannian, invece, ha proposto di lasciar perdere i laboratori e concentrare l’attenzione sugli animali. “Quella dovrebbe essere la direzione principale da seguire”, ha spiegato.

La richiesta cinese. Mentre il direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha chiesto maggiore cooperazione alla Cina, quest’ultima ha ribadito proponendo all’agenzia di effettuare un altro tipo di indagine. Il viceministro Zeng ha ripetuto, per l’ennesima volta, che la Cina ha sempre sostenuto una “ricerca scientifica del virus”; ciò nonostante, il governo vorrebbe estendere lo studio internazionale e le indagini sulle origini del Covid anche in altri Paesi e regioni. Ovvero: l’Oms dovrebbe indagare anche all’estero, e non solo in Cina.

Inutile nascondersi dietro a un dito. I media cinesi hanno puntato il dito contro il laboratorio americano di Fort Detrick. Alludendo a incidenti avvenuti nel recente passato all’interno dell’installazione statunitense, la Cina spinge affinché l’Oms non metta pressione soltanto sul laboratorio di Wuhan. Insomma, siamo nel bel mezzo di uno scontro tra narrazioni contrapposte. E in un mare in tempesta del genere, la scienza ha l’obiettivo di mantenere saldo il timone.

Il “mistero” del laboratorio americano. Federico Giuliani su Inside Over il 25 luglio 2021. Nelle campagne del Maryland, a un’ora di macchina da Washington, si staglia lo United States Army Medical Research Institute of Infectious Diseases, ovvero l’Istituto di ricerca medica sulle malattie infettive dell’esercito degli Stati Uniti (USAMRIID). Controllato dallo U.S. Army, si tratta del più importante centro americano per la ricerca sulle contromisure da adottare in caso di guerra biologica. Siamo a Fort Detrick, nel cuore del campus di circa 5.300 ettari che ospita strutture ed edifici chiamati a gestire il programma di difesa biologica degli Stati Uniti. Accanto allo USAMRIID troviamo lo U.S. Army Medical Research and Development Command (USAMRDC), il National Cancer Institute-Frederick (NCI-Frederick), la National Interagency Confederation for Biological Research (NICBR) e il National Interagency Biodefense Campus (NIBC). Ricerca, analisi, sviluppo biomedico e studio di agenti patogeni, compresi i più pericolosi, come Ebola e vaiolo: ecco le attività chiave praticate, da anni, nel complesso di Fort Detrick. Un complesso, date le sue profonde connessioni con il Dipartimento della Difesa e l’esercito americano, impermeabile e misterioso. Lo USAMRIID, ad esempio, è l’unico laboratorio della difesa statunitense attrezzato per garantire il massimo livello di biosicurezza, il BLS-4. Anche se l’istituto adotta elevati standard di sicurezza, e attua controlli rigorosi così da scongiurare contaminazioni, in passato si sono registrati diversi incidenti. La lista completa, o meglio l’archivio, degli errori di laboratorio è consultabile sul sito della stessa USAMRIID. Stando alle ultime informazioni diffuse, dal 2010 in poi non sarebbero stati riscontrate prove di ipotetiche fuoiscite di malattie uscite dai laboratori dell’area, né dal centro di ricerca.

Incidenti e sospensioni. In ogni caso, il 5 agosto 2019, il New York Times ha riportato la notizia di un incidente che ha portato alla sospensione, per alcuni mesi, delle ricerche sui virus pericolosi. Un mese prima, nel luglio 2019, il Cdc, Centro per la prevenzione e controllo delle malattie americano, aveva inviato a Fort Detrick una lettera contenente l’ordine di chiusura del laboratorio BSL-4 del campus a tempo indeterminato e per motivi “di sicurezza nazionale”. Il Cdc, non a caso, aveva ispezionato lo USAMRIID a giugno, rilevando un incidente di biocontenimento. Le cronache sono a macchia di leopardo e non sempre chiarissime. L’Independent, dopo aver fatto notare che Fort Detryck “è stato l’epicentro della ricerca sulle armi biologiche dell’esercito americano dall’inizio della Guerra Fredda”, ha scritto che l’interruzione decisa dal Cdc è avvenuta in seguito a un controllo dello stesso ente di sanità pubblica del governo che avrebbe riscontrato “diversi problemi con le nuove procedure utilizzate per decontaminare le acque reflue”. Scendendo nel dettaglio, scopriamo che “per anni la struttura ha utilizzato un impianto di sterilizzazione a vapore per trattare le acque reflue” ma “dopo che una tempesta ha allagato e rovinato un macchinario, lo scorso anno (nel 2018 ndr), Fort Detrick è passato a un nuovo sistema di decontaminazione a base di sostanze chimiche”. Gli ispettori del Cdc hanno quindi scoperto che queste procedure non erano sufficienti per seguire correttamente le regole. Le attività di ricerca sono tuttavia ripartire nella primavera 2020.

La (contro)narrazione di Pechino. Data la sostanziale incertezza che ancora aleggia sulla determinazione esatta delle origini del Sars-CoV-2, e l’eventualità che il patogeno possa essere fuggito accidentalmente dal Wuhan Institute of Virology, un laboratorio cinese situato proprio a Wuhan, primo epicentro noto della pandemia di Covid-19, la Cina ha tirato fuori dal cilindro una sua (contro)narrazione. Gli Stati Uniti hanno più volte accusato Pechino di aver nascosto dati e ostruito le indagini che avrebbero dovuto chiarire lo scoppio dell’emergenza globale. Alcuni esperti ritengono plausibile la fuoriuscita del coronavirus dall’istituto di Wuhan, ma al momento non ci sono ancora prove schiaccianti per convalidare o meno tale posizione. La Cina ha sempre negato la cosiddetta Lab Leak Theory, anche se da quando Joe Biden ha aumentato la pressione sulla pista del laboratorio, la situazione, per il Dragone, è diventata piuttosto complessa da gestire, almeno dal punto di vista dell’immagine internazionale. Per alimentare la confusione all’interno dell’opinione pubblica, e al contempo mettere all’angolo Washington, i media cinesi – e con loro diverse figure istituzionali, come ad esempio Zhao Lijian, portavoce del Ministero degli Esteri cinese – hanno tirato in ballo Fort Detrick. Perché, è in sostanza il discorso di fondo, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha indagato soltanto su quanto accaduto nel laboratorio di Wuhan? Per quale motivo nessuno ha ancora fatto un sopralluogo nelle strutture statunitensi? Cosa hanno da nascondere gli americani? La posizione di Pechino, dunque, si inserisce nel perfetto scontro tra propagande/narrazioni contrapposte. A chi chiede di fare luce sul Wuhan Institute of Virology, la Cina rimanda a Fort Detrick. Un muro contro muro, questo, che non fa altro che danneggiare la ricerca della verità obiettiva in merito alle origini della pandemia. La Cina, insomma, continua a insistere su Fort Detrick. Il portavoce Zhao Lijian, come riportato dal Global Times, ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero essere trasparenti e adottare misure per indagare a fondo sulla fonte della propria pandemia. Non solo: Fort Detrick e più di 200 laboratori biologici americani all’estero devono essere indagati. Quasi 5 milioni di cinesi hanno intanto firmato un lettera aperta per chiedere all’Oms di indagare sul complesso americano situato nel Maryland. Pechino, infine, è stato chiarissimo nel ribadire come la Cina non possa accettare il piano dell’Oms inerente alla seconda fase di uno studio sulle origini del COVID-19. Zeng Yixin, vice ministro della Commissione sanitaria nazionale, si è detto “piuttosto sorpreso” dalla richiesta di approfondire le origini della pandemia e, in particolare, la teoria secondo cui il virus potrebbe essere trapelato da un laboratorio cinese. Il signor Zeng ha liquidato la teoria delle fughe di laboratorio come una voce che va contro il buon senso e la scienza. “È impossibile per noi accettare un tale piano di tracciamento delle origini del virus”, ha concluso il viceministro cinese.

Ombre cinesi su Fort Detrick. La narrazione cinese, vera o falsa che sia, ha avuto un notevole impatto per due motivi. Intanto non sappiamo ancora niente sulle origini del Sars-Cov-2. Dunque, finché non sarà fatta chiarezza sulla vicenda, qualsiasi pista potrà trovare terreno fertile, soprattutto, come detto, nel bel mezzo di una guerra tra differenti propagande. Dopo di che bisogna concentrarci sull’alone di mistero che da sempre aleggia su Fort Detrick. Trattandosi di un campus all’interno del quale vengono affrontate questioni delicatissime, è chiaro che gli Stati Uniti non abbiano interesse a svelare informazioni connesse tanto con l’esercito, quanto con temi di sicurezza nazionale. Probabilmente nessun Paese al mondo aprirebbe mai le porte delle proprie strutture top secret per dare in pasto alla comunità internazionale dati e segreti più o meno compromettenti. La Cina lo sa bene e, indipendentemente dal Covid, ha pensato bene di fare leva su questo limite invalicabile. Certo è che, analizzando Fort Detrick, emergono diverse contraddizioni che potrebbero scalfire l’immagine americana (e questo è forse un altro obiettivo di Pechino). Gli Stati Uniti hanno ufficialmente abbandonato il loro programma di armi biologiche nel 1969, eppure Fort Detrick ha proseguito la ricerca difensiva sugli agenti patogeni mortali. Il Medical Research Institute of Infectious Diseases dell’esercito spiega che la sua missione principale della struttura è oggi quella di fornire protezione “dalle minacce biologiche”. Benissimo. Ma nel frattempo gli addetti del complesso indagano anche su focolai di malattie tra i civili e altre minacce alla salute pubblica. Inoltre, come se non bastasse la chiusura momentanea avvenuta nel 2019, il laboratorio di Fort Detrick ha dovuto fare i conti con un’altra sospensione temporanea per via di errori nella gestione dei patogeni studiati all’interno dell’edificio; nel 2009, ad esempio, la ricerca del centro è stata interrotta perché gli scienziati locali stavano immagazzinando patogeni non elencati nell’inventario dell’istituto. Altro aspetto da rimarcare riguarda gli studi gain-of-function attuati in America e, forse, anche in Cina. Secondo alcune indiscrezioni (il condizionale è d’obbligo), sarebbe proprio a causa di studi simili che Washington avrebbe dovuto momentaneamente chiudere alcuni dei suoi laboratori. Il Cdc è stato emblematico: “Le due violazioni (avvenute a Fort Detrick) segnalate dall’USAMRIID al Cdc hanno dimostrato un fallimento del laboratorio dell’esercito nell’implementare e mantenere procedure di contenimento sufficienti a contenere agenti o tossine selezionate che sono state effettuate da operazioni nel livello di biosicurezza 3 e 4”. In base a questo, è emerso che qualche anno fa lo USAMRIID avrebbe lavorato di sponda con altri laboratori americani e stranieri, tra cui, probabilmente, anche alcune strutture cinesi. A quanto pare Fort Detrick era collegato al National Microbiology Lab canadese di Winnipeg, un centro di ricerca a sua volta – pare – “penetrato” completamente dai cinesi, incluso un membro della China’s biowarfare community. Ecco perché, Covid o meno, le ombre cinesi potrebbero preoccupare Washington.

Covid, il giallo dei campioni di sangue di Wuhan e i (possibili) nuovi indizi. Federico Giuliani su Inside Over il 23 luglio 2021. Risalire al paziente zero della pandemia di Covid-19 per chiarire meglio l’origine temporale della diffusione del virus. Da oltre un anno gli scienziati lavorano in questa direzione, anche se rintracciare l’identikit della prima persona infettata dal Sars-CoV-2 è un’operazione complessa, ai limiti dell’impossibile. E lo sarà sempre di più con il passare dei mesi, quando le prove saranno via via meno nitide. La caccia al paziente zero, insomma, può essere paragonata alla ricerca di un ago all’interno di un pagliaio. A complicare ulteriormente la situazione, come se non bastassero le condizioni di fondo, c’è un altro aspetto non da poco. Il primo epicentro noto della pandemia è situato in Cina, precisamente nella città di Wuhan. Pechino considera quanto accaduto nella provincia dello Hubei soltanto il primo focolaio ufficiale registrato al mondo, sottintendendo che il virus potrebbe essersi diffuso chissà dove, chissà come. La scorsa primavera, intanto, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) ha spedito un team di esperti direttamente a Wuhan. Il loro obiettivo: raccogliere dati e informazioni, così da fare luce sulle origini del Sars-CoV-2. Le autorità cinesi hanno fornito il supporto richiesto, anche se quanto emerso non è fin qui stato sufficiente per trovare risposte autorevoli.

L’analisi sui campioni di sangue. La Cina e l’Oms ritengono che il primo contagio risalga al dicembre 2019. Già qui sorge la prima discrepanza, dato che il South China Morning Post ha scritto che il paziente zero sarebbe in realtà un 55enne della provincia dello Hubei che avrebbe mostrato i primi sintomi a partire dalla metà del novembre 2019. È subito emerso il dubbio che, forse senza che nessuno ne fosse a conoscenza, il virus circolasse in Cina addirittura dall’autunno. È qui che spuntano i campioni del sangue. Di chi? Dei cittadini cinesi ricoverati in ospedale o ammalatisi nel periodo precedente allo scoppio dell’emergenza. Analizzando i loro campioni di sangue, potrebbero emergere interessanti sorprese. Qualcuno, ad esempio, potrebbe essersi infettato ancora prima del dicembre 2019. Secondo quanto riportato dal South China Morning Post, la Cina si starebbe preparando a testare i campioni di sangue raccolti proprio nel periodo precedente all’epidemia. L’obiettivo, in questo caso, è trovare tracce o prove di infezione. La ricerca, che sarà condotta a Wuhan, non era ancora stata realizzata perché un procedimento del genere, stando a quanto riferito dallo scienziato cinese Liang Wannian, può avvenire solo una volta trascorso un periodo di conservazione del sangue di due anni.

Alla ricerca di prove. Non è chiaro il numero di campioni di sangue conservato, né se verranno sottoposti a screening campioni provenienti da altre parti del Paese. Non sappiamo neppure quando scadrà il periodo di due anni, anche se le autorità cinesi si sono messe in moto per dare il via alle operazioni. Liang ha spiegato che il test dei campioni di sangue conservati potrebbe aiutare a identificare le infezioni da Covid-19 eventualmente presenti prima del primo paziente zero ufficiale. Pechino, come detto, sta formulando in anticipo il piano di attuazione necessario per svolgere il lavoro di indagine. “Quando i campioni di sangue potranno essere testati dopo il periodo di conservazione, effettueremo i test pertinenti e condivideremo gli eventuali risultati con esperti cinesi e stranieri”, ha aggiunto Liang. A quanto pare, prima della fine del suddetto periodo, i campioni di sangue potevano essere maneggiati soltanto per risolvere controversie mediche o legali, come ad esempio contaminazioni del sangue in seguito a trasfusioni.

Una domanda sorge spontanea: perché aspettare così tanto tempo quando in gioco c’è la possibile risoluzione dell’enigma Covid? Va da sé che i riflettori sono adesso puntati sul Wuhan Blood Center, dove dovrebbero essere conservati i campioni. Nonostante la proposta cinese, c’è tuttavia chi teme che tali campioni possano essere alterati, o peggio distrutti, per nascondere indizi rilevanti. Tra sospetti e paranoie, le ricerche sulle origini del Covid non si fermano.

La Cina sbraita contro la nuova indagine sull’origine del virus: «Dall’Oms solo arroganza». Federica Parbuoni giovedì 22 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. L’ipotesi che l’Oms possa condurre una nuova indagine in Cina per accertare l’origine del Covid ha fatto andare su tutte le furie Pechino, che si è detta «scioccata». Per le autorità cinesi, infatti, la proposta arrivata da Ginevra e che allude alla possibilità che il virus sia fuggito dal laboratorio di Wuhan è «arrogante» e manca di «rispetto per il buonsenso».

Pechino contro l’«arroganza» dell’Oms. La Cina, dunque, non accetterà «un tale piano di tracciamento delle origini poiché, in alcuni aspetti, ignora il buon senso e sfida la scienza», ha spiegato Zeng Yixin, il vice direttore della Commissione sanitaria nazionale cinese, che ha affidato le sue parole al tabloid Global Times.

La seconda fase di studi sull’origine del virus in Cina. La proposta dell’Oms, avanzata nei giorni scorsi chiedendo trasparenza alle autorità cinesi, prevede una seconda fase di studi sull’origine del virus che comprende anche una nuova missione in Cina e l’esame dei dati del Laboratorio di virologia e dei mercati di Wuhan. Ma per Zeng ciò che è stato affrontato durante la prima fase «non va ripetuto» e l’Oms dovrebbe piuttosto portare avanti un lavoro «in più Paesi e regioni del mondo». Dunque, Pechino, rivendicando che non ci siano «interferenze politiche», rilancia la tesi che il Sars-Cov-2 sarebbe nato ad altre latitudini.

Le indiscrezioni sull’accordo tra Pechino e Washington. Un paio di giorni fa, invece, erano circolate indiscrezioni secondo le quali le autorità cinesi, nell’ambito di un accordo con gli Usa, sarebbero state pronte ad ammettere l’errore della fuga dal laboratorio. Di contro Washington, insieme all’assunzione di responsabilità, avrebbe preso per buona anche la versione secondo cui Pechino sarebbe venuta a conoscenza dell’incidente solo di recente, dopo oltre un anno di indagini, decidendo poi di perseguire gli scienziati che lo avrebbero insabbiato.

Antonio Fatiguso per l’ANSA il 22 luglio 2021. La Cina ha reagito con stizza alla proposta dell'Oms di una nuova missione a Wuhan alla ricerca delle origini del Covid-19, definendo l'iniziativa, che punta anche a verificare l'ipotesi di un incidente di laboratorio, come "arroganza verso la scienza". Zeng Yixin, numero due della Commissione sanitaria nazionale, ha stroncato le velleità di riapertura del capitolo che Pechino considera definitivamente chiuso dopo la missione di inizio anno degli esperti dell'Organizzazione mondiale della sanità compiuta assieme a colleghi cinesi nella città dove per primo è stato rilevato il virus alla fine del 2019. Una chiusura che la Casa Bianca ha definito "irresponsabile" e "pericolosa" per bocca della portavoce Jen Psaki e che anche l'Ue ha censurato, appoggiando apertamente la richiesta dell'Oms in nome della "trasparenza". Pechino invece non ha alcuna intenzione di tornare sul banco degli imputati e, a pochi giorni dalla richiesta più dettagliata dell'agenzia Onu, ha tenuto una conferenza stampa dedicata al 'tracciamento dell'origine del Covid-19', schierando la prima linea dei suoi esperti in materia. La Cina non accetterà mai una seconda indagine "poiché ignora il buon senso e sfida la scienza", ha tuonato Zeng con toni mai così duri verso l'Oms, accusato finora al contrario dall'Occidente di essere stato troppo morbido con Pechino. La scorsa settimana, il numero uno dell'organizzazione Tedros Adhanom Ghebreyesus ha affermato che c'è stata una "spinta prematura" ad escludere la teoria secondo cui il virus sarebbe uscito dal laboratorio di Wuhan. Zeng dal canto suo ha affermato di essere rimasto sorpreso quando ha letto per la prima volta il piano dell'Oms perché ha elencato, tra l'altro, l'ipotesi di una violazione cinese dei protocolli di laboratorio come causa del rilascio del virus durante le attività di ricerca. "Speriamo che l'Oms riesamini seriamente le considerazioni e i suggerimenti degli esperti cinesi e tratti veramente il tracciamento dell'origine del Covid-19 come una questione scientifica, liberandosi dalle interferenze politiche", ha aggiunto, ricordando che Pechino "si è sempre opposta alla politicizzazione" della vicenda. La proposta dell'Oms è maturata tra le crescenti pressioni internazionali, in gran parte degli Stati Uniti, per ulteriori indagini a Wuhan e in particolare sull'Istituto di virologia. "C'è già stato uno studio dell'Oms sulle origini del Covid, ma occorre portare avanti il lavoro per capire l'origine del virus e la sua diffusione tra la popolazione, senza escludere qualsiasi possibilità a priori", ha ribadito da Bruxelles un portavoce della Commissione europea in merito al rifiuto cinese. A maggio il presidente americano Joe Biden ha ordinato all'intelligence Usa di trovare risposte in 90 giorni alle numerose domande sull'origine del nuovo coronavirus, con un rapporto che potrebbe essere pronto al più tardi per settembre. Zeng ha esortato l'agenzia di Ginevra ad espandere gli sforzi di ricerca oltre la Cina, puntando su altri Paesi. "Abbiamo presentato il 4 luglio all'Oms le nostre raccomandazioni per la fase 2, ritenendo che lo studio dovrebbe essere basato sul lavoro congiunto Oms-Cina e condotto in molti altri luoghi in tutto il mondo dopo le consultazioni complete con gli Stati membri". I funzionari cinesi, di fronte al crescente accerchiamento, hanno tra le varie ipotesi riesumato le teorie non dimostrate che hanno collegato il virus alla base militare Usa di Fort Detrick: una petizione online sui social in mandarino ha raccolto oltre 5 milioni di adesioni per chiedere sul punto "un'indagine internazionale approfondita". 

L’Oms cambia rotta e rompe con la Cina sull’origine del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 22 luglio 2021. Cresce la tensione tra la Cina e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Se un anno e mezzo fa, durante le prime fasi della pandemia di Covid-19, l’agenzia con sede a Ginevra era più volte stata accusata di aver coperto i presunti errori commessi da Pechino nella gestione iniziale del virus, oggi quell’idillio, reale o immaginario che fosse, sembra essere giunto ai titoli di coda. Basta ascoltare le ultime parole di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, per capire che il vento è cambiato. “Speriamo che ci sia una migliore cooperazione per scoprire che è accaduto davvero. Il primo problema è la condivisione dei dati grezzi e ho detto, alla conclusione della prima fase delle indagini, che questo problema andava risolto. Il secondo è che c’è stato un tentativo prematuro di ridurre il numero di ipotesi, come quella del laboratorio”, ha spiegato Ghebreyesus nel corso di una conferenza stampa. L’Oms ha sostanzialmente invitato la Cina a collaborare di più nell’indagine sulle origini della pandemia di Covid-19 e riabilitato la pista del laboratorio. E pensare che la scorsa primavera, al termine della missione ufficiale di un team di esperti inviati dall’agenzia a Wuhan, la tessa Oms aveva sbandierato un report nel quale definiva “estremamente improbabile” l’eventuale fuoriuscita del Sars-CoV-2 dal Wuhan Institute of Virology (WIV). Anche se la tesi prevalente, almeno per il momento, resta la trasmissione zoonotica da animale a uomo, mediante l’azione di un animale intermedio ancora da identificare, la Lab Leak Theory ha riacquisito una sua centralità.

Il rifiuto cinese. Non sappiamo per quale motivo l’Oms abbia rimesso (quasi) tutto in discussione. Sarà un caso, ma da quando Joe Biden ha chiesto all’intelligence americana di scavare a fondo per portare a galla prove e informazioni sulle origini del virus, i riflettori sono tornati a illuminare la facciata del WIV. Una settimana fa Ghebreyesus ha chiesto un audit dei laboratori nelle aree in cui sono stati identificati i primi casi di coronavirus; una lunga perifrasi, questa, per riferirsi niente meno che alla città di Wuhan. L’Oms ha sostanzialmente chiesto a Pechino nuovi chiarimenti, da conseguire imbastendo una seconda indagine proprio nel capoluogo della provincia dello Hubei. La Cina non ha creduto alle proprie orecchie e si è detta “scioccata” dalle dichiarazioni dell’agenzia. Ma la risposta vera e propria è arrivata dalla bocca di Zeng Yixin, viceministro della Commissione nazionale per la Salute. L’alto funzionario cinese ha spiegato di essere rimasto sconvolto dal piano dell’Oms di avviare una seconda fase di studio sull’origine del nuovo Covid. Per quanto riguarda la teoria di una fuga da un laboratorio di Wuhan, si tratterebbe soltanto “di rumors in contrasto con il buon senso”.

Nervi tesi. Ricapitolando: da una parte troviamo l’Oms, pronta a cercare nuove tracce sulle origini del Covid, e desiderosa di avviare una seconda missione in terra cinese; dall’altra c’è la Cina, convinta di aver già aperto tutte le sue porte alla comunità internazionale. Il Dragone è rimasto alquanto irritato dall’uscita dell’agenzia internazionale, tanto che il signor Zeng ha definito la proposta dell’Oms una “mancanza di rispetto” e “una forma di arroganza nei confronti della scienza”. E pensare che all’inizio della pandemia, quando l’opinione pubblica sospettava che la Cina avesse nascosto di proposito i primi contagi nel tentativo di insabbiare l’emergenza globale, Tedros Ghebreyesus fu il primo a volare a Pechino per cercare di calmare le acque. A due passi dalla Città Proibita, il direttore dell’Oms incontrò Xi Jinping in persona per elogiare la trasparenza della Cina e il modello di contenimento attuato dalle autorità cinesi. “Guai a politicizzare la pandemia”, avvertivano gli esperti dell’Oms. Gli stessi esperti che adesso sono entrati in rotta di collisione con la Cina, che dal canto suo punta il dito contro il laboratorio di Fort Detrick negli Usa, situato vicino Washington e al centro della ricerca americana contro il bioterrorismo.

"Virus fuggito da Wuhan", c'è l'intesa Usa-Cina"Virus fuggito da Wuhan", c'è l'intesa Usa-Cina. Paolo Liguori il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. Pressing di Biden su Xi, diplomazie al lavoro. Decisivo il ruolo dell'intelligence. Il giallo più importante del secolo sembra non avere mai fine. Eppure la soluzione è semplice: il virus Covid 19 è fuoriuscito da un laboratorio di Wuhan, dove si lavorava da tempo per l'arricchimento di un virus naturale, a scopi di ricerca e militari. La notizia ormai è confortata da decine di informazioni e di ricerche e perfino da video originali dell'Istituto delle scienze cinese che risalgono addirittura al 2015. Tutto chiaro? Assolutamente no: la Cina è una grande potenza mondiale, con diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu e una posizione di assoluto predominio nell'Oms e dal novembre 2020 muove senza soste i suoi servizi d'informazione per mettere a tacere l'incidente e per negare qualsiasi coinvolgimento. Ma inesorabilmente la verità si fa strada tra le macerie della pandemia mondiale. A questo punto, il presidente Joe Biden ha a sua disposizione il rapporto dell'intelligence statunitense che aveva richiesto: un pezzo dopo l'altro, le informazioni coincidono e provengono contemporaneamente da tutte le Agenzie che sono state allertate e che si sono avvalse anche della collaborazione di tutte le altre agenzie di informazione del mondo libero, le più libere dai condizionamenti della Cina Popolare. I rapporti e le prove convergono in un'unica direzione, ma il punto cruciale è in che modo annunciare i risultati, tenendo conto degli effetti sulla politica mondiale. Per questo motivo, è in corso un lungo e complicato negoziato sotterraneo, per arrivare entro settembre ad una base accettabile di verità, che riveli i vari livelli di coinvolgimento e di responsabilità. Ad esempio, dalle relazioni risulta che con il laboratorio di Wuhan, in passato, abbiano collaborato anche scienziati occidentali e perfino americani. Fino a che punto erano al corrente i francesi e gli olandesi degli esperimenti sul cosiddetto guadagno di funzione, che pure hanno certamente lavorato a Wuhan, degli esperimenti sul guadagno di funzione sul Covid 19? E i britannici? Quanti di loro hanno seguito il percorso fino al Virus Chimera, cioè all'avvenuta trasformazione del virus originario dei pipistrelli? Di sicuro, all'inizio, non hanno lavorato soltanto scienziati cinesi, ma gli esperimenti erano noti anche ad altri laboratori nel mondo. Da un certo punto in poi, però, il controllo è passato all'Esercito Popolare e da lì la riservatezza è stata assoluta. Si tratta di stabilire, nel negoziato, se il silenzio dai primi di novembre alla fine di dicembre 2020 sia stato applicato verso l'esterno della Cina oppure anche verso le istituzioni cinesi. Sono punti fondamentali per disegnare una exit strategy che coinvolga il governo di Xi in una soluzione accettabile o in un micidiale braccio di ferro. Inoltre, bisogna ricordare le responsabilità del direttore generale dell'Oms Tedros Adhanon Ghebreyesus, colpevole di ritardi e spiegazioni di comodo, salvo l'ammissione recente (e tardiva) che l'ipotesi del virus proveniente dal laboratorio non può essere scartata. E nel dossier dell'intelligence compaiono anche le responsabili complicità di due scienziati occidentali, l'inglese Peter Daszak di EchoHealth Alliance, che ha ricevuto un'enorme mole di finanziamenti e il professore americano Ralph Baric, del dipartimento di microbiologia e immunologia presso l'Università North Carolina. Tutto il «lato oscuro» del virus è destinato a venire fuori perché, come ha dichiarato di recente Mike Pompeo, amministrazione Trump, «il virus non è questione di repubblicani o democratici, è questione di vita o di morte». E, dal punto di vista dei danni, gli interessi Usa e occidentali sono stati molto colpiti negli ultimi venti mesi, a vantaggio di quelli cinesi. Adesso aspettiamo che il negoziato produca un esito trasparente, rivelando l'unica verità sul virus e consentendo alla Cina di rinunciare ad una vocazione imperiale che l'Occidente non può concedere.

“Fuga dal laboratorio credibile”: Usa in pressing su Pechino. Federico Giuliani su Inside Over il 19 luglio 2021. Alla fine di maggio, Joe Biden aveva incaricato l’intelligence americana di indagare a fondo sulle origini della pandemia di Covid-19. Il presidente democratico era stato chiaro: nell’arco di 90 giorni, le agenzie statunitensi avrebbero dovuto riferire quanto scoperto, mentre le altre strutture del Paese erano chiamate ad assistere alle indagini dei servizi segreti, magari preparando domande scottanti da rivolgere, in un secondo momento, al governo cinese. Adesso che il limite temporale fissato da Biden è sempre più vicino, un discreto numero di alti funzionari dell’amministrazione in carica – gli stessi che stanno sovrintendendo alla revisione attuata dall’intelligence – ritiene che la Lab Leak Theory sia credibile almeno quanto la possibilità che il virus possa essersi sviluppato in natura. A rivelarlo è stata la Cnn, la quale non ha mancato di sottolineare il radicale cambiamento attuato dal Partito Democratico. Già, perché un anno fa, quando Donald Trump e i Repubblicani insistevano sull’eventualità che il Sars-CoV-2 potesse essere fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan, i Democratici sminuivano pubblicamente la teoria della “fuga dal laboratorio”. Per quale motivo, ora, gli uomini di Biden dovrebbero aver cambiato idea?

Cambio di passo. La comunità di intelligence americana è ancora divisa in merito alle origini del Sars-CoV-2: da una parte c’è chi ritiene che il virus sia del tutto naturale e figlio di una zoonosi; dall’altra chi dà credito all’eventuale fuoriuscita del patogeno dal Wuhan Institute of Virology (WIV). Dal momento in cui Biden ha ordinato indagini approfondite, sono emerse ben poche prove per far spostare l’ago della bilancia in una direzione piuttosto che nell’altra. Eppure la Lab Leak Theory è finalmente stata seriamente presa in considerazione dai massimi funzionari dell’amministrazione Biden. Si tratta senza ombra di dubbio di un’apertura sensazionale, che arriva in un momento delicato e in un contesto scientifico entro il quale un elevato numero di esperti ritiene che vi siano prove a sostegno dell’origine naturale del virus. Sia chiaro: le attuali informazioni lasciano intendere che il Sars-CoV-2 abbia molto probabilmente avuto origine naturalmente, dal contatto uomo-animale. In ogni caso, non è più ufficialmente esclusa a priori la possibilità che il patogeno possa essersi diffuso in seguito a una fuga dal laboratorio di Wuhan, dove sono state condotte ricerche sul coronavirus direttamente sui pipistrelli.

Frizioni Oms-Cina. Se in America il Partito Democratico ha preso atto della concretezza della Lab Leak Theory, dall’altra parte del mondo si segnalano frizioni tra l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e la Cina. Il direttore dell’Oms, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha rinnovato l’appello a Pechino affinché il gigante asiatico cooperi nell’indagine sulle origini del Covid. “Chiediamo alla Cina di essere aperta e trasparente e di cooperare. Sapere quello che è successo è qualcosa che dobbiamo ai milioni di persone che hanno sofferto e ai milioni di persone che sono morte”, ha detto in conferenza Ghebreyesus. Dal canto suo, la Cina ha sempre sostenuto di aver cooperato con l’Oms – che, ricordiamolo, nei mesi scorsi ha mandato a Wuhan un team di esperti a indagare, ma a cui sarebbe stato impedito l’accesso a informazioni e siti fondamentali – e ha contestato i tentativi di “politicizzare” le indagini. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha fornito una risposta emblematica: la Cina respinge le accuse dell’Oms di non aver condiviso i dati. Gli esperti internazionali, al contrario, avrebbero avuto un adeguato accesso ai documenti, mentre il governo cinese “ha permesso agli scienziati di vedere i dati originali che richiedevano un’attenzione speciale”, sebbene “alcune informazioni fossero vincolate al rispetto della privacy personale e non potessero essere portate fuori dal Paese”. Il braccio di ferro continua.

Anna Lombardi per La repubblica il 17 luglio 2021. «Serve una nuova missione in Cina, per proseguire le ricerche sull'origine del coronavirus, anche nei laboratori». Lo ha affermato ieri Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore dell'Organizzazione mondiale della Sanità. Una proposta arrivata dopo le affermazioni da lui fatte giovedì, durante la conferenza stampa dove, ribadendo la gravità delle nuove varianti, aveva rivolto un appello al Dragone: «All'inizio della pandemia non tutti i dati sono stati condivisi. Chiediamo alla Cina di essere più aperta, trasparente, collaborativa. Dobbiamo la verità a milioni di morti». Per poi riaffermare quanto già detto in passato: «C'è stata una spinta prematura a escludere la teoria del virus fuggito dal laboratorio di Wuhan». Sì, da tempo Ghebreyesus mette in dubbio il rapporto diffuso a marzo dalla stessa Organizzazione da lui diretta, dove la fuga del virus dal centro ricerche di Wuhan veniva liquidata come "improbabile": «Nei laboratori gli incidenti accadono, sono immunologo, lo so». Altri studiosi, d'altronde, credono che la delegazione di 17 esperti dell'Oms inviata in Cina a fine gennaio, non abbia potuto approfondire le ricerche, ottenendo accesso solo a dati già raccolti e compilati dai colleghi cinesi ma non a quelli grezzi, come, ad esempio, i campioni di sangue dei primi pazienti. Non solo. Ad aggravare i sospetti, arrivano ora pure i risultati di un'indagine del Washington Post, che ha individuato importanti errori nel report: ad esempio, la sequenza del genoma del presunto paziente zero, un 41enne conosciuto come Patient SO1 confusa con quella di un altro malato di 61 anni. «Effettivamente ci sono involontari errori di edizione», ammette in una mail al quotidiano il portavoce dell'Oms, Tarik Jasarevic: «Tre delle 13 sequenze sono sbagliate». Il rapporto di 313 pagine, promette, sarà dunque revisionato e corretto. Ma le domande restano, anzi, aumentano. «Chi è il responsabile degli strafalcioni, la Cina, l'Oms?» chiede Lawrence Gostin, professore di Salute Globale all'università di Georgetown: «È importante saperlo, visto che riguardano proprio il primo malato ufficiale». Pechino respinge le accuse: «Politicizzare ostacola la ricerca» tuona il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian: «Agli esperti è stato dato accesso adeguato, hanno visto i dati originali ma le informazioni sono coperte da privacy, non possono essere copiate o uscire dal paese». Una nuova indagine, insomma, sembra fuori discussione.

Il Covid, l’Aids e la geopolitica del cospirazionismo. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 2 luglio 2021. Il controllo dell’informazione è fondamentale al fine del condizionamento dell’opinione pubblica, ovvero di quella massa corrispondente all’elettorato e alla “società pensante” dalla quale dipendono vita e morte dei regimi politici. E dato che informare può anche voler dire disinformare, cioè traviare volutamente, ne consegue che, come spiegava il grande burattinaio Licio Gelli, “il vero potere risiede nelle mani dei detentori dei mass media”. Propaganda e disinformazione esistono dall’alba dei tempi, ma l’avvento delle società dell’informazione e il divenire del mondo un villaggio globale hanno elevato significativamente il potenziale destabilizzativo delle bufale (le cosiddette fake news) e naturalizzato progressivamente fenomeni quali le disinfodemie, le intossicazioni ambientali e gli inquinamenti informativi. Questi flussi ininterrotti e ininterrompibili di notizie provenienti da ognidove, teoricamente accurate eppure tra loro contrastanti, che tendono a dar luogo a delle veridiche esplosioni di informazioni, rendono le masse, oggi più che mai, esposte e vulnerabili a sovraccarichi e dissonanze di tipo cognitivo. Le disinfodemie sono divenute una parte integrante della quotidianità di coloro che vivono nelle cosiddette società aperte – realtà che, in quanto libere e pluralistiche di natura, sono prive degli anticorpi necessari per combattere efficacemente le intossicazioni informative che infestano i loro ambienti –, ma vi sono dei periodi in cui sperimentano degli incrementi vertiginosi di intensità: crisi economiche, elezioni, emergenze sociali, guerre e pandemie. E quanto accaduto nel corso dell’ultimo anno e mezzo, con le ondate disinfodemiche relative al COVID-19 – dall’affidabilità dei vaccini alle origini del virus –, non è che un déjà-vu, o meglio una riedizione contemporanea di quello tsunami di bufale che travolse il mondo ai tempi della diffusione globale dell’HIV/AIDS.

La battaglia delle narrazioni sul Covid 19. In tempi di grande crisi ed incertezza, colui che sa come volgere l’irrazionalità umana a proprio favore è re. È per questo che le grandi potenze, una volta comprese le reali dimensioni dell’attuale emergenza sanitaria, hanno cominciato a fare leva sul potere dei mezzi di informazione, nuovi e tradizionali, per plasmare le convinzioni delle opinioni pubbliche proprie e altrui in merito alla pandemia. Stampa e politologia hanno dato un nome a questa forma di guerreggiamento, a sua volta da inquadrare nel contesto della guerra fredda 2.0 tra Occidente a guida americana e Oriente a trazione sino-russa: la battaglia delle narrazioni. Da Pechino, dove l’imperativo era ed è quello di cancellare dalla memoria collettiva l’associazione “Cina=untore”, sono state diffuse teorie del complotto tese a scaricare la responsabilità del primo focolaio su Roma e a veicolare l’idea che il virus sia stato bio-ingegnerizzato in laboratorio da Washington e poi traghettato silenziosamente nel territorio cinese ai tempi della settima edizione dei Giochi mondiali militari, svoltasi a Wuhan nel mese di ottobre 2019. A Washington, dove è cambiato il presidente, ma non il registro, pur essendo stata messa la parola fine alla campagna contro il “China Virus” lanciata dall’amministrazione Trump, ai servizi segreti è stata affidata la missione di risalire alle vere origini del Covid19 e la teoria del virus uscito dal laboratorio di Wuhan continua a monopolizzare il dibattito pubblico, perché pompata da grande stampa e politici di ogni partito. Da Mosca, dove l’obiettivo era ed è quello di fare leva sui sentimenti vaccinofobici oltreconfine allo scopo di promuovere lo Sputnik V, è partita una campagna disinformativa avente come bersagli i prodotti delle case farmaceutiche euroamericane. E all’interno dell’Unione Europea, vittima inerme dei grandi giochi altrui fino ad un certo punto, media e politici, prevalentemente (ma non esclusivamente) appartenenti alla realtà liberal-progressista, hanno demonizzato lo Sputnik V sin dalla sua registrazione ufficiale e ne hanno sabotato l’ingresso nell’euromercato della sanità.

Il cospirazionismo medico dall’Hiv/Aids ad oggi. Quello che è accaduto nell’ultimo anno e mezzo non è che un déjà-vu, o meglio un déjà-vecu, per coloro che hanno vissuto i tremendi anni Ottanta. Tremendi perché per Europa occidentale e Stati Uniti sarebbero stati il decennio del crack, dell’eroina e, soprattutto, della propagazione di una piaga sconosciuta nota come Hiv/Aids. Invisibile, avvolto da un manto di mistero, letale e particolarmente diffuso all’interno delle comunità afroamericane e omosessuali dell’America, il virus dell’Hiv era tutto ciò che di cui l’Unione Sovietica abbisognava per ammalare di paura e spaesare le società del benessere. E ci sarebbe riuscita. Come? Investendo tre miliardi di dollari l’anno in misure attive (active measures) nell’ambito dell’ipersegreta operazione Infektion, anche nota come operazione Denver. Portata avanti dal Kgb di concerto con la Stasi, l’operazione Infektion nasceva con l’obiettivo di convincere l’opinione pubblica mondiale della natura artificiale dell’Hiv: un’arma biologica, rispondente ad una logica eugenetistica – la purificazione della White America da quei “mali” rappresentati da afroamericani e omosessuali –, che gli scienziati al servizio dello Stato profondo avevano realizzato nei laboratori di Fort Detrick (Maryland) e di cui gli scienziati comunisti, come Jakob Segal, avevano scoperto la vera origine. Dal Secondo Mondo, notoriamente silente e sigillato ermeticamente, si sarebbe originato uno tsunami (dis)informativo a base di articoli di giornale, libri, pubblicazioni (pseudo)scientifiche e dichiarazioni scioccanti provenienti da anonime e improbabili gole profonde, che, alla ricerca di perdono e redenzione per l’enorme crimine perpetrato, avevano deciso di parlare ai microfoni della stampa sovietica. I risultati dell’operazione Infektion si sarebbero manifestati nel breve periodo, come mostrato dallo scoppio di gravi isterie collettive nei luoghi più impensabili, come l’India, e dal supporto dello spazio postcoloniale eurafrasiatico alla tesi cospirativa – il “rapporto Segal” sulle origini artificiali dell’Hiv/Aids fu letto, discusso e distribuito durante l’ottava conferenza del Movimento dei paesi non allineati (Harare, 1986) –, e continuano ad essere visibili ancora oggi: nel 2005, secondo uno studio firmato Rand Corporation e università dell’Oregon, quasi la metà degli afroamericani credeva che l’Hiv fosse di origine artificiale, più di un quarto credeva che fosse stato realizzato in un laboratorio governativo e uno su otto credeva che fosse stato fabbricato e diffuso dalla Cia a scopo genocidario. Le storie di successo delle operazioni psicologiche che ieri accompagnarono la diffusione dell’Hiv/Aids e che oggi stanno accompagnando il Covid19 – senza dimenticare il cospirazionismo di inizio anni Duemila circa le origini della Sars, da taluni ritenuta una bio-arma sviluppata dagli Stati Uniti per rallentare la crescita economica della Cina – ci insegnano e ci dicono qualcosa sulla natura umana: l’arcano affascina, strega e persuade, al di là della sua (in)verosimilità, perciò traviare le masse sarà sempre possibile.

Coronavirus, ecco a quando risale la prima epidemia-Covid: la scoperta che cambia le percezioni. Libero Quotidiano il 26 giugno 2021. Non siamo i primi ad affrontare una pandemia da coronavirus. Stando a una ricerca citata dalla Cnn, questo tipo di virus avrebbe origini molto lontane. Si parla addirittura di millenni fa. Un team di australiani e statunitensi, in particolare, ha trovato prove di un'epidemia di Covid scoppiata più di 20mila anni fa in Asia orientale. Nello studio pubblicato sulla rivista scientifica Current Biology, si legge che i ricercatori hanno studiato i genomi di oltre 2.500 persone provenienti da 26 diverse popolazioni in tutto il mondo. E così hanno individuato la prima interazione del genoma umano con i coronavirus, che ha lasciato impronte genetiche sul Dna delle persone che oggi vivono in Asia orientale. L'autore principale della ricerca, Yassine Souilmi, ha spiegato che "i genomi studiati contengono informazioni evolutive sugli esseri umani risalenti a centinaia di migliaia di anni fa". Gli scienziati hanno trovato questi segnali genetici legati a un coronavirus in cinque diverse popolazioni situate in Cina, Giappone e Vietnam. Analizzando le popolazioni, i ricercatori hanno scoperto che un gruppo infetto ha sviluppato una mutazione benefica che ha contribuito a proteggerli dal coronavirus. Nonostante questa importante e sorprendente scoperta, però, gli scienziati che hanno contribuito allo studio non sanno come i nostri antenati abbiano vissuta la pandemia, soprattutto perché non è chiaro se si sia trattato di un evento stagionale, come l'influenza, o se sia stato piuttosto continuo, come l'attuale pandemia.

Ilaria Capua per il Corriere della Sera il 27 giugno 2021. Credo che sia giunto il momento di passare una lente di ingrandimento su una faccenda che è sulla bocca di molti e nei pensieri di tutti. L’ipotesi che il Sars-coV-2 abbia innescato una pandemia attraverso una falla nel sistema di biosicurezza del laboratorio di Wuhan. Inizio con una evidenza di cui non si parla. Le fughe di laboratorio di virus patogeni si sono verificate da quando esistono i laboratori. Hanno riguardato molti virus umani ed animali. Il caso più misterioso fu l’ultimo caso di vaiolo nel 1978 in Inghilterra. Il vaiolo era stato sostanzialmente eradicato dieci anni prima con un ultimo caso in Somalia e si riteneva ormai una piaga sconfitta. Janet Parker, una fotografa biomedica di Birmingham, lavorava al piano di sotto del laboratorio nel quale si mantenevano ceppi di vaiolo, si infettò, contagiò alcune altre persone e morì. Si suppone che il virus del vaiolo fosse entrato nelle condotte di aerazione, ma ciò non fu provato. Il direttore del laboratorio si suicidò.

Nel 1977 apparve sullo schermo radar dei virologi di tutto il mondo, nonché in alcuni pazienti ammalati, un ceppo influenzale in Russia, la cosiddetta «influenza russa», che è poi risultata essere figlia di un virus manipolato in laboratorio per crescere a temperature più basse, con lo scopo di produrre un vaccino vivo attenuato. 

Nel 2005 - fortunatamente senza alcuna conseguenza - sono stati distribuite dai Cdc americani (Centers for Disease Control and Prevention) 6.000 confezioni reagenti contenenti un virus influenzale H2N2 che non era stato propriamente inattivato, e quindi era potenzialmente infettivo e capace di innescare una pandemia. Un’emergenza sanitaria senza precedenti si è verificata nel Regno Unito nel 2001 in seguito ad una epidemia di afta epizootica che ha causato l’abbattimento di milioni di capi e sconvolto il Paese riempiendolo di pire di carcasse di animali ad unghia fessa. Ebbene pochi anni dopo, un’altra epidemia - di portata minore, ancora in Gran Bretagna - si ritiene sia stata causata da un virus sfuggito alle misure di biosicurezza di laboratorio. Quindi spero di aver fugato ogni dubbio: il rischio zero non esiste neanche qui. Le fughe di laboratorio accadono sia con virus naturali che con virus modificati in laboratorio, ed è anche per questo che dei ceppi virali dei virus eradicati (vaiolo e peste bovina) è stata ordinata la distruzione con l’autoclave. Ma la lente di ingrandimento non mi serviva per convincervi di questo, ma per porre un’altra prospettiva. Per mettere a fuoco un punto nel futuro, quello che riguarda gli esperimenti gain-of-function (GOF). Questi sono esperimenti di manipolazione di laboratorio (non necessariamente genetica) che fanno acquisire (gain) a un virus naturale alcune caratteristiche (function). Per esempio rendere il virus naturale più trasmissibile. Oppure renderlo più invasivo o modificare le sue affinità. Per esempio renderlo «neurotropo» ovvero più efficace a colonizzare il sistema nervoso.

Ecco, di questo tipo di esperimenti e della loro pericolosità si parlò molto nel 2012 in seguito ai risultati di studi condotti in parallelo su virus dell’aviaria H5N1 in Usa-Giappone e nei Paesi Bassi. Furono generate attraverso una serie di manipolazioni genetiche di virus influenzali delle varianti virali altamente patogene e nel contempo molto trasmissibili. Ci si pose allora la domanda se questi studi non dovessero essere sospesi perché troppo rischiosi per la salute pubblica e ne seguì una moratoria che oggi è decaduta e quindi sostanzialmente gli scienziati sono liberi di fare queste ricerche se approvate dalle autorità competenti.

Il nocciolo della questione odierna però non riguarda noi adesso, ma si proietta nei prossimi anni. Il motivo per allungare lo sguardo è perché dobbiamo ricordarci che le tecniche di manipolazione genetica sono sempre più diffuse e semplici da utilizzare. E quindi questo è un problema a cui bisogna pensare in prospettiva. Se non interveniamo adesso, noi potremmo immaginare centinaia se non migliaia di laboratori sparsi per il mondo che conservano e manipolano virus che hanno potenziale pandemico. In questo momento è assolutamente necessario che la società civile e le istituzioni insieme alla comunità scientifica si occupino di questo tema coinvolgendo nel dibattito non solo scienziati ma un arcobaleno di prospettive che vanno dall’etica, al rischio bioterroristico, alle inevitabili fughe di laboratorio - oltre alla sacrosanta libertà di ricerca. Una non banale valutazione costi-benefici.

Dagotraduzione dal Washington Post l'8 luglio 2021. Il contabile ha iniziato a sentirsi male l’8 dicembre 2019. Avrebbe poi detto agli esperti dell’Oms di non aver frequentato il mercato del pesce di Wuhan: gli preferiva un vicino RT-Mart, elegante supermercato a più piani sulla riva orientale del fiume Yangtze. Non tornava neanche da un viaggio. In che modo si era preso quel virus, allora? La ricerca sulle origini del virus si ferma qui, al paziente S01, il primo caso confermato di Covid in Cina, su cui si hanno pochissimi dettagli, tutti inseriti nel rapporto congiunto Oms-Cina pubblicato a marzo. Si sa per certo che S01 non è un pescivendolo, né un cacciatore di pipistrelli, e neanche uno scienziato di laboratorio. Fa il contabile, si chiama Chen ed è solito andare a fare la spesa in un grande supermercato. «Possiamo dire sorprendentemente poco sulle origini della pandemia» ha ammesso Sergei Pond, professore di biologia alla Temple University, che ha analizzato alcune delle prime sequenze genetiche del SARS-CoV-2. «Stiamo osservando pochissime sequenze e stiamo cercando di imparare molto». I dettaglia sono confusi anche per S01, il paziente più esaminato. Il rapporto dell’Oms lo associa a una sequenza campione “EPI_ISL_403928”, che però appartiene a un altro paziente, un lavoratore del mercato di 61 anni morto di shoc settico dopo essersi ammalato il 20 dicembre 2019. Almeno questo dice la China National Center, la banca dati ufficiale sulla bioinformazione. La sequenza campione giusta per S01 sembrerebbe di più quella di un 41enne a cui fu diagnosticato il coronavirus a fine dicembre, un caso che allarmò i medici e spinse Li Wenliang a far trapelare la notizia sui social media. Ma, sempre attingendo al database ufficiale cinese, l’uomo risulta essere stato ricoverato il 16 dicembre. A detta dell’Oms, l’agenzia delle Nazioni Unite sta esaminando la discrepanza. Nonostante sia forte il desiderio di scoprire l’origine della pandemia, spesso gli scienziati impiegano anni per stabilire la provenienza di un virus e il percorso che ha seguito. E l’accesso limitato ai campioni biologici e ai documenti originali concesso dal governo cinese all’Oms e al resto del mondo non aiuta. I ricercatori hanno così raccolto qualche indizio in altri posti nel mondo, tra Milano e Parigi, per ricostruire la dinamica dei fatti nei giorni precedenti alla malattia di S01.

In Europa. Il 5 dicembre 2019, tre giorni prima che S01 manifestasse i sintomi del virus, fu effettuato un tampone orale a un bambino di 4 anni che viveva fuori Milano perché sospettato di aver contratto il morbillo. Mesi dopo, risultò positivo al Covid. Il caso è stato esaminato in uno dei numerosi studi europei sulla circolazione del virus fuori dalla Cina nei giorni e mesi precedenti alla sua scoperta ed è stato pubblicato sulla rivista Emerging Infectious Diseases.

In Francia alcuni ricercatori sostengono di aver trovato tracce di virus anche prima, a novembre 2019. L’Istituto Nazionale francese per la salute e la ricerca, insieme ad altre strutture, ha esaminato retrospettivamente oltre 9.000 campioni raccolti tra novembre 2019 e marzo 2020 per un progetto sulla salute pubblica. Il risultato? «Abbiamo trovato anticorpi nei campioni raccolti la prima settimana di novembre, ma non avevamo soldi a sufficienza per analizzare quelli più vecchi» ha detto Marie Zins, direttore scientifico del progetto. «Peccato, perché a novembre abbiamo avuto sette volontari positivi, di cui due nella prima settimana di novembre». Certo, hanno scritto nello studio, esiste la possibilità di falsi positivi, ma averli sbagliati tutti è altamente improbabile.

Lo studio più controverso è italiano. A novembre alcuni ricercatori hanno scritto in un articolo di aver trovato tracce del virus già a settembre 2019, una scoperta che «potrebbe rimodellare la storia» della pandemia. I campioni di sangue sono stati raccolti nel 2019 per uno screening sul cancro. Li hanno analizzati gli scienziati dell’Istituto dei Tumori di Milano e dell’Università di Siena, scovando tra questi più del 10% di casi con anticorpi contro il coronavirus, tra cui campioni del settembre 2019.

Considerata l’importanza della notizia, l’Oms ha richiesto un nuovo test da parte di un altro laboratorio, nei Paesi Bassi. Il processo si è concluso ma il laboratorio si è rifiutato di fornire dettagli e l’Oms ha rinviato la questione ai ricercatori originali. Giovanni Apollone, direttore scientifico dell’Istituto dei Tumori, ha spiegato che non erano tutti d’accordo su come interpretare i risultati del nuovo test. Apollone ha spiegato che il suo team sta lavorando a un nuovo documento, che uno dei ricercatori olandesi non firmerà.

«Dal nostro punto di vista posso dirvi che i risultati sono favorevoli allo studio originale, ma in uno scenario molto complesso» ha spiegato. Emanuela Montomoli, coature dello studio, ipotizza invece che possa essere circolato un ceppo «meno trasmissibile». Non tutti sono d’accordo sul fatto che un virus possa aver circolato così a lungo inosservato. Altri studi invece dimostrano che è possibile una trasmissione anticipata su piccola scala. È difficile confermare come si sono infettati i primi pazienti. Zins ha detto che, tranne uno, i pazienti con anticorpi in Francia non avevano legami con la Cina. Alcuni funzionari cinesi hanno ipotizzato che il virus sia stato portato in Cina da altri paesi, ma è una teoria che non ha trovato sponde nel resto del mondo. A Wuhan le ricerche ufficiali di pazienti precedenti S01 non hanno avuto successo. Nel rapporto dell’Oms, il governo cinese ha detto di aver controllato dozzine di primi casi sospetti trovandoli tutti negativi. Diversi team scientifici stimano che l'epidemia possa essere iniziata già nell'ottobre 2019. Sarebbe stato facile non vedere i primi casi: la Cina era nel bel mezzo della sua peggiore stagione influenzale da più di un decennio. Le statistiche ufficiali mostrano che a novembre 2019 i casi di influenza in tutta la Cina era cinque volte quelli di un anno prima. A dicembre erano nove volte più alti.

Alcuni chiedono un’’indagine sui Giochi Militari Mondiali. Ma è stato solo uno dei tanti eventi internazionali che si sono svolti quell’inverno a Wuhan, e ognuno è stato un potenziale veicolo di trasmissione e diffusione all’estero del virus. Con i suoi 11 milioni di abitanti, Wuhan ha più residenti di New York.

Nel settembre 2019 Angela Merkel ha visitato Wuhan. A Wuhan si sono poi susseguiti: i Giochi Mondiali Militari, il più grande salone automobilistico asiatico, un forum mondiale di costruttori di ponti, un raduno internazionale di scienze dei materiali e una riunione degli ex studenti dell'Università di Pechino. Il 20 dicembre, quando gruppi di lavoratori del mercato del pesce hanno iniziato ad ammalarsi, il fondatore di Alibaba Jack Ma e il fondatore del marchio di smartphone Xiaomi Lei Jun erano a Wuhan per una conferenza economica.

Ci sono state le prime voci. Una residente di Wuhan, Stella Zhou, ha ricordato al Washington Post di aver sentito parlare di una misteriosa polmonite in un asilo nido l'8 dicembre 2019, lo stesso giorno in cui il paziente S01 si è ammalato e quasi un mese prima dell'annuncio ufficiale. Un altro residente, Zhu Wei, ha detto che alcuni dei primi casi probabilmente non sono stati diagnosticati. «Tutti intorno a me hanno la sensazione che il numero reale fosse molto più alto del conteggio ufficiale», ha detto Zhu. «All'inizio, c'erano molti che non avevano la possibilità di fare il test o non potevano ricevere cure mediche». Il rapporto dell’OMS menziona pazienti sospetti in precedenza, ma afferma che non sono stati resi disponibili per le interviste.

Secondo gli scienziati, a novembre 2019, il coronavirus aveva probabilmente infettato un piccolo numero di persone a Wuhan. La città brulicava di attività, creando percorsi infiniti che un virus poteva percorrere.

Il 2 novembre, una manciata di studenti italiani in scambio si è seduta a una scrivania blu brillante in un'università di Wuhan per cimentarsi con la calligrafia cinese. La settimana successiva, 2.000 persone vestite di "hanfu", gli antichi abiti cinesi fluenti, si sono riunite alla Torre della Gru Gialla per un festival. Più tardi, a novembre, circa 200.000 persone, inclusi visitatori provenienti da 20 paesi, hanno visitato una fiera agricola. Quel mese, uno scienziato cinese per la conservazione della fauna selvatica ha fatto una visita di routine al mercato Huanan che aveva monitorato per due anni e ha confermato che stava ancora vendendo animali selvatici in cattive condizioni igieniche, come scrisse in seguito il suo team sulla rivista Scientific Reports.

E il 19 novembre 2019, l'Istituto di virologia di Wuhan ha tenuto una sessione annuale di formazione sulla sicurezza del personale. Secondo un post sul sito web dell'istituto, il vicedirettore della sicurezza Hu Qian ha discusso dei problemi di sicurezza riscontrati durante gli audit dello scorso anno. La ricerca dell'origine è stata ostacolata da scarse prime informazioni, alcune delle quali inaffidabili o mancanti. Gli archivi online di due giornali statali locali, l'Hubei Daily e il Chutian Metro Daily, non sono più accessibili prima del 5 novembre 2019, secondo i controlli di The Post. L'editore dei giornali non ha risposto a una richiesta di commento. Il biologo Jesse Bloom ha fatto scalpore il mese scorso quando ha annunciato di aver recuperato 13 sequenze genetiche precoci del coronavirus che erano state cancellate da un database dai ricercatori di Wuhan per ragioni sconosciute. «Come scienziati, dobbiamo trovare il modo di ottenere più dati sui primi casi», ha detto. Pond, il professore della Temple University, sostiene che l'articolo di Bloom ha sottolineato quanto pochi dati esistano sui primi giorni della pandemia. Quelle sequenze recuperate colmano alcune lacune nella ricostruzione di come si è evoluto il virus, rafforzando la teoria secondo cui il mercato di Wuhan non era l'unica fonte dell'epidemia, ha spiegato. «Anche solo 13 nuove sequenze, che se ci pensate, sono una piccola quantità, possono modificare in modo abbastanza sostanziale la comprensione dell'origine della pandemia», ha detto Pond.

Tommaso Carboni per lastampa.it il 9 giugno 2021. I laboratori di massima sicurezza, cioè quelli che svolgono le ricerche biologiche più pericolose, si sono moltiplicati in giro per il mondo negli ultimi dieci anni - espandendosi anche in paesi dove gli standard di controllo non sono adeguati. Gli scienziati avvertono che questa proliferazione e l’eventuale fuoriuscita di un agente patogeno rischiano di causare una nuova pandemia. È quanto emerge da un ampio studio condotto da esperti in guerra batteriologica e sicurezza internazionale, di cui ha dato notizia pochi giorni fa anche il Financial Times. Secondo il report, esistono nel mondo (o sono in costruzione e pianificazione) almeno 59 strutture dove si trattano agenti patogeni di rischio 4 - estremamente infettivi e pericolosi per l’uomo. Queste strutture - diffuse in Europa, Nord America, Asia, Australia e in tre paesi africani: Gabon, Costa d’Avorio, Sud Africa – comprendono anche l’ormai notissimo laboratorio di Wuhan, al centro di una nuova inchiesta da parte degli Stati Uniti sulle origini del Covid-19. A dimostrazione della crescita rapida dei laboratori di massima sicurezza c’è un dato incluso nel report: delle 42 strutture BSL-4 di cui si conoscono i dati di progettazione, almeno la metà è stata costruita nell’ultimo decennio. L’altra informazione rilevante è che il 75% dei laboratori è situato in centri urbani. Non tutti però sono attrezzati al meglio per gestire ricerche scientifiche così delicate. Secondo il Global Health Security Index, poco meno di un quarto dei paesi con laboratori che operano al massimo rischio biologico hanno livelli “elevati” di preparazione alla biosicurezza. Circa un terzo, tra cui la Cina, ha livelli "medi", mentre il 41% ha livelli "bassi", come il Sudafrica. È appunto l’inadeguatezza dei controlli a preoccupare gli scienziati. Non è inverosimile, spiegano, che un virus o un batterio pericoloso possano fuoriuscire da laboratori mal sorvegliati e causare un’altra pandemia. Del resto piccoli incidenti capitano anche in strutture gestite a regola d’arte. Dall’ultimo rapporto del Dipartimento della salute degli Stati Uniti è risultato che nel 2019 diverse tossine e altri materiali pericolosi sono stati “smarriti” 13 volte e rilasciati per sbaglio ben 219 volte. Tutto ciò ha costretto almeno mille persone a sottoporsi a visite mediche e assumere farmaci preventivi, anche se poi nessuna di loro si è ammalata. La sorveglianza americana è molto aumentata dopo la crisi dell’antrace del 2001 - quando il batterio, probabilmente trafugato da un laboratorio dell’esercito, provocò la morte di cinque persone. I riflettori oggi sono comunque puntati in gran parte sulla Cina, che negli ultimi anni ha voluto rafforzare molto la sua capacità di ricerca scientifica - e per questo ha costruito nuovi laboratori in cui si studiano e manipolano virus e altri agenti patogeni. Ad esempio: solo nella provincia di Guangdong, il governo vuole inaugurare nei prossimi cinque anni da 25 a 30 laboratori di livello di biosicurezza 3 e un laboratorio BSL-4, cioè di massima sicurezza. I controlli però non sono sempre adeguati. E sono gli stessi funzionari cinesi ad averlo più volte segnalato. Un caso lampante è stato la fuoriuscita di un batterio da un impianto di vaccini a novembre 2019, quindi un mese prima dell’inizio ufficiale della pandemia: più di 6.000 persone nel nord-ovest della Cina si sono contagiate con la brucellosi, una malattia batterica con sintomi vicini all’influenza. Sempre nel 2019, il direttore dell’istituto di virologia di Wuhan, Yuan Zhiming, denunciò apertamente le carenze di sicurezza nei laboratori cinesi. Yuan si lamentava di finanziamenti insufficienti per garantire standard di protezione corretti. Stessa cosa ha fatto Bai Chunli, ex presidente dell’Accademia cinese delle scienze, che in un articolo scritto l’anno scorso ha messo in guardia dalle palesi inadeguatezze dei laboratori cinesi. C’è da dire che Pechino, almeno in parte, ha reagito; con una nuova legge approvata nel 2020 per rafforzare gli standard nazionali di biosicurezza. Ma le attività dei laboratori cinesi, denunciano ancora molti scienziati, restano poco trasparenti. Un esempio su tutti: a gennaio dell’anno scorso, Pechino ha diramato un ordine perentorio a tutte le strutture che trattavano campioni di Sars-Cov-2, stabilendo che prima di rilasciare qualsiasi informazione sul virus sarebbe stato necessario il permesso del governo centrale. Questo tipo di segretezza rende difficile capire quanto siano sicure le strutture cinesi. "Quello che abbiamo visto finora in relazione all’Istituto di virologia di Wuhan è un laboratorio che non è aperto e trasparente sul tipo di lavoro che sta facendo", ha detto Filippa Lentzos, docente al King’s College di Londra (uno degli autori dello studio citato dal Financial Times). 

Dagotraduzione dal Sun il 29 giugno 2021. I ricercatori di Drastic, un team internazionale di scienziati e investigatori che tenta di trovare riposte sulle origini del Covid, hanno rivelato che pochi mesi prima che il virus del Covid iniziasse a diffondersi in tutto il mondo, un’ispezione dei laboratori dell’Università di Wuhan ha mostrato stanze piene di «detriti», studenti privi di camici e nessuna norma di igiene e sicurezza. Il rapporto, scoperto dai ricercatori di Drastic, denunciava come non ci fossero strutture per rifiuti chimici e nessuna separazione tra le aree sperimentali e quelle comuni, con il rischio di contaminazioni. I laboratori erano «affollati e caotici» hanno scritto gli ispettori. L'Istituto di virologia di Wuhan (WIV) è al centro di una tempesta da quando il Covid è emerso per la prima volta a pochi passi dalla struttura, famosa per i suoi studi sui virus dei pipistrelli molto simili. Gli errori di biosicurezza che durano da oltre 40 anni hanno anche portato alcuni a mettere in discussione la linea ufficiale cinese secondo cui la malattia è stata trasmessa dagli animali agli umani. E ora un esame dettagliato di una serie di altri laboratori a Wuhan che effettuano ricerche sul coronavirus sui pipistrelli ha rivelato un catalogo di errori scioccanti. I ricercatori di Drastic hanno scoperto che presso il vicino Wuhan Institute of Biological Products i sistemi fognari e di drenaggio erano vecchi e danneggiati, «e potrebbero contaminare canali e torrenti locali». Un'offerta di China Testing Network nel 2019 diceva: «Alcune delle attrezzature e delle strutture sono vecchie e la strumentazione e le funzioni di controllo nella stazione sono state danneggiate, il che ha notevolmente influenzato il normale funzionamento». I ricercatori hanno anche rivelato le enormi dimensioni del centro di sperimentazione animale presso il WIV, dove sono cresciuti i sospetti sulle origini della pandemia: contiene 3.268 gabbie di animali vivi, tra cui 12 gabbie per furetti e 12 gabbie per pipistrelli. Il rapporto, che è lungo 60 pagine, spiega non solo l’Istituto di Virologia, ma tutti i laboratori di Wuhan dovrebbero essere esaminati alla caccia delle origini del virus. 

Wuhan: la virologa australiana che smentisce l'intelligence Usa. Piccole Note il 28 giugno 2021 su Il Giornale. Danielle Anderson, virologa australiana che ha lavorato al laboratorio di Wuhan, ha rilasciato un’intervista di grande interesse a Bloomberg, dal momento che quanto afferma smentisce la teoria che il virus sia fuoriuscito dal bio-laboratorio cinese. Dichiarazioni troppo controcorrente, quelle della Anderson, che la rivista Usa si è premunito di attutire nella stesura del pezzo. Ciò si rileva fin dall’incipit dell’articolo, quando nell’articolo si legge che ha lavorato nel biolab fino “a poche settimane prima che emergessero i primi casi noti di Covid-19 in Cina”. In realtà, la Anderson ha finito il suo lavoro a Wuhan a “novembre 2019”, cioè proprio quando, secondo la teoria di cui sopra, il virus sarebbe fuoriuscito dal biolab, dato che i primi casi di coronavirus rilevati a Wuhan risalgono al 17 novembre 2019, tempistica che va però anticipata se si tiene presente che ancora non si è trovato il paziente zero. La Anderson ha riferito a Bloomberg che “nessuno di quelli che conosceva all’istituto di Wuhan era malato verso la fine del 2019”. Una frase che l’articolo lascia scivolare via così, ma che invece ha importanza capitale, dato che l’intelligence Usa ha dichiarato che alcuni dossier in suo possesso rivelerebbero che tre medici di Wuhan si sono ammalati poco prima della pandemia, cioè mentre la Anderson lavorava nel biolab.

L’intelligence Usa smentita. Smentita secca, insomma, della “pistola fumante” brandita dall’intelligence Usa e ripresa come un dogma da tutti i media mainstream. Non solo la smentita, va da sé che tale rivelazione getta un’ombra su tutta questa operazione di colpevolizzazione del biolab di Wuhan, dato che l’intelligence Usa avrebbe potuto constatare facilmente la falsità dei dossier, se solo si fosse presa la briga di interpellare la Anderson prima di rivelarne il contenuto. Impossibile, infatti, che le Agenzie Usa non sapessero che la Anderson aveva svolto tale lavoro, basti pensare a come abbiano tempestivamente arrestato uno scienziato americano che lavorava a Wuhan in quel lasso di tempo, il dottor Charles Lieber, accusato di avere “tradito” la patria. Così è legittimo reputare che le Agenzie Usa non si siano nemmeno presi la briga di cercare riscontri ai suoi dossier, per paura che fossero smentiti prima ancora che producessero l’effetto desiderato, cioè costringessero Biden a far ripartire un’indagine sul biolab di Wuhan proprio mentre la stava chiudendo (Piccolenote). Insomma, un avvio “politicizzato” dell’inchiesta sulle origini del coronavirus, con prospettive che non lasciano ben sperare. E ciò sulla pelle delle tante vite distrutte dal coronavirus: non solo le vittime del morbo, ma anche le moltitudini alle quali il virus ha devastato la vita, chi più chi meno.

Smentita e fuga. Peraltro, la dichiarazione della Anderson non è voce dal sen fuggita, dato che nel prosieguo dell’intervista rilasciata a Bloomberg rimarca tale circostanza. “Se si fossero ammalate delle persone, presumo che sarei stata infettata, e non lo ero”, ha detto. “Sono stato testata per il coronavirus a Singapore prima di essere vaccinata e non l’avevo mai avuto”. “Non solo, molti dei collaboratori di Anderson a Wuhan sono andati a Singapore alla fine di dicembre per un convegno sul virus Nipah. E non c’era nessuna notizia su una qualche malattia che stesse dilagando nel laboratorio”. “Non c’erano dicerie su questo”, ha detto Anderson. Eppure “gli scienziati erano ciarlieri ed eccitati. A mio avviso non c’era niente di strano, che cioè potesse far pensare che stava succedendo qualcosa” nel laboratorio. Peraltro, in un altro punto dell’intervista, parlando della convivenza con i suoi colleghi, la Anderson racconta che mentre si trovava a Wuhan “siamo andati a pranzi e cene insieme, ci siamo visti anche fuori dal laboratorio”…  e nessun contagio registrato (da rimarcare, se si pensa alle misure draconiane imposte al mondo per non diffondere il virus…). Smentita su tutta la linea, dunque, della teoria del virus sfuggito dal biolab. A questo punto, però, Bloomberg, il cronista o l’editore che sia, evidentemente ha compreso di rischiare di urtare suscettibilità, così fa dire alla Anderson che non può escludere che in effetti il virus possa essere stato creato a Wuhan, anche se la virologa insiste sul fatto che lo ritiene un’ipotesi remota.

La sicurezza del Biolab di Wuhan. Anche perché, la Anderson spiega nel dettaglio le norme di sicurezza del biolab, affermando che erano talmente rigorose da pensare di riprodurle nel suo laboratorio…La Anderson, infatti, spiega che, essendo il biolab di Wuhan tra i pochi accreditati al massimo livello di sicurezza, “richiede che aria, acqua e rifiuti vengano filtrati e sterilizzati prima di lasciare la struttura. C’erano protocolli e requisiti rigorosi volti a contenere i patogeni studiati e i ricercatori dovevano fare 45 ore di formazione prima di essere autorizzati a lavorare in modo indipendente in laboratorio”. “Entrare e uscire dalla struttura era attentamente monitorato. L’uscita era particolarmente complessa a causa dell’obbligo di fare sia una doccia chimica che una doccia personale, con tempi pianificati con estrema precisione”. “Il laboratorio di Wuhan utilizza un metodo ad hoc per produrre e monitorare quotidianamente i suoi disinfettanti, un sistema che la Anderson ha pensato di introdurre nel suo laboratorio. [Durante il lavoro, inoltre] È stata collegata tramite un auricolare ai colleghi del centro di comando del laboratorio, cosa che consentiva una comunicazione costante e una vigilanza sulla sicurezza, protocolli ideati per garantire che nulla andasse storto”.

(ANSA il 24 giugno 2021) - Secondo lo studio pubblicato da Jesse Bloom del Fred Hutchinson Cancer Research Center, che ha identificato dei dati che contengono sequenze del virus SarsCov2 risalenti all'inizio dell'epidemia a Wuhan, rimosse deliberatamente dall'archivio delle sequenze del National Institute of Health americano, il mercato del pesce non sarebbe stato il luogo di inizio dell'epidemia. Il ricercatore precisa infatti che nei campioni di virus SarsCov2 raccolti in alcuni malati, collegati al mercato del pesce di Wuhan, ci sono tre mutazioni che invece sono assenti dalle sequenze di coronavirus da lui ricostruite o nei "cugini" del virus più simili al SarsCov2, scoperti dall'Istituto di virologia di Wuhan nei pipistrelli nel 2013. Quindi le sequenze su cui si è concentrato il rapporto congiunto Oms-Cina "non sarebbero completamente rappresentative dei virus che si trovava a Wuhan all'inizio dell'epidemia". Secondo Bloom un gruppo di ricercatori cinesi avrebbe raccolto campioni di virus dai primi malati di Covid a Wuhan, pubblicato le sequenze virali sulla banca dati americana Sequence Read Archive, poi rimosse qualche mese dopo "per oscurarne l'esistenza". Bloom dice di aver chiesto ai ricercatori cinesi dell'ospedale universitario Renmin di Wuhan il perché della rimozione dei dati dal database americano, senza però ottenere risposta, mentre il Nih ha appena pubblicato una dichiarazione in cui spiega che le sequenze sono state rimosse su richiesta del ricercatore cinese, che aveva spiegato che le informazioni sulle sequenze erano state aggiornate e sarebbero state pubblicate su un'altra banca dati. Per alcuni ricercatori, si legge sul sito di Science, queste affermazioni rinforzano i sospetti sul fatto che la Cina abbia qualcosa da nascondere sulle origini della pandemia, mentre per molti altri fanno molto rumore per nulla, perché i ricercatori cinesi hanno pubblicato più tardi le informazioni sul virus in una forma diversa, e le sequenze di virus ora recuperate aggiungono ben poco a ciò che già si sa sulle origini di questo coronavirus. Lo stesso Bloom ammette che queste nuove sequenze virali sono un piccolo tassello di un puzzle molto più grande ancora non terminato, ma senz'altro aggiungono "prove ulteriori che il virus sta circolando a Wuhan prima di dicembre".

F. Mal. Per "il Messaggero" il 25 giugno 2021. Partiamo dalla fine: «Serviranno ulteriori studi». Per cui è presto per sentenze definitive. Torniamo poi all'inizio per capire come, pur senza avere ancora certezze, i già complessi studi sull'origine del Sars-Cov-2 da qualche giorno siano diventati ancora più intricati. Un ricercatore americano infatti, Jesse Bloom del Fred Hutchinson Cancer Research Center, ha identificato dei dati che contengono 13 sequenze del virus risalenti all'inizio dell'epidemia a Wuhan deliberatamente nascoste. Bloom, che studia l'evoluzione del virus fin dall'inizio dell'emergenza, alcune settimane fa si è accorto che un set di dati contenente sequenze di Sars-CoV-2 è stato cancellato dall'archivio di lettura della sequenza dei National Institutes of Health. Un «fatto misterioso» che lo spinge prima a mettersi sulle loro tracce e a riuscire a recuperare i file cancellati (da Google Cloud, il sistema di archiviazione digitale usato dall'ente) e poi a «ricostruire sequenze parziali di 13» dei primi campioni del virus. Un'operazione di per sé difficile nella sua accuratezza che il ricercatore racconta in un articolo scientifico su Biorxiv (un sito che raccoglie documenti non ancora vagliati dalla comunità scientifica) e anche all'autorevole rivista Science, sottolineando però come la sparizione dei dati sia solo l'inizio della sua indagine.

LA RICOSTRUZIONE Ricostruite le 13 sequenze infatti, Bloom si accorge che i primi virus studiati dall'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) non sarebbero pienamente rappresentativi di tutti i ceppi virali in circolazione in quei primi mesi. «L'analisi filogenetica di queste sequenze» cancellate «nel contesto di dati esistenti accuratamente annotati suggerisce che le sequenze del mercato dei frutti di mare di Huanan che sono al centro del rapporto congiunto Oms-Cina non sono pienamente rappresentative del virus che circolava a Wuhan all'inizio dell'epidemia. Invece, il progenitore delle sequenze conosciute di Sars-CoV-2 conteneva probabilmente tre mutazioni relative al virus del mercato, che lo rendevano più simile ai parenti' coronavirus del pipistrello». In altre parole le indagini sull'origine del virus sarebbe state in qualche modo depistate. Attenzione però. Come chiarisce lo stesso ricercatore, nelle sue analisi non c'è alcune prova che questo sia derivato da un incidente in laboratorio piuttosto che per zoonosi (le malattie trasmesse dagli animali all'uomo), ma getta qualche ombra sul fatto che la Cina abbia collaborato appieno per ricostruire l'origine del virus. Eppure «i campioni dei primi pazienti ambulatoriali a Wuhan sono una miniera d'oro per chiunque cerchi di capire la diffusione del virus», ha spiegato Bloom nel suo paper. Aggiungendo poi che capire cosa è successo nella metropoli del gigante asiatico dove ha fatto la sua prima comparsa il patogeno «è fondamentale per tracciare le origini del virus, compresa l'identificazione degli eventi che hanno portato all'infezione del paziente zero». Non solo. Le sequenze ricostruite dallo studioso americano dimostrerebbero anche «che il virus probabilmente circolava a Wuhan prima di dicembre e che quindi abbiamo un quadro non completo delle sequenze dei primi virus». Un orizzonte parziale dettato però non dalla poca disponibilità di informazioni ma, come rivela il Wall Street Journal, proprio da una decisione cinese. Le sequenze genetiche dei primi casi di Covid-19 infatti, registrate su un database Usa da un ricercatore cinese, sarebbero state eliminate poi su sua richiesta. Il National Institutes of Health ha infatti confermato che «chi ha i diritti sui dati può legittimamente chiederne il ritiro».

COLPO DI SCENA Un colpo di scena (o forse di spugna) che però, rivela ora come una grossa parte di ciò che si è supposto fino ad oggi potrebbe basarsi su presupposto sbagliati. «Per semplificare al massimo una cosa complicatissima - ha spiegato su Twitter il virologo Roberto Burioni - se SARS-CoV-2 deriva da un passaggio naturale dal pipistrello all'uomo i virus isolati dai primi pazienti devono essere più simili a quelli del pipistrello rispetto a quelli isolati più avanti. Non è certo che sia così». In pratica, come conclude Bloom ma anche Burioni, «è assolutamente indispensabile una inchiesta indipendente che faccia luce in maniera definitiva sull'inizio della pandemia».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 18 giugno 2021. C’è una nuova teoria alla base del cambio di teorie sulle origini del coronavirus di Joe Biden. Secondo il sito Spy Talk Dong Jingwei, vice ministro cinese con un passato nei servizi segreti di Pechino, sarebbe fuggito insieme alla figlia di 10 anni dalla Cina per rifugiarsi negli Stati Uniti. L’alto funzionario avrebbe portato con sé le prove che il virus ha avuto origine nel laboratorio di Wuhan. Se la voce fosse confermata, Dong sarebbe il disertore più alto in grado mai scappato dalla Cina. Secondo quanto riportato, Dong avrebbe informato i funzionari statunitensi sull’istituto di virologia di Wuhan, e queste informazioni potrebbe aver costretto Biden a rivedere seriamente la teoria della fuga di laboratorio, a lungo derisa come l’ennesima uscita infelice di Trump. Dong è stato fotografato online e, anche se non tutte le immagini corrispondono, ce n’è una che continua a spuntare pubblicata dal dottor Han Lianchao, un ex funzionario del ministero degli Esteri cinese che ha disertato dopo il massacro di piazza Tiananmen del 1989. Han dice che Pechino ha inviato suoi delegati per incontrare il segretario di Stato americano Anthony Blinken a marzo e discutere della restituzione di Dong. Il ministro degli esteri cinese e il capo degli affari esteri del Partito comunista cinese hanno chiesto agli americani di restituire Dong durante l'incontro in Alaska. Secondo Han Blinken avrebbe rifiutato. «Ha lavorato a stretto contatto con Zhang Yue, che ora sta scontando 15 anni di reclusione per corruzione», ha detto Han. «Zhang era un confidente di Ma Jian, ex vice ministro esecutivo di MSS, anche lui in prigione per corruzione». Dong «è stato visto l'ultima volta in pubblico nel settembre 2020», ha detto Han. Le affermazioni di Han sono impossibili da verificare, ma è conosciuto come per essere una persona che «non esagera in alcun modo o forma, fidato per la sua integrità», dice Nicholas Eftimiades, ex esperto del Pentagono, del Dipartimento di Stato e della CIA. Secondo il sito web conservatore Red State, «le fonti affermano che il livello di fiducia nelle informazioni del disertore ha portato a un'improvvisa crisi di fiducia nel dottor Anthony Fauci. Inoltre il personale dell'Istituto di ricerca medica delle malattie infettive dell'esercito americano (USAMRIID) ha confermato dettagli molto tecnici di informazioni fornite dal disertore». Spy Talk ha anche citato la newsletter di Parigi Intelligence Online secondo cui Dong è «vicino a» Xi Jinping, il presidente cinese. «In precedenza era a capo del Guoanbu (ministero della sicurezza) nella regione dell'Hebei, che ha prodotto molti dei securocrati di Xi», spiegava la pubblicazione nel 2018.   

Nuovo colpo di scena sulle origini del Covid: scienziato recupera 13 sequenze del virus archiviate prima del dicembre 2019. Federico Rampini su La Repubblica il 24 giugno 2021. I codici erano stati raccolti da un team medico cinese prima della comparsa ufficiale del coronavirus a Wuhan, poi però qualcuno li ha fatti sparire. Uno ricercatore le ha ritrovate su Google Cloud e ora la scoperta può aiutare a fare luce sulle origini della malattia. Un nuovo colpo di scena potrebbe aiutare a fare luce sul mistero delle origini del Covid. Un ricercatore ha ritrovato nella “nuvola digitale” di Google tredici sequenze genetiche del Covid che erano scomparse da un archivio scientifico. L’autore della scoperta, Jesse D. Bloom, ha pubblicato il resoconto del suo lavoro sul server scientifico bioRxiv del Cold Spring Harbor Laboratory.

Mirko Molteni per “Libero quotidiano” il 20 giugno 2021. Il mistero delle origini della pandemia di Covid-19 assume ogni giorno di più i connotati di una spy -story. Ieri è emerso infatti che la recente decisione del presidente americano John Biden di indagare sulla probabile fuga del virus dai laboratori cinesi di Wuhan sarebbe dovuta alle rivelazioni di una superspia cinese fuggiasca, che perdipiù sarebbe il maggior disertore della storia della Cina, nientemeno che il vicecapo del controspionaggio, Dong Jingwei. Una notizia nella notizia, poiché la fuga in America di Dong sarebbe avvenuta già quattro mesi fa, ma sia Pechino sia Washington l'hanno finora tenuta nascosta. Secondo indiscrezioni della testata Spytalk, rilanciate dal giornale britannico Daily Mail, Dong Jingwei, insieme a sua figlia Dong Yang, avrebbe lasciato la Cina fin dal 10 febbraio scorso, scappando negli Stati Uniti via Hong Kong. Dong, 57 anni, ricopriva dall' aprile 2018 la carica di vicemini stro della Sicurezza di Stato. Era insomma il numero due del controspionaggio cinese, subito dopo il ministro Chen Wenqing. Nel regime cinese il ministero della Sicurezza non è altro che il servizio di controspionaggio interno, detto Guoanbu. È simile, nelle funzioni, all' FBI statunitense, ma probabilmente è assai più potente del "Bureau" americano, avendo appunto una struttura ministeriale. I cinesi hanno evitato di denunciare in pubblico la fuga di Dong, aiutati in ciò dal bassissimo profilo solitamente tenuto dal funzionario d' intelligence, che non si faceva vedere in pubblico dal 2020. Il 18 marzo, al vertice diplomatico Usa -Cina di Anchorage, in Alaska, la delegazione cinese guidata dal ministro degli Esteri Wang Yi aveva chiesto al segretario di Stato Anthony Blinken la riconsegna del fuggitivo, ma lo aveva fatto a porte chiuse, senza in formare la stampa. L'America ovviamente ha rifiutato, assicurando a Dong la protezione dei propri agenti segreti e interrogandolo sull' origine del Covid-19. In particolare, sarebbe stata la divisione medica dell'esercito Usa, la U.S. Army Medical Research Institute of Infectious Diseases, a verificare e corroborare le soffiate di Dong sulla fuga del virus dai laboratori di Wuhan. Tale testimonianza ha quindi spinto Biden il 26 maggio a mobilitare Cia ed Nsa affinché indaghino sulla fuga del virus. La Casa Bianca ha dato novanta giorni ai suoi 007 per completare il rapporto che dovrebbe inchiodare Pechino alle sue responsabilità, già dimostrate dalle sue bugie e anche dal video mostrato il 15 giugno da Sky News Australia che provava l'uso di pipistrelli vivi per gli esperimenti virologici a Wuhan.

Da tg24.sky.it il 15 giugno 2021. L'Istituto di Virologia di Wuhan ha tenuto pipistrelli vivi in gabbia. Lo rivela SkyNews Australia in base a un inedito filmato, di cui è entrata in possesso, girato all'interno della struttura. Immagini che smentirebbero la versione dell'Oms che aveva bollato l'ipotesi come "cospirazionismo". SkyNews Australia precisa che si tratta del video ufficiale - in cui si vedono addetti che nutrono i pipistrelli - dell'Accademia cinese delle scienze, girato in occasione del lancio del laboratorio di biosicurezza nel maggio del 2017. Il filmato di 10 minuti, intitolato "Il team di costruzione e ricerca del laboratorio Wuhan P4 dell'Istituto di virologia di Wuhan, Accademia cinese delle scienze", celebra il completamento della struttura e presenta interviste con i suoi principali scienziati del laboratorio di livello 4, il più alto in termini di sicurezza mai realizzato in Cina, grazie al sostegno della Francia. Si parla di precauzioni "di massima sicurezza" in atto in caso di "incidente" e degli "intensi scontri" con il governo di Parigi durante la sua costruzione. Il rapporto dell'Oms sull'origine della pandemia non ha citato la presenza di pipistrelli all'Istituto della città dove per primo è stato registrato il Covid-19, mentre negli allegati c'è stata la menzione della possibilità di ospitare gli animali. "La stanza nella struttura P4 può gestire una varietà di specie, incluso il lavoro sui primati con SARS-CoV-2", si legge. Lo zoologo Peter Daszak, che ha fatto parte della missione Oms a Wuhan, ha affermato che era una cospirazione suggerire che i pipistrelli fossero allevati all'Istituto di Virologia. In un tweet di dicembre 2020 scrisse che "nessun pipistrello è stato inviato al laboratorio di Wuhan per l'analisi genetica dei virus raccolti sul campo: raccogliamo campioni di pipistrelli, li inviamo al laboratorio. RILASCIAMO i pipistrelli dove li catturiamo!". Questo mese, Daszak è sembrato ritrattare, ammettendo che l'Istituto potrebbe aver ospitato pipistrelli e di non averlo mai chiesto. Daszak è stato aspramente criticato per gli stretti rapporti con Shi Zhengli, la 'Bat Woman" dell'Istituto, nota per aver raccolto oltre 15.000 campioni di virus da pipistrelli.

Pipistrelli a Wuhan: il video che imbarazza l'Oms. Francesca Galici il 14 Giugno 2021 su Il Giornale. Un video girato nell'istituto di virologia di Wuhan mostra pipistrelli vivi tenuti in gabbia e potrebbe mettere in imbarazzo l'Oms sul coronavirus. Un nuovo video imbarazza l'Oms. Ritrae alcuni pipistrelli vivi tenuti in gabbia in un laboratorio di Wuhan, città che il mondo ha imparato a conoscere un anno e mezzo fa perché si ritiene che da qui sia partita la pandemia di coronavirus. Il breve filmato è stato girato all'interno della struttura e diffuso in esclusiva di Sky News Australia. Questo video sembra smentire quanto dichiarato fin qui dall'Oms, che ha sempre bollato come "complottistica" la tesi di una fuga del virus da un laboratorio della metropoli. È giusto precisare che il video, realizzato dall'Accademia cinese delle scienze in occasione dell'avvio del nuovo laboratorio di biosicurezza di livello 4, è stato registrato nel maggio del 2017 e non a ridosso dello scoppio dell'epidemia mondiale di coronavirus. Il fulcro del filmato sono le disposizioni di sicurezza da attuare nel caso in cui fosse accaduto un "incidente" all'interno del laboratorio. Sempre nel video, si dice che che ci sono stati "intensi scontri" con il governo francese durante la costruzione del laboratorio. La clip mostra uno degli scienziati dell'istituto di virologia che nutre alcuni pipistrelli in gabbia con un verme. La presenza degli animali all'interno del laboratorio, quindi, è certificata dal filmato del 2017 ma nei rapporti stilati dall'Oms, che indaga sull'origine della pandemia, non è stata fatta menzione ai pipistrelli all'interno dell'Istituto di virologia di Wuhan, se non in un allegato: "Il locale per gli animali nella struttura P4 può gestire una varietà di specie, compreso il lavoro sui primati con SARS-CoV-2". Il video riapre la questione sulla possibilità che il coronavirus derivi da una manipolazione genetica e/o da una fuga dal laboratorio di Wuhan. Lo zoologo Peter Daszak, che fa parte del team che indaga sull'origine della pandemia, ha affermato che "è una cospirazione suggerire che i pipistrelli fossero allevati nell'Istituto di virologia di Wuhan". In un altro tweet, postato l'11 dicembre 2020, lo stesso dichiarava: "Questa è una teoria del complotto ampiamente diffusa. Non hanno pipistrelli vivi o morti al loro interno. Non ci sono prove da nessuna parte che ciò sia accaduto. È un errore che spero venga corretto". Nelle ultime settimane, però, Peter Daszak ha parzialmente modificato le sue affermazioni, ammettendo che l'Istituto potrebbe aver ospitato pipistrelli e di non aver formalizzato richieste specifiche relative al tema.

Alessandra Rizzo per “la Stampa” l'11 giugno 2021. Un' indagine nuova e trasparente per accertare l'origine del virus che ha causato oltre tre milioni e 700 mila morti e paralizzato il mondo. Che sia trasmissione animale o fuga da laboratorio, i leader dei grandi Paesi vogliono vederci chiaro, e dal vertice G7 mandano un messaggio alla Cina. «Il mondo ha il diritto di sapere cosa è successo», ha detto il presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, alla vigilia dell'incontro. Dalla riunione dei leader del G7 che si apre oggi in Cornovaglia, la prima «in presenza» dell'era Covid, arriva anche la promessa di donare un miliardo di dosi di vaccino al resto del mondo entro il prossimo anno. L' origine del coronavirus non è ancora stata chiarita. L' ipotesi più probabile resta quella di una trasmissione da animale a uomo, forse da un pipistrello nel mercato di Wuhan, la città da cui è partita la diffusione. Ma la possibilità di una fuga accidentale da un laboratorio, inizialmente liquidata come teoria complottista priva di fondamento, ha di nuovo preso piede. I leader del G7, su spinta del presidente Usa Joe Biden, chiederanno che la nuova indagine sia condotta dall' Organizzazione Mondiale della Sanità, stando alla bozza del comunicato finale citata dall' agenzia Bloomberg e da fonti del vertice. La richiesta di un'indagine «trasparente, basata sui dati e priva di interferenze» verrà ribadita anche al vertice Ue-Usa che si terrà la settimana prossima a Bruxelles. L' Oms, che nei mesi scorsi aveva già condotto un'indagine in Cina, aveva allora concluso che l'ipotesi di fuga fosse «altamente improbabile». Ma gli esperti non avevano avuto accesso al laboratorio di Wuhan e ai relativi dati. «È necessario che chi conduce l'inchiesta abbia pieno accesso a dati e luoghi», ha detto la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen. La Cina, che ha negato l'ipotesi della fuga e offerto finora modesta cooperazione, difficilmente acconsentirà alla richiesta di trasparenza. Ma per Biden, che sull' origine del virus ha già ordinato un rapporto dell'intelligence Usa e che con Pechino tiene una linea dura, è comunque un successo diplomatico. Altri temi sul tavolo dei leader di Italia, Regno Unito, Usa, Francia, Germania, Canada e Giappone riuniti nella piccola località balneare di Carbis Bay sono il cambiamento climatico, il quadro economico, tra segnali incoraggianti per le loro economie, e il tema del lavoro. Ma è inevitabile che sia la pandemia il tema dominante. Il padrone di casa Boris Johnson ha chiesto ai leader di «vaccinare il mondo» entro il 2022, nella consapevolezza che nessun Paese sarà completamente al sicuro dal virus finché non lo saranno tutti. L' impegno del vertice è per un miliardo di dosi entro il 2022. Biden ha già promesso l'acquisto di 500 milioni di dosi del vaccino Pfizer per i Paesi più poveri. Una promessa, al costo di tre miliardi e mezzo di dollari, che fa degli Usa «l'arsenale dei vaccini per combattere il Covid in tutto il mondo», ha detto. L' Italia aveva già annunciato un contributo aggiuntivo di 300 milioni di euro a favore del Covax, l'alleanza globale dei vaccini, e la disponibilità a donare 15 milioni di dosi. Niente sospensione dei brevetti dei vaccini invece: la Germania si oppone, e anche l'Ue è scettica. («Non è la panacea», ha detto Michel). Ma piccole divergenze a parte, i lavori del vertice, senza Trump e con un Biden multilateralista, si aprono all' insegna di un rinnovato impegno all' unità.

Coronavirus, il report con cui l'Europa può inchiodare la Cina: "La prova nei campioni di sangue, da quando circolava il Covid". Libero Quotidiano il 12 giugno 2021. Continuano le indagini per scoprire l'effettiva origine del Coronavirus. Durante il G7 in Cornovaglia, l'Unione europea si è allineata con gli Usa, nell'intento di ricostruire tutte le tappe che hanno portato alla pandemia. Quanto questa presa di posizione abbia realmente a cuore la scoperta della verità, o sia semplicemente una mossa nello scacchiere politico, resta ancora, come in fin dei conti anche l'origine del Covid, un dubbio. "È della massima importanza sapere quale sia l'origine del coronavirus" ha dichiarato la presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen unendosi al coro rilanciato dal presidente americano Joe Biden. Ad essere sulla stessa linea per cui Donald Trump era stato dileggiato solo un anno fa, anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel: "Serve piena trasparenza... Sosteniamo tutti gli sforzi tesi a fare chiarezza: il mondo ha diretto di sapere che è successo". A spiegare gli intrecci politici legati alla questione, Francesco Sisci, sinologo e professore di geopolitica all'Università Luiss: "Questo G7 potrebbe segnare l'inizio della svolta. Il retropensiero cinese è che l'America sia in declino, mentre queste iniziative potrebbero segnalare che l'America si era in qualche modo addormentata per un po' e adesso torna" ha commentato Scisci a il Giornale. La reale origine del virus non è mai stata realmente chiarita dal mondo scientifico. Da un lato l'ipotesi di un’evoluzione naturale, caratterizzata da un "salto di specie", per esempio da un pipistrello o da un altro animale non ancora identificato. Dall'altro invece la possibile fuoriuscita del virus dal laboratorio di Wuhan. Per ora l'unica certezza è che il virus sia partito proprio dalla città più popolosa della provincia di Hubei. Gli esiti delle indagini del team inviato a Wuhan dall'Oms, e che ha fatto ritorno lo scorso febbraio praticamente a mani vuote, hanno ulteriormente alimentato i dubbi intorno al coinvolgimento del laboratorio. Ora servono quindi nuovi test e per metterli in pratica l'Oms ha scelto il laboratorio dell'Università Erasmo di Rotterdam. Gli autori dello studio sono: Emanuele Montomoli, professore di Sanità pubblica al Dipartimento di Medicina molecolare dell'Università di Siena, insieme a Giovanni Apollone, direttore scientifico dell'Istituto Tumori di Milano. "Dalla nostra ricerca emerge che nell'ottobre 2019 c'erano già soggetti che presentavano gli anticorpi al virus - spiega Montomoli -. I campioni di sangue erano stati prelevati da pazienti in cura all'Istituto tumori di Milano. Questo studio ci permette di ipotizzare che il virus sia stato in circolazione da parecchio tempo prima e che, mutazione dopo mutazione, abbia trovato quella adatta a farlo diffondere come l'abbiamo conosciuto noi". "Quando abbiamo pubblicato il nostro lavoro sull'Int Tumori Journal si è scatenato un putiferio" racconta Montomoli "Ora siamo a un punto fermo perché l'Università di Rotterdam non vuole pubblicare i risultati perché ritiene troppo categorico e forte dover affermare che il virus circolava già a ottobre". 

Cosa potrebbe emergere dalle indagini sul laboratorio di Wuhan. Federico Giuliani su Indide Over l'8 giugno 2021. Le indagini sulle origini del Sars-CoV-2 sono ferme ormai da mesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), dopo aver formulato quattro ipotesi, compresa l’eventuale fuga del virus dal laboratorio di Wuhan, e aver comunque lasciato aperta ogni possibilità, non ha più battuto ciglio. Al tempo stesso, istituzioni e media americani sono tornati a parlare con insistenza della teoria della fuoriuscita accidentale del patogeno dal Wuhan Institute of Laboratory (WIV). Che la mossa di Washington faccia parte di una strategia politica di Joe Biden per mettere sotto pressione la Cina, sia effettivamente basata su informazioni riservate collezionate dall’intelligence statunitense o che si tratti semplicemente di indiscrezioni non supportate da solide controprove, tanto è bastato per (ri)accendere i riflettori sul laboratorio.

Una nuova prospettiva. Eppure, da qualunque prospettiva si guardi, la vicenda mostra evidenti zone d’ombra. Lasciando perdere per un momento il punto interrogativo più grande, ovvero l’origine del Sars-CoV-2, vale la pena chiedersi se ci sia altro da scoprire. Ad esempio: che cosa si studiava all’interno del WIV? A quanto pare, ricerche sui coronavirus anche mediante l’attuazione di studi gain-of-function. Questi ultimi, come hanno sottolineato i media statunitensi, sono gli stessi effettuati in alcuni laboratori americani. Gli stessi, tra l’altro, che sarebbero stati finanziati da una ong Usa, la EcoHealt Alliance di Peter Daszak. Dunque, al netto dell’ipotetica fuga del patogeno dal laboratorio, ci sarebbe un sottile filo rosso che unirebbe laboratori e strutture dislocati da una parte all’altra dell’emisfero. Un filo rosso che nessuno sembra essere intenzionato a maneggiare. Altro punto saliente: stando ad alcune indiscrezioni, qualche anno fa lo US Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID) di Fort Detrick, nel Maryland, avrebbe lavorato di sponda con altri laboratori stranieri, tra cui, probabilmente, anche alcune strutture cinesi.

Un’indagine spinosa. Scoprire le origini del Covid sarebbe utilissimo per la scienza, ma si rivelerebbe anche un potente volano geopolitico. I media americani si sono soffermati su un aspetto interessante. Nonostante il laboratorio di Wuhan si trovi nell’occhio del ciclone, indagare su questa struttura potrebbe rivelarsi sconveniente tanto per gli Stati Uniti quanto per la Cina. Il motivo è semplice: le ricerche scientifiche sui coronavirus effettuate all’interno del WIV, partendo dai pipistrelli, verrebbero effettuate in due soli altri laboratori al mondo. Entrambi si troverebbero in America, precisamente in Texas e Carolina del Nord. Non solo: questi tre centri effettuerebbero ricerche correlate su temi spinosissimi e, come dimostra la vicenda EcoHealth Alliance, condividerebbero pure i finanziamenti. Approfondire le indagini sul laboratorio di Wuhan potrebbe quindi rivelarsi “sconveniente” per Washington. In ogni caso, nei giorni scorsi la Cina ha risposto alle indiscrezioni americane. “L’Istituto di virologia di Wuhan ha chiarito di non aver rilevato il nuovo coronavirus prima del 30 dicembre 2019. Gli Stati Uniti dovrebbero invitare gli esperti dell’Oms nel loro Paese per studiare le origini del virus e spiegare i loro oltre 200 laboratori biologici in tutto il mondo, incluso Fort Detrick”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, dopo che l’esperto di malattie infettive statunitense Anthony Fauci ha invitato Pechino a mostrare le cartelle cliniche di nove persone da cui potrebbero emergere indizi sull’origine del Covid-19.

“Finanziamenti Usa al laboratorio di Wuhan”. Federico Giuliani su Indide Over l'8 giugno 2021. Spuntano nuove rivelazioni riguardo la connessione sotterranea che sarebbe intercorsa tra alcuni enti statunitensi e il laboratorio di Wuhan accusato di essere la fonte della pandemia globale. Questa volta nell’occhio del ciclone è finito anche il Pentagono, accusato di aver donato 39 milioni di dollari all’EcoHealth Alliance (EHA), un’ong che a sua volta, tra il 2013 e il 2020, avrebbe finanziato la ricerca sul coronavirus presso il famigerato Wuhan Institute of Virology (WIV). È il sito del Daily Mail a rivelare questa indiscrezione, dopo aver visionato dati federali diffusi online che dimostrerebbero come EHA abbia ricevuto dal governo Usa complessivamente oltre 123 milioni di dollari. Non solo: l’ente avrebbe ricevuto pure 64.7 milioni dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID) e 13 milioni da Health and Human Service, che include il National Institutes of Health e i Centers for Disease Control. A quanto pare, la maggior parte dei finanziamenti del dipartimento della Difesa sarebbe provenuta, dal 2017 al 2020, dalla Defense Threat Reduction Agency (DTRA), un ramo militare con la missione di “contrastare e scoraggiare le armi di distruzione di massa e le reti di minacce improvvisate”. La sovvenzione sarebbe inoltre stata classificata come “ricerca scientifica: lotta alle armi di distruzione di massa”. Non è tuttavia dato sapere quanto di questo denaro sia effettivamente destinato presso il laboratorio di Wuhan. Pare però che l’EHA abbia finanziato i controversi studi gain-of-function, durante i quali virus pericolosi vengono resi più infettivi dai ricercatori per studiarne l’effetto sulle cellule umane. A che fine? Sviluppare medicine e contromosse per frenare l’evoluzione degli stessi virus.

L’EcoHealth Alliance e il laboratorio di Wuhan. Abbiamo più volte citato l’EcoHealth Alliance. Di che cosa si tratta? L’EHA viene descritta come un’organizzazione non governativa con la missione di proteggere le persone, gli animali e l’ambiente dalle malattie infettive emergenti. Alla guida dell’ente benefico troviamo Peter Daszak, scienziato di origine britannica precedentemente finito al centro di un presunto conflitto di interessi che avrebbe screditato volutamente la teoria della fuga del Sars-CoV-2 dal laboratorio di Wuhan. Al di là delle indiscrezioni, è emerso come l’EHA abbia utilizzato sovvenzioni federali per finanziare la ricerca sui coronavirus presso il WIV. Durante l’ultimo anno del proprio mandato, l’allora presidente americano Donald Trump annullò un finanziamento di 3.7 milioni di dollari sostenendo che il Covid sarebbe stato creato o comunque uscito dal laboratorio di Wuhan, sovvenzionato proprio dall’EHA. Nel 2014 l’amministrazione Obama bandì gli studi gain-of-function, cioè proprio gli studi finanziati dall’EHA. La quale avrebbe tuttavia continuato a finanziarli usando una scappatoia che consentiva di proseguire le ricerche soltanto in casi “urgenti per proteggere la salute pubblica o la sicurezza nazionale”. Ma queste ricerche non sarebbero più state condotte negli Stati Uniti, ma al di là della Muraglia. Forse perché lontane da occhi indiscreti?

Ricerche sconvenienti. Vale adesso la pena spendere due parole sul signor Peter Daszak e sui suoi strettissimi legami con il laboratorio cinese. Questo personaggio, che nella sua carriera ha lavorato spalla a spalla con Shi Zhengli, la Bat Woman cinese, è stato scelto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) per prender parte alla missione di Wuhan. Questa scelta ha prodotto mille polemiche. Perché l’Oms ha deciso di inviare nella provincia dello Hubei, a indagare sulle origini del virus, un uomo che avrebbe avuto significativi interessi finanziari e reputazionali nello screditare le teorie sulle fughe di laboratorio? Daszak ha tuttavia avuto modo di ringraziare Anthony Fauci via mail per aver respinto la teoria secondo cui il Covid sarebbe stato creato dall’uomo. “Volevo solo dire un ringraziamento personale a nome del nostro staff e dei nostri collaboratori, per essersi pubblicamente alzato e aver affermato che le prove scientifiche supportano un’origine naturale per COVID-19 da uno spillover da pipistrello a uomo, non un rilascio di laboratorio da l’Istituto di virologia di Wuhan”, ha scritto Daszak nell’aprile 2020. Dulcis in fundo è interessante concludere citando un particolare riportato dalla recente inchiesta sulle origini del Covid effettuata da Vanity Fair Usa. Il 9 dicembre 2020 alcuni funzionari del Dipartimento di Stato Usa decise di esercitare pressioni sul governo cinese per consentire indagini approfondite in merito a tre presunti addetti del laboratorio che si sarebbero ammalati nell’autunno 2019. Ma indagini del genere non sarebbero mai state permesse né dal governo cinese né da quello americano. Già, perché le ricerche effettuate nel laboratorio di Wuhan verrebbero fatte in soli altri due laboratori: uno in Texas e l’altro in Carolina del Nord. Le tre strutture non solo fanno ricerche correlate, ma condividerebbero tra loro pure i finanziamenti. Ecco perché approfondire le indagini potrebbe essere sconveniente.

Ricerche a Wuhan: il (presunto) ruolo di una ong Usa e di Peter Daszak. Federico Giuliani su Indide Over l'8 giugno 2021. “Un’organizazione globale senza scopo di lucro per la salute ambientale dedicata alla protezione della fauna selvatica e della slute pubblica dall’insorgenza di malattie”. È questa la sintetica presentazione che appare in evidenza sul sito ufficiale di EcoHealth Alliance (EHA) per descrivere le attività della ong con sede a New York. All’apparenza tutto è messo nero su bianco. Tutto è trasparente e, data la mission dell’ente, nessuno si sognerebbe mai di avanzare sospetti di alcun tipo sull’EHA. Né tantomeno un suo possibile (e presunto) coinvolgimento indiretto – molto indiretto ma potenzialmente decisivo – nell’ipotetica fuga del Sars-CoV-2 da un laboratorio cinese. Anzi: dal laboratorio cinese, il Wuhan Institute of Virology (WIV) di Wuhan, da dove alcuni esperti ritengono sia partita la pandemia globale. L’EHA è controllata da un consiglio di amministrazione che vede tale Nancy Griffin nelle vesti di segretario, il Dottor Thomas E.Lovejoy in quelle di presidente onorario e il Dottor Peter Daszak nel ruolo di presidente, e dunque numero uno dell’intera struttura. Una struttura che risulta attiva in diversi ambiti: dalla biosorveglianza alla conservazione della fauna selvatica, dalla prevenzione delle pandemie al monitoraggio della deforestazione nel mondo. L’EHA, si legge sempre sul sito, opera negli Usa ma anche in altri 30 Paesi del mondo, mentre i suoi programmi “si basano su innovazioni nella ricerca, formazione, partnership globali e iniziative politiche”. Prima di proseguire, ricordiamoci gli ultimi due termini, che ci saranno utili più avanti: “partnership globali” e “iniziative politiche”.

EHA: tra finanziamenti sospetti ed esperimenti pericolosi. Un’inchiesta del Daily Mail ha scoperchiato un autentico vaso di Pandora. In mezzo all’occhio del ciclone è finita la citata EHA. La testata anglosassone è riuscita a visionare alcuni dati federali americani, i quali dimostrerebbero, voce per voce, gli ingenti finanziamenti incassati dalla ong. Non ci sarebbe niente di male, visto che stiamo parlando di finanziamenti a una ong. Se non che i finanziatori risultano enti o istituzioni del governo statunitense. E che questi denari potrebbero essere stati utilizzati per dirottare ricerche tanto ambigue quanto pericolose in laboratori dislocati al di fuori del territorio americano, tra cui il famigerato laboratorio di Wuhan. Siamo nel campo delle indiscrezioni, anche se ormai appare evidente come gli studi che sarebbero stati svolti in Cina, nella provincia dello Hubei, rispecchierebbero quelli fatti in America. Ci riferiamo agli studi gain-of-function, ricerche pericolosissime che costrinsero gli Stati Uniti, tra il 2014 e il 2017, a sospendere varie attività scientifiche a causa di problemi e incidenti di laboratorio. La loro utilità: sviluppare contromosse per frenare, in prospettiva, l’evoluzione dei virus più pericolosi, come Sars e Mers. Come si svolgono: produrre virus rafforzati artificialmente per studiare il meccanismo attraverso il quale si trasformano, e interagiscono con l’ospite. Che cosa c’entra EHA? Ebbene, l’ong avrebbe ricevuto finanziamenti che avrebbe utilizzato, a sua volta, per finanziare ricerche sui coronavirus altrove. Anche presso il WIV cinese, precisamente tra il 2013 e il 2020. EHA avrebbe ricevuto complessivamente 123 milioni di dollari dal governo americano, 6.7 dall’USAID, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, 13 dallo Health and Human Service (che comprende il National Institutes of Health e i Centers for Disease Control) e 39 milioni dal Pentagono. Per quanto riguarda i finanziamenti del Dipartimento della Difesa, sarebbero provenuti dal ramo militare denominato DTRA, Defense Threat Reduction Agency, con l’obiettivo di scoraggiare l’uso delle armi di distruzione di massa.

Peter Daszak e il WIV di Wuhan. Le indiscrezioni riportate dalla stampa americana sottolineano come l’EHA abbia utilizzato – ed è questo, nel caso in cui dovesse essere confermato, l’aspetto più grave – sovvenzioni federali per finanziare una ricerca sui coronavirus presso il laboratorio di Wuhan. Considerando che nel 2014 l’allora presidente Usa, Barack Obama, bandì per un lasso di tempo gli studi gain-of-function sul territorio americano, sorge il dubbio che EHA abbia scelto di puntare sul laboratorio cinese per non interrompere ricerche che avrebbero potuto sfornare medicinali o vaccini unici nel loro genere (ipotesi fortissima, e ancora da confermare). È proprio in questo frangente che emergerebbe la teoria della fuga del virus dal laboratorio di Wuhan. Qualcosa, stando ai sostenitori di questa pista, sarebbe andato storto durante qualche attività scientifica. E il patogeno sarebbe fuoriuscito dalla struttura. Non sappiamo se le cose sono veramente andate così. Sappiamo però che nel laboratorio di Wuhan si studiavano coronavirus. E che Peter Daszak, il presidente della EHA, nella sua carriera ha lavorato assieme a Shi Zhengli, la Bat Woman cinese, nel cuore del WIV. Daszak è presto finito al centro di uno scandalo, un presunto conflitto di interessi. Lo scienziato di origine britannica avrebbe volutamente screditato la teoria della fuga del Sars-CoV-2 dal laboratorio di Wuhan. Per quale motivo? Forse perché Daszak aveva lavorato nella struttura, o forse perché la “sua” EHA aveva finanziato studi sui coronavirus presso il WIV. Eppure, nonostante i suoi stretti legami con il laboratorio cinese, qualche mese fa Daszak è stato scelto dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per far parte del team di 13 membri inviato a Wuhan per fare luce sulle origini del virus. Non solo: secondo un rapporto del 2019, quell’anno il dottor Daszak sarebbe stato pagato un totale di 410.801 dollari, 311.815 dei quali come “paga base”, 42.250 di bonus, 24.500 di “compensazione differita” e 32.236 di “benefici non imponibili”.

Estratto dell'articolo di Adrien Jaulmes per “le Figaro” pubblicato da "la Repubblica" l'8 giugno 2021. Traduzione di Alessandra Neve. Da settembre 2020 a gennaio 2021, con l'amministrazione Trump, David Asher ha diretto l'inchiesta del Dipartimento di Stato Usa sulle origini del Covid-19. Solo qualche mese fa l'ipotesi di un'origine accidentale della pandemia di Covid-19 era considerata alla stregua di una teoria del complotto. Oggi molti scienziati sono possibilisti e lo stesso presidente Biden ha chiesto un'indagine approfondita. Come spiega questa inversione di tendenza?

«Credo che l'amministrazione Biden abbia semplicemente deciso di rivalutare il nostro lavoro. Il 15 gennaio scorso la nostra inchiesta ci aveva permesso di scoprire che all'inizio di novembre del 2019 diversi dipendenti dell'Istituto di virologia di Wuhan si erano ammalati con una sintomatologia simile a quella dell'influenza o del Covid. Crediamo che almeno tre di queste persone siano state ricoverate, ma potrebbero essere state molte di più. È probabile che, a partire da ottobre, tutti siano stati contagiati dal Covid-19. Da allora, molti ricercatori dell'Istituto di virologia sono scomparsi: forse sono morti, o forse li hanno fatti sparire. Altri sono stati premiati. Fra di loro il dottor Shi Zhengli, che dirige il Centro per le malattie infettive emergenti di Wuhan».

Cosa pensa dell'atteggiamento della Cina?

«La Cina ha avuto dall'inizio un atteggiamento problematico. Le autorità di Pechino hanno appena annunciato che rifiuteranno ogni collaborazione futura. Ci si domanda perché la Cina si comporti in maniera così sospetta, se non ha nulla da nascondere. La fuga da un laboratorio non è certa al 100% ma, a questo punto, è la sola ipotesi che abbia un senso e che sia coerente con le informazioni in nostro possesso».

Qual è lo scenario più plausibile?

«A mio parere le autorità cinesi hanno tentato di controllare un incidente di laboratorio avvenuto a ottobre 2019, forse prima, e non ci sono riuscite. A partire dal 22 o dal 23 gennaio, del caso di Wuhan si è fatto carico l'esercito popolare cinese. (...) Nel 2007 i vertici dell’esercito popolare cinese hanno iniziato a parlare della guerra biologica come della guerra del futuro. E quando parlano di guerra biologica si riferiscono evidentemente alla biologia sintetica. A partire dal 2010 hanno prodotto relazioni annuali sulle ricerche nel campo della difesa biologica, nelle quali si dice che le ricerche erano condotte dall’Istituto di virologia di Wuhan. A partire dal 2016, più nulla! Hanno interrotto ogni tipo di comunicazione riguardo a quei programmi. Ed è proprio a quell’epoca che i francesi hanno perso il controllo del loro laboratorio. Quel fatto avrebbe dovuto destare i primi allarmi.(...)

DA liberoquotidiano.it l'8 giugno 2021. L'origine del coronavirus resta ancora un mistero. Tante in questi giorni le accuse rivolte dalla Cina e i sospetti sulla fuga pianificata del Covid-19 dal laboratorio di Wuhan. Ad aggiungere perplessità su cosa davvero Pechino abbia nascosto ci pensa il quotidiano The Australia. Qui si legge che il 24 febbraio 2020, prima che la pandemia globale venisse dichiarata, uno scienziato militare cinese che ha lavorato per l’Esercito di Liberazione del Popolo, tale Yusen Zhou, ha depositato un brevetto per un vaccino contro il Covid-19. Si dice - è quanto riportato dal quotidiano - che Zhou abbia "lavorato a stretto contatto" con gli scienziati dell’Istituto di virologia di Wuhan, tra cui Shi Zhengli, il vicedirettore del laboratorio noto per le sue ricerche sul coronavirus nei pipistrelli. Ma ad aggiungersi ai già tanti misteri: la morte di Zhou, avvenuta ben tre mesi dopo aver depositato il brevetto. Proprio quest'ultima sarebbe stata riportata solo in un rapporto dei media cinesi, nonostante si trattasse di uno degli scienziati più importanti del paese. Troppi dunque i sospetti, tanto da far intervenire il presidente degli Stati Uniti. La scorsa settimana Joe Biden, successore alla Casa Bianca di Donald Trump, ha ordinato alle agenzie di intelligence di avviare un'indagine per stabilire se il coronavirus fosse stato creato dall'uomo. Nuove prove, comprese le segnalazioni di tre lavoratori del laboratorio di Wuhan che si sono ammalati gravemente con sintomi simili al Covid-19 nel novembre 2019, hanno costretto a una rivalutazione del caso. Fa invece muro Pechino che continua a rifiutarsi di partecipare a ulteriori indagini da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità. Per questo Biden si è appellato agli alleati affinché aiutino gli Stati Uniti "a spingere la Cina a partecipare a un'indagine internazionale completa, trasparente, basata su prove e a fornire accesso a tutti i dati e le prove pertinenti". 

Coronavirus, l'affondo di David Asher: "Le colpe di Xi Jinping, probabile un incidente a Wuhan ad ottobre 2019". Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Torna in voga la teoria secondo la quale il virus sia fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan. Forse perché ad avanzare l'ipotesi non è più Donald Trump, bensì Joe Biden, forse perché il team di esperti inviati a indagare sul posto dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a gennaio 2021, ha fatto ritorno con un semplice pugno di mosche. A fare il punto della situazione David Asher, impegnato da settembre 2020 a gennaio 2021 nell'inchiesta del Dipartimento di Stato Usa sulle origini del Covid-19. "Credo che l'amministrazione Biden abbia semplicemente deciso di rivalutare il nostro lavoro" ha detto Asher in un'intervista rilasciata a la Repubblica. "Il 15 gennaio scorso la nostra inchiesta ci aveva permesso di scoprire che all’inizio di novembre del 2019 diversi dipendenti dell’Istituto di virologia di Wuhan si erano ammalati con una sintomatologia simile a quella dell’influenza o del Covid. Crediamo che almeno tre di queste persone siano state ricoverate, ma potrebbero essere state molte di più". avvisa Asher. "È probabile che, a partire da ottobre, tutti siano stati contagiati dal Covid-19. Da allora, molti ricercatori dell’Istituto di virologia sono scomparsi: forse sono morti, o forse li hanno fatti sparire. Altri sono stati premiati. Fra di loro il dottor Shi Zhengli, che dirige il Centro per le malattie infettive emergenti di Wuhan". Ad acuire i dubbi sull'origine del virus anche il comportamento del governo cinese: "La Cina ha avuto dall’inizio un atteggiamento problematico - racconta l'ex capo delle indagini americane -. Le autorità di Pechino hanno appena annunciato che rifiuteranno ogni collaborazione futura. Ci si domanda perché la Cina si comporti in maniera così sospetta, se non ha nulla da nascondere. La fuga da un laboratorio non è certa al 100% ma, a questo punto, è la sola ipotesi che abbia un senso e che sia coerente con le informazioni in nostro possesso". L'ipotesi avanzata da David Asher è a dir poco inquietante: "A mio parere le autorità cinesi hanno tentato di controllare un incidente di laboratorio avvenuto a ottobre 2019, forse prima, e non ci sono riuscite. A partire dal 22 o dal 23 gennaio, del caso di Wuhan si è fatto carico l’esercito popolare cinese. La persona scelta per coordinare le operazioni è il generale di divisione Chen Wei, specialista in armi biologiche. Il suo vice è il colonnello Cao Wuchun, il massimo esperto di epidemiologia dell’esercito cinese, che era anche il principale consigliere dell’Istituto di virologia di Wuhan. Si tratta di una prova pesante del fatto che l’Istituto aveva legami con la ricerca militare cinese". L'idea di "guerra biologica" ha iniziato a balenare molto tempo fa nelle menti dei vertiti dell'esercito cinese: "Nel 2007 i vertici dell’esercito hanno iniziato a parlare della guerra biologica come della guerra del futuro. Dal 2010 hanno prodotto relazioni sulle ricerche nel campo della difesa biologica, condotte dall’Istituto di virologia di Wuhan. A partire dal 2016, più nulla. Ed è a quell’epoca che i francesi hanno perso il controllo del loro laboratorio Dsla, per poi essere espulsi nel 2018 - sottolinea l'esperto - Ma il governo americano non ha dato peso alla vicenda. L’Nih (National Institute of Health), la Usaid e il dipartimento della Difesa hanno ampliato il loro ruolo a Wuhan, quasi come se volessero approfittare dell’assenza della Francia, invece di suonare il campanello d’allarme". Per quale motivo è importante scoprire l'origine del Coronavirus? "Non si tratta solo di una tragedia, ma di un crimine - rimarca David Asher -.  Il ruolo della Cina e la deliberata disinformazione nei confronti del mondo intero sono al centro della questione. Il popolo cinese non ha responsabilità, ma Xi Jinping e i suoi accoliti sì. Credo che sia anche necessario imporre sanzioni alla Cina e mettere in atto un controllo internazionale molto più severo sulla ricerca virologica". 

Dagotraduzione dal DailyMail il 7 giugno 2021. Secondo il quotidiano The Australia, il 24 febbraio 2020 uno scienziato militare cinese, tale Yusen Zhou, che ha lavorato per l’Esercito di Liberazione del Popolo (PLA), ha depositato un brevetto per un vaccino contro il Covid-19 ben prima che fosse dichiarata la pandemia globale. Si dice che Zhou abbia «lavorato a stretto contatto» con gli scienziati dell’Istituto di virologia di Wuhan, tra cui Shi Zhengli, il vicedirettore del laboratorio famoso per le sue ricerche sul coronavirus nei pipistrelli. Zhou è morto misteriosamente meno di tre mesi aver depositato il brevetto. Il New York Post afferma che la sua morte è stata riportata solo in un rapporto dei media cinesi, nonostante fosse uno degli scienziati più importanti del paese. In passato Zhou aveva lavorato a ricerche legate alle istituzioni statunitensi, tra cui l'Università del Minnesota e il New York Blood Center, secondo il giornale. Nelle ultime settimane, molti dei migliori scienziati del mondo hanno spinto per determinare se il virus fosse trapelato dal WIV. La teoria della perdita di laboratorio è stata inizialmente respinta da molti nei media e nelle comunità accademiche. La scorsa settimana il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ordinato alle agenzie di intelligence di avviare un'indagine per stabilire se il COVID fosse stato creato dall'uomo. Nuove prove, comprese le segnalazioni di tre lavoratori del laboratorio di Wuhan che si sono ammalati gravemente con sintomi simili al COVID nel novembre 2019, hanno costretto a una sobria rivalutazione tra i dubbiosi. La frustrazione nei confronti della Cina è aumentata questa settimana dopo che Pechino ha dichiarato che non avrebbe partecipato a ulteriori indagini da parte dell'Organizzazione mondiale della sanità. Biden ha rimproverato la Cina e invitato gli alleati ad aiutare «a spingere la Cina a partecipare a un'indagine internazionale completa, trasparente, basata su prove e a fornire accesso a tutti i dati e le prove pertinenti».

Guido Santevecchi per corriere.it il 15 giugno 2021. Si fa sentire Shi Zhengli, la scienziata cinese del Wuhan Institute of Virology, nota come Bat Woman per i suoi studi sui coronavirus originati nei pipistrelli. Imputata, o perlomeno persona informata dei fatti e reticente secondo coloro che invocano una nuova indagine nella città epicentro della pandemia (Joe Biden ha ordinato un supplemento di indagine all’intelligence americana); eroina della nazione per i cinesi. La virologa ha nuovamente respinto il sospetto che il suo laboratorio abbia contenuto la fonte genetica del coronavirus che ha dato origine al Sars-Cov-2 e se la sia lasciata sfuggire. E al telefono, rispondendo al New York Times che le chiedeva perché non abbia fornito le prove della sua innocenza, ha detto con rabbia: «Come diavolo posso darvi la prova di qualcosa su cui non esistono prove? Questa spazzatura viene riversata su una scienziata innocente». La breve intervista è proseguita per email. La dottoressa Shi, 57 anni, ha negato che tre ricercatori del laboratorio di Wuhan si siano ammalati nel novembre del 2019, presentando sintomi compatibili o con l’influenza di stagione o con il Covid-19, come crede parte dell’intelligence americana: «Non abbiamo avuto alcun caso, se potete, datemi i nomi dei tre per aiutarci a verificare». Il laboratorio di Wuhan impiega 300 ricercatori ed è uno dei due soli centri cinesi che hanno una sezione accreditata di Biosafety Level 4, la massima sicurezza che permette esperimenti di «gain of function», diretti a modificare i patogeni potenziandoli per studiarli meglio e valutare i rischi delle malattie infettive. Nel 2017, Shi e i suoi colleghi pubblicarono uno studio su un esperimento in cui avevano creato nuovi coronavirus ibridi da campioni prelevati nei pipistrelli che infestavano le grotte dello Yunnan, quasi trasmissibili all’uomo. Lo scopo era di studiare e prevenire la loro capacità di replicarsi nelle cellule umane. Ma Shi Zhengli assicura che l’esperimento non ha comportato pratiche di «gain of function», non è stato commesso alcun passo azzardato o errore. Lunedì la tv SkyNews Australia ha trasmesso un filmato che sarebbe stato girato nel 2017, nel quale si vedono dei pipistrelli vivi in gabbia nel laboratorio di sicurezza 4 appena inaugurato a Wuhan: una circostanza finora negata e non rilevata dalla squadra di esperti inviata in città dall’Organizzazione mondiale della sanità lo scorso febbraio. Shi Zhengli non ha mai parlato di aver portato a Wuhan i pipistrelli che era andata a studiare in numerose spedizioni nel lontano Yunnan, dove secondo altre fonti americane tre operai incaricati di ripulire dal guano una miniera si sarebbero ammalati e sarebbero morti nel 2012. A indagare fu inviata lei, Shi Zhengli, ma dice che lo studio dei campioni prelevati da quegli operai non contenevano alcun coronavirus simili a quelli del tipo Sars (che danno sindromi polmonari come il Covid-19). Presto la dottoressa pubblicherà un nuovo studio su quell’episodio oscuro. Nel 2019 la scienziata cinese era stata premiata negli Stati Uniti ed eletta per il suo valore nella American Academy of Microbiology. La questione ora ha creato nuove polemiche, perché l’istituto di Wuhan aveva ricevuto fondi governativi americani per le sue ricerche (600 mila dollari). Dubbi anche per il fatto che a Wuhan alcuni esperimenti sui virus dei pipistrelli venivano condotti in laboratori con Biosafety Level 2, dove la sicurezza è minore rispetto al Level 4. Secondo Shi, in Cina è consentito fare quelle ricerche in ambienti Bsl-2 perché non c’è prova che i pipistrelli possano infettare direttamente gli uomini. Ultima email della ricercatrice cinese al New York Times: «Sono certa di non aver fatto niente di sbagliato, non ho niente da temere, la questione non ha alcuna base di evidenza scientifica ed è stata politicizzata». Gli americani osservano che Xi Jinping, a proposito di politica, l’anno scorso ha ricordato che «la scienza non ha confini, ma gli scienziati hanno una patria» (e la Cina si identifica con il Partito-Stato). Però, risulta che Shi Zhengli non abbia la tessera del Pcc.

Covid, ex consulente del governo Usa: “Il presidente cinese copre la fuga dal laboratorio di Wuhan”. Alessandro Artuso l'08/06/2021 su Notizie.it. Un ex consulente durante l’amministrazione Trump attacca senza tanti giri di parole la Cina e traccia due ipotesi sulla circolazione del virus. La pandemia da Covid-19 sarebbe sfuggita al controllo degli scienziati del laboratorio di Wuhan: questa è la tesi di David Asher, ex consulente governativo degli Stati Uniti durante l’amministrazione Trump. Nel corso di un’intervista rilasciata a la Repubblica al giornalista Adrien Jaulmes, l’uomo avrebbe rilasciato delle dichiarazioni piuttosto forti. Secondo Asher “l’origine accidentale della pandemia fino a qualche mese fa era considerata alla stregua di una teoria del complotto”. Secondo il Wall Street Journal sarebbe sempre più ipotizzabile l’ipotesi di una fuga dal laboratorio. Lo studio è stato realizzato a maggio 2020 dal Lawrence Livermore National Laboratory della California ed è stato utilizzato dallo stesso Dipartimento di Stato Usa nell’indagine. Al centro di un’indagine vi sarebbe la sequenza del genoma. Uno studio avrebbe aperto due ipotesi vagliate dalle forze di intelligence statunitensi: la prima sarebbe un incidente di laboratorio, la seconda il contatto umano con un animale infetto. L’inchiesta partita da Asher avrebbe rivelato che “all’inizio di novembre 2019 diversi dipendenti dell’Istituto di virologia di Wuhan si erano ammalati con una sintomatologia simile a quella dell’influenza o del Covid. Crediamo che almeno tre di loro siano stati ricoverati, ma potrebbero essere molti di più. È probabile che, da ottobre, tutti siano stati contagiati dal Covid. Da allora, molti ricercatori dell’Istituto di virologia sono scomparsi: forse sono morti, o forse li hanno fatti sparire. Altri sono stati premiati. Fra di loro il dottor Shi Zhengli – continua Asher – che dirige il Centro per le malattie infettive emergenti di Wuhan”. Asher non ha fatto tanti giri di parole e avrebbe chiesto alla Cina di “non comportarsi in maniera così sospetta se non ha nulla da nascondere”. L’ex consulente statunitense propenderebbe verso l’ipotesi della fuga del virus da un laboratorio, ritenuta “come la sola che abbia un senso e che sia coerente con le informazioni in nostro possesso”. In merito all’origine della circolazione del virus non ci sarebbero ancora delle certezze in tal senso ed è bene quindi un maggiore approfondimento sulla questione. Sul fronte vaccino contro il Coronavirus, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha concesso l’omologazione d’urgenza per il siero della cinese Sinovac assicurando che “rispetta gli standard internazionali di sicurezza, efficacia e di fabbricazione”.

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 7 giugno 2021. La possibilità che la pandemia sia iniziata con una fuga dall'Istituto di virologia di Wuhan sta prendendo sempre più piede. Il presidente Biden ha chiesto alla comunità dell'intelligence nazionale di raddoppiare gli sforzi per indagare. Gran parte della discussione pubblica si è concentrata su prove indiziarie: malattie misteriose alla fine del 2019; il lavoro del laboratorio che sovraccarica intenzionalmente i virus per aumentare la letalità (nota come ricerca sul "guadagno di funzione"). Il Partito Comunista Cinese è stato riluttante a rilasciare informazioni rilevanti. Rapporti basati sull'intelligence statunitense hanno suggerito che il laboratorio ha collaborato a progetti con l'esercito cinese. Ma la ragione più convincente per favorire l'ipotesi di fuga di laboratorio è saldamente basata sulla scienza. In particolare, sull'impronta genetica del CoV-2, il nuovo coronavirus responsabile della malattia Covid-19. Nella ricerca sul “guadagno di funzione”, un microbiologo può aumentare enormemente la letalità di un coronavirus aggiungendo al suo genoma, in una posizione privilegiata, una sequenza speciale. È un’operazione che non lascia tracce di manipolazione. Ma altera la proteina spike del virus, rendendo più facile per il virus iniettare materiale genetico nella cellula vittima. Dal 1992 ci sono stati almeno 11 esperimenti separati che hanno aggiunto una sequenza speciale nella stessa posizione. Il risultato finale è sempre stato un virus sovralimentato. Un genoma definisce il modo in cui le cellule creano proteine. Per descriverlo si usano “parole” di tre lettere, 64 in totale, che rappresentano i 20 diversi amminoacidi. Ad esempio, ci sono sei parole diverse per l'aminoacido arginina, quello che viene spesso utilizzato nei virus di sovralimentazione. Nel caso della supercarica con guadagno di funzione, ci sono molte sequenze che potrebbero essere state messe insieme nel genoma. Invece di un CGG-CGG (noto come "doppio CGG") che dice alla fabbrica di proteine di produrre due amminoacidi di arginina di fila, si otterrà la stessa letalità unendo una qualsiasi delle 35 altre combinazioni di due parole che restituiscono la doppia arginina. Se l'inserimento avviene naturalmente, diciamo attraverso la ricombinazione, è molto più probabile che appaia una di queste 35 altre sequenze; Il CGG è usato raramente nella classe dei coronavirus che possono ricombinarsi con CoV-2. Infatti, nell'intera classe di coronavirus che include CoV-2, la combinazione CGG-CGG non è mai stata trovata in modo naturale. Ciò significa che il metodo comune dei virus che raccolgono nuove abilità, chiamato ricombinazione, non può funzionare qui. Un virus semplicemente non può rilevare una sequenza da un altro virus se quella sequenza non è presente in nessun altro virus. Sebbene il doppio CGG venga soppresso naturalmente, nel lavoro di laboratorio è vero il contrario. La sequenza di inserimento scelta è la doppia CGG. Questo perché è facilmente disponibile e conveniente e gli scienziati hanno una grande esperienza nell'inserirlo. Un ulteriore vantaggio della doppia sequenza CGG rispetto alle altre 35 possibili scelte: crea un utile faro che consente agli scienziati di tracciare l'inserimento in laboratorio. Ora il fatto schiacciante. È questa l’esatta sequenza che appare in CoV-2. I sostenitori dell'origine zoonotica devono spiegare perché il nuovo coronavirus, quando è mutato o si è ricombinato, ha scelto la sua combinazione meno preferita, il doppio CGG. Perché ha replicato la scelta che avrebbero fatto i ricercatori sul guadagno di funzione del laboratorio? Sì, potrebbe essere successo casualmente, attraverso mutazioni. Ma è credibile? Come minimo, questo fatto - che il coronavirus, con tutte le sue possibilità casuali, ha preso la combinazione rara e innaturale usata dai ricercatori umani - implica che la teoria principale per l'origine del coronavirus debba essere la fuga di laboratorio. Quando Shi Zhengli e i colleghi del laboratorio hanno pubblicato un articolo nel febbraio 2020 con il genoma parziale del virus, hanno omesso qualsiasi menzione della sequenza speciale che sovraccarica il virus o della rara sezione doppia CGG. Eppure l'impronta digitale è facilmente individuabile nei dati che accompagnavano la carta. È stato omesso nella speranza che nessuno notasse questa prova dell'origine del guadagno di funzione? Ma nel giro di poche settimane i virologi Bruno Coutard e colleghi hanno pubblicato la loro scoperta della sequenza nel CoV-2 e del suo nuovo sito sovralimentato. CGG doppio è lì; devi solo guardare. I virologi commentano nel loro articolo che la proteina che lo conteneva «può fornire una capacità di guadagno di funzione» al virus, «per una diffusione efficiente» agli esseri umani. Esistono ulteriori prove scientifiche che indicano l'origine del guadagno di funzione del CoV-2. La più avvincente sono le drammatiche differenze nella diversità genetica del CoV-2, rispetto ai coronavirus responsabili di SARS e MERS. Per entrambi è stata dimostrata l'origine naturale; i virus si sono evoluti rapidamente mentre si diffondevano attraverso la popolazione umana, fino a dominare le forme più contagiose. Il Covid-19 non ha funzionato così. È apparso negli esseri umani già adattato in una versione estremamente contagiosa. Nessun serio "miglioramento" virale ha avuto luogo fino a quando non si è verificata una variazione minore molti mesi dopo in Inghilterra. Tale ottimizzazione precoce non ha precedenti e suggerisce un lungo periodo di adattamento che ha preceduto la sua diffusione pubblica. La scienza conosce un solo modo per raggiungere questo obiettivo: simulare l'evoluzione naturale, far crescere il virus sulle cellule umane fino a raggiungere l'optimum. Questo è esattamente ciò che viene fatto nella ricerca sul guadagno di funzione. I topi geneticamente modificati per avere lo stesso recettore del coronavirus degli umani, chiamati "topi umanizzati", sono ripetutamente esposti al virus per incoraggiare l'adattamento. La presenza della doppia sequenza CGG è una forte evidenza di splicing genico e l'assenza di diversità nell'epidemia pubblica suggerisce un'accelerazione del guadagno di funzione. Le prove scientifiche portano alla conclusione che il virus è stato sviluppato in laboratorio. (Quest'articolo è stato scritto da il dottor Steven Quay, fondatore di Atossa Therapeutics e autore di "Stay Safe: A Physician's Guide to Survive Coronavirus", e Richard Muller,  professore emerito di fisica presso l'Università della California Berkeley ed ex scienziato senior presso il Lawrence Berkeley National Laboratory).

Articolo del "New Yorker" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" l'1 giugno 2021. Washington D.C. ama poco il mistero. I politici preferiscono che le notizie forniscano certezze: due antagonisti, una chiara posta morale, la possibilità di prendere una posizione. Ma per più di un anno il punto di partenza della storia politica dominante, la pandemia del coronavirus, è stato misterioso. Tra i conservatori, predisposti a un atteggiamento da falco nei confronti della Cina, da cui il virus era venuto, l'attenzione si è concentrata sulla possibilità che l'agente patogeno Covid-19 fosse emerso da un laboratorio cinese, per caso o per progetto. I liberali hanno cercato un allineamento più esplicito con gli investigatori scientifici, e hanno favorito un resoconto in cui il virus era migrato naturalmente dagli animali agli esseri umani, forse attraverso i mercati cinesi dove gli animali esotici sono venduti per il consumo umano. La teoria della destra, nel migliore dei casi, incolpava la scienza impazzita, e nel peggiore, sospettava un atto di guerra biologica senza precedenti. ("È stata l'incompetenza della Cina, e nient'altro, che ha fatto questo omicidio di massa nel mondo", ha twittato il presidente Trump nel maggio 2020). La teoria della sinistra incolpava un approccio pre-moderno irriducibile alla fauna selvatica che, invece di proteggerla, la uccideva e la mangiava. Per un anno, ogni campo ha occupato i posti che gli piacevano di più: i liberali nel mainstream, i conservatori ai margini. Questa primavera, anche se le prove a favore di una delle due parti non sono cambiate molto, ci sono state delle novità in questo campo. Gli scienziati e i commentatori politici sono diventati meno tempestivi nel respingere la teoria della fuga dal laboratorio. E così, il dibattito politico sulle origini della pandemia è diventato un caso di studio su qualcos'altro: come il mondo politico cambia o meno idea – scrive The New Yorker. Gli attori politici hanno riproposto lo stesso argomento così frequentemente durante gli ultimi anni che a volte può sembrare che stiano avendo solo una singola battaglia. L'argomento riguarda invariabilmente qualche consenso scientifico o intellettuale, e segue uno schema generale. In primo luogo, i media conservatori o le figure politiche notano ciò che sembra loro una falla nel consenso - una situazione in cui i liberali potrebbero usare gli slogan della scienza e dell'obiettività come copertura per uno sforzo politico di parte. Allora i liberali reagiscono, e spesso esagerano, insistendo sul fatto che il consenso scientifico o intellettuale è, di fatto, a prova di bomba, e introducono membri di spicco del campo in questione per dirlo in pubblico. Spesso c'è una terza fase, in cui alcuni dissidenti di centro-sinistra diventano esasperati dalle affermazioni eccessive dei liberali, e fanno notare problemi più tecnici con il consenso, spesso basati su dispute di sottospecialità precedentemente arcane. Questi dissidenti di sinistra a volte fanno apparizioni stridenti e leggermente comiche, per esempio (o, specificamente), su "Tucker Carlson Tonight". Nel caso delle origini del Covid-19, l'errore è stato identificato presto, anche prima che la pandemia avesse preso piede. Il 16 febbraio 2020, il senatore repubblicano Tom Cotton è apparso su Fox News per discutere la possibilità che il virus avesse avuto origine in un laboratorio di Wuhan, in Cina. "Ora, non abbiamo prove che questa malattia abbia avuto origine lì, ma a causa della doppiezza e della disonestà della Cina fin dall'inizio, dobbiamo almeno porre la domanda per vedere cosa dicono le prove", ha detto Cotton, dell'Arkansas. La ruota ha preso a girare; il Washington Post ha denunciato questa come una "teoria del complotto", e il Times l'ha descritta come una "teoria marginale". Nel maggio 2020, Anthony Fauci, il direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, disse al National Geographic che "tutto ciò che riguarda l'evoluzione graduale nel tempo indica fortemente che [questo virus] si è evoluto in natura e poi ha saltato le specie". La pressione sulla teoria del consenso era sempre il tempo - più a lungo gli scienziati sono andati senza identificare un'origine animale, più attenzione sarebbe stata data alle alternative. A gennaio, il romanziere Nicholson Baker pubblicò una storia di copertina sul New York Magazine sostenendo una versione riccamente strutturata della teoria della fuga dal laboratorio, che enfatizzava la ricerca sul "guadagno di funzione" portata avanti nell'Istituto di virologia di Wuhan e altrove, in cui gli scienziati stavano manipolando i coronavirus per scoprire cosa li avrebbe resi più virulenti o infettivi, e suggerì che queste ricerche potevano essere un colpevole. (Qui c'era la fase del dissenso della sinistra). Quando il pezzo di Baker è stato pubblicato, Carlson ha dedicato un segmento del suo programma ad esso, dichiarando allegramente: "Durante il 2020 sei stato chiamato un negazionista della scienza a meno che non fossi d'accordo con veemenza, sulla fede, che il coronavirus proveniva da un pipistrello, o qualcosa chiamato un pangolino, che è stato venduto in un wet market Wuhan". La rivista New York, ha sottolineato Carlson, era "difficilmente una rivista conservatrice", eppure Baker aveva fatto "tipo un anno di ricerche" parlando con molti scienziati prima di schierarsi a favore di una fuga di laboratorio. Carlson ha detto: "Si è scoperto che gli scienziati di tutto il mondo sono d'accordo con lui. Solo che non volevano dirlo". Lo schema ha raggiunto un dénouement un po' assurdo qualche settimana fa, quando il senatore Rand Paul ha inscenato un aspro stallo con Fauci in un'udienza della commissione del Senato. Paul ha insistito che il National Institutes of Health aveva finanziato la ricerca sul "guadagno di funzione" nel laboratorio di un eminente virologo di nome Ralph Baric, all'Università del North Carolina. "State prendendo in giro Madre Natura", ha dichiarato Paul. "Non abbiamo finanziato la ricerca sul guadagno di funzione all'Istituto di virologia di Wuhan", disse Fauci, che rappresentava l'establishment scientifico tanto perfettamente quanto Paul rappresentava il libertarismo anti-autorità.Qui c'erano due uomini che chiaramente si detestavano a vicenda, impegnati in un dibattito che qualsiasi osservatore casuale avrebbe avuto bisogno di un glossario per decodificare. Tutti - i conservatori, i liberali e i dissidenti - avevano interesse a descrivere la comunità scientifica come se si muovesse con la coerenza e l'autocertezza di un pugno chiuso. Questo lusingava il pubblico liberale a pensare di essere obiettivo e dalla parte della ragione, dava ai conservatori un'autorità antagonista contro cui inveire, e rifletteva l'interesse dei dissidenti ad essere visti come i detentori delle dure verità. Ma ha anche avuto l'effetto di caratterizzare in modo sbagliato certi scienziati. L'opinionista Matt Yglesias ha scritto recentemente che, quando l'articolo di Baker è apparso per la prima volta, aveva "twittato cose denigratorie su di esso solo per essere detto tranquillamente da un certo numero di scienziati ricercatori che avevo torto e un sacco di gente nella comunità scientifica pensava che questo fosse plausibile". Lo schema ha cominciato a rompersi alla fine di marzo, quando l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilasciato un rapporto a lungo atteso sulle origini della pandemia, per il quale i membri di un team investigativo si sono recati a Wuhan, e hanno condotto interviste con il personale del Wuhan Institute of Virology. I risultati principali hanno suggerito che il consenso è sempre stato giusto: il team investigativo ha concluso che era "da probabile a molto probabile" che l'origine del sars-CoV-2 fosse un trasferimento zoonotico, ed "estremamente improbabile" che una fuga di laboratorio avesse causato la pandemia. "È un laboratorio nuovo di zecca", ha detto al Los Angeles Times Peter Daszak, un eminente ecologo delle malattie e membro del team dell'OMS. "Non è un posto da cui un virus potrebbe uscire. Il personale è addestrato molto bene prima di entrare nel laboratorio. Sono valutati psicologicamente, sono testati regolarmente. Il laboratorio è controllato. Non è un posto gestito in modo sciatto". Ma i dettagli erano meno convincenti. Anche se il team aveva identificato un modello di malattia simile al Covid che era apparso nel dicembre 2019, tra le persone associate ai mercati di animali di Wuhan, non potevano trovare alcun animale che avesse portato un progenitore diretto del virus. Il passo cruciale, tra i pipistrelli e gli esseri umani, mancava ancora. Ancora più preoccupante per i critici, il trattamento della possibilità di una fuga di laboratorio sembrava nel migliore dei casi superficiale: copriva solo quattro delle oltre trecento pagine del rapporto, e il team aveva ottenuto una documentazione e prove incomplete dai laboratori cinesi che aveva visitato. Tutto ciò ha portato il direttore generale dell'OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, a dire agli stati membri dell'agenzia che il team di esperti non ha analizzato a sufficienza la teoria della fuga dai laboratori. "Non credo che questa indagine sia abbastanza estesa", ha detto, suggerendo che seguiranno altre indagini dell'OMS. Per essere chiari, non sono state trovate nuove prove importanti. Ma dopo la dichiarazione di Tedros, quello che era sembrato un consenso dell'establishment è apparso rapidamente come qualcos'altro: ipotesi in duello, ognuna con prove mancanti. Un importante ex reporter scientifico del Times, Nicholas Wade, ha pubblicato una lunga analisi sul Bulletin of the Atomic Scientists, concludendo che una fuga di virus dal laboratorio era più probabile, e un secondo ex reporter scientifico del Times, Donald G. McNeil, Jr. ha risposto all'analisi di Wade con la sua, dicendo che sebbene fosse stato a lungo scettico sulla teoria della fuga di notizie dal laboratorio, ora la trovava degna di ulteriori studi. Domenica, il Wall Street Journal ha riferito che un rapporto dell'intelligence statunitense ha mostrato che tre ricercatori dell'Istituto di virologia di Wuhan si sono ammalati con sintomi simili a quelli del covid nel tardo autunno del 2019. Il mondo delle idee politiche ha reagito barometricamente: "Lab leak 60% Origine naturale 40%", ha scritto su Twitter l'analista elettorale Nate Silver. Per le persone che si erano attaccate vigorosamente a un lato, c'era una certa ironia nel vedere quanto velocemente questi tipi dell'establishment potevano ruotare. Ma tutti si stavano orientando. All'inizio di questo mese, quando a Fauci è stato chiesto se era ancora sicuro che il Covid-19 si fosse sviluppato naturalmente, ha detto: "No, in realtà". L'argomento sull'esistenza di un consenso liberale - che tutti sono d'accordo - può spesso oscurare la posta in gioco sostanziale: la controversia sul laboratorio contiene la possibilità di un punto di inflessione importante nella gara tra Stati Uniti e Cina. Aveva un piede nel vecchio regime politico, quello di Donald Trump, che gli ha conferito una furia cospiratoria e folle. Ma ha anche un piede nel mondo di Joe Biden, un mondo in cui rimane una questione aperta se una potenza liberale improvvisamente fragile affronterà il suo rivale autoritario. Mercoledì, Biden ha annunciato di aver chiesto alla comunità di intelligence di valutare formalmente se il Covid-19 "è emerso dal contatto umano con un animale infetto o da un incidente di laboratorio". Più di tre milioni di persone sono morte a causa del Covid-19. Cosa faranno gli Stati Uniti se diventa chiaro che qualcuno in Cina è stato colpevole e che c'è stata una copertura? All'inizio di questo mese, una lettera congiunta è apparsa sulla rivista Science, scritta da diciotto scienziati, la maggior parte dei quali con prestigiosi incarichi accademici, e comprendente alcune delle maggiori figure in virologia e campi correlati. La lettera era succinta, e i suoi autori non si impegnavano in nessuna teoria del caso. Ma suggerivano che il team dell'OMS aveva liquidato troppo rapidamente la teoria della fuga dal laboratorio, scrivendo: "Le teorie del rilascio accidentale da un laboratorio e della diffusione zoonotica rimangono entrambe praticabili". Volevano semplicemente che il caso fosse riaperto. La lettera è stata per lo più presa come ulteriore prova del crollo del consenso. Quando ho parlato con due degli scienziati che l'avevano firmata, hanno convenuto che c'erano due possibili spiegazioni per il Sars-CoV2: o veniva da una fuoriuscita zoonotica o da un laboratorio. La teoria del lab-leak aveva guadagnato entusiasmo in gran parte perché l'ipotesi dello spillover zoonotico mancava di prove cruciali. Ma entrambi hanno anche riconosciuto che non c'erano prove dirette per una fuga dal laboratorio. David Relman, un eminente microbiologo di Stanford che aveva aiutato a organizzare la lettera su Science, mi disse: "È tutto circostanziale". Avevo fatto una videochiamata a Relman, domenica pomeriggio, perché speravo che potesse aiutarmi a caratterizzare le prove per ogni teoria. Ha detto di aver visto diversi punti a favore dello spillover zoonotico. Il primo era che questo era di solito il modo in cui i nuovi virus emergevano nelle persone, e la letteratura suggeriva che i crossover animali "accadono molto più di quanto sappiamo". Ai margini della civiltà umana, dove i villaggi premevano contro la boscaglia, gli scienziati continuavano a trovare anticorpi di malattie mortali che non si erano mai diffuse: henipavirus, sars, ebola, "focolai di villaggio che sono come fiammate in una padella", ha detto Relman. Inoltre, portando più esseri umani a contatto con gli animali selvatici, il vigoroso commercio di animali selvatici della Cina aveva ampliato le opportunità che si verificassero tali ricadute. Se questo suonava un po' astratto, il suo secondo punto a favore della diffusione zoonotica era più concreto. Dalla scorsa estate, gli scienziati avevano identificato i parenti noti più vicini del sars-CoV-2 nei pipistrelli a ferro di cavallo. "I parenti noti più vicini di sars-CoV-2 si trovano tutti nei pipistrelli, e si trovano nei pipistrelli in Cina", ha detto Relman. "Quindi bisogna pensare che ad un certo punto questo virus o i suoi immediati antenati sono stati trovati nei pipistrelli - sembra una conclusione ragionevole. L'unica domanda era: Qual è stato il percorso dal pipistrello all'uomo?". In teoria, almeno, questo non è un salto così complicato. "Ci sono molti casi in cui i virus passano dai pipistrelli agli esseri umani", ha detto. Ma c'erano una serie di ragioni per cui la possibilità di una fuga di notizie dal laboratorio rimaneva percorribile. Gli scienziati cinesi hanno riferito di aver testato cinquantamila campioni di trecento specie di animali selvatici, alla ricerca dell'anello mancante, e non ne avevano ancora trovato uno che portasse il Sars-CoV-2. "Il fatto è che nessuno ha trovato sars-CoV-2 da nessuna parte se non negli esseri umani", ha detto Relman. "Quindi questo mi suona come un po' strano". Allo stesso tempo, anche negli Stati Uniti, i giornalisti investigativi avevano scoperto che "le perdite di laboratorio sono più comuni di quanto si possa sperare". L'ultimo punto di dati che Relman ha menzionato è quello che viene ripetuto più spesso: una delle più grandi collezioni di coronavirus di pipistrello si trovava nell'Istituto di virologia di Wuhan, nella stessa città in cui è avvenuto il focolaio. Nel frattempo, il luogo dove sono stati scoperti i parenti più vicini conosciuti del sars-CoV-2 è nella provincia di Yunnan, che confina con il Myanmar, a mille miglia di distanza. Martedì sera, ho parlato per videochiamata con Ralph Baric, il virologo dell'U.N.C. il cui lavoro era caduto sotto lo sguardo sospettoso di Rand Paul. Baric aveva anche firmato la lettera di Relman su Science, ma mi ha detto che le sue preoccupazioni erano state per il fallimento dell'OMS nel condurre una revisione completa e trasparente delle misure di biosicurezza all'Istituto di virologia di Wuhan. "Credo davvero che la sequenza genetica del sars-CoV-2 indichi un evento di origine naturale dalla fauna selvatica", ha detto. Baric ha un aspetto robusto, con baffi a pennello e occhi leggermente malinconici. Il suggerimento che ci sarebbero voluti alcuni esperimenti scientifici cinesi per portare il virus dai pipistrelli nello Yunnan agli esseri umani a Wuhan sembrava lasciarlo leggermente offeso, a nome del mondo naturale. Per quanto grande sia la biblioteca dell'Istituto Wuhan di virus di pipistrello, ha detto, il deposito di virus in natura lo supera di "molti ordini di grandezza". Baric ha detto che sars-CoV-2 era abbastanza diverso dai virus conosciuti che per adattarlo da un ceppo ancestrale avrebbe richiesto una prodezza davvero senza precedenti di reingegneria genetica. "E naturalmente non sai cosa stai ingegnerizzando, perché sars-CoV-2 non sarebbe esistito", ha detto Baric. Un'altra possibilità era che un virus quasi identico al patogeno finale, che era stato raccolto in natura e conservato nel deposito di virus, era in qualche modo sfuggito al contenimento, ma non aveva visto alcuna prova specifica per sostenere questa ipotesi, anche. Tutto ciò che si sa per certo è che un patogeno che probabilmente ha avuto origine nei pipistrelli ha trasferito le specie e ha causato una pandemia globale negli esseri umani, forse in un modo che era successo solo poche volte nella storia della medicina moderna o in un modo - attraverso un laboratorio - che potrebbe non essere mai successo prima. La preferenza di Baric era per la teoria che assomigliava a focolai precedenti. Quando si tratta di fenomeni emergenti, il modo naturale della scienza è la probabilità, l'incertezza, il dubbio. Non sappiamo ancora come il virus sia passato dagli animali alle persone; è possibile che non lo sapremo per molto tempo. La fonte animale originale della pandemia SARS (pipistrelli) non è stata individuata fino al 2017, quindici anni dopo l'epidemia globale (per inciso, la scoperta è stata fatta all'Istituto di virologia di Wuhan). La probabile fonte dell'H.I.V., che si è riversata dagli scimpanzé, forse già alla fine del 1800, non è stata individuata fino al 1999. Ora il presidente Biden, avendo chiesto alla comunità di intelligence di rivalutare le origini della pandemia, ha spostato il dibattito nel regno della geopolitica, che ha i suoi problemi di probabilità, incertezza, dubbio. Relman ha detto: "Non credo che avremo necessariamente una risposta definitiva". 

Dagotraduzione dal Mirror l'1 giugno 2021. Gli scienziati stanno cercando una donna cinese soprannominata “Patient Su” che potrebbe essere la prima persona ad aver contratto il coronavirus. Secondo quanto riferito, la donna, 61 anni, dovrebbe trovarsi a tre miglia dall’Istituto di virologia di Wuhan, dove alcuni ricercatori sospettano sia fuggito un insetto da laboratorio. A fare la scoperta è stato Gilles Demaneuf, scienziato che lavora con il team di investigatori DRASTIC che sta portando avanti un’indagine indipendente sulle origini del Covid. Secondo quanto riferito, la donna si è ammalata a novembre con sintomi simili a quelli del Covid ed è stata portata al vicino ospedale Rongjun di Wuhan. La Cina ha sempre dichiarato che il primo caso di coronavirus è stato registrato l’8 dicembre. Demaneuf ha detto: «Siamo stati in grado di individuare il nome esatto, l’età e l’indirizzo di un caso sospetto molto precoce, precedente di quasi un mese il primo caso ufficiale». «Quell'indirizzo è proprio accanto alla linea 2 della metropolitana e non lontano dall’ospedale dell'Esercito Popolare di Liberazione che ha curato alcuni degli altri primi casi». Le dichiarazioni di Demaneuf arrivano mentre la Cina sta affrontando una crescente pressione per fornire ulteriori dettagli sulle origini del virus. Anche i funzionari britannici questa settimana hanno affermato che la teoria della perdita di laboratorio è «fattibile». Sia l’Oms che il presidente Biden hanno chiesto un’indagine completa. Secondo il Mail on Sunday, i dettagli sul misterioso "Patient Su" sono stati rivelati per via di un errore commesso da un importante funzionario cinese. Si dice che abbiano inviato accidentalmente uno screenshot a una rivista medica cinese che mostrava che il paziente viveva in Zhuodaoquan Street. La strada è vicina ai laboratori di Wuhan e ad una rete metropolitana che si ritiene abbia svolto un ruolo cruciale nella diffusione del virus tra gli 11 milioni di abitanti della città. Il professor Yu Chuanhua, professore di biostatistica all'Università di Wuhan, ha anche affermato di avere dati su tre persone che si sono ammalate prima di dicembre. La Cina ha dovuto affrontare accuse diffuse di aver manipolato le sue statistiche e di aver travisato il suo ruolo nei primi giorni della pandemia. All'inizio di questa settimana Dominic Cummings ha detto che il suo ex capo Boris Johnson è stato informato già nell'aprile 2020 sui timori che la pandemia potesse essere originariamente trapelata da un laboratorio. La scorsa settimana è emerso anche che alcuni membri del personale di laboratorio della città erano stati ricoverati in ospedale settimane prima che la Cina ammettesse di dover affrontare un focolaio.

"Un insetto scappato dal laboratorio". Cosa c'è di vero. Federico Giuliani il 2 Giugno 2021 su Il Giornale. Ecco l'ultima teoria sulle origini del Covid: un insetto, a quanto pare infetto, sarebbe fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan e avrebbe contagiato una donna cinese di 61 anni. La caccia al paziente zero del Covid, ovvero il primo essere umano ad aver contratto il Sars-CoV-2, potrebbe aver fatto emergere una scoperta sensazionale. Una scoperta collegata al laboratorio di Wuhan. Certo, al momento non ci sono ancora prove assolute e inconfutabili in grado di confermare o smentire l'ipotesi sull'origine del coronavirus che stiamo per raccontare. Eppure, una pista del genere rischia di mescolare tutte le carte in tavola.

Il paziente zero, il laboratorio e l'insetto misterioso. Fin qui avevamo preso per buona la versione riportata in uno studio pubblicato dalla rivista Lancet. La prima persona a cui sarebbe stato diagnosticato il Covid-19 – per la cronaca, il primo dicembre 2019, a Wuhan, in Cina – risponderebbe all'identikit di un 70enne affetto da Alzheimer. Non ci sono altre informazioni, se non che l'anziano uomo sarebbe stato ricoverato in un ospedale cittadino per poi essere trasferito (29 dicembre) allo Jinyintan Hospital dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute. Il Mirror dà tuttavia spazio a un'altra versione. Quella secondo cui la prima persona ad aver contratto il coronavirus non sarebbe altro che una donna cinese di 61 anni soprannominata Patient Su. La misteriosa signora abiterebbe a circa tre miglia dal Wuhan Institute of Virology (WIV), cioè dal laboratorio dal quale – a detta di alcuni esperti – sarebbe fuggiro accidentalmente il pericoloso virus che avrebbe provocato la pandemia globale. Attenzione però, perché questa versione si sofferma su un particolare nuovo di zecca: il Sars-CoV-2 sarebbe fuggito dalla struttura "grazie" a un insetto. La scoperta porta la firma di Gilles Demaneuf, scienziato che, assieme a un team di colleghi, sta portando avanti un'indagine indipendente sulle origini del Covid. A quanto pare, la donna si sarebbe ammalata a novembre. Avrebbe manifestato sintomi analoghi a quelli provocati dal Sars-CoV-2 e, per questo motivo, sarebbe stata condotta presso l'ospedale Rongjun di Wuhan. Ricordiamo che le autorità cinesi hanno sempre fatto risalire il primo caso registrato di Covid l'8 dicembre.

Domande senza risposta. Ricapitolando: un insetto non meglio specificato, a quanto pare infetto, sarebbe fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan e avrebbe contagiato Patient Su. La 61enne, stando alle rivelazioni del Mail on Sunday, abiterebbe in Zhoudaoquan Street, la strada che passa accanto ai laboratori cittadini, nei pressi di una rete metropolitana - la linea 2 - e anche non lontano da un ospedale dell'Esercito Popolare di Liberazione che avrebbe curato alcuni degli altri primi casi di Covid. La suddetta linea della metropolitana, inoltre, potrebbe aver contribuito a diffondere il virus in tutta la megalopoli. Ma da dove sarebbe saltata fuori Patient Su? I dettagli sul suo conto sarebbero stati rivelati, per sbaglio, da un alto funzionario cinese. Quest'ultimo avrebbe inviato accidentalmente uno screenshot a una rivista medica nazionale contenente i dati sulla signora. Certo è che serviranno ulteriori dettagli per fare maggiore chiarezza sulla storia dell'insetto. Le domande senza risposta sono ancora numerose. Ad esempio: come ha fatto l'insetto a infettarsi in laboratorio? E poi: come avrebbe fatto, a sua volta, a contagiare la signora cinese? Le prove sono poche e per niente schiaccianti. Innanzitutto, ammesso che il virus possa davvero essere uscito dal laboratorio, non conosciamo quale insetto lo avrebbe trasmesso a Patient Su. Al contrario, appare più plausibile supporre che il patogeno sia stato in grado di contagiare qualche addetto della struttura. Sarebbe tuttavia interessante chiarire, una volta per tutte, l'identikit del paziente zero della pandemia di Covid. Una volta accertato questo, potrebbe essere più semplice ricostruire l'intero mosaico.

Federico Giuliani. Federico Giuliani è nato a Pescia (Pistoia) nel 1992. Si è laureato in Comunicazione, Media e Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" di Firenze. Si è poi specializzato in Strategie della Comunicazione Pubblica e Politica con una tesi sul sistema politico della Corea del Nord, Paese che ha visitato nel 2017. È iscritto all'Albo dei Giornalisti Pubblicisti dal 2015. L'Asia è il suo campo di ricerca. Dall'agosto 2018 si occupa regolarmente di vicende asiatiche per ilGiornale.it e InsideOver. Ha scritto due libri: Corea del Nord. Viaggio nel paese-bunker (Polistampa, 2018) e La Rivoluzione Ignota. Dentro la Corea del Nord. Socialismo, progresso e ...

La pericolosa connessione tra laboratori Usa, canadesi e cinesi. Federico Giuliani su Inside Over l'1 giugno 2021. Dagli Stati Uniti al Canada, dall’America alla Cina. Ricerche accademiche, informazioni riservate e report altamente sensibili potrebbero essere transitati, con estrema facilità e in maniera teoricamente legale, da un lato all’altro del pianeta. È così che, nel corso degli anni, i laboratori cinesi avrebbero incrementato a dismisura il loro know-how negli ambiti più disparati della ricerca scientifica, compresa quella inerente alla trasmissibilità dei virus. Sia chiaro: non sappiamo se il Sars-CoV-2 sia fuoriuscito dal Wuhan Institute of Virology (WIV). Ma, se così fosse, è plausibile immaginare che l’eventuale incidente possa essere stato indirettamente favorito dalla “pericolosa” connessione esistente tra le strutture americane e i centri cinesi. In ogni caso, al netto della vicenda Covid, è quasi certo che molteplici contenuti classificati siano passati da un laboratorio all’altro. Per quale motivo? Semplice. Basta seguire il filo rosso che lega Washington a Ottawa, e che dal Canada si dirama fino a Pechino. Stati Uniti e Canada, in virtù dell’accordo di condivisione della difesa nordamericano, condividono tra loro le cosiddette informazioni classificate. Con questo termine indichiamo documenti di qualsiasi forma – cartacei, digitali, audio o video – ai quali hanno accesso un ristrettissimo numero di persone a causa dell’importanza dei loro contenuti.

Informazioni classificate: dagli Usa alla Cina via Canada? Come ha sottolineato Asia Times, esiste una forte possibilità che alcune informazioni americane classificate siano arrivate in Canada, e da qui alla Cina. La connessione che ci interessa analizzare non riguarda tanto i legami che uniscono i governi di Paesi citati, quanto le relazioni tra i laboratori nazionali. A quanto pare, qualche anno fa, lo US Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID) di Fort Detrick, nel Maryland, era solito lavorare di sponda con altri laboratori americani e stranieri, tra cui, probabilmente, anche alcune strutture cinesi. Sappiamo che Fort Detrick era collegato al National Microbiology Lab canadese di Winnipeg, un centro di ricerca a sua volta – pare – “penetrato” completamente dai cinesi, incluso un membro della China’s biowarfare community. È utile leggere quanto riportato dal quotidiano canadese Globe and Mail: “Uno dei ricercatori cinesi, Feihu Yan, dell’Accademia di scienze mediche militari dell’Esercito di liberazione del popolo (PLA), ha lavorato per un periodo di tempo presso il laboratorio di Winnipeg, una struttura di livello 4 attrezzata per gestire alcune delle malattie più mortali del mondo”. Non è finita qui, perché nel laboratorio pare ci fossero almeno sette scienziati cinesi. Due di loro, Xiangguo Qiu e suo marito, il biologo Keding Cheng, sono stati licenziati nel gennaio 2021, complice l’intervento del Canadian Security Intelligence Service, per non meglio specificati “motivi di sicurezza nazionale”. L’ipotesi più allettante? La coppia potrebbe aver inviato campioni di virus mortali al laboratorio di Wuhan.

Falle americane e canadesi. Detto altrimenti, i laboratori americani e canadesi avrebbero indirettamente collaborato con il WIV in Cina per creare un coronavirus più letale e trasmissibile così da ideare una cura per scongiurare eventuali pandemie globali. Se così fosse, oltre alla struttura di Wuhan, anche i centri americani, tra cui Fort Detrick, il CDC e il National Institutes of Health (NIH) avrebbero bisogno di ulteriori indagini. È infatti possibile che le eventuali ricerche effettuate oltre la Muraglia possano essere identiche a quelle effettuate al di là dell’Oceano. In particolare, i riflettori sono puntati sugli studi gain-of-function, attuati negli Stati Uniti e, forse, anche in Cina. È proprio a causa di studi del genere che Washington sarebbe stata costretta a chiudere momentaneamente alcuni laboratori. Il CDC è emblematico: “Le due violazioni (avvenute a Fort Detrick) segnalate dall’USAMRIID al CDC hanno dimostrato un fallimento del laboratorio dell’esercito nell’implementare e mantenere procedure di contenimento sufficienti a contenere agenti o tossine selezionate che sono state effettuate da operazioni nel livello di biosicurezza 3 e 4“. Insomma, nonostante il più alto livello di sicurezza, alcuni errori avrebbero creato problemi tali da costringere le autorità americane a interrompere gli studi. Il WIV cinese, per la cronaca, è un laboratorio di livello 4 ma, a quanto pare, non tutta la struttura avrebbe seguito standard adeguati. Dulcis in fundo, c’è un altro aspetto da considerare. Nel 2017 e nel 2018 gli Stati Uniti hanno effettuato almeno due ispezioni al laboratorio di Wuhan. Perché mai un team di ispezione statunitense è riuscito a entrare più volte in un laboratorio cinese? Pare che gli americani fossero in possesso di uno status speciale a causa della cooperazione di alto livello e top secret perpetuato tra gli Stati Uniti, la Cina e altri partner, tra cui il Canada.

Che cosa si studiava davvero nel laboratorio di Wuhan. Federico Giuliani su Inside Over l'1 giugno 2021. Giochi pericolosi, relazioni intrecciate tra laboratori, informazioni riservate passate da una parte all’altra dell’oceano. E ancora: ipotesi, teorie – tra cui, certo, le immancabili teorie del complotto – indiscrezioni, prove più o meno schiaccianti e convinzioni ideologiche. Basta mescolare tutti questi ingredienti per ottenere il contenuto principale del dibattito internazionale sulle origini del Sars-CoV-2. Sappiamo poco, pochissimo, del virus che da oltre un anno è emerso da chissà dove e chissà in quale modo. È chiaro che la comunità scientifica, prima o poi, dovrà ricostruire l’intera vicenda del Covid. Ci vorranno mesi, anni, forse decenni. Ma, proprio come accaduto con le precedenti epidemie – pensiamo alla Sars e alla Spagnola – uno strato di verità potrebbe emergere. È tuttavia altrettanto evidente che, in assenza di indizi concreti, appare complicato costruire un solido ragionamento a prova di propagande incrociate e bufale da social network. Al momento, l’unico modo per effettuare considerazioni sensate è lavorare con il (poco) materiale a disposizione. La teoria della fuoriuscita del virus dal laboratorio di Wuhan sia tornata in auge? Benissimo. Anziché confermarla o confutarla, poiché le prove latitano, vale la pena indagare sul Wuhan Institute of Virology (WIV). Che cos’è? Dove si trova? Che cosa succedeva al suo interno? Quali studi venivano realizzati?

La nascita del laboratorio di Wuhan. Partiamo dalle basi. Il WIV è un istituto di ricerca sulla virologia gestito dall’Accademia cinese delle scienze. Si trova a Wuhan, nella provincia dello Hubei, e nel 2015 ha aperto il primo laboratorio BSL-4 della Cina, ovvero di livello di biosicurezza 4, il più alto in assoluto. La struttura ha legami con altri laboratori esteri, tra cui il Galveston National Laboratory negli Stati Uniti, il Centre International de Recherche en Infectiologie in Francia e il National Microbiology Laboratory in Canada. Sappiamo inoltre che il laboratorio BSL-4, lo stesso laboratorio finito nell’occhio del ciclone, è nato grazie a una fondamentale partnership franco-cinese. Era il 2003 quando il mondo intero scampo al pericolo di una pandemia globale di Sars. All’epoca, l’antenato del Sars-CoV-2 riuscì a fare danni limitati, ma fu proprio in quel periodo che le autorità cinesi decisero di migliorare la capacità nazionale di contrasto alle epidemie. Nel 2004, Hu Jintao e Jacques Chirac, all’epoca rispettivamente presidente cinese e francese, si accordarono per sconfiggere insieme le prossime malattie emergenti. Frutto dell’intesa, la decisione di costruire un laboratorio per studiare i virus altamente patogeni. Quella struttura sorse a Wuhan, grazie a finanziamenti cinesi ma anche (e soprattutto) al supporto di tecnologia ed esperti francesi. A quanto risulta, Parigi avrebbe dovuto partecipare alle attività e al controllo del laboratorio. Eppure, da quando il centro entrò in funzione nel 2018 – in concomitanza con la prima visita di stato in Cina di Emmanuel Macron – i francesi furono estromessi dal progetto. In altre parole, i cinesi iniziarono a lavorare sui virus in totale autonomia. E maneggiando tecnologie altamente sensibili.

I rischi della ricerca gain-of-function. Date le “origini” occidentali del WIV, e le sue connessioni accademiche con altre strutture internazionali, è altamente plausibile supporre che all’interno del laboratorio cinese venissero realizzati studi simili a quelli effettuati nel resto del mondo. Vale la pena citare Shi Zhengli, la nota virologa cinese – nota anche con il soprannome di Bat Woman – a capo del Center for Emerging Infectious Diseases. Sulla base di alcuni suoi lavori scientifici, è possibile credere (non vi è certezza) che miss Shi sia riuscita a convertire con successo un coronavirus simile alla Sars, il virus SHCO14-CoV, dai pipistrelli ad altri animali. Chissà, poi, che questo virus – magari a causa di standard di sicurezza non propriamente eccelsi – non sia riuscito accidentalmente a contagiare anche alcuni addetti della struttura, come ipotizzato da un report Usa pubblicato dal Wall Street Journal. In ogni caso, studi del genere sono chiamati gain-of-function, alla lettera ricerca guadagno di funzione. Stiamo parlando di una ricerca pericolosissima, che, tra l’altro, costrinse gli Stati Uniti, tra il 2014 e il 2017, a sospendere studi e attività a causa di problemi e incidenti di laboratorio. Ma che cosa sono, in pratica, gli studi gain-of-function? Nella speranza di sviluppare adeguate contromosse per frenare l’ipotetica evoluzione di virus temibili, come ad esempio la Mers e la Sars, gli esperti rendono tali patogeni più forti e più trasmissibili mediante attività di laboratorio. Detto altrimenti, l’idea consiste nel produrre virus “pompati” artificialmente più di quanto non siano in natura per studiare il meccanismo attraverso il quale si trasformano e interagiscono con l’ospite, sia esso animale o umano. Nel caso in cui tutto dovesse svolgersi senza intoppi, gli esperti potrebbero essere in grado di creare farmaci ad hoc per sconfiggere questi virus per sempre. Ma i rischi non mancano. Già, perché se durante un esperimento il virus rafforzato dovesse diffondersi tra i ricercatori o tra gli animali coinvolti nelle attività, allora potrebbe accade il pandemonio.

Le domande sul virus alle quali la Cina (ancora) non ha risposto. Andrea Massardo su Inside Over l'1 giugno 2021. Attorno alla nascita della pandemia di coronavirus sono state avanzate molteplici ipotesi, a partire da quella che vedeva il primo contagio essere avvenuto nel mercato di Wuhan, passando per quella della trasmissione tramite il contatto diretto con un pipistrello malato sino a quella della fuga da un laboratorio di ricerca. Ma se in un primo momento la versione del virus “scappato” agli scienziati e ai ricercatori cinesi era stata scartata come semplice visione complottista, con le ultime ricerche questa possibilità sembra essere stata rivalutata dagli esperti, al punto da ritenerla plausibile nell’85% dei casi.

La Cina respinge le accuse. Nonostante diverse ricerche pubblicate negli ultimi mesi abbiano verificato una tutt’altro che remota possibilità che il Covid-19 sia scappato al controllo degli scienziati cinesi, Pechino ha sempre respinto ogni accusa, prediligendo la strada del contatto avvenuto tramite contagio animale. E sebbene rispetto a un primo momento tale supposizione si fondi principalmente sulla possibilità che sia “fuggito” in seguito ad attività di ricerca biologica-sanitaria e non nel tentativo di creare un’arma batteriologica, poco cambia nelle volontà della Cina di vagliare questa strada. Che si tratti della necessità di tenere segrete le proprie ricerche sulle armi non convenzionali oppure, più verosimilmente, di ammettere un’errore verificatosi in seguito ad uno studio volto a prevenire una nuova pandemia, non cambia il nocciolo della questione. Alle continue richieste di chiarimenti, inoltre, l’unica risposta fino a questo momento fornita è stata quella di concentrare l’attenzione delle ricerche verso altri scenari, che sino a questo momento hanno però sempre condotto ad un vicolo cieco e ad un nulla di fatto. Come riportato dal The Times persino il consulente dell’Oms Jamie Metzl ha alluso a molteplici tentativi di insabbiamento da parte del governo di Pechino.

Indagine o visita guidata? Sono state molte le voci all’interno dell’Oms che hanno criticato la condotta nel corso degli studi circa la sicurezza degli istituti di ricerca di Wuhan. Oltre allo stesso direttore dell’organizzazione, Adhanom Ghebreyesus, che ha più volte sostenuto come l’indagine all’interno dei laboratori non sia stata abbastanza ampia causa impedimenti, un altro alto membro dell’Oms, Larry Gostin, ha definito il sopralluogo come “una visita guidata a Disneyland”. Chiaro, dunque, che prima di accettare di aprire i propri laboratori alle autorità internazionali la Cina abbia compiuto in autonomia le proprie valutazioni e, forse, si sia adoperata per “nascondere” il modo in cui effettivamente si è svolta la vicenda. Almeno, con l’obiettivo di non apparire né colpevole né impreparata di fronte ad una squadra di investigatori che, dal punto di vista di Pechino, entrava nell’epicentro della pandemia con l’obiettivo primario di trovare un colpevole al dramma sanitario mondiale.

La Cina aveva paura della Sars. Non è un segreto, infatti, che dopo l’epidemia di Sars la Cina si sia adoperata per evitare che una crisi sanitaria della stessa entità colpisse di nuovo il loro Paese. E negli studi sulle varianti della Sars e del loro incubatore principale, il pipistrello, si è contraddistinta negli anni una ricercatrice in particolare, Shi Zhengli, che si è guadagnata l’appellativo di Bat Lady. Tuttavia, dai registri degli studi portati avanti dalla Zhengli non risultano varianti che avrebbero provocato i sintomi riscontrati invece nei pazienti colpiti da Covid-19. La stessa, infatti, negli scorsi mesi avrebbe dichiarato di aver tirato un “enorme sospiro di sollievo” quando è venuta a conoscenza della mancata correlazione tra i suoi studi e lo scopo della pandemia. Ma anche questa versione, dopo la netta presa di posizione del presidente americano Joe Biden nei confronti di Pechino, potrebbe essere nuovamente messa in discussione per dare vita ad un nuovo filone di approfondimenti.

Le paure (attuali) di Pechino. La pandemia di coronavirus ha inflitto alla Cina pesanti danni di immagine, rischiando di distruggere quel mito di perfezione e infallibilità che era riuscita a costruirsi nell’ultimo trentennio. Ammettere, riconoscere o scoprire che la malattia che ha atterrato il mondo ormai per un anno e mezzo sia imputabile a suoi errori rischierebbe infatti di farle perdere quei pilastri di credibilità internazionale che hanno contribuito alla sua esplosione produttiva. Errore o episodio sfortunato, voluto o indesiderato e vero o falso, allo stato attuale, sono binomi che hanno ben poca importanza per Pechino, interessata principalmente a difendere la propria immagine in vista della ripartenza economica. E sotto questa chiave di lettura, in fondo, vanno anche lette le riserve dei cinesi nei confronti delle indagini internazionali, le quali rischierebbero di dare quel “colpo di grazia” di cui la Cina in questo momento proprio non avrebbe bisogno, considerando le possibilità di ripercussione anche commerciali qualora si confermassero gli insabbiamenti sul caso Wuhan. In uno scenario che, di conseguenza, rischierebbe di scombinare molti equilibri anche tra le sue storiche alleanze.

Il possibile ruolo dei laboratori Usa negli studi cinesi sul Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 31 maggio 2021. I riflettori si sono di nuovo accesi sul laboratorio di Wuhan. La teoria della fuga accidentale del coronavirus dal Wuhan Institute of Virology (WIV) è tornata a riempire le pagine dei giornali di mezzo mondo. Tutto è partito dalla diffusione, da parte della stampa americana, di un rapporto realizzato dall’intelligence statunitense. Una delle prove più forti contenuta nel dossier consisterebbe nel fatto che tre addetti della struttura, nell’autunno del 2019, si sarebbero ammalati “con sintomi compatibili sia con Covid-19 che con una comune malattia stagionale”. Occhio alle tempistiche, visto che le autorità cinesi hanno datato il primo contagio mai registrato in via ufficiale al dicembre 2019. Insomma, l’amministrazione guidata da Joe Biden sta cercando in tutti i modi di far pressione sulla Cina nel tentativo di inchiodare Pechino sulle sue (eventuali) responsabilità. Attenzione però, perché in passato pare che gli Stati Uniti abbiano collaborato proprio con l’Istituto di virologia di Wuhan per studiare i pericolosi coronavirus. Alla luce di tutto ciò è lecito chiedersi che ruolo possa aver avuto Washington, nel corso dei decenni, nelle ricerche effettuate dallo stesso laboratorio cinese, adesso finito nel mirino dell’opinione pubblica.

La collaborazione Cina-Usa sui coronavirus. Secondo quanto riportato da Asia Times, Shi Zhengli, una delle più famose virologhe cinesi, nota con il soprannome di Bat Woman, nel 2015 realizzò una ricerca intitolata A SARS-like cluster of circulating bat coronaviruses show potential for human emergence. Tra i colleghi inclusi nel paper figuravano anche ricercatori americani associati al Dipartimento di Biologia Cellulare dell’Università della Carolina del Nord. Gli stessi potrebbero essere collegati a un minuzioso lavoro scientifico finanziato proprio dal governo degli Stati Uniti. Che cosa sia accaduto nella struttura cinese, non è dato sapere. Possiamo fare soltanto varie ipotesi. È possibile che la dottoressa Shi abbia convertito con successo un coronavirus – il virus SHCO14-CoV, simile alla SARS – dai pipistrelli ad altri animali, e che il patogeno – ipotesi plausibile ma non dimostrata – si sia diffuso anche agli operatori. La Cina, secondo il report americano, avrebbe effettuato una Gain-of-Function Research, cioè una ricerca sul guadagno di funzione. Questo termine viene impiegato per tutte quelle ricerche, considerate pericolosissime, in cui avviene un passaggio seriale di microrganismi per aumentare la loro trasmissibilità, virulenza, immunogenicità applicando una pressione selettiva a una coltura. Siamo di fronte a una pratica che, tra il 2014 e il 2017, ha costretto gli Stati Uniti a sospendere ricerche simili sovvenzionate dal National Institutes of Health e altre agenzie. Non solo: il governo americano, per questioni di sicurezza, nel 2019 ha dovuto chiudere temporaneamente alcuni laboratori tra cui l’Istituto di ricerca medica delle malattie infettive dell’esercito americano (USAMRIID) a Fort Detrick, nel Maryland.

Laboratori americani e cinesi. Se i laboratori americani hanno dovuto fare i conti con problematiche del genere, allora quasi sicuramente – sostengono gli esperti – anche i centri cinesi si sono ritrovati in una situazione analoga. A maggior ragione se le strutture prese in esame stavano realizzando una qualche Gain-of-Function Research. A Fort Detrick sono inoltre stati riscontrati errori sul trattamento dei rifiuti, e lo stesso tipo di errore sarebbe avvenuto anche nel laboratorio di Wuhan, dato che le prassi sarebbero state identiche. Non solo: Fort Detrick è stato collegato al National Microbiology Lab canadese a Winnipeg, struttura, a detta di vari analisti, completamente penetrata da ricercatori cinesi. Il quotidiano canadese Globe and Mail è stato chiaro nello scrivere che uno dei ricercatori cinesi, tale Feihu Yan, dell’Accademia di scienze mediche militari dell’Esercito di liberazione del popolo avrebbe lavorato per un periodo di tempo presso il laboratorio di Winnipeg, “una struttura di livello 4 attrezzata per gestire alcune delle malattie più mortali del mondo”. I dettagli non sono stati diffusi, ma pare che uno o più ricercatori cinesi, prima di essere allontanati, abbiano visitato il laboratorio Fort Detrick, lasciando presupporre una stretta cooperazione tra il centro di Winnipeg e lo stesso Fort Detrick. Questa collaborazione potrebbe aver incluso – sorpresa – anche il laboratorio di Wuhan. È infine importante considerare un altro aspetto: Stati Uniti e Canada condividono informazioni classificate, e dunque è possibile che alcune di queste informazioni americane siano giunte prima a Winnipeg, poi a Wuhan e nel resto della Cina. Grazie alla presenza di ricercatori cinesi? Non è (ancora) dato sapere.

Mezz'ora in più, "fonti certe sul laboratorio di Wuhan": parla l'immunologo Silvestri, cosa facevano davvero lì dentro. Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. Ormai non è più un tabù parlare dell’ipotesi secondo cui il coronavirus sarebbe “scappato” involontariamente dall’istituto di virologia di Wuhan. Fino a qualche mese fa tale teoria era bollata come cospiratoria e complottista, ma ultimamente le cose sono cambiate, complici i tanti indizi raccolti e le denunce provenienti anche dai vertici degli Stati Uniti. Ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più - la trasmissione in onda la domenica pomeriggio su Rai3 - l’immunologo Guido Silvestri ha approfondito la questione. “Anche noi abbiamo trovato una sequenza nel virus che è particolarmente strana e difficile da spiegare attraverso una ricombinazione naturale. Noi sappiamo da fonti certe - ha dichiarato - che l’istituto di virologia di Wuhan stava lavorando da anni all’elaborazione in vitro di varianti virali che avevano una aumentata capacità di infettare le cellule umane”. Ovviamente l’immunologo ha preferito trattare l’argomento con i piedi di piombo, ma è percepibile la convinzione che qualcosa forse è effettivamente successo nel laboratorio di Wuhan. “Questo non vuol dire che il virus è partito da lì, però la spiegazione non è totalmente peregrina”, ha aggiunto Silvestri, che poi ha sottolineato un altro aspetto importante: “Bisogna tenere a mente che l’insorgenza della pandemia è avvenuta nel mercato di Wuhan, a due o tre chilometri da distanza da dove c’è l’istituto di virologia. È importante cercare di acquisire quanti più dati possibili in maniera trasparente - ha chiosato - e indipendente da ogni interferenza politica per capire cos’è successo davvero”. 

Antonio Socci: Covid "scappato" dal laboratorio? Chissà perché ora si può dire ma prima era da complottisti. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 30 maggio 2021. La possibile provenienza del Covid-19 dai laboratori cinesi di Wuhan (probabilmente una fuoruscita accidentale) un anno fa era già stata illustrata, fin nei dettagli, dal professor Joseph Tritto nel libro "Cina-Covid 19. La chimera che ha cambiato il mondo" (Cantagalli). Un libro uscito ad agosto 2020 e snobbato dai media mainstream. La ricostruzione della vicenda fatta da Tritto è stata sospettata di "disinformazione" dalla polizia del pensiero della rete, fino alla censura. Nessuno sembrava interessato a capire se era vero o no ciò che riportava il libro. Il fatto stesso che confermasse, con argomenti scientifici, quanto andava dicendo da mesi il presidente Donald Trump, bastava a renderlo tabù. Accennare al laboratorio di Wuhan era sufficiente per essere bollati come trumpiani o liquidati come "complottisti". Dovevamo rassegnarci tutti alla storia del pipistrello a cui era addebitato tutto lo sfacelo umanitario ed economico provocato dal Covid nel mondo intero. Oggi d'improvviso sembra che il vento si sia messo a soffiare in senso opposto. Spazzato via Trump si riaccendono i riflettori su Wuhan.

La mossa di Biden. Al punto che Joe Biden ha dichiarato di aver chiesto all'intelligence di «raddoppiare gli sforzi per arrivare entro tre mesi ad un rapporto definitivo» sull'origine del Covid e pretende che il regime cinese risponda «a domande specifiche». Ormai da settimane autorevoli personalità sui giornali parlano della possibile origine artificiale del virus. Il caso più clamoroso è quello di Anthony Fauci, capo dell'Istituto nazionale americano di malattie infettive. È quell'alto consigliere della presidenza Usa (alla testa della task force contro il Covid) che per mesi è stato visto dai Dem come il controcanto a Trump stesso. Nel maggio 2020, Fauci dichiarava: «L'evidenza scientifica indica fermamente che il virus sia evoluto in natura per poi compiere il salto di specie. E dunque non possa essere stato manipolato in laboratorio». In questi giorni, a un anno di distanza, Fauci ha dichiarato l'opposto: «Non sono convinto che il Covid 19 abbia origine naturale. Penso che dobbiamo continuare ad indagare su cosa sia successo in Cina fino a quando troveremo le risposte più esatte». Due settimane fa, sull'autorevole rivista Science, diciotto importanti scienziati hanno scritto che l'inchiesta dell'Oms, in collaborazione con la Cina, non ha spiegato nulla e occorre una vera inchiesta internazionale che valuti anche «l'ipotesi dell'incidente di laboratorio». Quattro giorni fa il Wall Street Journal - riportando fonti dei servizi segreti - ha parlato di tre ricercatori del laboratorio di virologia di Wuhan che sarebbero stati ammalati (e ricoverati) nel novembre 2019 con sintomi «compatibili sia con il Covid, sia con l'influenza stagionale». Per capire come il vento stia cambiando basta vedere un titolo del Corriere della Sera di ieri: «A Wuhan esperimenti aggressivi. La Cina mente sull'origine del virus». Questa frase virgolettata titolava un'intervista a «Jamie Metzl, collaboratore di Clinton e Biden» il quale «assegna un 85 per cento di probabilità alla "fuga" dal laboratorio». Metzl spiega: «Se non troviamo la verità e non affrontiamo le vulnerabilità, correremo rischi non necessari per future pandemie». Ma il segnale più chiaro del capovolgimento di scenario è arrivato da Facebook. Infatti ha annunciato che, da ora in poi, non censurerà e non rimuoverà più i post degli utenti che parlano della possibile fuoruscita del virus dal laboratorio di Wuhan. Il professor Benedetto Ponti, docente di Diritto amministrativo e Diritto dei media digitali all'Università di Perugia, sostiene che si dovrebbe riflettere seriamente su tutta questa vicenda e su come si è sviluppata. Nonostante fin dall'inizio circolasse l'ipotesi dell'origine artificiale del virus, osserva Ponti, «il giudizio degli scienziati era descritto come compattamente schierato per l'origine naturale. Perciò la diffusione di questa fake news (così era bollata) era attivamente contrastata sia ad opera delle stesse piattaforme, sia sulla base di specifiche policy pubbliche, del governo italiano e anche a livello Ue». Il professor Ponti si chiede: «È corretto e utile avere tante certezze, quando si ha a che fare con un fatto "nuovo"?». Certo, «la lotta alla disinformazione in materia di Covid-19 intende prevenire o ridurre i danni derivanti dalla diffusione di informazioni ingannevoli, che minano la fiducia del pubblico, ma che accade se una tesi, bollata come "disinformation", riceve poi credito anche nella comunità scientifica? "Castrare" la discussione pubblica, bollando certe tesi come false ed ingannevoli, per poi scoprire che invece meritano di essere analizzate, e non preventivamente squalificate, è un buon servizio alla salute?».

Danni da censura. Peraltro si trattava di «contenuti del tutto leciti», quindi la censura lascia ancor più perplessi. Ponti aveva già provato, con un articolo su una rivista giuridica della primavera 2020, a mettere in guardia «dagli effetti nefasti che sarebbero derivati da un approccio "censorio" alla discussione pubblica». Una informazione libera - conclude lo studioso - è utile anche «per la tutela della salute (presente e futura)». Dunque fra i tanti danni di questa pandemia c'è pure il rischio di "sinizzazione" della nostra democrazia. Del resto il Covid-19, all'Italia e al mondo intero, è costato - in termini di vittime e di danni economici - quasi quanto una guerra perduta. Mentre, paradossalmente, la Cina sembra la meno penalizzata. Vedremo cosa si scoprirà sul laboratorio di Wuhan. Se alle negligenze del regime comunista, nei primi mesi dell'epidemia, si dovessero aggiungere pure delle negligenze del laboratorio di Wuhan, se cioè si accertasse la fuoruscita accidentale del virus, le responsabilità della Cina sarebbero gravissime e molti paesi potrebbero porre il problema del risarcimento.

L'incredibile scoperta dell'intelligence Usa sul Covid-19. Piccole Note il 28 maggio 2021 su Il Giornale. “Mamma ho perso il computer”. Questo il titolo che volevamo mettere a questa nota, che iniziamo con una notizia strabiliante: la Comunità dell’intelligence Usa ha riferito alla Casa Bianca di aver trovato nei propri computer una quantità di elementi sull’origine del Covid-19 non ancora esaminati (The Hill). Strabiliante: dopo un anno di indagini sull’evento che ha devastato il mondo, l’intelligence Usa scopre per caso che nei propri cassetti sono riposte prove forse decisive su quanto avvenuto. E dire che tale “intelligenza” per tutto il tempo della pandemia è stata guidata da un’amministrazione che ha fatto di tutto per accreditare l’idea che il virus fosse stato prodotto nel biolaboratorio di Wuhan…Tale scoperta avveniva, coincidenza, proprio mentre la Casa Bianca chiudeva le indagini avviate dalla pregressa amministrazione sul tema (Cnn). Messo di fronte a questo incredibile scoperta, il presidente americano ha dovuto ovviamente riaprire l’inchiesta, altrimenti i suoi avversari l’avrebbero accusato di colludere con Pechino in danno agli Stati Uniti.

L’Intelligence e gli scienziati. Così Biden ha dato all’intelligence Usa 90 giorni per trovare come è nato il virus. E laddove ha fallito la comunità degli scienziati del mondo, riuscirà la Cia. Evidentemente, nonostante i tanti premi Nobel distribuiti ogni anno, la comunità scientifica globale ha una preparazione deprimente. E dire che sono anche ferrati in bioingegneria, cioè sanno come si fabbricano certe cose. Lo sanno bene, solo per fare un esempio, anche i ricercatori della Johnson & Johnson, produttrice di un vaccino che va per la maggiore, che nel luglio 2019, poco prima della pandemia, avevano annunciato il positivo esito dello studio fase 2 del vaccino “mosaico” –  frutto cioè di bioingegneria – per l’Hiv. Ma ora ci penserà Cia a dare le risposte che il mondo aspetta. Né è il caso di mettere in dubbio la loro imparzialità, che non hanno nulla contro la Cina, nonostante da alcuni anni i loro report la definiscano come la “minaccia” più grande degli Stati Uniti d’America. Quando l’intelligence era cosa seria, e quando i giornali erano cosa seria, tutto questo sarebbe stato derubricato a pagliacciata. Altri tempi e va bene così. La Cina è ovviamente infuriata. E ha chiesto a sua volta di indagare sui tanti indizi che suggeriscono che il virus circolava nel mondo prima della sua comparsa a Wuhan (sul punto abbiamo scritto note pregresse, prima degli sviluppi in questione). Ma ovviamente non si farà. E di indagare sui “misteriosi laboratori biologici [americani ndr] sparsi in tutto il mondo”, che ovviamente non sarà fatto. Infine, il Global Times ricorda la simpatica battuta di Mike Pompeo, il quale, parlando dei suoi trascorsi a capo della Cia, ha detto: “Abbiamo mentito, abbiamo imbrogliato, abbiamo rubato”.

Indagini aggressive. Insomma, la guerra del coronavirus è destinata a durare ben oltre la fine della pandemia, dato che l’esito delle indagini Usa è alquanto scontato. Basta leggere la dichiarazione di Amanda Schoch, vicedirettore della National Intelligence for Strategic Communications: “L’Intelligence Commitee continua a esaminare tutte le prove disponibili, a considerare diverse prospettive e a raccogliere e analizzare in modo aggressivo nuove informazioni per identificare le origini del virus”. Dove appunto la parola più importante è “aggressivo”. Due le possibilità: una chiara responsabilità della Cina o un atto d’accusa più vago, utile a essere brandito, ma impossibile da sconfessare grazie alla sua aleatorietà, come accade spesso in tali casi. Ciò darebbe nuove e più potenti carte in mano ai falchi anti-cinesi per chiedere alla patria una politica più aggressiva nei confronti di Pechino e all’Europa di tagliare i ponti, soprattutto finanziari, con questa. C’è anche la possibilità di una richiesta di danni, tanto ingenti da mettere in ginocchio la Terra di Mezzo. Sul punto si interroga il Global Times, che però la immagina senza esito. Forse, a meno di non procedere alla confisca di beni cinesi all’estero, iniziativa più che incendiaria ma non impossibile in questo clima avvelenato.

The Atlantic in controtendenza. Di interesse, sul punto, quanto scrive The Atlantic, peraltro un media conservatore, in un’analisi in cui parte come assodata la teoria dell’errore del laboratorio di Wuhan. Se anche fosse vera, si legge, si tratterebbe di elaborare “una politica statunitense esattamente opposta a quella sollecitata dai falchi anti-cinesi”. Infatti, “la Cina può non essere una superpotenza pari agli Stati Uniti, ma è decisamente troppo grande per permetterci prepotenze. Se qualche errore cinese ha creato la pandemia Covid-19, gli Stati Uniti non possono inviare cannoniere nello Yangtze per estorcere risarcimenti”. “Se i laboratori cinesi non sono sicuri, gli Stati Uniti e il mondo devono trovare un modo per indurre la Cina a migliorare la propria sicurezza. E quell’imperativo implica di più cooperazione con la Cina, non meno. Implica un maggiore legame della Cina con l’ordine internazionale, migliori standard di salute e sicurezza transfrontalieri, più scienziati americani nei laboratori cinesi e più scienziati cinesi nei laboratori americani”.

“Non esiste una risposta ‘America First’ a una pandemia. Se la pandemia si fosse diffusa a causa della segretezza e della paranoia dei cinesi, muoversi nell’ambito della direttrice ”America First’ sarebbe una politica ancora più inutile e pericolosa di quanto già sembrava al tempo”.

Ps. Facebook, che fino a ieri censurava post contenenti la teoria del laboratorio, ci ha ripensato, cosa che evidenzia vieppiù il Potere “narrativo” del mezzo. Commentiamo l’iniziativa con le dichiarazioni del direttore di Microsoft Brad Smith, il quale ha allarmato sul rischio che lo sviluppo sfrenato (senza freni) della tecnologia precipiti il mondo in uno scenario orwelliano. Quanto profetizzato in 1984, ha detto, potrebbe avvenire nel 2024… non resta che associarsi.

Viviana Mazza per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2021. Dall' inizio del 2020 Jamie Metzl è stato tra i primi a sostenere che «la fonte più probabile della crisi del coronavirus potrebbe essere la diffusione accidentale da uno degli istituti di virologia di Wuhan». Esperto di tecnologia e geopolitica, ha lavorato al dipartimento di Stato sotto il presidente Clinton e come vicedirettore dello staff nella Commissione Affari Esteri del Senato sotto Joe Biden. È membro della commissione di esperti sull' editing del genoma umano dell'Oms e ha fondato l'iniziativa OneShared.World esplorando modi per affrontare le sfide globali. Lei, democratico, ha assunto sulle origini del virus la stessa posizione di Trump.

Si può separare scienza e politica?

«Sono un democratico, forte critico di Trump, ma la scienza mostra che Pechino mentiva nel dire che il virus provenisse dal mercato di Wuhan. Trump criticava l'Oms e la Cina per compensare il fallimento catastrofico della sua Amministrazione nella crisi, ma ciò non significa che non vada verificata la veridicità di tutte le affermazioni. Fui criticato da altri democratici e da alcuni importanti scienziati che scrissero che l'ipotesi più probabile era l'origine naturale e accusarono chiunque sostenesse il contrario di fomentare teorie complottiste. Ora il mondo si sta svegliando. Dall' anno scorso faccio parte di un gruppo informale di una ventina di esperti. Ci riuniamo regolarmente per cercare la verità. Abbiamo pubblicato tre lettere aperte e crediamo di aver contribuito a cambiare il dibattito mondiale».

Lei attribuisce all'origine in laboratorio una probabilità dell'85%.

«Non possiamo escludere la possibilità di un'origine in natura, è accaduto anche questo in epidemie passate, oltre che incidenti di laboratorio. Stavolta quest' ultima è l'ipotesi più valida perché sappiamo che il precursore del virus Sars-CoV-2 è stato trovato nei "pipistrelli ferro di cavallo", che non si trovano a Wuhan, ma lì si trova l'unico istituto cinese di virologia di livello 4, con la più ampia collezione di ricerche sui coronavirus dei pipistrelli; e perché il virus si è manifestato già perfettamente adattato alle cellule umane: in quell' istituto si tenevano ricerche aggressive, con il fine di arrivare a cure e vaccini. Ritengo altamente improbabile che lavorassero ad un'arma biologica».

E se la Cina rifiuta di collaborare?

«L' Assemblea mondiale della sanità è in corso, si chiuderà lunedì. È importante che i governi ordinino un'inchiesta onnicomprensiva sulle origini della pandemia: idealmente, con la collaborazione della Cina. Se la Cina la blocca, non avremo altra scelta che condurre un'indagine parallela, riunendo governi ed esperti mondiali. Molte delle informazioni apparse ora sui giornali sono state reperite da investigatori del web che fanno parte del nostro gruppo, e ci sono fonti scientifiche e di intelligence ancora non emerse. Se non troviamo la verità e non affrontiamo le vulnerabilità, correremo rischi non necessari per future pandemie».

Giuseppe Sarcina E Guido Santevecchi Per Il "Corriere Della Sera" il 27 maggio 2021. Joe Biden chiede ai servizi segreti di «raddoppiare gli sforzi e preparare un rapporto sull' origine del Covid-19 entro novanta giorni». In una nota diffusa dalla Casa Bianca, il presidente americano rivela «di aver già ricevuto un primo report», ma di non essere soddisfatto. «Dobbiamo andare avanti su due possibili scenari: il virus può essere emerso dal contatto tra uomini e animali infetti; oppure può essere derivato da un incidente di laboratorio». Biden annuncia che il governo Usa, in accordo con i partner mondiali, «continuerà a premere sulla Cina, in modo che possa partecipare a un'inchiesta internazionale, pienamente trasparente e basata su dati scientifici». La posizione di Washington è condivisa dall' Unione europea e da altri 13 Paesi. La comunità internazionale dei virologi, a cominciare da Anthony Fauci, sta cercando di separare scienza e politica. Impresa non facile, poiché fin dal gennaio 2020 il dibattito sulla nascita della pandemia è stato inquinato da teorie cospirative, in parte alimentate anche da Donald Trump. Al centro dell'attenzione l'Institute of Virology di Wuhan, la città-innesco della pandemia. La pista di un esperimento andato male ha ripreso quota da qualche mese. Per quale ragione? La risposta è facile: le missioni, le ricerche condotte dall' Organizzazione mondiale della Sanità non hanno dato esiti convincenti. Nel maggio del 2020 l'Oms ha promosso uno studio congiunto con gli scienziati cinesi. Poi nel febbraio del 2021 un team internazionale ha visitato Wuhan. Una missione giudicata «poco più di una farsa» dal Dipartimento di Stato americano, con Biden nel frattempo insediato alla Casa Bianca. In ogni caso il risultato è un papiro di 313 pagine, pubblicato sul sito il 30 marzo 2021, sulla base di dati esaminati tra il 14 gennaio e il 10 febbraio 2021. L' analisi conclude che «è molto probabile» che l'infezione sia stata trasmessa dagli animali (forse pipistrelli) agli esseri umani; mentre è «decisamente improbabile» che il virus si sia sviluppato nei laboratori di Wuhan. In realtà, ed è questo il passaggio chiave, non ci sono prove sufficienti a sostegno né dell' una né dell' altra tesi. La comunità scientifica internazionale segue con perplessità crescente gli sforzi dell' Oms, guidata dal direttore generale, Tedros Adhanom Ghebreyesus. Diversi virologi escono più volte allo scoperto. L' iniziativa più efficace è una lettera pubblicata il 13 maggio dalla rivista Science . «La ricerca è stata costruita sulla base dei dati forniti dagli scienziati locali; gli altri non hanno avuto accesso diretto agli accertamenti sul campo. Inoltre, nonostante non ci siano prove in un senso o nell' altro, il rapporto è estremante sbilanciato», scrivono i 18 specialisti provenienti da centri studi di alto livello (14 Usa, 2 Canada, 1 Regno Unito e Svizzera) che hanno firmato la lettera. «Su 313 pagine, solo quattro sono dedicate all' ipotesi di un incidente in laboratorio; tutto il resto esplora la possibilità di una trasmissione tra animali e uomini». Il dibattito tra gli scienziati stimola la curiosità dei media e, nello stesso tempo, incoraggia la fuga di notizie. Negli Stati Uniti saltano fuori dossier rimasti segreti per mesi. Il 24 maggio il Wall Street Journal dà notizia di un report dell'intelligence americana che rivela come, nel novembre del 2019, tre ricercatori dell' Institute of Virology di Wuhan si fossero ammalati contemporaneamente. I tre finirono in ospedale con «sintomi compatibili sia con il Covid-19 sia con l' influenza stagionale». Le carte dei servizi, quindi, non sono risolutive. Da mesi i cinesi ribattono che gli Stati Uniti continuano ad accusarli sulle origini del virus per coprire «il loro fallimento nella reazione alla pandemia». Ora pensano che il rapporto di intelligence sia stato passato al Wall Street Journal perché facesse rumore alla vigilia dell' assemblea generale dell' Oms. Il dottor Yuan Zhiming, direttore del Laboratorio di biosicurezza di Wuhan dice che «questa storia è una falsità costruita sul niente». In realtà, l' informazione sui tre ricercatori dell' Istituto di virologia che si sarebbero ammalati nel novembre del 2019 non era nuova, tanto che ne aveva discusso in pubblico anche Marion Koopmans, virologa inviata a Wuhan con la missione Oms lo scorso gennaio: «È normale che qualcuno stia male in autunno, noi non abbiamo riscontrato niente di grosso». C' è poi la risposta sull' efficacia della missione di febbraio. I 17 esperti internazionali a Wuhan hanno lavorato con 17 colleghi cinesi, che li hanno guidati e controllati in ogni spostamento, portandoli anche nel laboratorio (3 mila metri quadrati, completato nel 2015 a un costo di 42 milioni di dollari e pienamente operativo dal 2018). La loro permanenza è durata un mese, ma 14 giorni li hanno passati in quarantena chiusi in un albergo. Nel rapporto, pubblicato a marzo, il team Oms ha definito «estremamente improbabile» un errore durante ricerche scientifiche cinesi sui coronavirus e non ha riscontrato «falle nella sicurezza». Però, lo studio ammette la carenza di «raw data», dati grezzi sulle cartelle cliniche dei primi pazienti individuati. I colleghi cinesi hanno replicato: «In base alla nostra legislazione, alcuni dati non potevano essere consegnati o fotografati, ma li abbiamo analizzati insieme ai colleghi stranieri e tutti hanno potuto vedere il database». In questi mesi, tra gli indiziati per una possibile fuga del Sars-CoV-2 dal laboratorio, c' è stata Shi Zhengli, la famosa «Bat Woman» cinese che per quindici anni ha fatto ricerche nelle grotte della provincia sudoccidentale dello Yunnan, infestate dai pipistrelli. La virologa ha riferito di aver ricevuto una telefonata il 30 dicembre 2019, mentre era a una conferenza a Shanghai: «Era il direttore dell' Istituto di prevenzione e controllo delle malattie virali, da Wuhan: avevano trovato un nuovo coronavirus in due pazienti con polmonite». Shi Zhengli ha ammesso di aver subito avuto il dubbio atroce: «Può essere venuto dal nostro laboratorio?». Rientrata in città accertò che non era possibile: «Posso garantirlo sulla mia vita». È stato ipotizzato anche che persone infettate dai pipistrelli nello Yunnan abbiano portato il contagio a Wuhan. «Nessun abitante di quella zona ha avuto il Covid-19. Così, la teoria secondo cui il paziente zero viveva vicino alla zona mineraria di Tongguan nello Yunnan e poi ha viaggiato fino a Wuhan è falsa», ha concluso la scienziata.

Flavio Pompetti per "il Messaggero" il 25 maggio 2021. Il ceppo originale del Covid è venuto da un mercato di Wuhan in Cina, o da un laboratorio scientifico? La questione ha preso di petto ieri l'apertura dei lavori dell'Assemblea per la salute mondiale organizzata dall' Oms che, peraltro, si trova al centro di accuse sempre più insidiose proprio a causa delle indagini finora svolte. Nelle ultime settimane personaggi del calibro di Anthony Fauci e Robert Redfield hanno sollevato la questione, ed entrambi hanno espresso dubbi sull' accuratezza delle informazioni disponibili. In una audizione al congresso l'11 di maggio a Fauci è stato chiesto espressamente se pensava che il virus potesse essere uscito dal laboratorio di ricerca. «Non sono convinto della sua origine naturale. La possibilità certamente esiste - ha risposto lo scienziato - e io sono totalmente favorevole ad investigare fino in fondo». La teoria di un Covid prodotto dalla Cina era cara a Donald Trump, ed è stata rapidamente bollata dai media come una delle tante teorie complottiste diffuse dall' ex presidente. Lo scorso fine settimana un articolo sul Wall Street Journal ha riaperto il dibattito, raccontando che nel novembre del 2019 tre tecnici del laboratorio di ricerca di Wuhan sono stati ricoverati in ospedale con sintomi che potrebbero essere quelli di una semplice influenza aggravata, ma che sono anche assimilabili a quelli causati dal Covid 19. Il governo cinese però dichiara che il primo paziente è stato registrato solo l'8 di dicembre scorso. Ora a smentirlo, vantando prove che dimostrerebbero il contrario (validate anche da tre diversi esperti consultati dal giornale), un rapporto dell'intelligence Usa. Dal canto suo l'Organizzazione mondiale della sanità ha concluso lo scorso marzo la sua inchiesta in Cina producendo un rapporto nel quale si legge che l'origine animale del virus è la «più plausibile». Quello che non si legge è che le autorità cinesi non hanno collaborato in pieno con le indagini, e in particolare si sono rifiutate di concedere dettagli e prove documentali di un episodio occorso nel 2012. Nell' aprile di quell' anno sei minatori che erano entrati in una cava per ripulirla del guano depositato dai pipistrelli caddero vittime di una malattia misteriosa, e tre di loro morirono. I batteriologi chiamati a ispezionare il sito trovarono diversi tipi di nuovo coronavirus. Cosa ne è stato dei campioni raccolti? È possibile che su di loro siano state fatte ricerche che erano ancora in corso alla fine del 2019, e che i tecnici di un laboratorio li abbiano accidentalmente dispersi nell' ambiente? E queste sono proprio le domande poste da un gruppo di esperti all' interno di un documento che rigetta le conclusioni dell'Oms e alimenta le critiche nei confronti dell'associazione. Un clima di sfiducia in cui ora anche Fauci e Redfield hanno aggiunto la loro voce autorevole a quella di quanti chiedono una seconda inchiesta internazionale, che vada in fondo alla questione senza accettare censure e obiezioni da parte del governo di Pechino. Da Wuhan arriva intanto la secca smentita da parte di Yuan Zhiming, direttore del laboratorio al centro della polemica: «Ho letto il rapporto, ed è una totale falsità. Noi siamo totalmente all' oscuro dei fatti che ci sono imputati, e non sappiamo nemmeno da dove arrivino queste informazioni».

(ANSA il 24 maggio 2021) Tre ricercatori dell'istituto di virologia di Wuhan, in Cina, si sono ammalti nel novembre 2019 e hanno cercato assistenza sanitaria. Lo riporta il Wall Street Journal, citando un report dell'intelligence americana che rischia di accendere nuovamente il dibattito sulle origini del Covid e sulla possibilità che il virus sia sfuggito dal laboratorio.

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 24 maggio 2021. Nel novembre del 2019 tre ricercatori dell’Institute of Virology di Wuhan, la città-innesco della pandemia, si ammalano contemporaneamente e finiscono in ospedale. Lo rivela un rapporto dell’intelligence americana, di cui dà notizia il Wall Street Journal. I sintomi, precisa la relazione finora tenuta «top secret», sarebbero «compatibili sia con il Covid-19 sia con l’influenza stagionale». Secondo le fonti raccolte dal quotidiano americano, «le informazioni in mano ai servizi segreti provengono da varie testimonianze e sono di comprovata qualità. Notizie molto precise, anche se non si sa ancora quale sia stata la causa della malattia che ha colpito i tre medici cinesi». Naturalmente è un particolare cruciale. Le autorità di Pechino confermarono il primo caso di Covid-19, l’8 dicembre 2019, ma si presume che il virus avesse cominciato a circolare già dalla metà di novembre nella Cina centrale. Da allora la comunità scientifica si interroga sull’origine del virus. L’Amministrazione guidata da Donald Trump aveva iniziato a raccogliere materiale fin dall’inizio, tanto che il presidente aveva cavalcato politicamente le illazioni, accusando esplicitamente la Cina di aver nascosto la scoperta dei primi focolai. Inoltre la Casa Bianca trumpiana non aveva mai escluso che il «virus cinese» si fosse sviluppato nelle provette dell’Institute of Virology di Wuhan. Nel maggio del 2020 l’Organizzazione mondiale della Sanità ha promosso uno studio congiunto con gli scienziati cinesi. Il risultato è un rapporto di 313 pagine, pubblicato sul sito il 30 marzo 2021, sulla base di dati esaminati tra il 14 gennaio e il 10 febbraio 2021. L’analisi conclude che «è molto probabile» che l’infezione sia stata trasmessa dai pipistrelli agli esseri umani; mentre è «decisamente improbabile» che il virus sia sviluppato nei laboratori di Wuhan. In realtà non ci sono prove sufficienti a sostegno né dell’una né dell’altra tesi. Nessun passo in avanti neanche con la missione di un team internazionale a Wuhan, nel febbraio 2021. «Poco più di una farsa», era stato il giudizio del Dipartimento di Stato americano, con Joe Biden, nel frattempo, insediato alla Casa Bianca. Ecco allora che il 13 maggio, 18 scienziati provenienti da centri studi di alto livello (14 Usa, 2 Canada, 1 Regno Unito e 1 Svizzera) hanno pubblicato una lettera sulla rivista Science, criticando a fondo il rapporto dell’Organizzazione mondiale della Sanità, scritto con i virologi cinesi: «La ricerca è stata costruita sulla base dei dati forniti dagli scienziati locali; gli altri non hanno avuto accesso diretto agli accertamenti sul campo. Inoltre, nonostante non ci siano prove in un senso o nell’altro, il rapporto è estremamente sbilanciato. Su 313 pagine, solo 4 sono dedicate all’ipotesi di un incidente in laboratorio; tutto il resto esplora la possibilità di «una trasmissione tra animali e uomini». I medici americani stanno cercando, comunque, di tenere separati scienza e politica. Nei giorni scorsi, Anthony Fauci, conversando con i giornalisti nella residenza dell’Ambasciata italiana a Washington, aveva mantenuto una linea di prudenza: «Non sappiamo ancora come sia nato questo virus. È necessario condurre un’indagine internazionale, aperta a tutti gli scienziati del pianeta. Spero che i cinesi siano d’accordo e che, anzi, accettino di collaborare». È una richiesta condivisa anche dall’Unione europea e da altri 13 Paesi. Ed è d’accordo anche Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms. Il problema è che il governo di Pechino ritiene di aver già detto tutto.

Da repubblica.it il 24 maggio 2021. Tre ricercatori dell'istituto di virologia di Wuhan ammalati già nel novembre 2019 e ricoverati in ospedale. I "sintomi sarebbero compatibili sia con il Covid sia con l'influenza stagionale". Ma tanto basta a riaccendere i riflettori sulla città, considerata l'epicentro della pandemia. A far tornare d'attualità la teoria dell'incidente di laboratorio. E a rimettere in discussione la gestione e trasparenza da parte della Cina. A rivelarlo è un rapporto dell'intelligence americana, pubblicato dal Wall Street Journal. "Le informazioni in mano ai servizi segreti provengono da varie testimonianze e sono di comprovata qualità. Notizie molto precise, anche se non si sa ancora quale sia stata la causa della malattia che ha colpito i tre medici cinesi". Particolare non di poco conto. Il primo caso confermato da Pechino venne registrato l'8 dicembre 2019, ma già nel febbraio di quest'anno lo stesso Wsj affermava "ciò che molti epidemiologi sospettavano da tempo": secondo la ricostruzione del quotidiano americano, il coronavirus iniziò a diffondersi inosservato nell'area di Wuhan settimane prima, cioè proprio attorno alla seconda metà di novembre 2019. La pubblicazione del documento dell'intelligence giunge a poche ore da un incontro dell'Organizzazione mondiale della sanità nel quale dovrebbe essere discussa la prossima fase dell'inchiesta sull'origine del Covid-19. La prima parte delle indagini, condotte da un team di esperti dell'Oms coadiuvati da scienziati e medici cinesi, ha portato nei mesi scorsi alla conclusione che l'ipotesi dell'incidente di laboratorio è "estremamente improbabile". Tuttavia, diversi voci - fra le quali quella del segretario di Stato Usa Antony Blinken - hanno sollevato il sospetto che le indagini siano state "inquinate" dalla Cina. Pechino ha ripetutamente negato che il virus possa essere uscito da uno dei suoi laboratori. Ieri il ministro degli Esteri di Pechino ha citato proprio le conclusioni del team dell'Oms dopo la visita a Wuhan a febbraio. "Gli Stati Uniti continuano a pubblicizzare la teoria della fuga: sono davvero preoccupati nel cercare di rintracciare le origini del virus o vogliono solamente distogliere l'attenzione pubblica?". Al momento nessun commento da parte dell'Amministrazione Biden, anche se la Casa Bianca ha sottolineato come tutte le teorie tecnicamente credibili sull'origine della pandemia dovrebbero essere indagate dall'Oms e dagli esperti internazionali. A chiedere ulteriori indagini e a dirsi non convinto dell'origine naturale del virus è Anthony Fauci, direttore dell'Istituto nazionale di malattie infettive e consigliere della Casa Bianca sul Covid. Parlando con Fox, quando gli è stato chiesto se il virus fosse stato originato naturalmente, Fauci ha risposto: "Non ne sono convinto, penso che dovremmo indagare su ciò che è successo in Cina". "Certamente - ha aggiunto - le persone che stanno indagando sostengono che l'emergenza nasca da un animale che ha contagiato gli individui, ma potrebbe essere stato anche altro e noi abbiamo bisogno di scoprirlo. Per questo sono assolutamente a favore di un'indagine.

RAPPORTO INTELLIGENCE USA: TRE RICERCATORI DI WUHAN RICOVERATI PER COVID A NOVEMBRE 2019. Il Corriere del Giorno il 24 Maggio 2021. Il Wall Street Journal scrive e spiega come la malattia dei tre ricercatori confermi le ipotesi di una probabile diffusione del virus diverse settimane prima della data finora resa nota. Il primo caso di Covid reso noto da Pechino venne registrato l’8 dicembre 2019, ma lo stesso Wall Street Journal già nel precedente mese di febbraio scriveva “ciò che molti epidemiologi sospettavano da tempo”. Quindi secondo la ricostruzione del quotidiano americano, il coronavirus iniziò a diffondersi inosservato nell’area di Wuhan settimane prima, cioè proprio attorno alla seconda metà di novembre 2019. Un rapporto dell’intelligence americana, pubblicato dal Wall Street Journal, spiega che “Le informazioni in mano ai servizi segreti provengono da varie testimonianze e sono di comprovata qualità. Notizie molto precise, anche se non si sa ancora quale sia stata la causa della malattia che ha colpito i tre medici cinesi”. Dettagli questi di non poco conto. Il rapporto avvalora la tesi di un foglio informativo del Dipartimento di Stato, diffuso durante gli ultimi giorni dell’amministrazione Trump, secondo cui diversi ricercatori del laboratorio cinese (si tratta di un centro per lo studio dei coronavirus e altri agenti patogeni) si sono ammalati nell’autunno 2019 “con sintomi coerenti sia con il Covid-19 che con la comune malattia stagionale”. Ci sono insomma delle possibilità che il virus sia fuggito da un laboratorio, e che non sia stata "colpa" del pangolino. Proprio pochi giorni fa l’immunologo "in capo" della Casa Bianca, Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infections Diseases (Niaid), rispondendo a margine di un incontro all’ambasciata d’Italia a Washington, aveva ammesso di non escludere che il virus “sia stato creato in laboratorio” ed aggiunto”. E’ importante che si faccia un’indagine indipendente, oggettiva, non di parte”. E non più tardi di dieci giorni fa, in un articolo pubblicato dalla rivista ‘Science‘, una ventina di scienziati attivi in alcuni dei più prestigiosi poli di ricerca del mondo, suggerivano di non escludere proprio con certezza che all’origine della pandemia vi sia stata una fuga del Coronavirus dal laboratorio di virologia di Wuhan. In parole più chiare, un incidente. Tre ricercatori dell’istituto di virologia di Wuhan si erano già ammalati nel novembre 2019 venendo ricoverati in ospedale. I “sintomi sarebbero compatibili sia con il Covid sia con l’influenza stagionale”. Quanto basta a riaccendere i riflettori sulla città cinese, considerata l’epicentro della pandemia facendo tornare d’attualità la teoria dell’incidente di laboratorio, rimettendo in discussione la gestione e trasparenza sul Covid da parte della Cina. Il primo caso di Covid reso noto da Pechino venne registrato l’8 dicembre 2019, ma lo stesso Wall Street Journal già nel precedente mese di febbraio scriveva “ciò che molti epidemiologi sospettavano da tempo”. Quindi secondo la ricostruzione del quotidiano americano, il coronavirus iniziò a diffondersi inosservato nell’area di Wuhan settimane prima, cioè proprio attorno alla seconda metà di novembre 2019. Il Governo cinese ha negato ripetutamente che il virus possa essere uscito da uno dei suoi laboratori. Ieri il ministro degli Esteri di Pechino ha citato proprio le conclusioni del gruppo di ispettori scientifici dell’Oms dopo la visita a Wuhan a febbraio. “Gli Stati Uniti continuano a pubblicizzare la teoria della fuga: sono davvero preoccupati nel cercare di rintracciare le origini del virus o vogliono solamente distogliere l’attenzione pubblica?”. Se l’indagine condotta dall’Oms in Cina tra fine gennaio ed inizio febbraio 2021 ha rilevato che era “estremamente improbabile” che il coronavirus provenisse da una ‘fuga’ di laboratorio, gli scienziati hanno provato a individuare più dati per definirne l’origine. Il direttore generale dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha però dichiarato dopo la missione del team di esperti a Wuhan che non era stato analizzato adeguatamente la possibilità di un incidente di laboratorio, aggiungendo che era pronto a dispiegare risorse aggiuntive. La pubblicazione del documento dell’intelligence americana arriva a poche ore da un incontro dell’Organizzazione mondiale della sanità nel quale dovrebbe essere discussa la prossima fase dell’inchiesta sull’origine del Covid-19. La prima parte delle indagini, condotte da un team di esperti dell’Oms coadiuvati da scienziati e medici cinesi, ha portato nei mesi scorsi alla conclusione che l’ipotesi dell’incidente di laboratorio è “estremamente improbabile”. Ma ciò nonostante, diversi voci fra le quali quella del segretario di Stato Usa Antony Blinken hanno più di un sospetto che le indagini siano state “inquinate” dalla Cina. Al momento nessun commento da parte dell’Amministrazione Biden, anche se la Casa Bianca ha sottolineato come tutte le teorie tecnicamente credibili sull’origine della pandemia dovrebbero essere indagate dall’Oms e dagli esperti internazionali. “Continuiamo a porci delle domande sulle origini della pandemia Covid-19 all’interno della Repubblica Popolare Cinese”, ha detto una portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. Ma, ha aggiunto, “per una questione di politica non commentiamo mai le questioni di intelligence”.

Covid-19 e Wuhan: lo scoop virale del Wall Street Journal. Piccole Note il 25 maggio 2021 su Il Giornale. Il coronavirus è stato creato nel laboratorio di Wuhan: questo lo scoop del Wall Street Journal che sta facendo il giro del mondo. A fondamento di tale notizia un rapporto di intelligence redatto durante la precedente amministrazione Usa, secondo il quale tre ricercatori del laboratorio di Wuhan si sarebbero ammalati a novembre del 2019, cioè prima dell’inizio della pandemia. Scoop che ha acceso la furia di Pechino e alimentato controversie. Il fatto che la rivelazione si basi su un rapporto di intelligence, e dell’intelligence che ha da tempo Pechino del mirino, dovrebbe suscitare l’ironia del caso, ma i tempi in cui i media facevano il loro mestiere, accogliendo con criticità le fonti ufficiali, è ormai andato, ora che anche l’intelligence è fonte oracolare. Non è un mistero, infatti, che l’intelligence possa essere affetta da “politicizzazione”, rischio sul quale dava l’allarme persino l’ex Segretario della Difesa Robert Gates in un messaggio agli analisti delle Agenzie Usa.

La pista bulgara e gli hacker russi. Un esempio lampante fu ad esempio la pista bulgara per l’attentato al Papa, che per anni tenne Bulgaria e Russia al centro del mirino e che un’indagine interna della Cia scoprì che era stata creata ad arte all’interno dell’Agenzia stessa. Per restare in tema Covid-19, qualcosa di analogo è accaduto quando attacchi hacker hanno funestato i maggiori istituti di ricerca occidentali sul vaccino. “Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada affermano che le cyberspie russe stanno cercando di rubare la ricerca sul vaccino contro il coronavirus”, titolava il Washington Post. “La Russia sta cercando di rubare i dati sui vaccini contro i virus, dicono i Paesi occidentali”, riecheggiava il New York Times. Accuse ovviamente basate su dettagliate informazioni di intelligence. E del tutto infondate, come ha dimostrato la cronaca, che ha visto la Russia precedere le presunte vittime, che comunque avrebbero dovuto arrivare prima, e con un vaccino che nulla ha a che fare con quello Pfizer-Biontech o Moderna, basati sull’Rna messaggero. È di interesse notare che il report che rivela la malattia dei ricercatori di Wuhan non sia attuale, ma risalga ai tempi di Trump. Così l’amministrazione anti-cinese per eccellenza, che ha fatto di tutto per accreditare la tesi che il virus sia stato creato nel laboratorio di Wuhan, ha tenuto nascosta per mesi questa informazione tanto utile alla sua causa…Interessante anche la posizione del dottor Fauci: lo zar anti-virus degli Stati Uniti, che durante la pandemia ha smentito decine di volte tale teoria, e che ora si sta spendendo per avvalorarla. Una conversione improvvisa, evidentemente folgorato anche lui sulla via di una qualche Damasco americana.

Tempi e modi di uno scoop fumoso. Di interesse anche la tempistica, perché lo scoop avviene, guarda caso, alla “vigilia di una riunione dell’organo decisionale dell’Organizzazione mondiale della sanità, che dovrebbe discutere la prossima fase di un’indagine sulle origini del Covid-19”. Ovvio che, dopo tali rivelazioni, si deciderà per un approfondimento nel senso desiderato, nulla importando i risultati della precedente inchiesta dell’Oms, che aveva dato come “altamente improbabile” la fuga dal laboratorio. Di interesse notare, inoltre, che anche lo scoop in sé è alquanto aleatorio. Si spiega, infatti, che i tre ricercatori si sarebbero ammalati con sintomi compatibili con il coronavirus o altre “malattie stagionali”, cioè l’influenza…E che in Cina è normale l’ospedalizzazione. Peraltro una prassi ovvia nel caso di ricercatori di simili laboratori, ché, dati rischi connessi al loro lavoro, anche per una banale influenza devono fare controlli ben più accurati delle persone comuni (sicuramente avverrà anche per il personale dei biolab americani). Una delle fonti del giornale, poi, riferisce che l’informazione è pervenuta da un’intelligence straniera, un’altra che sarebbe farina di indagini Usa; secondo una fonte non sarebbe molto dettagliata, anzi va verificata, secondo un’altra sarebbe l’opposto… insomma, tutto e il contrario di tutto, tanto da dare l’effetto di una cortina fumogena; un’allusione più che di una notizia vera e propria (tanto che la stessa Casa Bianca ha detto che non ha elementi per confermare lo scoop…). D’altronde che la crisi pandemica sia stata viziata dalla geopolitica non è un mistero: per le nazioni sotto sanzioni occidentali, non alleviate nonostante i morti, ha avuto l’effetto di arma di distruzione di massa; la Russia si è vista negare la validità del suo vaccino solo per ragioni politiche; e tanto altro e più oscuro.

La guerra delle valute virtuali. Insomma, anche queste rivelazioni si situano nel quadro delle normali schermaglie della lotta tra Usa e Cina, che si è arricchita di una nuova variante, non meno esplosiva. La Cina ha, infatti, dichiarato illegali i bitcoin e, dato che il 65% della produzione si trova sul suo territorio, ha causato un crollo del suo valore. Ciò avviene proprio quando la Goldman Sachs, la più importante istituzione finanziaria del globo, ha iniziato ad adottare le valute digitali. Logico sviluppo della Finanza virtuale, destinato a incidere non poco sulle economie d’Occidente. E che lega ancor più le Big tech alla grande Finanza, con intreccio sempre più mostruoso. Interessante, nel bando cinese, un’annotazione: per creare bitcoin serve un’enorme quantità di energia, sia per alimentare i computer che li producono che per i condizionatori necessari a raffreddare le macchine. “L’estrazione di bitcoin – si legge sul South China Morning Post – utilizza circa 121,36 terawattora all’anno, che è maggiore dell’energia totale utilizzata dall’Argentina, secondo un recente rapporto dell’Università di Cambridge”. A proposito del risparmio energetico richiesto ai comuni mortali…

Da "Ansa" il 24 maggio 2021. La Cina ha sollecitato gli Usa a chiudere con le teorie del complotto, con il coronavirus fuggito da un laboratorio di alta sicurezza a Wuhan. L'ultimo rapporto sul tema «non è veritiero», ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian nella conferenza stampa quotidiana su quanto pubblicato domenica dal Wall Street Journal in base all'intelligence Usa, secondo cui tre ricercatori del Wuhan Institute of Virology, il laboratorio incriminato nel capoluogo di Hubei dove è stato identificato il primo focolaio di Covid-19, si erano ammalati a novembre 2019. La struttura ha negato responsabilità o coinvolgimenti. La Cina ha inquadrato le affermazioni sul laboratorio di Wuhan come teorie del complotto create per distogliere l'attenzione dalla gestione del coronavirus da parte del governo degli Stati Uniti, suggerendo che dovrebbe essere invece messa sotto indagine una base militare nello stato americano del Maryland. «C'è il sospetto circa le attività a Fort Detrick e gli oltre 200 biolab gestiti dagli Stati Uniti - ha aggiunto Zhao -. Ci auguriamo che i dipartimenti statunitensi competenti possano fare chiarezza e dare al mondo una risposta chiara». Se l'indagine condotta dall'Oms in Cina tra fine gennaio e inizio febbraio 2021 ha rilevato che era «estremamente improbabile» che il coronavirus provenisse da una 'fugà di laboratorio, gli scienziati hanno provato a individuare più dati per definirne l'origine. Il direttore generale dell'Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha però dichiarato dopo la missione del team di esperti a Wuhan che non era stato analizzato adeguatamente la possibilità di un incidente di laboratorio, aggiungendo che era pronto a dispiegare risorse aggiuntive.

Maurizio Tortorella per "la Verità" il 26 maggio 2021. «Il Covid ha un'origine naturale? Io non ne sono convinto. E sono favorevole a indagini approfondite per scoprire quanto è veramente accaduto in Cina». Se alcuni mesi fa parole come queste fossero uscite dalla bocca di un Donald Trump, l'orrido usurpatore della Casa Bianca, o da quella del suo segretario di Stato, Mike Pompeo, sarebbero state immediatamente tacciate come propaganda, falsità, complottismo. Ora, invece, la sconcertante verità viene pronunciata da un ex avversario di Trump, e cioè Anthony Fauci, direttore dell'Istituto nazionale di malattie infettive e scelto dal buon Joe Biden come consigliere per la lotta al Covid. Così il sospetto che la pandemia abbia origini diverse dal pipistrello o dal pangolino, e che il virus che ha massacrato il mondo possa essere partito dal misterioso laboratorio cinese di Wuhan, magari a causa di un inconfessabile esperimento di guerra biologica, di colpo diventa più che legittimo. Quasi plausibile. Perfino probabile. Sono i miracoli prodotti dall' appartenenza al fronte progressista. Ieri anche Repubblica, che sulle origini del virus per oltre un anno ha deliberatamente ignorato ogni illazione che potesse attribuire la minima responsabilità a Pechino, ha rilanciato l'allarme di Fauci. E ha titolato: «Nuovi sospetti sul laboratorio di Wuhan». L' aggettivo «nuovi» deve aver disorientato i poveri lettori del quotidiano: mai, in oltre un anno di pandemia, era stata data loro la possibilità d' immaginare un qualche sospetto sull' origine del Covid. Pipistrelli e pangolini, tutt' al più. Sulle pagine di Repubblica, del resto, anche l'espressione trumpiana del «virus cinese» è stata sempre trattata con il disprezzo che si riserva al razzismo deteriore. Ma oggi Fauci punta il dito contro la Cina, e così finalmente diventa credibile anche un'altra verità (che i nostri lettori conoscono da tempo): e cioè che già nel novembre 2019 almeno tre ricercatori dell'Istituto di virologia di Wuhan si erano ammalati di una strana polmonite bilaterale virale, i cui sintomi erano «compatibili con quelli del Covid». A sostenerlo, citando un rapporto dell'intelligence statunitense, è oggi il Wall Street Journal che, malizioso, ha ricordato anche come Pechino avesse dichiarato il primo caso di contagio del «nuovo tipo di coronavirus» soltanto l'8 dicembre 2019. Che cosa era accaduto nel laboratorio di Wuhan? Forse il regime di Xi Jinping nasconde qualcosa? Ora che il velo dell'antitrumpismo militante è caduto, la stampa mondiale - anche quella più progressista - scopre questa parte di verità. Scopre anche che 18 virologi e scienziati di fama hanno rivolto un appello all' Organizzazione mondiale della sanità perché «indaghi più approfonditamente sulle origini del Covid». Gli scienziati contestano le verifiche condotte dall' Oms lo scorso gennaio, a Wuhan, in una missione farsa dove gli ispettori internazionali sono stati affiancati da «commissari politici» cinesi e sono stati teleguidati in una fugace visita al laboratorio dei misteri. In quelle condizioni, nemmeno Sherlock Holmes avrebbe scoperto nulla. E infatti il rapporto finale dell'Oms ha accreditato la tesi pretesa da Pechino: il Covid ha una «probabile origine animale. Chissà. Prima o poi, forse, qualcuno chiederà scusa anche al virologo francese Luc Montagnier, premio Nobel 2008 per la medicina grazie alla scoperta del virus dell'Hiv. Nell' aprile 2020, dall' alto della sua scienza, Montagnier s' era detto «certo» che la diffusione del nuovo coronavirus fosse nata per «un errore umano degli scienziati cinesi», che avevano cercato di «mettere a punto un vaccino contro l'Aids partendo dal coronavirus dei pipistrelli». Montagnier aveva raccontato di avere «analizzato attentamente la descrizione del genoma del virus», e di aver scoperto che il genoma completo del Covid-19 aveva «al suo interno sequenze di un altro virus, quello dell'Aids». Per lo scienziato, insomma, a Wuhan qualcuno «ha fatto un lavoro da apprendista stregone». Per quanto proveniente dal genio che 12 anni prima aveva isolato il virus dell'Hiv, l'accusa di Montagnier era stata seppellita da critiche feroci. I media, allineati come birilli, l'avevano trattato come un volgare propalatore di bufale. Alla fine anche il Nobel era stato zittito, come non sarebbe accaduto all' ultimo dei ricercatori, o al più fastidioso dei No vax. Misteri del giornalismo contemporaneo. Sarebbe bello raccontasse tutto quel che merita di essere raccontato, senza prendere nulla come oro colato. Oggi nessuno, se non i ricercatori di Wuhan, sa che cosa diavolo sia accaduto in quel laboratorio, e che cosa vi si studiasse davvero. Nessuno, se non i vertici del Partito comunista cinese, sa quanto ci sia di vero nella notizia rivelata a metà maggio dalla stampa australiana (e che in Italia solo La Verità ha riferito), e cioè che esistano le prove che almeno dal 2015 i biologi militari cinesi sarebbero stati impegnati su «un nuovo coronavirus da usare in una futura guerra biologica». Quel che si sa è che l'Istituto di virologia di Wuhan lavora alle dipendenze dell'esercito cinese. Per questo, oggi, Fauci e i 18 scienziati hanno ragione a chiedere «indagini più accurate», per quanto difficili, sulla vera origine del Covid. Esattamente come, prima di loro, aveva fatto l'orrido Trump. Qualche attenzione meriterebbe anche un'altra storia, di cui online restano tracce interessanti. Nessuno sa se sia vera: si sa solo che risale al 2005, quindi non è stata inventata oggi. Ma anche per questo è sconcertante. Perché, 15 anni prima che il mondo si accorgesse di un virus di nome Covid, un ministro cinese della Difesa, il generale Chi Haotian, avrebbe rivelato alle più alte gerarchie militari l'esistenza di «ricerche avanzatissime su un nuovo tipo di armi biologiche, basate sull' ingegneria genetica». Il generale avrebbe parlato di «armi selettive, in grado di uccidere solo razze diverse da quella gialla». È un particolare che oggi fa un certo effetto, visto che da quando è scoppiato il Covid i morti nel mondo sono stati quasi 3,5 milioni, mentre in Cina sono 4.875 in tutto. Chissà che cosa ne direbbe Fauci.

Dagotraduzione da Mediaite l'11 giugno 2021. Il dottor Anthony Fauci ne ha abbastanza delle crescenti critiche che gli vengono rivolte, in particolare dalla destra politica. Durante un’intervista sulla MSNBC, Fauci – parlando con il giornalista Chuck Todd – è stato messo sotto attacco da una moltitudine di argomenti che vanno dalla sua difesa della maschera alla domanda se il National Institute of Health (NIH) ha finanziato la ricerca presso l'Istituto di virologia di Wuhan. Il tutto è iniziato dopo il video del senatore Marsha Blackburn, che accusa Fauci di essere colluso con il Ceo di Facebook Mark Zuckeberg sul modo in cui raccontare il Covid. «Il dottor Fauci si scriveva mail con Mark Zuckerberg di Facebook per cercare di creare quella narrativa», ha detto Blackburn. «Una selezione arbitraria delle notizie in modo che venisse fuori solo ciò che volevano tu sapessi». «Non ho la più pallida idea di cosa abbia appena detto», ha commentato Fauci, seccamente. «Non ho la più pallida idea di cosa stia parlando. … E mi dispiace, non voglio essere peggiorativo nei confronti di un senatore degli Stati Uniti ma non ho idea di cosa stia parlando. E sai Chuck, se esamini ognuno dei punti, sono così ridicoli, semplicemente dolorosamente ridicoli, se li esamini tutti, puoi spiegarlo e smascherarlo immediatamente». Fauci ha quindi diretto i suoi commenti in modo più ampio, non solo verso Blackburn ma verso tutti i suoi critici; «È molto pericoloso, Chuck, perché molti di quelli che vedi come attacchi contro di me, francamente, sono attacchi alla scienza. Perché tutte le cose di cui ho parlato in modo coerente fin dall'inizio sono state fondamentalmente questioni basate sulla scienza. A volte quelle cose erano verità scomode per le persone, e c’è stato un rifiuto nei miei confronti. Quindi, se stai cercando di arrivare a me come funzionario della sanità pubblica e scienziato, stai davvero attaccando non solo il dottor Anthony Fauci, stai attaccando la scienza. E chiunque guardi cosa sta succedendo lo vede chiaramente. Devi dormire per non vederlo».

Cosa nascondono le “mail segrete” di Fauci sulla pandemia. Federico Giuliani su Inside Over il 6 giugno 2021. Mentre il Sars-CoV-2 si stava diffondendo in tutto il mondo gli Stati Uniti non sono riusciti, o meglio hanno deciso di non prendere, adeguate contromisure per limitare la corsa del virus. La pandemia di Covid ha incendiato l’America a cavallo tra il marzo e l’aprile 2020, cioè circa due mesi dopo la prima apparizione ufficiale del patogeno a Wuhan, in Cina. Molti pensavano che quella strana polmonite emersa nella provincia dello Hubei non avrebbe mai superato la muraglia, né che tanto meno sarebbe arrivata a colpire l’Occidente con una simile forza d’urto. Non appena Washington si rese conto dell’emergenza all’interno della quale stava per cadere, Anthony Fauci divenne una delle figure più importanti del Paese nella lotta contro il coronavirus. In quei giorni convulsi, ha svelato il Washington Post, il virologo della Casa Bianca si è reso protagonista di un intenso scambio di mail con gli scienziati cinesi. Nelle 866 pagine di email inedite ottenute dal quotidiano americano – che le ha richieste in base al Freedom Information Act – troviamo diversi spunti interessanti che potrebbero far luce sulla scellerata iniziale gestione pandemica statunitense. Innanzitutto, nelle prime settimane dell’emergenza Covid, Fauci faticava a farsi ascoltare dall’allora presidente Donald Trump, convinto che la pericolosità del virus fosse sovrastimata all’inverosimile.

Le mail tra Fauci e i cinesi. È molto interessante focalizzare l’attenzione sullo scambio, datato 28 marzo, tra Fauci e George Gao, uno dei responsabili sanitari cinesi. Gao si scusa con Fauci dopo un’intervista rilasciata a Science. Lo scienziato asiatico spiegava al collega, ed amico americano, di non aver mai usato le parole “grosso errore” nel descrivere l’atteggiamento del governo Usa e di altri governi occidentali, che ancora non avevano reso obbligatorio l’uso delle mascherine. “Ho visto l’intervista a Science, come potevo dire una parola del genere ‘grande errore’ sugli altri? Questa era l’espressione del giornalista. Spero che tu capisca”, afferma Gao, preoccupato di avere offeso Fauci. Poi aggiunge, “lavoriamo insieme per cancellare il virus dalla Terra”. La risposta di Fauci è anch’essa un invito alla collaborazione: “Capisco completamente. Nessun problema. Ce la faremo insieme”. A quanto pare Fauci, al contrario di Trump, che già all’epoca stava iniziando a puntare il dito contro presunte responsabilità di Pechino, si fidava degli esperti cinesi.

Minacce e scorta. In un secondo momento, probabilmente vista l’entità dell’emergenza, le corrispondenze con gli scienziati cinesi spariscono dai radar. Nessuno, neppure l’amico Gao, si sarebbe più fatto vivo con il virologo della Casa Bianca. È forse in quel periodo che Fauci inizia ad alzare l’asticella del pericolo, contraddicendo, seppur mai direttamente, le controverse opinioni di Trump. Fu allora che lo scienziato iniziò a ricevere una serie di minacce da alcuni sostenitori di The Donald, che lo accusavano di essere favorevole alle misure restrittive che avevano portato alla chiusura delle scuole e di molte attività produttive.

Ad aprile torna a farsi vivo Gao, che è anche membro della National Academy of Sciences Usa: “Spero che tu stia bene in questa situazione così irrazionale”. “Grazie per la tua mail – è la risposta di Fauci, tre giorni dopo – va tutto bene, nonostante qualche pazzo”. Le minacce spinsero le autorità Usa ad assegnare a Fauci una scorta. Alla luce di tutto ciò possiamo fare due considerazioni. Primo: nonostante Fauci avesse contatti con almeno uno scienziato cinese, quella collaborazione portò a un nulla di fatto. Secondo: nel caso in cui l’amministrazione Trump, compresi gli esperti, avessero reagito fin da subito in modo diverso, forse gli Stati Uniti avrebbero potuto limitare i danni.

Origine del Covid-19, le mail che imbarazzano Anthony Fauci. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 6 giugno 2021. L’epidemiologo Anthony Fauci, al vertice della task-force presidenziale Usa sul Covid-19, ha rappresentato per gran parte dell’opinione pubblica statunitense – e mondiale – nonché per una certa narrazione, il volto della “scienza” in contrapposizione a quello “negazionista” dell’ex Presidente Usa Donald Trump. Le mail private di Fauci risalenti all’inverno scorso pubblicate da Washington Post, Buzzfeed e Cnn attraverso il Freedom of Information Act, mostrano tuttavia una realtà ben diversa e non poche “zone d’ombra” e discrepanze che il celebre epidemiologo sarà chiamato a chiarire. C’è una mail, in particolare, che imbarazza Anthony Fauci ed è stata definita da qualcuno la “pistola fumante” e riguarda, nello specifico, uno scambio con Peter Daszak, zoologo britannico noto anche per essere il presidente di EcoHealth Alliance, una no profit con sede a New York che ha legami con il laboratorio di Wuhan: il 18 aprile 2020 Daskaz mandò una mail di ringraziamento a Fauci per aver minimizzato in televisione, il giorno prima, la tesi secondo cui il coronavirus potesse provenire dal laboratorio di Wuhan.

Chi è Daszak. Il ruolo di Daszak in questa storia è centrale. Come abbiamo già sottolineato su InsideOver, citando un articolo del giornalista scientifico Nicholas Wade e del britannico Spectator, Daszak è uno dei firmatari del celebre articolo di The Lancet sull’origine “naturale” del SARS-CoV-2. Peccato che l’organizzazione del dottor Daszak abbia finanziato la ricerca sul coronavirus presso l’Istituto di virologia di Wuhan, dunque se il virus Sars CoV-2 fosse effettivamente sfuggito alla ricerca da lui finanziata, il dottor Daszak sarebbe potenzialmente colpevole. È per questo motivo che lo zoologo britannico si è affrettato a ringraziare privatamente Fauci nelle e-mail ora rese note? E non finisce qua perché come nota il Sussidiario, nel giugno 2020 pubblicò lui stesso sul Guardian un articolo in cui bollava come “teoria del complotto” l’ipotesi del virus manipolato o sfuggito dal laboratorio di Wuhan. Ma compare anche nel team dell’Organizzazione mondiale della sanità che ha indagato sull’origine del Covid che ha redatto un report ampiamente screditato anche dagli stessi Stati Uniti. Comportamento curioso, no? C’è un altro scambio nelle mail ora rese pubbliche che sta mettendo in imbarazzo Fauci. È il 31 gennaio 2020, venerdì, poco prima di mezzanotte. Alla casella postale dell’epidemiologo arriva una mail dall’immunologa Kristian Andersen, che lavora presso lo Scripps Research Institute in California. Andersen scrive al capo della task force della Casa Bianca che il Covid-19 sembrerebbe essere stato manipolato in un laboratorio. “Le caratteristiche insolite del virus costituiscono una parte davvero piccola del genoma (meno dell’uno percento), quindi bisogna guardare molto da vicino tutte le sequenze per osservare che alcune delle caratteristiche (potenzialmente) sembrano essere ingegnerizzate”. Fauci scrive dunque una mail al suo vice, Hugh Auchincloss. “Hugh: è essenziale che parliamo questa mattina”. “Tieni il cellulare acceso. Leggi questo documento e l’e-mail che ti inoltrerò. Oggi avrai compiti che devono essere eseguiti”. In allegato all’e-mail c’è un documento chiamato “Baric, Shi, et al – Nature Medicine – SARS Gain of Function.pdf”.Il “Baric” in quell’allegato si riferisce a Ralph Baric, un virologo americano che ha collaborato con il Wuhan Institute of Virology.  Baric ha lavorato con una donna chiamata Shi Zhengli, conosciuta come la “Bat Lady”, perché manipola i coronavirus che infettano i pipistrelli. Solo coincidenze? Durissimo il commento del giornalista di Fox News, Tucker Carlson: “È diventato presto chiaro che Tony Fauci era solo un altro squallido burocrate federale. Ma il fatto più scioccante – osserva – è che lo stesso Fauci era implicato nella stessa pandemia che doveva combattere, sostenendo gli esperimenti grotteschi e pericolosi che sembrano aver reso possibile la diffusione del Covid-19″. Le mail, osserva Carlson, mostrano che fin dall’inizio Fauci era preoccupato che l’opinione pubblica potesse concludere che il Covid-19 abbia avuto origine presso l’Istituto di virologia di Wuhan. Perché Fauci era preoccupato che gli americani arrivassero a questa conclusione? Forse perché Tony Fauci sapeva perfettamente di aver finanziato esperimenti nello stesso laboratorio?”. Sul fronte politico duri attacchi allo scienziato arrivano anche dal senatore repubblicano Rand Paul.

Fauci e il laboratorio di Wuhan. Cosa c’entra Fauci con il laboratorio di Wuhan? Come abbiamo già evidenziato in tempi non sospetti sulle colonne di questa testata, gli Stati Uniti hanno commissionato lo studio di nuovi coronavirus a un gruppo chiamato EcoHealth Alliance, che secondo Npr stava eseguendo la maggior parte della raccolta di campioni di coronavirus dai pipistrelli, per poi trasferirli all’Istituto di Wuhan. Il denaro della sovvenzione originale fornito a EcoHealth era di 3,7 milioni di dollari, di cui 76.000 dollari per l’Istituto di Wuhan. Questo finanziamento è stato approvato con il sostegno dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, l’agenzia che dirige Anthony Fauci, secondo quanto riportato da Newsweek. Quel contratto è stato annullato nell’aprile 2020. Tali sovvenzioni sono state approvate dal National Institute of Health di Fauci. È per questo motivo che il celebre virologo ha spostato la tesi dell’origine naturale del coronavirus, salvo poi avanzare dubbi soltanto nell’ultimo periodo? Domande alle quali Fauci dovrebbe rispondere.

Stefano Graziosi per "la Verità" il 3 giugno 2021. Era il 17 aprile 2020, quando Anthony Fauci minimizzò pubblicamente la tesi secondo cui il Covid-19 potesse provenire da un laboratorio di Wuhan. Ebbene, secondo una serie di documenti che sono stati resi pubblici attraverso il Freedom of information act, Fauci, il 18 aprile 2020, ricevette una email di ringraziamento da parte dello zoologo britannico Peter Daszak, per aver espresso quella posizione: una email a cui l' immunologo statunitense rispose, ringraziando a sua volta per la «gentile nota». Uno scambio che, guardando più nel dettaglio, risulta un po' inquietante. Daszak è infatti il presidente di EcoHealth Alliance: una no profit con sede a New York, che intrattiene stretti legami con la Cina e, in particolare, con la città di Wuhan. Secondo quanto riportato dal Washington Examiner, questa organizzazione avrebbe ricevuto, tra il 2014 e il 2020, 3,7 milioni di dollari dai National institutes of health: agenzia del Dipartimento della Salute americano, di cui fa parte il National institute of allergy and infectious diseases (diretto dallo stesso Fauci). Ebbene, di questi fondi, almeno 600.000 dollari - ha riferito sempre il Washington Examiner - sono stati inviati dalla no profit al controverso Wuhan institute of virology. Del resto, proprio con questa struttura EcoHealth ha negli anni stretto una partnership per condurre ricerche sui pipistrelli (come sottolineato da un comunicato dell' organizzazione newyorchese risalente a marzo 2018). Non sarà allora forse un caso che proprio Daszak sia stato tra le figure principali che, nel 2020, hanno spinto per screditare la narrazione favorevole all' ipotesi dell' origine in laboratorio. Ricordiamo che la critica a tale ipotesi si basò principalmente su un comunicato di esperti, pubblicato da Lancet nel febbraio 2020: in quel testo si dichiarava: «Siamo uniti nel condannare fermamente le teorie del complotto che suggeriscono che il Covid-19 non ha un' origine naturale». Ebbene, tra i firmatari di quel documento figurava proprio Daszak. Non solo: gli autori del comunicato si richiamarono a una lettera scritta, il 6 febbraio precedente, dai vertici delle National academies of sciences, engineering, and medicine: una lettera che tendeva, sì, a sminuire l' ipotesi del laboratorio. Peccato però che, nelle note di tale missiva, comparisse come consulente proprio Daszak. Quello stesso Daszak che, a giugno 2020, avrebbe pubblicato un articolo sul Guardian, per bollare la tesi del laboratorio come «teoria del complotto». In tutto questo, come se non bastasse, Daszak era nel team dell' Oms che si è occupato di indagare sulle origini del Covid. Sebbene il report dell' agenzia Onu dica di non aver ravvisato conflitti di interessi, la partecipazione dello zoologo non può non lasciare perplessi. Sarà infatti un caso, ma quel report definisce «estremamente improbabile» l' ipotesi del laboratorio. In questo quadro, lo stesso Daszak, durante una intervista alla Cbs lo scorso marzo, ha candidamente ammesso che il team dell' Oms abbia creduto sulla parola alla versione degli scienziati cinesi. «Che cos' altro possiamo fare?», ha detto. «Non era nostro compito», ha aggiunto, «scoprire se la Cina avesse insabbiato il problema dell' origine». Tutto ciò, mentre negli scorsi giorni si sono registrate delle svolte: Fauci non è più così convinto dell' origine naturale del virus, l' intelligence statunitense sta indagando sulla tesi del laboratorio e lo stesso Dipartimento di Stato americano ha espresso preoccupazioni per l' influenza cinese sull' Oms. Frattanto i dubbi fioccano. È normale che un esponente del team investigativo dell' Oms abbia dei collegamenti con i soggetti da indagare? Perché Fauci, nel 2020, ha così acriticamente sposato una tesi spinta principalmente da una figura legata al controverso laboratorio di Wuhan? È normale che la grande stampa all' epoca non si sia occupata di tali connessioni? Ma soprattutto: non è che quella narrazione semplicistica volta a screditare aprioristicamente la tesi del laboratorio fosse in realtà finalizzata a colpire Donald Trump in campagna elettorale?

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 2 giugno 2021. La pandemia è divampata negli Stati Uniti tra marzo e aprile del 2020. In quello stesso mese Anthony Fauci diventò la figura più importante nella lotta al Covid 19. Il «Washington Post» ha ottenuto le mail scritte e ricevute dal virologo al suo indirizzo di posta elettronica nel server del «National Institute of Allergy and Infectious Diseases». Sono 866 pagine di materiale. Ecco un piccolo compendio per punti.

1) Fauci entra subito in contatto con uno scienziato cinese, George Gao, direttore del Centro per il Controllo e la prevenzione delle malattie. Gao si fa vivo per smentire il senso di un’intervista a «Science» in cui accusava il governo americano di «commettere un grave errore, non imponendo ai cittadini di indossare la mascherina». Scrive a Fauci: «Collaboriamo per sconfiggere insieme il virus». Risposta del virologo americano: «Nessun problema, affrontiamolo insieme». 

2) Nelle mail Fauci non attacca mai direttamente Donald Trump. Lo scienziato, però, diventa rapidamente il bersaglio di una parte della base repubblicana, che lo considera un sabotatore del presidente. Arriva un’altra mail di Gao: «Vedo che è sotto attacco». La replica: «Non si preoccupi, andrà tutto bene, nonostante in questo modo ci siano diversi pazzi». 

3) I contatti tra lo scienziato e la Casa Bianca sembrano tenuti in particolare da Marc Short, capo dello Staff del vice presidente Mike Pence. Il «Washington Post» riporta un messaggio sibillino di Short: «Lei ha individuato i sintomi, ma ha sbagliato la diagnosi sulla causa». Forse si riferisce al fatto che Fauci era contrario alla riapertura completa dell’economia, (la «causa» della pandemia).

4) Un parlamentare repubblicano, Fred Upton, del Michigan chiede a Fauci chiarimenti sul possibile uso dell’idrossiclorochina, considerata da Trump una cura efficace contro il Covid-19. Fauci risponde: «È quasi certo che non serva». E allora Upton conclude: «Continui a dire la verità imposta dalla scienza». Per la cronaca Upton sarà uno dei dieci deputati repubblicani a votare per l’impeachment di Trump, accusato di aver fomentato l’attacco a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021.

5) Praticamente tutti cercano il virologo per un consiglio o prima di prendere decisioni di impatto sociale. Tom Mayer, responsabile medico della Nfl, la lega del football americano, vuole sapere se si potranno giocare le partite con il pubblico. Fauci: «Sarà il virus a decidere per noi». Tutti vogliono intervistare il virologo, «è sommerso di richieste dai media italiani», nota il «Washington Post».

6) Il materiale conferma lo stretto legame tra Fauci e Bill Gates. Una mail documenta una lunga conversazione del 1 aprile. Poi Emilio Emini, dirigente della Bill e Melinda Gates Foundation, incaricato di seguire il dossier vaccini, scrive allo scienziato: «La vedo tutti i giorni in tv...sono seriamente preoccupato per la sua salute... La nazione e il mondo hanno assolutamente bisogno della sua leadership». Fauci risponde all’1,53 di notte: «Cerco di impegnarmi al massimo, visto quello che stiamo passando».

Fauci e il laboratorio di Wuhan: “Che ruolo ha avuto il virologo?” Roberto Vivaldelli su Inside Over il 17 maggio 2021. Com’è noto, sono due sostanzialmente le teorie sull’origine del Covid-19: la prima, rilanciata anche dalla rivista scientifica The Lancet, è che il Covid-19 abbia avuto un’origine naturale, mentre la seconda ipotizza un possibile incidente presso il laboratorio dell’Istituto di virologia di Wuhan. Secondo un nuovo approfondimento pubblicato dal giornalista scientifico Nicholas Wade, quel celebre articolo di The Lancet è “macchiato” da un conflitto di interessi di fondo, troppo ingombrante. Come scrive Wade, infatti, si “successivamente è scoperto che la lettera di Lancet era stata redatta da Peter Daszak, presidente della EcoHealth Alliance di New York. L’organizzazione del dottor Daszak ha finanziato la ricerca sul coronavirus presso l’Istituto di virologia di Wuhan. Se il virus Sars CoV-2 fosse effettivamente sfuggito alla ricerca da lui finanziata, il dottor Daszak sarebbe potenzialmente colpevole”. Visti i silenzi della Cina e l’inefficienza dell’Oms, perché scartare in questa maniera frettoloso e superficiale, l’ipotesi del laboratorio? Fra gli elementi più interessanti nella ricostruzione di Wade si cita anche il ruolo, da chiarire, del virologo-superstar Anthony Fauci, massimo esperto di malattie infettive degli Stati Uniti.

“Fauci chiarisca il suo ruolo”. Cosa c’entra Fauci con il laboratorio di Wuhan? Come ricorda lo Spectator, gli Stati Uniti hanno commissionato lo studio di nuovi coronavirus a un gruppo chiamato EcoHealth Alliance, che secondo Npr stava eseguendo la maggior parte della raccolta di campioni di coronavirus dai pipistrelli, per poi trasferirli all’Istituto di Wuhan. Il denaro della sovvenzione originale fornito a EcoHealth era di 3,7 milioni di dollari, di cui 76.000 dollari per l’Istituto di Wuhan. Questo finanziamento è stato approvato con il sostegno dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, l’agenzia che dirige Anthony Fauci, secondo quanto riportato da Newsweek. Quel contratto è stato annullato nell’aprile 2020. Tali sovvenzioni sono state approvate dal National Institute of Health di Fauci. Ovviamente, precisa lo Spectator nel suo attacco a Fauci, non c’è alcuna prova del fatto che l’ente guidato dal famoso virologo abbia – intenzionalmente – voluto scatenare una pandemia in tutto il mondo, anche se non va tralasciata l’ipotesi che il virus sia “nato”, anche in maniera del tutto accidentale, in laboratorio, come molti media hanno fatto, bollando frettolosamente questa teoria come “complottista”. No, è solamente un’ipotesi – tutta da verificare – rispetto a un’origine del virus che ancora conosciamo troppo poco. Ciò non toglie che Fauci – come altri attori – debbano chiarire in qualche modo il loro ruolo.

Ora gli scienziati chiedono una nuova inchiesta. A rafforzare la tesi del giornalista scientifico Nicholas Wade circa l’origine del coronavirus nel laboratorio di Wuhan sono ora 18 scienziati firmatari di una lettera pubblicata proprio su Science nella quale chiedono una nuova inchiesta e l’apertura dei dossier cinesi ad analisi indipendenti. “Dobbiamo prendere sul serio le ipotesi relative alla propagazione naturale e in laboratorio, fino a che non si disponga di dati sufficienti” scrivono nella lettera, citata anche dal Corriere della Sera. Secondo gli autori della missiva manca ancora una spiegazione esauriente sul modo in cui il virus è – probabilmente – passato dal pipistrello all’uomo. “L’obiettivo di questa lettera è fornire un sostegno scientifico alle persone che hanno il potere di lanciare un’inchiesta internazionale”, spiegano gli scienziati autori della lettera. “Potranno evocarla per dire che scienziati di alto livello, in una serie di campi pertinenti, pensano che sia necessaria un’inchiesta rigorosa sull’ipotesi dell’incidente di laboratorio”. Nel frattempo, dagli Stati Uniti, il massimo repubblicano della House Intelligence Committee, Devin Nunes, ha dichiarato che l’intelligence statunitense non è riuscita a indagare adeguatamente sulle origini del Covid-19 e ora implora il presidente Biden ad “avviare una un’indagine per determinare se il virus proviene o meno da un incidente di laboratorio in Cina”.

Coronavirus, Paolo Liguori: "Chi non vuole la verità sulla Cina e sulla pandemia". Libero Quotidiano il 16 maggio 2021. "Scusate se insisto: davvero non interessa così tanto sapere da dove ha origine e che tipo di virus è questo Covid 19 che sta demolendo il nostro mondo e le nostre abitudini da quasi 18 mesi?". Inizia così l'articolo di Paolo Liguori sul Giornale. Il giornalista e direttore di Tgcom si chiede cosa sappiamo veramente del virus "partendo dall'ultimo importante documento, sottoscritto da 85 scienziati del Mit in una lettera alla rivista Science". Finora infatti nessuno poteva ipotizzare che il virus fosse uscito da un laboratorio di Wuhan, dove si facevano esperimenti sui pipistrelli "ma oggi non è più possibile perché non è stato portato alcun elemento scientifico a sostegno della tesi del passaggio diretto da animale all'uomo. Su questa stessa ipotesi si sono attestati alcuni scienziati australiani, che hanno aggiunto un altro elemento: anche la Sars, alcuni anni fa, nacque e si sviluppò allo stesso modo, partendo dai laboratori di Wuhan". E le loro tesi, continua Liguori, "seguono di un anno quelle del professore francese Luc Montaigner, che quei laboratori conosce molte bene, per averci lavorato fin dall'inizio", "Ho ricevuto informazioni attendibili e dettagliate sul virus uscito dal laboratorio il 24 gennaio del 2020 e ho cominciato - come mio dovere - a diffonderle fin dal giorno dopo. Esiste un video, più volte replicato, nel quale affermo soprattutto che in Cina era già noto l'allarme almeno da dicembre e, mentre approntavano le loro difese, proibivano a chiunque di diffondere notizie, fino alla morte, alla fine di dicembre, di uno scienziato contagiato nei laboratori". Queste notizie ormai accertate sono state "sottovalutate sistematicamente dall'informazione, perché richiamerebbero una responsabilità precisa dell'Oms, in particolare del suo capo, l'etiope Tedros, totalmente asservito agli interessi della Repubblica cinese. Quali interessi? Economici per miliardi, prima di tutto, ma anche geopolitici. Per quelli economici, basta guardare i dati dell'ultimo anno e le previsioni, ma ancora più importante è lo sviluppo geopolitico. Forte dei primi vaccini e di un monopolio sul virus, la Cina ha proposto nuovi accordi di scambio a tutti i Paesi dell'Oriente e poi si è rivolta all'Africa e al Sud America". Quindi Liguori dice di essersi "dedicato con ancora più attenzione a rintracciare e confrontare tutte le fonti che si occupavano dell'origine della pandemia, per verificare l'autenticità e la profondità delle notizie. Sono partito dalle mie - che, come ho detto, sono fonti di intelligence - e ho scoperto che a Taiwan sapevano per primi degli esperimenti a Wuhan e li giudicavano Bio Weapon (armi biologiche), e così i servizi di intelligence Usa, britannici, francesi, australiani ed israeliani. Forse, anche i tedeschi, però questi organismi di proposito non scambiavano le notizie tra loro". Poi, quale mese fa, conclude il giornalista, "mi sono imbattuto nel professor Joseph Tritto e nel suo libro Cina Covid-19. La chimera che ha cambiato il mondo, dove chimera significa manipolato in laboratorio. Poi, è stato pubblicato L'Infinito errore, di Fabrizio Gatti, un giornalista che dopo mesi di minuziose ricerche ha spiegato che gli esperimenti sui virus in Cina ci sono da almeno 5 anni e sono militari, sotto il controllo diretto del partito comunista. L'ultima interessantissima pubblicazione è di Francesco Zambon, Il Pesce Piccolo, e spiega benissimo il triste inganno dell'Organizzazione mondiale della Sanità, dalla quale è stato cacciato per aver pubblicato un rapporto integrale che doveva restare segreto".  Insomma, ora molti "stanno facendo marcia indietro e si aprono al dubbio, dalla professoressa Capua a Burioni. Bene, benissimo". 

Roberto Fabbri per "Il Giornale" il 16 maggio 2021. La pandemia di Covid-19 potrebbe avere avuto origine da una fuga del virus da un laboratorio, magari quello segreto di Wuhan? Non è il caso di escluderlo. Scienziati eminenti - ricercatori di centri universitari di eccellenza come Stanford, Harvard, il Massachusetts Technology Institute (Mit) e Cambridge - hanno scritto una lettera alla rivista Science per contestare la pretesa verità ufficiale che lo esclude quasi al cento per cento. Una versione accreditata dall'Organizzazione Mondiale della Sanità e da altri scienziati, secondo cui la probabilità che la pandemia da coronavirus sia partita da contagio animale verso l'uomo sfiora la certezza. Viceversa, secondo gli estensori della lettera tra i quali figurano il genetista di Cambridge Ravindra Gupta che coordina il lavoro fatto in Gran Bretagna per contrastare le varianti del Covid e l'epidemiologo di Harvard Marc Lipsitch, «le teorie di un rilascio accidentale da un laboratorio rimangono plausibili». Già nel febbraio 2020, a poco più di un mese dall'esplosione dell'epidemia nella città cinese di Wuhan, un gruppo di scienziati aveva criticato severamente in una lettera all'altra autorevole rivista scientifica The Lancet «il diffondersi di teorie cospiratorie che implicano l'ipotesi che il Covid-19 non abbia un'origine naturale». Da allora chiunque avesse portato argomenti a sostegno della tesi di uno spillover da un laboratorio cinese attivo nella ricerca con fini militari ha subito critiche al limite del disprezzo, e l'evidenza di una scarsa trasparenza sull'argomento da parte delle autorità di Pechino non ha mai ricevuto adeguata considerazione. Ieri però, i 18 virologi firmatari del documento inviato a Science hanno sottolineato l'esistenza di «un'atmosfera tossica» intorno a questo tema, e soprattutto hanno affermato la loro volontà di parlarne - e di farne parlare - apertamente. Il punto che hanno rimarcato è l'insufficienza di informazioni per poter sostenere qualsiasi posizione certa sull'origine della pandemia. «Chiunque sostenga l'una o l'altra posizione in modo categorico ha detto il microbiologo di Stanford David Relman, che ha preso l'iniziativa della lettera - in realtà non dispone dei dati sufficienti per farlo» e si comporta dunque in modo per definizione antiscientifico. Molte ipotesi rimangono credibili, ha ribadito il professor Relman, ed è essenziale per la ricerca della verità su questa tragedia mondiale che gli scienziati di tutto il mondo ci lavorino «con mente aperta». Il che significa, appunto, non sposare alcuna tesi preconcetta, ma allo stesso tempo non escluderne alcuna. «Teniamo conto - ha aggiunto Relman - che il laboratorio dell'Istituto di Virologia di Wuhan svolgeva ricerca sui coronavirus in epoca pre-pandemica. E che sappiamo bene che gli incidenti di laboratorio accadono assai più spesso di quanto chiunque voglia ammettere. Anche nei migliori laboratori, anche negli Stati Uniti».

Stefano Montefiori per corriere.it il 14 maggio 2021. L’idea che il Covid-19 sia sfuggito al laboratorio di Wuhan in Cina deve essere considerata con serietà e attenzione, al di là delle teorie di complotto. Lo sostengono 18 importanti scienziati che hanno scritto una lettera sulla rivista Science, chiedendo una nuova inchiesta e l’apertura dei dossier cinesi ad analisi indipendenti: «Dobbiamo prendere sul serio le ipotesi relative alla propagazione naturale e in laboratorio, fino a che non si disponga di dati sufficienti».

L’appello su Science. Il biologo David Relman dell’università di Stanford e il virologo Jesse Bloom dell’Università di Washington ritengono che la questione delle origini dell’epidemia non sia stata chiusa dalla ricerca condotta dall’Organizzazione mondiale della sanità in collaborazione con la Cina, in base alla quale un coronavirus del pipistrello avrebbe contaminato l’uomo attraverso un animale intermedio. Secondo gli autori della lettera manca ancora una spiegazione esauriente sul modo in cui il virus sia passato dal pipistrello all’uomo. «L’obiettivo di questa lettera è fornire un sostegno scientifico alle persone che hanno il potere di lanciare un’inchiesta internazionale – dice la biologia molecolare Alina Chan del Mit, coautrice dell’articolo -. Potranno evocarla per dire che scienziati di alto livello, in una serie di campi pertinenti, pensano che sia necessaria un’inchiesta rigorosa sull’ipotesi dell’incidente di laboratorio».

I tre lavori universitari su Twitter. Nello stesso giorno dell’intervento su Science, Le Monde segnala che sono stati diffusi su Twitter tre lavori universitari (una tesi di dottorato e due lavori a livello di master) condotti nel 2014, 2017 e 2019 all’Istituto di virologia di Wuhan, che rimettono in discussione le informazioni finora rilasciate dalle autorità sulle conoscenze e gli studi del coronavirus nel laboratorio cinese. La rivelazione più importante, secondo Le Monde, riguarda lo studio del virus RaTG13 e il suo eventuale rapporto con il Covid-19.

Il caso del virus RaTG13. Il RaTG13 è stato prelevato nel 2013 in una miniera abbandonata a Mojiang, nella provincia dello Yunan, dove vivevano pipistrelli che nella primavera 2012 avevano contaminato sei operai. Tre di loro erano morti dopo una malattia polmonare dai sintomi simili a quella provocata dal Covid-19. I lavori universitari diffusi su Twitter da un conto anonimo sembrano suggerire che le autorità e gli scienziati cinesi abbiano studiato questi coronavirus più di quanto hanno comunicato dopo lo scoppio dell’epidemia.

Il dibattito nel mondo. Per tornare alla lettera su Science, tra i firmatari c’è il microbiologo Ralph Baric dell’università della North Carolina, che nel 2015 aveva pubblicato su Nature Medicine un discusso studio svolto in collaborazione con il laboratorio di Wuhan, nel quale illustrava la creazione di un nuovo virus molto pericoloso per l’uomo a partire da un coronavirus di pipistrello. La tesi di un’origine accidentale del Covid-19 è stata squalificata, nell’aprile di un anno fa, quando era stata sostenuta con forza dal professor Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008, che in seguito si è conquistato una pessima reputazione in seno alla comunità scientifica. La lettera su Science e l’inchiesta di Le Monde non danno ragione al professor Montagnier, che si diceva convinto di una fabbricazione del Covid-19 a partire dal virus Hiv, ma offrono nuova forza a quanti sostengono la necessità di condurre nuove e più approfondite ricerche sulle origini della pandemia.

Alessandro Ferro per insideover.com il 12 maggio 2021. Il Covid-19 di Wuhan che tutto il mondo avrebbe tristemente conosciuto da lì a breve poteva già essere la variante di un virus esistente da prima, almeno dall’ottobre del 2019. È questa l’ipotesi di alcuni ricercatori della Temple University di Philadelphia.

Cosa dice lo studio. Il rapporto originale è stato pubblicato su BiorXiv dal titolo “Un ritratto evolutivo del progenitore Sars-Cov-2 e delle sue propaggini dominanti nella pandemia Covid-19” dove si cerca di capire, appunto, quale sia il progenitore del virus che ci accompagna ormai da un anno e mezzo. Ma come hanno fatto i ricercatori ha giungere a queste conclusioni? “Un metodo è quello di analizzare le sequenze genomiche di RNA di milioni di virus isolati dai pazienti che hanno infettato e confrontarli. In questo modo è possibile determinare la discendenza di una famiglia di virus e costruire una sorta di "albero genealogico" del virus”, ha affermato ad InsideOver Giuseppe Novelli, genetista e rettore dell’Università “Tor Vergata” di Roma. I colleghi di Philadelphia hanno ricostruito l’albero genealogico con un metodo sofisticato di analisi computazionale e stabilito che il progenitore differisce dai primi Coronavirus isolati in Cina per tre varianti, a suggerire che nessuno dei primi pazienti rappresenta il caso indice che ha dato origine a tutte le infezioni umane. Secondo queste analisi il virus esisteva già, e quello arrivato in Italia ed in Europa altro non era che una mutazione del virus come quelle che ormai abbiamo imparato a conoscere (sudafricana, brasiliana, indiana, ecc.). Su queste basi, i ricercatori hanno ricostruito l’albero genealogico: i rami sono le varianti, il tronco centrale è il punto da dove partono i rami: loro hanno individuato una zona di questo ipotetico albero la cui parte centrale è in comune a tutti i rami. Partendo dai rami, andando a ritroso ed avvicinandosi al tronco, si sono avvicinati a quello che potrebbe essere il tronco più probabile, il progenitore del virus.

Perché “Wuhan 1” non è il virus originale. Proprio come gli esseri umani, anche i virus hanno una discendenza ma mentre noi possiamo usare i fossili o il Dna degli ominidi per identificare le creature che hanno vagato sulla Terra nel passato, i virus sono molto più difficili da classificare e non ci hanno lasciato resti fossili da studiare. Per i virus, poi, mutare non è così facile come possa sembrare: per gli esseri umani e i batteri è più semplice, non per i virus perché hanno un modo di trasmettersi particolare, non hanno una cellula o una vita autonoma, non esistono come tali se non quando infettano. “Il batterio si riproduce, fa due copie di se stesso, poi quattro, poi otto e così via. Il virus, invece, è diverso perché quando infetta dipende dall’ospite, cioè da noi. È molto più difficile farlo – ci spiega Novelli –  I ricercatori americani hanno applicato una tecnica nuova trovando quello che potrebbe essere il prototipo, il primo Covid-19”. Il più anziano, teoricamente, sarebbe dovuto essere quello di Wuhan chiamato “Wuhan 1” ma si sono accorti che presentava già tre mutazioni rispetto ad altri Coronavirus già noti come, ad esempio, quello della Sars. “Da questo si è dedotto che non potesse essere lui il capostipite, prima ce ne doveva essere stato qualcun’altro. Ipotizzano che il primo, eventualmente, potesse essere in circolazione già dall’ottobre-novembre 2019 rispetto a quello depositato sulla banca dati a dicembre. Ciò significa che poteva essere già mutato ed i ricercatori hanno trovato questo cambiamento”, aggiunge Novelli. Il punto, però, è che si tratta di ipotesi perché quello che i ricercatori chiamano pro-Cov2, il progenitore del Covid, non è stato diagnosticato in nessun paziente. “L’unica cosa è che stata trovata la ‘pistola’ di Wuhan, a dicembre, ma si presume che Wuhan non possa essere stato il capostipite iniziale o ‘paziente zero’, perché sappiamo come il virus sta cambiando e come cambia nel tempo. Presumo, quindi, che ce ne sia stato uno prima chiamato proto-coronavirus. Ma non l’hanno mica trovato”, sottolinea il genetista.

L’importanza di saperlo: farmaci e vaccini ad hoc. Più infezioni da Coronavirus in Cina e negli Stati Uniti hanno ospitato l’impronta genetica del progenitore nel gennaio 2020 e nei periodi immediatamente successivi, suggerendo che il “progenitore” si stava diffondendo in tutto il mondo non appena settimane dopo i primi casi segnalati di Covid-19. Le sue mutazioni e quelle dei suoi derivati hanno prodotto molti ceppi dominanti di Coronavirus che si sono diffusi episodicamente nel tempo. “Questo tipo di conoscenza non è solo una curiosità scientifica, ma potrebbe aiutarci a trovare nuovi modi per bloccarli (ad esempio individuo un sito comune “conservato” che potrebbe essere un target per anticorpi neutralizzanti e farmaci). Infatti, se si identificano questa parti, possono essere utilizzati per creare terapie che funzionano sull’intera famiglia di virus, invece di uno solo”. La ricostruzione dell’albero genealogico del Covid-19 vuole essere uno sbocco verso una cura terapeutica ben specifica: se si scopre qual è la zona comune, identica e che non cambia del Covid e quindi dei Coronavirus in generale, la ricerca si potrebbe indirizzare verso dei farmaci o un vaccino ad hoc fatti apposta per colpire quella zona che non muta mai. “A quel punto si potrebbe ipotizzare la produzione di un vaccino generale, universale, che colpisce la zona centrale del virus che blocca tutte le varianti, cioè la radice, che è la stessa per tutte le mutazioni che il Covid ha avuto”, afferma il Prof. Novelli, che spiega come questo sia il meccanismo con cui agiscono gli antibiotici. “Per gli antibiotici funziona così: se ne prende uno che colpisce più batteri che hanno in comune un ‘core’, quindi una famiglia di batteri. Perché si parla di antibiotico ad ampio spettro? Perché può uccidere più batteri: se domani si scoprisse il ‘core’ che hanno in comune si potrebbe produrre un vaccino che protegga da tutta la famiglia dei Coronavirus. Finora non è stato fatto perché non è ancora stata scoperta la parte comune, è un esperimento che ci aiuta ad andare in questa direzione. Ci vuole tempo, la Scienza ha bisogno dei suoi tempi”. Inoltre, il genoma progenitore è un riferimento migliore per seguire la diffusione delle varianti nel mondo, l’orientamento delle mutazioni, la stima di sequenze divergenti. “Adesso aspettiamo che lo studio venga confermato anche da altri e poi ne riparliamo. I discendenti dei virus indicano la strada verso nuove soluzioni terapeutiche”, conclude.

La genetica esclude che il Covid-19 sia nato a Wuhan. Piccole Note il 10 maggio 2021. Il Covid-19 non si sarebbe manifestato per la prima volta a Wuhan. A sostenere questa tesi è un gruppo di ricercatori della Temple University di Philadelphia guidato da Sudhir Kumar. Ne dà notizia, tra gli altri, La Stampa il 5 maggio. I ricercatori della Temple sono riusciti a ricostruire l’albero genealogico del virus risalendo così alle sue origini. La conclusione è che “la madre di tanta sciagura per i ricercatori ha un nome ben preciso: proCoV2 e una sua prima variante circolava nel mondo già nell’ottobre 2019”. Un vero e proprio viaggio nel tempo quello fatto dai ricercatori, che si sono avvalsi per le loro analisi della storia del virus, prendendo in esame anche le varianti (tra cui le famigerate inglese, sudafricana e brasiliana) che hanno permesso di riscrivere la storia del Coronavirus e che in precedenza non potevano essere studiate a fondo. “Le mutazioni del progenitore e dei suoi derivati hanno prodotto molti ceppi dominanti di Coronavirus, che si sono diffusi episodicamente nel tempo. – scrive in una nota Kumar, capo del gruppo di ricerca – Questo genoma progenitore differisce dai genomi del primo Covid-19 campionato in Cina, il che implica che nessuno dei primi pazienti rappresenta il caso indice o ha dato origine a tutte le infezioni umane”. Uno studio che rafforza notevolmente l’ipotesi che il virus non sia nato a Wuhan. Infatti un’importante conclusione della ricerca dell’università americana è che “gli eventi di dicembre a Wuhan hanno rappresentato il primo evento di super-diffusione di un virus che aveva tutti gli strumenti necessari per provocare una pandemia”. Evidenza scientifica coerente con le conclusioni a cui era giunta la commissione dell’OMS a febbraio, che aveva escluso il laboratorio e il mercato di Wuhan come origine della pandemia, anche se poi ci ha ripensato chiedendo maggiori indagini sul laboratorio (1). Un ripensamento che, però, non tocca una prima e sicura conclusione di quello studio approfondito: il Covid-19 non ha avuto origine nel mercato di animali vivi di Wuhan, come per circa un anno si è scritto in quanto dato assodato e sicuro su tutti i media occidentali. Una Fake news reiterata, della quale i suoi propalatori non hanno chiesto scusa ai propri lettori, ché altrimenti verrebbe meno tutta la narrazione di questi mesi volta a criminalizzare la nazione che per prima è stata vittima del virus (resta il laboratorio, ma la richiesta di un supplemento di indagine, ad oggi, non conferisce alcuna patina di verità all’ipotesi, smentita appunto dalla prima inchiesta). Inoltre ricordiamo che anche altri elementi, di cui avevamo dato conto nei mesi scorsi, suggerivano che la tragedia Covid-19 non avesse avuto origine a in Cina nell’inverno 2019. Tracce di Covid-19 erano infatti state ritrovate in Italia, negli Stati Uniti e in altri paesi ben prima di quella data. Di grande interesse il commento a questa ricerca del genetista Giuseppe Novelli, dell’Università di Roma Tor Vergata, il quale sostiene che si può ragionevolmente stimare che “il virus abbia un tasso di mutazione di circa 2 mutazioni al mese e che abbia avuto origine almeno 6-8 settimane prima del genoma isolato in Cina, noto come Wuhan-1”. Tale ricerca, sempre secondo Novelli, potrebbe aiutarci nella lotta al Covid-19, sbloccando terapie “che funzionano sull’intera famiglia di virus, invece che su uno solo”. Insomma, quanto scoperto sembra un tassello importante per la lotta alla pandemia, dal momento che potrebbe aiutare a comprendere le dinamiche delle tanto temute varianti e rendere così più efficace la lotta al virus, magari non solo con i vaccini, ai quali si è dato giustamente precedenza, ma con precedenza che ha del tutto fatto trascurare l’altrettanto ricerca sulle terapie. Detto questo, dato che la pandemia è stata usata non poco in chiave geopolitica, cioè per tentare di affossare la Cina, riteniamo difficile che tale ricerca possa diradare le nebbie innalzate dalla teoria del laboratorio di Wuhan. Potenza delle narrazioni.

(1) Si può ricordare come il dottor Anthony Fauci, l’autorevole zar del coronavirus made in Usa, durante il mandato di Trump abbia più volte smentito la tesi che il Covid-19 sia sfuggito dal laboratorio di Wuhan, contraddicendo l’allora amministrazione Usa, con grave nocumento d’immagine per la stessa. Da quando l’amministrazione Usa è passata di mano non ha più aperto bocca in proposito… Si può anche far caso che il 27 marzo la Cina ha stilato un accordo-monstre con l’Iran per acquistarne il petrolio, intesa che mandava in fumo tutti i piani per piegare Teheran tramite sanzioni o per costringerla a un accordo più umiliante con l’America sul nucleare (che ad esempio comprendesse il suo apparato missilistico). La richiesta dell’Oms di nuove indagini sul laboratorio di Wuhan, del tutto inattesa e imprevedibile, soprattutto dopo la conclusione della prima indagine, che aveva smentito la teoria del laboratorio, giungeva due giorni dopo tale accordo. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca… 

Maurizio Tortorella per "la Verità" l'11 maggio 2021. Già nel 2015 gli scienziati militari cinesi pensavano di sviluppare uno studio sui coronavirus, intravvedendo in quei pericolosi microorganismi il potenziale strumento di una futura guerra biologica. Cinque anni prima che esplodesse la pandemia globale di Covid-19, scienziati cinesi con le mostrine ragionavano sull' idea che un coronavirus simile a quello che provoca la Severe acute respiratory syndrome, cioè la Sars, ovvero la Sindrome respiratoria acuta grave, potesse essere la base per una «terza guerra mondiale». È quanto emerge da documenti resi noti pochi giorni fa dal quotidiano The Australian di Sidney, il più diffuso d' Australia: cinque anni fa un'equipe di ufficiali dell'esercito popolare di liberazione cinese avrebbe descritto i coronavirus della Sars come «base» da ingegnerizzare in laboratorio «per una nuova era di armi genetiche» e ne avrebbero magnificato le caratteristiche di contagiosità e rapidità di diffusione, utili a causare «il collasso del sistema medico del nemico». Le rivelazioni di The Australian si basano su un documento di 263 pagine, datato 2015 e intitolato The unnatural origin of Sars and new species of man-made viruses as genetic bioweapons (cioè «Le origini artificiali della Sars e nuove specie di virus prodotti dall' uomo come armi biogenetiche») che già fa capire quanto Pechino cinque anni fa fosse avanti nelle mutazioni di virus con possibili implicazioni belliche. Il testo condensa il lavoro di un gruppo di (18) scienziati dell'esercito cinese guidati dal generale Dezhong Xu, già capo degli esperti sull' analisi pandemica della Sars presso il ministero cinese della Salute, e ipotizza di trasformare in arma un coronavirus di ceppo Sars allo scopo di generare una pandemia che faccia collassare i sistemi sanitari del «nemico». È l'ipotesi di un'«arma biologica illimitata», alla quale l' esercito cinese in realtà avrebbe segretamente lavorato per anni, e lo studio del 2015 suggerisce che il coronavirus del futuro «debba essere congegnato in modo da poter essere scambiato per un patogeno del tutto naturale». Questo accorgimento, si legge nel testo, avrebbe lo scopo di contraddire con efficacia «l' accusa di aver ingegnerizzato geneticamente un' arma biologica, in modo da neutralizzare tutte le ricerche delle organizzazioni sanitarie internazionali e ogni altro tipo d' inchiesta». Cinque anni fa, il testo sottolineava che l' utilizzo del nuovo coronavirus non avrebbe dovuto essere ristretto a «conflitti di tipo militare», ma sarebbe stato meglio impiegarlo proprio in campo «non bellico», dove avrebbe «causato diffuso terrore» e avrebbe consentito alla Cina e al regime di Xi Jinping di «ottenere vantaggi politici e strategici in aree regionali, se non a livello globale». Global Times, il quotidiano in lingua inglese del Partito comunista cinese, ha attaccato con forza The Australian e poi ogni altro quotidiano occidentale che abbia ripreso l' articolo, sostenendo si tratti di «propaganda». Non è difficile prevedere che anche questa notizia in Italia sarà silenziata dai mass media, esattamente com' è accaduto a ogni tipo d' informazione che dall' inizio della pandemia abbia tentato di fare luce sulle reali origini del Covid. Certo, impressiona la perfetta assonanza tra le valutazioni scritte nel 2015 dall' equipe del generale Dezhong Xu e quanto poi è effettivamente accaduto a partire dai primi mesi del 2020: con l' economia occidentale messa in ginocchio dalla pandemia, mentre la Cina ha continuato a crescere ed è riuscita a espandere la sua influenza globale grazie al Covid e alla «diplomazia della mascherina». Se davvero si trattasse solo di coincidenze, il povero generale meriterebbe non tanto la stella rossa come eroe del popolo, ma - scegliete voi - un premio alla sfortuna o alle sue capacità divinatorie. Del resto, proprio alla fine del 2015 cominciarono a circolare per il mondo i primi allarmi su quanto stava accadendo in certi laboratori cinesi. Torna in mente l' articolo pubblicato il 9 novembre 2015 dalla rivista Nature, che metteva in guardia sui rischi di «una ricerca dell' Istituto di virologia di Wuhan», che inseguiva «pericolosi esperimenti» sui coronavirus dei pipistrelli. Quanto all' Italia, forse più modestamente rispetto a Nature, ma certo con la stessa puntualità, il 16 novembre 2015 andò in onda una puntata di Leonardo, trasmissione di approfondimento scientifico di Rai 3, che denunciava come un gruppo di ricercatori cinesi stesse «innestando geneticamente una proteina ricavata da pipistrelli nel virus della Sars», e il rischio che da quell' esperimento potesse uscire «un supervirus in grado di colpire l' uomo». Come volevasi dimostrare.

Da ilmessaggero.it il 9 maggio 2021. Gli scienziati cinesi «si stanno preparando per una terza guerra mondiale combattuta con armi biologiche e genetiche e viene incluso il coronavirus»: succede da sei anni circa, stando a un documento (segreto fino a pochi giorni fa) appena ottenuto dagli investigatori statunitensi. E adesso, la prova che Pechino ha considerato il potenziale militare del Covid-19 dal 2015, sta sollevando nuovi timori sulle origini della pandemia. Scienziati e funzionari sanitari dell'Esercito popolare di liberazione hanno dato vita alla manipolazione delle malattie per produrre armi «in un modo mai visto prima». Il deputato Tom Tugendhat, presidente della commissione per gli affari esteri, ha dichiarato: «Questo documento solleva grandi preoccupazioni. Anche sotto i controlli più stretti queste armi sono pericolose». L'esperto di armi chimiche Hamish de Bretton-Gordon ha fatto sapere: «La Cina ha aggirato i regolamenti e ha evitato di sorvegliare i suoi laboratori dove potrebbe aver avuto luogo tale sperimentazione». La rivelazione tratta dal libro “What Really Happened in Wuhan” è stata riportata ieri su The Australian. Il documento, New Species of Man-Made Viruses as Genetic Bioweapons, afferma: «La nuova capacità di congelare i microrganismi ha reso possibile immagazzinare agenti biologici e aerosolizzarli durante gli attacchi». Sono stati 18 autori che lavoravano in laboratori "ad alto rischio", dicono gli analisti. Le agenzie di intelligence sospettano che il Covid-19 possa essere il risultato di una fuga involontaria dal laboratorio di Wuhan. Ma ancora non ci sono prove che suggeriscano che sia stato rilasciato intenzionalmente.

Davide Cavalleri per lastampa.it il 6 maggio 2021. Non è stato usato il metodo del Carbonio-14, ma il risultato ottenuto va in quella direzione: datare l’origine del Covid-19 e, soprattutto, individuarne la genesi e l’evoluzione. Quello che è stato scoperto, adesso, rischia di rivoluzionare la conoscenza del mondo scientifico rispetto al virus responsabile della Sars Cov-2. Grazie al gruppo di ricerca della Temple University di Philadelphia guidato da Sudhir Kumar si è arrivati a scoprire il progenitore, l’antenato, la fase embrionale del virus SarsCov2. La madre di tanta sciagura per i ricercatori ha un nome ben preciso: proCoV2 e una sua prima variante circolava nel mondo già nell’ottobre 2019. Le successive evoluzioni e mutazioni del progenitore nato in Cina hanno dato il via ad una serie di sotto-ceppi di virus diventati dominanti, prendendo nel tempo l'uno il posto dell'altro in Asia ed Europa.

Dove il caso zero? Uno studio a ritroso quello condotto dalla Temple University, basandosi sulle varianti, sulla diffusione e su mappe genetiche del virus. Un albero genealogico a marcia indietro, partendo dalle varianti sudafricane, inglesi, indiane e brasiliane, passando, naturalmente, per i primi casi di contagio a Wuhan. «Le mutazioni del progenitore e dei suoi derivati hanno prodotto molti ceppi dominanti di Coronavirus, che si sono diffusi episodicamente nel tempo – scrive in una nota Kumar, a capo del gruppo di ricerca –. Questo genoma progenitore differisce dai genomi del primo Covid-19 campionato in Cina, il che implica che nessuno dei primi pazienti rappresenta il caso indice o ha dato origine a tutte le infezioni umane». Insomma, sappiamo da dove viene ma non in che momento è diventato il virus che oggi conosciamo. Questo tipo di ricerca spiegherebbe in prima battuta come mai il SarsCov2 sia riuscito a diffondersi e a proliferare così velocemente in alcuni Paesi piuttosto che in altri. E, in secondo luogo, arriverebbe a stabilire con una buona dose di certezza che il caso zero potrebbe non essersi registrato a Wuhan, come rileva Kumar: «Gli eventi di dicembre a Wuhan hanno rappresentato il primo evento di superdiffusione di un virus che aveva tutti gli strumenti necessari per provocare una pandemia».

Un aiuto nella lotta al Covid. Secondo il genetista Giuseppe Novelli, dell'Università di Roma Tor Vergata, si può ragionevolmente stimare che «il virus abbia un tasso di mutazione di circa 2 mutazioni al mese e che abbia avuto origine almeno 6-8 settimane prima del genoma isolato in Cina, noto come Wuhan-1». Una ricerca che, sempre secondo Novelli, potrebbe aiutarci nella lotta al Covid, sbloccando terapie «che funzionano sull'intera famiglia di virus, invece di uno.

Matteo Ghisalberti per "la Verità" il 5 maggio 2021. La pandemia di coronavirus può essere stata provocata da una fuga dal laboratorio cinese di Wuhan. A dirlo non è qualche personalità accusata regolarmente di complottismo, ma il quotidiano francese Le Figaro che, a questa ipotesi, ha dedicato l' apertura dell' edizione di ieri. Il giornale è partito delle domande che si sono posti gli scienziati del cosiddetto Gruppo di Parigi che, dall' anno scorso, hanno scritto varie lettere aperte all' Organizzazione mondiale della sanità - un organismo dell' Onu, diretto dall' etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus che, da quando è scoppiata la pandemia, non è stato esattamente un esempio di trasparenza e indipendenza, soprattutto nei confronti di Pechino. Per i membri del Gruppo di Parigi, così chiamato perché in origine era costituito in gran parte da francesi, gli scarsi dati disponibili relativi al virus cinese permettono di tratteggiare vari scenari. In primis, gli esperti pensano che il mercato di Wuhan sia stato un «amplificatore» della malattia piuttosto che il primo focolaio. Questo significherebbe che, prima di subire un' accelerazione tra i banchetti del mercato cinese, il virus fosse già in circolazione da settimane o mesi. Quanti? È impossibile dirlo perché, su ciò che è accaduto prima dell' 8 dicembre 2019, il regime comunista di Pechino ha fatto calare una cortina di fumo. Ma l' assenza di informazioni sui mesi precedenti all' inizio della pandemia, combinata al fatto che nella città diventata epicentro del morbo si trovi il Wiv (Wuhan institute of virology) non fa altro che alimentare i sospetti. Va ricordato che questo centro è nato dalla collaborazione francocinese, in seguito all' epidemia di Sars dell' inizio degli anni 2000. Nonostante i timori dell' intelligence e dell' esercito francesi, i governi di Parigi di quegli anni hanno deciso di aiutare Pechino a prevenire altre eventuali epidemie. Solo che dopo l' inaugurazione del laboratorio - fatta da Emmanuel Macron nel 2018 - i francesi hanno perso sempre più il controllo delle ricerche. Nello stesso anno, dei funzionari dell' ambasciata Usa a Pechino avevano allertato sulle scarse misure di sicurezza adottate nel laboratorio. A interessare gli scienziati del Gruppo di Parigi c' era uno dei lavori condotti dalla dottoressa Shi Zheng Li, proprio nel laboratorio di Wuhan. Nel 2016 la ricercatrice e i suoi collaboratori avevano pubblicato una minima parte della sequenza del dna di un virus «cugino» naturale del Sar-Cov-2. Tale virus era stato identificato grazie agli studi condotti dal Wiv su un campione di escrementi di pipistrello, prelevati nel 2013 da una miniera di rame situata nella regione dello Yunnan. È importante precisare che lo Yunnan si trova a oltre 1.500 km di distanza da Wuhan. Va anche detto che nel 2020 questa sequenza è stata ripubblicata con il codice RaTg13, ma dalla Cina, nessuno si è preso la briga di ricordare che, nel 2016, fosse stato scelto un altro codice per parlare dello stesso virus. Questi due dettagli hanno indotto il virologo Etienne Decroly, citato da Le Figaro, a dire che, «ciò non prova niente, ma può anche voler dire che (al laboratorio di Wuhan, ndr) lavoravano su questo virus da diversi anni». Per saperne di più bisognerebbe disporre del campione analizzato, ma per Zheng Li non ne rimaneva più dopo lo studio. Il Gruppo di Parigi si è anche insospettito per il fatto che la stessa Zheng Li abbia impiegato quasi un anno per riconoscere, in un articolo pubblicato nel novembre 2020 dalla rivista Nature, che il campione di feci di pipistrello non proveniva da una miniera a caso. Bensì da quella di Tongguan dove, nel 2012 sei minatori avevano contratto una polmonite atipica che aveva provocato la morte di tre di loro. Per i ricercatori del Gruppo di Parigi sarebbe importante capire se la malattia provenisse dai pipistrelli. Oppure, come sostiene Zheng Li, da un fungo che si sviluppa sugli escrementi prodotti da questi animali. Gli studiosi parigini vorrebbero anche capire come un virus, diffuso in una regione molto lontana da Wuhan, si ritrovi a circolare proprio in questa città. Il ricercatore Gilles Demaneuf ha detto al quotidiano francese che «non possiamo escludere l' ipotesi di un dottorando del Wiv che si sia infettato mentre effettuava dei prelievi» anche se, ha precisato, «non stiamo dicendo che sia andata così». Le ipotesi formulate dagli esperti del Gruppo di Parigi, ricordano molto quelle di Donald Trump. Ma, siccome l' ex presidente americano era il nemico numero uno dei media mainstream del mondo intero, le sue parole erano state bollate con il marchio infamante del complottismo. Ora invece, con Joe Biden alla Casa Bianca, per Macron (preoccupato dalle elezioni) è più facile tenere una linea più rigida verso la Cina. Inoltre, anche in Europa, è cambiato l' atteggiamento nei confronti di Pechino. Fino a qualche mese fa, il presidente francese non aveva abbastanza forza per opporsi alla strategia aperturista della sua alleata Angela Merkel. Ora invece Macron pensa già alle presidenziali del 2022 e può contare sul sostegno di Mario Draghi. Uno che non le manda a dire, né a Pechino né a Berlino.

Nuove accuse dalla Francia: “Virus uscito dal laboratorio di Wuhan”. Federico Giuliani su Inside Over il 5 maggio 2021. A oltre un anno dallo scoppio della pandemia di Sars-CoV-2, nessuno è ancora riuscito a risolvere l’enigma relativo alla sua origine. Da dove viene il virus che ha generato l’emergenza sanitaria più grave degli ultimi decenni? È solo un caso che il primo epicentro noto sia stato localizzato nella città cinese di Wuhan? C’entra qualcosa il Wuhan Institute of Virology? Qualcuno ha nascosto qualcosa? Sembrava che l’indagine sul campo effettuata dall’Oms a cavallo tra gennaio e febbraio potesse essere la chiave di volta della vicenda, ma a quanto pare ci sono ancora troppe questioni irrisolte. L’ultimo report stilato dal team inviato in Cina dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, intitolato WHO-convened Global Study of Origins of SARS-CoV-2: China Part. Joint WHO-China Study, riportava quattro ipotesi plausibili sull’origine del Sars-CoV-2. In particolare, la diffusione del virus in seguito a un incidente di laboratorio è stata etichettata come “estremamente improbabile”, mentre “l’ipotesi di rilascio deliberato o bioingegneria deliberata di Sars-CoV-2” era stata esclusa categoricamente. Le altre piste: il salto di specie diretto da un pipistrello all’uomo, una zoonosi indiretta, cioè da pipistrello a ospite intermedio a esseri umani, oppure la trasmissione dell’epidemia mediante i prodotti alimentari della catena del freddo. A fine marzo fu Tedros Ghebreyesus in persona a rimettere tutto o quasi in discussione: “Leggeremo il report e ne discuteremo il contenuto con tutti i Paesi del mondo. Tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo e serviranno studi completi e approfonditi, oltre a quelli fatti sinora”. Adesso dalla Francia arrivano nuove, pesanti accuse che riabilitano la pista del laboratorio. Tutto si basa sulle considerazioni riportate sul quotidiano Le Figaro dagli scienziati facenti parte del Gruppo di Parigi. Secondo loro, il mercato ittico di Wuhan non sarebbe stato altro che un banale amplificatore della pandemia. In ogni caso, è difficile capire con esattezza cosa sia successo prima dell’8 dicembre 2019, visto che, a quanto pare, non ci sarebbero dati adeguati per ricostruire il mosaico. È qui che si inserisce il laboratorio di Wuhan, più volte finito sotto i riflettori in seguito alle ripetute accuse degli Stati Uniti, in particolare sotto l’amministrazione guidata da Donald Trump. Ma perché tornare di nuovo, oggi, sulla struttura cinese? I membri del Gruppo di Parigi hanno evidenziato la nascita del laboratorio. Ovvero grazie a una stretta collaborazione tra francesi e cinesi, avvenuta all’indomani dell’emergenza Sars, nei primi anni Duemila. Erano noti i timori dell’intelligence francese dell’epoca, non proprio desiderosa di dare il via a una simile collaborazione. Alla fine prevalse la volontà degli ex governi francesi di aiutare la Cina a prevenire l’insorgere di nuove malattie.

L’errore dei francesi. Più che un errore, sembrerebbe un dato di fatto. È vero che Emmanuel Macron inaugurò il laboratorio di Wuhan nel 2018, ma è altrettanto vero che da quel momento in poi i francesi persero per sempre, e del tutto, il controllo delle ricerche realizzate nella struttura. Ricerche altamente sensibili e potenzialmente pericolose. Il Gruppo di Parigi ha quindi unito vari sospetti e sbandierato nuovamente la pista del laboratorio. Una fuga involontaria? Un incidente? Tutto è probabile. Anche perché in quel laboratorio si studiavano virus molto simili al Sars-CoV-2.

In ogni caso, gli esperti francesi hanno condiviso una lettera aperta nella quale, al fine di dissipare le tante zone d’ombra ancora presenti sulla vicenda, hanno proposto una metodologia d’inchiesta più rigorosa, oltre che domande precise da effettuare alle autorità cinesi. Non mancano ipotesi “inedite”: si va da un possibile dipendente del laboratorio contaminato da un animale presente nella struttura ai rifiuti non trattati a dovere che potrebbero aver infettato una persona all’esterno dell’edificio. I dubbi restano, e sono molteplici.

Ranieri Guerra, ex Oms: «Linciaggio contro di me per coprire negligenze altrui. La mia vita distrutta».  Margherita De Bac su Corriere della Sera il 3 ottobre 2021.

Ranieri Guerra, della sanità, ex del Comitato tecnico-scientifico, che fa ora? 

«Collaboro con l’accademia nazionale di medicina, associazione attiva nel campo della divulgazione scientifica. Momentaneamente mi sono accasato qui. Vivo tra Genova e Roma».

La sua storia con l’Oms è chiusa?

«I nostri rapporti sono terminati il 30 giugno per fine contratto. Comincio ad avere una certa età, da tre anni lavoravo per loro con un rapporto a termine. Va bene così, nessun rimpianto».

Ha lasciato perché coinvolto nell’inchiesta della Procura di Bergamo, dove è indagato per falsa testimonianza in un filone dell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Covid? 

«No, il contratto era finito».

Qual è la sua posizione? 

«Non ne ho la più pallida idea. Ho fatto la mia deposizione il 5 novembre del 2020 come persona informata sui fatti e sono stato iscritto nel registro degli indagati. I magistrati hanno elaborato una rogatoria inviata a Ginevra, sede dell’Oms, di cui non conoscevo il contenuto. Dopo tre mesi Ginevra ha risposto. Ora mi aspetto che la Procura derubrichi la mia posizione».

Il 5 ottobre uscirà il suo libro «Bugie, verità, manipolazioni», editore Piemme. Perché lo ha scritto? 

«Ho subito violenti attacchi per presunta negligenza, quando tra il 2014 e il 2017 ero direttore della prevenzione al ministero della Salute, sul mancato aggiornamento del piano pandemico Panflu datato 2006. Sono stato poi sospettato di aver cercato di insabbiare le prove con pressioni sull’ ex funzionario dell’ufficio Oms di Venezia, Francesco Zambon, mio principale accusatore. Avrei cercato di posticipare l’attualità del piano al 2016. Col libro ho cercato di ribaltare la narrativa corrente su di me dopo aver avuto l’autorizzazione da Ginevra a divulgare una serie di informazioni che documentano la realtà dei fatti».

La sua vita professionale è stata rovinata? 

«Ci hanno provato. Ognuno reagisce come può. C’è chi si ammazza. Io mi sono dedicato a mettere a posto le carte per passare al contrattacco. Ora ho in piedi 3 querele e alcune cause risarcitorie di cui si discuterà in tribunale il 10 dicembre».

Più dolorose le sue vicende private? 

«Mentre ero sottoposto al linciaggio mediatico, durante la pandemia ho perso mia madre, Aida, morta a Pescara a 92 anni in ospedale, forse per aver preso il Covid durante il ricovero. La mia compagna Clara è stata contagiata, ora a distanza di mesi soffre di long Covid ed è sotto costante controllo. Per un pelo non se ne è andata. L’ho curata personalmente grazie ai consigli dei tanti colleghi».

I suoi nipoti hanno visto dipingere il nonno come un mostro. La loro reazione? 

«Le due più grandi, 9 anni, si mettevano davanti alla televisione quando c’erano i programmi su di me, ben 22 gli spazi dedicati alla mia storia, e lanciavano anatemi».

Lei è chirurgo, ha mai esercitato? 

«All’inizio, poi mi sono occupato di sanità pubblica. Figlio di poliziotto e di una casalinga, sono nato a Fabriano mentre papà risaliva la penisola e cercava di tornare a prestare servizio a Verona, la sua città. La mia infanzia è stata semplice. A 25 anni ho deciso di andare a lavorare in Africa anche se sarei potuto restare comodamente a Verona. I miei tre figli mi credevano una specie di agente segreto perché ovunque andassi succedeva qualcosa di terribile. Epidemie, attentati, assedi, guerre. Ho visto l’inferno senza sapere che quello vero doveva ancora arrivare, in Italia. Delle mie origini mi restano un’anziana zia, una cugina e l’amore per l’Arena».

Rimpiange di aver lasciato il Congo per essere inviato a Roma come collegamento tra Oms e Italia? 

«No, quando il direttore Tedros Ghebreyesus mi ha chiamato, mi sono messo a disposizione. Ho preso servizio a Roma l’11 marzo del 2020 come special adviser. Ce l’ho messa tutta. L’ho pagata cara, un pezzo di vita».

Il Panflu era vecchio di 14 anni e lei avrebbe dovuto aggiornarlo. Perché non farlo? 

«Prima di andarmene nel 2017 avevo lasciato consegne precise e un piano pronto per essere attivato in caso di emergenza ( leggi qui il piano aggiornato nel 2020). È un mistero che le negligenze mi siano state tutte attribuite. Nel 2016 il piano pandemico era stato riletto e giudicato ancora adeguato da parte di una serie di colleghi del ministero».

La Procura non la pensa così... 

«Chi sostiene che l’Italia ha affrontato il Covid senza un piano mente. All’inizio del 2020 un piano c’era, era pienamente valido e conteneva azioni di preparazione e contenimento sempre efficaci, universali. Tra l’altro prescriveva la moratoria delle manifestazioni di massa. Perché non venne applicato e si lasciò disputare il 19 febbraio 2020, a 3 settimane dalla dichiarazione dello stato d’emergenza, la partita Atalanta-Valencia con 36mila tifosi? Sarebbe inoltre stato possibile acquistare mascherine anziché donarle alla Cina, mettere in sicurezza le Rsa e gli ospedali».

Chi voleva eliminarla? 

«Una convergenza di interessi. Da una parte quelli che in Italia volevano coprire chi avrebbe dovuto aggiornare il piano pandemico nel 2018-2019. Dall’altra chi aveva interesse a togliermi di mezzo per avere rapporti diretti con la sede centrale Oms di Ginevra anziché interloquire con me, e mi riferisco al direttore della regione europea Hans Kluge»

Come se non bastasse il Chievo, la sua squadra del cuore, è scomparsa dai campionati dopo la decisione della Fgci di sospenderla per presunte irregolarità fiscali. 

«Già, ho perso anche il Chievo».

Non è l'arena, la rivelazione di Zambon: "L'Oms non dirà mai la verità sull'origine del virus". Libero Quotidiano il 18 aprile 2021. Da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, torna il dottor Francesco Zambon. Dopo aver dedicato la scorsa puntata al caso Ranieri Guerra, il conduttore dedica anche la trasmissione di oggi 18 aprile alla questione del piano pandemico. L'ex funzionario dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e autore del dossier pubblicato per 24 ore e poi fatto ritirare dall'Organizzazione mondiale della Sanità avverte: "L'Oms non dirà mai la verità sull'origine del virus, non ha potere investigativo, non ha potere sanzionatorio. E' impossibile che lo faccia". E ancora, spiega Zambon: "E' necessario avere più informazioni per valutare varie opzioni, che sono quattro: la prima è il passaggio dal pipistrello all'uomo, la seconda prende in considerazione un ospite intermedio, la terza l'arrivo in Cina attraverso cibi congelati e l'ultima, quella meno plausibile secondo la Cina, l'incidente in laboratorio. Questa è una ipotesi che rimane in campo". L'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha cercato di spostare Zambon da Venezia in Bulgaria. "Posso solo dire che è vero e che" all'Oms "ho fatto causa", aveva detto qualche giorno fa il ricercatore all'Adnkronos Salute, confermando quanto riportato dai media tedeschi. Zambon, interpellato sulle ultime dichiarazioni dell'Oms riguardo al report da lui coordinato, aveva anche raccontato di essersi dimesso dall'ufficio regionale Oms perché "non era più possibile stare dentro un ambiente in cui ero ormai isolato e sentivo tanta ostilità".

Francesco Zambon, dopo le accuse all'Oms è senza casa e lavoro: "Sono tornato da mia mamma". Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. Dopo le accuse all'Oms, Francesco Zambon ha cambiato vita. Il capo della sede regione dell'Organizzazione mondiale della sanità, che per primo ha svelato lo scandalo del report italiano sulla pandemia sparito, si è reinventato scrittore. "Avevo comprato casa a Venezia e per farlo ho dovuto contrarre un mutuo. Non sono miliardario. Quando mi sono licenziato dall’Oms ho dovuto rinunciare anche al Tfr, il trattamento di fine rapporto. È una delle clausole del contratto, visto che non è inquadrato nella legislazione italiana. E siccome con le travi a vista cinquecentesche non si mangia, ho preferito tornare a vivere da mia madre e dare l’appartamento in gestione a un’agenzia immobiliare, perché la affitti ai turisti. Confidando nella ripresa. Zambon sembra aver definitivamente chiuso con l'Oms. Il suo prossimo obiettivo sarà quello di entrare nel campo del management sanitario, "possibilmente in modo creativo", tiene però a precisare in un'intervista al Messaggero. Il ricercatore sembra già avere le idee chiare: "Vorrei accostare la medicina alla musica, di cui sono appassionato: mi sono diplomato giovanissimo in pianoforte al conservatorio. Ma ho dalla mia parte anche un master in business administration conseguito in America". Dopo aver denunciato il ritiro del report italiano sul Covid a causa di "pressioni cinesi", Zambon è tornato ad accusare l'Organizzazione: "L’indagine per far luce sull’origine del Covid 19 in Cina è stata affidata a una commissione dell’Oms. All’interno della commissione c’è un membro “indipendente” come Peter Daszak, la cui associazione, EcoHealth Alliance finanzia e fa studi con il laboratorio di Wuhan. Daszak ha anche collaborato e condotto per anni degli studi con Shi Zhengli, il direttore del centro. E nessuno ha avuto niente da obiettare. Si tratta di un conflitto di interessi enorme". E infatti le sue denunce gli sono costate care. Ad oggi il ricercatore ha però un gruppo Facebook numerosissimo di sostenitori.

L'Oms: fermate la vendita di animali selvatici vivi nei mercati. Le iene News il 15 aprile 2021. Il comunicato chiede la sospensione globale per prevenire i rischi di eventuali altre pandemie, assieme ad altre misure. In uno di questi mercati, secondo alcune accreditate teorie, sarebbe avvenuta la trasmissione all’uomo del Covid. Di tutto questo e dei traffici illegali mondiali ci ha parlato nell’aprile 2020 Gaston Zama. L’Organizzazione mondiale della sanità chiede al mondo lo stop alla vendita di animali selvatici vivi nei mercati. La sospensione è chiesta come misura di emergenza perché questo potrebbe favorire la diffusione di malattie infettive come si ipotizza sia potuto succedere anche in Cina con il Covid. Proprio di questo argomento vi abbiamo parlato nell’aprile 2020 con il servizio di Gaston Zama che potete vedere qui sopra. "Gli animali, in particolare quelli selvatici, sono la causa di più del 70% di tutte le nuove malattie infettive trasmesse agli esseri umani, molte delle quali determinate da nuovi virus", recita il comunicato congiunto di Oms, Organizzazione mondiale per la salute animale e Programma ambientale delle Nazioni Unite. "I mammiferi selvatici, in particolare, rappresentano un rischio reale per la comparsa di nuove malattie". Proprio la trasmissione del coronavirus all'uomo in questo modo è una delle teorie principali del team incaricato dall’Oms di indagare sulle origini del Sars-CoV2. Vengono chiesti, oltre alla sospensione, anche migliori condizioni igieniche nei mercati tradizionali, nuove norme per controllare allevamento e vendita di animali selvatici destinati al consumo umano, di formare ispettori veterinari per farle applicare e sistemi di sorveglianza capaci di identificare rapidamente nuovi eventuali agenti patogeni, assieme a informazione e sensibilizzazione per commercianti e clienti. L’obiettivo è quello di bloccare nuovi eventuali pandemie. Il nostro Gaston Zama già l’anno scorso, nell’aprile 2020 aveva parlato nel servizio che vedete qui sopra con David Quammen, scrittore e divulgatore scientifico, autore del libro “Spillover” in cui sembrava profetizzare quanto potrebbe essere accaduto e addirittura l’eventuale origine: un wet market cinese, un mercato cioè in cui si vendono animali selvatici vivi, sottolineando le colpe dell’uomo. “Il Covid-19 rispecchia ciò che le persone stanno facendo al pianeta, ora più che mai”, sostiene. “Non sono un profeta, ho solo scritto quello che mi dissero alcuni saggi scienziati”. Dietro la pandemia e il rischio di altre future potrebbe esserci in particolare il folle sfruttamento degli animali da parte di noi esseri umani anche in quei mercati che l’Oms vuole fermare, che ovviamente non sono presenti solo in Cina. Ne parliamo anche con Andrea Crosta, cofondatore di Earth League International, un gruppo di lotta contro i crimini ambientale. Con “migliaia di animali chiusi in piccole gabbie, vivi o mezzi morti” ci sarebbero infatti “condizioni ideali” per permettere a un virus di passare da una specie all’altra. L’ipotesi per il coronavirus è che sia passato dal pipistrello al pangolino, venduto illegalmente per il consumo umano soprattutto in alcuni mercati cinesi, e poi da questo all’uomo attraverso i contatti in questi mercati. Isolarci da questa catena di possibile contagio sarebbe fondamentale per prevenire le pandemie: è la direzione a cui punta la richiesta dell’Oms. Di tutto questo, assieme alle enormi dimensioni del traffico illegale di animali nel mondo, ci parla nel servizio qui sopra Gaston Zama.

I "genitori" del Covid-19? Due virus isolati dai militari cinesi. Felice Manti il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. I "genitori" del Covid 19, o quantomeno i suoi parenti più stretti, sono due Coronavirus Sars-like dei pipistrelli conservati nei laboratori militari cinesi. I «genitori» del Covid 19, o quantomeno i suoi parenti più stretti, sono due Coronavirus Sars-like dei pipistrelli conservati nei laboratori militari cinesi, nome in codice ZC45 e ZXC21. Lo scrive Fabrizio Gatti, inviato dell'Espresso e autore di L'infinito errore, edito da La nave di Teseo, in uscita oggi. Un libro choc che ricostruisce con carte e documenti gli ultimi 14 mesi tra Italia e Cina e lancia una luce inquietante sulla pandemia. Il Coronavirus dunque è nato in laboratorio, combinando virus di pipistrelli? Non ci sono le prove definitive, ma quello che documenta Gatti, carte alla mano, è incredibile. Mentre alcuni medici dell'Accademia delle scienze lavorano all'ormai famoso Istituto di virologia di Wuhan, tra il 2014 e il 2018 c'è un esperimento parallelo sui coronavirus da parte di una equipe di scienziati militari. Che porta a isolare due virus molto simili al Covid-19. Scrive infatti Gatti: «Quando il 5 gennaio 2020 Zhang Yongzhen ed Edward Holmes depositano per la prima volta al mondo la sequenza genetica contenuta nel filamento di Rna del virus che sta facendo ammalare gli abitanti di Wuhan, tracciano l'albero filogenetico e scoprono che WHCV, come chiamano il nuovo coronavirus umano, ha due parenti molto stretti tra i coronavirus Sars-like. Sono i virus ZC45 e ZXC21». Qualche giorno dopo, il 27 gennaio, un altro scienziato, Shi Zhengli «sostiene di aver scoperto un nuovo coronavirus dei pipistrelli evolutivamente più vicino al virus umano che si sta diffondendo a Wuhan». Viene chiamato RaTG13. «Lo stesso giorno la professoressa dell'Istituto di virologia di Wuhan deposita il genoma del coronavirus umano isolato da cinque pazienti. Oltre a RaTG13, i due parenti più stretti sono sempre ZC45 e ZXC21». Per capire come sia possibile bisogna andare indietro nel tempo, tra il 2015 e il 2017. «Per due anni gli scienziati della Terza Università medica militare di Chongqing, megalopoli con oltre trenta milioni di abitanti, e del Comando dell'Istituto di ricerca in medicina di Nanchino frequentano le aree infestate dai pipistrelli nel distretto di Dinghai e nella contea di Daishan, intorno alla città-arcipelago di Zhoushan. Vi lavorano per mesi, ai confini settentrionali della provincia di Zhejiang, da cui proviene gran parte della comunità cinese in Europa e in Italia. Una regione costiera non lontana da Shanghai». Tra loro c'è Wang Changjun e l'americano Bachar Hassan della Stony Brook University, vicino a New York. Campionano 334 pipistrelli della specie Rhinolophus sinicus alla ricerca di coronavirus. Il risultato è molto simile a quello estratto da pipistrelli «a Hong Kong, Guangdong e Hainan in Cina, così come con quelli trovati in Spagna». Una forbice tra il 94 e il 100 per cento. «I ricercatori spiegano quindi di essere riusciti a riconoscere e decifrare il filamento di Rna completo di due nuovi coronavirus Sars-like mai scoperti prima - scrive Gatti - Li chiamano SL-CoV ZXC21, prelevato da un pipistrello catturato nel luglio 2015, e SL-CoV ZC45, ricavato da un esemplare preso nelle reti nel febbraio 2017. I due nuovi coronavirus dei pipistrelli condividono tra loro un'identità del 97 per cento. Il gruppo guidato da Wang Changjun, che lavora sia per la Terza Università medica militare sia per il Comando dell'Istituto di ricerca in medicina di Nanchino, e da Youjun Feng, giovane professore della Scuola di medicina dell'Università di Hangzhou nello Zhejiang, si spinge oltre. Prima prova a far replicare e a isolare il virus da una coltivazione di cellule renali di una scimmia ma fallisce. Allora, al chiuso di un laboratorio di livello Bsl-3, gli autori di questo studio militare infettano alcune comunità di cuccioli di ratti nati da tre giorni». Quando Wang Changjun e gli altri scienziati del gruppo devono concludere gli studi scrivono di aver scoperto che «i coronavirus Sars-like derivati dai pipistrelli possono replicarsi con successo nei ratti da latte» e hanno il potenziale «per contagiare specie diverse». Insomma, commenta Gatti, la scoperta degli scienziati militari, «forse meno abili a maneggiare coronavirus rispetto a quelli di Wuhan», è importantissima: i virus SL-CoV ZXC21 e SL-CoV ZC45, di cui i pipistrelli sono portatori sani, possono immediatamente diffondere la loro infezione ai ratti senza necessità di adattamenti o mutazioni. È un nuovo salto di specie provocato non dalla casualità dell'evoluzione naturale ma dalla competizione fra scienziati». C'è dunque un esperimento militare sfuggito di mano dietro la pandemia che ha cambiato le nostre vite?

Ilaria Capua sulle origini del Covid e Wuhan: "In alcuni laboratori esiste la tecnologia per alterare virus naturali". Libero Quotidiano il 06 aprile 2021. L'Organizzazione mondiale della sanità è tornata a indagare sul laboratorio di Wuhan dal quale tutto ha avuto inizio. Un caso? Non per Ilaria Capua che da un anno si batte per cercare di comprendere, come i suoi colleghi, un virus quasi sconosciuto: il Covid-19. E così sulle colonne del Corriere della Sera la microbiologa negli Stati Uniti da tempo, ha voluto fornire il suo pensiero. "La scienza non può più nascondersi dietro un filo d'erba. Bisogna farsi coraggio e affrontare l'elefante che troneggia nei nostri dubbi sospesi a mezz'aria. Mi riferisco alla verità implicita racchiusa nella missione dell'OMS a Wuhan per investigare sull'origine del Sars-Cov-2. L'essenza è questa: se l'OMS, oltre un anno dopo il fatto, decide di spedire un gruppo di esperti in Cina per cercare di stabilire che cosa è successo, un motivo c'è". Dall'esordio la sua tesi sembra abbastanza chiara ma poi prosegue: "E il motivo che serpeggia nel fondo è che è accettato e risaputo che in alcuni laboratori del mondo esista la tecnologia per alterare virus naturali più o meno innocui e trasformarli in stipiti virali potenzialmente pandemici". In sostanza il coronavirus potrebbe benissimo essere nato in laboratorio. Motivo, questo, che spiegherebbe perché è stata inviata "una squadra di esperti a verificare cosa è successo in quel laboratorio". La Capua si sofferma anche sullo scopo dietro tutto ciò: "Vorrei accompagnarvi nei presupposti delle motivazioni dietro al metodo e non nel merito. Questi esperimenti detti Gof (Gain of fuction, acquisizione di funzioni) mirano a far acquisire a virus naturali o di laboratorio alcune caratteristiche come la virulenza o la trasmissibilità per poi studiarne i meccanismi in sistemi di ricerca artificiali". Ma non è tutto, perché il dilemma che si pongono gli esperti è sulla pubblicazione di queste "ricette". Una volta pubblicate, chiunque può riprodurre il virus. A questo punto la domanda che si pone la Capua non è che una: "In futuro vogliamo investire sul potenziamento dei virus o dei vaccini?".

Il rapporto dell’Oms esclude la fuga del virus dal laboratorio di Wuhan. Debora Faravelli su Notizie.it il 29/03/2021. La bozza del rapporto compilato dall'Oms esclude che il virus si sia diffuso a partire dal laboratorio di Wuhan. L’Oms tenderebbe ad escludere la fuga del virus dal laboratorio di Wuhan ritenendo più realistica l’ipotesi della trasmissione dell’infezione dagli animali all’uomo: è quanto si legge nella bozza del report compilato dagli scienziati dopo il viaggio in Cina intrapreso per indagare sulle origini della pandemia. La fuga dal laboratorio viene infatti definita “estremamente improbabile“. Non si tratta ancora di un’affermazione definitiva ma dell’ipotesi più plausibile che rafforza l’idea iniziale. Gli esperti continueranno a svolgere indagini per trovare risposta alle molte domande sul fenomeno della zoonosi, il passaggio del virus dall’animale all’uomo. Ma per il momento escludono che il Covid sia uscito dal laboratorio della prima città focolaio. Il rapporto afferma inoltre che mancherebbe un collegamento con il pipistrello, noto per essere un trasportatore di coronavirus e subito ritenuto come trasmettitore dell’infezione all’uomo. La distanza evolutiva tra l’animale e il Covid è infatti stimata in diversi decenni. In più gli esperti hanno rilevato infezioni simili nei pangolini e visoni e gatti sono sensibili al virus e quindi possibili portatori. Maggiori dettagli si avranno una volta che gli scienziati condivideranno il report stilato. Peter Ben Embarek, l’esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha guidato la missione a Wuhan, ha affermato che il rapporto è stato finalizzato e che è stato verificato e tradotto. “Mi aspetto che nei prossimi giorni l’intero processo sarà completato e saremo in grado di renderlo pubblico“, aveva aggiunto.

Debora Faravelli. Nata in provincia di Como, classe 1997, frequenta la facoltà di Lettere presso l'Università degli studi di Milano. Collabora con Notizie.it

DAGOTRADUZIONE DA npr.com il 3 aprile 2021. Prima del Covid-19, pochi scienziati si sarebbero aspettati che la Città di Wuhan sarebbe diventato il probabile epicentro di una pandemia globale: il clima e la fauna della regione non sembravano possederne i requisiti necessari. Invece, la città di 11 milioni abitanti a cavallo del fiume Yangtze, sito di uno dei più avanzati laboratori per la ricerca biologica e l’Istituto di Virologia di Wuhan - uno delle istituzioni più segrete gestite dallo stato cinese - è nota per condurre esperimenti sugli stessi tipi di virus che hanno ucciso quasi 3 milioni di persone in tutto il mondo dalla fine del 2019 a questa parte. “Penso che molte persone abbiano immediatamente notato il legame tra la presenza di questi laboratori e il fatto che Wuhan sia stato l’epicentro della pandemia.” Ha affermato David Feith, consigliere per l’Asia nel Dipartimento di Stato dell’amministrazione Trump all’inizio della pandemia. “La vera domanda è: cosa ci dicono le prove?” ha detto Feith, che attualmente lavora presso il Center for a New American Security, un think tank di Washington DC. La nostra risposta è: Al momento, non molto. L’ex presidente Donald Trump e alcuni membri della sua amministrazione si sono attaccati alla teoria della fuga dal laboratorio, mentre gli scienziati si sono concentrati sul fermare la pandemia piuttosto di capirne l’origine e la Cina cercava di portare l’investigazione internazionale a una fase di stallo. Adesso, la teoria della fuga dal laboratorio sembra aver preso di nuovo vita: lo scorso martedì l’OMS ha pubblicato un rapporto in collaborazione con Pechino riguardo le origini della pandemia, impostata intorno a un’investigazione durata quattro settimane e hanno concluso che, insieme ad altre ipotesi, la teoria della fuoriuscita dal laboratorio fosse “estremamente improbabile.” Nonostante ciò, Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell OMS, ha dichiarato di ritenere il rapporto poco esaustivo e alquanto incompleto: “Sebbene il team abbia concluso che una fuga dal laboratorio sia una delle ipotesi meno probabili, ci sarebbe bisogno di ulteriori investigazioni in presenza di esperti specializzati, io sono pronto a dispiegarli.” Ha comunicato in una dichiarazione scritta all’OMS. Jamie Metzl, membro dell’Atlantic Council e uno dei proponenti più vocali di questa teoria, ha dichiarato: “Non sto dicendo di essere sicuro che la pandemia COVID-19 sia stata causata da una fuoriuscita accidentale dal laboratorio, ma che sarebbe irresponsabile e forse politicamente motivato il fatto che secondo alcuni non valga neanche la pena cercare di eseguire un’investigazione completa su questa possibilità.” Una scheda informativa pubblicata dal Dipartimento di Stato a metà gennaio racconta la presenza di ricercatori malati all’interno dell’Istituto di Virologia di Wuhan nell’autunno del 2019, oltre che indicare sia le ricerche su varianti pericolose di coronavirus fatte dal laboratorio che la presenza di attività militari top-secret. La Cina ha respinto le accuse, mentre i critici del rapporto dell’OMS come Metzl, sostengono che la squadra che ha visitato il laboratorio di Wuhan abbia semplicemente ascoltato le testimonianze dei colleghi cinesi piuttosto che condurre delle investigazioni indipendenti. “Se nel mezzo della peggiore pandemia dell’ultimo secolo la Cina vuole dire al resto del mondo “andate al diavolo, non vale neanche la pena investigare” è un problema loro, ma non dovremmo dargli retta così facilmente.” ha detto Metzl. Sebbene Metzl e tanti altri siano convinti dell’esistenza di ulteriori prove a conferma dell’ipotesi che il COVID-19 sia originato da un laboratorio piuttosto che naturalmente, molti scienziati affermano il contrario. In base alle prove disponibili, loro sostengono, così come il team dell’OMS, che sia molto più probabile che il coronavirus sia emerso naturalmente. Alina Chan, una ricercatrice di genetica presso il Broad Institute di Boston, afferma che ci troviamo a un crocevia storico: “Questa volta è la Cina ad essere sotto i riflettori… ma forse la prossima volta non sarà la Cina. Dunque, se decidiamo che non si può condurre un’investigazione, che è tutto tempo perso, allora altri paesi potrebbero sentire che non ci sono meccanismi di responsabilità in atto per prevenire situazioni simili in futuro.” Aggiungendo che questa situazione potrebbe portare a condizioni lavorative nei laboratori meno stringenti e potenzialmente più pericolose.

Giochi politici. Nel frattempo, non molto sotto la superficie del dibattito, vi sono le tensioni geopolitiche tra la Cina e gli Stati Uniti. I rapporti tra i due paesi si sono deteriorati nell’ultimo anno sotto il governo Trump e non ci sono segnali di miglioramento con il nuovo governo Biden. Trump ha cercato di incolpare la Cina per la pandemia, spingendo per la teoria della fuga dal laboratorio, ma molti critici lo considerano un tentativo di sviare le colpe dell’amministrazione nella gestione della pandemia. Ma secondo Scott Kennedy del Center for Strategic and International Studies, gli stalli nelle investigazioni, le contro accuse e la segretezza da parte della Cina non aiutano la loro situazione. “L’occidente si vanta dell’apertura e trasparenza rispetto a regimi autoritari come la Cina, dunque nella competizione per il soft-power questo è un punto chiave da continuare a spingere.” Ha affermato Kennedy. Martedì scorso, l’amministrazione Biden si è unita ad altri 13 paesi per criticare il rapporto dell’OMS e per esortare una maggiore apertura da parte del governo cinese. Nella dichiarazione congiunta non vi è menzione della teoria del laboratorio, sebbene il governo Biden non abbia completamente escluso quest’ipotesi. “Penso che l’amministrazione abbia fatto intendere molto chiaramente che, data la mancanza di trasparenza da parte della Cina, non si senta pienamente convinta di scartare la teoria della fuga dal laboratorio.” Ha rivelato Elisabeth Economy dell’Istituto Hoover presso l’Università di Stanford. “Il fatto che il capo dell’OMS Tedros, che inizialmente aveva lodato la trasparenza della Cina, abbia confermato la necessità di ulteriori ricerche prima di poter escludere la possibilità che il virus fosse fuggito dal laboratorio, segnala che il continuo scetticismo sia meritato.” Ha continuato la Economy.

L’impatto sulle relazioni Cina-Stati Uniti. Tuttavia, molti temono che un’intensificazione dell’ipotesi della fuga dal laboratorio possa ulteriormente intralciare le relazioni USA-Cina, che sono di già a uno dei punti più bassi degli ultimi decenni. Deborah Seligsohn, assistente professore presso la Villanova University in Pennsylvania, era responsabile delle questioni scientifiche e sanitarie presso l'ambasciata degli Stati Uniti a Pechino durante l'epidemia di SARS nei primi anni 2000. Ha detto che durante la pandemia c'è stata molta cooperazione tra la Cina e gli Stati Uniti nel campo scientifico e della sanità pubblica e un l’aumento di pressione su Pechino non sarebbe positivo: "Penso che questo porti ad accuse e alla fine qualcuno decide di diffonderle, cercando una sorta di accordo per salvare faccia, ma non credo che in realtà porti vantaggi scientifici." Nel bene e nel male, spingere su queste ipotesi potrebbe rendere ancora più difficile l’ottenere delle risposte sulle origini della pandemia, cosa difficile da fare in qualsiasi circostanza: "Penso che un’analisi genetica aiuti a descrivere il virus. Penso che sarebbe molto difficile determinare dove si sia disseminato nella popolazione umana, come si è diffuso e se provenga da un laboratorio o meno.", ha detto Barry Bloom, immunologo ed esperto di malattie infettive presso la Harvard T.H. Chan School of Public Health. "E non importa quanto siano buone le spiegazioni razionali di un altro comitato dell'OMS, c'è un sottogruppo di persone in entrambi i paesi che non crederà alle risposte più plausibili".

Il direttore dell’Oms rimette in discussione l’origine del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 30 marzo 2021. Per capire come si è originato il Sars-CoV-2 servono ulteriori studi. Tutte le ipotesi, al momento, restano dunque sul tavolo, compresa quella relativa alla possibile fuga del virus dal famigerato laboratorio di Wuhan. Parola di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Poco importa se l’Oms ha appena diffuso un documento nel quale definisce “estremamente improbabile” un’eventuale fuoriuscita dell’agente patogeno dal Wuhan Institute of Virology. Ghebreyesus è entrato a gamba tesa sui risultati messi neri su bianco dal team di esperti inviati in Cina dall’agenzia con sede a Ginevra, chiedendo di approfondire la questione.

Le parole di Ghebreyesus. “Leggeremo il report e ne discuteremo il contenuto con tutti i Paesi del mondo. Tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo e serviranno studi completi e approfonditi, oltre a quelli fatti sinora”, ha spiegato il direttore dell’Oms. Ricordiamo che il dossier, formato da 124 pagine, enunciava quattro teorie sull’origine del virus. La più probabile è che il Sars-CoV-2 possa esser stato trasmesso dai pipistrelli all’uomo attraverso un ospite intermedio, forse un pangolino, un tasso o un altro animaletto solito entrare in contatto con gli esseri umani. Possibile anche la pista che porta direttamente dal pipistrello all’uomo, anche se l’opzione del terzo incomodo rende la trasmissione più plausibile. La diffusione del virus attraverso i prodotti alimentari della catena del freddo è possibile ma non probabile, mentre la fuga, diretta o indiretta, del Covid dal laboratorio di Wuhan è stata considerata “estremamente impossibile”. Sembrava, insomma, che la questione Covid fosse ormai stata archiviata, e che i riflettori fossero puntati sui pipistrelli del sud-est asiatico. Il colpevole, però, potrebbe non essere il suddetto animaletto notturno. O meglio: sono necessari altri studi, altri dati, altre indagini per poterne avere la certezza. Le dichiarazioni di Ghebreyesus affievoliscono, in un certo senso, il dossier che aveva spinto l’Oms e la Cina a chiarire la vicenda. Non solo: in questo modo il direttore generale dell’Oms, in passato accusato di un’eccessiva vicinanza al governo cinese, ha sostanzialmente chiesto di approfondire, punto per punto, ogni teoria. Anche la pista che porta dritta al laboratorio di Wuhan.

Servono nuove prove? Detta in altre parole, poiché ci sono pochissime prove, è impossibile avere certezze. I risultati del paper erano per lo più previsti, ma hanno lasciato diverse domande senza risposta. Ad esempio: quando è avvenuta la zoonosi? A quando risalgono i primi contagi? Nel caso in cui il colpevole fosse un pipistrello, di quale specie si tratta? Ecco perché Ghebreyesus ha rimesso tutto in discussione proponendo approfondimenti più dettagliati. In ogni caso, lo stesso team dell’Oms inviato a Wuhan ha scoperto che “data la letteratura sul ruolo degli animali da allevamento come ospiti intermedi per le malattie emergenti, è necessario effettuare ulteriori indagini tra cui una maggiore portata geografica”. La parola d’ordine, quindi, è una: approfondire. Nel frattempo, in vista del futuro, Ghebreyesus si è augurato, in videoconferenza stampa collegato da Ginevra con Bruxelles, che “tutti i Paesi” si impegnino per avere un trattato internazionale in tema di pandemie. La pandemia di Covid-19 (dichiarata dall’Oms l’11 marzo 2020), ha continuato Ghebreyesus, “ha messo allo scoperto le differenze nei sistemi di risposta. Il tempo di agire è ora: il mondo non può aspettarsi che la pandemia sia finita, per iniziare a pianificare in vista della prossima. Non dobbiamo consentire che il ricordo di questa crisi svanisca e tornare al business as usual”. Forse, anziché guardare al futuro, l’Oms dovrebbe prima soffermarsi sul presente. E dovrebbe farlo pure in fretta.

Guido Santevecchi per il "Corriere della Sera" l'1 aprile 2021. Un anno e mezzo dopo il primo allarme sulla «polmonite sconosciuta in Cina», le accuse, le teorie complottiste, c'è un rapporto di 120 pagine sull'origine del Sars-CoV-2, il coronavirus che ha diffuso la pandemia. Lo hanno compilato 34 scienziati: 17 dell'Organizzazione mondiale della sanità e 17 cinesi (che li hanno assistiti, guidati e seguiti in ogni spostamento a Wuhan). La pubblicazione ha riacceso lo scontro politico tra l'Occidente e Cina, con un commento denso di sospetti scritto da Washington, i dubbi inattesi del direttore generale dell'Oms e una risposta sdegnata da Pechino. Il documento dell'Oms presentato a Ginevra ha affrontato quattro ipotesi:

1) trasmissione diretta del coronavirus da una specie animale all'uomo;

2) salto attraverso una specie intermedia;

3) diffusione anche lungo la catena alimentare dei surgelati;

4) errore di laboratorio durante lo studio di un virus.

Gli esperti internazionali a febbraio, alla fine della missione a Wuhan, avevano già anticipato di ritenere «estremamente improbabile» che il Sars-CoV-2 sia sfuggito per un incidente dall'Istituto di virologia di Wuhan, il famoso (e per i complottisti famigerato), laboratorio dove si studiavano anche i pipistrelli. Come hanno ricavato questa «quasi certezza» i ricercatori dell'Oms? Discutendo con i colleghi cinesi e visitando la struttura a metà gennaio, quando finalmente sono stati ammessi a Wuhan per un'indagine durata un mese, con due settimane trascorse in una stanza d'albergo per la quarantena. In quel laboratorio e negli altri visitati a Wuhan, compreso uno che era stato spostato il 2 dicembre 2019 vicino al mercato Huanan, non sono state comunque rilevate «falle nella sicurezza». Ma Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell'Oms che nel gennaio del 2020 era andato a Pechino a congratularsi con Xi Jinping per la reazione efficace della Cina ed era stato bollato da Donald Trump come «marionetta del Partito comunista» ha improvvisamente cambiato linea: ora dice che bisogna tornare ad indagare, «tutte le ipotesi sono ancora sul tavolo», servono «dati più robusti» anche sul laboratorio. «Il quadro è parziale, le autorità cinesi non sono state trasparenti, non hanno fornito dati cruciali», ha aggiunto la portavoce della Casa Bianca senza fare riferimento al laboratorio di Wuhan. E subito l'Amministrazione Biden ha coalizzato un gruppo di 14 Paesi nella denuncia di ritardi e omissioni e invocato una «Fase 2» di inchiesta in Cina. Tra i firmatari della dichiarazione del Dipartimento di Stato di Washington, i governi di Australia, Canada, Giappone, Gran Bretagna e Sud Corea. L'Unione Europea ha espresso preoccupazione, ma in forma più sfumata: «La missione è stata un primo passo utile, ma ha avuto un limitato accesso ai primi dati e campioni raccolti dai cinesi» a Wuhan all'inizio dell'epidemia. «Se l'Oms crede di dover indagare ancora e non ha trovato niente sulle origini del coronavirus in Cina, è chiaro che deve spedire i suoi ricercatori in altri Paesi del mondo, magari anche nel laboratorio militare americano di Fort Detrick», ribatte il ministero degli Esteri di Pechino. Gli scienziati Oms non sono nemmeno certi che il coronavirus sia partito dal mercato Huanan di Wuhan, dove si vendeva principalmente pesce, ma c'erano anche banchi di carne selvatica e gabbie con animali vivi. Il loro studio ammette la carenza di «raw data», tutti i dati grezzi sulle cartelle cliniche dei primi pazienti: è stato fornito solo un riassunto statistico secondo il quale dei 174 primi casi, registrati dai cinesi a partire dall'8 dicembre 2019, solo il 28% aveva un collegamento con il mercato Huanan; il 23% era passato attraverso altri mercati di Wuhan e il 45% non aveva «una storia di esposizione» ad alcun mercato. Per mesi le autorità cinesi hanno passato alla loro stampa notizie sull'individuazione di «tracce di coronavirus» negli scatoloni dei surgelati alimentari importati dall'estero. I ricercatori dell'Oms non hanno scartato del tutto l'ipotesi della contaminazione degli imballaggi nella catena del freddo, ma non hanno trovato alcun caso di contagio con il personale che li ha maneggiati. Perché neanche la propaganda di Pechino li ha trovati. La ricerca valuta come «molto probabile» il passaggio del coronavirus da un animale «serbatoio» a uno «ospite» e quindi il salto al genere umano. I pipistrelli restano i principali indiziati, seguiti dai pangolini. Ma ammesso che il primo «colpevole» della lunghissima evoluzione e adattamento del coronavirus sia stato il pipistrello, bisogna continuare a studiare per identificare la specie intermedia che ha permesso al Sars-CoV-2 di insediarsi nell'organismo umano. Si è molto parlato dei pipistrelli che infestano le grotte dello Yunnan, lontane duemila chilometri da Wuhan, dove aveva fatto lunghe ricerche la professoressa Shi Zhengli dell'Istituto di virologia di Wuhan, soprannominata Bat Woman. Ma gli esperti dell'Oms spiegano che i pipistrelli portatori del coronavirus potrebbero essere annidati in altri Paesi e «il percorso è stato molto complesso». Inutile leggere le 120 pagine di relazione se si vuole sapere perché l'epidemia abbia investito per prima Wuhan. l'Oms osserva solo che «un focolaio esplosivo cominciò a Wuhan nel dicembre 2019. Solo i casi più gravi furono esaminati e riconosciuti dal sistema sanitario cinese». Dopo 16 mesi, 128 milioni di malati e 2,8 milioni di morti, il mondo aspetta ancora una spiegazione.

Morti, contagi e diffusione: quell’indizio contenuto nel report Oms. Federico Giuliani su Inside Over l'1 aprile 2021. Quattro ipotesi sul tavolo, la mappa del mercato ittico di Wuhan, primo epicentro noto della pandemia di Covid-19, una lista di animali sospettati di essere i diffusori del virus, tabelle, grafici e schemi di ogni tipo. C’è questo e molto altro nelle 120 pagine del rapporto ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sull’origine del Sars-CoV-2. Il team di esperti inviato in Cina dall’agenzia con sede a Ginevra ha operato nella megalopoli dello Hubei per tre settimane, cercando di fare chiarezza sull’emergenza sanitaria. Poi, dopo aver riordinato le prove raccolte, hanno messo tutto nero su bianco nel documento intitolato WHO-convened Global Study of Origins of SARS-CoV-2: China Part. Joint WHO-China Study. Una volta divenuto oggetto di dominio pubblico, i media internazionali si sono concentrati sulle conclusioni del paper, sperando di ottenere risposte precise. A detta degli autori, è da escludere la possibile fuga del virus dal famigerato laboratorio di Wuhan (ipotesi “estremamente improbabile”). La diffusione del patogeno mediante i prodotti alimentari della catena del freddo è possibile ma non probabile, mentre tutti i riflettori sono puntati sulla trasmissione del Sars-CoV-2 dai pipistrelli all’uomo, in maniera diretta oppure mediante l’azione di un terzo animale (ospite intermedio).

L’indizio temporale. Uno degli aspetti più controversi riguarda l’origine temporale della pandemia. A quando risalgono i primi contagi? A pagina 32 del report ci sono due grafici che provano a fornire delle risposte basandosi sulla mortalità. Nel primo, che chiameremo grafico A, troviamo il confronto delle tendenze del tasso di mortalità per tutte le cause di morte, relativo al periodo compreso tra il 2019 e il 2020, rispetto al tasso medio inerente al 2016-2018. Il secondo, grafico B, riporta invece il confronto delle tendenze della mortalità per tutte le cause, escludendo i tassi di mortalità confermati e sospetti per Covid-19 nel periodo 2019-2020 rispetto al tasso medio del 2016-2018. In entrambi i casi, le analisi riguardano la città di Wuhan. Scorrendo le pagine, ci imbattiamo in altri grafici, sempre più precisi. Che cosa emerge? Che non vi sarebbero (il condizionale è d’obbligo) tracce di una massiccia circolazione del virus prima del dicembre 2019. Dunque, l’epidemia, presto divenuta pandemia, sarebbe esplosa a dicembre. Quasi sicuramente, in precedenza, vi erano già alcuni casi ma isolati o non rilevati.

La versione dell’Oms. Il paper Oms è piuttosto esplicito, nonostante le mille indiscrezioni – mai confermate sul campo – uscite nei mesi precedenti. “Il tasso di mortalità per polmonite a Wuhan dalla settimana 40 alla settimana 52 del 2019 (cioè dall’ottobre al dicembre 2019 ndr) non era diversa dalla media rilevate degli stessi periodi del 2016-2018”, si legge nel documento. Dalla terza settimana del 2020 (15-21 gennaio 2020), c’è stato un cambiamento sostanziale. È in quel momento che “il tasso di mortalità della polmonite è stato superiore al valore medio di quello rilevato nello stesso periodo nel 2016-2018”. Da lì in poi, quello stesso valore è schizzato alle stelle. Quindi, stando alla ricostruzione effettuata dall’Oms, tutto sarebbe esploso nel dicembre 2019. Bisogna ricordare che i primissimi casi di Covid sono stati segnalati ben prima di dicembre (o a dicembre), e non tutti in Cina. Ad esempio, due residenti della contea di Snohomish, nello Stato di Washingon, si sarebbero ammalati lo scorso dicembre, proprio negli stessi giorni in cui (nella versione ufficiale) il Covid-19 iniziava a muovere i primi passi oltre la Muraglia. Un’altra versione considera un anonimo 55enne dello Hubei come il primo paziente ad aver contratto il virus, precisamente lo scorso 17 novembre. La sensazione è che serviranno ulteriori indagini per capire meglio una vicenda ancora piuttosto oscura. Non solo per quanto concerne il lato temporale, ma anche per quello geografico.

L’epidemia di peste suina potrebbe aver agevolato il Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 15 marzo 2021. Una spiegazione alternativa per scovare l’origine della pandemia di Sars-CoV-2. Fino a questo momento, tutti i riflettori erano stati puntati prima sul laboratorio di Wuhan, per un’eventuale fuga del virus dalla struttura in seguito a un errore umano (ipotesi smentita perfino dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), e poi sui pipistrelli (ipotesi plausibile, quasi certa, ma da approfondire). Adesso spuntano anche i maiali e, in particolare, il ruolo indiretto che potrebbe aver avuto la peste suina africana (PSA) nella diffusione della pandemia di Covid. La malattia in questione, pressoché letale per i suini ma, al momento, innocua per gli esseri umani, ha colpito per la prima volta la Cina nel 2018. Si è manifestata in una forma violentissima, al punto da costringere le autorità a interrompere le forniture di carne di maiale, uno degli alimenti più consumati oltre la Muraglia.

L’epidemia del 2018. All’epoca, l’Economist definì quanto stava accadendo nell’ex Impero di Mezzo niente meno che Aporkalipse Now. La PSA, come detto, è una malattia letale per i suini. Un esemplare infetto muore nel 90% dei casi e non esistono vaccini. Si trasmette attraverso le zecche, oppure quando gli animali entrano in contatto con cibi infetti o superfici contaminate. In Cina, il primo caso ufficialmente registrato di maiali entrati in contatto con la peste suina africana risale all’agosto 2018, nella provincia di Liaoning. In quei mesi convulsi, fu subito ordinato l’abbattimento degli esemplari contagiati, ma diversi allevatori – anziché ricevere un compenso per ogni capo malato segnalato – preferirono continuare a vendere carne di maiale infetta piuttosto che perdere il loro guadagno. Risultato: il virus si è propagato a macchia d’olio in molti allevamenti. Gli effetti economici dell’epidemia sono stati traumatici. Milioni di allevatori sono finiti sul lastrico, mentre i prezzi della carne di maiale sono schizzati alle stelle. Secondo le stime ufficiali, è stato abbattuto un milione di maiali; altre fonti parlano di 150 milioni suini morti a causa dell’infezione.

Il collegamento con il Covid. Ma cosa c’entra la PSA con il Covid? Arriviamo al punto. Dal momento che la peste suina africana ha letteralmente fatto crollare il consumo di carne di maiale, moltissimi cinesi sono stati costretti a modificare la loro dieta, sostituendo i suini con altri animali, anche selvatici. È proprio questa la causa che potrebbe aver facilitato il potenziale contatto tra gli esseri umani e il Sars-CoV-2 contenuto chissà in quale animale. Magari, azzardano gli esperti, proprio in una bestiola consumata da qualcuno al posto della classica carne di maiale. “Se più animali selvatici entrano nella catena alimentare umana, questo potrebbe aumentare l’opportunità di contatto (tra i virus e gli esseri umani ndr)”, ha spiegato, come riportato dal Guardian, l’autore del paper David Robertson, professore di genomica virale e bioinformatica all’Università di Glasgow. Lo studio che analizza questa ipotesi, ancora da sottoporre a revisione paritaria, si intitola “How One Pandemic Led To Another: Asfv, the Disruption Contributing To Sars-Cov-2 Emergence in Wuhan“. La traccia è interessante, e può teoricamente avere solide fondamenta. Resta da capire, in ogni caso, qual è l’animale che ha provocato il contagio umano di Sars-CoV-2.

Perché l’Amazzonia è diventata una bomba sanitaria. Federico Giuliani su Inside Over il 4 marzo 2021. “Siamo nella condizione di poterci attendere altri spillover. Fin quando l’umanità sarà così numerosa su questo pianeta, fino a che il genere umano sarà così assetato di prodotti del mondo naturale, tanto relativi alla carne quanto alle varie forme di energia, e fino a quando queste circostanze persisteranno, ci saranno sempre dei salti di specie dai virus agli esseri umani”. Così aveva recentemente parlato a InsideOver David Quammen, giornalista e scrittore, nonché autore del best seller Spillover. Il Sars-CoV-2 potrebbe essere soltanto la punta dell’iceberg, visto che altri virus animali sono in procinto di attaccare l’uomo. Ci sono almeno due aree geografiche da tenere sotto stretta sorveglianza. Accanto alla bomba a orologeria sanitaria rappresentata dal sud-est asiatico, dove ci sono centinaia di pipistrelli da monitorare con estrema attenzione – e da dove potrebbe esser partita la pandemia di Covid-19 -, gli esperti hanno acceso i riflettori anche sull’Amazzonia. Qui, nell’enorme polmone verde del pianeta, per lo più concentrato tra Brasile, Colombia, Perù e altri Paesi del Sud America, la situazione rischia di diventare presto esplosiva.

Virus, zoonosi, epidemie. Da un punto di vista ambientale, l’approvazione di quasi 1.000 pesticidi per favorire l’agricoltura intensiva, la deforestazione e gli incendi che hanno devastato la Foresta Amazzonica, sono eventi che hanno provocato un disastro. In altre parole, siamo di fronte a una nuova, potenziale bomba a orologeria sanitaria. I Paesi che ospitano questo prezioso polmone verde, molto spesso sfruttano oltre ogni limite le potenzialità di territori fragilissimi, con il rischio di danneggiare l’ecosistema locale. Il continuo concentramento delle attività umane nelle aree verdi, spinge un gran numero di animali selvatici autoctoni a fare il percorso inverso. Dai pipistrelli agli insetti, dalle scimmie a vari uccelli: molti di loro si avvicinano ai centri urbani, ai villaggi, alle città. Gli animali entrano quindi in contatto con gli esseri umani, nonché con gli allevamenti controllati. È così che si creano condizioni favorevolissime per le cosiddette zoonosi, ossia il salto di specie dei virus da un animale a un essere umano, ed è così che si creano epidemie e pandemie. D’altronde, anche se gli scienziati devono ancora risolvere il mistero, sappiamo che il Sars-CoV-2 si è originato proprio in questo modo. Un virus animale, con ogni probabilità contenuto in un pipistrello, ha approfittato di condizioni favorevoli per invadere l’organismo di un essere umano, forse un agricoltore o un allevatore. Può esserci stato un solo salto di specie, cioè il virus è saltato direttamente dal pipistrello all’uomo, oppure una zoonosi mediata da un ospite intermedio (un pangolino o uno zibetto). Ecco: qualcosa del genere non solo potrebbe ripetersi molto presto nel sud-est asiatico, ma anche in Amazzonia.

Rischi da non sottovalutare. Tornando all’Amazzonia, gli ultimi report non lasciano dormire sogni tranquilli. Il rilascio di migliaia di pesticidi, unito alla deforestazione di decine di migliaia di chilometri quadrati – con la stabile presenza umana all’interno del polmone verde, che comporta contatti tra lavoratori e animali selvatici – stanno provocando reazioni indesiderate e potenzialmente nocive per l’umanità. Come ha evidenziato Repubblica, l’Istituto Evandro Chagas, un’organizzazione brasiliana di ricerca sulla salute pubblica, ha lanciato un allarme non da poco. In Amazzonia ci sarebbero circa 220 virus, 37 dei quali teoricamente in grado di causare malattie negli esseri umani e 15 capaci di scatenare epidemie più o meno vaste. Un articolo pubblicato lo scorso maggio sulla rivista dell’accademia delle scienze brasiliana, ha passato in rassegna alcuni dei virus individuati nella foresta. La lista è molto corposa. Troviamo varie encefaliti, la febbre del Nilo occidentale, il rocio, ovvero un virus brasiliano che genera la febbre gialla. Ciò che sta accadendo in Amazzonia, ma più in generale in tutte le foreste tropicali e pluviali del mondo, è un rischio per salute dell’umanità. Il motivo è semplice: più si creano le condizioni per una maggiore interazione tra uomini e animali selvatici – gran parte dei quali portatori di virus infettivi – , e più è facile che un patogeno simile al Sars-CoV-2 (se non peggiore), possa creare una nuova emergenza sanitaria.

Da "lastampa.it" il 22 febbraio 2021. Dopo i pipistrelli e i pangolini - principali sospettati dall'inizio della pandemia di essere stati ospiti intermedi del coronavirus - e dopo i visoni che potrebbero trasmettere il Covid all'uomo negli allevamenti intensivi, tocca ad altri due animali finire sul banco degli imputati: si tratta dei tassi-furetto, una specie diffusa in Cina, e dei conigli. Anche loro - tra gli animali che vengono venduti come alimenti nel mercato cinese di Wuhan, dove sono emersi molti primi casi della malattia - entrano tra i potenziali sospettati di aver consentito il salto di specie, trasmettendo il nuovo coronavirus agli esseri umani. Perlomeno, è una delle possibilità su cui si concentrano le analisi degli investigatori dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, rientrati nei giorni scorsi da una missione di due settimane a Wuhan proprio per cercare di individuare l'origine del Covid-19. Anche se per il momento si tratta ancora soltanto di una delle tante ipotesi su cui sono in corso le indagini del team, che hanno lamentato le insufficienti informazioni fornite dalla Cina sui primi contagi. Per i membri della squadra dell'Organizzazione mondiale della sanità, riporta il Wall Street Journal, sono necessari altri accertamenti sui fornitori di questi e altri animali in vendita al mercato di Wuhan. E ancora non ci sono certezze se il virus sia prima stato trasmesso dagli animali agli esseri umani o se stesse già circolando altrove. Il passaggio animale-uomo e viceversa sembrerebbe comunque essere confermato dai numerosi casi rilevati negli allevamenti di visoni in Europa - abbattuti a milioni in Danimarca e altri Paesi -, tanto da avere spinto le autorità Ue per la sicurezza alimentare e per la prevenzione delle malattie a lanciare giovedì un allarme per intensificare test su personale di queste strutture e sugli animali.

Chi ha trasmesso il Covid all’uomo? Ecco i possibili “animali serbatoio”. Federico Giuliani su Inside Over il 21 febbraio 2021. In principio tutti i riflettori erano puntati sui pipistrelli. Poi spuntarono zibetti e pangolini, entrambi possibili ospiti intermedi della trasmissione dell’infezione all’uomo. Adesso, a oltre un anno di distanza dalla rilevazione dei primi casi di Covid-19, si aggiungono alla lista conigli e tassi-furetto cinesi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) è letteralmente a caccia dell’animale misterioso dal quale è scattata la zoonosi. Due sono le piste praticabili. La prima: il Sars-CoV-2 è passato direttamente da un pipistrello a un essere umano, forse un agricoltore. La seconda: il virus ha effettuato un doppio salto di specie, passando indirettamente dal pipistrello all’uomo mediante un terzo attore protagonista. Nel sud-est asiatico, in un’area molto vasta che comprende la provincia cinese meridionale dello Yunnan, Myanmar, Vietnam, Thailandia, Indonesia e altri Paesi limitrofi, gli scienziati hanno trovato indizi interessanti. I campioni prelevati da alcune specie di pipistrello contenevano virus pressoché identici al Sars-CoV-2, con sequenze genetiche simili quasi al 100%. Il coronavirus che ha messo in ginocchio il pianeta potrebbe quindi essere partito da un pipistrello. Ma Wuhan, primo epicentro noto del Covid, si trova a un migliaio di chilometri dalla zona in cui vivono questi pipistrelli. Come ha fatto il virus a finire nel cuore dello Hubei? È qui che entra in gioco la teoria dell’ospite intermedio. Un pipistrello X potrebbe aver contagiato un animale Y, magari una specie che per svariati motivi è solita entrare in contatto con l’uomo. A quel punto, a fronte di condizioni favorevoli, sarebbe scattata la zoonosi decisiva.

Il banco degli imputati. Dal banco del mercato ittico di Huanan al banco degli imputati, il passo rischia di essere brevissimo. Già, perché l’Oms vuol vederci chiaro. E, per scovare l’ospite intermedio, ha raccolto quante più prove possibili, anche dentro il famigerato mercato del pesce di Wuhan, presunto ground zero del contagio. La maggior parte dei primi pazienti contagiati, infatti, aveva qualcosa in comune: l’aver frequentato gli stretti corridoi di Huanan. Attenzione: nonostante fosse chiamato “del pesce”, in questo mercato – prima che fosse chiuso – pare che si vendesse praticamente ogni animale immaginabile. È dunque possibile che un animale selvatico X proveniente dal sud-est asiatico, e precedentemente contagiato dal nostro pipistrello Y, possa aver infettato i clienti e i venditori del market. L’Oms sta continuando a indagare. Ma la lista degli imputati si è recentemente arricchita di due nuovi presunti colpevoli: conigli e tassi-furetto, entrambi in vendita tra i banchi del mercato.

L’ipotesi più probabile. Tassi-furetto e conigli potrebbero contribuire a risolvere il mistero. Come ha spiegato lo zoologo Peter Daszak al Wall Street Journal, i primi animali citati spiegherebbero come abbia fatto il virus ad arrivare fino a Wuhan. Alcune carcasse di tassi-furetto sono state ritrovate nelle celle frigorifere del mercato. Gli animali erano negativi ma, in vita, avrebbero potuto trasportare il virus e trasmetterlo agli esseri umani. Arriviamo poi ai conigli, anch’essi in vendita al mercato e “particolarmente suscettibili al Sars-CoV-2”. Un discreto numero di fornitori di conigli è concentrato nelle province del Guandong, Guangxi e Yunnan, a due passi da Vietnam, Laos e Myanmar. Sempre da queste parti, come detto, sono stati ritrovati virus simili al Sars-CoV-2 in alcuni pipistrelli. I punti potrebbero presto essere uniti. L’Oms ha tuttavia dichiarato di dover ancora stabilire la lista delle creature vendute, vive o morte, legalmente o illegalmente, nel mercato di Wuhan. A quel punto, il quadro potrà forse apparire più chiaro.

Dopo pipistrelli e serpenti nel mirino c'è il furetto. Confermata l'origine animale del virus. Redazione - Sabato 20/02/2021 - su Il Giornale. Pipistrello, pangolino o serpente? L'origine animale del coronavirus, che avrebbe poi compiuto il salto di specie, è stata l'ipotesi più accreditata fin dall'identificazione dei primi casi di Sars Cov2. Ora però al già ricco elenco di animali sospetti si aggiungono il tasso, il furetto e forse anche il coniglio. Proprio pochi giorni fa il capo della missione dell'Oms a Wuhan, Peter Ben Embarek, aveva convocato una conferenza stampa nella città cinese, primo focolaio del coronavirus, per ribadire che il sospetto di un supervirus creato in laboratorio sarebbe del tutto infondato. «Tutti i dati raccolti sin qui ci portano a concludere che l'origine del coronavirus è animale», aveva ribadito l'esperto Oms. Lo studio condotto durante la missione dunque non aveva fatto cambiare idea agli scienziati che insistono: tutti gli indizi suggeriscono che il coronavirus abbia un'origine animale ma avevano anche concluso che non ci sono ancora certezze rispetto a quale sia l'esemplare ospite anche se pipistrelli e pangolini sono i più probabili candidati alla trasmissione. Ora però alcuni studiosi affacciano l'ipotesi che i responsabili siano altri animali. Il gruppo di esperti inviato dall'Oms ha puntato i mirino su due specie che erano presenti sui banchi del mercato di Wuhan dove si ritiene abbia avuto origine la trasmissione all'uomo. Sotto osservazione i tassi-furetto e i conigli che sono portatori del virus. Il primo compito dei ricercatori è stabilire con certezza quali fossero effettivamente gli animali in vendita a Wuhan, sia quelli vivi sia quelli morti. Lo zoologo Peter Daszak, membro del team dell'Oms intervistato dal WSJ ha spiegato che nelle celle frigorifere del mercato sono state ritrovate carcasse di queste specie. Inoltre i fornitori di quel mercato in gran parte provengono da Guangdong, Guangxi e Yunnan. E in alcune di queste aree sono stati rintracciati virus molto simili al Sars-Cov-2 nei pipistrelli, mentre nel Guangdong e nel Guangxi sono stati trovati nei pangolini. Il virologo Christian Drosten, sostiene fin dall'inizio di ritenere probabile la trasmissione del virus tra gli animali all'interno degli allevamenti intensivi. Lo studioso aveva ricordato come si era sviluppato un processo di trasmissione analogo per la Sars passata dagli zibetti e i cani procione. Intorno al cane procione gira una grossa industria in Cina dove è molto richiesta la pelliccia di questo animale. Il collegamento tra gli allevamenti intensivi dove nasce e si diffonde il virus e poi l'arrivo in mercati con condizioni igieniche precarie che favoriscono il passaggio all'uomo è oramai l'ipotesi più accreditata.

Oms, indagini su tassi e conigli: hanno trasmesso il Covid all’uomo? Veronica Ortolano su Notizie.it il 19/02/2021. La squadra dell’Organizzazione mondiale della Sanità sta indagando sulle origini del virus: allo studio due specie in vendita sui banchi di Wuhan. Dopo l’ipotesi dei pipistrelli, i quali sono stati i principali sospettati dall’inizio della pandemia come fonte del coronavirus, ora arriva una nuova supposizione: il Covid potrebbe essere arrivato all’uomo a causa di alcuni animali che sono in vendita a Wuhan, in Cina. É questa la congettura che arriva dall’organizzazione mondiale della sanità: una squadra dell’Oms si è, infatti, proprio recata in Cina per cercare finalmente chiarimenti sulla genesi della pandemia. Gli animali che questa volta si stanno prendendo in considerazione sarebbero stati non solo nutriti nel Sudest del paese, ma sarebbero stati allevati anche insieme ai cani procione, dai quali è nato il Covid-19. La notizia arriva dal Wall Street Journal, sul quale si legge che, affinchè questa teoria possa diventare certa, è necessario avere altri riscontri e ulteriori indagini. Quest’ultime in particolare dovranno essere centrate su chi siano coloro che forniscono questi animali al mercato di Wuhan. L’Oms, comunque, sta cercando, in primis, di indicare precisamente quali animali erano in vendita nel mercato del capoluogo della provincia di Hubei. C’è da dire, difatti, le autorità cinesi non hanno mostrato molta collaborazione, motivo per il quale i dati che gli esperti dell’Oms hanno raccolto finora non sono per nulla sufficienti per definire ufficialmente che questi animali abbiano portato il virus fino all’uomo. Il membro del Team dell’Oms, lo zoologo Peter Daszak, al quotidiano newyorkese ha ben spiegato nelle celle frigorifere del mercato sono stati ritrovati gli scheletri di questi animali, i quali subito sono stati sottoposti al test per capire se fossero positivi al Covid. Sono, però, risultati negativi, ma a quanto pare erano in grado di diffondere il virus. Molti di questi fornitori  si trovano, inoltre, nelle province di Guangdong, Guangxi e Yunnan: qui sono stati rintracciati, infatti, in alcuni pipistrelli dei virus che sembrano essere molto simili al Coronavirus. Insomma, un’ipotesi che non farebbe altro che rafforzare la principale del virologo Christian Drosten, secondo la quale il virus sarebbe stato trasmesso negli allevamenti intensivi: ricordiamo che la Sars fu trovata negli zibetti, nei gatti civetta e nei cani procione.

Il pipistrello, l’ospite e l’assalto all’uomo: l’ultima scoperta sul Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 12 febbraio 2021. Da un pipistrello a un mammifero ancora sconosciuto, il cosiddetto ospite intermedio, e da lì all’essere umano. Mancano ancora dei tasselli fondamentali per poter completare il puzzle, ma la cornice sembra ormai pronta. A oltre un anno dal primo contagio accertato di Covid-19, è sempre più probabile che il Sars-CoV-2 possa essere scaturito da una zoonosi. Più che una scoperta, potremmo chiamarla conferma. Una conferma arricchita di interessanti particolari. Il salto di specie, come viene chiamato in gergo, era una delle primissime ipotesi messe sul tavolo dagli esperti per spiegare le origini del coronavirus. Adesso, anche alla luce di quanto dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) al termine della sua missione in Cina, questa teoria è sempre più accreditata dagli scienziati di tutto il mondo. Se in un primo momento c’era chi ipotizzava un’eventuale fuoriuscita del virus dal Wuhan Institute of Virology, forse in seguito a un incidente o a un errore umano, la recente conferenza stampa dell’Oms ha fugato ogni dubbio. “Improbabile che qualcosa possa sfuggire da un posto simile”, ha dichiarato Peter Ben Embarek, esperto danese di sicurezza alimentare che ha parlato a nome della delegazione Oms spedita a Wuhan per fare luce su quanto accaduto. Certo, in una struttura del genere possono sempre avvenire incidenti non previsti, ma sono estremamente rari e niente di simile risulta essere avvenuto in tempi recenti. Diverso è il discorso relativo alla zoonosi, sempre più accreditato da una recente scoperta scientifica.

Pipistrelli e coronavirus. Che i pipistrelli fossero veri e propri serbatoi di virus, non era affatto una novità. Che alcune specie contenessero nel loro sangue dei coronavirus simili, in tutto e per tutto, al Sars-CoV-2, neppure. Ma che il numero di questi mammiferi, pieni di agenti patogeni pronti ad attaccare l’uomo, fosse molto più alto di quanto non si immaginasse in un primo momento, questo nessuno se lo sarebbe mai aspettato. I cacciatori di virus sanno benissimo che alcune regioni del pianeta sono abitate da animali selvatici stracolmi di virus. E sono pure a conoscenza del rischio intrinseco di eventuali spillover nocivi per gli esseri umani. I timori sono diventati ancora più grandi in seguito all’ultima scoperta realizzata da un team di ricercatori guidato da Lin-Fa Wang dell’Università di Singapore. Cinque pipistrelli provenienti dalla Thailandia orientale contenevano nel loro sangue un coronavirus strettissimo parente del Sars-CoV-2. Il RacCS203, questo il nome del patogeno, al momento non contagioso per l’uomo, ha una sequenza genetica uguale al 91,5% a quella presente nel coronavirus che ha messo in ginocchio il pianeta. Nel recente passato, gli scienziati erano venuti a conoscenza di altri parenti stretti del nuovo coronavirus, tra cui l’RmYN02, geneticamente simile al 93,6%. L’aspetto interessante è che il RacCS203 è correlato all’RmYN02, e che quest’ultimo è stato rinvenuto nel sangue del Rhinolophus malayanys, una specie di pipistrello diffusa nella provincia meridionale cinese dello Yunnan.

Salti e mutazioni. In base alle ultime scoperte, ci sarebbero dunque moltissimi virus potenzialmente in grado di passare dai pipistrelli a un ospite intermedio, e quindi di attaccare gli esseri umani. L’ombra minacciosa di nuove pandemie aleggia sul prossimo futuro, ma offusca anche il presente. Non solo. In base a quanto scritto dai ricercatori nel paper Evidence for SARS-CoV-2 related coronaviruses circulating in bats and pangolins in Southeast Asia, pubblicato su Nature Communications, ci sarebbero due evidenze piuttosto chiare riguardanti le origini del Covid-19: 1) l’area più critica riguarda tutto il Sud-est asiatico, dove vivono tantissime specie di pipistrelli portatrici di virus; 2) l’origine naturale del Sars-CoV-2 è al momento l’ipotesi più certa. Ma da dove viene il virus? Qui la faccenda si complica, perché i cinque pipistrelli che contenevano il patogeno simile al nuovo coronavirus sono sì stati rintracciati in Thailandia, ma la loro specie vive in una regione che si estende per circa 3mila miglia, dalla Cina meridionale al Giappone. In attesa di ulteriori evidenze scientifiche, è possibile unire un paio di punti per fornire una probabile narrazione dei fatti. L’eccessiva promiscuità – continuata nel tempo – tra una specie particolare di pipistrelli e un ospite intermedio (un pangolino?) ha provocato un primo salto di specie e chissà quante mutazioni intermedie. In un secondo momento, visto che che l’ospite intermedio potrebbe essere un animale capace di entrare comunemente a contatto con l’uomo, il Sars-CoV-2 potrebbe aver trovato l’occasione giusta per dare il via alla zoonosi finale. Per capire il luogo esatto in cui è avvenuta la genesi del Covid, bisogna insomma guardare al Sud-est asiatico.

La misteriosa malattia mortale (arrivata dall’uomo) sta decimando i pipistrelli. Federico Giuliani su Inside Over il 31 gennaio 2021. “I pipistrelli sono i portatori di un gran numero di pericolosi virus”, al punto da essere definiti dagli esperti “animali ospiti”, cioè animali in cui “il virus vive per un lungo periodo di tempo, senza che però gli animali si ammalino”. Cosi aveva recentemente parlato a InsideOver di questi bizzarri mammiferi David Quammen, giornalista e scrittore, nonché autore del best seller “Spillover”. Dall’esplosione dell’emergenza sanitaria provocata dal Covid-19 in poi, i riflettori si sono accesi a pieno regime sui pipistrelli. Il motivo è presto detto. Anche se non ci sono prove certe, è molto probabile che il Sars-CoV-2, lo stesso virus che ha messo in ginocchio il mondo intero e ucciso milioni di uomini, derivi proprio da loro. D’altronde, i pipistrelli sono considerati veri e propri serbatoi di virus a causa di un sistema immunitario del tutto particolare; lo stesso che potrebbe pure offrire agli scienziati spunti di ricerca interessanti per difendersi dai virus del futuro. I pipistrelli sono tuttavia stati etichettati dall’opinione pubblica come una delle cause principali della diffusione di virus più o meno mortali nell’uomo. Eppure, ha sottolineato lo stesso Quammen sul New York Times, talvolta può anche accadere che siano gli esseri umani a “passare” malattie agli animali. È il caso, ad esempio, della cosiddetta sindrome del naso bianco, che da ormai 14 anni sta decimando i pipistrelli del Nordamerica. Il problema, oggi, non si è affatto acuito. Anzi. Con il passare del tempo è peggiorato.

La sindrome del naso bianco. È stata rinominata sindrome del nasco bianco, e non è provocata da un virus, quanto piuttosto da un fungo patogeno. Quest’ultimo pare sia arrivato dall’Europa, in particolare da vettori umani. Si tratta di una malattia altamente contagiosa che uccide i pipistrelli. Detto altrimenti, a differenza di quanto accaduto con il Sars-CoV-2, in tal caso sono gli esseri umani ad aver trasmesso una malattia ai pipistrelli. La strana malattia è comparsa per la prima volta nel 2006, o almeno è quello l’anno in cui gli esperti si sono resi conto che qualcosa non andava. In una caverna situata ad Albany, nello stato di New York, numerosi pipistrelli in letargo avevano il muso coperto di micelio, un intreccio di filamenti bianchi che ricorda vagamente la brina che si forma sulla barba degli sciatori. Un anno più tardi, in un’altra grotta non distante da quella di Albany, un gruppo di biologi ha scoperto migliaia di pipistrelli senza vita. Tutti con il muso coperto di micelio. La sindrome del naso bianco si è presto diffusa in altri stati americani, riducendo drasticamente la popolazione di pipistrelli (per alcune specie una riduzione fino al 90%).Gli “orecchioni del Nord”, una delle specie più colpite, è ad esempio sparita nell’arco di pochi anni dalla comparsa della malattia.

Il mistero del fungo killer. Il fungo killer prospera in ambienti freddi e attacca gli animaletti notturni quando sono in letargo, e quindi quando il loro sistema immunitario è meno vigile. La malattia provoca irritazione, al punto da svegliare i pipistrelli in pieno inverno. A quel punto, senza insetti di cui cibarsi, i poveri pipistrelli si ritrovano costretti a volare a vuoto fino alla morte. Non sappiamo chi, quando e come ha infettato per la prima volta i pipistrelli americani. Tutto – questa è una delle ipotesi sul tavolo – potrebbe essere partito da alcune spore del fungo killer rimaste attaccate sopra la scarpa di un qualche turista europeo. E da lì aver provocato una strage silenziosa. La narrazione di Quammen è importante per almeno due motivi. Il primo: non sono soltanto gli animali a trasmettere malattie mortali agli uomini. Talvolta può accadere anche il contrario. Il secondo: in entrambe le situazioni descritte, sono sempre gli esseri umani a recare problemi agli animali, quando invadendo il loro habitat e quando cacciandoli. Imparare a riconoscere – e rispettare – i limiti imposti dalla natura potrebbe essere un buon punto di partenza per scongiurare l’esplosione di nuove epidemie.

Mario Landi per “il Messaggero” il 10 febbraio 2021. È stato scoperto un nuovo coronavirus legato a quello che causa la pandemia globale; è stato isolato nel sangue di cinque pipistrelli che vivono in Thailandia. Il SARS-CoV-2, il virus che causa il Covid-19, condivide il 91,5 per cento del suo codice genetico con quello di questo virus appena identificato, chiamato RacCS203. Si pensa che il virus non sia in grado di infettare le persone perché non può legarsi al recettore ACE2 sulle cellule umane, la porta d'ingresso del Covid-19 nel corpo.  Tuttavia, gli anticorpi che circolano nel sangue di pipistrelli e pangolini infetti sono risultati efficaci nel neutralizzare il virus SARS-CoV-2. L'area dove vivono questi pipistrelli è molto estesa: comprende Giappone, Cina e Thailandia, hanno detto i ricercatori in un rapporto pubblicato in Nature Communications. Gli esperti ipotizzano che i coronavirus a base di pipistrelli non possano infettare gli esseri umani. Gli autori di questo studio pensano invece che i coronavirus evolvano la capacità di infettare le cellule umane solo dopo essere passati in un ospite intermedio, come un pangolino. Qui, muta e cambia leggermente la forma. Questi risultati si allineano con l'annuncio di ieri dell'Organizzazione Mondiale della Sanità che la pandemia è probabilmente emersa naturalmente e il coronavirus non è stato rilasciato da un laboratorio. I ricercatori guidati dalla Chulalongkorn University di Bangkok hanno preso campioni di pipistrelli nella Thailandia orientale. Hanno condotto il sequenziamento genomico sul nuovo virus per scoprire quanto fosse strettamente legato ad altri coronavirus, tra cui SARS-CoV-2. Il parente più prossimo del nuovo virus si chiama RmYN02, un virus che è identico al 93,6 per cento al SARS-CoV-2. Geneticamente simile (91,5 per cento identico) al SARS-CoV-2 è anche il RacCS203,  il nuovo virus. In precedenza, virus simili erano stati trovati solo in Cina e Giappone, ma la presenza di questo ceppo in Thailandia indica che ce ne sono molti di più di quanto si credesse in precedenza, probabilmente diffusi su un raggio di 3.000 miglia attraverso il sud-est asiatico. La preoccupazione riguarda la capacità dei coronavirus di muoversi tra diversi mammiferi, per esempio gatti, cani e visoni. Spostandosi tra le specie, il virus può mutare ed evolvere in un nuovo patogeno, il che potrebbe spiegare come è emerso il Covid-19. Il dottor Thiravat Hemachudha della Chulalongkorn University di Bangkok, Thailandia, faceva parte del team di ricercatori internazionali. I virus trovati nei pipistrelli in Thailandia e Cina agiscono come «un modello perfetto che può ricombinarsi con altri e alla fine evolvere come nuovi patogeni emergenti, come il virus Covid-19», ha detto. Commentando, il Prof Martin Hibberd della London School of Hygiene & Tropical Medicine, ha detto che i risultati hanno evidenziato l'ampia distribuzione di pipistrelli e virus che possono includere l'originatore dell'attuale epidemia. «È necessario un ulteriore lavoro per capire come la Sars-CoV-2 sia passata dagli animali agli esseri umani, con i recenti investigatori dell'OMS a Wuhan che mostrano che, per ora, queste non sono prove conclusive di come ciò sia accaduto», ha detto.

Quei campioni sospetti in Cambogia: giallo sulle origini del Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 28 gennaio 2021. Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) è volata in Cina per indagare sulla nascita del Sars-CoV-2, dalla Cambogia arrivano importanti novità proprio in merito alle sue origini. Un laboratorio cambogiano ha scoperto parenti strettissimi dell’agente patogeno che ha messo in ginocchio il mondo in alcuni campioni conservati da più di dieci anni all’interno di un congelatore. I virus trovati nei campioni erano stati prelevati nel 2010 nella Cambogia nord-orientale. La loro somiglianza con il Sars-CoV-2 è impressionante, pari al 92%, al punto da renderli i cugini più prossimi del nuovo coronavirus scoperti al di fuori della Cina. Fino ad oggi, infatti, il parente più vicino al patogeno che causa il Covid-19 era un virus pipistrello riscontrato nella provincia cinese sud-occidentale dello Yunnan, con una somiglianza del 96,2%. La scoperta, ha sottolineato il South China Morning Post, si deve ai ricercatori dell’Istituto Pasteur di Phnom Penh e potrebbe aiutare moltissimo per capire come (e quando) il Covid abbia iniziato a diffondersi in giro per il mondo. Anche se il primo focolaio noto è stato rilevato nella città cinese di Wuhan lo scorso dicembre, è probabile – anzi. Quasi certo – che il patogeno stesse già viaggiando indisturbato da chissà quanto tempo. A un anno di distanza dallo scoppio dell’emergenza sanitaria globale, gli scienziati non sono ancora riusciti a ricostruire il mosaico.

I campioni sospetti. Dicevamo dei campioni rinvenuti nell’Istituto Pasteur in Cambogia. A detta di molti esperti, il virus potrebbe aver avuto origine nei pipistrelli, salvo poi effettuare una zoonosi – cioè un salto di specie – e passare agli esseri umani. In che modo? O direttamente oppure attraverso l’azione di un animale intermedio (pangolino? Zibetto?). In mezzo a mille dubbi, troviamo poi le propagande incrociate di Stati Uniti e Cina – tra colpi bassi e accuse reciproche sulle responsabilità dello scoppio della pandemia – a complicare le già difficili ricerche. L’amministrazione Trump, ad esempio, ha più volte puntato il dito contro il laboratorio di Wuhan, mentre Pechino ha suggerito che il virus potesse provenire dall’estero. L’Oms sta ancora cercando di capire. E quanto emerso in Cambogia potrebbe (usiamo il condizionale) rappresentare una pista interessante. Perché sono emersi questi virus simili al Sars-CoV-2? A caccia di prove, numerosi laboratori hanno sottoposto a test retrospettivi i campioni animali conservati nelle rispettive strutture. Ebbene, nell’Istituto Pasteur di Phnom Penh sono stati rilevati patogeni assai simili al nuovo coronavirus.

Nuovi indizi. I suddetti risultati, in attesa di essere sottoposti a peer review, evidenziano, ancora una volta, come il sud-est asiatico rappresenti un’area chiave tanto nella ricerca in corso sulle origini del Sars-CoV-2, quanto nella sorveglianza per ipotetici e futuri virus. Tornando ai campioni cambogiani, questi sono stati raccolti oltre un decennio fa da alcuni esemplari di pipistrelli a ferro di cavallo di Shamel, come parte di un progetto sostenuto dall’Unesco. I ricercatori dovevano confrontare la diversità delle specie sulle due sponde del fiume Mekong, nel nord della Cambogia. Quei campioni erano stipati nell’Istituto Pasteur, conservati a – 80 C° assieme ad altri campioni. Qual è il risultato di quanto emerso? Vista la corrispondenza genetica tra i virus del laboratorio cambogiano e il Sars-CoV-2, i patogeni correlati al nuovo coronavirus potrebbero avere una distribuzione geografica molto più ampia di quanto ipotizzato in un primo momento. A questo proposito Marion Koopmans, virologa dell’Erasmus University Medical Center nei Paesi Bassi, ha spiegato che i risultati cambogiani “si stanno aggiungendo alla nostra conoscenza sui virus SARS-Cov-2 nei pipistrelli nella regione”. Sarebbero necessari anche ulteriori dati da Laos, Vietnam, Myanmar per avere un quadro più chiaro. Anche se risalire alle origini esatte del Sars-CoV-2 è come trovare un ago in un pagliaio.

DAGONEWS il 12 gennaio 2021. Boris Johnson va all’attacco frontale con i cinesi, incolpandoli per la pandemia innescata dalle “dementi pratiche tradizionali” come quella di “macinare le squame del pangolino” per diventare più “potenti”. Le parole sono state sganciate durante il discorso ai leader mondiali durante il vertice One Planet, ospitato dal presidente francese Macron. «Ovviamente è giusto concentrarsi sui cambiamenti climatici, ovviamente è giusto ridurre le emissioni di CO2, ma non raggiungeremo un vero equilibrio con il nostro pianeta se non proteggiamo la natura – ha detto Johnson - Un ultimo pensiero, non dimenticare che la pandemia di coronavirus è stata il prodotto di uno squilibrio nel rapporto dell’uomo con la natura». Parlando nello specifico del coronavirus Johnson ha aggiunto: «Come la peste originale che colpì i greci mi sembra di ricordare nel primo libro dell’Iliade, si tratta di una malattia zoonotica. Ha origine da pipistrelli o pangolini, dalla folle convinzione che se macini le squame di un pangolino diventerai in qualche modo più potente o qualunque cosa la gente creda, ha origine da questa collisione tra l’umanità e il mondo naturale e noi dobbiamo fermarlo». Le parole, che rischiano di far sfiorare una crisi diplomatica, hanno fatto infuriare i cinesi che hanno avvertito che affermazioni del genere non vengono tollerate. Il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian ha detto: «Abbiamo detto molte volte che il tracciamento dell’origine è una questione scientifica. Non c’è spazio, non c’è posto, per persone che fanno speculazioni, altrimenti si interromperà solo la cooperazione internazionale».

Da ilmessaggero.it il 31 gennaio 2021. «L'Unione Europea ha pagato più di 100.000 sterline in sovvenzioni al laboratorio cinese di Wuhan, al centro dei sospetti sulla pandemia globale per aiutare a finanziare la sua controversa ricerca sui coronavirus». La rivelazione - riportata dal Daily Mail - arriva due settimane dopo che il Dipartimento di Stato americano ha puntato il dito contro il laboratorio, l'Istituto di virologia di Wuhan appunto, affermando che l'intelligence statunitense aveva prove che i suoi lavoratori si sono ammalati di sintomi simili a Covid nell'autunno 2019, settimane prima che venisse lanciato l'allarme sul virus.  Il governo degli Stati Uniti ha anche affermato che i suoi scienziati stavano sperimentando un coronavirus da pipistrello molto simile a quello che causa il Covid e avevano lavorato a progetti militari segreti. La Commissione europea ha affermato che l'UE ha contribuito al finanziamento di progetti di ricerca presso l'istituto dal 2015. Il sito di Wuhan era uno dei cinque laboratori al mondo che svolgevano una controversa ricerca sul «guadagno di funzionalità» che accelera artificialmente l'evoluzione dei virus. I suoi scienziati stavano manipolando i coronavirus campionati da pipistrelli in grotte a quasi 1.000 miglia di distanza, dove si sospetta che abbia avuto origine il Covid-19. Un portavoce della Commissione ha dichiarato: «L'UE non ha finanziato ricerche mirate sui virus dei pipistrelli a Wuhan. L'Istituto di virologia di Wuhan funge da partner internazionale nella collaborazione globale sulle risorse virali. È stato questo partner di Wuhan a identificare a gennaio il virus SARS-CoV2» che ha causato l'epidemia globale.

Il complottismo del leader leghista. “Coronavirus nato da esperimenti cinesi”, Salvini rilancia (ancora) le bufale sul Covid-19. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Gennaio 2021. Perseverare è diabolico, anche nel diffondere bufale. Ne dovrebbe sapere qualcosa Matteo Salvini, che domenica da ospite di Mezz’ora in Più su Rai 3 ha rilanciato per l’ennesima volta la fake news sul Coronavirus partito da un laboratorio di Wuhan. Una tesi ampiamente smentita già nel marzo del 2020 da uno studio pubblicato su Nature Medicine secondo cui “confrontando i dati genetici ad oggi disponibili, possiamo risolutamente determinare che il Sars-CoV-2 si è originato attraverso processi naturali”. Uno studio che evidentemente l’ex ministro non ha letto nel corso degli ultimi mesi. Così ospite di Lucia Annunziata ha rilanciato sul tema: “Se in Cina qualcuno non avesse fatto fottutissimi esperimenti, non staremmo qui a parlare di virus. Il virus è partito da Wuhan. Non dico che l’hanno fatto a posta ma, per quattro mesi, hanno taciuto”, ha detto il "Capitano".  Una tesi smentita dagli scienziati, ma che Salvini ha proposto più volte in passato, l’ultima volta il 16 dicembre scorso nell’aula del Senato: “Ce lo diciamo sottovoce in un’aula istituzionale? Tutto è cominciato in un laboratorio cinese, finanziato da alcune multinazionali senza nessun tipo di controllo”, disse il leader del Carroccio. Non l’unica "gaffe" di Salvini. A marzo del 2020 rilanciò un vecchio servizio (datato 2015) del TgR Leonardo su un vecchio Coronavirus che nulla aveva a che fare col Covid-19, strumentalizzando una ricerca in laboratorio su “un” Coronavirus creato dagli scienziati cinesi.

“IL VIRUS È STATO UN INCIDENTE DI LABORATORIO”. (ANSA il 18 febbraio 2021) La pandemia del coronavirus sarebbe esplosa per un errore nel laboratorio di Wuhan. Ne è convinto uno scienziato dell'università Amburgo, membro del prestigioso istituto della Leopoldina, che ha raccolto 600 indizi al riguardo. Della sua ricerca parla la Bild on line, che lo ha intervistato. Roland Wiesendanger non ha dubbi: "Gli indizi forniti dallo stesso virus, oltre che da numerose pubblicazioni, comparse su riviste scientifiche come sui social media, dimostrano che il virus sia stato un incidente di laboratorio". Bild dà voce però anche al virologo Bernhard Fleckenstein, dell'università di Erlangen, che richiama le ispezioni dell'Oms - secondo cui è quasi certa l'origine naturale del virus - e dice che "il fisico non può mostrare alcuna concreta sequenza e la sua teoria non è convincente". L'esperto di nanoscienze, da parte sua, spiega di aver pubblicato uno studio fondato su 60 indizi, ma di averne raccolti almeno 600. La "quantità e la qualità di questi indizi", spiega al tabloid, fanno ritenere che il virus Sars-CoV-2 venga da un laboratorio. Fra le spiegazioni addotte, la circostanza che il virus che ha scatenato questa pandemia sia in grado di agganciare le cellule recettive dell'uomo e introdurvisi come non era stato ancora possibile ai coronavirus finora noti, Sars e Mers. Inoltre la teoria del pipistrello non sarebbe fondata scientificamente: "Finora non è stato trovato alcun animale di passaggio che giustificherebbe la trasmissione all'uomo".

“Covid? Al 99,9% viene dal laboratorio”: polemiche sulla ricerca tedesca. Federico Giuliani su Inside Over il 19 febbraio 2021. “Il coronavirus? È nato in seguito a un incidente di laboratorio”. Roland Wiesendanger, scienziato dell’Università di Amburgo, ne è convintissimo, al punto da aver sfornato uno studio di oltre 100 pagine basato su 60 ipotetici indizi inconfutabili. A dire il vero, sostiene il professore di fisica, di indizi ce ne sarebbero 600, anche se nel paper si possono trovare i più importanti. “Sono sicuro al 99,9% che il virus provenga dal laboratorio”, ha dichiarato Wiesendanger nel corso di un’intervista a Zdf. La notizia della sua ricerca ha generato un acceso dibattito in tutta la Germania, tra chi, convinto dalle tesi dell’accademico, è tornato a puntare il dito contro la teoria del laboratorio di Wuhan, e chi ha attaccato l’Università di Amburgo a causa di una ricerca non scientifica e lesiva della reputazione del prestigioso istituto. Anche perché la ricerca di Wiesendanger è effettivamente a dir poco ambigua, visto che si basa per lo più su prove deduttive. Nel periodo compreso tra il gennaio 2019 e il dicembre 2020, il professore ha utilizzato un’enorme mole di fonti, tra letteratura accademica, media, articoli di giornali e comunicazioni personali con i colleghi di tutto il mondo, per poi unire i punti e adottare un approccio scientifico interdisciplinare. “Gli indizi forniti dallo stesso virus, oltre che da numerose pubblicazioni, comparse su riviste scientifiche come sui social media, dimostrano che il virus sia stato un incidente di laboratorio”, ha aggiunto l’autore dello studio alla Bild.

Una ricerca controversa. Quali sarebbero, allora, questi indizi? Innanzitutto, afferma il professore, il fatto che non sia ancora stato trovato alcun ospite animale. Il parente più stretto del Sars-CoV-2, rinominato RaTG13, è un coronavirus trovato nei pipistrelli prelevati in una miniera nel Mojiang, nel 2012. Dal momento che la distanza tra questo luogo è Wuhan è di circa 1.200 chilometri, è impossibile che siano stati gli stessi pipistrelli a portare il virus in città. Gli scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), che hanno da poco terminato una missione di quattro settimane a Wuhan per indagare proprio sulle origini del virus, hanno sottolineato nel loro rapporto finale che il contatto tra gli abitanti della megalopoli dello Hubei e i pipistrelli è raro. Per l’Oms non ci sarebbero dubbi: il Sars-CoV-2 è arrivato in città grazie a un ospite intermedio, ossia un altro animale. Wiesendanger sostiene invece che il coronavirus abbia raggiunto la città mediante i campioni raccolti dai ricercatori e conservati presso l’Istituto di virologia di Wuhan. Qui, il virus sarebbe stato adattato dagli esseri umani nel corso di una non chiara ricerca per renderlo più contagioso.

Le prove? Il fatto che il Covid sia in grado di agganciare le cellule ricettive dell’uomo e introdurvisi, come non erano in grado di fare Sars e Mers. In più, bisogna aggiungere le preoccupazioni inerenti alla sicurezza del laboratorio e il fatto che i ricercatori siano stati coinvolti in una presunta controversa ricerca. Le conclusioni del professore tedesco coincidono con quanto riportato da alcuni funzionari statunitensi, secondo i quali la fuga del patogeno dal laboratorio sarebbe la spiegazione più credibile per la pandemia.

Polemiche e precedenti. Le tesi di Wiesendanger hanno ricevuto violenti attacchi. Intanto perché l’autore non è un virologo ma un fisico, poi perché la sua ricerca non avrebbe niente di scientifico, basandosi semplicemente su una raccolta di articoli di giornale, inclusi articoli della rivista Focus, il portale Epoch Times, nonché di Wikipedia – e video postati su Youtube e su altri social network. Non a caso, il virologo Bernhard Fleckenstein, dell’Università di Erlangen, è stato chiaro: “Il fisico non può mostrare alcuna concreta sequenza e la sua teoria non è convincente”. In ogni caso, la ricerca di Wiesendanger non è l’unica a puntare dritta sul laboratorio. Nel recente passato altre voci hanno ipotizzato una connessione – ritenuta “estremamente improbabile” dall’Oms – tra il laboratorio di Wuhan e la pandemia. L’ex segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, rilasciò le seguenti dichiarazioni a Fox News: “Sappiamo che questo virus ha avuto origine a Wuhan e che l‘Istituto di Virologia si trova a una manciata di miglia dal mercato ittico. Abbiamo davvero bisogno che il governo cinese si apra e aiuti a spiegare esattamente come si è diffuso questo virus”. Li Meng Yan, dottoressa che ha lavorato presso la Hong Kong School of Public Health, un laboratorio di riferimento in loco per l’Oms ha più volte ripetuto che “il coronavirus proviene dal laboratorio di Wuhan“. Miss Li ha pubblicato anche alcuni documenti, ma le sue teorie sono presto state “smascherate”. Un altro precedente riguarda il professor Luc Montagnier, Nobel per la Medicina nel 2008. A detta di Montagnier, il Sars-CoV-2 non sarebbe altro che un virus manipolato e uscito per sbaglio da un centro di ricerca cinese di Wuhan, specializzato per la ricerca sui coronavirus e dove si stava studiando il vaccino per l’Aids. Il parere dell’Oms è tuttavia ben diverso: secondo l’organizzazione con sede a Ginevra, il virus avrebbe quasi sicuramente origine naturale. Il dibattito e le polemiche proseguono.

DAGONEWS il 19 gennaio 2021. Avete ancora dubbi che La Cina ci abbia nascosto la verità? Alcuni medici cinesi, filmati di nascosto, hanno ammesso di sapere quanto fosse pericoloso il coronavirus quando ha iniziato a devastare Wuhan, ma hanno rivelato che gli è stato detto di mentire al riguardo. Inoltre hanno ammesso di essere a conoscenza di alcuni decessi causati dal virus già nel dicembre 2019, ma solo metà gennaio la Cina ha informato l’OMS dei primi morti. Questi dottori si sono anche resi conto che il virus si stava trasmettendo tra le persone, ma agli ospedali è stato detto di "non dire la verità". La nuova testimonianza, che sarà trasmessa stasera nel documentario di ITV “Outbreak: The Virus That Shook The World”, si scontra con la difesa dei cinesi che hanno sempre respinto le accuse di chi aver coperto l'epidemia nei primi giorni. Il video si aggiunge anche a un numero crescente di prove che la Cina ha mentito al mondo sulle prime fasi dell'epidemia di coronavirus, consentendole di trasformarsi in una pandemia globale. La Cina ha informato per la prima volta l'OMS di 27 casi dell'allora sconosciuta malattia il 31 dicembre 2019, senza riferire i decessi fino a metà gennaio. Ma i medici cinesi filmati di nascosto da un giornalista affermano che sapevano prima di allora che il virus era mortale. Un medico ha detto: «In realtà, alla fine di dicembre o all'inizio di gennaio, il parente di qualcuno che conosco è morto a causa di questo virus. Anche molti di coloro che vivevano con lui erano infetti, comprese le persone che conosco». Ancora il 12 gennaio, l'OMS diceva che non c'erano "prove chiare della trasmissione da uomo a uomo" e si era detto "rassicurato della qualità" della risposta della Cina. Ma un medico cinese ha detto: «Sentivamo tutti che non dovevano esserci dubbi sulla trasmissione da uomo a uomo». Secondo il loro racconto, ai medici che hanno partecipato a una riunione in ospedale è stato “detto di non parlare” della vera natura del contagio. «Sapevamo che questo virus si trasmetteva da uomo a uomo. Ma quando abbiamo partecipato a una riunione in ospedale, ci è stato detto di non parlare. I capi provinciali hanno detto agli ospedali di non dire la verità». Il 21 gennaio, quando l'OMS ha pubblicato il suo primo rapporto sulla situazione del virus, la malattia aveva infettato almeno 278 persone in Cina e si era diffusa in altri tre paesi. I medici affermano inoltre che le autorità conoscevano i rischi delle celebrazioni del capodanno, rendendosi conto che i viaggi e la folla potevano "accelerare la diffusione del virus": «Suggerivamo di non andare avanti con i festeggiamenti, ma si sono fatti perché si voleva dare l’immagine di una società armoniosa e prospera». La testimonianza dei medici di Wuhan è sostenuta da importanti virologi, tra cui lo specialista in malattie infettive, il dottor Yi-Chun Lo, vicedirettore generale dei Centers for Disease Control a Taiwan: «La gestione dell'epidemia è stata solo un pasticcio, un fallimento. Penso che la pandemia avrebbe potuto essere evitata all'inizio se la Cina fosse stata trasparente sull'epidemia e si fosse affrettata a fornire le informazioni necessarie al mondo».

Covid, OMS: “Wuhan, maxi diffusione a dicembre 2019: individuate 13 varianti”. Ilaria Minucci su Notizie.it il 16/02/2021. Le indagini condotte dall’OMS hanno portato alla scoperta di una maxi diffusione del Covid a Wuhan a dicembre 2019, presente con 13 varianti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) continua a interrogarsi sulle cause che hanno portato alla nascita del SARS-CoV-2. Gli investigatori incaricati di indagare sull’origine della pandemia hanno recentemente appreso che a Wuhan, epicentro dell’infezione, l’epidemia fosse già in corso a dicembre del 2019 e contasse numeri decisamente più alti rispetto a quelli sinora ipotizzati. Per questo motivo, gli investigatori stanno tentando di recuperare centinaia di migliaia di campioni di sangue prelevati ai cittadini del luogo che, sinora, la Cina ha gelosamente custodito.

Covid, OMS: maxi diffusione a Wuhan a dicembre 2019. Le verifiche in corso condotte dall’OMS sono oggetto di interesse a livello internazionale: in quest’ambino, si inserisce il colloquio ottenuto dalla CNN, emittente statunitense, con Peter Ben Embarek, l’investigatore da poco rientrato in Svizzera e che ha coordinato le ricerche a Wuhan. Durante l’esclusiva intervista, Peter Ben Embarek ha rivelato: «Il virus circolava ampiamente a Wuhan a dicembre, il che è una nuova scoperta». A questo proposito, l’esperto ha spiegato che il team, selezionato dall’OMS per indagare sul coronavirus, ha individuato svariati elementi attraverso i quali è possibile dimostrare che la diffusione del virus fosse già particolarmente ampia alla fine del 2019. Ancora più importante, il SARS-CoV-2 circolava anche in forma mutata: sono state isolate, infatti, più di una dozzina di varianti nella sola Wuhan. Gli investigatori OMS, poi, hanno avuto l’opportunità di concordare un incontro con il primo paziente cinese dichiarato infetto dai funzionari del luogo. Il soggetto, identificato come un impiegato di circa quarant’anni, è stato dichiarato positivo al coronavirus l’8 dicembre 2019. Da quel momento, nel corso del mese di dicembre, gli scienziati cinesi hanno indicato come casi di positività al Covid circa 174 cittadini originari di Wuhan: 100 sono stati confermati tramite analisi specifiche di laboratorio mentre altri 74 sono stati diagnosticati tramite diagnosi clinica delle sintomatologie del paziente. Rispetto ai dati forniti dai medici di Wuhan, tuttavia, Peter Ben Embarek è convito che i positivi al Covid fossero, in realtà, molti di più.

Wuhan, individuate 13 varianti Covid a dicembre 2019. La missione organizzata dall’OMS è stata affidata a un gruppo di 34 scienziati: 17 afferenti all’OMS stessa e 17 di nazionalità cinese. Le analisi condotte dal team hanno portato alla scoperta, nel solo mese di dicembre 2019, di 13differenti sequenze genetiche del SARS-CoV-2. Un simile risultato potrebbe rivelarsi fondamentale per ricostruire la geografia e i tempi che hanno caratterizzato l’epidemia prima del mese di dicembre. Ciononostante, l’investigatore Peter Ben Embarek si è rifiutato di commentare l’individuazione dei 13 ceppi mutati del virus e il ruolo che essi possano aver avuto sullo svilupparsi della pandemia. Dati di questo tipo, tuttavia, sembrano attestare che il coronavirus fosse in circolazione ben prima di dicembre 2019, come molti virologi ed esperti del settore hanno spesso ipotizzato.

Le dichiarazioni del virologo Edward Holmes. La scoperta fatta dagli investigatori dell’OMS è stata commentata dal professor Edward Holmes, un virologo impiegato presso l’Università di Sydney, in Australia, che ha spiegato: «Poiché c’è già una diversità genetica nelle sequenze di SARS-CoV-2 campionate da Wuhan nel dicembre 2019, è probabile che il virus stesse circolando per un po’ più a lungo di quel solo mese. Questi dati si adattano ad altre analisi che dicono che il virus è emerso nella popolazione umana primadel dicembre 2019 e che c’è stato un periodo di trasmissione criptica prima che fosse rilevato per la prima volta nel mercato di Huanan».

OMS, l’analisi di centinaia di campioni ematici. I primi risultati emersi dalle ricerche condotte dagli investigatori OMS e dagli esperti cinesi sono stati presentati nel corso di una recente conferenza stampa, protrattasi per circa tre ore. Dopo la conferenza stampa, sono stati diffusi sempre più particolari relativi alle indagini effettuate e in corso di svolgimento. Al momento, sembrano essere stati individuati dagli scienziati cinesi 92 casi sospetti da riclassificare probabilmente come contagi imputabili al Covid, registrati tra il mese di ottobre e il mese di novembre 2019. Il team dell’OMS ha richiesto che i 92 soggetti segnali vengano sottoposti a dei test per verificare l’eventuale presenza di anticorpi: 67 persone hanno accettato di sottoporsi agli esami, risultando negativi. Pertanto, sono stati disposti ulteriori esami per la verifica di altri parametri. Intanto, l’equipe dell’OMS ha manifestato l’intenzione di tornare in Cina per effettuare nuove analisi particolarmente urgenti su campioni biologici, non resi disponibile durante il primo viaggio organizzato: si tratta di migliaia di campioni ematici conservati presso la banca dei donatori di sangue di Wuhan che, come dichiarato da Peter Ben Embarek, potrebbero rivelarsi cruciali per la produzione di nuovi studi e la raccolta di dati. Ilaria Minucci

L’ultima scoperta dell’Oms: “A dicembre 2019 già 13 mutazioni del virus a Wuhan”. Federico Giuliani su Inside Over il 17 febbraio 2021. Nel dicembre 2019 i medici di Wuhan iniziarono a ricoverare in ospedale decine di pazienti affetti da una strana polmonite. In quei giorni, nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo di lì a poche settimane, non solo in Cina ma in tutto il mondo. Il vaso di Pandora era già stato scoperchiato, senza che qualcuno se ne accorgesse. Il Sars-CoV-2 circolava in Cina già nel corso del 2019, ovvero parecchi mesi prima dei casi riscontrati a Wuhan.

L’esame sui primi campioni. Gli esperti non sono ovviamente in grado di risalire al day one, anche se è praticamente certo che il virus misterioso fosse presente tra gli esseri umani molto prima di colonizzare giornali e tg di tutto il pianeta. Questa è, in estrema sintesi, la conclusione a cui è arrivato il team di scienziati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) al termine della missione di quattro settimane trascorsa nel capoluogo cinese dello Hubei, primo epicentro noto della pandemia di Covid-19. A rivelare il particolare, Peter Ben Embarek, ispettore capo della squadra inviata in Cina per svelare i misteri sull’agente patogeno. “A Wuhan il virus circolava ampiamente a dicembre, e questa è una nuova scoperta”, ha dichiarato Embarek alla Cnn. Si tratta di una rivelazione di fondamentale importanza, perché per la prima volta si ipotizza uno sfasamento temporale tra la scoperta del caso numero uno in quel di Wuhan e il momento esatto in cui il virus è saltato da un animale a un essere umano. La zoonosi – ancora da chiarire il serbatoio, forse un pangolino infettato da un pipistrello o forse un pipistrello stesso – è antecedente di un bel po’ di mesi rispetto al dicembre 2019. Quali sono le prove? Tutto è scritto negli esami sui campioni raccolti in quelle settimane.

Una dozzina di ceppi a dicembre 2019. Nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria, cioè a cavallo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, a Wuhan circolavano una dozzina di ceppi del virus, sembrerebbe 13. Vuol dire quindi che il Sars-CoV-2 aveva avuto modo di contagiare un discreto numero di persone prima di andare incontro a naturali mutazioni. In un certo senso, l’elevato numero di “trasformazioni” di un patogeno indica che la sua diffusione è stata altrettanto alta. Pare inoltre che il primo paziente accertato dalle autorità cinesi, l’8 dicembre, fosse un uomo di 40 anni, un impiegato, che non aveva mai effettuato viaggi all’estero. L’Oms lo ha intervistato per ricostruire i suoi spostamenti: l’uomo non aveva e non ha alcun legame con i mercati, trascorreva una vita normale e monotona e non è mai stato solito effettuare spostamenti rilevanti. Informazioni del genere lasciano presupporre che le origini della pandemia siano antecedenti alla comparsa ufficiale del virus. Ci sarebbero discrepanze anche sul numero di casi rilevati a Wuhan nel famigerato dicembre 2019, mese da cerchiare in rosso sul calendario. In quel periodo, i funzionari cinesi rilevarono 174 casi, di cui 100 confermati da test e i rimanenti attraverso l’esame dei sintomi. A detta di Embarek, i casi effettivi risalenti a dicembre 2019 sarebbero stimabili in oltre un migliaio. E questo perché è confermato che di tutti i malati  solo “il 15% manifesta sintomi gravi mentre la grande maggioranza ha una forma lieve”. Attenzione: questo non significa che la Cina abbia nascosto qualcosa. Data la natura sconosciuta del virus, soprattutto nella drammatica prima fase, è altamente probabile che i medici non siano effettivamente riusciti a rilevare tutti i pazienti infetti. L’Oms ha chiesto altri dati alla Cina sui casi iniziali di Covid-19. Ulteriori indizi potrebbero arrivare dai campioni stipati nella banca dei donatori del sangue di Wuhan, al momento protetti e non utilizzabili per sessioni di studio. Gli esperti auspicano di poter presto ottenere il via libera. 

Maurizio Tortorella per “La Verità” l'11 febbraio 2021. La missione dell'Organizzazione mondiale della sanità a Wuhan è terminata da meno di 24 ore, e già si scatenano le polemiche. I 17 esperti scelti dall'Oms, del resto, non hanno risolto nessuno dei misteri sull'origine della pandemia di Covid-19. Le ipotesi sul tavolo erano fondamentalmente tre prima della loro missione, ma tre restano anche dopo la sua conclusione: il virus potrebbe aver fatto un «salto» di specie da un animale all'uomo; ma potrebbe esserci stata anche una contaminazione attraverso cibi trattati lungo la catena del freddo; oppure il Covid potrebbe essere il frutto di esperimenti realizzati all'interno dell'Istituto di virologia di Wuhan, sul quale da tempo incombono allarmi e sospetti. Nei laboratori di quell'Istituto i 17 scienziati dell'Oms hanno condotto una visita di poche ore, un sopralluogo che come tutta la missione s' è svolto sotto l'occhiuta sorveglianza di 17 tecnici cinesi, i «commissari politici» che il regime di Xi Jinping ha affiancato loro come ombre. Malgrado la fretta e l'opacità, ieri il team dell'Oms ha dichiarato «estremamente improbabile» la tesi di una fuga del virus dal laboratorio e ha addirittura «raccomandato di non condurre ulteriori studi al riguardo». I 17 scienziati sembrano convinti che l'ipotesi più probabile sia che il Covid abbia avuto «un serbatoio naturale nei pipistrelli» venduti al mercato di Wuhan, ma hanno aggiunto che «è improbabile che questi animali vi fossero un anno fa». Insomma, un nulla di fatto. Il Dipartimento di Stato americano, che sotto l'amministrazione di Donald Trump aveva accusato la Cina di aver condotto esperimenti illeciti di guerra biologica nel laboratorio di Wuhan, e ipotizzato che il Covid ne fosse il frutto avvelenato, non ha cambiato idea sotto la nuova gestione di Joe Biden: ieri ha rimproverato a Pechino di «non aver garantito alcuna trasparenza alla missione» e ha chiesto di avere il rapporto dell'Oms per farlo analizzare da suoi esperti. Il governo statunitense ha sostenuto che «i cinesi non hanno offerto la trasparenza di cui la comunità internazionale ha bisogno, in modo che si possano impedire nuove pandemie». Pechino ha risposto invitando Washington a «mantenere un atteggiamento aperto e scientifico». Poi ha provocatoriamente chiesto agli esperti dell'Oms di condurre «studi sulle origini del coronavirus negli Stati Uniti» e ha aggiunto che «il Covid è emerso in varie parti del mondo nella seconda metà del 2019». Non è una novità: nei mesi scorsi i cinesi hanno sostenuto che anche l'Italia sia una delle potenziali «culle» del Covid. Anche l'Oms pare divisa. Al suo interno c'è chi si dice convinto che l'Istituto di virologia sia innocente: come Peter Daszak, uno degli esperti spediti a Wuhan dall'Oms, che ha invitato a «non fare troppo affidamento sulle informazioni dell'intelligence americana, sempre più superficiali sotto Trump e francamente sbagliate per molti aspetti». Ma un altro consigliere dell'Oms, Jamie Metzl, ieri ha detto il contrario: «I nostri investigatori a Wuhan», ha scritto su Twitter, «sbagliano al 100% nel dire che non dovremmo esaminare tutte le possibili ipotesi, inclusa la fuga accidentale dal laboratorio». Quel che oggi è evidente, comunque, è che la missione dell'Oms è riuscita solo a riportare al punto di partenza la battaglia propagandistica degli inizi della pandemia, quando Washington accusava Pechino di aver creato il virus, e Pechino accusava Washington di averlo introdotto in Cina con i suoi soldati, impegnati nell'ottobre 2019 nei «Giochi sportivi mondiali militari», svolti proprio a Wuhan. Resta il fatto che il team dell'Oms non ha avuto libertà d'indagine. E questa è soltanto l'ultima delle colpe rinfacciate al suo direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus, l'ex ministro etiope della Sanità più volte accusato di complicità con il regime cinese che nel 2017 aveva potentemente contribuito a eleggerlo in quel ruolo. La missione è anche iniziata troppo tardi, oltre un anno dopo la dichiarazione ufficiale della nuova malattia da parte delle autorità cinesi (era il 31 dicembre 2019). Il team dell'Oms è atterrato a Wuhan lo scorso 14 gennaio, ma ha potuto muoversi solo dopo due settimane per la quarantena imposta dalle autorità cinesi, così ha avuto solo una dozzina di giorni per sopralluoghi e verifiche sul campo. Ed è vero che i suoi 17 membri sono entrati nel laboratorio dei misteri. Ma un anno dopo lo scoppio della pandemia era ovvio che, se in quell'edificio ci fossero state prove di un incidente o ancor peggio di test di guerra biologica, la struttura militare che governa l'Istituto avrebbe avuto tutto il tempo di cancellarne le tracce. Per di più, la missione dell'Oms s' è trasformata a tratti in un imbarazzante strumento di propaganda per il regime: nel secondo giorno di sopralluoghi, per esempio, i poveri 17 esperti sono stati trascinati alla mostra con cui il Partito comunista cinese ha reso omaggio «al personale sanitario che ha sconfitto il virus». Il team dell'Oms è stato accolto in uno stanzone affollato di macabri manichini in tuta da infermiera e costellato da mille bandiere rosse. Gigantografie del presidente Xi dominavano la sala, e grandi pannelli celebravano la memoria di medici e infermieri uccisi dal coronavirus. Non propriamente quel che avrebbe dovuto osservare una missione d'indagine.

Esperti Oms in Cina, missione fallita. «Sull’origine del coronavirus Pechino ha omesso molti dati». Davide Ventola domenica 14 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che hanno svolto una missione in Cina per indagare sulle origini del Coronavirus hanno chiesto a Pechino più dati su possibili casi di Covid prima di dicembre. “Vogliamo più dati, abbiamo chiesto più dati”, ha dichiarato Peter Ben Embarek, capo della delegazione che si è recata a Wuhan. Una richiesta che il governo di Pechino non ha alcuna intenzione di soddisfare. Tanto da suscitare a Washington forti preoccupazioni.  “Sono state sollevate alcune domande sul fatto che alcune ipotesi” sulle origini del coronavirus Sars-CoV-2 “siano state scartate. Non caso Embarek ha detto chiaramente. “Desidero confermare che tutte le ipotesi rimangono aperte. Richiedono, inoltre, ulteriori analisi e studi. Alcuni di questi lavori” necessari “potrebbero non rientrare nel mandato e nello scopo di questa missione”. Detto in altri termini, la missione Oms è fallita. Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus ha fatto il punto la settimana scorsa. Ha anticipato il “buco nell’acqua” durante il briefing che si è tenuto a Ginevra. Alla riunione hanno partecipato anche due esperti della missione Oms che si è conclusa nel gigante asiatico. Sono Peter Ben Embarek, responsabile del team, e la virologa olandese Marion Koopmans. “Abbiamo sempre detto che questa missione non avrebbe trovato tutte le risposte, ma – ha assicurato Tedros – ha aggiunto importanti informazioni che ci avvicinano alla comprensione delle origini del virus. La missione ha potuto accedere a una migliore comprensione dei primi giorni della pandemia e ha identificato aree per ulteriori analisi e ricerche”. Nel team erano presenti esperti di Australia, Danimarca, Germania, Giappone, Paesi Bassi, Qatar, Federazione russa, Regno Unito, Stati Uniti e Vietnam. “E’ stato un esercizio scientifico molto importante in circostanze molto difficili”, ha sottolineato il Dg Oms, annunciando che ora “il team di esperti sta lavorando a un rapporto di sintesi che si spera venga pubblicato nei prossimi giorni. Mentre il report finale completo sarà pubblicato nelle prossime settimane. Attendiamo con impazienza di riceverli entrambi e li diffonderemo pubblicamente”. L’intero team potrà parlarne in occasione di un punto stampa.

Covid, Oms su indagine a Wuhan: “Hanno rifiutato alcuni dati chiave”. Velentina Mericio su Notizie.it il 13/02/2021. Tra Stati Uniti e Cina è tensione dopo il termine dell’indagine Oms a Wuhan. L’accusa dell'Oms: “Hanno rifiutato alcuni dati chiave”. C’è perplessità e preoccupazione da parte degli USA, dopo che l’indagine dell’Oms condotta a Wuhan è stata portata a termine. Se da una parte il direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha reso noto che i risultati e le informazioni raccolte sarebbero stati importanti, dall’altro lato lo stesso team che ha condotto la ricerca ha denunciato che mancherebbero dei tasselli importanti arrivando perfino ad accusare il Governo di Pechino di non aver fornito “alcuni dati chiave”. Troviamo poi anche la Casa Bianca che ha chiesto di avere a disposizione i dati del contagio a Wuhan “fin dai primi giorni dell’epidemia”. Una richiesta questa reiterata dagli stessi autori della ricerca, ma che non avrebbe portato ai risultati sperati con la Cina che avrebbe negato l’accesso a determinate informazioni. Tra gli Stati Uniti e la Cina è tensione. La ricerca condotta dall’Oms pur avendo portato “informazioni importanti” lascia dietro di sé numerosi interrogativi. La Casa Bianca si è mostrata preoccupata circa i risultati della ricerca arrivando a chiedere tramite Jake Sullivan che si abbia a disposizione i dati completi fin dai primi giorni della diffusione del contagio. Dati che, stando a quanto denunciato da Dominic Dwyer, uno dei membri del team di ricerca, non sarebbero stati forniti al grezzo, quanto piuttosto un riassunto. Ora però la situazione si complica con la conferenza stampa dell’Oms a Ginevra che avrà luogo nei prossimi giorni. “Tutte le ipotesi rimangono aperte e richiedono ulteriori analisi e studi”, ha dichiarato il direttore dell’Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus. Questa frase potrebbe portare a prendere nuovamente in considerazione una delle ipotesi più temute e quasi scartata dal team di esperti: “Il virus è davvero sfuggito da un laboratorio?”.

Valentina Mericio. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.

Cecilia Attanasio Ghezzi per "la Stampa" il 10 febbraio 2021. È «estremamente improbabile» che il nuovo coronavirus sia uscito da un laboratorio. A più di un anno dallo scoppio della pandemia, oltre cento milioni di contagi e due milioni di morti per Covid-19, la tanto difficile missione dell' Oms volge al termine senza risposte definitive. Dopo due settimane di quarantena e altrettante di ricerca sul campo, gli esperti dell' organizzazione mondiale della sanità sono in grado di escludere l' ipotesi della fuga del virus dal laboratorio, ma non hanno fatto alcun passo in avanti sull' origine del contagio. «Abbiamo cambiato drasticamente il quadro che ci eravamo fatti? Non credo» ha detto di fronte ai reporter di tutto il mondo lo scienziato danese portavoce della missione Oms Peter Ben Embarek. Ma ha poi aggiunto: «Abbiamo migliorato la nostra comprensione con nuovi dettagli? Certamente». La squadra internazionale, guidata e scortata delle autorità locali, ha visitato gli ospedali di Wuhan, il nuovo museo che celebra la vittoria cinese sul coronavirus, il mercato dove furono identificati i primi contagi nel dicembre del 2019 e l'Istituto di virologia dove si svolgevano esperimenti su pipistrelli e coronavirus. Non hanno trovato alcuna prova di una circolazione del virus prima del dicembre 2019 né hanno formulato nuove ipotesi su come sia arrivato al mercato di Huanan. La più plausibile rimane la zoonosi, ovvero la trasmissione dall' animale all' uomo, probabilmente attraverso una specie intermedia. Si è parlato di pipistrelli e pangolini, ma anche visoni e felini, vista la loro suscettibilità al Covid-19. Nella stessa conferenza stampa il professor Liang Wannian, della Commissione nazionale cinese per la salute, ha sottolineato come i virus identificati in queste specie sono «insufficientemente simili» per essere identificati come progenitori del Sar-Cov-2, ma sono degni di ulteriori approfondimenti come quelle teorie che vedono «un possibile ruolo della catena del freddo e dei prodotti surgelati nella trasmissione del virus, magari anche su lunghe distanze». Una narrazione cara alla Cina, che sempre più spesso rileva il virus nei prodotti surgelati di importazione. Al netto degli interrogativi che rimangono aperti, bisogna ricordare che l'Oms ha ricevuto il genoma del nuovo coronavirus solo dopo che almeno tre differenti laboratori cinesi lo avevano sequenziato e solo perché era stato pubblicato su un sito specialistico senza passare per l'approvazione governativa. Era l'11 gennaio 2020 e dovranno passare altre due settimane prima che Pechino fornisca dettagli sul numero dei casi e lo stato dei pazienti. La Cina, d' altronde, accettò un' ispezione dell' Oms solo il 28 gennaio, dopo che il suo direttore generale Tedros Gebreyesus espresse «rispetto e gratitudine» per la Repubblica popolare. Di qui il ritardo nel dichiarare lo stato di emergenza globale, il 30 gennaio 2020, con la conseguente perdita di settimane preziose in cui, secondo il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie cinese, i contagi potrebbero essere aumentati fino a 200 volte. Rimane agli atti l' impotenza dell' Oms che non ha poteri esecutivi, non può indagare in maniera indipendente e deve fare affidamento sulla cooperazione dei Paesi membri. In Cina, come nel resto del mondo.

Da “il Giornale” il 7 febbraio 2021. Sarebbe poco probabile l'ipotesi che il Coronavirus possa essere stato concepito in laboratorio. Secondo il pool di esperti internazionali che per conto dell'Oms (l'Organizzazione mondiale della salute) sta indagando a Wuhan sulle origini della pandemia molte teorie che hanno trovato spazio presso la stampa e l'opinione pubblica, compresa quella che il virus sarebbe «uscito» dal laboratorio dell'Istituto di Virologia di Wuhan, possono essere «eccellenti per un bel film o una serie tv nei prossimi anni», ma sono poco credibili. «Se iniziamo a inseguire fantasmi qua e là non andremo mai da nessuna parte», ha spiegato Peter Ben Embarek, capo della delegazione, precisando che l'incontro con gli scienziati cinesi al laboratorio dell'Istituto di Virologia di Wuhan, che si è svolto ieri, è stato «molto utile riguardo alle ipotesi che tutti noi abbiamo sentito e letto nei media». Una visita particolarmente importante proprio a causa della teoria - sostenuta anche dall'ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump - che da lì sarebbe uscito il virus. Nel laboratorio si conducono delle ricerche sulle malattie più pericolose del mondo e si studia anche la famiglia dei coronavirus. La stella polare che sarà seguita dagli scienziati giunti nella capitale dell'Hubei sarà quella della «scienza e dei fatti». «Siamo in grado - spiega Embarek - di spiegare perché alcune di quelle teorie sono totalmente irrazionali, perché altre possono, invece, avere un senso e perché altre ancora possono essere spiegate oppure no». Gli esperti dell'Oms hanno visitato a Wuhan diversi luoghi fatidici oltre al laboratorio di Virologia, compreso il mercato ittico nel quale sono emersi i primi casi di Covid-19. Il team ha trascorso anche due ore con manager e residenti del centro amministrativo della comunità di Jiangxinyuan nel distretto di Hanyang della capitale dell'Hubei. Le statistiche ufficiali mostrano che ci sono stati almeno 16 casi confermati nella comunità lo scorso anno su quasi 10mila persone che vivevano lì quando è scoppiato il virus. Lo zoologo e membro del team Peter Daszak ha elogiato gli incontri di mercoledì scorso con il personale dell'istituto di Wuhan, incluso il suo vicedirettore che ha lavorato con Daszak per rintracciare le origini della Sars che ha avuto origine in Cina e ha portato all'epidemia del 2003. Quel che è certo è che gli esperti della task force avrebbero incontrato a Wuhan un grado di collaborazione da parte dei colleghi cinesi superiore a quella che si sarebbero aspettati dopo i bastoni inizialmente messi tra le ruote dell'Oms da Pechino. Secondo gli scienziati internazionali la controparte cinese sta fornendo nella visita, che dovrebbe durare due settimane, un alto livello di cooperazione ma ha raccomandato cautela dall'aspettarsi risultati immediati dalla visita.

L’OMS a Wuhan: “Abbiamo ottenuto dati che nessuno ha mai visto prima”. Francesca Salvatore su Inside Over il 4 febbraio 2021. Dopo un percorso burrascoso, da alcuni giorni la missione dell’Oms a Wuhan ha finalmente avuto inizio. Sulle prime battute non sembrava ci fossero troppe speranze sugli esiti e la facilità di conduzione dell’inchiesta sull’origine della pandemia: sono troppi, infatti, i mesi trascorsi dallo scoppio della pandemia e restano numerosi dubbi sulla libertà d’azione che gli scienziati avranno in loco, sotto la stretta sorveglianza degli ospiti cinesi. L’Oms, che ha cercato di gestire le aspettative internazionali circa la missione, ha dichiarato venerdì scorso che i membri del team si sarebbero limitati alle visite organizzate dai loro ospiti cinesi e non avrebbero avuto alcun contatto con i membri della comunità, a causa delle restrizioni sanitarie.

Un clima collaborativo. Le notizie di queste ore, invece, fanno ben sperare: il team dell’Oms, infatti, avrebbe ottenuto dati “che nessuno ha mai visto prima” e non ha escluso la possibilità che il virus sia sfuggito realmente da un laboratorio, come si era ipotizzato all’inizio. Nella sua prima intervista a un’emittente britannica da quando è arrivato in Cina, Peter Daszak, zoologo britannico, presidente dell’organizzazione non governativa EcoHealth Alliance e membro della squadra, ha affermato che le visite in loco stanno offrendo informazioni preziose, in particolare quella al mercato ittico di Huanan, dove sono emersi i primi casi dell’epidemia. Queste nuove informazioni arrivano dai responsabili del mercato, dai fornitori che vi hanno lavorato e da chi ha raccolto campioni dal pavimento del mercato, risultati poi positivi. “Le tesi sono ancora tutte sul tavolo, siamo aperti a tutto”, ha spiegato Daszak che da anni collabora con l’Istituto di virologia in loco e con la dottoressa Shi Zhengli, la scienziata cinese nota come “Bat woman” per le sue ricerche sui pipistrelli. “Se i dati ci porteranno ad un mercato del pesce è lì che andremo, se ci porteranno in un allevamento di animali selvatici e lì che andremo, se ci porteranno in un laboratorio è lì che andremo”, ha spiegato Daszak, la cui nomina nel team dell’Oms è stata oggetto di numerose critiche visti i suoi stretti legami con la Cina.

Domande chiave e la vecchia ipotesi dei pipistrelli. Le domande guida del team continuano perciò ad essere “Dove sembrano portare le prove? Il mercato del pesce di Huanan era davvero l’origine di Covid? Qual è stato il primo caso in assoluto in quel mercato? O ci sono prove che circolasse più a lungo? Ci sono prove che gli animali siano stati coinvolti? I dati finora raccolti suggeriscono che il virus Covid-19 abbia avuto origine nei pipistrelli a ferro di cavallo, anche se gli scienziati devono ancora accertare se sia stato trasmesso direttamente agli esseri umani o attraverso un ospite intermedio. “Analizzeranno anche molti dati provenienti dagli sforzi di tracciamento dei contatti, risultati di tamponi animali, sequenziamento del genoma, ecc. È molto improbabile che in questa occasione si traggano conclusioni. È più probabile che si sviluppino ipotesi e si definisca il lavoro futuro”, ha dichiarato il prof Dale Fisher, esperto di malattie infettive del National University Hospital di Singapore, che ha partecipato alla missione tecnica dell’Oms in Cina nel febbraio dello scorso anno.

Per Pechino “non si tratta di un’indagine”. Mentre la missione continua, i media statali cinesi continuano a dubitare che il virus sia nato nella città della Cina centrale più di un anno fa, sostenendo ancora con fermezza l’ipotesi che il virus sia giunto a Wuhan attraverso i prodotti della catena del freddo. A questo proposito è proprio il professor Fisher a premere per una de-colpevolizzazione della Cina nell’atteggiamento generale della missione: “Il miglior risultato sarà raggiunto se il mondo consentirà un’indagine scientifica in un ambiente ‘senza colpa’. Le minacce politiche sono molto dannose”. Nel frattempo, in Cina, i media statali non si occupano eccessivamente della notizia ma assumono toni auto-apologetici: “L’accordo mostra che la Cina è pronta a rafforzare la cooperazione con l’Oms e mantiene un atteggiamento aperto, trasparente e responsabile nei confronti del tracciamento dell’origine globale del nuovo coronavirus” dichiara il People’s daily, chiarendo innanzitutto che “La visita degli esperti dell’OMS a Wuhan è uno di questi studi e scambi scientifici, e non è affatto una “indagine” politicamente guidata su chi sia la colpa della pandemia. Congetture o ipotesi infondate sulla questione interromperanno solo la normale cooperazione internazionale sul tracciamento dell’origine”. Un messaggio chiaro e forte all’Occidente.

Le indagini. Tecnici Oms lasciano Pechino: “Raccolti dati interessanti sull’origine del virus”. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 9 Febbraio 2021. Non è chiaro sia sia stato il pangolino, il pipistrello, o qualcuno degli animali in vendita all’ormai famoso mercato del pesce di Wuhan. Quello che è certo però è che il virus Sars-Cov-2 sia partito da un animale, per poi trasmettersi all’uomo, come subito ipotizzato dagli studiosi. “Il lavoro sul campo su quello che è successo all’inizio della pandemia non ha stravolto le convinzioni che avevamo prima di cominciare”, ha dichiarato Peter Ben Embarek, capo della missione dell’Oms a Wuhan, affermando che “tutti i dati che abbiamo raccolto fin qui ci portano a concludere che l’origine del coronavirus è animale”. Le ricerche hanno dimostrato che il virus può sopravvivere nei cibi surgelati, “ma non sappiamo ancora se da questi si può trasmettere all’uomo”. Gli scienziati sono incerti anche sull’”intermediario animale che ha diffuso il Covid”, anche se “i dati puntano verso i pipistrelli”, nonostante sia improbabile che questi animali si trovassero a Wuhan e che avessero la capacità di far fare al virus un “salto diretto” verso l’uomo. Accantonata quindi l’ipotesi di una fuga incontrollata dall’istituto di virologia di Wuhan, definita “estremamente improbabile” e anzi una tesi “ottima solo per un film o una serie tv”. Il lavoro congiunto in Cina del team di esperti dell’Oms e di Pechino adesso è terminato e si passerà al tracciamento dell’origine del Covid-19 nel resto del mondo “senza alcun vincolo di località”. Lo ha affermato nelle prime battute della conferenza stampa conclusiva della missione a Wuhan, Lian Wannian, a capo della delegazione di 17 esperti cinesi che ha affiancato quella di 17 scienziati internazionali dell’Oms, provenienti da 10 Paesi diversi. Per il team quindi la ricerca sull’origine del virus resta “work in progress”: rimane in piedi l’ipotesi pangolini e felini come primi portatori, anche se l’Oms non sembra orientata a proseguire le ricerche in questo senso. Una cosa è certa, rimarcata dallo stesso Embarek: si continuerà a “seguire la scienza e i fatti, senza dare la caccia ai fantasmi qui e lì”.

LA PANDEMIA. L’Oms: «Il Covid ha origine animale non viene dal laboratorio di Wuhan». La squadra di esperti non ha, però, ancora una risposta certa sulla nascita della Sars-CoV-2. Gli indiziati sono sempre i pipistrelli. E si indaga sui prodotti surgelati di importazione. Guido Santevecchi su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2021 Il coronavirus che ha scatenato la pandemia è di origine animale; l’ipotesi di un errore in laboratorio è «estremamente improbabile». È questa la rilevazione più concreta raccolta a Wuhan dalla missione dell’Organizzazione mondiale della sanità, finita oggi con una conferenza stampa che ha lasciato aperti quasi tutti i dubbi che avvolgono l’emergenza sanitaria. Non ci sono ancora risposte definitive alle domande che da più di un anno dividono il mondo: come, quando e da dove è partito il Sars-CoV-2 che ha scatenato la pandemia di Covid-19? «Non abbiamo scoperto qualcosa che abbia drammaticamente cambiato la storia. Non sappiamo quale ruolo abbia avuto il mercato di Wuhan. Però abbiamo aggiunto nuovi dettagli importanti per la nostra comprensione», ha detto Peter Ben Embarek, capo della squadra di esperti dell’Oms arrivata a Wuhan il 14 gennaio, tenuta in quarantena sanitaria per due settimane e poi accompagnata dalle autorità cinesi nelle due settimane successive in un paio di ospedali, nel museo che celebra la vittoria cinese sul coronavirus, nel mercato Huanan del pesce e degli animali esotici dove furono identificati nel dicembre del 2019 i primi contagi, nell’Istituto di virologia dove si svolgevano anche studi sui pipistrelli, gli animali sospettati di essere stati la prima fonte del coronavirus. Il dottor Embarek ha elencato le quattro ipotesi sull’inizio del contagio sulle quali si è concentrata l’indagine: 1) trasmissione diretta del coronavirus da una specie animale all’uomo; 2) salto attraverso una specie intermedia; 3) diffusione attraverso la catena alimentare; 4) errore di laboratorio. Gli esperti dell’Oms si sentono di escludere che il Sars-CoV-2 sia sfuggito dal laboratorio di Wuhane non credono che sia il caso di continuare a cercare in quella direzione. Le prime tre ipotesi meritano di essere ancora indagate. Per quanto riguarda l’animale dietro la pandemia i pipistrelli restano i maggiori indiziati, ma ammesso e non ancora concesso che il «colpevole» sia stato il pipistrello, bisogna continuare a studiare per identificare la specie intermedia che ha permesso al coronavirus di entrare in contatto con il genere umano. E gli esperti dell’Oms non si sbilanciano nemmeno sulla «nazionalità» dei pipistrelli. Si è molto parlato in questi mesi di paura e incertezze delle grotte dello Yunnan, lontane duemila chilometri da Wuhan, dove aveva fatto molte ricerche la professoressa Shi Zhengli dell’Istituto di Wuhan, soprannominata Bat Woman. Il dottor Embarek e i suoi colleghi dicono che i pipistrelli portatori del coronavirus potrebbero essere annidati in altri Paesi fuori dalla Cina e «il percorso potrebbe essere stato molto complesso». «Il lavoro in Cina è terminato, ora bisogna cercare risposte in altri Paesi, il mercato di Wuhan non è il luogo dove è stato individuato il primo caso di infezione», ha detto Liang Wannian, capo del team cinese che ha affiancato passo dopo passo gli esperti internazionali e si è preso una buona mezz’ora della conferenza stampa per caldeggiare la teoria cinese che bisogna investigare nella catena alimentare dei prodotti surgelati di importazione. Secondo Liang, i medici di Wuhan individuarono il primo caso di infezione l’8 dicembre, ma non collegato al mercato. Il primo malato passato per il mercato sarebbe stato scoperto il 12 dicembre. Perché allora la prima esplosione dell’epidemia ha investito Wuhan? Bisognerà studiare ancora, per capire e prevenire nuove pandemie, dicono gli investigatori dell’Organizzazione mondiale della sanità. Dopo 13 mesi, 107 milioni di malati e 2,3 milioni di morti, il mondo aspetta ancora una risposta.

Non si ferma la guerra di propaganda sul Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 9 febbraio 2021. Da una parte il Wuhan Institute of Virology, dall’altra Fort Detrick. Il primo è il laboratorio massima sicurezza di Wuhan, megalopoli cinese situata nella provincia dello Hubei, dove un anno fa sono stati rinvenuti ufficialmente i primi casi di Covid-19. Il secondo è il nome attribuito un’istallazione medico-militare americana del Maryland, al cui interno trova spazio lo United States Army Medical Research Institute of Infectious Diseases (USAMRIID). L’edificio di Wuhan, inaugurato nel 2015, è gestito dall’Accademia cinese delle scienze. Al suo interno troviamo vari centri di ricerca, tra cui il Dipartimento di Virologia molecolare, il Centro cinese di risorse e bionformatica dei virus e quello per le malattie infettive emergenti. Quest’ultimo, tra l’altro, è diretto da Shi Zhengli, la famosa virologa cinese soprannominata Bat woman per via dei suoi studi sui pipistrelli. Fort Detrick ospita invece il citato USAMRIID, il principale centro americano per la ricerca sulle contromisure da adottare nel caso in cui dovesse scoppiare una guerra biologica. Appartiene alla U.S. Army Medical Command, ed è controllato dall’esercito statunitense. Stiamo parlando di due strutture strategiche per i rispettivi Paesi. Laboratori che, in modalità differenti, si sono tuttavia ritagliati capitoli importanti nella narrazione relativa alla pandemia di Covid-19.

Narrazioni a confronto. Nei mesi scorsi Donald Trump ha più volte ripetuto la stessa versione: secondo l’ex presidente americano, il Sars-CoV-2 sarebbe fuoriuscito dal laboratorio di Wuhan. L’amministrazione guidata da The Donald ha ripetutamente puntato il dito contro la Cina, rea di aver contribuito a diffondere la pandemia di Covid-19 nel mondo intero. Poco importa se questa tesi, al momento, non trova alcuna conferma scientifica ed è stata smentita da esperti e scienziati: la narrazione di Trump, intrisa di una chiara strategia geopolitica, mirava a screditare Pechino agli occhi del pianeta. Accanto al punto di vista americano, è presto apparso quello cinese. La narrazione del Dragone segue una pista differente. I riflettori sono puntati sui Giochi Olimpici di Wuhan, andati in scena nell’ottobre 2019. In quell’occasione, un virus misterioso potrebbe esser stato portato oltre la Muraglia dall’esercito americano. Anche in questo caso, non ci sono prove sufficienti per confermare la versione. Certo è che il mondo, polarizzato dalla nuova Guerra Fredda, si è letteralmente spaccato in due, tra chi ha subito sposato la narrazione di Trump e chi quella ipotizzata dal portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian.

La struttura di Fort Detrich. Del Wuhan Institute of Virology abbiamo già scritto in maniera approfondita. Vale dunque la pena concentrarci su Fort Detrich, per capire dove affondano le radici della narrazione di Pechino. Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità è in missione proprio a Wuhan, a caccia di indizi sulle origini del virus, sui social cinesi c’è chi si sta chiedendo, in tono polemico, perché l’Oms non intenda effettuare alcun sopralluogo anche nel Maryland. Qui il laboratorio di ricerca sulle armi batteriologiche è stato sigillato improvvisamente nel luglio 2019. Come sottolinea Politico, Detrick è uno dei laboratori all’avanguardia al mondo per la ricerca sulle tossine e antitossine, il luogo in cui si sviluppano le difese contro ogni piaga, dal fungo delle colture all’Ebola. I media cinesi, inoltre, hanno sottolineato un fatto misterioso: il laboratorio di Fort Detrick avrebbe dovuto sospendere momentaneamente le sue attività in seguito a un ordine di cessazione emesso dai Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie. La sospensione era dovuta a molteplici cause, tra cui la mancata osservanza di alcune procedure e l’assenza di formazione per i lavoratori impegnati nei laboratori di biocontenimento. A quanto pare neppure il sistema di decontaminazione delle acque reflue del laboratorio sarebbe riuscito a soddisfare gli standard stabiliti dal programma Federal Select Agent. Una storia senza ombra di dubbio misteriosa. Una storia che, al tempo dello scontro Usa-Cina, ha spinto vari esponenti del governo cinese a chiedere all’Oms di fare luce anche su Fort Detrick. 

Toni Capuozzo contro l'Oms: "Coronavirus non nato in laboratorio? Ecco la loro credibilità...", cosa scova il giornalista. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2021. Oggi, martedì 9 febbraio, l'Organizzazione mondiale per la sanità ci ha fatto sapere che il coronavirus non viene da un laboratorio. L'Oms, in missione in Cina, insomma prova a rassicurare il mondo sulle origini della pandemia (e fa quadrato attorno a Pechino). Il tutto nel contesto di una spedizione molto discussa, non del tutto indipendente, così come l'Oms non è del tutto indipendente dalla Cina, che è tra i principali finanziatori dell'organizzazione. Insomma, nessun dubbio, da parte dell'Oms, sull'origine naturale della pandemia che sta funestando il pianeta (la stessa pandemia da cui la Cina è uscita prima di tutti, con un clamoroso e a tratti inspiegabile vantaggio sui vaccini). E contro l'Oms, ecco aprire il fuoco un insospettabile come Toni Capuozzo. Il giornalista lo fa su Twitter, mostrando tutto il suo scetticismo per la presa di posizione dell'Organizzazione mondiale della Sanità. Lo fa nello spazio concesso da un cinguettio, nel quale scrive: "L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS o, in inglese, WHO) rassicura da Wuhan: il virus non viene da un laboratorio - premette Capuozzo -. Sulla obbiettività, indipendenza e credibilità dell'organizzazione guardate questo tweet del gennaio 2020: tranquilli, a Wuhan tutto ok", sottolinea sarcastico. E in calce, appunto, Capuozzo allega un tweet dello stesso Oms, risalente al 14 gennaio del 2020, agli albori della pandemia, quando ancora nessuno immaginava che sarebbe arrivato non solo in Italia, ma in tutto il resto del mondo. E in quel cinguettio, l'Oms rassicurava: "Le indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi non hanno trovato alcuna prova circa la trasmissione uomo-a-uomo del coronavirus che è stato individuato a Wuahn, Cina". Il resto è storia. Come sia andata è drammaticamente sotto agli occhi di tutti. Dunque, ci facciamo interpreti del pensiero di Capuozzo, come si può credere all'Oms?

Esperti Oms a Wuhan: “Stanno condividendo con noi dati mai visti prima”. Asia Angaroni su Notizie.it il 04/02/2021. "Stanno condividendo dati con noi che non avevamo visto prima. Ci parlano apertamente di ogni possibile strada", fa sapere il team dell'Oms. Gli esperti dell’Oms hanno visitato l’Istituto di Virologia di Wuhan, per cercare di ricostruire le origini del coronavirus, verificare eventuali responsabilità del gigante asiatico o comprendere il ruolo assunto nella pandemia. Il team di esperti segnala nuovi progressi e “dati mai visti”. Proseguono le indagini degli esperti dell’Organizzazione mondiale della sanità in corso a Wuhan. Dopo i 14 giorni di quarantena previsti all’ingresso in Cina, il team dell’Oms è al sesto giorno di lavoro sul campo. Continuano ricerche e verifiche per fare luce sull’origine della pandemia. Gli esperti hanno visitato il laboratorio di massima sicurezza dell’istituto di virologia della città, che nei mesi scorsi è stato bersaglio di critiche e sospetti. Gli scienziati hanno incontrato anche Shi Zhengli, famosa virologa cinese soprannominata “bat-woman” perché recentemente premiata per i suoi studi sui virus nei pipistrelli. Il colloquio con lei è stato “estremamente importante”. Così ha fatto sapere su Twitter Peter Daszak, uno degli esperti del team in Cina e presidente della Ong EcoHealth Alliance, dedicata alla protezione della fauna selvatica e degli esseri umani da malattie infettive emergenti. La stessa Shi Zhengli ha sottolineato che il pipistrello è uno degli ospiti naturali del coronavirus Sars-nCoV-2. Al momento però, resta il mistero su come possa essersi verificato il salto di specie. Gli esperti dell’Oms e lo staff del Wuhan Institute of Virology hanno trascorso tre ore e mezza nel laboratorio. Hanno avuto una “schietta e aperta discussione”, sono state poste domande essenziali, che hanno ricevuto risposta da parte degli interlocutori cinesi. La squadra dell’Oms intanto prosegue i suoi lavori di indagine con “mentalità aperta”. Visite, incontri e risultati finora sembrano soddisfacenti. A confermarlo è sempre lo scienziato Peter Daszak. “Stanno condividendo dati con noi che non avevamo visto prima, che nessuno aveva visto prima. Ci parlano apertamente di ogni possibile strada. Stiamo davvero facendo progressi e penso che ogni membro del gruppo possa dirlo”, ha dichiarato in un’intervista Sky News. Alla Nbc ha ribadito: “Tutto è sul tavolo e stiamo mantenendo una mentalità aperta. Se la prova è là, la seguiremo“, ha dichiarato alla Nbc. L’istituto di virologia di Wuhan, fondato nel 1956, ospita l’unico laboratorio di livello massimo di bio-sicurezza in Cina. Stando a quanto precisato dal tabloid Global Times, la struttura “segue severi standard internazionali”, come laboratori simili localizzati in altre città del mondo.

Asia Angaroni. Nata a Varese, classe 1996, è laureata in Comunicazione. Collabora con Notizie.it.

Coronavirus nel mondo, gli esperti contro Cina e Oms: "Avrebbero dovuto reagire prima". La Repubblica il 18 gennaio 2021. Nel Regno Unito già 4 milioni di vaccinati. L'Australia potrebbe non riaprire le frontiere agli stranieri nel 2021. Il Brasile approva due vaccini. In due hotel di St. Moritz quarantena per la variante inglese. Cina, 100 contagi al giorno da 6 giorni.

Gli esperti attaccano Pechino e Oms. L'Oms e Pechino avrebbero potuto reagire più rapidamente all'inizio dell'epidemia di Covid-19, hanno concluso gli esperti indipendenti incaricati di valutare la risposta mondiale, affermando che la diffusione del virus ha beneficiato di una "epidemia in gran parte nascosta". Nel suo secondo rapporto, che sarà presentato domani in una riunione presso l'Organizzazione Mondiale della Sanità, il gruppo di esperti ha affermato che "facendo riferimento alla cronologia iniziale della prima fase dell'epidemia, è chiaro che sarebbe stato possibile agire più rapidamente sulla base dei primi segnali".  "E' chiaro al gruppo di esperti

indipendenti che le misure di sanità pubblica avrebbero potuto essere applicate più vigorosamente dalle autorità locali e nazionali cinesi a gennaio", si legge nel rapporto. Gli esperti sottolineano anche la lentezza dell'OMS nel convocare il suo comitato di emergenza all'inizio della pandemia e la sua riluttanza a dichiarare un'emergenza sanitaria internazionale. Dall'inizio della crisi sanitaria alla fine del 2019, l'OMS è stata fortemente criticata per la sua risposta, compreso il ritardo nel raccomandare l'uso generalizzato di mascherine. In particolare, l'Organizzazione è stata accusata dagli Stati Uniti di essere estremamente compiacente con la Cina, dove è emerso il coronavirus, e di essere in ritardo nel dichiarare un'emergenza sanitaria globale.

LE TRE DATE CHE INCASTRANO PECHINO: LAVORAVA ALLA CURA A EMERGENZA NON ESPLOSA. Maurizio Tortorella per “La Verità” il 18 gennaio 2021. Il rapporto sul Covid-19 e sulle responsabilità della Cina, che l'amministrazione americana ha divulgato attraverso le parole del segretario di Stato Mike Pompeo nella notte tra venerdì e sabato, attacca Pechino e colpisce nel vivo. Perché è evidente che sul Covid-19 il governo cinese mente. Per averne la conferma, basta mettere a confronto tre date.

La prima è il 31 dicembre 2019, il giorno in cui la Cina denuncia all'Organizzazione mondiale della sanità che a Wuhan è in atto «un'epidemia di una nuova forma di polmonite virale».

Da quel giorno, l'Oms attende oltre due mesi per proclamare al mondo che è scoppiata la pandemia di un virus che sarà definito il Covid-19: l'annuncio risale all'11 marzo 2020, quando il capo dell'Oms, l'etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, rivela che il virus sta esplodendo: «Ci sono 118.000 casi in 114 Paesi», dichiara, «e 4.291 persone hanno perso la vita».

Per la terza data, invece, bisogna tornare indietro di un poco, al 28 gennaio 2020. È quello il giorno in cui la Sinovac, colosso farmaceutico di Pechino, avvia le ricerche per produrre il CoronaVac, il vaccino contro il virus che Pechino oggi presenta come l'arma finale contro il contagio. Vi sembra impossibile? Avete ragione.

Se la Cina denuncia il Covid-19 a fine dicembre, e se il mondo viene informato della pericolosità del contagio solo ai primi di marzo, com'è possibile che la Sinovac abbia già iniziato a lavorare al vaccino contro il virus? Come si spiega che il 28 gennaio, mentre la diffusione del Covid è ancora ai primi passi, in Cina ci sia chi sta già elaborando la ricetta per neutralizzarlo? Eppure è così. La Verità ne ha scoperto autorevoli conferme online: il sito americano Biotech, che dal 1985 registra tutte le principali novità dell'industria farmaceutica, in una pagina pubblicata lo scorso 7 dicembre scrive che «Sinovac Biotech Ltd ha iniziato lo sviluppo di un vaccino contro il Covid-19 (denominato CoronaVac) il 28 gennaio 2020». Il sito indiano Healtworld è ancora più accurato, e in una pagina datata 7 luglio spiega che «Sinovac Life Sciences Co, società controllata dalla Sinovac Biotech Ltd, ha iniziato lo sviluppo di un vaccino contro il Covid-19 in Brasile il 28 gennaio 2020». L'incrocio delle tre date conferma con forza la dirompente validità delle accuse presentate dal governo statunitense, di cui ieri in Italia soltanto La Verità ha dato notizia, nel sorprendente silenzio di quotidiani e telegiornali. L'incrocio delle tre date dimostra infatti che il regime di Xi Jinping era pienamente consapevole della contagiosità del Covid molto tempo prima delle prime segnalazioni ufficiali. Insomma, ne ha nascosto per mesi la pericolosità al mondo. Volontariamente. Su questo punto, più volte è stata coinvolta nelle critiche la lentezza di reazione dell'Oms, sul cui direttore Ghebreyesus grava l'accusa di un'eccessiva vicinanza al regime cinese. Una prova se ne ha proprio il 28 gennaio di un anno fa, decisamente un giorno cruciale per il Covid. Proprio quel misterioso martedì, infatti, mentre la Sinovac avvia i suoi precocissimi studi sul virus, Ghebreyesus, è a Pechino, dove incontra a tu per tu il presidente Xi. Al termine del vertice, il direttore dell'Oms fa un discorsetto per elogiare pubblicamente «la serietà con cui il governo cinese sta prendendo questa epidemia, e in particolare l'impegno dei vertici e la trasparenza che hanno dimostrato». Aggiunge che l'Oms «sta lavorando a stretto contatto con il governo sulle misure per contenere il virus». Un anno più tardi, con un ritardo ancora una volta clamoroso, una delegazione dell'Oms è atterrata a Wuhan, dove finalmente dovrebbe indagare sulle origini di una pandemia che nel frattempo ha ucciso due milioni di persone e massacrato l'economia globale, con la sconcertante eccezione di quella cinese. Agli esperti dell'Oms, però, non è stata data alcuna libertà di movimento ed è stato vietato l'accesso all'opacissimo laboratorio del Wuhan institute of virology, dove il rapporto americano sospetta tutto sia iniziato, forse per un errore umano o forse per qualcosa di molto peggio. Il rapporto ipotizza infatti che a Wuhan si conducessero studi su nuove armi biologiche e denuncia che il laboratorio era «impegnato in ricerche per l'esercito cinese, compresi gli esperimenti sugli animali». In Coronavirus made in China (Rubettino editore), Antonio Selvatici conferma che nel gennaio 2020 il laboratorio è stato commissariato da un team di soldati-scienziati guidati dal generale Chen Wei, una virologa a capo dell'Accademia delle scienze mediche militari. Global Times, organo del Partito comunista cinese, annota che Chen era arrivata a Wuhan il 26 gennaio. Poi ha cominciato a lavorare al vaccino.

(ANSA il 18 gennaio 2021) La Cina e l'Oms "avrebbero potuto agire più rapidamente" all'inizio dell'epidemia quando si sono manifestati i primi "segnali": è quanto sostengono gli esperti indipendenti incaricati dalla stessa Organizzazione mondiale della salute di presentare un rapporto sulla gestione della pandemia.

 (ANSA il 6 gennaio 2021) I ritardi della missione in Cina a lungo pianificata degli esperti dell'Oms per indagare sulle origini della pandemia del Covid-19 "non sono solo una questione di visti". I colloqui, ha affermato la portavoce del ministero degli Esteri Hua Chunying, continuano "sulla data specifica e sull'organizzazione specifica della visita del gruppo di esperti". Ieri il direttore dell'Oms Tedros Adhanom Ghebreyesus ha annunciato, come previsto, la partenza dell'equipe di scienziati per la Cina, dichiarandosi "molto deluso" per il mancato via libera delle autorità di Pechino. (ANSA).

AGI il 6 gennaio 2021. - E' la missione dell'Oms che dovrebbe fare chiarezza sull'orgine del virus che ha sconvolto il mondo, il Covid-19. Ma per ora stenta a decollare. Due scienziati del team sono già partiti ma la Cina non ha ancora concesso le autorizzazioni necessarie. Lo ha reso noto il direttore generale della stessa organizzazione Onu, Tedros Adhanom Ghebreyesus. E il biologo etiope, spesso accusato di guardare con un occhio di favore a Pechino, non ha nascosto il suo sconcerto: si è detto "molto deluso". Anche perchè due scienziati scelti dall'Oms per la missione erano già partiti: uno ha dovuto fare marcia indietro e l'altro si è fermato in attesa in un terzo Paese; mentre il resto dell'equipe, che deve cominciare a lavorare martedì, per il momento non è proprio partito. Tedros ha detto di essersi messo "in contatto con alti funzionari cinesi" e di aver detto loro "per l'ennesima volta che la missione è un priorità per l'Oms", e ha aggiunto che vuole vedere la partenza "il più rapidamente possibile". Al momento, ha spiegato un altro dei funzionari Oms, il responsabile delle situazioni di emergenza, Michael Ryan, il problema sembra essere una questione di visti: "Speriamo che si tratti semplicemente di un problema logistico e burocratico e che possiamo risolverlo rapidamente".Il 'via libera' alla missione era arrivato a metà dicembre, dopo mesi di complicato negoziato. La Cina, che sta cercando di cambiare la narrativa di quanto è accaduto e cerca di scrollarsi di dosso l'immagine che sia il Paese da cui ha avuto origine una pandemia che ha causato più di 1,8 milioni di morti e sconvolto la vita del pianeta, ha sempre puntato i piedi. Di recente ha anche sostenuto che il virus possa essere arrivato dall'estero, dal momento che ne è stata trovata traccia in cibo congelato da importazione e che alcuni studi scientifici ritengono fosse presente in Europa già lo scorso anno.      L'Oms, al termine di un lungo processo di selezione, ha scelto 10 eminenti scienziati che dovranno cercare di analizzare l'origine del virus e capire come si è trasmesso all'uomo: l'accordo con Pechino è che si rechino proprio a Wuhan, la città della Cina interna dove tutto è cominciato ormai un anno fa. Le autorità cinesi infatti denunciarono all'Oms il primo caso di una allora misteriosa polmonite il 31 dicembre 2019 e chiusero il mercato di animali vivi di Wuhan dal quale ritennero fosse partita l'infezione. La vera origine del virus e la maniera in cui sarebbe passato da animale a uomo è però ancora un mistero. E la presenza a Wuhan di un importante istituto di virologia ha scatenato le ipotesi più disparate in chi sospetta che il SARS-CoV-2 possa essere uscito accidentalmente dai suoi laboratori. La squadra a Wuhan dovrebbe poter esaminerà i campioni umani e animali raccolti dai ricercatori cinesi nella prima fase dello studio (se non sono stati distrutti) mentre non è chiaro se possa visitare il laboratorio. L'accordo con Pechino è che resti nella città cinese per sei settimane. Un agente patogeno simile ma non identico a quello che causa il Covid-19 era stato identificato nel "ferro di cavallo minore", una specie di pipistrello. Peter Ben Embarek, il massimo esperto in malattie animali dell'Oms, ha spiegato che i membri della missione contatteranno i lavoratori del mercato per chiedere loro come siano stati infettati. L'ipotesi iniziale che il virus sia stato trasmesso all'uomo tramite il consumo di un animale infetto ha però perso quota. Il 'wet market' di Wuhan ora è ritenuto il luogo dove il nuovo coronavirus ha avuto la prima diffusione di massa, non il luogo di origine, che rimane ancora un mistero. Ma insomma al momento tutto questo per ora è rimandato visto che gli scienziati non sono neppure partiti.  

Sergio Carli per blitzquotidiano.it il 4 gennaio 2021. Coronavirus, noto anche come covid – 19: lo ha causato da una fuoriuscita di liquido da un laboratorio governativo a Wuhan, in Cina. “Ci sono sempre più prove. Il laboratorio cinese è la più probabile sorgente del virus”, ha detto Matthew Pottinger, vice National Security Advisor degli Usa. Pottinger è sempre stato un tenace critico di Pechino. Ha rilanciato l’accusa in una riunione via Zoom con alcuni parlamentari britannici. Secondo Pottinger, le ultime indicazioni dell’intelligence puntano all’ultra segreto Istituto di Virologia di Wuhan, appena 18 chilometri dal famoso mercato con i pipistrelli vivi, come prima fonte del coronavirus. La rivelazione è subito stata filtrata al Daily Mail, che l’ha resa pubblica, definendo Pottinger un “rispettato” funzionario dell’Amministrazione Trump. Rilanciando la notizia in America, il New York Post chiosa. Pottinger ha riproposto la teoria di Wuhan proprio mentre l’Unione Europea ha raggiunto un nuovo accordo sugli investimenti con la Cina. Accordo che ha provocato le proteste dello stesso Pottinger e perplessità da parte dello staff del presidente-eletto Biden.

Fra i primi al mondo a accusare la Cina per il coronavirus. Pottinger fu tra i primi al mondo, fin da gennaio 2020, a indicare il laboratorio come sorgente del coonavirus. Parlando in questi giorno con gli inglesi ha ribadito che il virus può essere sfuggito, “a causa di una fuga o di un incidente”. E ha aggiunto: “Anche figure dell’establishment cinese a Pechino hanno apertamente escluso la storia del mercato”. Pottinger ha anche detto di non nutrire molta fiducia nel team di esperti della Organizzazione Mondiale della Sanità che presto si recheranno a Wuhan per indagare su come la pandemia ha avuto inizio. Data l’influenza che la Cina esercita sulla OMS, l’inchiesta sarà annacquata, secondo Pottinger. Finora tutte le indagini della OMS non hanno dato risultati e il paziente Zero non è stato mai trovato. Pottinger ha definito l’inchiesta della OMS sul coronavirus un “esercizio alla Potemkin”, con riferimento ai falsi villaggi fatti costruire nel ‘700 in Crimea dal favorito di Caterina per convincere la zarina che la regione godeva di buona salute. Secondo gli inglesi, gli americani si baserebbero sulle rivelazioni di almeno una scienziata fuggita dalla Cina dopo avere lavorato proprio nel laboratorio di Wuhan. Il fatto che i cinesi non hanno mai consentito ai giornalisti di visitare il laboratorio rafforza i sospetti.

Giornalista che parla mandarino. Matthew Pottinger parla correntemente mandarino, ha fatto il giornalista per Reuters e Wall Street Journal, ha servito nel corpo dei Marines ed è stato capo dell’ufficio asiatico della NSA prima di diventarne numero due a Washington.

Le origini del “cugino” del Sars-CoV-2. Federico Giuliani su Inside Over il 4 gennaio 2021. Continua la caccia alle origini del Sars-CoV-2. Poche le certezze fin qui raccolte, tante le supposizioni, molte delle quali probabili ma prive di conferme scientifiche. Tra le versioni che più hanno convinto gli esperti, spicca quella del “salto di specie” avvenuto, in circostanze ancora da chiarire, a causa del ruolo svolto da un “ospite intermedio”. Un animaletto (un pangolino? Uno zibetto?) che, dopo essere stato contagiato dal virus, e grazie a particolari condizioni ambientali (lo scarso igiene di certi wet market?) sarebbe riuscito a infettare un essere umano. La seconda parte dell’assunto sostiene che l’untore sconosciuto possa essere arrivato al mercato ittico di Huanan, nel cuore di Wuhan, probabilmente provenendo da qualche distretto situato nella provincia dello Yunnan. Dove, nel 2012, una misteriosa malattia respiratoria simile al Sars-CoV-2, contagiò sei persone uccidendone tre. Quella malattia era causata da un virus denominato RaTG13 o anche RaBtCoV/4991. A identificarlo fu niente meno che Shi Zengli, la più famosa virologa della Cina, nota per aver costruito uno dei più grandi archivi di coronavirus esistenti al mondo. Molti degli agenti patogeni da lei elencati provengono da pipistrelli di varie specie. Non a caso, questo animaletto della notte è un perfetto serbatoio di virus.

Parenti stretti. Gli esperti ritengono che la Sars, sindrome respiratoria affine al Sars-CoV-2 – che, a cavallo tra il 2002 e il 2003, mise in ginocchio la Cina – possa provenire da un pipistrello. Si pensa che anche il nuovo coronavirus, comparso per la prima volta a Wuhan nel dicembre 2019, sia arrivato all’uomo dallo stesso animale, magari mediante un organismo intermedio. Al fine di rintracciare l’origine del Sars-CoV-2 potrebbe dunque essere utile focalizzarci sui pipistrelli. E, quindi, partire da quanto emerso in seguito alle indagini effettuate dieci anni fa nello sperduto distretto di Tongguan, nella provincia dello Yunnan, non distante dal confine cinese con Myanmar e Laos. Prendiamo il virus responsabile della mini-epidemia collegata alla miniera abbandonata di Tongguan. Poco meno di dieci infetti registrati – in via ufficiale – e tre decessi. Non sapremo mai se l’agente patogeno responsabile del focolaio sparì da solo o se continuò, in silenzio, a contagiare altre persone. Magari provocando, almeno in una prima fase, per lo più febbri e polmoniti guaribili con un poche cure. All’epoca dei fatti, nessuno approfondì sui fatti di Tongguan. La notizia è riemersa soltanto in seguito alla comparsa del Sars-CoV-2. Per quale motivo? Semplice: stando ad alcune indiscrezioni, il RaTG13 raccolto nella miniera dello Yunnan avrebbe un genoma identico per il 96,2% a quello del nuovo coronavirus. Considerando che campioni del primo virus furono trasportate presso il laboratorio di Wuhan, e che sempre a Wuhan si è registrato il primo epicentro della pandemia di Covid-19, c’è chi ha ipotizzato un filo diretto che potrebbe collegare i due misteriosi virus.

RaTG13 o RaBtCoV/4991. Ripetiamo: non ci sono prove certe. Eppure, in attesa che l’Organizzazione Mondiale faccia luce su quanto avvenuto, è interessante mettere insieme i pezzi del puzzle fin qui presenti sul tavolo. Unendo alcuni tasselli, ci troviamo di fronte a un mosaico interessante. Spieghiamo meglio: se i due virus sopra citati sono così simili, non è che, in qualche modo, il primo dei due sia riuscito, in seguito a mutazioni naturali o chissà in quale altro modo, a trasformarsi nel secondo? Sulla vicenda non è mai stata fatta chiarezza. Ecco perché, data la strettissima parentela, potrebbe avere più senso scavare nel passato di RaTG13 anziché in quello di Sars-CoV-2. Di RaTG13 sappiamo ben poco. Come sottolinea una ricerca indiana in attesa di revisione paritaria, la descrizione del suddetto virus non è disponibile al pubblico. Soltanto il suo genoma è riportato in una apposita banca dati. Genoma che, ricordiamo, è stato sequenziato dall’Rna di un tampone fecale di pipistrello raccolto qualche anno fa nello Yunnan. A sua volta, l’RNA polimerasi RNA-dipendente (RdRp) di RaTG13 si è rivelata essere identica al 100% a quella del BtCoV/4911. Si tratta dello stesso virus chiamato con due nomi diversi? Sembrerebbe di sì. Sappiamo, inoltre, che il campione fecale di pipistrello deriva dal Rhinolophus affinis, una specie diffusa nello Yunnan. Tuttavia, mentre il campione di RNA relativo a RaTG13 deriverebbe dai tamponi fecali di un pipistrello rinvenuto nella città di Pu’er, quello di BtCoV/4991 avrebbe origine dalla stessa specie di pipistrello, ma proveniente dal pozzo di una miniera abbandonata di Tongguan. In ogni caso, RaTG13 e BtCoV / 4991 potrebbero riferirsi allo stesso virus.

Domande senza risposta. Nel corso di una recente intervista rilasciata alla rivista Science, Shi Zengli viene incalzata in merito al virus di Tongguan. “Ad oggi – ha spiegato Bat woman – nessuno dei residenti nelle vicinanze è stato infettato da coronavirus. Da qui, l’affermazione secondo cui un ipotetico “paziente zero” vivesse vicino alla zona mineraria, prima di spostarsi a Wuhan, è falsa”. I giornalisti chiedono alla dottoressa quando avesse isolato per la prima volta RaTG13. La risposta è piuttosto lunga e articolata. In sintesi: gli scienziati cinesi raccolgono il virus RaTG13 nella città di Tongguan, contea di Mojiang, nello Yunnan, nel 2013. Ottengono l’RdRp parziale ma la somiglianza con la Sars (il metro di paragone dell’epoca, visto che in quel periodo le autorità stavano indagando sulle origini di questo virus) è bassa. Passano gli anni e le tecnologie migliorano. Nel 2018 viene effettuato un nuovo sequenziamento. “Nel 2020 – racconta Shi Zengli – abbiamo confrontato la sequenza di Sars-CoV-2 e con quelle di coronavirus di pipistrello non pubblicate. Abbiamo scoperto che condivideva un’identità del 96,2% con RaTG13”. Quest’ultimo virus, non è “mai stato coltivato” dal laboratorio di Wuhan, si affretta a dichiarare la signora dei pipistrelli. In merito ai nomi del parente del nuovo coronavirus, infine, questa è la spiegazione fornita da Miss Shi: “Ra4991 è l’ID per un campione di pipistrello mentre RaTG13 è l’ID per il coronavirus rilevato nel campione. Abbiamo cambiato il nome perché volevamo che riflettesse l’ora e il luogo del raccolta di campioni. 13 significa che è stato raccolto nel 2013 e TG è l’abbreviazione di Tongguan città, il luogo in cui è stato raccolto il campione”. Molte domande restano ancora senza risposta. Una su tutte: qual è il vero legame tra il Sars-CoV-2 rilevato a Wuhan e il virus riscontrato una decina di anni fa nella miniera di Tongguan?

Il mistero della miniera di Tongguan e quel virus simile al Sars-CoV-2. Federico Giuliani su Inside Over il 3 gennaio 2021. Per arrivare da queste parti, in mezzo agli sperduti territori situati nella Cina sud-occidentale, bisogna veramente avere un motivo valido. La provincia dello Yunnan, tra contee autonome e prefetture sconosciute, ospita confini irregolari, alture ondulate, vallate e catene montuose. Siamo distanti anni luce dallo scintillio delle ruggenti megalopoli cinesi. Pechino e Shanghai, giusto per fare un esempio, si trovano entrambe a circa 3mila chilometri; sono molto più vicini il Vietnam, il Laos e il Myanmar. Va da sé che l’economia locale, per lo più agraria, non ha niente a che vedere con il miracolo che, dalla fine degli anni ’80 in poi, ha travolto il Delta del Fiume delle Perle e, via via, tutte le città costiere cinesi dell’Ovest. Qui siamo ancora indietro ma, da qualche anno, si notano segnali di sviluppo. Il governo centrale ha investito nelle infrastrutture, costruendo strade e ferrovie per fluidificare i collegamenti commerciali con il resto del mondo. Regioni e provincie anonime, hanno così gradualmente iniziato ad assumere una certa rilevanza di fondo. Sono gli effetti della Belt and Road Initiative, uniti alla volontà di Xi Jinping di sradicare la povertà dalla nazione.

Dieci anni fa. Dicevamo che per transitare nello Yunnan più profondo serve una ragione valida. Considerando lo scenario appena descritto, a meno che non abitiate da quelle parti o che non dobbiate trasportare un carico di legname lungo la superstrada G8511, difficilmente vorrete trovarvi sperduti in mezzo al nulla. Certo, il paesaggio naturale, a tratti, è da cartolina e il turismo ha iniziato a crescere. Ma un conto è visitare i parchi o le grandi città, un altro recarsi in un distretto come quello di Tongguan. Se non avete la minima idea di dove si trovi Tongguan, non dovete affatto preoccuparvi. Persino su Google maps è complicato individuare questo luogo (dovete infatti cercare Tonggguanzhen). Qui, nel 2012, si sarebbe diffuso un virus molto, molto simile al Sars-CoV-2. Così tanto simile che alcuni esperti hanno ipotizzato un collegamento tra i fatti di Wuhan e quanto accaduto nel remoto distretto di Tongguan quasi 10 anni fa. Agosto 2012, Yunnan. Il termometro sfiora i 33 gradi. Sulle tradizionali piantagioni di tè a terrazza piove da giorni e il clima è umido. Siamo in piena stagione dei monsoni. Una piccolo team di scienziati è appena arrivato nel distretto di Tongguan per studiare una nuova, misteriosa malattia letale. Pare che l’epicentro sia una vecchia miniera di rame abbandonata da tempo. Indossano tute bianche ignifughe e maschere protettive. Con coraggio, si addentrano nell’oscurità. In quelle grotte c’è un odore fortissimo. In alto, appesi sui soffitti, lunghe file di pipistrelli; per terra, uno strato di escrementi e tanti topi. Insomma, l’habitat perfetto per microrganismi mutati, agenti patogeni mortali e zoonosi (altro che mercato del pesce di Wuhan). Qualche settimana prima del sopralluogo degli esperti, sei uomini, tutti entrati nella miniera, vengono colpiti da una polmonite acuta. Tre di loro muoiono. Le autorità, forse temendo il ritorno di fiamma di un virus simile alla Sars – che dieci anni prima aveva messo in ginocchio la Cina -, mandano sul posto gli scienziati per impedire una nuova epidemia. Gli esperti raccolgono campioni fecali, che verranno poi analizzati in appositi laboratori. Anche in quello di Wuhan. L’allarme rientra quasi subito. Ufficialmente non ci sono più contagi, dunque nessuno sentirà più parlare della miniera di Tongguan per una decina di anni. Dopo l’esplosione del Sars-CoV-2, nel dicembre 2019, inizia una spasmodica ricerca sulle origini del nuovo coronavirus che ha travolto il mondo intero. C’è chi dice che tutto possa esser partito dal mercato ittico di Huanan, nel cuore di Whuan, dove sono stati segnalati i primi casi di infezione. Il governo cinese indaga, poi smentisce; afferma che non ci sono prove, che tutto potrebbe essere partito chissà dove, chissà quando, chissà come. In effetti, tutt’oggi, a distanza di un anno dal primo caso, la comunità scientifica non è ancora riuscita a stabilire l’origine temporale e geografica del Sars-CoV-2. In mezzo a una ricerca difficilissima, le accuse politiche tra Paesi rivali complicano la situazione, alimentano teorie del complotto, offuscano la verità, creano pregiudizi.

Dallo Yunnan allo Hubei: le ipotesi (non confermate). Alcuni sostengono invece che il virus possa essere fuoriuscito per errore dal laboratorio di Wuhan, dove lavora Shi Zhengli, una delle più importanti virologhe della Cina. La signora Shi ha passato anni interi ad archiviare coronavirus provenienti dagli animali, in primis dai pipistrelli (non a caso è stata soprannominata Bat woman, o anche “signora dei pipistrelli”). Il suo obiettivo: riconoscere virus mortali e nocivi per l’uomo. Secondo quanto riportato dal Sunday Times, ci sarebbe una notevole somiglianza tra il Sars-CoV-2 e il virus trovato nelle profondità della miniera di Tongguan e archiviato dalla stessa Bat woman. Come se non bastasse, nella famigerata spedizione nello Yunnan, nel 2012, c’era anche la dottoressa Shi. Anzi: era proprio lei che guidava il team di scienziati. La task force prelevò campioni di feci da 276 pipistrelli. I risultati di quegli studi mostrarono come la metà delle bestiole frequentatrici della miniera fosse portatrice di coronavirus. Molti pipistrelli possedevano contemporaneamente più geni di uno stesso genere di virus. Una condizione pericolosissima, che avrebbe potuto generare una miscela di patogeni potenzialmente mortali per l’uomo. Nell’alternanza tra passato e presente, ci spostiamo nel 2016. In quell’anno, Shi pubblica uno studio intitolato: “La coesistenza di multipli coronavirus in diverse colonie di pipistrelli in una miniera abbandonata”. La dottoressa scrive che due sequenze genetiche trovate in sei specie di pipistrelli erano dello stesse genere che provocò la Sars nel 2003. Uno di questi coronavirus, prelevato nel pipistrello chiamato Rhinolophus affinis, è stato rinominato RaBtCoV/4991. Si rivelerà essere quasi identico al Sars-CoV-2 (il 96,2% del genoma). Spuntano le prime ipotesi, ovviamente non confermate. La prima: considerando che il laboratorio di Wuhan è vicinissimo al mercato ittico di Huanan, è possibile che uno dei ricercatori che stava studiando il virus parente del Sars-CoV-2 possa esser stato infettato e, poiché asintomatico, possa aver diffuso l’infezione all’esterno della struttura. La seconda: un animale infettato dal virus (ospite intermedio), forse un pangolino, potrebbe aver viaggiato dal sud o dal sud-ovest della Cina fino al wet market di Wuhan. Qui sarebbe avvenuta la zoonosi, prima dell’apocalisse.

Riflettori (di nuovo) sulla miniera di Tongguan. Nel dicembre 2020 è tutto pronto per la missione dell’Oms a Wuhan. Un gruppo di esperti viene inviato nella capitale dello Hubei per ricostruire il mosaico relativo all’origine del virus. Parlando con la Bbc, Miss Shi, alla guida dell’istituto di virologia di Wuhan, invita il team dell’Oms a visitare la struttura da lei diretta. Chiaro l’intento: smentire, una volta per tutte, le voci della possibile fuoriuscita del Sars-CoV-2 dal laboratorio di Wuhan. “Saranno i benvenuti”, rassicura la signora dei pipistrelli. Il problema è che quello era soltanto il pensiero di Shi; non certo del laboratorio, il cui ufficio stampa chiude la questione avvertendo che la dottoressa ha parlato a titolo meramente personale. Morale della favola: non è prevista una tappa dell’Oms all’interno della struttura.

Proprio in quei giorni di fine dicembre 2020, una troupe della Bbc è in viaggio verso il remoto distretto di Tongguan. Vogliono visitare la miniera di rame abbandonata ma non riescono nel loro intento. “Agenti di polizia in borghese e altri funzionari in auto senza contrassegni ci hanno seguito per miglia lungo le strade strette e sconnesse”, si legge in un articolo pubblicato il 21 dicembre 2020. E ancora: “Abbiamo trovato ostacoli sulla nostra strada, incluso un camion “in panne”, che la gente del posto ha confermato essere stato posizionato dall’altra parte della strada pochi minuti prima del nostro arrivo”. Il messaggio sembrerebbe essere chiaro: i giornalisti della Bbc non devono andare a Tongguan. Sorge subito un dubbio: non è che le misteriose morti avvenute nei pressi della miniera di rame nel 2012 possano essere in qualche modo collegabili all’origine della pandemia di Sars-CoV-2? Impossibile, al momento, avere risposte certe.

·        Epidemie e Profezie.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 dicembre 2021. Il governo russo ha avvisato che lo scioglimento del permafrost nelle regioni artiche della Russia potrebbe rilasciare virus e batteri antichi e potenzialmente mortali. Nikolay Korchunov, un alto diplomatico russo che presiede il Consiglio Artico, ha detto lunedì che esiste il rischio che i microbi intrappolati nel gelo da decine di migliaia di anni si "sveglino" mentre il terreno si scioglie a causa del riscaldamento globale. Korchunov ha detto che il Consiglio ha ora stabilito un progetto di "biosicurezza" per studiare i rischi e i possibili effetti posti dal riemergere di malattie che potrebbero essere state congelate almeno dall'ultima era glaciale. Parlando al canale televisivo Zvezda lunedì, ha detto: «C'è il rischio che vecchi virus e batteri si risveglino. Per questo motivo, la Russia ha avviato un progetto di 'biosicurezza' all'interno del Consiglio Artico», ha aggiunto. Il progetto avrà il compito di valutare "rischi e pericoli" relativi al "degrado del permafrost" e alle "future malattie infettive", ha spiegato. Circa il 65% del territorio russo è classificato come permafrost, terreno che rimane permanentemente ghiacciato anche durante i mesi estivi. Ma, poiché le temperature aumentano a causa del riscaldamento globale, il terreno sta iniziando a scongelarsi, espellendo animali e oggetti che sono stati congelati per migliaia di anni. Negli ultimi anni sono stati portati alla luce resti di rinoceronti lanosi estinti circa 14.000 anni fa e una testa di lupo di 40.000 anni fa - così perfettamente conservata da avere ancora la pelliccia. Questi ritrovamenti hanno persino generato un'industria intorno al mammut lanoso - estinto circa 10.000 anni fa - con i cacciatori che vanno alla ricerca di scheletri dissotterrati in modo da poter estrarre le loro zanne e venderle ai commercianti di avorio. Ma la scoperta di esemplari così ben conservati ha anche suscitato il timore che le malattie che gli animali potrebbero aver portato possano essere scongelate con loro e, a differenza dei loro ospiti, possano sopravvivere allo scongelamento. Jean Michel Claverie, un virologo dell'Università di Aix-Marseille, ha avvertito l'anno scorso di prove «estremamente buone» che «si possono far rivivere i batteri dal permafrost profondo». Il professor Claverie ha persino scoperto uno di questi virus - il pithovirus - che, una volta scongelato dal permafrost, ha iniziato ad attaccare e uccidere le amebe. Il pithovirus, che era stato congelato per circa 30.000 anni prima dell'esperimento, è innocuo per l'uomo, ma il professor Claverie ha affermato che dimostra che i virus congelati a lungo possono "svegliarsi" e iniziare a infettare nuovamente gli ospiti. Gli scienziati non sono d'accordo sull'età esatta della calotta polare artica, sul permafrost che la circonda e quindi sull'età degli oggetti che contiene. Ma la maggior parte delle scoperte scongelate che sono state scoperte finora risalgono all'ultima era glaciale, da circa 115.000 a 11.700 anni fa. A parte il potenziale rilascio di malattie antiche, gli scienziati avvertono che lo scioglimento del permafrost rappresenta una minaccia ancora maggiore a causa del rilascio di anidride carbonica e gas metano mentre la materia organica intrappolata al suo interno si scongela e inizia a marcire. Entrambi i gas contribuiscono al riscaldamento globale che a sua volta accelera lo scioglimento, in un circolo vizioso che gli scienziati avvertono essere un "punto di svolta" che accelererà il ritmo e la gravità del cambiamento climatico a meno che non venga fermato o mitigato. Lo scioglimento rappresenta anche un rischio per le infrastrutture e le città russe, che sono state costruite nel terreno ghiacciato e ora vedono la terra spostarsi sotto i loro piedi mentre inizia a scongelarsi. Un'enorme fuoriuscita di petrolio nel Circolo Polare Artico lo scorso anno è stata attribuita allo scioglimento, dopo che un serbatoio di diesel è crollato quando il terreno intorno ha ceduto. In questo contesto, Vladimir Putin è stato sempre più esplicito sulla minaccia dello scioglimento del permafrost e del riscaldamento globale più in generale. Parlando a una conferenza l'anno scorso, ha detto al pubblico: «Colpisce i sistemi di condutture, i distretti residenziali costruiti sul permafrost e così via. Se entro il 2100 si dovessero sciogliere il 25 per cento degli strati di permafrost vicini alla superficie, ne sentiremo l'effetto molto forte».

Una passeggiata nella storia. La Groenlandia era una terra verde e poi si ghiacciò: spiegatelo a Greta.

Paolo Guzzanti su Il Riformista il 28 Novembre 2021. Questo è un primo articolo sulla cattiveria umana osservata dal punto di vista politico. Gli economisti si sono finalmente trovati abbastanza d’accordo sul fatto che far scomparire la povertà dalla Terra è, fra l’altro, un ottimo affare. Una di quelle cose che gli americani chiamano “Win-Win”, vinci tu che vinco anche io, vincono tutti. Per molto tempo la soluzione tentata era stata quella di far sparire materialmente i poveri, ma non ha mai funzionato per quanti forni e camini fumassero e fosse comuni si riempissero come le astanterie e le camere mortuarie. Ciò è promettente. Anche il fulminante presidente del Consiglio Draghi l’ha detto recentemente, da economista: «Far sparire la povertà è un eccellente affare perché stabilizza le società e attiva non solo le coscienze, ma anche i mercati». Ho citato più volte in passato il giovanissimo e tisico (morì a vent’anni) filosofo illuminista napoletano Gaetano Filangieri il quale premette su Benjamin Franklin affinché il nuovo grande Stato rivoluzionario – gli Stati Uniti d’America – adottassero fra i loro principi irrinunciabili il diritto a cercare ciascuno la propria dedicata dose di felicità, “The Pursuit of Happiness”, che non vuol dire il diritto alla felicità. Che non significa nulla, ma il diritto a cercare col proprio lanternino la propria piccola personale felicità. Sembra nulla, ma è tutto. Gli esseri umani come noi – Sapiens, non più clava ma bancomat – sono in giro da pochi minuti geologici: centomila anni. In questi centomila anni hanno prevalso gli impulsi e il tentativo di organizzarli in collettività oppure di predare i risultati degli impulsi altrui. Da pochi secondi appena, siamo su una strada nuova e si comincia a chiedere seriamente che cosa siano la cattiveria e la bontà, lasciando da parte Francesco che è sicuro che circoli Satanasso in persona che abbiamo sempre sognato di intervistare. Prima osservazione.

La cattiveria e la bontà umane vanno d’accordo con la meteorologia. La politica anche: ieri notte si è diffusa la catastrofica notizia di una nuova variante – che merita il nome di mutazione del maledetto Covid – ed è un’altra bestiaccia. Per cui di colpo è crollato il prezzo del petrolio grezzo nella previsione di un arresto planetario della produzione industriale e una serie di studi di mosse e contromosse per arginare popolazioni affamate, popolazioni terrorizzate e sempre alla ricerca di un capro espiatorio. Questa la parola chiave: capro espiatorio. Se qualcosa di male accade, di qualcun altro deve esserci una colpa. Idea: uccidiamolo fra atroci torture. morti viventi e i viventi che potrebbero morire, come accadde con la prima grande peste del XIV Secolo descritta da Giovanni Boccaccio che cambiò lo stato del mondo, del bene e del male, dell’economia, della poesia, della politica, della letteratura, del commercio, della grandezza dei fiumi.

Che cosa era successo? Una sciocchezza: era finito il mezzo millennio di surriscaldamento del pianeta che aveva liquefatto tutti i ghiacci e ghiacciai e iceberg, era tornato il freddo, anzi il gelo, il grano moriva, le bestie morivano e un terzo dell’umanità morì di fame e di peste che derivava dal non smaltibile accumulo di cadaveri e carogne in tutto il mondo. Avvenne quasi di colpo: con Dante, andava ancora bene. Con Boccaccio, arrivo del morbo, fine della già dimenticata felicità, la fine del paradiso terrestre del mondo caldo, caldissimo, molto più caldo di oggi, quando si coltivavano uve rarissime vicino al Polo Nord e le popolazioni dei ghiacci, come nel Trono di Spade, non trovandosi più davanti al naso muri di ghiaccio e orsi affamati, poterono finalmente scendere a vele spiegate sull’Islanda, la Groenlandia, e poi sulle isole inglesi in cui – come racconta drammaticamente Winston Churchill nel primo volume della sua Storia dei Popoli di Lingua Inglese, non rimase traccia di una sola parola di latino, fu spazzato via tutto ciò che era appartenuto all’antica preda del console Britannicus quando ancora “Britannia” non comandava sulle onde e sui popoli.

Era un mondo che moriva, e non c’erano i dinosauri. C’erano i cristiani, c’erano i musulmani, gli ebrei, i pagani e forme di società tribali sanguinarie. Cambiò la cattiveria, la distruttività, la capacità di progettare anche se i nuovi venuti dal nord furono chiamati Normanni e fecero castelli bellissimi e Federico II talmente s’appassionò al gioco di creare una lingua italiana artificiale e per poco non ci riuscì con un gruppo di poeti pazzi come Ciullo d’Alcamo.

Rischio: quello che i lettori, specialmente quelli con uno zainetto politico omologato da portare come una seconda parte di sé, potrebbero obiettare che qui si raccontano favole, per favore parliamo di cose serie. Basta partire da due date facili: dall’incoronazione di Carlo Magno nella notte di Natale dell’800, alla morte di Dante, visto che siamo di settecentenario, 1321. Mezzo migliaio di anni. Che accadde? Un caldo da far paura, altro che l’ultima estate. Dove correvano tutti quei pinguini? Come mai i vichinghi si erano piazzati nella lussureggiante Terra Verde, la Green Land o Groenlandia e facevano legna per le flotte con cui traversavano un braccio di mare abbastanza corto e si insediavano in Canada?

E poi, con Dante, come sanno gli scolari, vennero Petrarca e Boccaccio. Boccaccio ci interessa, per la peste. Lasciando da parte il Decamerone – un Netflix animato in una lontana cascina per proteggersi in quarantena contro la peste, e godersi gioie proibite – Boccaccio fu anche un eccellente cronista. Mi è capitato di leggere in inglese la relazione di Boccaccio sull’arrivo a Messina di navi provenienti dall’Oriente e che portavano con i topi e le pulci la peste nera che si abbatté rapidamente sull’umanità eliminandone un terzo e cambiandone per sempre tutti gli aspetti civili, religiosi, politici, letterari. La peste arrivò in seguito – non scriviamo “a causa” – di un evento climatico: la Terra, il nostro grazioso pianetino blu passato alla svelta dal caldo al freddo. Arrivò una piccola micidiale glaciazione. Le meravigliose terre ai confini del polo che davano i vini più dolci e la Groenlandia che era piena di paesini di pietra, chiese di pietra e grandi montoni che rifornivano di pelle tutta Europa, si congelò nell’orrore universale. Un papa finanziò una spedizione per andare a indagare perché i cari fratelli di Groenlandia non dessero più notizie: «Sono tutti morti congelati nelle loro case e chiese, con le bestie senza trovare la forza di saltare su una barca e tentare la fuga». «Preghiamo rispose il papa, affinché il maledetto ghiaccio liberi le nostre terre amate e i cristiani che le abitavano». Poi passano i secoli e compaiono titoli brutali: «Si sta fondendo il ghiaccio della Groenlandia e di tutte le terre che fanno da ponte fra America ed Europa: è un disastro». Alla piccola Greta, sempre più pop, cercando finché possono di tenerle nascosto l’evento.

Secondo punto. Compratevi se già non l’avete letto Il Capro espiatorio di René Girard, in Italia presso Adelphi, sul telefonino a sette euro, che è un testo sconvolgente in cui si radunano tutte le notizie, vere o fantastiche ma di numerosi autori fra loro ignoti che narrano come l’umanità fosse traumatizzata dalle epidemie che provocarono quarantene e lockdown talvolta ispirati alla segregazione razziale anche perché – come ti sbagli – a fare le spese della peste e del vaiolo, erano sempre gli ebrei accusati di avvelenare pozzi e fiumi con miscele torbide e putride e venefiche loro fornite da gruppi di cristiani loro complici. Molte delle notizie che oggi circolano sul grande complotto dietro il Covid sono del tutto simili, anche se oggi la parola “Ebrei” è stata parzialmente sostituita da “Multinazionali” che ne sono in parte l’up-grade. Ma non perdiamo di vista il filo conduttore: la temperatura. Secondo filo: la fragile e mostruosa capacità umana di dedicarsi alla distruzione dei suoi simili.

Detto di passaggio ma mica tanto, quando andai in Africa alle radici della nascita del mercato che trasferì in America milioni di africani venduti ai mercanti francesi, inglesi, spagnoli e olandesi, appresi che c’erano dei trafficanti portoghesi che acquistavano nell’Africa lusitana popoli interi di tribù prigioniere di re africani, i cui componenti sarebbero stati messi a morte secondo una cerimonia rituale. Lo stesso facevano i romani quando trascinavano intere popolazioni sotto di loro. Archi di trionfo per poi rifornire i denti del parco belve del Colosseo o risolvere il problema dell’illuminazione notturna delle strade consolari con torce umane impiastrate di grasso e dunque di lunga durata. L’uso del fuoco per uccidere con lentezza da bagnacauda, era estremamente popolare ed ammirato: il cronista che descrisse l’agonia di Giordano Bruno tra le fascine di Campo de’ Fiori scrisse che “il corpo era grasso ed ardeva allegramente”. Quando Thomas More, il celebrato Tommaso Moro amico di Erasmo da Rotterdam che per lui scrisse l’Encomion Moriai, maltradotto come “Elogio della pazzia” mentre si trattava di gioco di parole per alludere all’elogio di Moro (“Moriae”), bene: lo stesso Thomas, ancora al solerte servizio del suo re Enrico VIII prima che quello si incaponisse con Anna Bolena, provvedeva personalmente a caricare di legna i cestoni di ferro in cui venivano cotti gli eretici i quali si vedevano negare o favorire una morte più veloce implorando: “Più legna, sir Thomas, più legna, in nome di Dio, stiamo soffrendo troppo”.

Tornando in America, il cerino in mano di nazione schiavista è rimasto agli Stati Uniti che, in quanto nazione libera, non acquistò più schiavi ai mercati arabi e africani (salvo alcune imprese di pirateria di sottocosta) mentre le nazioni che introdussero e alimentarono fino alla fine lo schiavismo in America furono prima di tutto i portoghesi, poi gli spagnoli, poi a pari merito francesi e inglesi. Le tredici colonie americane avevano una dotazione di personale servile (schiavi) per usi agricoli che i land-owner di Dixieland (i futuri Stati Confederati della guerra civile americana) erano convinti di trattare con eccellente welfare. visto che davano loro tetto, lavoro, cibo, medicine e – negli Stati più avanzati – l’accesso ad alcune chiese cristiane – ancora oggi a prevalenza nera come gli Episcopali – con tutela delle unità familiari e la protezione delle donne dal diritto padronale di stupro.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Una passeggiata nella storia. Quello che Greta Thunberg non vuole farvi sapere: la terra era calda, col freddo arrivò la peste. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Nel precedente articolo ho ricordato ciò che è scritto su tutti i libri di storia ma che si finge non sia mai accaduto: per mezzo millennio, fra Carlo Magno e Dante il pianeta terra si riscaldò molto di più di quanto sia bollente oggi e prosperò in uno dei periodi più fecondi e di maggior progresso. Questa storia è interessante sia perché ci riguarda da un punto di vista cronologico, sia perché è anche la storia di una verità coperta. Se si fa credere oggi che il buon pianeta terra si sia arroventato per colpa dei bipedi umani che soffiano anidride carbonica come neanche i vulcani sanno fare e che per colpa loro stiamo andando incontro la più grande catastrofe della storia planetaria, si deve omettere per forza l’approfondimento su ciò che con pudore viene chiamata l’ “anomalia del medioevo”, una curiosa bizzarria di cui sarebbe meglio non parlare altrimenti Greta si arrabbierebbe.

La bizzarria non era affatto tale visto che è soltanto quella più recente e non risale ai tempi dei dinosauri ma dell’Europa più o meno come la conosciamo oggi. Ho già ricordato che la Groenlandia era la Green Land ovvero la terra verde coperta dalle foreste con cui si costruivano le navi vichinghe dirette in Canada e che tutti i suoi abitanti cristiani erano crepati di freddo, ancora visibile attraverso le lastre di ghiaccio di quella terra. Ma se aprite i giornali scoprirete che spurgano urla di dolore perché, orrore degli orrori, in Groenlandia si stanno scongelando i ghiacciai. Non si scongelano soltanto i ghiacciai della Groenlandia ma anche quelli del circolo polare, tant’è che tutte le nazioni interessate ai minerali si sono catapultate sui mari che erano coperti di ghiaccio e si minacciano fra loro con navi armate e diplomazie minacciose. Ma la cosa forse più interessante e istruttiva per noi non è che cosa accadde durante il mezzo millennio di caldo quasi tropicale, ma ciò che successe quando il caldo finì. Le masse dei poveri a quell’epoca si nutrivano soltanto di pane, o comunque cibo fatto con dei cereali che non erano esattamente come i nostri che si potevano coltivare durante il caldo quasi ovunque sfamando milioni di persone. Poi arrivò una prima estate con piogge e grandine anche a giugno e a luglio, mentre ad agosto sembrava già Natale. E allora accadde che i grani non maturarono e marcirono e le strade si riempirono di morti perché a quell’epoca si moriva di fame per strada.

Nell’indifferenza generale, il freddo portò la peste e la peste distrusse quasi un terzo dell’umanità arrivando per nave a Messina coi corpi dei marinai, dei topi e delle pulci e provocando delle reazioni spropositate di cui non abbiamo memoria diretta. Si può leggere il famoso saggio di René Girard Il capro espiatorio per avere un’idea delle reazioni di allora per farne un modesto paragone con le reazioni di oggi. Gli esseri umani sono sempre stati abituati a cercare chi perseguitare come responsabile di ciò che accade. infastidendolo e anche uccidendolo. In genere a fare da capro espiatorio bastavano gli ebrei che erano stati accusati anche in quella occasione di avere avvelenato fiumi e pozzi e pagarono questo inesistente delitto con soppressioni di massa e omicidi rituali, nel consenso pressoché unanime di tutti i persecutori e senza che questi eventi lasciassero alcuna traccia etica nella storia ma soltanto dei verbali di tribunale tuttora esistenti, rintracciabili e leggibili. La peste provocò un rilancio della caccia alle streghe e nei processi in cui le donne venivano condannate ad ardere vive in mezzo alla piazza nessuno dubitava, neppure le condannate pienamente confessa, dell’esistenza della stregoneria, dei sabba col demonio con cui le imputate confessavano di avere sempre avuto rapporti carnali benché in una dimensione da sogno, e tutti trovavano ciò perfettamente normale.

La normalità del male era granitica, senza scalfiture né dubbi. Cosa che a noi oggi riesce difficile da comprendere ma soltanto perché abbiamo rivisto qualcosa di simile con la shoah, un evento in cui sei milioni di ebrei sono stati liquidati perché si erano accoppiati sia col demonio del capitalismo che con quello della rivoluzione sovietica, e comunque qualcuno doveva pur pagare per la incomprensibile sconfitta della Germania alla fine della Prima guerra mondiale, quando i tedeschi stavano vincendo e di colpo furono costretti ad arrendersi. La politica i politici non hanno tempo da perdere per leggere libri e studiare la storia. E questo è grave. Ma ciò che accade oggi col Covid e con le furiose consorterie che si creano, le leggende torbide, gli auguri di morte, le maledizioni e le urla, l’uragano di insulti e di escrementi che passa attraverso internet e i social, sono la dimostrazione evidente ed eloquente del fatto che l’essere umano contiene al proprio interno non soltanto un vago orientamento sul bene e il male ma anche una scatola nerissima che lo porta ad agire nelle direzioni che noi consideriamo irrazionali o come si dice ormai frequentemente di pancia, per cui far prevalere il buon senso scientifico, la logica, la statistica, la realtà nel suo complesso, è praticamente impossibile.

Ciò che prevale è ormai la narrazione, traduzione dall’inglese the narrative, che vuol dire appunto la prevalenza del racconto fantastico sul resoconto autentico di come stanno le cose. Il Trecento, inteso come l’enigmatico quattordicesimo secolo, fu spaccato fra il pensiero dantesco che si occupava delle donne che hanno intelletto d’amore, e quello del Boccaccio cronista della peste. Ma non ci fu soltanto la peste. Ci furono stragi reattive ovunque, una depressione crescente e una serie di riti che sostanzialmente miravano tutti alla caccia del colpevole, il quale non era colpevole di nulla e per questo veniva chiamato il capro espiatorio, la vittima sacrificale che paga per la collettività e che con il suo sangue, ecce “agnus dei qui tollis peccata mundi”, riscatta dal male e apre le porte del paradiso ovvero quelle della vita.

Passate le ondate di peste il mondo si raffreddò raggiungendo le soglie di una piccola glaciazione che spazzò via ogni germoglio di cereale sui terrazzamenti le, le colline, le montagne. Terminata la peste, constatate le perdite, guardato il termometro che ancora non esisteva ma si riconosceva nella ridottissima produzione dei frutti, i superstiti si riorganizzarono, fecero tesoro del fatto che la strage aveva lasciato ai superstiti molto posto e molte risorse, e il mondo ripartì.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La storia nascosta. Influenza spagnola, storia della grande pandemia del ‘900 che fu rimossa e censurata. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Quello che successe 1918 e il 1920 con la furia della febbre cosiddetta spagnola che uccise più del doppio dei morti nelle due guerre mondiali, è stato completamente rimosso e dimenticato. Anche perché quando quella febbre arrivò addosso ai soldati americani che si erano infettati nei campi di addestramento del Kentucky prima di salire sulle navi che li avrebbero sbarcati in Francia per combattere a fianco degli inglesi e dei francesi il nemico tedesco, i comandi militari di tutte le nazioni in guerra furono d’accordo nel decidere che le notizie sulla epidemia non dovessero essere date in pasto alla stampa e l’opinione pubblica e fu così che essendo la Spagna uno dei pochi paesi fuori dal conflitto, chi per caso lesse i giornali spagnoli apprese da quelli che nella penisola iberica infuriava un morbo sconosciuto dal resto del mondo appunto era esattamente il contrario: il resto del mondo aveva il morbo e il morbo aveva infettato anche la Spagna prima di devastare l’Africa, l’Asia, l’Australia e poi tornare rinvigorito nel Sud America e finalmente negli Stati Uniti da cui aveva avuto origine.

Le notizie su quella peste di un secolo fa furono vietate con la censura militare in tutti i paesi che avevano combattuto da una parte o dall’altra la grande guerra anche dopo la fine della guerra. Mentre erano in corso le faticose trattative di Versailles la peste colpì anche il presidente degli Stati Uniti d’America Woodrow Wilson che nel 1919 si era trasferito a Parigi. Wilson aveva portato in Europa la sua utopistica idea di assicurare a ogni etnia una patria e una bandiera, cosa che provocò reazioni violente e truculente, rivolte, rivoluzioni, massacri, pogrom, colpi di Stato nei paesi che, come l’Italia, erano entrati in guerra soltanto per ottenere vantaggi territoriali, asfaltando la strada di Mussolini e di Hitler per ragioni inverse e coincidenti. Il presidente americano si ammalò gravemente di febbre spagnola, che gli provocò un ictus e un’ischemia per cui al risveglio dopo una incerta guarigione si ritrovò orribilmente diverso.

Lo racconta l’economista Keynes che faceva parte della delegazione inglese alle trattative di Parigi e che fuggì scandalizzato scrivendo in un libro la facile previsione: l’intervento di Wilson a sostegno del primo ministro francese Clemenceau che voleva lo smembramento dei popoli di lingua tedesca caricati di un debito insostenibile che conteneva anche il costo delle pensioni militari del Regno Unito oltre al mantenimento del distaccamento militare francese che occupava mezza Germania in cui si moriva letteralmente di fame per strada come accadde col raffreddamento anomalo del XIV Secolo, avrebbe certamente portato a una nuova guerra. Quello dell’epidemia e della follia di Wilson e delle reazioni popolari fu un caso non casuale, utile per dare un’idea di come le epidemie possano determinare gli eventi umani. L’assetto del mondo così come ci appare sotto gli occhi oggi è pervaso da una sua interna complessità che pochi sembrano in grado di volere affrontare, chiarire appunto, prima che una nuova catastrofe pandemica e bellica si abbatta sull’umanità del nostro secolo. Quel che sta accadendo alle frontiere bielorusse e polacche e in Lituania da una parte e il forte rialzo delle corde vocali dei colloqui via Internet tra Putin e Biden promette guerra. L’atteggiamento giustamente inflessibile ma altrettanto rischioso dell’Unione Europea anche. Le parole del presidente cinese non sono da meno, così come quelle del governo di Canberra. Così come quelle del governo di Tokyo. Così quelle del governo indonesiano. I venti di guerra hanno soffiato tante volte nel corso degli ultimi ottanta anni ma poi si sono spenti senza che il fuoco si accendesse. Negli anni Ottanta si dava per scontata la guerra fra Unione Sovietica e Cina comunista lungo la frontiera del fiume Ussuri che poi non ci fu. Ma altre cento piccole e medie guerre hanno corroso la pace e la percezione della differenza fra pace e guerra. Nessuno è in grado di dire come andranno le cose, ma nessuno sarà neppure in grado di dire come si svilupperanno sentimenti e risentimenti e quali “capri espiatori” verranno chiamati sull’altare del coltello e del fuoco.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Facebook. MonolituM:

“Manzoni non l’aveva vista, la peste, ma aveva studiato documenti su documenti.

E allora descrive la follia, la psicosi, le teorie assurde sulla sua origine, sui rimedi.

Descrive la scena di uno straniero (un “turista”) a Milano che tocca un muro del duomo e viene linciato dalla folla perché accusato di spargere il morbo.

Ma c’è una cosa che Manzoni descrive bene, soprattutto, e che riprende da Boccaccio: il momento di prova, di discrimine, tra umanità e inumanità.

Boccaccio sì che l’aveva vista, la peste.

Aveva visto amici, persone amate, parenti, anche suo padre, morire. E Boccaccio ci spiega che l’effetto più terribile della peste era la distruzione del vivere civile.

Perché il vicino iniziava a odiare il vicino, il fratello iniziava a odiare il fratello, e persino i figli abbandonavano i genitori.

La peste metteva gli uomini l’uno contro l’altro.

Lui rispondeva col Decameron, il più grande inno alla vita e alla buona civiltà.

Manzoni rispondeva con la fede e la cultura, che non evitano i guai ma, diceva, insegnavano come affrontarli.

In generale, entrambi rispondevano in modo simile: invitando a essere uomini, a restare umani, quando il mondo impazzisce.”

Nostradamus, 2021 anno drammatico. Cosa succederà dopo la pandemia: l'evento che sconvolgerà il mondo. Libero Quotidiano il 21 luglio 2021. Il 2021 potrebbe essere peggio del 2020. Dopo la pandemia di coronavirus potrebbero esserci altri drammatici eventi secondo le previsioni di Nostradamus, pseudonimo di Michel de Notre-Dame che nel 1555 pubblicò il libro "Le Profezie" dove predisse una serie di avvenimenti che si sarebbero verificati nei secoli a venire. E spesso le sue previsioni si sono avverate.  Oltre all'emergenza sanitaria, secondo Nostradamus, potrebbe arrivare una sciagura ancora più devastante: "Dopo una grande angoscia per l'umanità, se ne prepara una ancora più grande", scrive il filosofo preveggente. Che parla di un cambiamento climatico e una tempesta solare proprio nel 2021: "Vedremo l'acqua salire e la terra cadere sotto di essa". Secondo Nostradamus, inoltre, ci sarà un grande terremoto il 25 novembre 2021 lungo la faglia di San Andreas in California. E ancora potrebbe cadere un asteroide sulla Terra. E ci potrà essere una guerra o comunque un problema di tensione internazionale: "A causa della discordia e della negligenza francesi, ai maomettani verrà data una possibilità. Il porto di Marsiglia sarà coperto di barche e vele". Tutti eventi che potrebbero avvenire quest'anno. Su altri avvenimenti Nostradamus ha avuto ragione, come l'assassinio del presidente Kennedy, le due guerre mondiali, la sconfitta di Donald Trump alle elezioni americane e appunto la pandemia del coronavirus. Molte delle sue previsioni si prestano a diverse interpretazioni, quello che è certo è che il 2021 sarà un anno drammatico.

Dopo il coronavirus, il "B Virus" delle scimmie: "Primo uomo morto al mondo", come si è contagiato. Libero Quotidiano il 19 luglio 2021. Dopo il coronavirus, il vaiolo delle scimmie? Il nuovo allarme arriva dalla Cina, dove è morto il primo uomo contagiato dal Monkey B Virus (BV). Si tratta di un virus simile al vaiolo, ma meno grave. La prima vittima, come riporta il Messaggero, è un veterinario di Pechino di 53 anni che lavorava in un istituto di ricerca sui primati non umani. La sua identità non è ancora stata resa nota, ma a quanto si apprende aveva accusato i primi sintomi di nausea e vomito un mese dopo avere dissezionato le carcasse di due scimmie a inizio dello scorso marzo. Il vaiolo delle scimmie è noto da decenni agli esperti: isolato per la prima volta nel 1932, si tratta di un alfaherpesvirus enzootico nei macachi del genere Macaca che può essere trasmesso per contatto diretto o attraverso lo scambio di secrezioni corporee. Il veterinario, scrive il settimanale in lingua inglese del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, aveva cercato di curarsi in numerosi ospedali ma è deceduto lo scorso 27 maggio. Secondo il settimanale, prima di questo decesso non erano stati rilevati nel Paese casi di mortali o clinici di BV. Si tratterebbe dunque del primo caso di infezione umana, dopo che ad aprile una analisi del liquido cerebrospinale del veterinario aveva confermato l'infezione. Fortunatamente, almeno per ora, i test effettuati sulle persone con cui la vittima aveva avuto stretti contatti, non avrebbero dato esito positivo.

Da ilmessaggero.it il 19 luglio 2021. Il vaiolo delle scimmie miete la sua prima vittima. E' accaduto in Cina, dove è morto il primo paziente affetto dal cosiddetto Monkey B Virus (BV), un virus simile a quello del vaiolo ma meno grave. Si tratta di un veterinario di Pechino di 53 anni che lavorava in un istituto di ricerca sui primati non umani.

Vaiolo delle scimmie, morto il primo paziente affetto dal virus. La notizia, pubblicata sabato dalla stampa cinese, è stata ripresa oggi dai media occidentali. L'uomo, la cui identità non è stata resa nota, aveva accusato i primi sintomi di nausea e vomito un mese dopo avere dissezionato le carcasse di due scimmie, all'inizio di marzo. Secondo il settimanale in lingua inglese del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie, il veterinario aveva cercato di curarsi in numerosi ospedali ma è deceduto lo scorso 27 maggio. 

I casi. Il settimanale sottolinea inoltre che prima di questo non erano stati rilevati nel Paese casi di mortali o clinici di BV, quindi si tratta del primo caso di infezione umana del virus identificato finora in Cina. Un’analisi del liquido cerebrospinale del veterinario eseguita ad aprile aveva confermato l'infezione, mentre i test effettuati sulle persone con cui ha avuto stretti contatti hanno dato esito negativo. Isolato per la prima volta nel 1932, il virus è un alfaherpesvirus enzootico nei macachi del genere Macaca, può essere trasmesso per contatto diretto o attraverso lo scambio di secrezioni corporee.

“Plastisfera”: da qui verrà la prossima pandemia? Francesca Salvatore su Inside Over il 24 marzo 2021. Sia sulla terra che sul mare, i rifiuti di plastica sono talmente diffusi che alcuni ricercatori hanno persino proposto di etichettarli come una caratteristica “naturale” dell’Antropocene.

“Plastisfera”, una definizione. Nel 2013, studiando al microscopio i rifiuti plastici oceanici, un team di scienziati della Woods Hole Oceanografic Institution, la più grande istituzione privata di ricerca oceanografica del mondo, scoprì che questa gragnola di isole di plastica era abitata da microorganismi diversi da quelli che proliferano normalmente in acqua. Croce e delizia della modernità, la plastica è in grado attrarre forme di vita non visibili ad occhio nudo. Per questa ragione la scienza ha battezzato come plastisfera l’ecosistema che si sviluppa sul materiale plastico presente nei mari e negli oceani. Questi aggregati di rifiuti, oltre ad essere dannosi per la fauna e la flora marina e per intera catena alimentare, sono in grado di divenire habitat di microrganismi potenzialmente dannosi, quali batteri, alghe e virus. Dagli anni Novanta ad oggi gli studi in questo senso sono andati moltiplicandosi, soprattutto in seguito alla scoperta del Pacific Trash Vortex, la gigantesca isola di plastica che fluttua nel Pacifico. I primi a lanciare l’allarme a questo proposito sono stati tre studiosi– Linda A. Amaral-Zettler, Erik R. Zettler & Tracy J. Mincer- che, attraverso micrografie elettroniche a scansione, si sono imbattuti nella complessa geografia della vita microbica sulle superfici abrase e porose di pezzi di plastica invecchiati e alterati dagli agenti atmosferici negli oceani. Si tratterebbe di una vera “barriera microbica” cioè di un ecosistema completo di predatori e prede, organismi che fotosintetizzano per produrre energia dalla luce (simile alle piante sulla terra) e persino parassiti e organismi potenzialmente patogeni dannosi per invertebrati, pesci e esseri umani. Le comunità della plastisfera sono distinte da quelle circostanti acque superficiali, il che implica che la plastica funge da nuovo habitat ecologico nell’oceano aperto. Una biodiversità sorprendentemente elevata, con oltre 1.000 tipi di microbi su residui di soli 5 mm o meno di diametro. Il problema della plastisfera risiede nella lunghissima durata dei materiali di cui è composta: i microbi che proliferano al suo interno possono essere trasportati poi per lunghe distanze, rendendoli una potenziale fonte di specie invasive.

Una possibile bomba batteriologica. Ciò che sconvolge la comunità scientifica è che nella plastisfera si trovano organismi che non si incontrano normalmente nell’oceano aperto come il genere Vibrio. La maggior parte dei Vibrio non sono nocivi, ma alcune specie possono sono tuttavia in grado di giocare un ruolo importante nella patologia umana, e tra di essi il più rilevante è sicuramente Vibrio cholerae, agente eziologico del colera, la terribile tossinfezione dalla quale buona parte del mondo in via di sviluppo non si è emancipata. Nel 2019, una nuova allarmante scoperta ha superato la precedente: mentre studiavano i batteri trovati sui rifiuti di plastica al largo delle coste dell’Antartide, gli scienziati hanno scoperto che questi batteri erano resistenti agli antibiotici quanto i batteri più resistenti presenti negli ambienti urbani. Le plastiche restano nell’ambiente molto più a lungo rispetto ai materiali biodegradabili come il legno, sono capaci così di percorrere grandi distanze in molto tempo. Secondo Tracy J. Mincer, inoltre, il «passaggio digestivo» delle microplastiche attraverso gli animali marini, fornisce un boost di nutrienti ai patogeni della plastisfera rendendoli invincibili. Ulteriori analisi condotta invece al largo della costa belga hanno rilevato, invece, patogeni per l’uomo come E.coli, Bacillus cereus e Stenotrofomonas maltofilia: i primi due sono strettamente collegati a note tossinfezioni alimentari, mentre il terzo è uno dei più comuni batteri che causano infezioni polmonari, soprattutto in soggetti dai polmoni compromessi, spesso multiresistente agli antibiotici. Come prevedibile, anche altre porzioni dell’idrosfera non sono esenti dalle conseguenze batteriologiche dei rifiuti plastici: i generi Pseudomonas e Aeromonas, sono stati associati a plastiche fluviali, le più interessate nel trasporto di patogeni; i primi sono responsabili di infezioni osteoarticolari, polmoniti ed endocarditi e sono resistenti alla maggior parte degli antibiotici, gli altri sono coinvolti in infezioni di ferite e in gastroenteriti, ma almeno non multiresistenti. I rifiuti plastici, inoltre, non sono solo un habitat favorevole per virus e batteri ma anche per numerose altre specie. Nel 2017, appena sei anni dopo che lo tsunami aveva devastato le coste del Giappone e causato l’incidente a Fukushima, gli scienziati americani scoprirono circa trecento specie di invertebrati sulla costa occidentale degli Stati Uniti che non erano mai state rilevate prima. Queste creature avevano attraversato il Pacifico sui detriti messi in moto dallo tsunami: queste specie straniere trapiantate artificialmente da un ecosistema all’altro possono diventare invasive e le plastiche oceaniche sono la loro “autostrada”.

L’ombra del futuro. Comunemente associati ad un inquinamento fisico e chimico, e alle implicazioni sulla fauna marina e sulla catena alimentare, i rifiuti plastici alla deriva non sono mai stati inquadrati nell’ottica di un possibile pericolo batteriologico. L’attenzione sugli eventi pandemici scatenatasi nell’ultimo anno ha portato alla ribalta studi e teorie precedentemente trascurate perché catastrofiste: ora è su questi dati e su queste ricerche che il mondo della scienza ha intenzione di puntare per premere sulla produzione di plastiche maggiormente ecocompatibili e sulla riduzione drastica della plastica monouso: ma come con la pandemia da Covid-19, il più grande ostacolo alla realizzazione di risultati e misure precauzionali condivise è e sarà il carattere transnazionale dell'ottavo continente.

Contagious, il film che aveva "predetto" il Covid. Ma non è il solo. Contagious è un film che porta sullo schermo una realtà distrutta dal diffondersi di un virus: tuttavia la pellicola con Arnold Schwarzenegger non è l'unico che sembra aver predetto diffusione, sintomi e restrizioni legate al coronavirus. Erika Pomella - Ven, 26/03/2021 - su Il Giornale.  Contagious - Epidemia Mortale è il film del 2015 che andrà in onda questa sera, a partire dalle 21.15 sul canale Italia 2. Presentato in anteprima al Tribeca Film Festival, Contagious rientra nel genere di film che pongono lo spettatore davanti alla minaccia di un virus in grado di distruggere l'umanità.

Contagious - Epidemia mortale, la trama. In una Terra post-apocalittica, l'umanità si è in qualche modo inginocchiata davanti all'ascesa di un virus chiamato Necroambulist, che ha portato gli esseri umani a trasformarsi in creature molto simili agli zombie. Tuttavia, nonostante questa minaccia, la società civile ha continuato ad andare avanti. Nelle grandi città ci sono rigidissime regole e restrizioni, compreso il coprifuoco notturno, per evitare di alzare il numero dei contagi e, dunque, dei morti. Maggie Vogel (Abigail Breslin) è una giovane che è stata morsa al braccio e, per questo, viene trasportata in ospedale, dove le viene confermato che l'infezione sta dilagando all'interno del suo corpo. Nonostante questo a Maggie viene permesso di tornare a casa con suo padre Wade (Arnold Schwarzenegger), in modo da poter passare quanto più tempo possibile insieme, prima che arrivi il momento fatidico in cui Maggie perderà la sua umanità e diventerà l'ennesimo zombie da abbattere.

Come Contagious, tutti i film che sembrano aver predetto la pandemia. È naturale che, visto il momento storico che il mondo sta attraversando da un anno a questa parte, quando nelle pellicole si affronta un'epidemia o un virus, l'immaginazione dello spettatore paragoni quello che vede sullo schermo con quello che vede fuori dalle sue finestre. Contagious - Epidemia mortale rientra in quel genere di film che, con la realtà della pandemia, ha davvero molto in comune. Sebbene il virus del film abbia il potere di tramutare le persone in zombie, alcune dinamiche che si vedono nella storia di Wade e Maggie sono quelle che in molti sono costretti ad affrontare giorno dopo giorno: il lockdown, la quarantena, il coprifuoco notturno. Volendo spulciare nella storia del cinema moderno, non è difficile trovare film che sembrano aver in qualche modo "predetto" la pandemia che sta ancora imperversando nelle strade di tutto il mondo. Un esempio è 1975: occhi bianchi sul pianeta terra. Tratto da un romanzo breve di Richard Matheson, il film racconta di un virus venuto dalla Cina che ha lasciato le città vuote e deserte, mentre il protagonista è alle prese con la speranza di poter utilizzare un vaccino sperimentale per poter curare il male dilagante. Dallo stesso racconto di Matheson, è stato poi tratto Io sono leggenda, film uscito nel 2007 con la regia di Francis Lawrence che vede Will Smith indossare i panni del protagonista. Oltre al contesto post-apocalittico generato dal virus e alla solitudine del protagonista, Io sono leggenda ha parlato anche della disinformazione che ruota intorno all'esplosione della pandemia. Nel film, infatti, ci sono molte scene di telegiornali e fonti di informazione con narrazione falsificate su quello che sta accadendo nelle strade. Il che, naturalmente, spinge a pensare immediatamente alle fake news che hanno popolato soprattutto i social a inizio pandemia. Sull'argomento è intervenuto lo stesso Will Smith che, apparendo come ospite a Red Talk, ha parlato proprio di Covid e di cattiva informazione, sottolineando di sentirsi responsabile proprio perché aveva preso parte a Io sono leggenda. L'attore, diventato famoso con la serie Willy il principe di Bel-Air, ha detto: "Ho voluto essere presente perché ho fatto il film "Io sono leggenda". Perciò in un certo senso mi sento responsabile per molta disinformazione. Mentre mi stavo preparando per il ruolo ho avuto la possibilità di andare al centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, grazie al quale ho sviluppato una comprensione di base delle nozioni fondamentali che riguardano virus e agenti patogeni, cosa che ha cambiato il mio modo di guardare il mondo. Ci sono dei concetti fondamentali che le persone non riescono a capire... quindi quello che voglio adesso è avere l'opportunità di parlare delle basi, e poi di passare la parola agli esperti". Un classico del cinema che parla di pandemie è La città verrà distrutta all'alba, film di George Romero in cui una tranquilla cittadina viene scossa da un'epidemia che trasforma i cittadini in violenti assassini a causa di un virus contenuto nell'acqua. Elemento, quest'ultimo, che sarà poi ripreso dal film V per Vendetta. Nel film di Romero lo spettatore assiste a un'escalation sempre maggiore non solo di violenza, ma anche di paura. La cittadina viene chiusa e isolata dal mondo esterno e tutti devono sottoporsi a un controllo della temperatura corporea. È questa, infatti, che separa le persone sane da quelle infette. Oggi, nel mondo regolamentato dal Covid, è pressoché impossibile entrare in qualche luogo senza che prima non venga misurata la febbre, che deve tenersi sempre sotto al grado 37.5.

Il Covid invade anche la tv. Ecco tutti i film e le serie da guardare. Tra i film che parlano della pericolosità dei virus, si può citare Cassandra Crossing, film del 1976 con Sophia Loren e Richard Harris. La trama della pellicola ruota intorno a un virus che riesce a uscire dai laboratori delle sperimentazioni dell'OMS a Genova, portando alla morte repentina di tutti coloro che vi entrano in contatto. Ma, una delle pellicole più citate (e più viste) quando si tratta di pandemie è sicuramente 28 giorni dopo, che vede come protagonista l'attore Cillian Murphy, noto per aver interpretato Thomas Shelby in Peaky Blinders. Il film racconta di un virus che si diffonde a Londra dopo che alcuni animalisti hanno liberato degli scimpanzé geneticamente modificati. Il protagonista è un ragazzo che si sveglia dal coma 28 giorni dopo l'inizio della pandemia e trova una Londra ormai vuota, abbandonata dagli abitanti e presa d'assalto dagli infetti. Nel 2013, invece, arriva al cinema The Flu - Il contagio, una pellicola che ancora una volta posiziona nell'oriente la nascita di un focolaio di un virus che porta alla morte e che costringe il mondo a rivedere le proprie regole. A Budang, a Seul, in un camion che trasporta immigrati, vengono trovati i cadaveri dei clandestini. L'unico sopravvissuto è un giovane che viene preso dai trafficanti ma quando uno di questi si ammala, il ragazzo riesce a scappare, senza sapere di essere il veicolo di un virus che si trasmette per via aerea. Ben presto in città vengono costruite zone di quarantena e l'esercito comincia a vegliare nelle strade, affinché l'isolamento e le restrizioni vengano portate in atto da tutta la popolazione. Come nel caso del coronavirus, anche in The Flu, con il suo virus H5N1, i primi sintomi hanno a che fare con colpi di tosse. Intanto gli ospedali, sempre più pieni, cominciano a dare segno di cedimento, mentre il panico viene diffuso dai politicizzanti che spingono la popolazione a fare scorta di beni di prima necessità, assembrandosi nei supermercati, o cercando di scappare dalla città prima che il governo chiuda tutto. Azioni, queste, che somigliano molto a quelle viste nei telegiornali nel marzo 2020, all'inizio della pandemia da coronavirus. Come Contagious, anche Carriers-Contagio letale è un film che racconta una pandemia mettendo al centro della narrazione il tema della famiglia. In questa pellicola spagnola del 2009, il mondo è alle prese con una pandemia che sembra non lasciare scampo. Due fratelli decidono di mettersi in macchina per cercare di raggiungere il Messico, dove si spera ci possa essere una sorta di vaccino. Durante il viaggio, però, i due entrano in contatto con un padre e una figlia, entrambi infetti, con cui sono costretti ad affrontare il viaggio, con la mascherina a coprire le vie aeree. Il film che maggiormente sembra aver predetto la pandemia da coronavirus è però Contagion, il film di Steven Soderbergh del 2011, presentato al Festival di Venezia. Nel film - che vede un cast stellare che va da Matt Damon a Gwyneth Paltrow - il contatto tra un pipistrello e un maiale porta alla creazione di un virus che in poco tempo comincia a sterminare la razza umana. Proprio come il Covid-19, il MEV-1 si presenta come un virus che attacca il sistema respiratorio, provocando tosse, febbre alta e difficoltà nella respirazione. Tutti sintomi, questi, simili a quelli del coronavirus. L'unica differenza è che MEV-1 ha un grado di letalità decisamente maggiore, che porta i contagiati a delle morti veloci e irrefrenabili. Altri elementi in comune tra Contagion e la pandemia ancora in corso è la provenienza del virus: in entrambi i casi, si tratta di epidemie che vengono dall'Est. Il Covid viene da Wuhan, mentre il MEV-1 ha origine all'interno di un casinò di Hong Kong. In Contagion, inoltre, non mancano i riferimenti alle fake news e ai complotti: lo si vede bene nel personaggio interpretato da Jude Law, un blogger che per qualche like in più non solo si "accontenta" di fare cattiva informazione, ma arriva addirittura a inventarsi complotti e mentire su un medicinale in grado di debellare il male.

Virus e pandemia, sapevamo già tutto: quel convegno datato 2007. Spunta un opuscolo di 14 anni fa. Le previsioni sui virus e la crisi economica. Perché allora ci ha travolto? Giuseppe De Lorenzo Marco Gregoretti - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale.  Sapevamo tutto, o quasi. Eravamo consapevoli che l’onda pandemica sarebbe arrivata, forse non esattamente quando. Ma lo sapevamo. Da tre lustri viviamo con la certezza che il virus ci avrebbe colpito, avrebbe ucciso, avrebbe affossato le economie locali e mondiali, eppure non ci siamo preparati a dovere. “Fondamentale risulta la cosiddetta "preparedness", ovvero la capacità di reazione e gestione degli effetti di un evento pandemico”, si leggeva in un corposo opuscolo pubblicato da fior fior di esperti qualche anno fa. Era il 2007. Il dossier spunta da una vecchia cantina ed è l'emblema di come il mondo non abbia ancora imparato a trarre lezioni dal passato. Corsi e ricorsi storici, diceva Gian Battista Vico. Anche per le pandemie funziona un po’ così. Era l'11 ottobre di 14 anni fa a Milano, Centro Congressi Fondazione Cariplo, quando venne organizzato un convegno talmente attuale da far paura. Titolo: “Pandemia influenzale, Salute, Economia, Sicurezza”. Tra i relatori svettavano alcuni degli autori dell'inserto (“Pandemia: dall’influenza epidemica all’influenza pandemica”) pubblicato in quello stesso periodo dal Sole24Ore sul ruolo, i rischi e le responsabilità delle imprese in caso di una “probabilità concreta, anche se non desiderabile” che il mondo venisse investito da una pandemia. Ad ispirare quella ricerca erano state le notizie circolate un anno e mezzo prima, quando sui media non si parlava d'altro che del virus H5N1, più comunemente noto come “influenza aviaria”, un agente patogeno con un “tasso di mortalità superiore al 60% nei contagiati” (dunque molto più dell’attuale Sars-CoV-2) e senza “che sia possibile produrre un vaccino”. Le aziende erano così preoccupate dagli “oscuri presagi” provocati da quello spauracchio, poi “caduto nell’oblio”, da iniziare a pensare che forse il mondo avrebbe dovuto prepararsi al peggio. Scriveva infatti Mauro Moroni, dell’Istituto di Malattie Infettive e Tropicali, che “gli scienziati hanno pochi dubbi sul fatto che il futuro ci riservi una nuova pandemia influenzale” anche se “ancora non sanno quando si verificherà e da quale virus sarà provocata”. In fondo le pandemie sono eventi ciclici: nel 1918 la "Spagnola" (virus H1N1) uccise 50 milioni di persone; nel 1957 la "Asiatica" (H2N2) ne ammazzò 1-4 milioni; mentre nel 1968 l'ultima influenza, chiamata “Hong Kong” (H3N2), ne portò all’altro mondo 2 milioni. Ed essendo “passato troppo tempo dall’ultimo significativo evento pandemico”, per Marco Frey (Scuola Superiore Sant'anna di Pisa) “la guardia" doveva essere tenuta "alta”. Prima o poi ci sarebbe toccato di nuovo. Certo, il virus influenzale che si presumeva “più indicato nella prossima pandemia” era “il virus aviario A (H5N1)” e come ben sappiamo non è andata così. Eppure tutte le altre previsioni dell’opuscolo si sono verificate con una precisione quasi demoniaca. Si pensi agli effetti sociali ed economici del morbo. Nel lontano 2007 a preoccupare maggiormente erano l'assenteismo, il blocco dei processi produttivi e distributivi, la crisi del settore finanziario, della filiera agricolo-alimentare, dei trasporti e del sistema sanitario. Tutto quello che poi è effettivamente successo nel 2020 per colpa del virus "cinese". “La miglior difesa”, scriveva allora Paolo Tedeschi, sarebbe stata quella di “adottare una prospettiva cautelativa, ragionando per approssimazione a partire dal parente più prossimo” di ogni pandemia, “ovvero l’influenza stagionale”. In sostanza, dicevano gli esperti, se l'Italia e il mondo si fossero preparati ad affrontare un'ondata più aggressiva della normale influenza (che già di suo provoca morti, perdite economiche e pressione sul sistema sanitario), forse ci saremmo risparmiati un anno di lockdown, promesse non mantenute, blocchi, danni. In fondo, benché non riguardanti direttamente il coronavirus, di stime ne avevamo a bizzeffe. “L’impatto economico” della Sars nei paesi asiatici era stato valutato dal -0,6% al -2% del Pil. Inoltre a Toronto quel virus aveva già “comportato la quarantena di 15mila persone, l'abbandono del trasporto pubblico e l'implosione del sistema sanitario locale (anche a causa dell'elevato tasso di contagio proprio tra il personale sanitario)”. Notate analogie con i tempi moderni? Per l'Italia dal punto di vista economico le conseguenze di una pandemia erano state già calcolate sulla base di tre scenari: un danno “contenuto si attesterebbe sullo 0,6% del Pil, ovvero 8,5 miliardi di euro, un danno ‘medio’ a circa 28 miliardi (2% del Pil) mentre un impatto grave (6,5% del Pil) significherebbe perdite fino a 92 miliardi, pari cioè a quasi l’intero bilancio annuale del Servizio Sanitario Nazionale”. A conti fatti, avevamo messo in conto “riduzioni dei consumi a medio termine per alimentari, abbigliamento, turismo, ristorazione e trasporti”. Infatti è andata proprio così, e forse pure peggio: nel 2020 il calo del Pil è stato dell’8,8%. Non è tutto. “Sulla base delle precedenti" esperienze, gli esperti 14 anni fa calcolavano che “il livello di infezione” di una nuova pandemia aviaria si sarebbe attestato “tra il 25% e il 30% della popolazione, con un numero di ammalati in Europa compreso tra 114,8 e 137 milioni (da 14,6 a 17,5 in Italia), ed una mortalità pari a 1,1 milioni di decessi (in Italia circa 146.156 morti)”. A mettere i brividi non è solo quanto quelle stime si avvicinano a quanto registrato in questo ultimo anno (nel Belpaese la Covid-19 ha ucciso 105mila persone), ma il fatto che benché fosse tutto così “chiaro” sin dal 2007 il ministro Speranza e il Cts abbiano deciso di tenere “riservato” lo studio che confermava numeri simili per Sars-CoV-2. L’opuscolo, benché datato, diventa quindi oggi un atto di accusa drammatico contro chi, per errore o incapacità, negli ultimi 14 anni non ha fatto quanto in suo dovere. Mette con le spalle al muro chi non ha aggiornato il piano pandemico nazionale, chi ha scelto di non applicarlo, chi si è dimenticato di aggiornare le difese alle linee guida di Oms e Ue, chi ha spedito mascherine in Cina invece di incrementare le scorte, chi non ha preparato in anticipo un piano vaccinale, chi ha organizzato aperitivi sui Navigli, chi non è intervenuto in tempo per circoscrivere i danni sanitari, economici e sociali della pandemia. Il testo certifica pure come il mondo industriale, benché informato già dal 2007, invece di “partecipare a un progetto di prevenzione di un rischio pandemico” insieme alle istituzioni (addirittura si suggeriva un piano pandemico aziendale e scorte di antivirali), alle prime avvisaglie abbia cavalcato campagne come Milano (e Bergamo) non si ferma. Ma soprattutto il dossier smonta la retorica tanto cara al passato governo, cioè il racconto di una tragedia arrivata come un “cigno nero”. Non è così: sapevamo che sarebbe successo, eppure siamo finiti lo stesso “in balia della pandemia”.

 “La Peste” di Albert Camus e la sua attualità. Un parallelismo esemplare con il nostro tempo. Carlo Franza il 14 marzo 2021 su Il Giornale. La peste del Coronavirus stringe nella morsa l’Italia, l’Europa e il mondo intero. E’ una lotta  ìmpari. Gli Stati tutti in corsa a procacciarsi i vaccini, e taluni come l’Astrazeneca ci lasciano sgomenti e impauriti per ciò che producono. In questi ultimi giorni la somministrazione del vaccino Astrazeneca  ha provocato delle morti da nord a sud Italia, l’ultimo è di ieri sabato 13 marzo, un docente in provincia di Biella in Piemonte, Regione che ha così bloccato la somministrazione. Non si sa a che santo rivolgersi, ma vi assicuro che in parte la scienza ha fallito, visto gli svarioni dei virologi soprattutto italiani. Mi sono andato a riprendere dagli scaffali della mia libreria il romanzo “La peste” di Albert Camus, filosofo e giornalista francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957.  Mi son detto, devo rileggerlo,  anche se avverto che  è  più una forma di autodifesa psicologica, considerato il periodo che da un anno a questa parte stiamo vivendo.  In questi giorni  vi è stata la  riedizione de “La Peste”(da Bompiani)  dello scrittore  francese  Albert Camus,  uno dei capolavori di uno dei maggiori esponenti della cultura del Novecento, e recensito in modo esemplare da Dario Roverato su “Strumenti Politici”.   Il romanzo descrive oggettivamente e quindi fa cronaca  vera, per il tramite del dottor Rieux, che, con disillusione dovuta ad una sorta di deformazione professionale, combatte con tenacia contro la peste che ha colpito Orano, una cittadina commerciale della costa algerina in cui “ci si annoia e ci si applica a contrarre delle abitudini” fino al giorno in cui le strade e le case vengono invase dai topi che portano la malattia. L’io narrante cede il passo ad un racconto in terza persona, tanto che solo alla fine si scoprirà che la voce narrante è il protagonista del racconto.  Provate a leggere  o  rileggere  -come sto facendo io- il romanzo, vi troverete calati in un mondo similare a quello che ormai stiamo vivendo da  dodici mesi  per via della Pamdemia Covid 19  che ha ammorbato l’intero mondo. “Dal momento che il flagello non è a misura d’uomo – scrive Camus – pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare”. Avvertirete gli stessi pensieri e gli stessi sentimenti che abbiamo vissuto nei primi mesi dello scorso anno, facendoci coraggio l’un l’altro, pensando che presto sarebbe passato tutto, tanto che il “rinascerai- rinascerò” di Roby Facchinetti,  da Bergamo inondava gli animi  e  ci faceva ben sperare, nonostante quella sorta di bombardamento di informazioni cui eravamo sottoposti, e l’incredulità di un virus mortale. Sentite cosa troviamo nel romanzo di Camus: “Sembrava che i nostri concittadini avessero difficoltà a capire ciò che stava accadendo loro. Quasi tutti erano in primo luogo sensibili a ciò che interferiva con le loro abitudini o toccava i loro interessi. Nel complesso non erano spaventati, si scambiavano più battute che lamentele”. Nel romanzo di Camus  si legge che anche ad Orano le autorità si trovarono  completamente impreparate  a fronteggiare quell’onda lunga che stava per travolgere la città, tanto da assumere con ritardo ogni iniziativa di contenimento,  un po’ come avvenne da noi, in Italia. Proprio così. “Ne provavano fastidio o irritazione, e non sono questi i sentimenti che è possibile contrapporre alla peste”, prosegue Camus. Anche ad Orano arrivarono i “bollettini dei morti”,  dati che hanno tristemente scandito il rintocco delle ore 18 per mesi anche da noi, soprattutto durante il primo lock-down. Tutto avvenne senza consapevolezza e avvedutezza, tanto che non ci furono  più “destini individuali, ma una storia comune costituita dalla peste e sentimenti condivisi da tutti. La malattia, che in apparenza aveva costretto gli abitanti a una solidarietà da assediati, spezzava i legami comunitari tradizionali e abbandonava gli individui alla loro solitudine”. Anche noi ci siamo rinchiusi in casa  -anzi ci hanno rinchiuso  sia nel 2020 che ora nel 2021- , impauriti, infastiditi, non proprio consapevoli di cosa ci stesse   accadendo. Poi  la situazione è esplosa in tutta la sua gravità, con il dramma che ancora oggi entra nelle nostre case, e tabelle giornaliere  di numeri di ricoveri, terapie intensive e  morti. Esattamente come ad Orano, dove “i malati morivano lontano dalla famiglia e le veglie erano vietate”. Anche ad Orano “le bare cominciarono a scarseggiare, mancavano la tela per i sudari e lo spazio al cimitero. Ci si dovette ingegnare”. Ditemi voi se quanto scriveva Camus nel suo romanzo non è attualissimo. Più che attuale. E’ la nostra storia che si ripete come allora.  Prosegue Camus “Fu deciso di seppellirli di notte, il che dispensava da certi riguardi. Si poterono ammassare molti più corpi nelle ambulanze. Accadeva talora di imbattersi in lunghe ambulanze bianche che sfrecciavano”. Il ricordo  ed delle fila di camion dei nostri militari carichi di bare chiuse in fretta e furia e portate nei forni crematori che erano ancora nelle condizioni di lavorare, è ancora nei nostri occhi. Il romanzo di Camus è forte, drammatico, vibrante, ossessivo, pur nel suo linguaggio semplice e avvincente.  Non è la prima volta che la peste si cala nel mondo, i secoli ce l’hanno indicata più volte,   presso i greci ad Atene (lo storico Tucidide dedica una sezione importante del II libro delle sue Storie all’irrompere della peste in Attica, nell’estate del secondo anno di guerra (430 a.C.) ,  fino a quella descritta da Boccaccio, e poi quella descritta da Manzoni nei “Promessi Sposi”, per citare alcuni eventi.    La peste rappresenta una metafora morale,  indica il male, dormiente, sempre in agguato, che risulta essere estremamente insidioso quando si esprime a livello di massa. La peste segna una tappa fondamentale in un percorso di maturazione del pensiero di Camus, riconducibile all’idea dell’assurdità dell’esistenza e del mondo, di fronte alle quali le consolazioni filosofiche e religiose risultano palliativi e mistificazioni; tesi in cui hanno dibattuto  altri grandi del pensiero occidentale, da Schopenhauer a Nietzsche fino a Bertand Russel, pur con diverse sfumature. Proprio con “La peste”, Camus propone delle indicazioni, delle possibilità cui aggrapparsi, nel senso che l’uomo può superare la disperazione e la solitudine della propria condizione attraverso la rivolta lucida e cosciente contro l’assurdo, ovvero attraverso l’impegno e la solidarietà. E se   il protagonista, il dottor Rieux,  consciente  della gravità della situazione, resta al suo posto,  altre figure del romanzo decidono di impegnarsi e rischiare la propria vita nelle attività di soccorso ai malati; e Rambert, il giornalista rimasto bloccato ad Orano quando la città è stata posta in quarantena, escogita uno “stratagemma oneroso” per attraversare i posti di blocco,  e decide di restare e fornire il suo aiuto, perché ne ha “abbastanza della gente che muore per un’idea. Non credo nell’eroismo, so che è fin troppo facile e ho scoperto che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano”. Non mi pare sia poco. Carlo Franza

La scoperta a Foggia: l'epidemia di peste del XIV secolo raggiunse anche il Sud Italia. In due tombe trovato il Dna del batterio. La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Luglio 2021. L'epidemia di peste del XIV secolo aveva raggiunto anche il Sud dell’Italia: lo indica l’analisi del Dna dei resti di due uomini, di età compresa tra i 30 e i 45 anni, sepolti nell’abbazia di San Leonardo a Siponto (Foggia), un importante centro religioso e medico nel Medioevo. Le analisi sono state condotte dai ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Puglia e Basilicata, coordinati da Donato Raele. I risultati sono stati presentati al Convegno europeo di microbiologia clinica e malattie infettive. Gli autori della ricerca hanno individuato nei denti dei due individui il Dna antico del batterio Yersinia pestis, responsabile della cosiddetta Morte nera, che a metà del XIV secolo uccise fino al 60% della popolazione europea. I campioni di Dna, spiegano gli esperti, hanno evidenziato una grande somiglianza con quelli delle vittime della peste precedentemente studiati in altre zone d’Italia: i ceppi di Yersinia pestis erano identici. «Ci siamo insospettiti quando abbiamo portato alla luce alcune monete del XIV secolo dai vestiti di una delle due vittime. Un aspetto - spiega Raele - che suggerisce che i corpi non erano stati ispezionati per confermare la causa della morte». Sebbene i casi di peste nera siano riportati in diversi documenti storici, nessun luogo di sepoltura, era stato sottoposto ad analisi del Dna nel Sud Italia. «Non abbiamo ancora compreso l’entità delle diverse ondate della pandemia durante la peste nera nel Sud Italia. Infatt - osserva Raele - il Dna del batterio Yersinia pestis che abbiamo individuato è di circa 300 anni più antico del precedente analizzato dai nostri ricercatori a Foggia, e legato a una fossa comune della fine del 1600. I nostri risultati - conclude - contengono, quindi, dettagli preziosi per comprendere meglio l’entità dell’epidemia di peste in tutta Italia». 

VIRUS E RAPPRESENTAZIONE. Dalla spagnola al covid, nelle fotografie gli stessi volti di fantasmi e di pietà. Le immagini dell'epidemia di cento anni fa rispecchiano quelle di oggi. E ci insegnano a resistere all'assedio che uccide speranza e fantasia. Giuseppe Genna su L'Espresso l'1 febbraio 2021. Il sentimento che l’uomo sopporta con maggior fatica è la pietà, soprattutto quando la merita. L’odio è un tonico, che permette di vivere, ispirando vendetta ed energia. L’ironia funziona perfettamente come esorcismo. La pietà invece uccide, indebolisce ancor di più la nostra debolezza. È forse per questo che non penetrano profondamente la pietà le immagini elette a simbolo del passaggio storico che viviamo, l’era del Covid (qualche anno varrà un’intera epoca). Da decenni la civiltà del benessere altro non faceva che eleggere immagini, una forma di cronaca che presumeva di sostituire la storia. Le immagini delle tragedie erano andate sostituendosi alle usuali forme di monito e di celebrazione. L’immagine più scoscesa e metafisica di quell’era spettacolare, forse, era la sagoma dell’uomo che cade dalle Torri Gemelle a New York: un umano irriconoscibile nei tratti, piccino, isolato, non ancora morto, impiegatizio e americano. Una tragedia silente e trascurabile, perché non intrisa di pietà. Un’anestesia di massa: noi di fronte all’uomo occidentale, che perisce in tempo reale in un atto di guerra, non riconosciuto del tutto come tale. Nessun sentimento, nessuna compromissione tra lo spettatore e la viscosa materia storica che si esprimeva con una fotografia. Era una verità dura, implicita nell’ordine che si viveva dal dopoguerra in poi: il fatto di essere separati dall’immagine, così come si era sempre separati dalla storia. Il Muro di Berlino lo abbattevano altri, era uno spettacolo. Davanti al carrarmato in piazza Tienanmen ci stava un altro. Il Papa si afflosciava ferito in piazza San Pietro, lo scrutavamo come si assiste a un film. Alfredino scompariva alla nostra vista, all’imbocco di quel pozzo artesiano eravamo tutti spettatori. Il cadavere di Aldo Moro si trovava al centro dell’osceno teatro umano precipitatosi in via Caetani e noi quello guardavamo: un teatro nel teatro. Con il Covid, invece, le immagini sembrano collassare o perlomeno perdere di colpo la capacità di riassumere lo spettacolo, a cui si pensava che si fosse ridotta la storia. Questo fatto, il virus, non è semplicemente spettacolare, perché è pienamente storico, lo stiamo vivendo tutti e nello stesso momento. Più si vive la storia e meno lo spettacolo funziona come surrogato: non c’è bisogno di alcun surrogato. Un fatto che dura mesi, forse anni, non è uno spettacolo. Non si riesce a riassumerlo attraverso flash e polaroid. Un dolore così a lungo negato, così malamente sopportato, che coinvolge la totalità dell’esistente, può forse confermare le profezie di una scrittura sacra o innescare la poesia, ma non arriva a produrre istanti isolati per uno spettacolo domestico. Nella comune sofferenza, nulla è domestico, nemmeno le case in cui chiunque si rintana per proteggersi dalla pandemia. L’arte può incidere ancora e riscattare le immagini cronachistiche, ma si dà che in questo tempo epidemico nessuno sia in grado di stabilire con certezza cosa sia l’opera d’arte. Possiamo ancora minimizzare la grande storia, per esempio irridendo le corna di uno sciamano vichingo dentro il parlamento statunitense, ma non riusciamo ad abbracciare la totalità muta di quanto avviene quotidianamente mentre penetriamo l’era del Covid. È come se chiunque fosse ridotto a fantasma: quali opere d’arte producono i fantasmi? E fantasmi si sovrappongono a fantasmi. La storia delle immagini confuse della grande pandemia mondiale di un secolo fa, l’influenza cosiddetta “spagnola”, giustapposte alle istantanee di oggi. I trapassati si sovrappongono ai presenti e viceversa. È il regno confuso delle immagini e della storia, che pur sempre sono corpi fantasmi, scena fantasma. Spettri in mascherina, assiepati in hangar per l’isolamento, dispersi nella disinfezione delle strade. Tutta una epidemiologia a un secolo di distanza, praticamente identica nei tratti essenziali, nei dispositivi di protezione, nelle cautele e nelle prevenzioni. Universi che si scontrano, per scoprirsi coincidenti. Gli spettri del 1919 e le larve del 2020. Purché siano viventi, nel momento in cui la fotografia viene scattata. Ciò che manca, infatti, sono i cadaveri e i morti. Mai come nel corso di questa pandemia i due corpi si sono disgiunti, il cadavere e il morto. Non li si sono visti, sono stati censurati. Il cadavere con tutto l’orrore che comporta e il morto con tutta la storia che si porta via, la pietà e l’imperativo per noi di provare un sentimento acuto e vero. Non li si vedono in queste nebule dell’immediato dopoguerra e non li si notano, neppure di scorcio, nelle immagini registrate di giorno in giorno oggi. La pietà, sostituita dalla numerologia dei bollettini, è il grande rimosso della nostra epoca. Stracciata e sostituita dall’indifferenza e dalla normalizzazione della morte e del pericolo, la pietà non è evocata e non è praticata dal pubblico dominio, che sembrerebbe accontentarsi per la maggior parte di un’alzata di spalle, a fronte di cinquecento morti al giorno. «Freddi eunuchi distribuiscono il veleno», come scriveva il grande poeta russo Osip Mandel’stam. Non avviciniamo le rughe e le disperazioni di chi ha ceduto alla polmonite bilaterale o di chi sta per farlo, soffocando per l’eccesso di ossigeno sotto il casco Cpap. Orrore e pietà sono sentimenti connaturati alla tragedia, che da troppi mesi sembra avere preso le forme dell’ordinario, una mascherina e via, un caffè d’asporto e chi si è visto si è visto. Dove sono le immagini che hanno il coraggio e la capacità di portare con se stesse il carico di dolore reale, di sofferenza viva nell’inoltrarsi della morte? La pietà è il riscatto della vita, a danno della morte. Le parole della pietà valgono cento immagini dell’empietà. E in questo caso, cioè nel caso di noi viventi ora, nemmeno possiamo conferirci il rilievo morale del dramma, che l’empietà comporta. Siamo piuttosto dominati dal regime dell’impietà. Né pietosi né spietati, gli abitanti della civiltà benestante si aggirano per metropoli, indifferenti a tutto, in cerca vana di uno spettacolo ulteriore, su cui ciarlare infinitamente, nel chiacchiericcio che ha sostituito il discorso pubblico. Senza pietà, muore tutto - la politica in primis. Nel tempo dell’impietà si affaccia una nuova specie di politica, cioè l’impolitica. Impolitica è la gestione dell’esistente, la tecnica amministrazione delle cose, tanto dei vaccini come delle fake news. Ricchissimi di opinioni e poveri di pensiero: così appaiono i viventi nelle grandi circonvallazioni della civiltà urbanizzata, impolitica appunto, che costituisce la scena primaria di ciò che accade oggi, da Washington a Wuhan, passando per Milano, per Stoccolma, per Tel Aviv, fino all’immenso mistero africano e indiano, del tutto privo di immagini pandemiche. È come vivere in un tempo che ha la possibilità di guardare tutto e non vede niente. Ci vorrebbe un grande moralista, per inchiodarci alle nostre disperazioni. Per produrre l’immagine che scolpisce, facendo entrare il vuoto in noi, lo smarrimento, l’abiezione, tutto il fango della vita e le ceneri bagnate della morte. «Le ossa e la cenere: dove sono quando non sono nella realtà?», si chiedeva Andrej Tarkovskij in un vecchio film. Il tempo del virus è saturo di fenomeni universali. Lo spettro dell’estinzione di specie, per esempio. La solitudine affettiva dei morenti. I fratelli e le sorelle divisi dal telo in plastica. L’inaccessibilità dei reparti, l’inaccessibilità delle cure. Chi perde la vita mentre è già prodotto un vaccino che gliela avrebbe salvata. L’inutilità, la gratuità della morte. L’immane inutilità, la splendida gratuità della vita. È profilata come in un sogno l’umanità depredata, non piegata, ma ingigantita dai giorni del virus. I saggi parlano del presente, i folli del futuro. Le immagini, mute, le parole, mute anch’esse, dicono questo: abbiamo bisogno dei folli più che mai, di febbri più potenti che quelle sollevate dalla malattia, di deliri che vedano e profetizzino cosa sta per arrivare. Perché - è certo - qualcosa sta arrivando.

Ecco cosa ha veramente detto Gheddafi a proposito delle epidemie. Mauro Indelicato su Inside Over il 22 gennaio 2021. Quando un evento sconvolge il corso della storia immancabilmente arrivano, soprattutto sui social, riferimenti a possibili premonizioni giunte direttamente dal passato. L’emergenza coronavirus in tal senso ha scatenato la diffusione di una serie di reazioni e teorie volte, in alcuni casi, a rintracciare anche un elemento “artificiale” nell’esplosione della pandemia. Tra queste, è da annoverare la circolazione di una frase attribuita al leader libico Muammar Gheddafi. Per tutto il 2020 ha infatti circolato sui social un’immagine del fondatore della Jamahirya ucciso nel 2011 con una didascalia riportante una sua affermazione sui virus risalente al 2009: “Creeranno virus da soli e ti venderanno antidoti e poi faranno finta di aver bisogno di tempo per trovare una soluzione quando già ce l’hanno”. Cosa c’è di vero in questa ricostruzione?

Cos’ha detto Gheddafi nel 2009. Per chi ha veicolato soprattutto su Facebook questo post, la frase del rais sarebbe una premonizione dell’attuale emergenza coronavirus. Gheddafi cioè avrebbe anticipato i tempi e già 11 anni prima della comparsa del Covid-19 è stato in grado di prevedere cosa sarebbe accaduto nel 2020. In realtà, il leader libico non ha mai nominato il coronavirus e non ha mai fatto riferimento all’attuale pandemia. Il discorso da cui sono state estrapolate le sue parole è quello da lui tenuto in sede di assemblea dell’Onu a New York nel settembre 2009. Si tratta di uno degli interventi più sentiti dallo stesso rais e che meglio può sintetizzare il suo repertorio retorico/politico. Per la prima (e ultima) volta si trovava negli Stati Uniti, sapeva che tutti gli altri leader lo stessero ascoltando e aveva davanti una platea mondiale in cui esternare il proprio pensiero politico. Un’occasione unica per Gheddafi, che ha infatti parlato per un’ora e mezza, stravolgendo la scaletta della seduta assembleare e spesso non ha prestato attenzione ai suoi stessi appunti, andando a braccio e parlando in alcuni passaggi direttamente con il suo dialetto arabo – libico. Di quell’intervento AfricaNews ha ancora in archivio la sua trascrizione integrale in inglese. Andando alla parte relativa ai virus, un primo cenno all’argomento è stato fatto all’inizio quando ha dichiarato che “forse l’influenza H1N1 era originariamente un virus creato in laboratorio di cui si è perso il controllo”. Una frase contenuta in un passaggio del suo discorso dove parlava delle sfide da affrontare per la comunità internazionale. Tra quelle sfide, vi erano anche le epidemie e da qui il suo riferimento all’influenza da virus H1N1, per la quale pochi mesi prima l’Oms aveva dichiarato la pandemia. Successivamente Gheddafi è tornato su quell’argomento: “Forse domani ci sarà l’influenza dei pesci, perché a volte produciamo virus controllandoli – si legge nel discorso – È un’attività commerciale. Le aziende capitaliste producono virus in modo che possano generare e vendere vaccinazioni. Questa è un’etica molto vergognosa e povera. Vaccinazioni e medicine non dovrebbero essere vendute”. “Nel Libro Verde – ha poi proseguito – sostengo che i farmaci non dovrebbero essere venduti o soggetti a commercializzazione. I farmaci dovrebbero essere gratuiti e le vaccinazioni fornite gratuitamente ai bambini, ma le società capitaliste producono virus e vaccinazioni e vogliono realizzare un profitto. Perché non sono gratuiti? Dovremmo darli gratuitamente e non venderli”.

Il significato delle parole di Gheddafi. La morte violenta del rais due anni dopo quel discorso ha aggiunto, agli occhi di molti, una certa suggestione nel leggere le sue parole sull’argomento relativo ai virus. Da qui forse la diffusione di un post in cui la frase a lui attribuita non è esatta e non è pienamente contenuta nel suo discorso all’Onu del 2009. L’immagine di un Gheddafi come “uomo scomodo” della scena internazionale ha in poche parole aggiunto una certa drammaticità al suo passaggio dedicato alle epidemie. Come detto però, nelle sue frasi non c’è stata alcuna premonizione. Il suo riferimento era alla pandemia da H1N1 in corso in quel momento. E il suo discorso è stato incentrato a una critica verso il modo di gestione della sanità da parte delle multinazionali. Un argomento caro al rais e su cui spesso anche in precedenza si era soffermato. La visione sociale di Gheddafi prevedeva infatti farmaci e vaccini gratuiti per la popolazione, con il settore sanitario non soggetto a privatizzazioni e commercializzazioni. Da qui anche la sua provocazione in riferimento ai virus come arma batteriologica o come prodotti commerciali delle case farmaceutiche. Il rais dunque ha “semplicemente” dato, nel mezzo di una discussione da lui molto sentita, la sua versione politica e il proprio pensiero sul funzionamento della sanità. Criticando duramente, come del resto fatto durante il suo percorso politico, il sistema capitalistico. Nelle sue parole c’è quindi molta politica. Nessuna premonizione legata al coronavirus dunque e nessuna avvisaglia di svariati complotti sanitari.

·        Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Pierpaolo Sileri, le minacce dal Ministero: “Pronti i dossier contro di te”. Chiara Nava il 12/11/2021 su Notizie.it. Pierpaolo Sileri sta ricevendo delle minacce dal Ministero. Si parla di dossier già pronti contro di lui. Emergono nuovi dettagli. Pierpaolo Sileri sta ricevendo delle minacce dal Ministero. Si parla di dossier già pronti contro di lui. Emergono nuovi dettagli sulla gestione della pandemia. Arrivano delle minacce a Pierpaolo Sileri, mentre i colleghi della task force lo hanno ridicolizzato a più riprese. Si parla di dati mancanti, impreparazione e sottovalutazioni. Al ministero della Salute “non avevano la contabilità delle polmoniti recenti: le polmoniti di fine 2019 non sono state contabilizzate fino a maggio 2020, quando il primo traumatico lockdown era già finito e trentamila persone erano già decedute” si legge nel libro La grande inchiesta di Report sulla pandemia di Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini. Il passo successivo potrebbe essere in mano ai pm. “Siamo riusciti a ottenere della documentazione interna molto eloquente: ci chiediamo se questo testo non possa essere l’interruttore che farà scattare nella Procura di Roma un certo interesse nei confronti del tema” si legge nel libro. Tutto è iniziato il 26 febbraio 2020, quando la segreteria di Sileri si è messa in contatto con l’Ufficio prevenzione delle malattie trasmissibili e profilassi internazionale, guidato da Francesco Paolo Maraglino. Via mail sono stati chiesti i dati relativi al numero dei ricoveri dovuti alla polmonite per i mesi di gennaio e febbraio. “La prima risposta doveva essere sembrata poco esaustiva a Sileri, che tramite il suo segretario Francesco Friolo tornò alla carica, rincarando la dose. Il 9 marzo scrisse al segretario generale del ministero della Salute Ruocco, chiedendo i dati del 2019: ‘Pregiatissimo segretario generale, il viceministro è rimasto perplesso del tempo impiegato per fornire una ‘non risposta’ come quella pervenuta. Detto questo, il viceministro attende cortesemente l’invio dei dati relativi al numero dei ricoveri per polmonite in Lombardia e Veneto per il 2019, attendendo inoltre, nella giornata del 16 marzo, i dati riguardanti il mese di gennaio 2020′” si legge nel libro, che ha raccolto i documenti. Il sollecito ha fatto arrabbiare il segretario generale del Ministero, che ha incalzato più volte il direttore Maraglino.

“MANDATE QUEI DATI A SILERI” è stato scritto a caratteri cubitali. “Ciò che il viceministro e il suo staff scoprirono quel giorno fu che i dati non c’erano e ci sarebbero voluti ancora due me si, fino al 23 maggio, per avere una risposta più comprensiva, il cui succo però sarebbe stato che non c’erano numeri completi nemmeno per l’anno precedente” si legge nel libro. A metà marzo nessuno sapeva gestire la situazione. Il libro-inchiesta di Report punta i riflettori sul ministero della Salute. “Sileri sembra essere un corpo estraneo, tollerato più che coinvolto. Tra gennaio e febbraio del 2020 mandava e-mail per chiedere del piano pandemico e per avere i dati sulle polmoniti anomale, nelle riunioni della task force chiedeva i ventilatori polmonari, ricevendo risposte imbarazzanti. E sono arrivate anche le minacce e la voglia di mollare tutto” si legge nel libro. Sileri ha confermato che gli veniva detto che “rompeva le scatole” e che “sarebbero usciti dei dossier contro la mia persona e contro il mio capo segreteria”.  La task force del ministero della Salute avrebbe sottovalutato l’emergenza Covid, nonostante in Italia fosse stato già annunciato lo stato di emergenza.

Il mancato placet alla stesura dell'introduzione. Rai contro Ranucci, procedimento disciplinare aperto e chiuso a tempo record. Riccardo Annibali su Il Riformista il 10 Novembre 2021. Sigfrido Ranucci, vicedirettore di Rai3 e conduttore di Report, sarebbe stato raggiunto, secondo quanto apprende Marco Zonetti (Vigilanza Tv) da fonti accreditate di viale Mazzini, da un provvedimento disciplinare per non aver chiesto l’autorizzazione all’azienda riguardo al libro "La grande inchiesta di Report sulla pandemia", scritto da Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini per la casa editrice Chiarelettere e sul quale Ranucci ha curato l’introduzione. La Rai contesterebbe a Ranucci anche un articolo da lui firmato sul Fatto Quotidiano (testata legata a Chiarelettere) dal titolo ‘Bombe a orologeria, virus e Cassandre’, ma il provvedimento disciplinare riguarderebbe solamente la non richiesta di autorizzazione a redigere l’introduzione della fatica scritta a quattro mani dagli inviati di Report. Nemmeno buoni risultati Auditel della trasmissione d’inchiesta della Terza Rete, attualmente in crisi di spettatori, sarebbero riusciti a dissuadere i vertici dalla decisione di perseguire il vicedirettore con il provvedimento disciplinare. Nell’irremovibile presa di posizione potrebbe aver pesato anche la bufera mediatica scatenata dalla discussa ultima puntata di Report dedicata ai vaccini che volente o nolente che volente o nolente è diventata bandiera dei no vax. Ranucci in un post pubblicato su Twitter ha poi chiarito che nei suoi confronti è stato aperto e chiuso, a tempo record, un procedimento disciplinare.

Il procedimento disciplinare della Rai per l'introduzione di un libro non autorizzata. Sigfrido Ranucci contro il giornalismo di inchiesta, ma solo se riguarda lui…Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Novembre 2021. Sigfrido Ranucci, vicedirettore di Rai3 e conduttore di Report, è stato raggiunto – da quanto abbiamo appreso da fonti accreditate di viale Mazzini, riportate da Vigilanza Tv – da un provvedimento disciplinare per non aver chiesto l’autorizzazione all’azienda riguardo al libro La grande inchiesta di Report sulla pandemia, scritto da Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini per la casa editrice Chiarelettere e del quale Ranucci ha curato l’introduzione. Nemmeno gli incoraggianti risultati Auditel della trasmissione d’inchiesta della Terza Rete, attualmente in crisi di spettatori, sarebbero riusciti a dissuadere i vertici dalla decisione di interessare il vicedirettore con il provvedimento disciplinare. Un provvedimento che lo stesso Ranucci ha confermato con un tweet rivolto alla nostra testata, “rea” di avere anticipato la notizia online. «Il sottoscritto non è stato colpito da alcun provvedimento disciplinare», scrive però contraddicendosi nell’attacco di un testo che Ranucci allega a un tweet. Perché subito dopo è costretto a chiarire: «L’azienda ha aperto e poi archiviato a tempo di record», con questo confermando l’indiscrezione a noi giunta e informandoci anche di una notizia in più, quale quella della immediata archiviazione. Due irritualità in una giornata sola. E in una giornata che segue di dieci giorni la puntata più tempestosa di Report, con le contestatissime dichiarazioni “borderline” sulla terza dose del vaccino anti Covid. Nel testo diffuso sui social network – dove se la prende con noi del Riformista – il conduttore dettaglia: «La pubblicazione (dell’introduzione a sua firma, ndr) è stata un’iniziativa della casa editrice». E quasi sempre le pubblicazioni avvengono per iniziativa degli editori, se l’autore – come in questo caso – ha inviato loro un testo. Ranucci poi si infiamma: «Darò mandato di querelare per la sciatteria con cui hanno infangato una trentennale carriera passata ad onorare nel pieno rispetto delle regole l’azienda per cui lavoro». Il motivo di tanta rabbia? Del procedimento sapevano in pochissimi, oltre a lui. Il capo del personale, l’amministratore delegato e pochi altri. E infatti il vice direttore di Rai Tre non si dà pace: «È grave che una informazione che doveva essere riservata sia uscita dall’azienda», sbotta il rivelatore dei segreti di Stato.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Dagospia il 10 novembre 2021. Estratto del libro "La grande inchiesta di Report sulla pandemia" di Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini - Edizioni Chiarelettere. Nel corso della sua esistenza, la task force informale messa insieme dal ministro Speranza sul finire del gennaio 2020 ha prodotto dei verbali che sono stati secretati fino a giugno del 2021. Il ministero della Salute si e sempre opposto alla loro pubblicazione e, anche di fronte alle richieste di alcuni parlamentari di renderli noti all’opinione pubblica, ha prima sostenuto che le riunioni fossero solo informali, poi ha negato l’esistenza di veri e propri verbali, derubricando i documenti a resoconti informali. Noi, grazie a una fonte interna, avevamo quei testi già da mesi e li abbiamo resi noti prima di chiunque altro, a gennaio del 2021. Leggendoli con attenzione si capiscono le contraddizioni degli uomini ai vertici della sanita, l’impreparazione dell’Italia e la sottovalutazione degli eventi da parte di chi circondava il ministro. Vediamo alcuni stralci tra i più significativi, come il resoconto della riunione del 29 gennaio 2020, nella quale Giuseppe Ippolito, direttore dello Spallanzani, per la prima volta indica la necessita di seguire le «metodologie del piano pandemico». Un piano, aggiunge Ippolito, di cui l’Italia sarebbe dotata. IPPOLITO (INMI): riguardo la definizione di procedure omogenee, consiglia di riferirsi alle metodologie del piano pandemico di cui e dotata l’Italia e di adeguarle alle linee guida appena rese pubbliche dall’Oms. Queste poche righe sono riportate nel verbale della riunione. Ad ascoltare, intorno al tavolo, c’erano anche Agostino Miozzo, allora dirigente della Protezione civile; Giovanni Rezza, all’epoca direttore del dipartimento malattie infettive dell’Iss; Silvio Brusaferro e, soprattutto, il ministro della Salute Roberto Speranza. Nel verbale, dopo la proposta di Ippolito, non si legge alcuna replica da parte di nessuno dei partecipanti alla riunione, e nei giorni successivi non fu presa nessuna decisione in merito al piano pandemico che, infatti, non verrà mai attivato come invece sarebbe stato previsto dalla legge. Dubitiamo che alla task force sfuggi che il 30 gennaio Tedros Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, dichiaro – anche lui con un certo ritardo – che la diffusione internazionale del Covid-19 era un’emergenza di sanita pubblica di rilevanza internazionale (Public Health Emergency of International Concern, o Pheic), come stabilito nel Regolamento sanitario internazionale. Per «emergenza di sanita pubblica di rilevanza internazionale» si intende «un evento straordinario che può costituire una minaccia sanitaria per altri stati membri attraverso la diffusione di una malattia e richiedere una risposta coordinata a livello internazionale». Due giorni dopo la riunione in cui Ippolito nomina il piano pandemico, e il giorno successivo alla comunicazione di Tedros, l’Italia dichiaro lo stato d’emergenza. Era il 31 gennaio 2020. Di quei giorni ci sono gossip – ci sarebbe piaciuto parlare di indiscrezioni, ma la qualità dei racconti stessi ce lo impedisce – che ci possono aiutare a comprendere il clima che si respirava a Lungotevere Ripa, a spiegare dinamiche psicologiche e di potere più di una disamina scientifica. Come insegna il vecchio adagio, si dice il peccato ma non il peccatore, perciò racconteremo gli episodi senza svelare chi sono i protagonisti. Nei primi giorni di febbraio, durante una riunione della task force, il viceministro Sileri, appena rientrato da Wuhan – la citta cinese ormai tristemente nota a tutti come focolaio della pandemia –, aveva messo in guardia sui pericoli del virus, ma a noi ha rivelato: «A un certo punto, un autorevole componente della task force, si gira verso di me e con le mani sulle parti basse, in maniera plateale, davanti a tutti esclama: “A Sile’, e nun porta’ sfiga!”». Un paio di fonti (che non si conoscono tra loro) ci hanno segnalato un’altra storia colorita – e piccante – con prove alquanto imbarazzanti: uno dei dirigenti ministeriali con il gravoso compito di fronteggiare l’emergenza era solito, durante le riunioni, passare più tempo a chattare con l’amante di turno – ci raccontano che portava spesso la precedente a convegni internazionali di sanità pubblica – che a lavorare per la salute degli italiani.

Roberto Speranza inguaiato da Report, FdI all'attacco: "Mario Draghi non può che rimuoverlo". Libero Quotidiano il 09 novembre 2021. Report ha smentito Roberto Speranza sul rapporto Oms - pubblicato e poi rimosso - che metteva in cattiva luce la gestione della pandemia da parte dell’Italia nel corso dei primi mesi. La trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci ha svelato documenti e intercettazioni da cui emergono azioni e parole del ministro della Salute. “Ha mentito al Parlamento nel corso della mozione di sfiducia presentata ad aprile scorso da Fratelli d’Italia”, ha commentato il deputato Galeazzo Bignami. “In quella sede - ha aggiunto - il ministro affermò di non aver mai interferito sulla mancata divulgazione del documento redatto da Francesco Zambon sulle gravi carenze dell’Italia all’inizio della pandemia. A seguito della divulgazione di alcune chat intercorse tra Brusaferro e Speranza abbiamo la prova che il ministro, direttamente e non solo per tramite del suo capo di gabinetto, è intervenuto sui vertici Oms riguardo al documento, condizionandone l’operato Il ministro ha mentito, come da noi sempre sostenuto. Confidiamo che il premier Mario Draghi intervenga rimuovendo Speranza”. Anche il deputato Andrea Delmastro si è fatto sentire su quello che è uno dei cavalli di battaglia di Fratelli d’Italia: “Dopo che ieri, tramite il servizio pubblico, si è appreso che il ministro Speranza intervenne direttamente sul direttore generale Oms per discutere del report di Zambon, sappiamo perché non si vuole condurre l’inchiesta parlamentare su quanto accaduto in Italia sia dalla prima ondata”.

La resa dei conti. Report Rai PUNTATA DEL 08/11/2021 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini collaborazione di Eleonora Zocca e Norma Ferrara. Report torna sull'inchiesta che ha fatto il giro del mondo: la soppressione del dossier sulla gestione della pandemia in Italia, frutto del lavoro dei ricercatori Oms della sede di Venezia. Il rapporto denunciava l'esistenza in Italia di un piano pandemico vecchio, datato 2006, e mai aggiornato, ma denunciava anche le bugie della Cina sui primi contagi e gli errori della stessa Organizzazione mondiale della sanità. Per questo andava riscritto o fatto morire. Attraverso materiali inediti Report può rivelare tutta la catena di eventi che ha portato a silenziare il lavoro di Francesco Zambon, responsabile del dossier ritirato e mai più ripubblicato. Più che motivazioni scientifiche si è trattato di un vero intrigo internazionale. Inoltre sarà trasmesso un video esclusivo in cui un funzionario di primo livello dell'organizzazione di Ginevra dice che se ci sono problemi non bisogna andare a parlare coi giornalisti, perché i panni sporchi si lavano in casa. Infine, mentre i pm di Bergamo indagano anche sulla mancata applicazione del piano pandemico, gli inviati di Report sono andati a curiosare dietro le quinte della Commissione d'inchiesta parlamentare che dovrebbe indagare sul Covid-19. E hanno scoperto insospettabili accordi tra destra e sinistra per limitare l'ambito di indagine. 

 

Le risposte di OMS e Ministero della Salute

RICHIESTA DI REPORT E RISPOSTA DEL MINISTERO DELLA SALUTE

Da: "Redazione Report"

A: "Ministero della Salute, Ufficio Stampa"

Inviato: Martedì, 2 novembre 2021 13:58: 42

Oggetto: Urgente / Rai3 Report - Richiesta intervista Ministro Speranza

Report – RAI Via Teulada, 66 – 00195 Roma

Tel.: +39 06 3686 6393

Fax: +39 06 3751 6998

Roma, 2 novembre 2021

Spett.le Ufficio Stampa Ministero della Salute

 

Vi scriviamo in merito a un importante aggiornamento del nostro lavoro di inchiesta sull’OMS e la gestione della prima ondata pandemica, che andrà in onda lunedì 8 novembre 2021.

Con la presente siamo a chiedervi un urgente riscontro su due punti cui il servizio dedicherà un approfondimento.

1-In più occasioni, nel corso di interviste ai media e in parlamento, il Ministro Speranza ha dichiarato che il piano pandemico antiinfluenzale (PanFlu del 2006) essendo mirato a un virus diverso dal Sars-Cov-2 non era applicabile allo scenario pandemico in corso. Abbiamo però acquisito un parere giuridico dato allo stesso Ministero della Salute, segnatamente al Sig. Capo di Gabinetto, dal Consigliere Prof. Nicola Ruggiero in data 7 gennaio 2021, in cui si legge: Il “Piano nazionale di preparazione e risposta per una pandemia influenzale” di cui all’Accordo tra il Ministero della Salute e le Regioni e Province autonome del 9 febbraio 2006 ex art. 4 d.lgs 28 agosto 1997, n.281, fa evidentemente riferimento ad una “pandemia influenzale”. Nondimeno, esso prevede delle misure che, ove adottate, possono risultare utili per fronteggiare (anche) pandemie originate da altri agenti virali (...) L’adozione delle misure in questione, in cui si estrinseca l’effettiva attuazione del Piano, per il carattere eminentemente tecnicogestionale delle stesse, involge in via prioritaria la responsabilità della struttura burocratica del Ministero della Salute, cui spetta, come noto, l’assunzione di atti di cura concreta dell’interesse pubblico ex artt. 4 e 15 e ss d.lgs n. 165/2001 e s.m.i..

2 - In alcune occasioni, nel corso di interviste ai media e in parlamento, il Ministro Speranza, commentando le vicende del noto rapporto Oms “An unprecedented challenge”, ha assicurato di non essere intervenuto con pressioni su Oms e che le motivazioni della soppressione del documento erano interne all’Organizzazione Mondiale della Sanità. Inoltre i vostri stessi uffici in una comunicazione del 28 novembre 2020 ci assicuravano che “a quanto ci risulta non si tratta di un documento ufficiale dell’OMS e non è mai stato trasmesso al Ministero della Salute che quindi non lo ha mai né valutato, né commentato”.

Abbiamo raccolto testimonianza di alcuni colloqui intercorsi tra il Presidente dell’Iss Silvio Brusaferro e il Signor Ministro Speranza, nel corso dei quali emerge che lo stesso Signor Ministro, dopo aver ricevuto e visionato il rapporto, dichiara di voler rimproverare con durezza il capo della regione europea Oms Hans Kluge e poi che quest’ultimo si è scusato con lui. Da comunicazioni interne Oms già pubblicate da Report, risulta che Kluge avesse ricevuto una comunicazione dal Signor Ministro che era (testuale) “molto amareggiato” e che per rendere felice il Ministro, Kluge si sarebbe adoperato a una revisione congiunta Oms/Iss/Ministero del rapporto.

Con riferimento ai suddetti due argomenti, chiediamo di poter realizzare una intervista con il Signor Ministro Roberto Speranza, al fine di poter offrire al pubblico una completa informazione entro le ore 14.00 di venerdì 5 novembre 2021. In caso di non disponibilità del Signor Ministro, chiediamo cortesemente di filmare l’intervista, entro gli stessi termini temporali, con il Direttore Generale della Prevenzione Prof. Giovanni Rezza.

Data la rilevanza della materia e assolvendo con la presente al nostro obbligo deontologico di chiedere un contraddittorio, riteniamo di interesse dello stesso Ministero poter esprimere il proprio punto di vista nella suddetta puntata.

Vi ringraziamo per la disponibilità che vorrete accordarci.

Distinti saluti, Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Redazione Report – Rai3

 

Da: ***********aatsanita.it 

Inviato: venerdì 5 novembre 2021 15:19

A: Redazione Report

Oggetto: Fwd: Urgente / Rai3 Report - Richiesta intervista Ministro Speranza

Gentilissimi, il Ministro e il Professor Rezza non hanno la possibilità di rilasciare le interviste richieste.

In merito ai punti da voi sottolineati vi invitiamo a consultare la dettagliata relazione del Ministro nel suo intervento al Parlamento del 28 aprile 2021. In particolare, vi sottolineiamo i seguenti punti. E, se intenzionati a dare conto della risposta del Ministero della Salute, vi preghiamo di riportare integralmente la seguente nota.

PUNTO 1 Rispetto alle misure di contrasto alla pandemia, il Ministro ha spiegato che: «Di fronte a un virus totalmente nuovo è del tutto evidente che il piano pandemico antinfluenzale del 2006 non era sufficiente, né lo erano le successive raccomandazioni emanate dall’OMS. Non era una situazione in cui sedersi e attendere istruzioni. Per salvare delle vite andavano trovate soluzioni nuove e assunte decisioni rapide. Ecco perché, del vecchio piano, è stato valorizzato ciò che era utile e funzionale a contrastare questo nuovo virus, come ad esempio la dichiarazione dello stato di emergenza, ma i nostri tecnici hanno valutato da subito che c’era da andare decisamente oltre».

PUNTO 2 Rispetto al documento “An unprecedented challenge” va ricordato che Oms Europa, in un comunicato ufficiale del 14 dicembre 2020, ha dichiarato che: «In nessun momento il governo italiano ha chiesto all’OMS di rimuovere il documento». Infine, va ribadito che i vertici del Ministero non erano stati informati della compilazione di quel dossier, e non erano stati informati nemmeno in occasione della sua pubblicazione. È per questo che la sua diffusione on line fu accolta con sorpresa e un certo rammarico. Ma questo nulla ha a che vedere con il ritiro del documento che, come chiarito in più occasioni da Oms e da tutti i soggetti coinvolti, fu ritirato per correggere «inesattezze fattuali ed errori come la timeline dell’epidemia in Cina».

Cordiali saluti, Ufficio Stampa Ministero Salute

Ministero della Salute Ufficio Stampa

Lungotevere Ripa, 1 – 00153 Roma tel. 06 5994 5289-5320-5397

email: ufficiostampaatsanita.it

 

LA RESA DEI CONTI” Report Rai Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione Norma Ferrara – Eleonora Zocca Immagini Paolo Palermo – Carlos Dias Montaggio Andrea Masella

GIULIO VALESINI (30/11/2020) Allora risponda a questa domanda: ci spieghi cosa è la strategia della foglia di fico e come ha fatto l’OMS a diventare da organismo tecnico e indipendente delle nazioni unite alla foglia di fico del governo italiano? Risponda! Lei di questa strategia della foglia di fico ne avrebbe parlato perfino con Tedros. Lei chiese hai ricercatori di correggere il piano pandemico perché “eravate finiti sui denti di Report” se lo spiega questo? Perché non dovevamo urtare la sensibilità del ministro Speranza, dott. Guerra? Risponda, è una domanda. Io non manipolo nulla. Se lei risponde alle domande

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora Ranieri Guerra non è più nell’ OMS. È caduta la foglia di fico. Però dobbiamo dare atto che in questa vicenda di foglie di fico ce ne sono tante. Vedremo quali anche attraverso dei documenti inediti. Ora Ranieri Guerra si era adoperato affinché l’Oms diventasse la foglia di fico delle decisioni del governo italiano, quelle più impopolari, più critiche sulla gestione del virus. È per questo tesseva i rapporti con Tedros. Ma facendo così, diciamo, copriva le sue responsabilità di quando da direttore generale della prevenzione del ministero della Salute, avrebbe dovuto aggiornare un piano pandemico vecchio. Lui, come anche altri direttori generali. Ecco quel piano se modificato, se attuato, avrebbe salvato delle vite. E poi è sempre Guerra che tenta di fare pressioni sul ricercatore Zambon per cercare di modificare il suo dossier indipendente, per quello che riguardava le parti dove criticava la gestione italiana della pandemia. E anche cercava di fare pressione perché cambiasse la data del piano pandemico, e mettesse 2016 invece di quella reale, 2006. Questo semplicemente perché non emergesse poi il fatto che Report aveva detto la verità quando aveva denunciato la vera età del piano pandemico. E poi, siccome abbiamo scoperto anche questo maldestro tentativo, abbiamo anche denunciato le pressioni presunte del ministero della Salute, sempre negate, affinché questo dossier venisse poi ritirato, mai ripubblicato. Ora, nonostante le smentite del ministero della Salute, Speranza proprio in seguito alle denunce di Report, è finito al centro di una mozione di sfiducia e nell’aprile scorso ha risposto così.

ROBERTO SPERANZA - 28 APRILE 2021, SENATO DELLA REPUBBLICA “La scelta di pubblicare e poi ritirare quel documento viene assunta esclusivamente dall’Oms nella sua piena autonomia che noi rispettiamo. Le scelte relative al dossier sono autonome dell’Oms. La stessa Oms Europa in un comunicato ufficiale del 14 dicembre 2020 ha dichiarato che in nessun momento il governo italiano ha chiesto all’Oms di rimuovere il documento: mi sembra una posizione molto chiara che pone fine a ogni ulteriore speculazione”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il Ministro dice la verità, è l’Oms che toglie dal web quel dossier, il governo italiano mai è intervenuto per farlo rimuovere. Vero. Ma perché non ce n’era bisogno. Che quel dossier era stato temporaneamente messo offline, ed era in attesa di una nuova pubblicazione. Perché non è avvenuta? E qui un ruolo il ministro Speranza ce l’ha. Per capire quale, bisogna fare attenzione alle date perché quel dossier di Zambon prima di mettere in crisi il governo italiano, aveva rischiato di mettere in crisi i rapporti tra Oms e Cina. Perché inizialmente aveva dei dettagli che riguardavano l’origine del virus in Cina. Tanto per dire quali erano questi particolari, Zambon aveva scritto che l’origine di quel virus somigliava tanto alla Sars. Circostanza che era sempre stata negata inizialmente dai cinesi. E poi aveva dato la date della prima… del primo contagio, trasmissibilità da uomo a uomo, e poi aveva anche raccontato del primo contagio che era avvenuto fuori dalla Cina ed era un contatto che non c’entrava nulla col mercato di Wuhan. Quando un funzionario dell’Oms a Pechino Fabio Scano legge questo dossier, insomma salta sulla sedia, chiama immediatamente Zambon gli detta le correzioni. A rincarare la dose, arriva il messaggio del capo dell’Oms a Pechino, Gauden Galea che sostanzialmente impone di rimuovere con emergenza quel dossier dal web. Zambon scrive ai suoi una e-mail alle 12.34 sempre del 14 maggio 2020, e dice, ragazzi, mettiamo, facciamo le correzioni e poi appena possibile rimettiamo il dossier online. Ecco, insomma, sarebbe stato pubblicato probabilmente alle ore 13.00 di quel 14 maggio, ma quel dossier da quel momento scompare dai radar. Perché? Che cosa era successo? Che era finito nelle mani del ministro Speranza e di Brusaferro. Entrambi avevano sempre negato di averlo avuto questo dossier. Oggi, i nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella hanno le prove che non ci hanno raccontato la verità.

EMAIL DAVID ALLEN Cari colleghi, stiamo lavorando a un paio di altre cose, non rimettetelo online finché Hans Kluge non darà il via libera.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Cosa era successo quel 14 maggio? Si può capire da alcuni messaggi finora inediti che abbiamo visionato, scambiati tra il ministro della Salute, Roberto Speranza, e il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro. È appena uscita la pubblicazione del dossier di Zambon, e Brusaferro è preoccupato.

CHAT SILVIO BRUSAFERRO- ROBERTO SPERANZA SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’ “Scusa se ti rompo di prima mattina ma è uscita questa pubblicazione Oms. Noi non abbiamo dato i dati a loro. Spero almeno sia stata concordata con te e con ministero. Se non lo fosse, mi sembrerebbe un serio incidente diplomatico”.

GIULIO VALESINI FUORO CAMPO Silvio Brusaferro sottolinea che l’Oms vive grazie ai contributi dei singoli governi e dunque devono avere voce in capitolo anche sull’uscita di rapporti indipendenti.

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’ Ho sentito Ranieri e ti sta scrivendo. La stiamo leggendo con calma e in dettaglio e poi ti riferisco. Credo, però, che un’agenzia internazionale prima di pubblicare un profilo nazionale e le schede regionali debba parlare con l’interessato che è anche uno stakeholder suo finanziatore.

NICOLETTA DENTICO – DIRETTRICE HEALTH INNOVATION IN PRATICE Il fatto che ci sia un rapporto su di te obbliga l'organizzazione a informarti che lo sta facendo ma non certo a concordarne il contenuto. Questo neanche in una situazione tranquilla figuriamoci in una situazione di emergenza. Non si può negoziare la verità sulla salute.

GIULIO VALESINI La questione della mancata condivisione con il governo italiano e con il ministro Speranza era mai emersa da parte italiana?

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS No, assolutamente. Nessuno l’ha chiesto e quindi evidentemente non è mai stato un problema.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO NUOVO A noi Brusaferro aveva garantito di non essere intervenuto sul dossier.

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’ Non c’è stata da parte mia personale, ma certamente anche dell’Istituto di nascondere mai nessuna verità. È successo che il dottor Guerra mi ha mandato una serie di considerazioni personali rispetto alle quali io ho preso atto, non ho espresso giudizi. Ho preso atto di quanto mi stava dicendo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Documenti interni in nostro possesso rivelano che l’Istituto Superiore di Sanità analizzò i contenuti del dossier e una relazione fu inviata in breve tempo a Silvio Brusaferro. Secondo due ricercatori dell’Iss, nel documento non c’erano particolari inesattezze ma venivano messi in luce alcune lacune proprio sul piano pandemico. Alle 12.47 del 14 maggio anche il ministro Speranza legge il rapporto dei ricercatori di Venezia. E scrive a Brusaferro.

ROBERTO SPERANZA - MINISTRO DELLA SALUTE “Sto guardando il report dell’Oms. Con Kluge sarò durissimo. Danni enormi non mi pare ne faccia. Forse solo sui decessi”.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alle 13.00 in punto al team di Venezia arriverà l’email di David Allen che ferma del tutto la ripubblicazione del dossier sul nostro paese. Più tardi il ministro della Salute riferisce, ancora a Silvio Brusaferro, l’esito della telefonata con il capo dell’Oms Europa, Hanse Kluge. Il ministro Speranza è rassicurato: il rapporto è stato ritirato, i contenuti saranno rivisti insieme da Oms, ministero e Istituto Superiore di Sanità.

ROBERTO SPERANZA - MINISTRO DELLA SALUTE Mi ha chiamato Kluge. Si è scusato. Ho ribadito che al momento non facevo commenti sui contenuti ma sul metodo. Ha confermato che lo ha ritirato e che si propone di discuterlo con noi. Credo faranno una indagine interna sulle responsabilità.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I messaggi tra Speranza e Brusaferro accendono una luce sul possibile ruolo del ministro sulla mancata ripubblicazione del dossier. Un ruolo che il leader di LeU ha sempre negato. Il 15 maggio, il giorno dopo i colloqui con Speranza, lo stesso Kluge riportò a Francesco Zambon il tono del dialogo avuto poche ore prima.

HANSE KLUGE – DIRETTORE GENERALE OMS EUROPA “È la questione chiave, la mia relazione con il ministro che era molto infastidito. Non possiamo addossare tutto a Ranieri Guerra quindi dobbiamo fare una nuova strategia. Scriverò al ministro che stabiliremo un gruppo di esperti Ministero/Iss/Oms per rivedere il documento. Abbiamo bisogno che il ministro sia felice e proceda con l’accordo per Venezia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ricapitolando, il ministro Speranza non chiede la rimozione del dossier perché era già stato rimosso. Ma nella mancata pubblicazione, nuova pubblicazione, il Ministro ha un ruolo. Ha una dura reazione con il responsabile dell’Oms Europa, Hans Kluge, l’uomo che avrebbe potuto ordinare la ripubblicazione, invece non l’ha fatto. Che cosa ha detto Speranza a Kluge? Questo noi non lo sappiamo, sappiamo però che la reazione è stata dura, lo informa Kluge stesso che informa il team di Venezia, della reazione del Ministro, dice era molto irritato. Informa i suoi ricercatori alle ore 13.00 chiedendogli anche di sospendere definitivamente il dossier. Così non avrà più luce. E poi informa anche della sospensione il ministro Speranza, gli chiede anche scusa. Dice guardate, dice guarda Ministro, noi non riscriviamo questo dossier se non insieme al Ministero e insieme all’Istituto Superiore di Sanità. Insomma, alla faccia dell’indipendenza dell’Oms. Però quello che emerge da queste chat intanto è che l’ufficio stampa del ministero della Salute non ci ha detto il vero quando ci ha scritto che il ministro Speranza non aveva mai visto e letto questo dossier. Insomma, non ha detto anche la verità Brusaferro quando ha detto di aver preso semplicemente atto dell’esistenza di questo dossier. Anzi ha avuto un ruolo attivo, ha informato Speranza, e poi il suo stesso Istituto Superiore di Sanità ha analizzato il dossier di Zambon, definendolo sostanzialmente corretto, e riportando proprio il fatto che evidenziava questo dossier le lacune del piano pandemico del nostro paese che se adeguato e messo in atto, avrebbe potuto salvare delle vite. Ora Kluge insomma è rimasto colpito dalla reazione del ministro Speranza, vuole ricucire il rapporto, perché ha una preoccupazione, quella che il governo non finanzi più il mantenimento della sede Oms a Venezia. Una sede prestigiosa. Per questo chiede una mano a un importante manager della sanità veneta. Del resto, chi è che non ci tiene a Venezia? Chi è che non vorrebbe vivere o lavorare in una città come Venezia?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Per ammorbidire la posizione di Speranza e di Silvio Brusaferro, Hans Kluge spera in Domenico Mantoan, potente manager della sanità veneta, infatti lo scrive a Francesco Zambon in un messaggio del 18 maggio finora inedito.

HANSE KLUGE – DIRETTORE GENERALE OMS EUROPA Ciao Francesco, sono contento di connettermi all’incontro con il dottor Mantoan tra le 11.00 e le 12.00. Hai il mio pieno supporto. Abbiamo bisogno del dottor Mantoan per convincere il ministro e Silvio Brusaferro di lasciare andare il rapporto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Mantoan è l’uomo in queste immagini seduto accanto al ministro Speranza. Per dieci anni direttore generale e braccio destro alla sanità del governatore del Veneto, Luca Zaia. Nel 2019 fu nominato presidente dell’Aifa, l’agenzia del farmaco, proprio da Speranza che un anno fa lo ha messo a capo di Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Anche l'importante dirigente sarebbe entrato nella vicenda del rapporto ritirato dell’Oms.

GIULIO VALESINI Io volevo chiederle se mi dà una mano a ricostruire un po’ la vicenda del rapporto Zambon, no, quello dell’Oms, quello ritirato dall’Oms…

DOMENICO MANTOAN - DIRETTORE GENERALE AGENAS Eh, ma non so niente io…

GIULIO VALESINI Mi hanno detto che lei in qualche modo aveva provato a intercedere con il ministro, aveva parlato con Hans Kluge di questo rapporto: aveva cercato, insomma, di mediare…

DOMENICO MANTOAN - DIRETTORE GENERALE AGENAS No, no, io conosco Zambon, lavorava, lo conosco da tanto tempo, lavora all'Oms ma sulle vicende del rapporto, no, non saprei cosa dirle. Il rapporto me lo ricordo, l’ho anche letto, ha anche una copia a casa che conservo.

GIULIO VALESINI Che ne pensa?

DOMENICO MANTOAN - DIRETTORE GENERALE AGENAS Il rapporto secondo me anche era fatto bene.

GIULIO VALESINI Lei cosa ne pensa di quanto è successo? Cioè, l’Oms ha dimostrato di essere indipendente secondo lei?

DOMENICO MANTOAN - DIRETTORE GENERALE AGENAS Ciao!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma a smentire la versione di Mantoan oltre il messaggio di Kluge c’è anche Zambon.

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Ci sono state delle, dei tentativi diciamo di, di spiegare, diciamo così, a Speranza quale fosse il valore del rapporto e questo certamente è stato fatto: credo fosse appunto il 18 maggio e quindi Speranza era certamente a conoscenza del rapporto e nel dettaglio anche direi.

GIULIO VALESINI Quindi ci fu questo tentativo…

FRANCESCO ZAMBON – EX RICERCATORE OMS Sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, Speranza si era arrabbiato dopo aver letto un dossier già edulcorato. Giorni prima, l’11 maggio, proprio mentre Report andava in onda con la puntata che denunciava le criticità sul piano pandemico, una manina modificava il dossier di Zambon. Decine di correzioni al testo furono chieste da Cristiana Salvi, la responsabile delle relazioni esterne di Oms Europa: la parola d’ordine è smorzare i toni. La frase sui rischi che correvano i medici di base con 53 morti al 30 aprile era rischiosa. Non era opportuno parlare di corpi accatastati senza una sepoltura dignitosa. Scrivere che il Paziente 1 di Codogno non fu sottoposto subito al tampone perché in quel momento il protocollo sanitario dell’Oms non lo prevedeva, per Cristiana Salvi poteva essere molto critico per noi e per altri dieci paesi. Persino riconoscere l’efficacia del sistema sanitario pubblico veneto nella gestione della prima fase era una valutazione che avrebbe potuto sollevare il disappunto del governo italiano.

GIULIO VALESINI Perché si preoccupava tanto che il rapporto sull’Italia fosse politicamente accettato? Io ho visto le correzioni che lei ha suggerito a Zambon: perché?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Perché noi abbiamo comunque uno stile per i rapporti dell’Oms che seconde me non era stato rispettato.

GIULIO VALESINI Perché togliere la parola “dignitosa” a sepoltura poteva essere una bomba mediatica?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Ma non è una questione di bomba mediatica. È stato fatto tanto, tanto clamore intorno a questo rapporto.

GIULIO VALESINI Lei parla proprio di problemi politici sul rapporto.

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA L’Oms in maniera assolutamente corretta condivide le informazioni e i rapporti che pubblica con gli Stati e questa è una cosa assolutamente di cortesia e quello non era stato fatto quindi era un discorso di informazione all’Italia.

GIULIO VALESINI Però un conto è condividere, un conto è correggere…

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Ma io correggevo lo stile: questo è il mio ruolo.

GIULIO VALESINI Ma perché dire che i medici di base rischiavano la vita era “una bomba mediatica”: era la verità…

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS Il rapporto era basato soltanto su delle speculazioni!

GIULIO VALESINI Speculazioni?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS Assolutamente. Non era un rapporto corretto dal punto di vista delle evidenze, è stato dimostrato.

GIULIO VALESINI Da chi?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS Da noi, dall’Oms! Zambon ha comunicato che il direttore aveva approvato ma questo non è mai accaduto. Mi scusi io ho una riunione adesso…

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS C’è una mail che dice: “Noi possiamo pubblicare il rapporto anche senza l'approvazione di Ginevra”. GIULIO VALESINI Di chi è questa mail?

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS La mail è qui. È dell’ufficio che si occupa delle pubblicazioni di Copenaghen e dice chiaramente: “Caro Francesco, we can go ahead, noi possiamo andare avanti e pubblicare”. Cioè, non è una decisione mia.

GIULIO VALESINI Quindi lei dice guardate…

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Io ho un’organizzazione alle spalle che ha preso la pubblicazione, ha fatto tutte le revisioni del caso: ovviamente sono state fatte una marea di correzioni come è giusto che sia e la pubblicazione era approvata.

GIULIO VALESINI Lei non può dire che non è stata approvato il rapporto.

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS Non è stato approvato.

GIULIO VALESINI Ma non è vero.

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS Non è stato approvato

GIULIO VALESINI Ma scusi, il comitato centrale… Allora venga qui e mi spieghi: Soumya Swaminathan scrive “approved”.

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Io le ho parlato, adesso ho una riunione. Il rapporto non è stato approvato come ha dichiarato francesco Zambon, ha costruito un caso sul nulla!

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Era stata la stessa responsabile delle relazioni esterne dell’Oms, Cristiana Salvi, a scrivere a Ranieri Guerra e Zambon per fare inizialmente i complimenti al ricercatore veneziano per il rapporto “dettagliato e ricco di contenuti” ma sottolinea che il dossier è “una vera e propria bomba mediatica”. La funzionaria ammette che il problema non è lo stile ma il contenuto. Il dossier metteva a nudo le critiche al nostro governo che lei e Guerra avevano cercato di arginare, dunque bisognava “mitigare le parti più problematiche”.

GIULIO VALESINI L’Oms ha dimostrato di essere indipendente rispetto al potere politico?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Certo!

GIULIO VALESINI Sì?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Certo. Condividere un rapporto con uno stato per informazione è assolutamente…

GIULIO VALESINI E correggerlo?

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Correggere lo stile, questo è il mio ruolo, correggere lo stile.

GIULIO VALESINI No lei correggeva i contenuti

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA Allora, voi volete seguire la vostra linea editoriale e io questo lo capisco ma state creando una mancata, non corretta informazione che sta andando a tutti i cittadini e purtroppo è un peccato perché l’informazione corretta è un’altra e se voi non continuate a non voler capire, a voler seguire la verità, voi non state seguendo la verità!

GIULIO VALESINI Pensavo si potesse scrivere un rapporto indipendente!

CRISTIANA SALVI - RESPONSABILE RELAZIONI ESTERNE OMS EUROPA È indipendente. Correggere lo stilo è assolutamente indipendente.

GIULIO VALESINI Lei correggeva i contenuti, dottoressa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La dottoressa Salvi fa splendidamente il suo lavoro. La responsabile delle relazioni esterne dell’Oms deve tutelare i suoi superiori e l’ente. Ecco, noi invece, da parte nostra dobbiamo tutelare voi che siete il nostro pubblico. E allora dobbiamo mettere le cose in fila. Innanzitutto, non è vero che Zambon non aveva ricevuto l’approvazione. Anzi ne aveva ricevute due. E come prova questo documento esclusivo di cui è in possesso Report la prima è avvenuta l’8 maggio del 2020 e porta la firma della dott.ssa Dorit Nitzan che è la responsabile dell’ufficio emergenze dell’Oms Europa che scrive: ho rivisto il prodotto, è in linea con la nostra politica, ed è adatto alla pubblicazione. La Nitzan tanto per mettere i puntini sulle “i” rispetto alla Salvi, è un gradino superiore diciamo nella gerarchia. E poi ha avuto anche Zambon una seconda approvazione, quella del comitato centrale dell’Oms di Ginevra, che sostanzialmente dice è ok, è approvato il tuo rapporto, controlla meglio la cronologia del contagio in Cina. Cosa che poi susciterà delle polemiche come abbiamo visto, proprio per evitarle Zambon, toglierà del tutto il problema, il box sulla Cina. E poi non corrisponde al vero il fatto che l’Oms debba essere obbligato a confrontarsi o a informare in maniera preliminare il governo o il ministero della Salute del paese che è oggetto del suo studio. Perché sarebbe come negoziare la salute dei cittadini. Insomma, è proprio per questo che a maggio del 2021 anche grazie e in seguito alle polemiche sul dossier Zambon, una commissione indipendente voluta dai paesi-membri dell’Oms raccomanda l’Oms di pubblicare immediatamente qualora avesse notizie di un focolaio, senza chiedere l’approvazione preventiva ai governi delle rispettive nazioni. Era un po’ questo lo spirito in fondo del dossier di Zambon: noi in quel momento eravamo il focolaio più importante d’Europa, era urgente condividere le informazioni su come si era diffuso il contagio, su come si poteva contrastare e anche se quelle informazioni potevano essere critiche e ruvide per un governo. E invece quel dossier doveva essere modificato, anzi nell’idea del capo di gabinetto del ministro Speranza, doveva essere addirittura lasciato morire.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 18 maggio del 2020, siamo a Roma. Il dossier di Venezia rischia di essere dirompente, anzi, diventa un intrigo internazionale. E la vicenda viene gestita nei palazzi del potere. Al ministero della Salute, Ranieri Guerra incontra l’allora capo di gabinetto di Speranza, Goffredo Zaccardi, e avvisa il direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, Silvio Brusaferro, in queste chat rivelate da Report ad aprile scorso.

RANIERI GUERRA – EX DIRETTORE AGGIUNTO OMS “Hola, vedo Zaccardi alle 19.00. Vuoi che inizi a parlargli dell’ipotesi di revisione del rapporto dei somarelli di Venezia? Poi ci mettiamo d’accordo sul come?”

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ormai le sorti del documento erano segnate. E si decidevano non più a Copenaghen o a Pechino ma a Roma, dentro al ministero della Salute. Il dossier era finito sul tavolo di Goffredo Zaccardi, all’epoca influente capo di Gabinetto di Roberto Speranza

RANIERI GUERRA – EX DIRETTORE AGGIUNTO OMS “Capo di gabinetto dice se riusciamo a farlo cadere nel nulla. Se entro lunedì nessuno ne parla vuole farlo morire. Altrimenti lo riprendiamo insieme”

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Goffredo Zaccardi a maggio è stato ascoltato come persona informata sui fatti dai magistrati di Bergamo.

GIULIO VALESINI Le chat che sono emerse sono gravi, dottor Zaccardi. Quando lei dice “lasciamo morire il rapporto” è una cosa precisa. Allora o dice “non è vero che ha detto questa cosa”

GOFFREDO ZACCARDI - EX CAPO DI GABINETTO MINISTERO DELLA SALUTE Questo lo dirò ai magistrati non certamente prima a voi

GIULIO VALESINI Perché il piano pandemico non scattò, dottor Zaccardi? Eh? Il piano pandemico del 2006. Chi si assunse la responsabilità di non attivare il piano pandemico?

GOFFREDO ZACCARDI - EX CAPO DI GABINETTO MINISTERO DELLA SALUTE Io risponderò su questo prima ai magistrati e poi a voi

GIULIO VALESINI Voi non avete mai spiegato all’opinione pubblica quello che è successo: c’era un piano pandemico vecchio non aggiornato, un piano pandemico che non scattò, un rapporto che denunciava e che fu fatto ritirare probabilmente anche su pressioni politiche. Voi su questo continuate a dire “risponderemo, risponderemo”, poi in realtà non rispondete. La gente ha diritto di sapere

GOFFREDO ZACCARDI - EX CAPO DI GABINETTO MINISTERO DELLA SALUTE Ne parlerò prima con i magistrati

GIULIO VALESINI Il problema sa qual è? Che lei dopo che ha parlato con i magistrati, con me non parlerà. E LEI questo già lo sa…

GOFFREDO ZACCARDI - EX CAPO DI GABINETTO MINISTERO DELLA SALUTE No

GIULIO VALESINI Si

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Oggi abbiamo le prove che l’ex braccio destro di Speranza a gennaio chiese al magistrato Nicola Ruggiero un parere giuridico sul piano pandemico, un appunto rimasto finora in un cassetto del ministero. Ve lo raccontiamo in esclusiva. Il quesito era: toccava al ministero aggiornare il piano e far scattare le misure in casi di emergenza? La risposta è un doppio sì. Con un sottinteso: forse siete nei guai. Eppure, il ministero della Salute ha sempre sostenuto in questi mesi che il piano pandemico antinfluenzale non fosse lo strumento adatto per fronteggiare il Covid-19.

ROBERTO SPERANZA – MINISTRO DELLA SALUTE Secondo i nostri tecnici quel piano pandemico antinfluenzale non era sufficiente. Quindi è stato messo in campo un piano Covid adeguato solo ed esclusivamente a una fattispecie nuova che era emersa perché il Covid non è una semplice influenza: questa è stata la valutazione dei nostri tecnici.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In realtà proprio l’Oms consiglia l’uso dei piani pandemici anti-influenzali sin dal 5 gennaio del 2020, e lo ribadisce il 4 febbraio. Ma i tecnici si accorsero che il nostro era vecchio e inadeguato e tentarono di farne un altro al volo, rimasto segreto fino a quando fu mostrato da Report un anno fa. Fu ultimato il 4 marzo ma era ormai superato dagli eventi al punto che l’allora coordinatore del CTS, Agostino Miozzo, consigliò a Speranza di definirlo come un semplice scenario.

GIULIO VALESINI Il 7 febbraio lei, voi chiedete all’Istituto Superiore di Sanità, al ministero, di fare un nuovo paino pandemico, poi dite al ministro Speranza “no, non c’è un piano pandemico segreto”. Eccolo. Perché mi guarda così? La verità al paese la vogliamo raccontare?

AGOSTINO MIOZZO – COORDINATORE CTS DAL 5/2/2020 AL 15/03/2021 Non ti dico niente, non ti dico niente

GIULIO VALESINI Ma cosa avete da nascondere?

AGOSTINO MIOZZO – COORDINATORE CTS DAL 5/2/2020 AL 15/03/2021 Non ti dico proprio niente, io non ho niente da nascondere, ti rispondo solo se mi autorizzano.

GIULIO VALESINI Ma cosa c’è da nascondere?

AGOSTINO MIOZZO – COORDINATORE CTS DAL 5/2/2020 AL 15/03/2021 Ahia

GIULIO VALESINI Perché, allora, il piano pandemico non c’era, il ministero non l’aveva, giusto, dottor Miozzo? Allora, voi d’urgenza

AGOSTINO MIOZZO – COORDINATORE CTS DAL 5/2/2020 AL 15/03/2021 Non ti rispondo, è inutile che ci provi

GIULIO VALESINI Come abbiamo fatto a non avere avuto un piano pandemico?

AGOSTINO MIOZZO – COORDINATORE CTS DAL 5/2/2020 AL 15/03/2021 Posso andarmene? Ma non ci provare, non ci provare, ti ripeto che rispondo se mi autorizzano a rispondere

CONSUELO LOCATI – AVVOCATO TEAM LEGALE FAMILIARI VITTIME COVID Noi abbiamo depositato più di tremila pagine tra atti e documenti. L'avvocatura dello Stato ha depositato la notte prima dell'udienza una comparsa di costituzione di più o meno trenta pagine. Non c'è alcun riferimento al piano pandemico.

GIULIO VALESINI Come si sono difesi?

CONSUELO LOCATI – AVVOCATO TEAM LEGALE FAMILIARI VITTIME COVID La loro difesa dice vabbè in percentuale ne sono morti tanti negli altri paesi, sarebbero comunque morti in Italia in una percentuale che non è tanto diversa da quella degli altri paesi. In realtà non è proprio così, assolutamente.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La procura di Bergamo a dicembre chiuderà l’indagine che vuole fare luce sulla tragica diffusione dell’epidemia nella provincia lombarda, 6mila morti in due mesi durante la prima ondata. Sul tavolo, oltre alla mancata zona rossa, c’è il piano pandemico mai aggiornato e mai applicato. La procura vuole capire quando davvero sono iniziati i contagi dentro l’ospedale di Alzano, riaperto in un paio d’ore il 23 febbraio, dopo i primi due casi Covid diagnosticati e come ha fatto il virus a diffondersi indisturbato. Insomma, dove erano finiti gli strumenti di prevenzione previsti dal piano pandemico e perché non furono mai messi in campo. GIUSEPPE MARZULLI- EX DIRETTORE MEDICO OSPEDALE PESENTI ALZANO LOMBARDO Il principale motivo per cui non si sarebbe dovuto riaprire l'ospedale era la mancanza di tamponi. Noi il 23 cercammo di raccogliere tutti i tamponi disponibili, erano 14. Tenga presente che ne servivano 600 per gestire una situazione così. C'era il personale che si ammalava progressivamente, gente che ha lavorato per 24 ore di fila, mezzi di protezione che non sapevi se arrivavano o non arrivavano.

ELEONORA ZOCCA Il 23 febbraio del 2020 fece chiudere il pronto soccorso dell'ospedale in cui era in servizio, in cui lavorava di Alzano.

GIUSEPPE MARZULLI - EX DIRETTORE MEDICO OSPEDALE PESENTI ALZANO LOMBARDO Successe che quattro ore dopo fu dato l'ordine di riapertura. Io mi rifiutai di riaprire l'ospedale dissi: “Io l'ospedale non lo riapro, riapritelo voi”. E l’hanno riaperto loro.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il piano pandemico non è menzionato anche negli atti che l’avvocatura dello Stato ha depositato a luglio per difendere ministero, governo e regione dalla causa mossa da 500 famiglie di parenti delle vittime di Bergamo.

CONSUELO LOCATI – AVVOCATO TEAM LEGALE FAMILIARI VITTIME COVID Noi abbiamo depositato più di tremila pagine tra atti e documenti. L'avvocatura dello Stato ha depositato la notte prima dell'udienza una comparsa di costituzione di più o meno trenta pagine. Non c'è alcun riferimento al piano pandemico. GIULIO VALESINI Come si sono difesi?

CONSUELO LOCATI – AVVOCATO TEAM LEGALE FAMILIARI VITTIME COVID La loro difesa dice vabbè in percentuale ne sono morti tanti negli altri paesi, sarebbero comunque morti in Italia in una percentuale che non è tanto diversa da quella degli altri paesi. In realtà non è proprio così, assolutamente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La difesa dell’avvocatura dello stato è in sintesi mal comune mezzo gaudio. Insomma, alla fine del 2020 il nostro paese era al quarto posto al mondo per tasso di mortalità. Ci sarà un perché oltre il fatto che siamo un paese di anziani. Il piano pandemico seppur vecchio, è inadeguato, poteva essere attuato e avrebbe messo in condizioni forse, di salvare qualche vita umana. Questo non lo dice Report. Attenzione, lo dice l’Oms per ben due volte. Lo dice a partite del 5 gennaio, ben prima dei fatti di Codogno. E poi quando il Cts va a vedere il nostro piano pandemico, si accorge che è vecchio, inadeguato, al punto tale da buttarlo via. Ne fa uno nuovo, ma è sopraffatto dagli eventi. È ormai troppo tardi. Tutto questo rimane chiuso in un cassetto fino a quando non arriva Report e tira fuori la vicenda. Allora, una lettera anonima il 22 maggio arriva al ministero della Salute. Dice attenzione c’è qualcuno che ha ingannato gli italiani falsificando la data del piano pandemico. E anche il fatto della sua attuabilità. Il Ministero dopo qualche giorno si auto-assolve. Dice è una accusa troppo generica. Poi alla fine del 2020 anche il prof. Rezza che oggi è direttore generale della prevenzione al ministero della Salute, scrive che quel piano pandemico seppur indirizzato a contrastare l’influenza, se adeguato, poteva contrastare anche la diffusione del Covid, perché sostanzialmente sempre una malattia respiratoria è. Il ministero della Salute ancora oggi ci scrive che giudica quel piano pandemico anti-influenzale del 2006 insufficiente. Però forse un tarlo dentro il cervello ha cominciato a muoversi, a erodere. Hanno chiesto un parere ad un esimie giurista: al professor Nicola Ruggiero, un magistrato, il quale chiede… il quale dà una risposta. Quel piano pandemico era utile a contrastare anche altri tipi di infezione oltre l’influenza e spettava al Ministero mettere in atto le misure per attuarlo. Insomma, quel parere che avrebbe dovuto rassicurare il capo di gabinetto e il ministro della Salute, in realtà li mette con le spalle al muro. E allora, lo mettono chiuso in un cassetto fino a quando oggi Report l’ha tirato fuori. Insomma, poi c’è un’altra vicenda sulla quale non è mai stata fatta chiarezza, la mancata dichiarazione di zona rossa nella bergamasca. E i nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella oggi aggiungono un nuovo tassello inedito.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 7 marzo, non era ancora scattato il lockdown nazionale. Ci fu una drammatica telefonata tra regione Lombardia e Oms. Tra i presenti Luigi Cajazzo, ex direttore generale e braccio destro dell’allora assessore alla Sanità Giulio Gallera, e Hanse Kluge, capo di Oms Europa. La Lombardia, che non aveva preso alcuna misura restrittiva in tempo, solo ora lanciava un disperato Sos, chiedeva l’intervento dell’Organizzazione mondiale della Sanità per far chiudere la regione. Anche a loro serviva una foglia di fico. FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Questa telefonata fu, diciamo, la più drammatica tra quelle che io ascoltai in quei giorni. Il dottor Cajazzo chiese direttamente aiuto ad Hans Kluge, dicendo che la situazione in Lombardia era critica. C’erano delle proiezioni che dicevano che se la situazione fosse andata avanti in quel modo al 26 marzo ci sarebbero stati 20mila casi con 2mila pazienti in terapia intensiva per cui loro assolutamente non avevano, non c’era nessuna possibilità che avessero questa capacità in terapia intensiva. Il dottor Cajazzo fece una richiesta molto esplicita a Kluge, chiedendo supporto per chiudere la regione Lombardia.

GIULIO VALESINI Perché lo chiede a voi?

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Perché l’Oms è l’agenzia tecnica di riferimento.

GIULIO VALESINI Quindi, dice: parlate voi con il governo? Traduco…

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Sì, e quindi era una richiesta molto precisa, quella di chiudere i confini della Lombardia e di adottare subito misure super restrittive sul modello cinese

GIULIO VALESINI Quindi proprio solo in Lombardia…

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Solo in Lombardia. E dopo molte ore e solleciti l’Oms disse che, mah, bisognava discutere sulla cosa, bisognava essere molto cauti a non entrare in quelle che potevano essere beghe politiche interne.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Duemila pazienti in terapia intensiva era una proiezione elaborata già il 4 marzo da Stefano Merler, l’autore degli scenari presi a modello per il piano segreto del governo, e da Danilo Cereda, l’uomo dei numeri di Regione Lombardia. Una catastrofe annunciata e per giorni non erano stati presi provvedimenti né dal Pirellone né dal Governo. Dal carteggio interno che vi mostriamo in esclusiva emerge che la preoccupazione dei funzionari dell'Organizzazione fu quella di non turbare l’armonia con il governo più che tutelare la salute dei cittadini lombardi. Quando Kluge chiese un parere a Mike Ryan, il direttore esecutivo per l’emergenza Covid, Ryan rispose che mancavano dati certi su cui decidere. E anche Ranieri Guerra mise in guardia l’Oms: Lombardia, Veneto e Piemonte erano in mano ai partiti di opposizione al governo Conte. Fu così che l’Oms decise di non decidere. Alla fine, il 9 marzo il governo chiuse tutto il paese.

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Cioè, non esiste una scelta di sanità pubblica che sia una scelta puramente tecnica, sono sempre anche delle scelte politiche. È lo stesso Kluge che dice che il giorno 8 marzo Speranza è a chiedergli supporto politico. Quindi allora come, perché lo chiede il ministro allora non si dà? E Kluge glielo dà…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la zona rossa oltre che dal governo che non decideva in quel momento, poteva essere istituita da Regione e dai Comuni. Ma Fontana e Gallera non prendono una decisione che poteva risultare impopolare. E allora che succede? Che il braccio destro di Gallera chiama l’Oms. Cerca la foglia di fico nell’Oms. Insomma, chiede una mano. Chiede a Hans Kluge che è il direttore dell’Oms Europa, di influenzare, di fare moral suasion sul governo italiano affinché venisse istituita la zona rossa della bergamasca. Perché le proiezioni erano tremende, una telefonata che Zambon definisce drammatica. Ma l’Oms decide di non decidere. Di non intervenire. Perché non vuole infilarsi nelle beghe della politica italiana. E a questo serve poi l’Oms. Cioè ad essere, pensa di non dare fastidio, di non disturbare gli equilibri, anche consigliato da Ranieri Guerra. Ma di tutto questo, chi pagherà? Di chi sono le responsabilità? Da una parte indaga la magistratura di Bergamo. E la politica? Anche la politica adesso indaga. Ma come indaga?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Terminata la sessione d’incontri, la sera il ministero della Salute ha offerto una cena d’accoglienza per Tedros e tutti i ministri della Salute dei paesi ricchi in una location esclusiva, terrazza con vista mozzafiato su Roma, a via Veneto.

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Hanno voluto una caprese, che noi l’abbiamo rivisitata con otto tipologie di pomodori che abbiamo in Italia. Poi sono andati su un raviolo alla carbonara.

GIULIO VALESINI Tutto innaffiato da buon vino.

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Sia bianco che rosso, sia bollicina per iniziare, un buon Franciacorta.

GIULIO VALESINI Me la toglie una curiosità? Chi ha pagato il conto?

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Ovviamente è stato pagato dal ministero, che equivale all’Italia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora parliamo del piano pandemico e del dossier di Zambon ritirato. Ecco, sui fatti della Lombardia sta indagando la procura di Bergamo. Vuole vederci chiaro sul perché e per responsabilità di chi non è stato attuato e aggiornato il piano pandemico. E anche per responsabilità di chi è stato ritirato il dossier del ricercatore Zambon. Ora anche la politica vuole vederci chiaro e a luglio scorso le commissioni Esteri e Affari Sociali hanno istituito una commissione parlamentare d’inchiesta sul Covid. Ma hanno messo un paletto. La commissione indagherà esclusivamente fino al 30 gennaio. Cioè fino a quando sono stati scoperti i due turisti cinesi a Roma con il virus. Non un giorno di più. Non indagheranno cioè sul come Governo e Regioni hanno gestito la pandemia. Evidentemente non solo non vogliono conoscere le responsabilità, quello magari è competenza della procura, ma neppure capire quali errori sono stati commessi.

GIUSEPPE MARZULLI - EX DIRETTORE MEDICO OSPEDALE PESENTI ALZANO LOMBARDO Cos'è una barzelletta, una farsa? Non saprei come definirlo. Il primo caso di Covid in Italia c’è stato, ufficialmente riconosciuto, c'è stato il 22 febbraio nella bergamasca. Il 22 di febbraio. Mi dica lei che senso ha che la commissione di inchiesta allora termini del proprio mandato al 30 di gennaio?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La proposta della commissione porta la prima firma di Paolo Formentini, deputato lombardo della Lega Nord. Il testo, molto annacquato dopo le modifiche, ha trovato un largo consenso tra i partiti: dalla Lega, ai 5Stelle, dal Partito Democratico a LeU.

GIUSEPPE MARZULLI - EX DIRETTORE MEDICO OSPEDALE PESENTI ALZANO LOMBARDO C'è evidentemente un accordo fra forze politiche contrapposte per coprire le reciproche responsabilità del ministero della Salute e della Regione Lombardia nella gestione della prima ondata epidemica.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Pochi giorni fa un comitato di parenti delle vittime di Bergamo ha manifestato a Roma. Il simbolo della protesta è la foglia di fico. Hanno lanciato una petizione per chiedere di istituire una commissione parlamentare d'inchiesta sull’Italia: hanno già raccolto oltre 10mila firme.

FAMILIARE BERGAMO Non riesco più ad accettare l’espressione: “Eravamo, siamo stati colti di sorpresa o eravamo impreparati”.

GIULIO VALESINI Che male c'era ad allargare il raggio d'azione della commissione?

LUCA RIZZO NERVO - PARTITO DEMOCRATICO Pensiamo che in una fase in cui ci sono ancora indagini in corso dalla procura di Bergamo non sia, diciamo, il momento in cui la politica entra, diciamo, su un'indagine in corso prima che queste indagini si siano concluse.

GIULIO VALESINI Non sono due cose diverse? Cioè, la magistratura valuta eventuali reati, la commissione parlamentare valuta le scelte politiche che non necessariamente sono reati.

LUCA RIZZO NERVO - PARTITO DEMOCRATICO Sono d'accordo con lei. Noi abbiamo votato segnalando in ogni passaggio come questa cosa avesse degli indubbi limiti.

GIULIO VALESINI Avete votato una commissione che già sapete in partenza che non riuscirà ad ottenere grandi informazioni, a meno che voi non pensiate di riuscire ad avere informazioni laddove ad esempio l'Oms ha fallito.

LUCA RIZZO NERVO - PARTITO DEMOCRATICO No, noi pensiamo che sia giusto e legittimo che il parlamento italiano possa richiedere informazioni su quella fase di gestione della pandemia

GIULIO VALESINI Voi pensate di andare a Wuhan?

LUCA RIZZO NERVO - PARTITO DEMOCRATICO Come si svolgeranno i lavori della commissione saranno definiti negli uffici di presidenza della commissione stessa

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dal testo iniziale è sparito anche il riferimento all’Organizzazione Mondiale della Sanità. L’onorevole Palazzotto dello stesso partito di Speranza ha presentato l’emendamento che limita lo spazio dell’indagine della commissione al 30 gennaio 2020.

GIULIO VALESINI Perché è stato tolto il riferimento all’Oms?

ERASMO PALAZZOTTO LIBERI E UGUALI Si è ritenuto che fosse più utile delimitare ulteriormente il campo di indagine a un fatto specifico, cioè all’origine della pandemia.

GIULIO VALESINI Perché non si indaga sull’Italia?

ERASMO PALAZZOTTO - LIBERI E UGUALI si cambia il senso della commissione. Se si fa un’altra proposta di legge su un’altra commissione

GIULIO VALESINI Non era il caso?

ERASMO PALAZZOTTO - LIBERI E UGUALI Io penso, io penso che potrebbe essere il caso. In questo caso, però, andrebbe fatto quando è finita l’indagine della magistratura

GIULIO VALESINI Pensate di convocare anche i dirigenti del governo cinese?

ERASMO PALAZZOTTO - LIBERI E UGUALI È una possibilità. Non so, non credo che accetteranno di essere convocati dalla commissione parlamentare italiana

GIULIO VALESINI È una commissione che fa contenti un po’ tutti

GILDA SPORTIELLO - MOVIMENTO 5 STELLE È una commissione che una parte del parlamento ha presentato, in questo caso la Lega. C'è stata una discussione in commissione esteri e affari sociali

GIULIO VALESINI e un ampio consenso politico

GILDA SPORTIELLO - MOVIMENTO 5 STELLE tutti insieme abbiamo concordato che lo scopo fosse questo ma lo scopo che è l'intenzione del proponente della proposta di legge per cui ovviamente questa è stata la proposta presentata

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Tra qualche giorno il parlamento dovrà dare un parere finale sul testo. Intanto, c’è una proposta di commissione di inchiesta alternativa a quella votata in commissione che punta esclusivamente alle responsabilità di come è stata gestita la pandemia in Italia. L’ha presentata Lisa Noja di Italia Viva.

LISA NOJA - ITALIA VIVA C’è una proposta di legge che però a oggi è impantanata.

GIULIO VALESINI Secondo voi porterà a qualche risultato concreto?

LISA NOJA - ITALIA VIVA Non Porterà a nessun risultato perché non potremo andare in Cina, perché non abbiamo le competenze scientifiche per fare un’indagine. se i miei colleghi, in gran parte giuristi, avvocati, fanno altro nella vita, si sentono competenti, gli faccio i complimenti. Io chiedo: i cittadini italiani hanno più interesse a capire cosa non ha funzionato e a sapere che attraverso questo strumento d’indagine noi avremo, diciamo, i mezzi conoscitivi per correggere quello che non ha funzionato e per assicurarci che non avvenga mai più in futuro oppure sono più interessati al fatto che andiamo tutti a Wuhan, a farci raccontare che cosa?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Senza l’ombra di inchieste parlamentari che lo possano delegittimare, Tedros sarà l’unico candidato per l’elezione del direttore generale dell’Oms, forte dell’appoggio dei paesi europei. È sicuro della riconferma. C’era anche lui a settembre a Roma accanto ai ministri della salute del G20, quando si è siglato il “patto di Roma”.

ROBERTO SPERANZA – MINISTRO DELLA SALUTE Se lasciamo una parte del mondo senza vaccini, rischiamo di avere ulteriori varianti che potranno rafforzare la sfida di questo virus contro di noi. Il messaggio del patto di Roma, che tutti i paesi hanno sottoscritto, è un messaggio molto, molto chiaro: nessuno deve restare indietro nella campagna di vaccinazione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Terminata la sessione d’incontri, la sera il ministero della Salute ha offerto una cena d’accoglienza per Tedros e tutti i ministri della Salute dei paesi ricchi in una location esclusiva, terrazza con vista mozzafiato su Roma, a via Veneto.

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT I ministri della Salute, vedendo questa vista sono rimasti scioccati, perché è unica a Roma. GIULIO VALESINI Questo è un hotel a quante stelle?

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Cinque stelle lusso.

GIULIO VALESINI Una camera qui quanto costa?

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT A partire dagli 800 euro. Una cena può aggirare all’incirca sui 150 euro a persona.

GIULIO VALESINI I grandi ministri della Salute della terra cosa hanno mangiato da voi?

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Hanno voluto una caprese, che noi l’abbiamo rivisitata con otto tipologie di pomodori che abbiamo in Italia. Poi sono andati su un raviolo alla carbonara.

GIULIO VALESINI Tutto innaffiato da buon vino.

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Sia bianco che rosso, sia bollicina per iniziare, un buon Franciacorta.

GIULIO VALESINI Me la toglie una curiosità? Chi ha pagato il conto?

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Ovviamente è stato pagato dal ministero, che equivale all’Italia.

GIULIO VALESINI Gli avete fatto uno sconto?

LUCA COSTANZI - MANAGER MIRABELLE RESTAURANT Ovviamente

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A giugno 2021, Andreas Mlizke, capo dell’ufficio compliance ed etica dell’Oms, parla in un meeting interno riservato ai membri dello staff dell’agenzia. Qualcuno chiede come vanno gestiti i rapporti con la stampa quando falliscono le procedure di controllo interno dopo una denuncia: un caso simile a quello degli autori del rapporto sull’Italia. Un funzionario registra un filmato, finora mai reso pubblico, e ce lo fa recapitare.

ANDREAS MLIZKE – DIRETTORE UFFICIO COMPLIANCE ED ETICA OMS Tutti dovrebbero farsi la domanda: mi rivolgerei mai all’esterno con questa informazione? Sto compromettendo l'organizzazione per cui lavoro? E che vuol dire da una parte rivolgersi all’esterno, e poi dall’altra essere contenti di ricevere lo stipendio ogni 27 del mese? Mi sto comportando da ipocrita? È una domanda che io mi farei. Tutti dovrebbero considerare il potenziale danno che questo può provocare all’organizzazione. Dobbiamo avere fiducia nel nostro processo di controllo interno.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Dentro l’Oms i panni sporchi si lavano in famiglia. Anche Francesco Zambon si era rivolto all'ufficio di etica per denunciare le pressioni subite a causa del documento critico sull’Italia: non fu mai convocato.

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Da maggio del 2020 subito già quella settimana coinvolsi l’ufficio di etica.

GIULIO VALESINI Andreas Mlizke l’ha mia convocata?

FRANCESCO ZAMBON - EX RICERCATORE OMS Io avrò spedito almeno una ventina di segnalazioni: mai convocato, assolutamente, mai né lui né Tedros, nessuno.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Andreas Mlizke è una figura chiave dentro l’Oms. Da lui passano tutti i dossier scottanti e le denunce interne.

ELAINE FLETCHER – HEALTH POLICY WATCH Se qualcuno dell’Oms fa una denuncia, passa attraverso due livelli di revisione interna prima di andare all'esterno, all'Organizzazione internazionale del Lavoro. In questi primi due livelli interni, le persone responsabili della revisione sono dell’ufficio del direttore generale. Non c'è una divisione dei poteri, c’è un conflitto d’interessi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Pochi giorni fa il nome del responsabile etica di Oms, Andreas Mlitzke, è finito dentro al rapporto di una commissione di inchiesta che ha indagato sulle violenze sessuali denunciate dalla stampa commesse da una ventina di funzionari Oms in Congo durante la gestione dell’emergenza Ebola tra il 2018 e il 2020. Le vittime di abusi e stupri sarebbero decine, tra le quali una bambina di appena 13 anni. Nel documento si accusa Mlitzke di non aver aperto un’indagine interna appellandosi a un inesistente cavillo burocratico. Ma il direttore dell’ufficio etica dell’Oms è accusato anche di aver mentito: avrebbe saputo degli abusi sessuali già all’inizio di maggio del 2019, e non a metà giugno come invece ha dichiarato.

GERMAN VELASQUEZ – EX DIRETTORE DEL PROGRAMMA SUI FARMACI OMS Ho parlato con alcuni colleghi che si trovavano in Congo. Mi hanno raccontato che gli abusi si verificavano da oltre un anno e mezzo. E allora perché ci è voluto così tanto per far uscire il problema?

GIULIO VALESINI Si sapeva negli ambienti da parecchio tempo, me lo conferma?

GERMAN VELASQUEZ – EX DIRETTORE DEL PROGRAMMA SUI FARMACI OMS Molte persone sapevano e hanno provato a denunciare, ma volevano coprire. C’erano anche ruberie. Il denaro circolava in quantità astronomiche. dicevano di aver comprato le ambulanze che poi non hanno mai acquistato.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Curioso che il direttore generale Tedros, pur avendo visitato il Congo ben 14 volte durante la crisi Ebola, non abbia ricevuto nemmeno un cenno della corruzione né degli abusi sessuali. Ma uscita la notizia, Tedros è stato costretto a chiedere scusa.

TEDROS GABREYSUS - DIRETTORE GENERALE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITA’ Mi dispiace. Come direttore generale, mi assumo la responsabilità per il comportamento delle persone che impieghiamo e per eventuali carenze nei nostri sistemi di controllo che hanno permesso questo comportamento.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Belle parole, ma le responsabilità se le è assunte solo dopo aver messo in sicurezza la sua candidatura. Tedros punta al bis con il sostegno anche della Germania.

GERMAN VELASQUEZ - EX DIRETTORE DEL PROGRAMMA SUI FARMACI OMS Alla Germania e all'Unione Europea fa comodo avere una Oms debole, così da poterla gestirla. Tedros è una persona gentile, amichevole, un buon oratore in pubblico, ma è debole.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, serve Tedros perché è debole. Nella sua debolezza potrà continuare a essere la foglia di fico degli altri paesi. Una folgia l’ha utilizzata anche lui. Viene da una commissione che lui stesso ha nominato, è quella che ha sancito gli scandali sessuali dei suoi funzionari commessi in Congo, scoperti da una squadra di investigatori di giornalisti di inchiesta guidata da Paisley Dodds, che è stata però confermata questa violenza, questi abusi solo un mese dopo che Tedros aveva avuto riconfermata la possibilità di correre al secondo mandato come direttore dell’Oms. Insomma adesso è l’unico candidato in corsa. Brindano gli altri paesi perché potrà continuare ad essere la foglia di fico. Anche perché questo Oms non ha risposto neppure alle rogatorie della procura di Bergamo nei particolari in cui si chiedeva perché è stato rimosso il dossier di Zambon che denunciava le criticità della gestione del virus in Italia? Ecco, ora indagherà anche la politica i panni sporchi vogliono lavarseli in famiglia, anche i nostri partiti. Anzi, ognuno laverà i panni sporchi dell’altro perché la commissione indagherà solo fino al 30 gennaio e dunque non ci sarà nessuna indagine sul perché il piano pandemico non era stato adeguato, perché non è stato attuato, su chi ha falsificato la data per anni sul sito del ministero del piano pandemico, su come Governo e Regioni hanno gestito la pandemia, su chi, come e perché è stato ritirato il dossier indipendente di Zambon. Ecco, nulla di tutto questo. L’unica contraria era la deputata di Italia Viva, Lisa Noja. Però è l’unico caso in cui il partito Italia Viva non incide. Nel silenzio ognuno sarà la foglia di fico dell’altro.

"Su Conte e Arcuri non si può indagare". Schiaffo della maggioranza a Fratelli d'Italia, Meloni furiosa. Il Tempo il 03 novembre 2021. Su Conte, Arcuri e la loro gestione dell'emergenza Covid non si può indagare, almeno per ora. Lo denuncia Fratelli d'Italia, svelando come la maggioranza abbia ancora una volta reso vana la richiesta di una commissione d'inchiesta sulla prima fase della pandemia. "I banchi a rotelle, le mascherine, il commissario Arcuri... da mesi si discute dell'avvio di una commissionedi inchiesta sulla Sanità e sulla gestione del Covid. Ma oggi c'è stata l'ennesima presa in giro da parte della maggioranza". Lo ha sottolineato il presidente dei senatori di Fdi Luca Ciriani, uscendo dalla capigruppo a palazzo Madama. "Fdi ha depositato una pdl a maggio e oggi pomeriggio è andata in onda l'ennesima giustificazione irritante e ridicola: la commissione - ha spiegato Ciriani - non si può fare perché siamo ancora in emergenza. Per cui noi abbiamo chiesto che la prossima capigruppo calendarizzi la proposta, trasmettendola all'aula senza il relatore, come è stato fatto per il ddl Zan contro l'omofobia". "Prima del Covid - ha aggiunto Francesco Zaffini, capogruppo Fdi in commissione Sanità - tutti i gruppi avevano presentato delle pdl per la commissione di inchiesta sul Servizio sanitario nazionale. Abbiamo tentato di comporre un quadro di condivisione, sostanzialmente il centrodestra era d'accordo; il M5s aveva un proprio testo, così come Iv che, tramite il capogruppo Davide Faraone, aveva depositato un testo per una commissione bicamerale di inchiesta sulle spese per il Covid ma, alla fine, è venuto fuori il solito teatrino". "La maggioranza ha sostenuto che non si può indagare perché c'è ancora l'emergenza. Insomma in pratica è come se avessero detto che se il rubinetto perde non si può chiamare l'idraulico, finché l'acqua non si esaurisce. Una giustificazione ridicola", ha concluso Zaffini, mostrando tutta la sua rabbia condivisa dal partito e dalla leader Giorgia Meloni.

Commissione d'inchiesta sul Covid, respinta la richiesta al Senato. Francesco Boezi il 3 Novembre 2021 su Il Giornale. La commissione Sanità respinge il ddl per la creazione di una commissione d'inchiesta sul Covid. "Sì" da Italia Viva e Fdi. La seduta odierna della commissione Sanità ha respinto il ddl per istituire una commissione d'inchiesta sulla gestione del Covid-19. In Senato, già nel corso della mattinata. era circolata una voce secondo cui soltanto Italia Viva, che da tempo propone di mettersi al lavoro per comprendere cosa sia successo, ad esempio in termini d'appalti durante la prima fase pandemica, e Fratelli d'Italia, che è l'altro partito politico che ha sempre battuto sulla necessità di questo passo, avrebbero voluto la costituzione di un organo ad hoc. E così, a conti fatti, è stato. Proprio dalle pagine de IlGiornale.it, la presidente della commissione Sanità Anna Maria Parente si era augurata un esito diverso: "Noi - aveva detto il vertice della commissione Sanità di Palazzo Madama - stiamo insistendo molto, perché riteniamo che sia necessario che il Parlamento conosca che cosa è successo. Abbiamo avuto 132mila morti. Abbiamo speso numerose risorse, peraltro a debito. Dunque vogliamo capire", aveva dichiarato qualche settimana fa, facendo comprendere come la dialettica tra le varie forze politiche fosse in corso. Oggi, però, è il giorno della battuta d'arresto, così come fatto presente dal senatore Giuseppe Cucca, che continua ad insistere soprattutto sulla verità che si deve ai cittadini italiani. "Come Italia Viva - ha fatto presente il senatore Cucca - abbiamo fortemente voluto una commissione d’inchiesta sul Covid: purtroppo oggi tale richiesta è stata inspiegabilmente respinta in Commissione sanità". E ancora: "Le argomentazioni delle altre forze politiche sono prive di senso - ha aggiunto il parlamentare renziano - : non c’è alcun motivo di attendere che finisca l’emergenza, dobbiamo delle risposte ai cittadini su come è stata gestita l’epidemia. Fra l’altro, esperienze simili sono già in atto in alcune regioni e in altri Paesi europeo, come la Francia". Ma, al netto delle due forze politiche citate, le altre formazioni che siedono in commissione hanno scelto di soprassedere. E in alcuni casi sembra lecito ipotizzare qualche perché. Di questioni da indagare, comunque sia, ce ne sarebbero. Proprio come ricorda il senatore Cucca: "Mascherine farlocche - ha elencato - , respiratori cinesi non funzionanti, banchi a rotelle: gli scandali si sono susseguiti e il Parlamento ha diritto di approfondire e capire come sono stati usati i soldi dei cittadini". E a chi ritiene che la politica voglia quasi scavalcare gli inquirenti, viene specificato che "non si tratta di un’intromissione nel lavoro della magistratura". Se non altro perché - annota il parlamentare renziano - "si fanno commissioni d’inchiesta su tutto, permetteteci di dire che di fronte a 132000 morti gli italiani hanno diritto di sapere la verità". Nel novero delle notizie che potrebbero in qualche modo avere a che fare con un’indagine certosina di carattere parlamentare, ricordiamo come l'ex commissario Domenico Arcuri risulti indagato per peculato ed abuso d'ufficio.

Ma "chiarezza" è stata richiesta, almeno da parte di alcune forze politiche, pure sul cosiddetto caso Di Donna. Nonostante alcune dichiarazioni d'intenti, però, la creazione di una commissione d'inchiesta sulla gestione Covid è stata ricusata. La commissione sanità, tuttavia, ha disposto che di commissione d'inchiesta si parlerà ancora appena sarà terminato lo stato di emergenza. A renderlo noto sono stati i capigruppo della maggioranza, così come ripercorso da IlSole24ore Radiocor Plus.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna.

Le Colpe della Pandemia. "Il virus perfetto", lo speciale di PresaDiretta sulle questioni irrisolte della pandemia Crisanti: “Lombardia? Era seduta su una bomba”. Il Fatto Quotidiano il 23 ottobre 2021. Nello speciale di PresaDiretta intitolato “Il virus perfetto”, in onda sabato 23 ottobre alle 21.45 su Rai3, Andrea Crisanti – in un’intervista concessa a Francesca Nava – per la prima volta parla della consulenza tecnica per la Procura di Bergamo, a cui sta lavorando da quasi un anno e mezzo con una equipe di scienziati dell’Imperial College di Londra. Al centro della perizia, che verrà consegnata entro dicembre, ci sono gli studi e i calcoli matematici che dovranno fornire delle risposte ai quesiti dei magistrati bergamaschi su quanto avvenuto all’interno dell’ospedale di Alzano Lombardo (chiuso solo per poche ore il 23 febbraio 2020), sulle conseguenze e l’impatto della mancata zona rossa in Val Seriana e della mancata attuazione del piano pandemico nazionale, il cui aggiornamento era fermo al 2006. Con interviste e documenti esclusivi, lo speciale di PresaDiretta affronterà anche le altre ombre della pandemia ripercorrendo l’intera catena di comando che ha portato alle decisioni prese da Governo e Regioni nelle prime settimane dell’emergenza Covid, con un focus particolare sui piani pandemici regionali. PresaDiretta tornerà anche a Wuhan per indagare i segreti dell’Istituto di Virologia e l’incidente di laboratorio con aggiornamenti sorprendenti. Che tipo di esperimenti si facevano in Cina nei laboratori specializzati sui coronavirus e quale era il coinvolgimento americano in quelle ricerche? Perché l’ipotesi che il virus potesse essere uscito accidentalmente da uno di quei laboratori è stata rimossa e nascosta a favore dello spillover naturale? Esistono dei conflitti di interessi nella comunità scientifica internazionale che ha indagato sulle origini del virus? Cosa c’è dietro la guerra fredda che contrappone Cina e Stati Uniti proprio sulle origini del virus? PresaDiretta ha messo in fila tutte le domande che il mondo scientifico e l’opinione pubblica si sono fatti circa le origini del Sars-Cov-2, il virus che ha cambiato le nostre vite. E ha trovato molte risposte.

“IL VIRUS PERFETTO” e “CRONACA, LA VALLE NEL VIRUS.  Da valseriananews.it il 23 Ottobre 2021. Covid in Val Seriana: parla Crisanti, consulente della Procura di Bergamo. Prima fase del Covid in Val Seriana: parla per la prima volta Crisanti, consulente della Procura di Bergamo. Questa sera a Presa Diretta le prime risposte sulla gestione dell'ospedale di Alzano e sulla mancata zona rossa. Nello speciale di Presa Diretta condotto da Riccardo Iacona, dal titolo “Il virus perfetto” – in onda questa sera su Rai3 – si tornerà a parlare del Covid in Val Seriana, di mancata zona rossa e delle tante ombre sulla gestione della prima fase dell’emergenza covid in Italia. Durante la puntata, che tornerà anche a indagare sui segreti di Wuhan e sull’ipotesi dell’incidente di laboratorio con aggiornamenti sorprendenti, verranno trasmesse interviste esclusive e mostrati documenti inediti. Tra le voci raccolte spicca quella del professor Andrea Crisanti, che per la prima volta parlerà della sua consulenza tecnica per la Procura di Bergamo, a cui sta lavorando da quasi un anno e mezzo con una equipe di scienziati dell’Imperial College di Londra. Al centro della perizia, che verrà consegnata entro dicembre, ci sono gli studi e i calcoli matematici che dovranno fornire delle risposte ai quesiti dei magistrati bergamaschi su quanto avvenuto all’interno dell’ospedale di Alzano Lombardo (chiuso solo per poche ore il 23 febbraio 2020), sulle conseguenze e l’impatto della mancata zona rossa in Val Seriana e della mancata attuazione del piano pandemico nazionale, il cui aggiornamento era fermo al 2006. Lo studio del professor Crisanti, che mira a ricostruire la curva del contagio e l’origine del primo focolaio scoppiato nella bergamasca all’inizio del 2020, si basa su uno dei metodi di calcolo dei rischi più consolidato al mondo. Lo speciale di Presa Diretta affronterà anche altre ombre della pandemia, ripercorrendo l’intera catena di comando che ha portato alle decisioni prese da Governo e Regioni nelle prime settimane dell’emergenza covid, con un focus particolare sui piani pandemici regionali. Presente anche la causa civile dei familiari delle vittime che, in oltre 500, hanno citato Governo e Regione Lombardia al Tribunale civile di Roma chiedendo di accertate le responsabilità della gestione della prima fase e chiedendo un risarcimento per i propri cari che non ci sono più. L’inchiesta sulla Cina è firmata da Lisa Iotti e Irene Sicurella, quella sulla gestione italiana della prima fase pandemica è stata curata da Francesca Nava e da Luigi Mastropaolo. Appuntamento a questa sera, alle 21.45 su Rai3. Guarda l’anticipazione pubblicata su Il Fatto Quotidiano.

"Le ombre della pandemia": PresaDiretta torna a Wuhan per indagare sulle origini del virus. Il Fatto Quotidiano il 4 ottobre 2021. Quando la trasmissione un anno e mezzo fa ha iniziato a porsi delle domande sulle origini del virus c’erano poche certezze. La più solida era legata all'origine naturale del virus: se ci fosse stata una qualche manipolazione genetica o un passaggio in laboratorio del virus, si diceva, si sarebbe visto. Una versione che nel corso dei mesi è stata messa in dubbio da molteplici scienziati di livello mondiale. PresaDiretta torna a Wuhan un anno dopo e, in seguito alla richiesta di 17 scienziati pubblicata dalla rivista Science di chiarire fino in fondo ogni dubbio sull’origine del virus, continua a provare a far luce sugli interrogativi che restano attorno a Sars-Cov-2 con uno speciale intitolato Le ombre della pandemia, in onda sabato 23 ottobre alle 21.40 su Rai3. Quando la trasmissione un anno e mezzo fa ha iniziato a porsi delle domande sulle origini del virus c’erano poche certezze. La più solida era legata all’origine naturale del virus: se ci fosse stata una qualche manipolazione genetica o un passaggio in laboratorio del virus, si diceva, si sarebbe visto. Ci sarebbero state delle “cicatrici”. A settembre 2020, Presadiretta aveva ospitato il microbiologo Ralph Baric, del North Carolina, il maggior studioso al mondo di coronavirus, tra i più grandi esperti nella costruzione di virus sintetici, autore della famosa chimera del 2015: “Si può ingegnerizzare un virus senza lasciare nessuna traccia. Le risposte che cercate però potete trovarle solo dentro gli archivi del laboratorio di Wuhan”, aveva risposto a Lisa Iotti nella puntata SARS-Cov-2 Identikit di un killer. La tecnica molto sofisticata di cui parla Baric si chiama seamless, letteralmente “senza cuciture” grazie alla quale è possibile combinare materiale genetico di diversi tipi di virus senza lasciare cicatrici nelle giunzioni tra un pezzo e l’altro. In sostanza, una volta si vedeva la mano dell’uomo in queste manipolazioni, oggi no. Le parole del professor Baric, che ha lavorato con i ricercatori di Wuhan, avevano fatto il giro della Rete perché avevano aperto una crepa nella narrazione non escludendo la possibilità di una fuga dal laboratorio, anche se non probabile. Non solo: il professore aveva dichiarato a PresaDiretta che l’Istituto di Virologia di Wuhan ha la più grande raccolta al mondo di virus dei pipistrelli e che non tutte le sequenze dei virus su cui lavorano i ricercatori sono pubblicate. Era possibile, quindi, che tra quei campioni ci fosse SARS-Cov-2? Perché era stata esclusa con tanta forza la pista del laboratorio, se l’animale intermedio non si è mai trovato? Una serie di articoli pubblicati sulle più prestigiose riviste scientifiche avevano definitivamente tolto ogni dubbio: SARS-Cov-2 proveniva sicuro da un pipistrello, attraverso un qualche animale sconosciuto che aveva fatto da trampolino, come lo zibetto per la prima Sars o il dromedario per la Mers. Come ci fosse arrivato un virus dei pipistrelli, che si trovano nelle grotte a Sud della Cina, a più di 1.500 chilometri da Wuhan, era un mistero. Di certo non con un pangolino, visto che al mercato di Wuhan, contrariamente a quello che si è detto per mesi, non c’erano questi animali. Così come non c’erano pipistrelli in quel mercato. A marzo 2021 sulla rivista Science, fino quel momento molto cauta, è uscito un articolo a firma di 17 tra i più importanti studiosi al mondo che hanno chiesto di indagare l’ipotesi dell’uscita del virus dal laboratorio con lo stesso rigore dell’ipotesi naturale, perché altrettanto plausibile. Nelle scorse settimane sono trapelate ulteriori novità. Il gruppo DRASTIC, il collettivo della rete che da un anno e mezzo indaga sulle origini del virus, riceve da una fonte anonima dei documenti indirizzati alla DARPA, un’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare. Svariate pagine risalenti alla primavera del 2018, quando la EcoHealth Alliance – l’associazione non governativa con sede a New York che da anni fa ricerche in tutto il mondo per prevenire il rischio di pandemie – fa domanda all’agenzia per ottenere un finanziamento per un nuovo progetto chiamato DEFUSE, “disinnescare”: 14 milioni di dollari per tre anni e mezzo di ricerche finalizzati a identificare nuovi coronavirus simili alla Sars in Asia e prevenire il rischio del salto di specie. Un progetto in supporto dei militari americani che, chiamati a operare ovunque nel mondo, si trovano spesso in regioni a rischio di nuove malattie infettive virali. Tra i partner del progetto, insieme all’East China Normal University, l’Università del Nord Carolina – Chapel Hill, la Duke-National University a Singapore, il USGS National Wildlife Health Center e il centro di ricerca di Palo Alto, anche l’Istituto di Virologia di Wuhan. Un nuovo e fondamentale tassello per capire i rapporti tra l’associazione statunitense e l’Istituto cinese, partner anche in questo progetto. PresaDiretta adesso torna a provare a far luce sulle origini del virus. Lo studio di EcoHealth Alliance era molto ambizioso: campionare pipistrelli in tre specifiche grotte nello Yunnan, la regione della Cina del Sud dove è stato trovato anche uno dei parenti più prossimi del nostro SARS-Cov2. Sono grotte di particolare importanza perché, come già verificato dai ricercatori, ospitano pipistrelli che trasportano Coronavirus simili alla Sars potenzialmente molto pericolosi per l’uomo. I ricercatori cinesi sono chiamati ad un grande lavoro di campionamento: 180 pipistrelli in ognuna delle 3 grotte ogni 3 mesi per 18 mesi, con altri prelievi specifici bisettimanali. Lo scopo era spedire i campioni nei laboratori partner e fare esperimenti per minimizzare il rischio che i coronavirus dei pipistrelli rappresentano per la popolazione umana: la proposta di EcoHealth Alliance non si era mai sentita prima e prevede di studiare in laboratorio la pericolosità dei virus campionati, inoculare su larga scala nei pipistrelli in natura degli immunomodulatori per potenziare il loro sistema immunitario e abbassare la replicazione dei virus e infine vaccinarli direttamente in natura, utilizzando una soluzione in aerosol. Tra le varie manipolazioni che i ricercatori propongono di fare nei loro laboratori, una sembra più interessante di altre: inserire nei virus raccolti i cosiddetti “siti di taglio umano-specifici”, dei pezzetti di proteina che vengono riconosciuti dagli enzimi umani e aiutano il virus ad entrare nelle cellule. La presenza del sito di taglio specifico per l’enzima della furina è una delle caratteristiche di Sars-Cov2 sulla cui provenienza la scienza ancora non ha trovato una spiegazione soddisfacente. Un tratto che gli altri virus della famiglia di Sars-Cov2 non hanno e che lo rende particolarmente “bravo” ad infettare l’uomo. È di poche settimane fa la notizia del ritrovamento nel nord del Laos del virus ad oggi geneticamente più vicino al nostro. Simile al 96,8 per cento, ma comunque privo del sito di taglio per la furina. Rimane quindi ancora un mistero da dove Sars-Cov2 abbia ereditato questa caratteristica genetica che lo rende il “killer perfetto” che conosciamo. Nel documento di EcoHealth Alliance non sono specificati i tipi di siti di taglio che i ricercatori avevano intenzione di testare, ma può darsi che lo studio DEFUSE avesse in progetto di inserire nei virus campionati anche questo specifico pezzettino di Rna? Campionamento delle grotte dello Yunnan, invio dei campioni a vari laboratori del mondo, vaccinazione in massa dei pipistrelli nelle grotte, manipolazione di virus in laboratorio. Quanto sarebbe stata pericolosa questa ricerca? Gli esperimenti di Gain of function, per una grande fetta del mondo scientifico sono pericolosi come giocare con il nucleare. Ma EcoHealth Alliance si era messa al riparo: fare manipolazioni in laboratorio usando coronavirus di pipistrelli simili alla Sars ma non il virus della Sars umana, non farebbe rientrare la loro ricerca nella definizione cosiddetta di Gain of function, i discussi esperimenti in virologia che aumentano le capacità di un patogeno di infettare l’uomo e sviluppare malattie. Ma molti scienziati interpellati non sono d’accordo e in tanti sottolineano l’importanza di riflettere una volta per tutte sui potenziali rischi connessi a questo tipo di ricerca, indipendentemente dal fatto che la comparsa di Sars-Cov2 vi sia legata. Il progetto alla fine viene rigettato. Per l’agenzia della Difesa la proposta manca di dati fondamentali, anche riguardo ad aspetti etici, sociali e legali. Nota però che certe parti della proposta sono di grande interesse nel caso ci fossero nuovi finanziamenti. Che ne è stato quindi di questo ambizioso studio non si sa. È andato avanti in qualche modo? Potrebbe essere stato finanziato solo in parte? La DARPA – contattata da PresaDiretta – risponde che “in conformità con i regolamenti federali statunitensi, non è autorizzata a divulgare chi può aver o non aver presentato una proposta” all’agenzia. L’agenzia del Pentagono specifica poi che non “ha mai finanziato né direttamente né indirettamente come subappaltatore, alcuna attività o ricercatore associato ad EcoHealth Alliance o all’Istituto di virologia di Wuhan”. Ecohealth Alliance invece, come ormai fa da un anno a questa parte, al programma di Riccardo Iacona non risponde né fa dichiarazioni a riguardo. È di pochi giorni fa la notizia che negli USA è passato con sostegno bipartisan un emendamento che vorrebbe impedire che il Dipartimento della Difesa finanzi in futuro EcoHealth Alliance. Ma l’associazione guidata da Peter Daszak negli ultimi ha ricevuto finanziamenti importanti da altre agenzie governative americane non legate alla difesa. In particolare, due cospicui grant ricevuti del NIAID, l’istituto sulle malattie infettive guidato da Anthony Fauci. Non si sapeva molto su questi progetti fino a qualche settimana fa, quando centinaia di pagine di documenti sono stati resi pubblici da The Intercept.

Speranza, lo strano addio e le ombre sul ministero. Felice Manti il 18 Settembre 2021 su Il Giornale. Lascia Zaccardi, capo di gabinetto finito nelle carte dei pm per il report Oms sparito. Fuori un altro. Da mercoledì sera Goffredo Zaccardi non è più il capo di gabinetto di Roberto Speranza, sostituito dal magistrato Tiziana Coccoluto. «Motivi personali», è la motivazione ufficiale. Ma anche se al ministero della Sanità le bocche sono cucite qualcuno si lascia scappare che il motivo del suo addio potrebbe essere legato al coinvolgimento del magistrato ormai a riposo nell'inchiesta per epidemia colposa aperta dopo la denuncia dei familiari delle vittime della Bergamasca. Si parla infatti di Zaccardi nella mail che l'ex numero due Oms Ranieri Guerra aveva mandato al suo ricercatore Francesco Zambon per fermare il report che avrebbe messo in imbarazzo l'Italia per la gestione della pandemia. Report che infatti sparì dopo 24 ore e che oggi rappresenta uno dei capi d'accusa che inchioderebbe il ministro Roberto Speranza e l'intero esecutivo, colpevole di non aver mai aggiornato dal 2006 il piano pandemico. Il report infatti era malvisto da Guerra e dallo stato maggiore Oms, come testimoniano le mail in mano ai pm - che il Giornale ha potuto consultare - nelle quali Guerra dice «sto per iniziare col ministro (Speranza, ndr) il percorso di riconferma parlamentare (e finanziaria) del centro di Venezia» (dove lavorava Zambon, ndr). Cristiana Salvi (responsabile Relazioni esterne Oms) scrive invece: «Prima di far uscire un rapporto così articolato sull'esperienza Italia non possiamo non condividerlo col ministero». E chi era l'ufficiale di collegamento con l'Oms? Proprio Zaccardi, di cui Guerra parla apertamente per aver partecipato con lui a una riunione con il presidente dell'Iss Silvio Brusaferro. La domanda a cui i pm devono trovare una risposta è semplice. Speranza sapeva che il report contro l'Italia sarebbe saltato perché «non concordato», anzi ostile con l'esecutivo guidato da Giuseppe Conte? Qualche mese fa se l'era chiesto anche la procuratrice aggiunta di Bergamo Maria Cristina Rota: «Immagino che sia dovere del capo di gabinetto e dei collaboratori di riferire al ministro - disse a Radio24 - ma non posso escludere che qualche omessa comunicazione ci sia stata». Nei mesi scorsi sono state passate al setaccio migliaia di pagine di conversazioni interne a ministero della Salute, Istituto superiore di Sanità e Cts, acquisite per conto dei pm dalla Guardia di Finanza su telefonini e computer nei giorni caldi della pandemia per verificare se sms, mail e chat contraddicono la versione ufficiale data ai pm. Se così fosse, come risulta al Giornale, partirebbe una raffica di avvisi di garanzia. L'addio inaspettato di Zaccardi potrebbe esserne una conferma. Felice Manti

Zona Bianca, brutale rissa tra Meluzzi e Brindisi: "Non sono demente", "Veramente scandaloso". Volano insulti. ". Libero Quotidiano il 30 settembre 2021. Nuovo round del dibattito tra Alessandro Meluzzi e Giuseppe Brindisi. Lo psichiatra, ospite nuovamente di Zona Bianca su Rete Quattro, non ha evitato di dire la sua. Al centro le cure alternative al Covid, come l'Ivermectina. A sostegno della sua tesi Meluzzi chiama in causa il professor Giuseppe Remuzzi dell’Istituto Mario Negri di Bergamo: "Se non sono diventato demente, il professor Remuzzi ha fatto un importante studio dove spiega che l'introduzione di normali antinfiammatori nei primi giorni ha prevenuto l’evoluzione negativa". Un'affermazione che ha scatenato il conduttore: "Remuzzi a proposito del suo protocollo dice che non ha la forza per essere approvato e per cambiare quello del ministero della Salute. Non tirate più Remuzzi per la giacchetta". Non si è fatta attendere a quel punto la replica: "Quando ha sono stati fatti gli studi il ministero proponeva soltanto un farmaco controindicato, la tachipirina, e la vigile attesa". Finita qui? Niente affatto perché poi il giornalista se l'è presa anche con un altro ospite in studio: l’avvocato Erich Grimaldi, presidente Cure Domiciliari Covid-19: "Quel servizio non può passare così - ha tuonato Brindisi -, perché i medici e il presidente dell’Ordine dei medici di Cagliari dicono che questi farmaci oltre a non funzionare, possono essere anche dannosi. Possiamo cancellare l’Ivermectina?". E ancora: "Avvocato, le dico che Remuzzi ha detto che già il suo protocollo non ha la forza di essere validato, figurarsi il vostro. La gente scende in piazza per questo protocollo, fa le manifestazioni. Questo è scandaloso, per me è veramente scandaloso utilizzare un’autorità vera, un professore stimatissimo, perché non serve più ai vostri discorsi". A detta di Brindisi lo stesso discorso vale per l'idrossiclorochina, farmaco bocciato da uno studio pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet: Ma quanti ne avete salvati? Dove sono le cartelle cliniche? Avete delle cose scritte su Facebook. Io posso scrivere qualsiasi cosa su Facebook", è stato il rimprovero finale con cui il giornalista ha zittito gli ospiti. E chissà che la replica non avverrà nella prossima puntata.

«Una cura c’è già e si può usare da subito». Francesco Borgonovo 16 ottobre 2021 su La Verità.info. Parla il direttore dell'Istituto Mario Negri: «Il nostro trattamento con antinfiammatori riduce le ospedalizzazioni del 90%. Gli studi sono pubblicati, i medici possono applicarli a prescindere dalle linee guida. L'unico scettico che abbiamo incontrato? Un italiano».

Siamo alla distopia. Chi cita dati ufficiali sui morti di Covid è un nemico pubblico. Francesco Borgonovo 25 ottobre 2021 su La Verità.info. Accuse ai pochi, compresa «La Verità», rei di aver diffuso il report dell'Iss che ricalcola il numero di vittime del virus.

Scoprono che l’immunità è un’utopia per poterci tenere ancora in gabbia. Francesco Borgonovo 21 ottobre 2021 su La Verità.info. Silvio Brusaferro si sveglia: «Il virus non sparirà». Poi usa i dati inglesi per giustificare la terza dose (contraddetto da Giorgio Palù dell'Aifa). Ma così non ne usciremo. Allora sì ai richiami per chi vuole e intanto si torni alla normalità.

Autoritarismo pandemico. Con il pretesto dell’epidemia virale e l’appoggio di (quasi) tutti si sta instaurando un totalitarismo poco “dolce”, vista la criminalizzazione dei pochi dissidenti resistenti non allineati. E forse ci attendono nuove strategie della tensione orchestrate dallo Stato? Rino Tripodi 2 Ottobre 2021. (LucidaMente 3000, anno XVI, n. 190, ottobre 2021)

Con il pretesto dell’epidemia virale e l’appoggio di (quasi) tutti si sta instaurando un totalitarismo poco “dolce”, vista la criminalizzazione dei pochi dissidenti resistenti non allineati. E forse ci attendono nuove strategie della tensione orchestrate dallo Stato? Nel presente articolo non intendiamo addentrarci nella discussione sui “vaccini”, sulla loro efficacia, sulla loro pericolosità, sugli enormi interessi economici (vedi Big Pharma ricchi grazie al monopolio. Vaccini venduti a 24 volte il prezzo in Affaritaliani.it o Guido Fontanelli, Quanto ha reso il Covid a big Pharma: 100 miliardi di dollari, in Panorama). Ne abbiamo già ampiamente parlato in Epidemia Covid-19: tutto quello che non ci dicono. La questione da porsi, ancora più importante, è: stiamo già vivendo in uno stato autoritario, una “dittatura sanitaria”, come afferma qualcuno, scaturita dall’epidemia Covid-19 e assunta a pretesto per imporlo? E neppure tanto soft?

In effetti, al di là della validità e della rischiosità o meno dei “vaccini” nel breve periodo e, soprattutto, dei loro effetti nel medio-lungo (lo sapremo tra decenni), quello che preoccupa, in particolare in Italia, sono i numerosissimi segnali di un regime dittatoriale e antidemocratico, sostenuto da troppi: mass media, poteri economici e farmaceutici, intellighenzia, pubblicitari, star dello spettacolo, dello sport, del cinema, della musica leggera. I meccanismi per imporlo sono quelli consueti, applicati dalle dittature del Novecento, con le loro tipiche strategie per indottrinare/manipolare/terrorizzare le masse. Per amore di chiarezza e sinteticità, li elenchiamo di seguito.

LA STRATEGIA DEL POTERE

Autoritarismo dei governi. L’emergenza impone di non perder tempo con le prassi democratiche: avanti con decreti del presidente del Consiglio, voti di fiducia e massiccia presenza e azione repressiva delle forze dell’ordine per rilevare irregolarità e infliggere sanzioni.

Terrorismo mediatico-politico. Nei primi mesi dell’epidemia, tv e radio, quasi a reti unificate, hanno martellato il povero utente imponendo obblighi di comportamento (distanziamento sociale – non sarebbe meglio definirlo “fisico”?; anche questa scelta lessicale della comunicazione ha un senso –, lavarsi le mani, uso delle mascherine, ecc.). Ancora oggi si continua coi “bollettini di guerra” quotidiani, contenenti freddi e grezzi numeri, che non offrono la possibilità di leggere la realtà (come e dove ci si è contagiati?; i deceduti soffrivano di altre patologie?; quanti sono i morti per la Covid e quanti per altra causa ma classificati come vittime della pandemia perché positivi al virus [Sars-Cov-2], magari senza sintomi collegati?; quali erano la loro età e la loro attività?; a quali terapie erano stati sottoposti?). L’importante è alimentare insicurezza e fobie.

Teatralizzazione. Tre esempi per tutti: la fila di camion militari contenenti le bare dei primi morti nelle province di Bergamo e Brescia; l’arrivo di (presunti) medici giunti in aiuto da Cina, Cuba, ecc. (l’Italia ne aveva davvero bisogno?; che supporto o competenze hanno fornito?); i primi “vaccini” giunti in Italia scortati (perché?) dalle forze dell’ordine. Il tutto in consonanza con la società dello spettacolo teorizzata e profetizzata da Guy Debord.

Semplificazione e soluzioni facili e sbrigative. Come in tutti i regimi autoritari, la risposta a un problema multiforme e complicato non è mai complessa, ma semplificata: i “vaccini” e la messa a priori all’indice e al pubblico ludibrio dei dissidenti e degli oppositori.

Cieco ottimismo. Si è diffuso lo slogan “andrà tutto bene”, stupido, iettatorio, calco di un intercalare statunitense, e si è spinta la popolazione a comportamenti pagliacceschi, quali cantare dai balconi, quasi si trattasse di una festa o vacanza inaspettata e, quindi gradita.

Ipocrisia. Avessero almeno il coraggio di legiferare sull’“obbligo vaccinale” e se ne assumessero le responsabilità! Il problema è che, trattandosi di una terapia preventiva e non di un vero e proprio vaccino, scaturirebbero varie problematiche, tra le quali il risarcimento per “effetti avversi” (altro neologismo eufemistico…), che è, invece, già previsto per i vaccini obbligatori (legge 210 del 25 febbraio 1992, Indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni e somministrazione di emoderivati). Peraltro, la stessa norma recita che «i benefici di cui alla presente legge spettano alle persone non vaccinate che abbiano riportato, a seguito ed in conseguenza di contatto con persona vaccinata, i danni di cui al comma 1; alle persone che, per motivi di lavoro o per incarico del loro ufficio o per potere accedere ad uno Stato estero, si siano sottoposte a vaccinazioni che, pur non essendo obbligatorie, risultino necessarie [il grassetto è nostro, ndr]; ai soggetti a rischio operanti nelle strutture sanitarie ospedaliere che si siano sottoposti a vaccinazioni anche non obbligatorie». Inoltre, a essa va aggiunta la legge 229 del 29 ottobre 2005 (Disposizioni in materia di indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie).

Ritorno allo stato etico. L’attuale potere è tornato ad assumere le funzioni dello Stato etico fascista. Lo Stato liberaldemocratico dovrebbe semplicemente sovrintendere alla vita dei propri cittadini. Quello attuale è moralista e pedagogico. In questo caso colpevolizza chi non si fa la “punturina”; ma, in generale, pretende di imporre una propria morale in campo sessuale (ddl Zan), ideologico (ambientalismo di facciata, quote rosa, ius soli), di costume (cannabis), sanitario (imposizione di stili di vita), ecc.

Menzogne di stato. “Chi è vaccinato in un ambiente di vaccinati è sicuro di soggiornare in un ambiente sicuro”. “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire, sostanzialmente: non ti vaccini, ti ammali e muori. Oppure, fai morire: non ti vaccini, contagi, lui o lei muore” (Mario Draghi).

Metodi orwelliani. «Il vaccino è libertà» (Enrico Letta): un ritornello palesemente ossimorico ripetuto da moltissimi leader di governo e da esponenti delle forze politiche al potere. Sembrano calchi di “L’odio è amore”; “La guerra è pace”; “La schiavitù e libertà”; “L’ignoranza è forza” del romanzo 1984 di George Orwell.

Infantilizzazione dei cittadini e loro regressione mentale. Oltre al già citato tormentone “andrà tutto bene”, “occorre fare la ‘punturina’”, “fate i bravi”, “obbedite”, “con poche, semplici regole, potremo tornare ad abbracciarci”…

Pensiero unico. Non v’è alcun rimedio che non siano i “vaccini”, ogni altra cura è inutile o dannosa. A parte il fatto che i “vaccini” a mRna sono terapie sperimentali e non vaccini veri e propri, perché rifiutare a priori le innumerevoli altre terapie, tentate, a quanto pare con successo, tra le quali quella del dottor Giuseppe de Donno?

Logica emergenziale. Il potere dichiara che c’è un’emergenza. Peccato che a questa segua un’altra, e un’altra ancora, e ancora un’altra… I cittadini sono tenuti sotto costante pressione, ansia, angoscia. Nel caso Covid non si è mai posto un fine, un obiettivo, dopo il quale riprendere fiato. L’80% di “vaccinati”? Non è sufficiente. Due dosi? Meglio tre. Tamponi? Non sono attendibili…

Imposizione dello scientismo (che non significa scienza) elevato a dogma. “Lo dice la scienza”, “è scientifico”, “occorre fidarsi degli scienziati”: peccato che la scienza non sia dogmatica, ma è problematica e sempre in divenire (ad esempio, nel caso del vaccino Astrazeneca, gli “esperti” si sono contraddetti quattro volte); leggi L’esperienza storica smentisce le attuali, arroganti élite della comunità scientifica. La visione astronomica di Copernico e Galileo era ritenuta una stupidaggine assurda rispetto a quella di Tolomeo; Darwin, Einstein e Freud furono derisi. Al contrario, il criminale nazista Josef Mengele era ritenuto un valido medico “sperimentatore”, e la nefasta talidomide fu assunta con tranquillità come farmaco testato, efficace, inoffensivo; e a tutt’oggi i ricercatori vivisezionisti vengono considerati “scienziati”. Leonardo Sciascia ha scritto in 1912+1 (Adelphi, 1986): «Magalotti dice di cose che i medici una volta consigliavano e poi avversavano; e Savinio di aver visto nella sua vita mutare ben quattro volte l’opinione medica sul pomodoro» (p. 75).

Linguaggio militare/militaresco/militarista di estrema violenza. “Siamo in guerra e chi non si vaccina è come un disertore e va passato per le armi”. “Occorre fare come Bava Beccaris e sparare sulla folla dei no vax”. C’è poco da commentare.

Violenza e brutalità. Oltre al disprezzo e alla condanna verbale, sono stati parecchi gli episodi nei quali, nel corso di manifestazioni di dissidenti, quasi sempre pacifici e non violenti, le forze dell’ordine sono intervenute in modo eccessivo.

Mancanza di dialogo con chi protesta. Come nel Sessantotto o in altri movimenti popolari, la violenza aumentò perché il potere e i governi dell’epoca non aprirono alcuna porta al dialogo con le ragionevoli richieste degli studenti meno facinorosi, così oggi si tollerano a malapena le manifestazioni (sminuite come partecipazione numerica e declassificate come messaggi propagati).

Ricatto e coercizione; altrimenti, marginalizzazione ed esclusione. I “vaccini” non sono obbligatori, ma chi non si vaccina non avrà il green pass e, quindi, diviene un paria senza più alcun diritto; persino quello del lavoro. Si può definire libertà di scelta?

Dividere i cittadini e contrapporli gli uni agli altri. Secondo il vecchio motto divide et impera, il potere ha scatenato divisioni e odio tra i propensi ad accettare i “vaccini” e gli altri.

MASS MEDIA ALLINEATI E FAZIOSI

Uniformità dell’informazione. Tranne rare eccezioni, i quotidiani, i telegiornali, i giornali radio, le trasmissioni di “informazione”, si somigliano gli uni agli altri. Al centro delle notizie c’è sempre la “situazione pandemia”, narrata allo stesso modo. Una sorta di “veline” da regime mussoliniano, pervenute dall’alto e diffuse senza alcun controllo né spirito critico. Una mobilitazione comune ai fini di un’informazione che deve “educare il popolo” (e qui si passa dal fascismo allo stalinismo).

Mancanza di obiettività. Nelle scuole di giornalismo si insegna che il cronista, anche se, ovviamente, ha le sue idee ed è dipendente dalla sua testata, deve controllare le notizie, le fonti e, comunque, apparire sempre super partes, obiettivo. Oggi accade questo? Le manifestazioni “no vax”, le più affollate dopo decenni di crisi della partecipazione democratica dei cittadini, non vengono mostrate. Non solo: se si intervista qualche manifestante, lo si sceglie tra i meno preparati e/o lo si subissa di domande aggressive e senza possibilità di vera risposta.

Mancanza di pluralismo. Anche sulla stampa e sulla televisione degli anni più bui del potere democristiano, veniva lasciato un certo spazio alle voci discordanti. Oggi mancano del tutto contraddittori e dibattiti tra opinioni diverse.

Censura delle informazioni non allineate. Qualunque fatto che potrebbe incrinare la rappresentazione di una visione preconfezionata non viene riportato (dai morti a causa della “vaccinazione” al racconto di coloro che, dopo la “punturina”, si sono gravemente ammalati e risultano oggi disabili).

Niente domande e allontanamento dalle questioni reali: depistaggio. Tutto è proiettato sul terrore e sulle ansie presenti. Ma non sarebbe utile capire anche perché ci troviamo in questa situazione? Nessuno pone le domande più logiche. Che ruolo hanno avuto la Cina e il laboratorio di Wuhan nella nascita e diffusione del Sars-Cov-2? C’entrano anche gli Usa? Perché l’Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) ha prima negato il pericolo e poi tardato l’allarme? Perché in Italia si è voluta rassicurare la popolazione con cene di politici a base di involtini presso ristoranti cinesi per poi passare a un surreale lockdown? Perché A inizio pandemia oltre 4.000 cinesi sono entrati in Italia senza controlli? Perché nella Pianura padana è morta, in percentuale, più gente che in ogni altra parte del mondo? Esistono cofattori ambientali o di malasanità? Perché non si sono curati (e non si curano) gli affetti da Covid nella fase iniziale e a domicilio, senza intasare gli ospedali e diffondere ulteriormente il morbo? Quali sono le responsabilità del Governo Conte 2 nell’olocausto lombardo? Tutto questo, di assoluta gravità, è stato rimosso.

“Virologi”, “epidemiologi”, ecc. elevati a star televisive. Sebbene quasi nessuno di loro abbia sufficienti titoli accademici o di articoli prestigiosi presso la comunità scientifica, compaiono in tv, per motivi di telegenia o altro, sempre gli stessi volti di “esperti”. Eppure in Italia saranno altre centinaia i medici e gli scienziati che dirigono reparti ospedalieri o studi di ricerca. Ma sullo schermo ci vanno i più narcisisti, arroganti, sprezzanti, aggressivi, senza alcuna volontà di dialogo con altre posizioni, anzi minacciosi verso di esse.

Derisione degli ospiti non allineati. Se tra gli ospiti di qualche trasmissione “capita” un non allineato, il collegamento spesso non funziona, l’audio è difettoso, lo schermo viene diviso a metà in verticale e compare un altro “esperto” conformista che sghignazza, ridacchia, compatisce, scuote la testa.

Sorveglianza anche sul web. La Rete è libera? Mica tanto. Ormai l’abbiamo visto in più circostanze (leggi Il ban di Trump è un pericolo per la democrazia). Ma il massimo sta accadendo in questa temperie, con l’oscuramento di profili divergenti e il controllo sui social: se vi parli dell’argomento virus, ecco comparire il costante richiamo a «Visitare il Centro informazioni sul Covid-19 per risorse sui vaccini».

LA CRIMINALIZZAZIONE E LA REPRESSIONE DEI DISSIDENTI

Rappresentazione negativa dei divergenti. Chi non vuole vaccinarsi, chi ha una visione alternativa della realtà rappresentata dal potere e dai mass media, potrebbe essere definito in tanti modi, con diverse gradazioni che vanno dal neutrale al positivo: scettici, attendisti, agnostici, non allineati, non conformisti, oppositori, eterodossi, alternativi, dissenzienti, divergenti, dissidenti, resistenti. Invece, categorizzati sic et simpliciter come “no vax” o complottisti o negazionisti, essi assumono una connotazione negativa e da fanatici, folli ignoranti. Oggi, se si vuol mettere il bavaglio (o la mascherina) a qualcuno o all’interlocutore appena apre bocca, è sufficiente la parolina magica “no vax”: eccolo etichettato, sprezzantemente, come untore. Del resto, è un vecchio trucco semantico: se ci si definisce “progressisti” o “riformisti” o “rivoluzionari”, si risulta di per sé positivi, rapportati a “reazionari” o “conservatori” o “moderati”. Così, come durante il regime fascista e i primi anni del potere democristiano, comunisti e socialisti erano definiti tout court come “sovversivi”. E chiusa lì.

I subumani. Similmente alla peggiore ideologia nazista, chi non si vaccina, ha dubbi o pone domande è un untermensch, un subumano. Come ebrei, slavi, zingari, omosessuali, è un inferiore, che va eliminato…

Colpevolizzazione. Sebbene dal punto di vista oggettivo e scientifico sia una menzogna, la responsabilità di ogni nuovo malato e morto viene fatta ricadere sui “no vax”. Questo, sebbene un non “vaccinato” prudente sia meno a rischio contagio di un “vax”, che può diffondere il virus almeno quanto il primo (anche per comportamenti più incoscienti, visto che gli han fatto credere che è invulnerabile e non contagioso). Ma solo il “no vax” è colpevolizzato.

Politicizzazione dei resistenti. Per dividere ulteriormente gli italiani, si è deciso che i “no vax” sono di destra, fascisti, squadristi. Invece, alle numerosissime manifestazioni dei dissidenti, aderiscono persone di ogni tipologia e, nella stragrande maggioranza, assolutamente non violente (Bersani: «Ci sono i No vax-Sì Dux, i più rumorosi, sono fascisti»).

Scelta del capro espiatorio. Di tutto il male presente, passato e futuro, è quindi accusata una categoria ben individuata. Se contagi e morti aumentano, se l’economia non riparte abbastanza, i colpevoli sono i “no vax”. Così la rovinosa sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870 fu addossata all’ufficiale ebreo Alfred Dreyfus; il disastro tedesco dopo la Prima guerra mondiale agli ebrei; la perpetua miseria e carenze di generi alimentari nell’Unione sovietica ai piccoli e medi contadini (i kulaki).

Ferocia e odio. Indicata la categoria colpevole (sia essa religiosa o sociale, etnica o culturale, politica o economica, ecc.), su di essa va indirizzato il risentimento della popolazione: sono i celebri due minuti di odio verso chi affermava la verità, narrati ancora da Orwell nel suo ormai fondamentale 1984. Purtroppo, oggi non sono solo più due minuti… E c’è chi propone isolamenti in posti sperduti (ricordate il confino fascista?), campi di rieducazione (Pol Pot?), ospedali psichiatrici (Stalin?).

DUE POLIZIOTTI E DUE EPISODI INQUIETANTI

Due volti della Polizia di Stato. Il primo è quello della vicequestore di Roma, Nunzia Alessandra Schilirò, intervenuta sabato 25 settembre a una partecipatissima manifestazione di dissidenti tenutasi nella capitale in piazza San Giovanni. Il suo appassionato e commovente intervento in favore di libertà, Costituzione, Resistenza, nonviolenza, cristianesimo, ha subito scatenato l’inquietante intervento della ministra degli Interni Luciana Lamorgese, che ha espresso giudizi prima ancora che fosse avviata un’indagine disciplinare sulla dirigente (vedi la lettera aperta di Maurizio Bolognetti). Una celerità che sarebbe stata più gradita in altre circostanze quali il rave party di Valentano o lo sbarco continuo di presunti migranti.

L’episodio più allarmante, però, è forse stato quello delle gravi affermazioni pronunciate martedì 14 settembre nel corso del Congresso del sindacato Siap dal capo della Polizia Lamberto Giannini (No Vax: «Usano strategia della tensione»). Come scrive Aldo Giannuli in un suo libro, tale disegno, insieme a quello degli “opposti estremismi”, fu messo in opera non certo dai cittadini, ma da apparati dello Stato per bloccare l’evoluzione democratica del nostro Paese negli anni Sessanta-Settanta del secolo scorso con omicidi politici, attentati, stragi, provocazioni, depistaggi, a partire dalla bomba alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano (1969). Sembrerebbe quasi, quella di Giannini, più che una denuncia, una minaccia. C’è qualcuno, anche oggi, nell’Italia del 2021, cui farebbe comodo un atto violento (il classico “morto nelle piazze”, un attentato, una strage) per delegittimare ancora di più i dissidenti e imporre una ancora più grave svolta autoritaria?

Del resto, come si può nutrire fiducia in uno Stato, quello italiano, che da sempre latita su fatti gravissimi, assassini, stragi (elenchiamo disordinatamente e in modo incompleto: Portella della Ginestra, Avola, Melissa, Vajont, Reggio Emilia, il caso Mattei, Golpe Borghese, moti di Reggio Calabria, delitto Pecorelli, Gioia Tauro, affaire Moro, i casi Calvi, Sindona, Ambrosoli, strage di Bologna e dei treni, Cermis, Ustica, Moby Prince, stragi di mafia, Uno Bianca, Casalecchio di Reno, Gelli e P2, Alpi-Hrovatin, Viareggio, G8 di Genova, ponte Morandi, e altri ancora)? Su tali orrori, dei quali sono rimasti vittime cittadini innocenti, non è mai emersa una versione ufficiale convincente.

CONCLUSIONI (PREOCCUPATE)

Si potrebbe liquidare il tutto come fascista. Anzi, “fassista”, secondo la parolina magica usata per tappare la bocca a tutte/i. Ma ci si porrebbe sullo stesso piano intollerante del sistema di potere (“No vax, sì dux”, di cui sopra). Beninteso, tutto è cominciato da anni, con la dittatura culturale del politically correct, per cui chi pone questioni, dubbi, viene messo a tacere come razzista, islamofobo, ignorante, sessista, maschilista, nazifascista, omofobo, xenofobo, potenziale violentatore di donne, militarista, reazionario, intollerante, retrivo, ecc. ecc. Questo atteggiamento oppressivo e opprimente ha talvolta scatenato reazioni contrarie a quelle che si sarebbe voluto. Chi aveva dubbi sul vaccinarsi, si è irrigidito. Ad esempio, il 18 settembre scorso Ilaria Brunelli, consigliera comunale a Bassano del Grappa, rivolgendosi «al Governo, ai presidenti di Regione e ai loro seguaci», ha esternato così: «Mesi fa valutavo l’idea di vaccinarmi. Ma l’aggressività e la coercizione che adottate sono così abnormi che ho deciso che non mi vaccinerò per nulla al mondo. Lo faccio per me ma soprattutto per gli adolescenti e i giovani a cui il vostro farmaco fa più male che bene».

Potere e mass media al suo servizio avevano promesso il raggiungimento dell’immunità di gregge. Ma, nonostante l’80% circa di “vaccinati”, considerata la soglia minima per quell’obiettivo, l’asticella si alza sempre più. Viene da pensare che l’obiettivo non sia quello dalla salute pubblica, ma della “vaccinazione” di massa. E che più che un gregge “immune”, si vogliano dei “pecoroni” proni al potere. Tutto il quadro fin qui descritto non rientra in un oscuro “complotto”. È piuttosto la logica conseguenza da una parte degli sviluppi del globalismo (che, oltre che di vari organismi e animali dannosi, ha causato la diffusione anche dei virus su tutto il pianeta) e dell’avidità neocapitalista (tutto può rivelarsi un lucroso affare), della tecnoscienza (una nuova divinità vorace e spietata, intollerante e indiscutibile, dogmatica e tirannica), dall’altra dell’ideologia del politicamente corretto e del falso buonismo, in nome della quale si ottiene il diritto di opprimere nel nome della libertà, di scatenare guerre nel nome della pace, di essere disumani nel nome dell’umanità, di farti del male in nome del tuo benessere. È il progetto, tutt’altro che celato, del Great Reset. Come scriveva Carl Schmitt in Dialogo sul potere, «non è più l’uomo come uomo a condurre il tutto, ma una reazione a catena provocata da lui».

In tale situazione, sono pochissime le voci di personaggi noti e influenti che sollevano questioni. Il bello è che appartengono a campi politico-culturali molto diversi tra loro, se non opposti: politici come il già citato Bolognetti, Pino Cabras, Sara Cunial, Gianluigi Paragone, Marco Rizzo, giornalisti come Antonio Amorosi, Francesco Borgonovo, Daniele Capezzone, Carlo Freccero, Mario Giordano, Maria Teresa Maglie, Nicola Porro, Michele Santoro, o pensatori/accademici/uomini di cultura come Giorgio Agamben, Alessandro Barbero, Paolo Becchi, Massimo Cacciari, Diego Fusaro, Paolo Gibilisco, Claudio Risé, Vittorio Sgarbi, o medici come Silvana De Mari, Daniele Giovanardi, Alessandro Meluzzi, Giulio Tarro, o gente dello spettacolo come Miguel Bosé, Claudia Gerini, Enrico Montesano, Povia, Red Ronnie, o pubblicitari come Alberto Contri; ce ne saremo certo scordati qualcuno – e ce ne scusiamo –, ma, certamente, non saranno molti di più. Tra i giornali si salvano dall’assoluto conformismo LaVerità e qualche rara voce su il Fatto Quotidiano e Micromega. Tra i media Byoblu e Radio Radio e qualche spezzone di trasmissione su Rete 4. Per il resto, si assiste alla repressione generalizzata della libertà d’espressione, al trionfo di un potere cieco e arrogante in mancanza di valori e princìpi diffusi tra le masse, in particolare tra i più giovani – mai è avvenuto che la gioventù fosse così passiva e poco ribelle. Torna di prepotente attualità il diritto all’informazione e alla conoscenza. Ma (quasi) tutti tacciono.

Rino Tripodi (LucidaMente 3000, anno XVI, n. 190, ottobre 2021)

Dritto e Rovescio, Maria Giovanna Maglie e la teoria del complotto: "Le notizie sul Covid censurate". Libero Quotidiano il 05 novembre 2021. Pandemia e vaccino. Il tema, con quello che sembra essere l'inizio della quarta ondata in Italia, tiene banco a Dritto e Rovescio, il programma di Paolo Del Debbio in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 4 novembre ed ospite in studio ecco Maria Giovanna Maglie. Al quale Del Debbio chiede a cosa sia dovuta la sfiducia e critica radicale ai numeri della pandemia. "Sicuramente a una straordinaria opacità nell'informazione, iniziata al principio di questa pandemia - premette la Maglie -. Ricordo che il fisico che ha appena vinto il Nobel, italiano, recentemente in tv, mentre un virologo lo prendeva un po' in giro, continuava a chiedere dei dati, qualcosa da utilizzare per capire cosa è successo", sottolinea con vis polemica. E ancora: "Aggiungiamo che è di queste ore la notizia del Pfizer-gate: un'agenzia avrebbe imbrogliato su alcuni effetti avversi del vaccino. E ancora, questa mattina l'Inghilterra ha approvato la prima medicina che cura il Covid, nel senso: se la si assume entro cinque giorni, anche se hai altre patologie e se hai più di 60 anni riduci vistosamente le possibilità di ricovero", continua. "La domanda è: perché tutto questo non viene raccontato? Perché c'è una censura su questo? Non è colpa degli italiani, non sono tutti no-vax. Ma ora con la terza dose, vi voglio informare, i no-vax aumenteranno di alcuni milioni. La gente si chiederà: ma perché la terza dose? Ecco da dove nasce la sfiducia", conclude profetica la Maglie.

Dritto e Rovescio, "censura sulle cure". Maria Giovanna Maglie e il complotto sul Covid: la profezia sulla terza dose. Giorgia Peretti su Il Tempo il 05 novembre 2021. A Dritto e Rovescio, giovedì 5 novembre, Maria Giovanna Maglie scioglie il nodo attorno alla sfiducia del paese sui vaccini. La giornalista è ospite del talk show di Rete 4, condotto da Paolo Del Debbio dove a tenere banco è la discussione attorno i numeri della pandemia e lo scetticismo di coloro che hanno scelto di non sottoporsi alla dose del vaccino anti-Covid. “Qual è il motivo della diffidenza degli italiani sui numeri ufficiali della pandemia?”, questa la domanda posta dal conduttore. Maria Giovanna Maglie spiega la sua visione. “Sicuramente una straordinaria opacità nell'informazione, iniziata al principio di questa pandemia – premette polemica la Maglie -. Ricordo che il fisico che ha appena vinto il Nobel, italiano, recentemente in tv, mentre un virologo lo prendeva un po' in giro, continuava a chiedere dei dati, qualcosa da utilizzare per capire cosa è successo". Poi prosegue l’affondo: “Aggiungiamo che è di queste ore la notizia del Pfizer-gate: un'agenzia avrebbe imbrogliato su alcuni effetti avversi del vaccino. E ancora, questa mattina l'Inghilterra ha approvato la prima medicina che cura il Covid, nel senso: se la si assume entro cinque giorni, anche se hai altre patologie e se hai più di 60 anni riduci vistosamente le possibilità di ricovero". E infine conclude profetica sui numeri dei detrattori del vaccino: "La domanda è: perché tutto questo non viene raccontato? Perché c'è una censura su questo? Perché c’è il vaccinismo senza limitismo? Non è colpa degli italiani, non sono tutti no-vax. Ma ora con la terza dose, vi voglio informare, i no-vax aumenteranno di alcuni milioni. Perché la gente si chiederà: ma perché la terza dose? Ecco da dove nasce la sfiducia".

«Le terapie anti Covid non esistono». Tutte le bugie dei veri ... Francesco Borgonovo su laverita.info il 30 settembre 2021.  Tutte le bugie dei veri negazionisti. Per Roberto Burioni, le cure domiciliari erano una «bufala», Matteo Bassetti le squalificava come ... Dopo le campagne della «Verità» e di «Fuori dal coro», l'Aifa ha sbloccato anakinra e altri due farmaci. Finora la stampa è stata impegnata nella propaganda per i vaccini. Ma quante vite è costato questo ritardo?

Si sono accorti che la terapia esiste. Fare i giornalisti è servito a qualcosa. Patrizia Floder Reitter su laverita.info su l’1 ottobre 2021.  Per Roberto Burioni, le cure domiciliari erano una «bufala», Matteo Bassetti le squalificava come «fantomatiche», mentre per il dem Andrea Romano servivano solo «vaccini e foglio verde». L'ok (tardivo) dell'Aifa ad anakinra li sbugiarda.

CHE FINE HA FATTO LA VERITÀ? Francesco Borgonovo e Claudio Messora. Claudio Messora il 15 Settembre 2021 su byoblu.com. Claudio Messora intervista Francesco Borgonovo vicedirettore giornale La Verità. Per le istituzioni e un certo tipo di informazione “La pericolosa area No vax si sta allargando sempre di più: prima non potevi dire nulla sugli effetti collaterali da vaccino, ora non puoi dire nulla sul green pass, che si presenta come un obbligo surrettizio”, spiega il giornalista. Ma quando è nato questo clima di intolleranza verso chi, di diritto, sceglie di non sottoporsi alla somministrazione di un farmaco? Chiede Messora. Secondo Borgonovo c’è sempre stato, ad esempio, anche nella narrazione della tematica gender o dell’immigrazione. Il fine è sempre lo stesso: “Ridurre le critiche e le obiezioni alla categoria dei “fascisti violenti”. E prosegue: “Per anni abbiamo dichiarato che c’era l’allarme che sarebbe tornato il fascismo a causa dello sviluppo dei populismi. Ora sappiamo per certo una cosa: che il fascismo non tornerà; quello che può tornare è un altro tipo di autoritarismo”. L’intervista si concentra poi sul ruolo della Costituzione, dei partiti politici italiani e la rappresentanza di tutti i cittadini, del ruolo dei giornalisti e molto altro..

Covid, vietato parlare delle possibili cure: parola d’ordine «denigrare». Da lapekoranera.it il 15 Settembre 2021. Anche se i dati ci dicono che il vaccino non è infallibile, le altre armi contro il virus restano un tabù. E anche gli scienziati che portano avanti studi su questo fronte vengono etichettati come no vax e ridotti al silenzio. Talvolta sorge un dubbio: l’obiettivo finale è avere la meglio sul Covid o semplicemente vaccinarsi? Domandarselo è lecito, perché il discorso prevalente tende a far coincidere le due cose, che invece – come dimostra la realtà quotidiana – sono separate. Sembra, infatti, che si voglia presentare il vaccino come una cura, come il rimedio universale, una sorta di Graal che magicamente sanerà le nostre ferite e ci condurrà nell’era della grazia. I dati, al contrario, mostrano che il vaccino non è risolutivo. Finora, negli adulti, ha dato una mano a ridurre le ospedalizzazioni a tutti i livelli e la gravità della malattia, ed è una buona notizia, scrive Francesco Borgonovo su La Verità. Vediamo tuttavia che anche i vaccinati con doppia dose possono contagiarsi di nuovo, finire in ospedale di nuovo e perfino morire. Ciò significa che il vaccino, nella migliore delle ipotesi, garantisce una protezione limitata. Si discute di terze e quarte dosi, e nel frattempo la promessa fine delle restrizioni non arriva: viene esteso il green pass, ci sono già (in Alto Adige) classi in quarantena e in didattica a distanza e non è escluso che il «semaforo» delle Regioni torni in funzione. Di fronte a tutto ciò, viene da chiedersi per quale motivo non si possa mai e poi mai parlare di cure. Chi lo fa nei talk show, sui giornali, perfino nelle conversazioni private viene etichettato come pazzoide nemico della scienza e della salute. A dirla tutta, di cure si parla, ma soltanto per affossarle. Ha suscitato enormi polemiche un convegno andato in scena lunedì al Senato – e di cui abbiamo dato notizia – [scrive La Verità, ndr] che la gran parte dei media ha citato con l’unico scopo di sbertucciare alcuni dei relatori. Non ci scandalizza: il dibattito scientifico funziona anche così, prevede che chi sostiene tesi astruse o indimostrabili sia messo alla berlina. Tutte le idee, anche sbagliate, vanno prese in considerazione, anche solo per essere scartate. È molto pericoloso, tuttavia, applicare sistematicamente la reductio ad Hitlerum con tutti gli esperti, tutti i medici, tutti i ricercatori. A parlare di cure non sono soltanto sciamani e ciarlatani, ma anche professionisti stimati, prudenti e molto seri. I quali però hanno paura a prendere la parola, perché rischiano di essere massacrati sul piano personale, qualora sul piano scientifico non si possa demolirli. Ci sono studiosi italiani (ad esempio quelli del Mario Negri di Milano) e stranieri che lavorano per trovare terapie che consentano di arginare o sconfiggere la malattia. Ma sembra proibito anche solo accennare alla questione. La risposta è pressoché univoca: «È stato dimostrato che le cure non funzionano». Ma davvero? L’idrossiclorochina è stata fermata mesi fa da uno studio uscito su The Lancet che poi è stato ritrattato e si è rivelato sostanzialmente un falso. L’ivermectina viene sempre descritta come «vermifugo per cavalli», come se non servisse già anche ad altro. Alcuni studi sono in corso, pure presso istituzioni niente affatto ignobili. Però vige il pregiudizio: poiché si ode la parola «cura», bisogna svilire, evocare Stamina. Sul vaccino si è scommesso molto. Si è rischiato. Si sono portate avanti procedure di emergenza, perché la situazione lo richiedeva. Ai cittadini l’iniezione viene richiesta come atto di fede. Ma allora perché non si può – proprio vista l’emergenza – spingere un poco anche sulle cure? Perché non se ne può discutere con maggiore libertà? Il governo vuole sgombrare il campo da chi promette rimedi miracolosi? Benissimo: il ministro Speranza si faccia promotore di un grande convegno internazionale sulle cure per il Covid, così da fare il punto della situazione con la massima serietà. Anche sulle cosiddette terapie domiciliari precoci servirebbe meno chiusura mentale. Bisogna distinguere tra chi promette rimedi che non esistono e chi invece suggerisce alcuni trattamenti – se somministrati nei tempi e nei modi giusti – possano servire a tenere le persone lontane dagli ospedali e le terapie intensive, si legge ancora su La Verità. Nel 2020, il ministero della Sanità rifiutò l’offerta di diecimila dosi di monoclonali offerti dalla compagnia americana Eli Lilly. Oggi, mesi dopo, i monoclonali si utilizzano. La Regione Piemonte (non il Mago Otelma) sostiene di aver accumulato esperienza in materia di cure domiciliari precoci «tra marzo e aprile 2020, nell’area di Acqui Terme e Ovada, caratterizzata da una consolidata integrazione ospedale-territorio». Secondo le istituzioni, «su 340 pazienti curati a casa si sono registrati appena 9 decessi e 22 ricoveri, con un tasso di mortalità del 2,6%, mentre su base provinciale era del 17%, e con un tasso di ospedalizzazione del 6,5%, un terzo rispetto al 22% atteso in base alla media nazionale». Questo modello è stato «trasferito al nuovo Dipartimento interaziendale regionale malattie e emergenze infettive (Dirmei), che nel novembre 2020 ha messo a punto un protocollo per la presa in carico dei pazienti Covid-19 a domicilio da parte delle Unità speciali di continuità assistenziale (Usca), dei medici di medicina generale e dei pediatri di libera scelta». Sembra un approccio serio, che forse può essere applicato altrove. O no? Che male c’è ad avere altre armi oltre al vaccino? È così difficile comprendere che un’azione precoce non è necessariamente alternativa alla puntura, o che rischiare un poco su una cura non significhi andare «contro la scienza» ma, semmai, credere che la scienza sia in grado di fornire risposte ulteriori e magari persino compatibili con il vaccino? Un dibattito sano gioverebbe a tutti. Toglierebbe argomenti ai fanfaroni, e porterebbe finalmente la discussione su un piano razionale e scientifico e non fideistico. La sensazione, però, è che la demonizzazione della cura sia utile politicamente ad attaccare Lega e Fratelli d’Italia accusandoli di essere no vax, spaccandoli e screditandoli. Questo atteggiamento pare utile a coprire le carenze organizzative del governo, a far passare in secondo piano la mancanza di iniziative sulla sicurezza nelle scuole, sui mezzi pubblici, eccetera. Non servono chiacchiere: basta dire la verità, qualunque essa sia. Non il vaccino, non magiche pillole: la verità ci renderà liberi. Ma che sia detta per davvero, e fino in fondo, conclude Francesco Borgonovo su La Verità.

Salvini: "Io non c'entro". “Covid malattia curabilissima a casa”, il convegno al Senato che imbarazza la Lega. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Settembre 2021. C’è un altro caso-vaccini oltre alle resistenze del segretario Matteo Salvini, contrario all’obbligo vaccinale e all’estensione del Green Pass, all’interno della Lega. E all’interno del Senato. A piazzare la polemica esplosiva questa volta è stata la senatrice Roberta Ferrero che ha promosso un convegno, a Palazzo Madama, sulle “cure domiciliari”. Convegno internazionale, parterre internazionale, entrambi volti a spiegare che “il covid è una malattia curabilissima” con un “approccio terapeutico che se utilizzato secondo ben precise regole porta alla guarigione di ogni soggetto che si ammali”. Tutto questo mentre il Carroccio è diviso in due parti: una rappresentata dal ministro Giorgetti, che appoggia la linea del governo e non esclude l’obbligo vaccinale, e un’altra reticente guidata dal segretario. Il convegno è stato una specie di secondo atto rispetto al protocollo di cure domiciliari presentato il 3 novembre 2020 al Senato che prevedeva in quel caso l’uso dell’idrossiclorochina “per evitare l’affollamento degli ospedali ed i lockdown”. Quella volta era presente anche il segretario Matteo Salvini. Questa volta il suo entourage fa sapere che di questa iniziativa, il “Capitano”, non ne sapeva niente. Il convegno è stato animato dall’associazione Ippocrate.org, organizzatrice dell’incontro, guidata da Mauro Rango, fondatore, laureato in diritti umani, quindi non un medico e neanche uno scienziato. A morire per le complicanze del covid-19 in Italia 130.027 persone. Il protocollo ha l’uso dell’ivermectina, il cui utilizzo, come con l’idrossiclorochina, contro il covid-19 è stato bocciato dall’Agenzia Europea del Farmaco (Ema), dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) e della Food and Drug Administration (Fda) americana. Altri spunti: azitromicina (oltre a ivermectina) nella terapia domiciliare, cortisone ed enoxaparina in ospedale, ricorso al plasma iperimmune. Convegno da brividi sulla schiena quindi, e soprattutto per tre motivi. Innanzitutto perché la Presidente del Senato Maria Elisabetta Alrberti Casellatti ha fatto arrivare un messaggio in sala salutando “con piacere l’avvio di questo prestigioso convegno internazionale. Desidero congratularmi con la Lega che ha contribuito a questo importante approfondimento”. La seconda carica dello Stato ha poi preso le distanze dal convegno. Rango invece – dopo aver dichiarato che “è assurdo morire di Covid” e che ciò capita perché “in Italia non si curano i pazienti che si ammalano, si lasciano in vigile attesa con la tachipirina” o si portano in ospedale “solo per dare l’ossigeno” – ha preso a esempio la Lombardia, la Regione più colpita in Italia e dove il virus ha cominciato a diffondersi, come esempio negativo di gestione dell’emergenza. Lombardia ancora guidata dalla Lega del Presidente Attilio Fontana. Dal paradosso si passa alla farsa quando si apprende che, scrive Il Corriere della Sera, all’ingresso parecchi dei partecipanti del convegno sono stati “tamponati” d’urgenza nell’ambulatorio del Senato perché privi di Green Pass valido. A condannare l’occasione la Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo) – che tra le altre cose porta il conto dei medici morti a causa del contagio, 360 – che ha condannato come il medico non debba adottare pratiche “delle quali non sia resa disponibile idonea documentazione scientifica e clinica, valutabile dalla comunità professionale e dall’autorità competente. Né deve adottare o diffondere terapie segrete”. Il virologo Roberto Burioni ha lamentato: “Da Stamina non abbiamo imparato niente. E a rimetterci sono i più deboli e i più sfortunati”. Ferrero si è difesa in un’intervista a Repubblica. “Al convegno hanno parlato medici di livello internazionale, con lunghi curriculum. Non si può più parlare, né esprimere tesi scientifiche in questo Paese?”. Non ha rivelato, per privacy, se è vaccinata o meno. Ha comunque rivendicato la sua partecipazione a manifestazioni contro il Green Pass.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Covid, l'affondo di Luca Ricolfi: "Ecco perché sulla pandemia nessuno dice la verità". Luca Ricolfi su Libero Quotidiano il 7 settembre 2021. Pubblichiamo stralci di un intervento di Luca Ricolfi sull'informazione ai tempi della pandemia apparso sul sito internet della Fondazione David Hume. Oltre a fare il prof. universitario, di Sociologia e Analisi dei dati, negli ultimi 16 anni ho fatto il mestiere di editorialista. I quotidiani con cui ho collaborato, la Stampa, Il Sole 24 Ore, il Messaggero erano (e sono tuttora) politicamente poco caratterizzati. In concreto, vuol dire che potevo scrivere (quasi) tutto quel che mi passava per la testa. Certo, mi è capitato di sentire qualche volta la pressione a non essere troppo crudo, ma mai ho avuto la sensazione che ci fossero cose vere che non si potevano dire (...). Oggi è ancora così? Per certi versi credo di sì. Anche oggi, nessuno ti dice che cosa devi scrivere, e che cosa non puoi scrivere. Ma per altri versi sento che no, non è più così. Un clima come quello che si respira da 8-9 mesi a questa parte non mi è mai capitato di avvertirlo prima, forse perché non sono abbastanza vecchio per avere memoria di quel che può diventare il mestiere di editorialista indipendente quando scoppia una guerra. Già, perché questo è successo: alla fine del 2020 l'Italia, come ogni altra nazione europea, ha dichiarato ufficialmente guerra al virus. E, nello stato di guerra, tutto cambia. La popolazione è chiamata a cooperare allo sforzo bellico, e chi è nella condizione di vestire la divisa (i maggiorenni) è tenuto ad arruolarsi (vaccinarsi). Chi rifiuta di farlo è considerato un disertore, chi non partecipa alla campagna di arruolamento, o lo fa esprimendo qualche riserva, viene visto come un disfattista. I media principali sono chiamati a dare il loro contributo a vincere la guerra che è stata dichiarata. Non era mai successo, dalla fine della seconda guerra mondiale, ossia dall'ultima guerra vera scoppiata in Europa. Ed ecco il problema. Il lavoro dello studioso, se non è accecato dall'ideologia e dalla faziosità, non è quello di sostenere con tutti i mezzi una determinata causa, foss'anche la più nobile. Il lavoro dello studioso è di dire le cose come stanno, in base alle risultanze della ricerca scientifica. Se non fa questo, e decide che cosa dire e che cosa non dire in base all'opportunità politico-militare del momento, perde completamente la sua credibilità. Ma dire le cose come stanno è difficile nel corso di una guerra, e lo è particolarmente sui media più autorevoli (stampa e tg), che - giustamente dal loro punto di vista - si sentono impegnati in una missione suprema, la guerra al Covid, non certo a dare ai propri lettori una rappresentazione accurata della realtà. Il guaio, per lo studioso, è che - fra le molte cose vere o supportate dai dati - ve ne sono parecchie che non tengono alto il morale delle truppe, o addirittura hanno effetti di demoralizzazione (...). 

Fake checking. Questa compulsione a prendere partito, riducendo al minimo i dubbi e le sfumature, è tanto più interessante quando si manifesta negli interventi di fact checking, i cui estensori ambirebbero ad un ruolo di giudici obiettivi e neutrali: anche lì, dopo poche righe, capisci dove si va a parare. La pratica del fact checking, proliferata durante il Covid, meriterebbe uno studio a sé. In innumerevoli casi si è trasformata in una sorta di killeraggio a danno delle posizioni eterodosse, anche se sostenute da studiosi autorevoli (...). Forse il caso più clamoroso di killeraggio è stato quello nei confronti degli scienziati che sostengono la tesi, minoritaria ma non del tutto priva di argomenti a supporto, secondo cui la vaccinazione di massa - in presenza di alti livelli di circolazione del virus - possa favorire la nascita di varianti resistenti al virus. Questa tesi, giusta o sbagliata che sia, è stata completamente cancellata dalla comunicazione pubblica, perché avrebbe potuto instillare il dubbio che sia stata una follia, nell'autunno-inverno del 2020, non abbattere la circolazione del virus prima di iniziare la vaccinazione di massa; e ora potrebbe alimentare il sospetto che la vaccinazione non basti, e che l'era delle restrizioni e dei lockdown non sia affatto finita. Nonostante gli sforzi per cancellarla e squalificarla, la tesi della pericolosità della vaccinazione di massa in condizioni di alta circolazione del virus sta faticosamente riemergendo nel dibattito scientifico, anche in sedi prestigiose come la rivista Nature. Forse, dovremmo smettere di parlare di fact checking, e prendere atto della mutazione: in epoca di guerra, il fact checking si è trasformato in fake checking, al servizio dell'ortodossia dominante(...).

Disattenzione. Lo stile omissivo tocca sia la comunicazione provax, volta alla promozione della campagna vaccinale, sia quella nivax, volta a sollevare dubbi sulla vaccinazione (...). È il caso di notare, tuttavia, che vi sono anche omissioni che, almeno a prima vista, non hanno una evidente finalità pro o antivax. Sembrano, piuttosto, frutto di un mix di superficialità, disattenzione, gregarismo (...). Rientrano in questa categoria tre casi di "sproporzionata disattenzione" a ipotesi scientifiche interessanti e - se vere - potenzialmente ricche di conseguenze pratiche: 1. la trasmissione aerea del virus (attraverso aerosol, anziché attraverso le goccioline); 2. il ruolo protettivo della vitamina D; 3. le basi genetiche della suscettibilità individuale al virus, nonché l'esistenza (da gennaio 2021) di un test per individuare gli italiani suscettibili (circa 1 su 6); Sul primo punto (trasmissione mediante aerosol), il silenzio è durato circa un anno. Nonostante pubblicazioni scientifiche e appelli di centinaia di scienziati di decine di paesi, per tutto il 2020 l'Oms non ha mai voluto prendere seriamente atto di questa possibilità. In Italia, grazie a una lettera aperta del prof. Giorgio Buonanno, l'allarme sulla realtà della trasmissione mediante aerosol era scattato fin dal 27 marzo 2020, ma è stato completamente ignorato dalle autorità sanitarie, e solo tardivamente preso in qualche considerazione dai mass media. Sul secondo punto (vitamina D), salvo isolate eccezioni, l'attenzione dei media è stata sempre bassissima, e sostanzialmente succube del Ministero della Salute che, diversamente dalla comunità scientifica, ha sempre cercato di togliere ogni legittimità all'ipotesi di un nesso fra carenza di vitamina D e suscettibilità al Covid. Ancora oggi (settembre 2021), sul sito del Ministero, l'ipotesi è sbrigativamente derubricata a fake news. Sul terzo punto (basi genetiche), l'esistenza di una copiosa letteratura scientifica, e l'indubbia importanza dell'esistenza di un test (dell'Università di Verona) per individuare i soggetti più a rischio, non sono bastati ad attirare l'interesse dei media e delle autorità sanitarie (...).

I tabù di provax e nivax. Ma torniamo ai tabù dei media provax e nivax. L'informazione provax è incapace di accettare qualsiasi notizia scientifica che vada contro il totem della vaccinazione, così smorzando il consenso del pubblico, o disturbando i piani del governo. Nell'estate 2021, in piena stagione turistica, è stata messa la sordina alle ricerche che dimostravano che anche i vaccinati possono trasmettere il virus, e che non è affatto vero che fra vaccinati non ci si infetta: l'imperativo categorico era rendere desiderabile la vaccinazione, e favorire il decollo del Green Pass. È presumibile che nascondere i limiti della vaccinazione possa aver spinto la vaccinazione stessa, ma è certo che magnificare acriticamente le virtù protettive dei vaccini ha contributo a ridurre la vigilanza e il rispetto delle regole di prudenza (...). L'informazione nivax, d'altro canto, pare strutturalmente incapace dileggerei dati. Ogni sorta di espediente logico viene usato per mettere in dubbio l'efficacia del vaccino. (...) Interessanti le ingenuità alla Cacciari, miseramente franato sul "paradosso di Simpson", una trappola statistica in cui si può cadere quando la relazione fra due variabili (vaccinazione e decesso) viene analizzata ignorando una terza variabile (l'età) che può capovolgere il segno della relazione. E infatti gli stessi dati invocati da Cacciari per insinuare che il vaccino non funziona, correttamente analizzati, provano semmai l'esatto contrario (...). Alle fine, quel che accomuna i due campi è l'omissione di informazioni rilevanti, e la selezione arbitraria di pezzi di informazione funzionali alla tesi che si vuole difendere, il cosiddetto cherry picking.

Sarina Biraghi per “La Verità” l'1 agosto 2021. Dopo tanto dolore, la Bergamo di chi ha perso i propri cari uccisi dal coronavirus, ieri era in piazza per la verità. Contro la commissione d'inchiesta sul Covid, davanti al Comune di Bergamo, la protesta civile dei familiari delle vittime del virus che hanno esposto gli striscioni con scritta bianca su sfondo blu, #sereni (riportato anche sulle mascherine), scritta che accompagna le iniziative di questo gruppo, che fa riferimento al team di legali guidato da Consuelo Locati, in rappresentanza di 520 familiari nella causa civile contro Ministero della Salute, Regione Lombardia e presidente del Consiglio (allora Giuseppe Conte). In piazza Matteotti con i parenti c'erano anche Giuseppe Marzulli, ex direttore sanitario dell'ospedale di Alzano Lombardo, che fu al centro dell'epidemia nella tragica primavera dell'anno scorso, il generale Pier Paolo Lunelli e gli avvocati che hanno intrapreso la causa civile a Roma. La protesta, oltre che nei confronti della commissione d'inchiesta sul Covid, che dovrebbe essere varata dalla Camera, è stata anche contro il sindaco Giorgio Gori e gli altri politici del territorio, «che non hanno detto una sola parola in merito all'increscioso tentativo di insabbiamento avvenuto nelle scorse settimane a suon di emendamenti presentati anche dai parlamentari bergamaschi, Alberto Ribolla ed Elena Carnevali, sulla commissione. «Oggi è un momento importante perché è una manifestazione organizzata dai familiari, per dare un segnale molto forte rispetto al fatto che non sono più disposti ad accettare spiegazioni che non sono tali, rispetto a ciò che è successo», ha spiegato l'avvocato Locati, «È una manifestazione che arriva dopo tutto ciò che è uscito sulla commissione d'inchiesta, che è diventata una farsa, con l'approvazione di due emendamenti abrogativi che hanno limitato l'indagine della commissione stessa al 30 gennaio 2020, cioè prima della dichiarazione dello stato d'emergenza, quando il primo caso in Italia ufficialmente riconosciuto si è avuto il 20 febbraio 2020 e, nella Bergamasca, il 22 febbraio. Non ci sarà quindi un'indagine parlamentare in Italia. E soprattutto, siamo a Bergamo, visto che i due emendamenti in questione vengono dai parlamentari bergamaschi». La commissione dovrebbe occuparsi di quanto avvenuto in Cina prima del 30 gennaio 2020, tagliando fuori il capitolo della gestione italiana e di eventuali responsabilità politiche. Peraltro, ieri, il gruppo dei legali ha detto di avere «nuovi documenti che evidenziano di un incontro tra governo e Regioni il 25 gennaio 2020 sulle misure da mettere in campo per il contenimento del Covid. E dopo quell'incontro si sarebbero modificati i criteri di valutazione e quindi tracciamento dei casi sospetti sul territorio nazionale». «Un increscioso tentativo di insabbiamento con Gori che non si è fatto garante della nostra ricerca di verità», scrivono in una lettera aperta i rappresentanti delle famiglie (Paolo Casiraghi, Alessandra Raveane, Cassandra Locati e Antonella Dell'Aquila). «Eppure fu proprio Gori a lasciarsi andare alla commemorazione dello scorso 18 marzo con espressioni come "Ciò che colpisce è che questi numeri sui decessi raddoppiano quelli delle vittime ufficialmente accertati", "Sono morti nelle loro abitazioni o nelle case di riposo senza che fosse possibile fare loro un tampone, perché a marzo 2020 i tamponi erano pochi e bastavano appena per i casi più gravi”. Consapevolezze che, di fronte a tutti gli italiani, evidentemente non gli sono bastate per chiedere a Mario Draghi di farsi garante della verità». Secondo i manifestanti, il vero problema nella gestione dell'epidemia è stata la mancata zona rossa della Valseriana. «Chiudere sarebbe stato prerogativa di tutti. Inclusi i presidenti di Regione. Ma anche di quei sindaci per i quali invece non bisognava fermarsi. Noi oggi chiediamo la verità perché sentiamo di doverla dare non tanto a noi stessi, ma la dobbiamo a tutti i cittadini italiani. Lo dobbiamo a chi, a chi ha perso il lavoro con dei bambini da crescere e mandare a scuola. Lo dobbiamo a chi, avendo perso il lavoro ora vive per strada. Lo dobbiamo a loro, ai bambini. Costretti a stare rinchiusi per mesi senza muoversi, giocare e incontrare i propri amici. E lo facciamo anche e soprattutto perché in tal modo possiamo rappresentare per questi bambini un ideale. Quello di chi non si sa arrende davanti a muri di gomma». Secondo Giuseppe Marzulli, l'ex direttore generale del pronto soccorso di Alzano Lombardo che disse no alla riapertura dell'ospedale dopo la scoperta dei primi pazienti positivi, la modifica alla commissione è «insensata e illogica», tanto da indurre a ipotizzare che «ci sia stato uno scambio di reciproci favori in cui alcuni partiti politici, che hanno tutto l'interesse a nascondere gli errori e le omissioni del ministero della Salute nella prima ondata pandemica, si siano accordati con altri partiti politici che invece hanno tutto l'interesse a nascondere le analoghe responsabilità di Regione Lombardia, al fine di insabbiare il tutto?». Ci sono stati 140.000 morti e secondo il medico in pensione «troppa è stata l'impreparazione italiana nelle fasi iniziali e troppi gli errori, le omissioni e la disinformazione su quanto realmente accaduto». E perciò Marzulli chiede direttamente al sindaco della città «martire», Gori, di prendere «una posizione netta e senza ambiguità sugli emendamenti che limitando il mandato della commissione hanno l'unico obbiettivo di insabbiare quanto avvenuto».

"Violato il segreto". E ora nel Cts parte la caccia alla "talpa". Giuseppe De Lorenzo il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Dal verbale del 12 maggio trapela l'irritazione di Locatelli per la fuga di notizie. E non è la prima volta. Che nel Cts ci sia qualche difetto di comunicazione non è certo una novità. Ma ora il problema si chiama "talpa". Pare infatti che qualcuno dall'interno del Comitato sia solito spifferare ai giornali i segreti delle riunioni, facendo così infuriare il coordinatore Franco Locatelli. Una prima avvisaglia si era avuta lo scorso 20 aprile, quando "prima di affrontare le questioni di merito", il capo del Comitato ritenne necessario avviare una discussione "sull'obbligo della riservatezza che incombe su ciascun componente". Con l'arrivo del governo Draghi, infatti, il Cts non è stato soltanto ribaltato come un calzino. Il premier chiese, e in teoria ottenne, che a rivolgersi ai cittadini e alla stampa fosse "un portavoce unico". La decisione era stata comunicata a tutti il 19 marzo, quando prese corpo il "nuovo" Comitato più ristretto e de-Contizzato. I nuovi membri avevano deciso di mantenere "la più rigorosa riservatezza" sui lavori e sugli atti delle riunioni. E anche di "accentrare" la comunicazione esterna, precisando che l'esistenza di un Portavoce implicava di fatto la preclusione ad ognuno di "divulgare al pubblico informazioni ed opinioni sui lavori del Comitato e sulle determinazioni da esso assunte". Tuttavia, a quanto pare, voci e notizie continuano a trapelare indisturbate. Il fatto, come scovato dal Tempo, emerge dal verbale della riunione del 14 maggio scorso. Presenti, o meglio in videoconferenza, ci sono Franco Locatelli, Silvio Brusaferro, Sergio Fiorentino, Sergio Abrignani, Cinzia Caporale, Giuseppe Ippolito, Alessia Melegaro, Giorgio Palù e Giovanni Rezza. Dalla sede della Protezione civile ascoltano invece Fabio Ciciliano e Donato Greco. La seduta inizia alle 13.05. E prima di “avviare l’esame degli argomenti all’ordine del giorno”, il coordinatore Locatelli si prende qualche minuto per redarguire i colleghi e “stigmatizzare” quanto avvenuto il giorno precedente. “Alcuni organi di informazione” avevano infatti “diffuso dettagli della discussione, vertente, peraltro, su un argomento particolarmente delicato, svoltasi in seno al Cts nella seduta tenutasi nel pomeriggio del 12 maggio”. Locatelli, scoperto il fatto, ne ha parlato con i componenti del Cts, ha aggiornato Speranza, Curcio e Figliuolo. Infine ha informato pure “lo staff del Presidente del Consiglio dei ministri di tale riprovevole e grave violazione non solo della riservatezza delle decisioni adottate dal Comitato, ma anche e soprattutto del segreto che deve caratterizzare i lavori di qualsiasi organo collegiale, la cui volontà e il cui giudizio devono essere manifestati all’esterno esclusivamente attraverso la rappresentazione che l’organo stesso ne dà nel processo verbale delle sedute, debitamente approvato dai suoi componenti”. Ma di cosa si era parlato il 12 maggio di tanto importante? Al punto 1 dell’ordine del giorno appariva la discussione sul parere da inviare al dicastero della Salute sull’uso di AstraZeneca anche nella fascia 50-59 anni. “Dettagli della discussione” del Cts, a quanto pare, sono trapelati sui giornali, e così Locatelli se l’è presa coi colleghi. I quali hanno “preso atto” e “condiviso” le valutazioni, “auspicando che siffatti episodi non abbiano, in futuro, nuovamente a ripetersi e impegnando ciascun suo componente ad adoperarsi in tal senso”. Chi sarà la “talpa”?

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa. Mi emoziono ancora per le partite della Lazio. Amo leggere, collezionare Topolino, gioca...

"Nascondono la verità sulla pandemia perché sui morti hanno gravissime colpe". Felice Manti il 20 Luglio 2021 su Il Giornale. Il fondatore del Forum di Cernobbio: "Dpcm confusionari hanno aggravato la situazione, spaventoso il numero dei ristoranti chiusi". «Nascondere la verità può significare nascondere colpe gravi». Non usa giri di parole Alfredo Ambrosetti, ispiratore e fondatore dell'associazione Per il Progresso del Paese e «inventore» del Forum Ambrosetti di Cernobbio dopo la decisione di fermare al 30 gennaio 2020 - prima dello stato di emergenza - le indagini della Commissione parlamentare sulla pandemia. Il Giornale lo ha intercettato prima di un incontro online con Tim Shriver, Chairman di SOI «sulla sfida della fiducia e della possibilità» e il filantropo varesino non ha perso tempo a cercare parole di circostanza. «Qualcuno non vuole la verità perché la verità è la mancanza di un Piano pandemico aggiornato, che ha costretto ad improvvisare senza una guida, per di più con un virus del tutto sconosciuto e potentissimo e che è stata la causa di un numero incredibile di morti giornalieri che a Bergamo hanno costretto ad utilizzare gli automezzi dell'Esercito per trasportare le bare che si accatastavano, senza alcuna indicazione dei nomi delle persone decedute».

I legali dei parenti delle vittime sono furiosi...

«Ho avuto la fortuna di conoscere l'avvocato Consuelo Locati, quando racconta il dolore che ha sofferto quando ha saputo che la salma del papà era finito a Firenze e lei l'ha saputo solo per puro caso non riesco a trattenere le lacrime...».

Cosa pensa del modo in cui la politica ha gestito la pandemia?

«I dati dimostrano inequivocabilmente che in rapporto alla popolazione noi abbiamo avuto più morti degli altri Paesi ma c'è un motivo di gravità in più, quei Dpcm che cambiavano di giorno in giorno, a dimostrazione della confusione di idee e della incompetenza. Per fortuna è arrivato Mario Draghi che da persona competente ha sostituito l'ex commissario ai vaccini Domenico Arcuri con il generale Francesco Paolo Figliuolo, persona che ha un'impareggiabile esperienza logistica».

È possibile che interi settori fiaccati dal Covid possano riprendersi o c'è un modello di sistema Paese da ripensare?

«Purtroppo coloro che prendevano le decisioni che avrebbero dovuto salvaguardare la salute, irresponsabilmente non indicavano i danni che ogni decisione da loro imposta provocava all'economia quindi ai posti di lavoro, alla mancanza di fatturato. Chiunque sa cosa capita ad un'azienda non potendo lavorare. Dopo pochi mesi di inattività significa piegarsi sulle ginocchia, vedere aggravate le proprie condizioni di sopravvivenza. E poi, tanto più frequenti sono gli impedimenti di lavorare, non avere più la forza di rialzarsi e fallire. Folle vietare l'accesso ai musei, come se non avessero spazi sufficienti per garantire distanziamento, mascherine, rispetto delle regole, proibire di andare da un Comune ad un altro, azzerando il desiderio di un turista straniero o italiano di spostarsi

Poi c'è il dramma della ristorazione...

«Il numero di quelli che non ce l'hanno fatta e non hanno più riaperto è spaventoso. E il precedente governo cosa ha deciso? Abbiamo affidato la Salute di tutti a un ministro (Roberto Speranza, ndr) senza alcuna competenza, che invece ha dichiarato che uno dei suoi obiettivi come missione è quello di far prevalere i valori della sinistra.

Pensa che il Paese possa riprendersi grazie al Pnrr?

«Premessa: il nostro Paese era già costituzionalmente fragile. Il Coronavirus ha ulteriormente danneggiato la nostra economia. Per fortuna il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi è persona di grande competenza e autorevolezza, stimato internazionalmente. La grande quantità di soldi che l'Unione Europea ci stanzia è fortemente vincolata a soluzioni degne di tal nome di problemi che per noi sono di lunghissima data e che per essere risolti richiedono riforme non semplici. Speriamo in bene...». Felice Manti

Covid, il Parlamento prepara un’inchiesta-farsa. Giuseppe De Lorenzo il 17 Luglio 2021 su Nicolaporro.it e su Il Giornale. Il Parlamento che si attiva per fare chiarezza sulle eventuali responsabilità nella mala gestione della pandemia da parte di Giuseppe Conte, Roberto Speranza, Domenico Arcuri. Troppo bello per essere vero. E infatti, la commissione d’inchiesta sul Covid che sta per essere lanciata in Aula rischia di risultare azzoppata. Due emendamenti di Lega e Movimento 5 stelle (più Leu e Pd), infatti, hanno circoscritto l’operato della commissione a un’indagine sulla “congruità delle misure adottate dagli Stati in cui il virus Sars-Cov-2 si è manifestato inizialmente”, in pratica la Cina, ma limitatamente al “periodo antecedente alla dichiarazione di emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale da parte dell’Oms”, che risale al 30 gennaio 2020. Dunque, su tutto ciò che è successo dopo quella data, i parlamentari non hanno intenzione di ficcare il naso. E dire che si tratta degli aspetti più controversi della storia di questa tremenda calamità: la mancata zona rossa nella Bergamasca, gli scandali di mascherine e ventilatori farlocchi, le terapie domiciliari trascurate, l’estate 2020 buttata a scrivere libri autocelebrativi, anziché a schermare il Paese da un’ampiamente paventata seconda ondata. Giova precisare che, nelle intenzioni dei proponenti, la commissione doveva avere soprattutto una portata geopolitica, scandagliando colpe e omissioni della Cina e dei suoi lacchè all’Organizzazione mondiale della sanità. Resta difficile capire, però, cosa sperino di ottenere, i nostri onorevoli, da un’iniziativa tanto ambiziosa quanto angusta: forse si aspettano che Pechino conceda loro di visionare documenti riservati sulla teoria dell’origine del Covid dal laboratorio di Wuhan? Forse confidano nella collaborazione dell’Oms, che dovrebbe mettere a nudo le proprie debolezze e le falle nella sua autoproclamata indipendenza? Queste cose non sarebbe meglio lasciarle agli organismi d’intelligence, per occuparsi di ciò che è alla propria portata e non è certo meno importante? Insomma, la commissione d’inchiesta potrebbe finire per essere l’ennesima occasione perduta, per mettere i deleteri protagonisti dei disastri del governo giallorosso dinanzi alle loro responsabilità politiche. In fondo Piero Fassino, presidente della III Commissione, durante il dibattito l’ha detto chiaramente: andavano scartati tutti gli emendamenti che potessero allargare “l’ambito di indagine della istituenda Commissione d’inchiesta alle modalità di gestione della pandemia da parte delle autorità italiane”. Il motivo? Evitare di alimentare le polemiche strumentali già emerse nei mesi scorsi”. Domanda: ma allora quand’è che i cittadini italiani meriteranno finalmente un po’ di trasparenza sui pasticci – perpetrati con dolo o colpa – di chi li ha accompagnati nel baratro della pandemia, uccidendo l’economia, la libertà, la Costituzione e collezionando al tempo stesso funesti record di mortalità? Giuseppe De Lorenzo, 17 luglio 2021 

Bignami furioso: la commissione sul Covid ridotta a una farsa per coprire Conte e Speranza. Ginevra Sorrentino sabato 17 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il deputato di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, è furibondo. La richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare che FdI ha presentato alla Camera è stata stravolta da una serie di emendamenti mirati proprio a negare il motivo per cui il partito di Giorgia Meloni l’ha presentata: fare chiarezza sugli eventi e sulle responsabilità della gestione sanitaria della pandemia. Così, in un video denuncia postato sulla pagina Facebbok, il battagliero esponente di FdI rileva e sottolinea la farsa dell’operazione emendamenti presentati ad hoc e all’ultimo momento. E dichiara: «Si sta verificando un fatto molto grave che si sta consumando nel silenzio totale nelle aule parlamentari e – dispiace dirlo – con la connivenza di tutta la maggioranza che sostiene questo governo. Un’operazione che ha come scopo quello di impedire che si sappia la verità sulla pandemia. Di negare che chi di dovere conduca un’inchiesta rigorosa. Seria. Completa, sulla pandemia».  E ancora.«È un insabbiamento istituzionale finalizzato ad evitare che si sappia che cosa è accaduto in questo anno e mezzo. Quali sono tutte le responsabilità del governo, del ministero della Salute, di Conte e di Speranza. E non solo: di capire perché non è stato attivato il piano pandemico. Di indagare sui motivi del mancato aggiornamento del piano pandemico. E sul perché le cure domiciliari non si sono volute realmente valorizzare». Insomma, sul perché chi gestiva l’emergenza ha scelto di procedere come poi ha fatto… È un fiume in piena che rompe gli argini del silenzio e della connivenza di Palazzo, Galeazzo Bignami, che nel suo video postato su Facebook scoperchio un vaso da cui potrebbero uscire tutti i mali che hanno funestato l’ultimo anno e mezzo di vita, di sofferenza, di morte, di crisi e di stallo del Paese. Insomma, l’ultimo anno e mezzo di pandemia. O meglio, della sua “discutibile” gestione… Una denuncia coraggiosa e appassionata, quella dell’esponente di Fratelli d’Italia che, spiega, farà «parlare i documenti ufficiali». E che argomenterà, tra ricorsi ai vaccini alle istituzioni delle task force, «con documenti ufficiali. Documenti inoppugnabili, su carta intestata di Camera dei Deputati e pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale». Tanto che, aggiunge a stretto giro l’esponente FdI, «chiunque vuole può querelarmi: tanto le carte parlano chiarissimo».

Un’operazione di distrazione di massa. Dunque, armato di coraggio e di un pregresso sull’azione istituzionale con cui si è gestita la pandemia che grida vendetta, Bignami prosegue e aggiunge: «Nelle scorse settimane Fratelli d’Italia ha proposto l’istituzione di una commissione d’inchiesta dalle finalità evidenti, e con il primo firmatario che è Giorgia Meloni. Insieme a Lollobrigida, il sottoscritto, Gemmato e altri». Una richiesta, spiega sempre Bignami nel video postato su Facebook, indirizzata a chiarire la gestione dell’emergenza sanitaria causata dalla diffusione pandemica Sars Cov-2, con particolare riguardo alla mancanza del piano pandemico prescritto dall’Oms». Una proposta che, lo si legge all’articolo 3, mirava a chiarire come e perché non ci fosse l’aggiornamento del piano pandemico. Acclarare le ragioni della mancata attivazione del piano pandemico nonostante la dichiarazione di emergenza di sanità pubblica di interesse nazionale per l’epidemia di coronavirus in Cina. Accertare per quale ragione in alcune sedute del comitato tecnico i convenuti non abbiano affrontato l’argomento. E, ancora, chiarire i motivi per cui ci sono documenti che sono stati occultati.

Tutto mira a insabbiare le responsabilità di Conte e Speranza. Insomma, una richiesta molto dettagliata indirizzata a fare luce e chiarezza. Per andare a fondo su quanto c’è ancora di sommerso. Insomma, la nostra era una richiesta che andava nella medesima direzione di altre commissioni d’inchiesta già istituite in Germania, Svezia, Gran Bretagna, Belgio, Francia… Invece, continua Bignami: «Succede che nel frattempo viene presentata una proposta di legge parallela, sulle cause dell’esplosione della pandemia e sulla congruità delle misure adottate negli Stati che rientrano nell’Organizzazione Mondiale della Sanità. È molto più breve e meno dettagliata. Questa proposta va avanti, fino a che l’8 luglio – nello stesso giorno in cui centinaia e centinaia di famiglie presentavano dinanzi al tribunale di Roma la causa per chiedere che venisse appurata la verità – viene presentato un pacchetto di emendamenti a questa commissione che stravolge completamente tutto».

Emendamenti limitati alla Cina e al periodo antecedente il 30 gennaio 2020. Emendamenti che vanno a comporre il testo rivisitato e corretto che verrà votato la settimana prossima alla Camera dei deputati. nulla sulle misure adottate e sulla loro congruità, e che puntano i riflettori sugli Stati di origine del virus e in cui il Coronavirus si è manifestato inizialmente, ossia sulla Cina. Limitando l’arco temporale degli accertamenti a prima del 30 gennaio 2020. O meglio: sul «periodo antecedente alla dichiarazione di emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale da parte dell’Oms, avvenuta il 30 gennaio 2020». Insomma, sparisce la necessità di indagare su tutto quanto accaduto, anche in Italia, da quando è scoppiata la pandemia fino ad oggi, «con un blitz – sottolinea Bignami – a cui hanno partecipato deputati giallo-rossi. Il Pd. Leu. Il M5S, dispiace dirlo, anche parlamentari di centrodestra, ma chiaramente non di FdI, la richiesta modificata della commissione d’inchiesta stravolge e limita l’operato dell’indagine. E introduce due limiti fondamentali: s’indagherà solo Sulla Cina e per un periodo limitato alla fase precedente il 30 gennaio 2020.

Tutto quello che resta fuori dalla ricerca della verità. Restano fuori dalla Commissione d’inchiesta, allora, evidenzia Bignami gli accertamenti su: «Che fine aveva fatto il paino pandemico. Perché chi di dovere non ha operato per aggiornare e attivare il piano pandemico. Perché i militari erano stati mandati e poi ritirati dalla Val Seriana. Sui motivi per cui gli operatori sanitari non eseguivano i tamponi. Perché i cinesi potevano sbarcare in Italia mentre i nostri connazionali finivano in quarantena. Perché non si poteva conoscere il contenuto del dossier di Francesco Zambon. Per quale motivo Brusaferro sosteneva che il virus non circolava in Italia a febbraio. E tanti, tantissimi altri perché che, stando così le cose, potrebbero rimanere senza risposta…

La dichiarazione di Francesco Lollobrigida. Una situazione inconcepibile che il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, riassume e commenta con una emblematica dichiarazione che recita: «Con un emendamento dell’ultimo momento, la maggioranza vuole stravolgere la funzione della Commissione d’inchiesta sulla gestione della pandemia richiesta da Fratelli d’Italia. Con le modifiche apportate sarà preclusa alla Commissione qualsiasi indagine sull’operato del Governo e di tutti coloro che con esso hanno collaborato dopo il 30 gennaio 2020. Un chiaro tentativo di distrazione di massa teso a nascondere agli italiani quanto avvenuto negli ultimi 18 mesi. Evitando che si faccia luce su eventuali responsabilità dei principali attori del precedente Governo Conte e dall’attuale. Un fatto inaccettabile che vedrà la nostra ferma opposizione in Aula». In nome dio una battaglia per la ricerca e l’affermazione della verità e l’individuazione delle responsabilità che doveva arrivare alle ultime battute e che invece torna ai blocchi di partenza...

  Maurizio Belpietro per la Verità il 17 luglio 2021. Pochi giorni fa il Corriere della Sera ha ricordato le terribili immagini del 2020, quando nella notte del 18 marzo una colonna di camion dell'esercito trasportò nei cimiteri di altre regioni i morti della provincia di Bergamo. Settanta mezzi militari carichi di bare attraversarono in un silenzio irreale la città. Dopo la vittoria della Nazionale a Wembley, le stesse vie percorse dal funereo corteo sono state teatro di altre immagini, ma questa volta di festa. Un simbolo di riscatto, hanno scritto sui social: «È bello, bellissimo». Tutto dimenticato, dunque? No, per niente. Anche noi siamo felici che in via Borgo Palazzo non ci fossero gli autocarri carichi di vittime, ma i tifosi dell'Italia. Tuttavia, nonostante le magnifiche parate di Gigio Donnarumma e l'altrettanto magnifico gol di Leonardo Bonucci, non abbiamo nessuna voglia di archiviare ciò che è accaduto a Bergamo nel marzo dello scorso anno. E credo che insieme a noi, a voler ricordare, ma soprattutto capire, siano in tanti, per di più tra i familiari delle persone scomparse. All'inizio della mia carriera ho lavorato a Bergamo per quattro anni, conosco benissimo la Valseriana da cui è partito il primo focolaio e ad Alzano Lombardo, il cui ospedale è divenuto tristemente famoso anche ai siciliani, sono nate le mie figlie. Dunque, diciamo che, pur non avendo perso nessuno a causa del Covid, ho un motivo per capire come un paese con meno di 15.000 abitanti, famoso per le Cartiere Pigna, quelle che hanno sfornato quaderni per generazioni di studenti, sia diventato la Wuhan italiana. Ovviamente non sono a caccia dell'untore o del paziente zero: sono alla ricerca delle responsabilità. In particolare, di coloro che in quei primi giorni di marzo dello scorso anno, quando si capì che, a differenza di ciò che ci era stato raccontato da Speranza e compagni, il virus era già fra noi, non fecero ciò che era necessario, ovvero chiudere. Per settimane, già all'epoca ci si interrogò sulle ragioni che spinsero le autorità a non dichiarare Alzano e dintorni zona rossa. Erano i giorni dei brindisi solidali, quando Milano e Bergamo non si fermavano, con sindaci e governatori pronti a manifestare vicinanza alla comunità cinese. Erano i giorni in cui Attilio Fontana, avendo indossato davanti alle telecamere una mascherina chirurgica, veniva preso in giro perfino da ministri e capi della Protezione civile. Ma erano soprattutto i giorni in cui a un certo punto ad Alzano arrivarono centinaia di uomini delle forze dell'ordine e dell'esercito. Tutto sembrava pronto per dichiarare zona rossa la Valseriana o per lo meno una parte di essa. Invece, gli uomini in divisa pernottarono per qualche giorno in albergo e poi se ne andarono, salvo ritornare dieci giorni dopo con i camion per caricare le bare e portarle in altre regioni, perché i cimiteri di Bergamo erano al collasso. Ecco, è passato oltre un anno da quei giorni, ma ancora non sappiamo chi ordinò il dietrofront, facendo ritornare in caserma i militari. E purtroppo, nonostante la voglia di capire perché non si intervenne subito ma si preferì tergiversare lasciando che il virus corresse, rischiamo di non saperlo. Già, perché nonostante le molte inchieste, nonostante le molte interrogazioni, lo Stato non ha alcuna intenzione di alzare il velo su quanto accaduto. Il Tar aveva dato ragione ai familiari delle vittime che chiedevano l'accesso agli atti per capire chi avesse deciso di far rientrare i militari senza dichiarare la zona rossa, ma l'Avvocatura dello Stato è ricorsa al Consiglio di Stato e ieri i magistrati amministrativi hanno sentenziato che la decisione del Tar non era ben argomentata, dunque hanno respinto la richiesta. Alzano e dintorni dovevano essere isolati, come accaduto a Codogno o a Vo' Euganeo, già il 2 marzo, ma inspiegabilmente qualcuno decise il contrario. Anzi, costrinse soldati e forze dell'ordine già accampati nei paraggi a levare le tende. Così, a distanza di un anno e quattro mesi, ancora non sappiamo come e perché la Valseriana divenne il lazzaretto d'Italia. E dire che fino a poco tempo fa a Palazzo Chigi dettava legge un uomo come Giuseppe Conte, oggi aspirante leader di un movimento che aveva fatto della trasparenza una delle sue ragioni di crescita. Non erano loro, i grillini, quelli che volevano aprire il Parlamento con un apriscatole per mostrarne i segreti al popolo? Non erano i 5 stelle a volere la diretta streaming per rendere tutto pubblico? Bene, ora hanno un'occasione straordinaria: chiedere la desecretazione di quegli atti, per far sapere ai parenti delle vittime chi preferì girare i tacchi invece di intervenire.

Da Agi.it il 17 luglio 2021. I cittadini non possono sapere sulla base di quali atti 400 uomini e donne, tra carabinieri, polizia, guardia di finanza ed esercito, vennero inviati in Val Seriana il 5 marzo 2020 e poi ritirati 3 giorni dopo, determinando così la mancata “zona rossa” in anticipo sul lockdown nazionale che potrebbe avere contribuito a fare di questo territorio in provincia di Bergamo uno dei focolai Covid più micidiali al mondo. È questo l’esito, almeno per ora, di un complesso iter di accesso agli atti cominciato quasi un anno fa dall’AGI con una richiesta al Ministero dell’Interno di poterli consultare. Lo ha deciso il Consiglio di Stato accogliendo il ricorso del Ministero di sospendere la decisione presa all’inizio di giugno dal Tar che aveva invece ordinato di renderli pubblici entro 30 giorni perché non ci sarebbero state «ragioni di sicurezza o militari» a impedirlo. E nemmeno ragioni di segretezza giudiziaria perché il procuratore di Bergamo Antonio Chiappani, chiamato a esprimersi dal Tar sul punto, ha scritto che divulgare i documenti non rovinerebbe le indagini. Il primo «no» del Ministero all’AGI era arrivato il 6 novembre dello scorso anno. Si negavano «gli atti inerenti l’impiego e il ritiro dei militari nelle zone dei Comuni di Nembro e Alzano» richiamandosi alle «cause di esclusione» previste dalla legge cioè «la sicurezza e l’ordine pubblico», la «sicurezza nazionale», «la difesa e le questioni militari», «“la conduzione dei reati e il loro perseguimento». Il Tar, a cui l’AGI si era rivolta attraverso un ricorso scritto dall’avvocato Gianluca Castagnino, ha respinto la tesi del Ministero sottolineando che l’accesso civico «è finalizzato a favorire forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche». Secondo i giudici Francesco Arzillo e Daniele Bongiovanni, rendere pubbliche le carte non comporterebbe nessun pericolo perché «la richiesta è stata formulata nel settembre 2020 quando la questione della ‘chiusura’ delle aree era superata da tempo», «si tratta di un’attività di impiego di militari in un ambito toponomastico e temporale circoscritto e non si inquadra in un contesto più ampio finalizzato alle modalità di contrasto al crimine e di tutela della sicurezza pubblica, tanto che una loro divulgazione vanificherebbe la strategia individuata dalle forze di polizia» e la stessa Procura ha detto che non sono atti coperti da segreto. Per questi motivi, l’organo di giustizia amministrativa aveva ordinato di rendere accessibili gli atti nel giro di un mese. Ma il Ministero dell’Interno si è visto dare ragione dal Consiglio di Stato al quale aveva chiesto di sospendere la decisione del Tar. Nell’ordinanza firmata dal presidente Michele Corradino e dall'estensore Giovanni Pescatore, i giudici dicono che ha ragione il Ministero a lamentare che il Tar non abbia spiegato bene perché non ci sono ragioni contrarie alla divulgazione. Manca solo un ultimo «gradino» ora: la decisione nel merito del Consiglio di Stato la cui data è ancora da fissare. In questi casi, è raro che il merito «smentisca» la sospensiva. Rischia dunque di restare un mistero sulla base di quali atti Governo e Regione, entrambe ne avevano facoltà, decisero di non dare corso al suggerimento degli esperti del Cts che il 5 marzo scriveva: «I dati in possesso rendono opportuna l’adozione di un provvedimento per inserire Alzano Lombardo e Nembro nella “zona rossa”». Così come era già accaduto per Codogno e altri Comuni del Lodigiano che, in termini di vite e contagi, hanno pagato un prezzo meno severo di quello della Val Seriana. «Si tratta dell'ennesimo e inaccettabile tentativo di insabbiare la verità su quanto successo nella bergamasca più di un anno fa. La strage di Bergamo non sarà un'altra Ustica né una delle altre stragi italiane finite con un nulla di fatto. In Italia ci sono stati più di 120 mila morti ufficiali. Che la politica si prodighi a fare in modo che alcuni documenti non vengano messi a disposizione dei cittadini, evidentemente la dice lunga sulle responsabilità di molti». Così Consuelo Locati, la legale che guida il pool di avvocati impegnati nella causa civile contro Governo e Regione Lombardia per conto di 500 familiari, commenta il ricorso vinto dal Ministero dell'Interno davanti al Consiglio di Stato. «E soprattutto - prosegue - è un altro gesto di indifferenza becera verso tutti i familiari, rei evidentemente di chiedere legittimamente gli atti con cui la politica ha deciso delle vite di tutti. L'ordinanza ha più il sapore della politica che della giustizia. E ancora una volta abbiamo la sensazione forte che la politica continui a uccidere astrattamente più del virus». Arrivano reazioni anche dalla politica. Secondo il deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami «non ci vuole un genio per capire che in quei documenti sono contenute informazioni scomode che il governo non vuole vengano divulgate per non subirne le conseguenze».  

Quei documenti sotto chiave: la verità sull'esercito a Bergamo. Giuseppe De Lorenzo il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Il Consiglio di Stato accoglie il ricorso del Viminale contro l'Agi: negata la lettura degli atti che portò alla mancata zona rossa in Val Seriana. Fai presto a dire "trasparenza", come spesso fa il ministro Roberto Speranza. Perché tra il "dire" e il "fare", in mezzo ci sono cavilli giuridici, Tar e Consigli di Stato che alla fine rendono quasi impossibile sapere la verità su quanto successo nelle prime fasi dell'emergenza coronavirus. I lettori del Giornale.it conoscono alcune delle battaglie che sono state combattute su questo campo. Sono note le disfide col ministero della Salute del deputato Galeazzo Bignami, che per ottenere il "piano segreto" e i verbali della task force s'è dovuto appellare al Tribunale amministrativo (vincendo in entrambi i casi). Lo stesso dicasi per i familiari delle vittime del Covid, che con Consuelo Locati e Robert Lingard portano avanti un lavoro di ricerca documentale impressionante. Oggi è il turno dell'Agenzia Giornalistica Italiana, che dopo un anno di "complesso iter di accesso agli atti" s'è visto rifiutare dal Consiglio di Stato il diritto (noi lo riteniamo tale) di visionare gli atti che a marzo 2020 portarono alla mancata "zona rossa" in Val Seriana. I fatti risalgono al 5 marzo del 2020. Come rivelato e ricostruito nel Libro nero del Coronavirus (Historica Edizioni), quel giorno circa 400 uomini tra carabinieri, polizia, guardia di finanza ed esercito vengono inviati in Val Seriana. I primi casi di coronavirus spaventano la Bergamasca, dove i numeri salgono in maniera preoccupante. Il governo Conte II ha già disposto la quarantena di Codogno e Vo' Euganeo, ma la Regione Lombardia chiede di fare lo stesso anche tra Nembro e Alzano Lombardo. I ministeri inviano personale sul campo. Militari e poliziotti prendono posto negli hotel della zona. Tutto sembra pronto per disporre la zona rossa. Ma qualcosa si inceppa: le forze dell'ordine vengono lasciate inermi negli alberghi, poi tre giorni dopo arriva l'ordine di ritiro. La zona rossa in Val Seriana non si farà mai. Molti ancora oggi si chiedono: perché venne fermata la macchina? Da chi arrivò l'ordine? E soprattutto: la decisione contribuì a trasformare la provincia di Bergamo in uno dei focolai Covid più drammatici del mondo, con camion di bare trasportati verso forni crematori strapieni? La risposta a queste domande, forse, si trova negli atti che i ministeri e il governo devono aver disposto e firmato per avviare (e poi ritirare) la missione delle divise in Val Seriana. Il governo della Trasparenza non li ha mai resi noti, così l'Agi un anno fa ha provato a fare un accesso agli atti al ministero dell'Interno per poter consultare i documenti. Roba intricata. Il 6 novembre scorso il Viminale risponde picche, aggrappandosi alle “cause di esclusione” previste dalla legge cioè “la sicurezza e l’ordine pubblico”, la “sicurezza nazionale”, “la difesa e le questioni militari”, “la conduzione dei reati e il loro perseguimento”. L'Agi però non si dà per vinta e presenta ricorso al Tar per mezzo dell'avvocato Gianluca Castagnino. Scelta azzeccata: i giudici amministrativi le danno ragione, ordinando di mostrare gli atti entro 30 giorni perché l’accesso civico “è finalizzato a favorire forme di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”. Per i giudici Francesco Arzillo e Daniele Bongiovanni rendere pubbliche le carte non comporterebbe nessun pericolo perché “la richiesta è stata formulata nel settembre 2020 quando la questione della ‘chiusura’ delle aree era superata da tempo”, inoltre “si tratta di un’attività di impiego di militari in un ambito toponomastico e temporale circoscritto e non si inquadra in un contesto più ampio finalizzato alle modalità di contrasto al crimine e di tutela della sicurezza pubblica". E soprattutto perché il procuratore Antonio Chiappani aveva assicurato che la divulgazione non avrebbe rovinato le indagini: nessun atto è coperto da segreto istruttorio. Peccato che il ministero, alla faccia della trasparenza, abbia deciso di ricorrere al Consiglio di Stato. Che ora dà ragione al Viminale, disponendo la sospensiva della decisione del Tar e facendo calare di nuovo il velo del segreto su quegli importanti documenti. Nell’ordinanza firmata dal presidente Michele Corradino e dal giudice estensore Giovanni Pescatore, i giudici dicono che ha ragione il Ministero a lamentare che il Tar non abbia spiegato bene perché non ci sono ragioni contrarie alla divulgazione. "Manca solo un ultimo ‘gradino’ - dice l'Agi -: la decisione nel merito del Consiglio di Stato la cui data è ancora da fissare. In questi casi, è raro che la decisione nel merito ‘smentisca’ la sospensiva. Rischia dunque di restare un mistero sulla base di quali atti Governo e Regione, entrambe ne avevano facoltà, decisero di non dare corso al suggerimento del Cts".

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi. Collaboro con ilGiornale.it dal 2015. Nel 2017 ho pubblicato Arcipelago Ong (La Vela), un'inchiesta sulle navi umanitarie che operano nel Mediterraneo. Poi nel 2020 insieme ad Andrea Indini ho dato alle stampe Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni). Sono cattolico e capo scout per passione educativa.

Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” il 2 luglio 2021. «Non hai capito, qui la parte sanitaria la gestiscono Speranza e i suoi. Non sono un commissario pieno, detto tra me e te». «Se mi sostituisco al governo questi mi ammazzano». «Non è una gestione mia. Ci sono Conte e Speranza, spero che tu lo capisca, ciao». I messaggi ce li riporta il collega dell'Espresso Fabrizio Gatti. Vanno dal 29 febbraio al 3 marzo 2020 e li ha inviati Angelo Borrelli a Piero Moscardini. Allo scoppio della pandemia Moscardini, da capo operativo ormai in pensione, era tra i consiglieri di Borrelli, allora capo della Protezione Civile di cui Moscardini è stato coordinatore di tante operazioni di soccorso: l'alluvione di Firenze del '66, i terremoti in Friuli e in Irpinia nel '76 e nell' 80, quello in Umbria e nelle Marche del '97, poi all' Aquila. «Quando ho cominciato a mostrare le chat di WhatsApp tra Borrelli e Moscardini» dice a Libero Gatti, autore del libro "L' infinito errore. La storia segreta di una pandemia che si doveva evitare" (La Nave di Teseo), «il presidente Fassino mi ha tolto la parola». Piero Fassino (Pd) è il presidente della Commissione Affari Esteri alla Camera dove ieri Gatti era sta convocato "nell' ambito (così recita il documento ufficiale) dell'esame della proposta di inchiesta parlamentare per l'istituzione di una Commissione d' inchiesta sullo scoppio della pandemia di Sars-CoV-2 e sulla congruità delle misure adottate dagli Stati e dall' Oms per evitarne la propagazione". «Ho portato la documentazione su tutto ciò che conosco, documenti pubblicati nel libro che partono dal 2003, inizio della Sars, e arrivano fino a questo disastro, 4 milioni di morti ed economie distrutte. Non mi hanno fatto parlare». 

Chi non vuole la commissione parlamentare d' inchiesta?

«Data la secretazione posta dal governo Conte su molti atti non ho problemi a dirti che, secondo me, non la vogliono Conte, Speranza, Di Maio e D' Alema». 

Perché D' Alema?

«È il fondatore del movimento politico di Speranza (Articolo Uno, ndr) e presidente onorario di un'importante associazione cinese insieme ad altri tre politici cinesi: uno è il ministro della Sanità che ha nascosto la prima epidemia di Sars, un altro è stato a lungo direttore dell'apparato di regime per la propaganda e la repressione dell'opposizione al governo cinese». 

Con che motivazione ti ha bloccato Fassino?

«Che in assenza di un contraddittorio non potevo mostrare i messaggi, compreso quello in cui avevo scritto a Moscardini, perché lo riportasse a Borrelli, che nella Bergamasca c'era un altro focolaio, che i medici di mezza Lombardia lamentavano la totale mancanza di dispositivi di protezione. I miei erano messaggi di un cittadino lombardo preoccupato, non ci stavamo mettendo privatamente d' accordo su cosa fare nel fine settimana!».

Cosa ti ha risposto Moscardini a quel messaggio?

«Che aveva mandato un messaggio a Borrelli, il quale poi ha inviato a Moscardini una nota che aveva spedito a Conte in cui lo metteva in allarme "sul massiccio afflusso di turisti dalla Cina" e sulle analogie tra il nuovo Coronavirus e il virus della Sars». 

Quando gliel' ha scritta?

«Il 21 gennaio 2020. Ma c' è un'altra data fondamentale per capire come sono andate le cose». 

Quale?

«Il 29 febbraio 2020. Io abito vicino a Milano. Ricevo le telefonate terrorizzate - stavo svolgendo l'inchiesta sull' epidemia - dei medici di medicina generale di Milano, Monza, Bergamo e Lodi: non trovano guanti né mascherine. Inoltre a Fiumicino viene trovata positiva una signora che era stata a Bergamo due giorni e tornata a Roma aveva infettato la famiglia. Mi aspettavo che la Protezione Civile inviasse nelle zone colpite tir carichi di dispositivi di protezione per medici e cittadini. Scrivo un messaggio a Moscardini: "Dove cazzo è la Protezione Civile!". Lui lo scrive a Borrelli e Borrelli gli risponde che Conte e Speranza l'hanno esautorato, che se prova a prendere iniziative al posto loro lo ammazzano». 

Messaggi a parte, cos'hai fatto in tempo a dire?

«Ho illustrato i documenti di una fornitura del 4 marzo, la prima, di 5 milioni di mascherine che è saltata perché la Protezione Civile in modo bislacco avverte il fornitore in India che non sarà il governo a pagarla 34 centesimi l'una, un prezzo molto favorevole - ma una srl di Roma. Questa contrattazione si protrae fino all' 8 marzo, giorno del blocco delle frontiere, e il carico va perso. Neanche il tempo di spiegare, che Fassino di nuovo mi ha tolto la parola: "Lei è chiamato a esprimere opinioni, non a mostrare documenti". Comunque ho fatto in tempo a parlare anche dei voli tra Italia e Cina, altra cosa incredibile». 

Spiega.

«Nel giorno in cui a Wuhan si comincia a morire e l'epidemia esce dalla Cina, il 13 gennaio 2020, l'Italia raddoppia i collegamenti». 

Parlavi di Di Maio prima...

«In un messaggio Agostino Miozzo, membro del Cts, scrive a Moscardini: "Sono d' accordo sulla cautela per evitare un tracollo economico irreversibile. Penso che ci sia una regia altrove. Ricordi la Via della Seta siglata dal seppur incapace Di Maio? Questo sembra più un attacco per riposizionare gli equilibri».

Felice Manti per ilgiornale.it il 2 luglio 2021. A volte ritornano. Prendete l'ex premier Massimo D'Alema, tirato in causa nel pasticciaccio dei ventilatori cinesi non a norma, venduti all'Italia in piena pandemia, su cui si stanno accendendo i fari delle Procure. Ma che c'entra D'Alema nella trattativa con il dipartimento della Protezione civile? «C'entra in quanto presidente onorario dell'associazione Silk Road Cities Alliance di Pechino che controlla la società Silk Road Global Information Limited da cui il 13 marzo 2020 la Protezione civile ha acquistato i ventilatori», risponde Fabrizio Gatti, inviato dell'Espresso e autore di L'infinito errore - La storia segreta di una pandemia che si doveva evitare, il libro in uscita dopodomani che ricostruisce minuziosamente gli ultimi 18 mesi con documenti inediti, verbali e testimonianze. «D'Alema, unico non cinese si accompagna a tre presidenti onorari cinesi che sono esponenti degli apparati del regime del Partito nazionalcomunista. Il loro obiettivo con la nuova via della Seta è la penetrazione della Cina in Europa attraverso il nostro Paese. Non è un caso che D'Alema sia stato uno degli sponsor della nascita del Conte II, definendolo sui quotidiani il più amato dagli italiani». Uno di loro è Zhang Wenkang, ministro della Sanità rimosso nel 2003 dal regime con l'accusa di aver nascosto la prima epidemia di Sars. Ecco, sarebbe bastato usare proprio la parola Sars anche per questa pandemia che tanti errori si sarebbero potuti evitare». 

Cominciamo dal pasticcio dei ventilatori.

«La decisione fu del Cts di Agostino Miozzo. Sui verbali non si spiega la ragione del no agli altri 276 ventilatori di altre marche proposti all'Italia eppure, siamo al 13 marzo, ce n'era un gran bisogno... Intanto anziché sigillare i confini il 10 febbraio abbiamo regalato 18 tonnellate di mascherine alla Cina. Una scelta sciagurata. Come quella di affidare a una srl una partita da 5 milioni di mascherine dall'India. Il fornitore si è chiesto: Perché non paga direttamente il governo ma una società a responsabilità limitata?. E l'affare sfumò...» 

Sul tracciamento cosa si poteva fare?

«Bastava dare retta a quel che scriveva a Giuseppe Conte l'ex capo della Protezione civile Angelo Borrelli il 21 gennaio. Otto giorni dopo l'accordo sull'aumento dei voli tra Italia e Cina - da 54 voli a 108 voli da e per la Cina roba da 30mila persone a settimana - avvertì Conte del previsto massiccio flusso di turisti cinesi e sulle analogie tra il nuovo Coronavirus e la precedente epidemia di Sars».

Erano decisioni da prendere in fretta...

«L'altro errore è stato bloccare gli arrivi da Wuhan e consentire quelli dallo Zhejiang. Perché a Hangzhou è segnalata una delle quattro zone di diffusione del nuovo coronavirus, così come da Nanchino, Ningbo e Shanghai. E invece proprio dal ceppo di Shangai l'epidemia è entrata in Italia. Qualche giorno dopo, all'ipotesi della quarantena per chi veniva dalla Cina, Conte disse che non si potevano danneggiare gli interessi dei nostri imprenditori. O forse le alleanze tra Italia e Cina». 

Invece servivano far le zone rosse

«Il 29 febbraio, mentre a Bergamo i contagi raddoppiavano di giorno in giorno uno dei consiglieri più ascoltati dal capo dipartimento della Protezione civile, Piero Moscardini, suggerisce di fare una Direzione di comando e controllo in Prefettura a Milano. Non succederà...»

Anche l'Oms ha le sue responsabilità...

«Certamente. Nel 2003 grazie alla collaborazione tra Oms e governi, nonostante le bugie cinesi del ministro, oggi associato di D'Alema, il mondo era riuscito a contenere il virus. Oggi l'influenza nel mondo del Partito nazionalcomunista cinese si sente molto di più. Ripeto, sarebbe bastato chiamare Sars questo virus, non Covid 19 che sembra il nome commerciale di una pillola. Il direttore generale del Centro cinese per il controllo e la prevenzione delle malattie George Gao e la virologa di Wuhan Shi Zhengli fanno una battaglia per chiedere di togliere la parola Sars dal nome del virus definito Sars-Cov-2, una scelta in sintonia con il Partito comunista cinese e i compagni cinesi di D'Alema. Per nascondere al mondo cosa stava accadendo...»

Censura Rai, sei casi di cui non si parla. Altro che il rapper. Rec News il 7 Maggio 2021.  Quando si affronteranno anche i problemi che affliggono l’informazione di una tv pubblica completamente appiattita sulle posizioni del governo? La Rai – che conta su un elevato numero di professionisti e di corrispondenti regionali – tra il 2020 e il 2021 ha censurato:

1. Le notizie sulle cure contro il covid, tra farmaci generici e farmaci specifici;

2. Gli studi sui falsi positivi, che da soli sono in grado di riscrivere le proporzioni della cosiddetta pandemia;

3. Il numero di malati oncologici e di soggetti affetti da patologie (realmente) gravi che sono deceduti perché tenuti fuori dagli ospedali;

4. I protocolli letali inventati dal ministero della Salute;

5. Lo scandalo sulle autopsie;

6. Le denunce sporte presso il Tribunale dell’Aja contro i governi che hanno adottato e stanno adottando provvedimenti incostituzionali, e molto altro. Non sarebbe più opportuno parlare di censura per le notizie e le questioni realmente gravi, che riguardano tutti, anziché stracciarsi le vesti per un cantante? Quando si parlerà anche dei problemi che affiggono l’informazione di una tv pubblica completamente appiattita sulle posizioni del governo?

I misteri del covid, dieci domande senza risposta. Marcello Veneziani, La Verità/marcelloveneziani.com 12 giugno 2021. Con la bella stagione l’Italia sta finalmente ritrovando un po’ di vita, di libertà e di fiducia. Ma restano irrisolti molti dubbi sulla pandemia che ci trasciniamo da mesi e che rischiamo di ritrovarci in futuro. Senza mettere in discussione le vaccinazioni, ci sono almeno dieci domande senza una risposta compiuta.

1. Come è nato e da dove è partito il covid?

Si fa sempre più strada la tesi che il covid non sia un errore della natura ma un errore di laboratorio; e non è fugato il sospetto che non sia un errore involontario. Dalla pandemia che ha patito in anticipo sugli altri e fronteggiandola coi mezzi efficaci di un regime totalitario e militarizzato, la Cina esce rafforzata, leader mondiale non solo nel commercio. E resta un mistero che le varianti siano identificate per nazione – variante inglese, indiana, brasiliana – mentre il virus originario non sia definito cinese.

2. Oltre il racconto dei media quali sono stati in realtà i paesi più colpiti?

Se usiamo tre parametri, ovvero il numero di vittime in rapporto alla popolazione, il rapporto tra ricoverati e deceduti e la durata dell’emergenza pandemia, dobbiamo tristemente concludere che l’Italia è tra i paesi al mondo più colpiti e più a lungo, mentre i media puntavano su Inghilterra e Stati Uniti al tempo di Trump, poi su India e Brasile. Ci evidenziano, per esempio, il numero di contagi in India ma considerando che la popolazione è 22 volte superiore all’Italia, avere – poniamo – da noi 100mila malati equivale a più a 2,2 milioni d’ammalati in India.

3. Quanti sono davvero i morti di covid?

Manca una distinzione almeno fra tre categorie di decessi: a) chi è morto a causa del covid; b) chi è morto col covid come fattore scatenante di altre gravi patologie; c) chi era già in condizioni terminali o in assoluta fragilità, e il covid è sopraggiunto al più come colpo di grazia. Più ardua e penosa sarebbe invece la domanda su quanto abbiano inciso gli errori, i ritardi, i piani e i protocolli sbagliati, le mancate cure a domicilio, tempestive ed efficaci.

4. Era proprio necessario il regime di restrizioni, i lockdown e le chiusure?

Paragonando i dati dei paesi con norme più restrittive e più a lungo vigenti e altri con norme minime e più transitorie, non c’è conferma che le restrizioni siano state più efficaci, anzi. In più si è testato un regime di sorveglianza che non ha precedenti in democrazia, con la sospensione delle libertà più elementari, dei diritti primari. Una prova generale e inquietante per eventuali dispotismi futuri.

5. Quante vittime stanno mietendo i vaccini?

Non disponiamo di studi e statistiche attendibili, conosciamo solo casi e denunce episodiche. Probabilmente sono sottostimati i dati; funziona a rovescio il meccanismo applicato per il covid: chi è deceduto dopo il vaccino per una complicanza, si attribuisce solo a quella la causa della morte, non al vaccino. Qui non vale la regola post hoc propter hoc usata per le vittime di covid.

6. Come stanno funzionando i vaccini, i contagi calano solo per questo?

Se paragoniamo i dati di ora a quelli del giugno scorso ci accorgiamo che anche l’anno scorso, senza vaccino, ci fu lo stesso drastico calo. E quindi si vorrebbe capire quanto incidano realmente i vaccini e quanto concorra il clima stagionale. Resta poi indeterminata l’incidenza e la durata d’efficacia dei vaccini, se il vaccinato può essere ancora contagioso, se il vaccino stesso innesca varianti. Non sarebbe poi necessario dopo il vaccino prescrivere il test seriologico per sapere come stiamo con gli anticorpi?

7. La gente si è davvero convertita in massa alla necessità dei vaccini?

In realtà si è rassegnata in massa a vaccinarsi, per istinto di gregge, pur diffidandone e pur sapendo di fare da cavia nel buio. Si vaccina per stanchezza, per conformarsi a un obbligo socio-sanitario, per timore di sanzioni, per levarsi quanto prima la mascherina, per disporre del passaporto, circolare liberamente e tornare alla vita normale. Pur vaccinandosi sono molti gli scettici, convinti che non serva o produca danni, soprattutto nel tempo e non ci copra da ulteriori varianti. E che saremo costretti a rifare ancora.

8. È davvero necessario vaccinare in massa anche in giovane età?

I giovani hanno un rischio molto basso di contagi e ancora più basso di un’infezione in forma pericolosa. Si usa il generico alibi che sono veicoli di contagio in famiglia e si usa il loro desiderio di avere un pass per sentirsi di nuovo liberi. Non si conoscono poi gli effetti nel lungo tempo di vaccini mai testati che potranno avere sulla loro salute, fertilità, genetica.

9. A che punto sono le cure per debellare o rendere innocuo il covid?

Proiettando tutta la profilassi e le aspettative sul vaccino, si sta trascurando la via di curare il covid con cure appropriate e tempestive, abbassando al minimo i rischi di ricoveri, complicanze e letalità. Eppure ci sono ormai medicinali e terapie che potrebbero abbattere il pericolo e mutare le strategie sanitarie.

10. Al di là del virus e delle vittime, quale effetto globale ha prodotto il covid?

Innanzitutto, più isolamento, più dipendenza e più sorveglianza; quindi una ripresa di potere dello Stato non solo sulla salute ma anche sul lavoro, il controllo e l’economia; poi di fatto ha penalizzato i governi outsider e rafforzato il modello cinese. Ha ingigantito la dipendenza dal circuito info-mediatico-sanitario e l’insicurezza. E non sappiamo ancora quante sono, e a che livello, le vittime dell’isolamento indotto dal covid, in termini di depressioni, suicidi, vite peggiorate, rapporti deteriorati e cure mancate per altre malattie gravi.

Le domande qui sollevate, circolano sparse da tempo, aprono dubbi e possibili risposte o interpretazioni. Dal covid siamo usciti più vulnerabili e più esposti ai rischi di altre pandemie; spontanee, indotte o manipolate. Ed è cresciuta l’incertezza, come dimostrano queste domande che non hanno avuto risposta.

MV, La Verità 12 giugno 2021

Marcello Veneziani. Giornalista, scrittore, filosofo. Marcello Veneziani è nato a Bisceglie e vive tra Roma e Talamone. Proviene da studi filosofici. Ha fondato e diretto riviste, ha scritto su vari quotidiani e settimanali. È stato commentatore della Rai. Si è occupato di filosofia politica scrivendo vari saggi tra i quali La rivoluzione conservatrice in Italia, Processo all’Occidente, Comunitari o liberal, Di Padre in figlio, Elogio della Tradizione, La cultura della destra e La sconfitta delle idee (editi da Laterza), I vinti, Rovesciare il 68, Dio, Patria e Famiglia, Dopo il declino (editi da Mondadori), Lettere agli italiani. È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come Vita natural durante dedicato a Plotino e La sposa invisibile, e ancora con Mondadori Il segreto del viandante e Amor fati, Vivere non basta, Anima e corpo e Ritorno a sud. Ha poi pubblicato con Marsilio Lettera agli italiani (2015), Alla luce del mito (2016), Imperdonabili. Cento ritratti di autori sconvenienti (2017), Nostalgia degli dei (2019) e Dispera bene (2020). Inoltre Tramonti (Giubilei regnani, 2017) e Dante nostro padre con Vallecchi, 2020.

Il disastro non è il Covid ma i politici occidentali. Marco Gervasoni l'8 Maggio 2021 su Il Giornale. Nel suo nuovo saggio Niall Ferguson descrive il rapporto complesso tra le civiltà e le malattie. Nella lingua inglese Doom vuol dire sventura e rovina ma anche, ed è significativo, destino. Ma Doom è anche il nome del capostipite dei video giochi contemporanei: un eroe in lotta contro gli zombie. Nessun titolo fu quindi più azzeccato per il nuovo, splendido, libro di Niall Ferguson, il cui sottotitolo è ancora più evocativo: la politica della catastrofe (Doom. The politics of Catastrophe, Penguin). Come tutti i lavori precedenti di Ferguson, è prima di tutto un libro di storia, che però cela una riflessione sul presente e anche sul futuro. La storia è quella delle catastrofi cosiddette naturali e soprattutto delle epidemie: per Ferguson la storia è sempre storia contemporanea, cioè nasce dagli stimoli del presente, in questo caso della pandemia prodotta da Covid. Attraverso una comparazione delle numerose epidemie, fin dall'antichità, Ferguson ci mostra che esse non sono mai calamità naturali, che l'uomo ha sempre avuto un ruolo nella loro esplosione e che, in ogni caso, nel modo di gestirle, esse hanno determinato il destino, appunto, di una civiltà. E si comprende uno dei fili rossi del libro: l'attuale nostra civiltà ha affrontato il Covid nel più sbagliato dei modi, trasformando quella che era una epidemia non più feroce di altre, anche recenti, come l'asiatica del 1957-58, in un flagello che ha distrutto basi considerate solide e che rischia di accelerare il declino dell'Occidente, uno dei temi chiave della riflessione di Ferguson anche negli altri lavori. Come scrive lo storico anglo americano, se una epidemia colpisce una società che è già in declino, questa malattia ne renderà più rapida la decadenza. Se invece la civiltà è forte, in crescita, anche la malattia più devastante non ne arresterà il progresso, anzi lo affretterà, come accaduto diverse volte nella storia. E non servono tanti paragoni con il lontano passato; le pagine in cui Ferguson mostra come l'Occidente affrontò l'asiatica una sessantina di anni fa, raffrontata con l'oggi, sono impietose; per l'oggi. Allora non vi fu alcun lockdown, nessuna chiusura, nessuna brutale aggressione al capitale di ricchezze e al capitale sociale. Allora la civiltà era più solida, da un punto di vista morale: meno individualistica e più comunitaria, aveva meno paura della morte e sapeva che il rischio zero non esiste. Nessuno alla fine degli anni Cinquanta avrebbe accettato di farsi chiudere in casa, e nessun potere pubblico avrebbe osato, almeno nell'Occidente liberale e democratico, spingersi a una decisione del genere. Cosi ecco che la storia di Ferguson diventa una sferzante auto da fé delle élite occidentali attuali, soprattutto quelle politiche e della loro incompetenza. Si badi bene, Ferguson non parla di incompetenza tecnica ma, quasi di nuovo crocianamente, proprio di incompetenza politica. Sono cinque i punti della incompetenza delle élite politiche occidentali, crollate di fronte al Covid: «1. Incapacità di imparare dalla storia 2. Incapacità di visione 3. Tendenza a ragionare sul brevissimo periodo 4. Sottovalutazione dei pericoli 5. Attesa di una certezza che non verrà mai». Concretamente, secondo Ferguson, tutti i governi occidentali hanno atteso a intervenire, pensando che la pandemia si sarebbe limitata alla Cina, poi agli altri Paesi ma non al proprio. Intervenuti troppo tardi, lo hanno poi fatto male, a quel punto con la politica del lockdown e delle segregazioni, sfruttando e alimentando le paure di una società disgregata, il cui unico valore è la mera «nuda vita», per dirla con Giorgio Agamben. C'è poi un altro fattore: essendo in declino, le nostre società sono più statalizzate rispetto a quelle precedenti. Lo Stato amministrativo vi ha preso talmente il sopravvento, persino negli Usa, figuriamoci in Europa, che i politici non hanno potuto fare altro che sottostare agli ordini di una tecno-burocrazia (che noi chiamiamo sanitocrazia) composta da scienziati, tecnici, funzionari pubblici, imprenditori assistiti dalle commesse statali. Ora che il danno è fatto, cosa accadrà? E qui Ferguson, da storico, si avventura in alcune previsioni. La prima è che la pandemia accelererà la seconda guerra fredda, quella tra Stati Uniti e Cina: anzi, il Covid è già stato un episodio di questa guerra, fin dal modo in cui il virus è uscito, forse anche dai laboratori, di Wuhan. La seconda è che vi saranno prossime catastrofi, che le classi politiche non riusciranno a prevedere e che affronteranno con lo stesso grado di incompetenza delle attuali, se non maggiore. La terza è che, già disgregate e deboli prima del Covid, le società occidentali vi escono ancora più periclitanti, come mostra il livello di polarizzazione e di scontro che le tormenta, superiore persino a quelli precedenti. La citazione ottimistica finale, dal Journal of the Plague Year di Daniel Defoe «dopotutto, io sono ancora vivo» cela a fatica le conclusioni del più pessimistico, cioè del più realista, dei libri di Ferguson.

Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 20 giugno 2021. Ai pm della Procura di Bergamo è arrivato un dossier di 1.532 pagine destinato probabilmente a riscrivere la storia della pandemia di Covid in Italia. E non solo. L' autore del rapporto è il dottor Francesco Zambon, ex funzionario dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'Oms, costretto alle dimissioni dopo che l'organizzazione per cui lavorava fece sparire un altro rapporto, quello ufficiale, che metteva a nudo errori e omissioni del governo italiano nel contrasto all' epidemia di Covid. Il dossier recapitato agli inquirenti bergamaschi, a quanto apprende l'Adnkronos, è custodito su una chiavetta che Zambon ha recapitato questa settimana ai pm che indagano per far luce sulla gestione della pandemia in quella che si è rivelata una delle aree più colpite dal Coronavirus in Italia. L'indagine, partita per individuare le cause di una recrudescenza virale che non ebbe eguali nella prima ondata e mise in ginocchio la Bergamasca, si è allargata accendendo i riflettori anche su punti critici come il mancato aggiornamento del piano pandemico, la creazione di zone rosse. La mancata chiusura delle frontiere. Nelle 1.532 pagine, Zambon ricostruisce quanto è successo dal giorno in cui, in seno all' agenzia Onu per la salute, si è pensato di realizzare l'ormai famoso report "An unprecedented challenge" (Una sfida senza precedenti) sulla prima risposta dell'Italia al Covid-19, fino al giorno della pubblicazione e del suo successivo ritiro, avvenuto nel maggio 2020. Il filo conduttore è la cronologia dei fatti, riassunta in una tabella di 63 pagine: ogni passaggio è accompagnato da una notevole mole di documenti, scambi di comunicazioni ed email, raccolti in 182 allegati. Il suo legale, Vittore d' Acquarone, avvocato cassazionista, spiega il senso dell'iniziativa: «Francesco non è indagato. Come persona informata dei fatti ha voluto fornire tutto il materiale disponibile». Iniziativa che arriva dopo che negli uffici giudiziari di Bergamo è pervenuta un'altra memoria, quella dell'ex direttore vicario dell'Oms, Ranieri Guerra, indagato per false informazioni al pm. Dopo essersi licenziato dall' Oms Zambon si presentò spontaneamente una prima volta in Procura, a Bergamo. Prima, come ha raccontato al Corriere, non poteva farlo perché l'Organizzazione mondiale della sanità oppose un diniego, ritenendo i propri funzionari coperti dall' immunità diplomatica accordata ai componenti dell'Onu. «Sono state rilasciate parecchie interviste sul fatto che Zambon avesse fatto una ricostruzione parziale e maliziosa degli avvenimenti», puntualizza il suo legale, «mentre lui, nella prima deposizione alla procura di Bergamo, ha semplicemente risposto alle domande e commentato email e documenti che gli sono stati esibiti, resi pubblici da altri e finiti sui media. In questa circostanza, invece, Zambon ha attinto alla documentazione dell'epoca e ha ricostruito tutti i vari passaggi. Voleva dare prova del fatto che tutto quel che ha sempre sostenuto sin dal maggio 2020 è supporta to anche da materiale corposo». Email, documenti interni, con i quali «ha ricostruito minuto per minuto quali sono state le comunicazioni relative al rapporto. Ha portato tutto quello che ha, per dare un quadro completo». Zambon vuole ristabilire alcuni punti. «Si è alluso - aggiunge d' Acquarone - al fatto che avrebbe pubblicato il report senza essere autorizzato, che avesse interessi personali. Questo, a un uomo che si è sentito costretto a dare le dimissioni, senza Tfr e perdendo lo stipendio (da 7.500 euro netti al mese, ndr), fa venire voglia di mettere tutto sul tavolo. Poi ciascuno farà le sue valutazioni». Il dossier smonta innanzitutto due aspetti critici. Intanto, secondo Zambon, non fu anticipata la data di pubblicazione del report dal 24 al 13 maggio 2020, per il semplice fatto che «il 24 era il termine ultimo. E tutte le persone che lavoravano intorno a quel rapporto in Oms, lo sapevano. Sono riusciti a ultimarlo il 13 e lo hanno pubblicato, congratulandosi per essere riusciti ad anticiparlo. Nessun salto in avanti», dice l'avvocato d' Acquarone. E poi c' è da smontare il teorema secondo cui il report venne ritirato per la scarsa qualità dei contenuti. Giunto alla pubblicazione senza il via libera dei superiori di Zambon, che oltretutto, secondo le ricostruzioni circolate, avrebbe dato la colpa ai propri capi per averlo pubblicato. «Ma Se fosse stato così ragiona d' Acquarone - lo avrebbero licenziato il giorno dopo. Invece non ha ricevuto nessun richiamo disciplinare. E, d' altronde, l'Oms e Guerra non hanno detto niente fino ad autunno 2020. Questa tesi nasce a mesi dal ritiro». Anzi, «la decisione di pubblicare il rapporto il prima possibile era condivisa da tutti. Era informato l'Oms ed era informato anche Guerra». E proprio il ruolo di Ranieri Guerra potrebbe essere decisivo nella ricostruzione degli eventi. «Si sa quale fosse il ruolo di Guerra in Italia, designato da Tedros (il direttore dell'Oms, ndr) su richiesta del ministro della Salute Roberto Speranza proprio perché tenesse i rapporti tra Oms e Italia sulla pandemia», aggiunge il legale, «e Guerra era pacificamente informato sul rapporto, gli era stato mandato l'indice, era linkato a tutti i meeting settimanali con i quali il gruppo si aggiornava sul livello di evoluzione del documento, era in copia per conoscenza nelle email. Nessuno lavorava alle sue spalle. E, visto il suo ruolo, nessuno gli chiedeva se passo passo si confrontasse col ministro, si poteva dare per acquisito».

La corrispondenza del rappresentante dell’Italia nell'Oms rivela gli incontri con l’esecutivo dell’avvocato.  Fabrizio Gatti su L'Espresso il 18 giugno 2021. Il nome dell'ex premier Massimo D'Alema, tra i fondatori del movimento politico Articolo Uno, di cui il ministro della Salute Roberto Speranza è segretario, entra negli atti dell'inchiesta della Procura di Bergamo, anche se non come indagato. La lunga memoria difensiva di Ranieri Guerra, inviato personale in Italia del direttore generale dell'Oms, Tedros Ghebreyesus, e accusato nell'indagine bergamasca di false informazioni al pubblico ministero, rivela il disperato tentativo di Tedros, attraverso Guerra, di difendere dalle critiche D'Alema e Speranza: in particolare di proteggerli dalle osservazioni con cui, a maggio 2020, una squadra di ricercatori dell'Organizzazione mondiale della sanità stava mettendo in guardia il resto del mondo dagli errori commessi dall'Italia, nel mancato contenimento dell'infezione di Sars-CoV-2 durante la prima ondata. Da una serie di rapporti interni alla sede centrale dell'Oms a Ginevra, che non rientrano finora nell'inchiesta giudiziaria ma che L'Espresso ha potuto leggere, Ranieri Guerra, nel suo ruolo di inviato personale del direttore generale, incontra sia Massimo D'Alema, anche se l'ex premier non ha alcun ruolo ufficiale nel governo italiano, sia il consigliere diplomatico del premier Conte, l'ambasciatore Pietro Benassi, che nelle ultime settimane della maggioranza 5Stelle-Pd riceverà l'incarico di sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai servizi segreti. Guerra si muove sempre per conto di Tedros Ghebreyesus e poiché né D'Alema né Benassi hanno alcuna competenza sanitaria, è curioso il tentativo dell'Organizzazione mondiale della sanità di inserirsi nelle scelte di uno dei suoi Stati membri, anche in vista della presidenza italiana del prossimo G20, che si riunirà tra il 30 e il 31 ottobre 2021. Sempre per conto di Tedros Ghebreyesus, Guerra rivela al quartier generale di Ginevra di aver messo a punto perfino i discorsi del premier Conte e del ministro Speranza pronunciati davanti all'Assemblea mondiale della sanità nel maggio 2020. Il direttore generale dell'Oms non stava più tutelando la salute degli abitanti del pianeta: piuttosto, attraverso il suo inviato in Italia, difendeva il suo posto retribuito con 239.755 dollari all'anno, di cui 173.738 netti. Ma difendeva anche la carriera del ministro Speranza che, attraverso Massimo D'Alema, godeva della piena fiducia della dittatura comunista cinese, a sua volta sponsor globale del direttore generale dell'Oms. Le eventuali dimissioni di Speranza, infatti, sarebbero state considerate dai tanti oppositori di Tedros un'ammissione di responsabilità e avrebbero potuto aprire la resa dei conti intorno all'elegante ufficio del direttore generale a Ginevra. Soprattutto nel momento in cui, nella tarda primavera del 2020, il presidente americano Donald Trump aveva interrotto le sue buone relazioni con Pechino e avviato una battaglia personale contro l'Oms. È tra l'altro risaputa la riconoscenza di Tedros Ghebreyesus, a lungo ministro in Etiopa, nei confronti della dittatura cinese, che ha sostenuto la sua elezione ai vertici dell'Organizzazione mondiale della sanità e finanziato con miliardi di dollari i programmi del governo etiope. L'Italia di solito non ha alcun peso negli equilibri internazionali. Ma in quei giorni, con un bilancio di oltre trentacinquemila morti in poche settimane, la metà dei quali concentrati in Lombardia, la strage italiana diventava il peggior atto d'accusa contro Tedros Ghebreyesus, il suo staff e il governo italiano di Giuseppe Conte che aveva applicato in modo acritico le direttive del direttore generale. Come quando Walter Ricciardi, consulente personale di Speranza e rappresentante del governo nell'Oms, fece credere agli italiani, durante una diretta tv dalla sede della Protezione civile, che «le mascherine alla persona sana non servono a niente». Era il 25 febbraio 2020 e, forse, qualche indicazione su come rimediare dei dispositivi di fortuna sarebbe stata più utile, visto che nessuno nel governo aveva pensato ad accantonare una scorta adeguata di protezioni individuali e diciotto tonnellate erano state da poco regalate alla Cina dal ministero degli Esteri di Luigi Di Maio. «Ho incontrato l'ex primo ministro italiano, Mr. Massimo D'Alema», scrive a tarda primavera 2020 Ranieri Guerra nel suo periodico report in inglese a Tedros Ghebreyesus: «e ho discusso in merito al suo influente supporto all'Oms, nel mobilitare e sostenere la causa con gli sherpa per la presidenza italiana del G20-2021».

«Ho incontrato il presidente del Parlamento italiano, Mr. Fico», continua Ranieri Guerra nelle sue informative al direttore generale: «sulla strada da seguire in collaborazione con l'Oms e la potenziale interazione che conduca a un'agenda comune per la presidenza italiana del G20-2021. Ho incontrato gli sherpa del G20, il capo di gabinetto del ministro degli Esteri e ho stabilito una linea di comunicazione diretta che permetta la collaborazione informale nella stesura dell'importante agenda».

«Ho incontrato il ministro della Salute e lo staff del primo ministro e abbiamo messo a punto il loro discorso all'Assemblea mondiale della sanità, puntando in particolare a come l'Italia possa collaborare con l'Oms nella sua presidenza del G20-2021», rivela ancora Guerra, riferendosi a Speranza e Conte, in un altro rapporto al direttore generale del maggio 2020.

«Ho incontrato gli sherpa italiani per il G20 e il loro team nell'ufficio del primo ministro e abbiamo cominciato la discussione informale sulle priorità e le aree di concentrazione proposte dall'Oms, in base ai documenti preliminari ricevuti dal quartier generale. L'ambasciatore Benassi ha presentato Raffaella Valentini del suo staff come contatto informale per futuri colloqui», spiega invece il rapporto inviato da Guerra a Ginevra nel mese di luglio.

«Un'ulteriore conversazione si è tenuta con l'ufficio del primo ministro sull'agenda del futuro G20», informa un'altra nota di Guerra inviata a Tedros nel settembre 2020: «La presidenza italiana per il 2021 sembra orientata verso l'adozione di un tema singolo che sia sviluppato da tutti i settori, vale a dire la sicurezza (compresa la preparazione), come ho anticipato nei rapporti precedenti. Una bozza provvisoria di programma sarà ridiscussa la prossima settimana».

L'alta sorveglianza mantenuta dal direttore generale dell'Oms sul governo di Giuseppe Conte e sul ministero di Roberto Speranza è confermata da un'email da tempo acquisita dalla Procura di Bergamo che, con il capo dell'ufficio, Antonio Chiappani, e il procuratore aggiunto, Maria Cristina Rota, sta indagando sul mancato contenimento dell'epidemia e sul record mondiale di letalità registrato nella provincia bergamasca durante la prima ondata.

«Uno degli atout di Speranza è stato sempre il potersi riferire a Oms come consapevole foglia di fico per certe decisioni impopolari e criticate da vari soggetti», scrive Guerra il 13 maggio 2020 a Francesco Zambon, il funzionario medico della sede di Venezia, coordinatore del rapporto sull'Italia pubblicato il giorno successivo e rimosso dall'Oms dopo poche ore. «Questa è stata materia di discussione e di accordo con Tedros, anche attraverso chi ti scrive e la Missione di Ginevra […]. Se hai visto Report, forse avrai notato che il bersaglio principale Tedros ha me come corollario (ma solo perché ho rifiutato di prestare voce all'attacco contro di lui e non ho fatto i nomi dei miei fallimentari colleghi che dal 2018 a oggi hanno finito di distruggere la prevenzione), ma ha anche incluso D'Alema e Speranza, di striscio ma in maniera significativa. Capirai quindi, assieme ad altro che non ti dico per brevità, ma fidati, come la situazione sia tesa».

Massimo D'Alema è l'unico presidente onorario non cinese di un'influente associazione di Pechino, la Silk Road Cities Alliance, che sostiene la penetrazione degli interessi del regime comunista lungo la Via della seta. Con D'Alema, sono presidenti onorari l'ex ministro della Sanità cinese, Zhang Wenkang, famoso per aver nascosto la prima epidemia mortale di coronavirus nel 2003; l'ex direttore dell'Ufficio informazione del Consiglio di Stato, Zhao Qizheng, per anni capo dell'ufficio centrale per le propaganda all'estero e il controllo sugli oppositori al regime; e l'ex ministro degli Esteri della Repubblica Popolare, Li Zaoxhing. 

Non a caso proprio in questi giorni, in un'intervista a New China TV, D'Alema ha celebrato il Partito comunista cinese: dimenticando in un colpo solo le bugie e le censure del regime che hanno trasformato l'epidemia di Sars-CoV-2 in pandemia, la repressione delle libertà a Hong Kong e la scomparsa e la tortura degli oppositori nei campi di detenzione, tra i quali almeno un milione di musulmani della provincia di Xinjiang. Tutti cittadini cinesi arrestati e rieducati con la forza alla religione del partito.

(ANSA il 9 giugno 2021) Di misure più rigorose per affrontare la pandemia di Covid-19 in Italia il ministro della Salute Roberto Speranza aveva parlato almeno due volte nelle riunioni della task force del febbraio 2020. Si legge negli atti delle riunioni della task force coronavirus del ministero pubblicati oggi. "Negli ultimi 3-4 giorni non abbiamo aumentato le misure, ma ne avremmo potuto adottare di più rigorose", aveva detto il ministro il 19 febbraio. "Leggendo i dati in evoluzione potremmo anche disporre altre misure anche più drastiche, ma è opportuno valutare ora dopo ora", aggiungeva nella stessa riunione. Il 21 febbraio, in seguito a un nuovo caso rilevato in Lombardia, Speranza osservava "molto importante è dare un messaggio di presa in carico del problema e adottare misure precauzionali più severe per evitare che il virus si diffonda".

"Via i nomi". Cosa voleva nascondere Speranza. Giuseppe De Lorenzo per ilgiornale.it il 9 giugno 2021. Sei mesi e alla fine hanno dovuto cedere. Finalmente il ministero della Salute ha premuto "invio" e spedito a chi di dovere i verbali della task force che un anno fa decise le sorti della guerra italiana al virus. È stato un parto. Il dicastero guidato da Speranza infatti ha provato fino all'ultimo ad opporsi alla decisione dei giudici del Tar: ha fatto melina, ha avanzato una “istanza di chiarimenti”, ha cercato di prendere tempo per allontanare il giorno in cui gli italiani avrebbero potuto conoscere la verità su quel tavolo del ministro. Adesso però ci siamo. Per capire occorre prima fare un passo indietro. La prima riunione della task force risale al 22 gennaio del 2020, e da quel giorno gli esperti si riuniscono ogni giorno alla presenza del ministro. Intorno al tavolo elaborano proposte. Il 27 gennaio ascoltano Ranieri Guerra, l’inviato Oms finito al centro del pastrocchio sul dossier Oms. Ed è lì che decidono cosa fare, e cosa non fare, del piano pandemico italiano. Venne subito attivato? Sì o no? Ma soprattutto: di chi fu l’idea di mettersi a scrivere un “piano” alternativo dedicato al Covid? Per dare una risposta a queste domande sarebbe bastato leggere i verbali delle riunioni, che però erano tenuti secretati. Ad ottenerne una copia ci aveva provato lo scorso dicembre Galeazzo Bignami, aprendo così il secondo capitolo di una vicenda piuttosto intricata. Sotto Natale il deputato FdI presenta un accesso civico agli atti, ma viene respinto. Decide allora di fare ricorso al Tar del Lazio, e anche qui la battaglia (alla faccia della trasparenza) si fa agguerrita: l’avvocatura dello Stato si oppone, gioca sui cavilli, parla dell’esistenza di “resoconti” privi di ufficialità che dunque non possono essere divulgati. Ma alla fine perde. A inizio maggio la sezione III quater del Tar, infatti, condanna il ministero della Salute alla “ostensione dei resoconti, verbali o documenti” in possesso del ministero entro un termine di 30 giorni. L’ultimatum era scaduto ieri, e infatti il ministero ha ottemperato all'obbligo, ma non prima di aver cercato in ogni modo di fare melina. Il ministero infatti sosteneva (e forse sostiene ancora) che gli scritti siano solo dei “brogliacci” e dunque non abbiano i crismi burocratici di “verbali in senso tecnico e formale”. Durante le riunioni, insomma, non ci sarebbe stato un funzionario pubblico incaricato di redigere i documenti, i partecipanti non sarebbero stati consapevoli della realizzazione dei verbali e non li avrebbero “letti, approvati e sottoscritti”. Come di solito si fa in occasioni ufficiali. Anziché spiegare per quale motivo una task force così importante si sia riunita “in via informale” e senza rendere conto al Paese delle sue attività, il dicastero lo scorso 19 maggio ha provato a giocare la carta della “privacy”. “Quei brogliacci - si leggeva nella richiesta di chiarimenti - saranno destinati ad essere resi pubblici” e quindi “i soggetti (liberamente) intervenuti agli incontri potrebbero dover essere chiamati a rispondere all’opinione pubblica di posizioni e valutazioni non espresse o comunque malamente interpretate, con il rischio di evidenti e gravi danni all’immagine, e rischierebbero l’esposizione a possibili iniziative anche processuali di soggetti che si pretendano lesi”. Direte voi: ma cosa avranno mai detto di così pericoloso da rischiare querele o denunce? Mistero. Tuttavia per l’avvocatura si presentavano due “problematiche” stringenti. Primo: visto che chi ha redatto i verbali non era stato delegato a farlo, quanto scritto all’interno sarebbe il frutto della sua “percezione” e dunque non sarebbe possibile certificare la correttezza delle “presunte affermazioni” attribuite ai vari partecipanti alle riunioni. Secondo: anche qualora avesse riportato ogni singola virgola, gli esperti “erano consapevoli di partecipare ad incontri informali” ed erano convinti che “dei loro interventi non sarebbe stato redatto alcun verbale”. Non pensavano insomma che un giorno le loro frasi potessero diventare di dominio pubblico. E quindi? Quindi il ministero ha cercato di usare il cavillo di “privacy” per tentare di boicottare l’ostensione dei documenti. L’avvocatura, infatti, prima di fornire i brogliacci avrebbe voluto “omettere i nominativi degli intervenienti e ogni altro elemento che ne consenta l’identificazione”. Oppure, in alternativa, avrebbe voluto chiedere loro l’assenso esplicito alla pubblicazione “delle parti che li riguardano”, cancellandole - ca va sans dire - nel caso in cui avessero negato l’autorizzazione. Se la linea del ministero fosse passata, Bignami avrebbe ricevuto sì i “brogliacci”, ma gli sarebbe stato impossibile capire chi avesse detto cosa. Dunque atti fondamentali per ricostruire la storia del Covid in Italia sarebbero diventati con un tratto di penna carta straccia. Per fortuna però il blitz non è andato in porto. E ieri i verbali sono usciti dalle segrete stanze di Viale Lungotevere Ripa 1 con i soli numeri di telefono e le mail oscurate. Ora non resta che leggerli.

Verbali Cts desecretati, quando M5s e Pd consigliavano: "Non fate i tamponi, è inutile". Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Ma davvero l'Italia era in buone mani? Nel febbraio del 2020 i tecnici del governo sconsigliavano di fare i tamponi agli asintomatici per evitare di "sovrastimare il fenomeno Covid" e ordinavano di utilizzare termoscanner che, stando ai report dell'Oms, risultavano completamente inutili per intercettare i malati di Covid. Eppure per il ministero della Salute non c'è alcun bisogno di fornire spiegazioni. Continuano a far discutere i verbali delle riunioni della task force contro il Coronavirus (diffusi mercoledì) attivata dal governo all'inizio della pandemia. Fratelli d'Italia ieri pomeriggio ha pubblicato sul proprio sito tutte le carte e ora intende portare la questione in Parlamento. Il governo intanto minimizza: «Mi sembra eccessivo chiamarli verbali», è la versione del viceministro Pier Paolo Sileri, «si tratta di paginette raccolte non so da chi e che sembrano anche molto sciatte. In quelle riunioni sono state dette tante cose che lì non sono riportate». Questa spiegazione, però, non ha fermato le polemiche.

LE DOMANDE - «Le dichiarazioni di Sileri sui verbali della task force da un lato sorprendono, dall'altro sconcertano», ha detto ieri il deputato Fdi Galeazzo Bignami, autore dell'esposto che ha portato alla pubblicazione delle carte. «Se quei verbali non contengono nulla di significativo, ci chiediamo per quale motivo il suo Ministero si sia opposto alla pubblicazione. E se, come sostiene, non sono completi, dovrebbe dire cosa manca e spiegare i tanti errori che sono stati compiuti nella fase iniziale e che dalla lettura di quei verbali emergono nella loro evidenza». In effetti, ripassando i documenti emerge una serie imbarazzante di errori da parte dei nostri esperti. A partire dal mancato stop ai viaggiatori in arrivo dalla Cina (imposto solo a chi si muoveva con voli diretti... con il risultato di far entrare in Italia migliaia di asiatici senza controlli), per arrivare alla tardiva attivazione di protocolli per l'accesso ai pronto soccorso (le conseguenze le abbiamo viste a Codogno). Ma soprattutto si nota che i tecnici erano perfettamente consci dei problemi, ma nulla è stato fatto. Chiaramente perché il rischio era ritenuto basso. Fdi punta il dito sull'assenza di un complessivo "piano pandemico", mai aggiornato dal 2006. Eppure alcuni degli esperti presenti a quel tavolo avevano segnalato il problema anni prima. Così i nostri medici si sono ritrovati ad affrontare il corona virus senza istruzioni chiare.

LE ANALISI - Poi c'è la questione dei tamponi. In un verbale del 24 febbraio il Comitato tecnico scientifico spiega che eseguire test assenza di sintomi «non è giustificato in quanto non fornisce un'informazione indicati va ai fini clinici ai sensi della definizione di caso». E ancora: «Le comunicazioni di positività non associate a sintomi determinano una sovrastima del fenomeno sul Paese, rendendo i dati non omogenei con gli altri diffusi dall'Oms». A firmare sono gli stessi uomini della Task force: Miozzo, Ruocco, Brusaferro, Ippolito etc. C'è un problema però: da quel che si legge nei resoconti, gli stessi esperti avevano definito "gravissima" la scelta delle autorità cinesi di non conteggiare gli asintomatici tra i contagiati. Perché, quindi, in Italia veniva adottato lo stesso sistema? Infine c'è il nodo dei termo scanner. Sempre stando ai verbali, a più riprese i tecnici al servizio del ministero ne hanno parlato e hanno suggerito di utilizzarli per effettuare i (blandissimi) controlli negli aeroporti sui passeggeri in arrivo da Wuhan. Peccato che l'Oms in un documento avesse bollato questo strumento come del tutto inutile, adatto solo a tranquillizzare la popolazione. Come è finita, purtroppo, lo sappiamo tutti.

Roberto Speranza e i verbali segreti: nessun rischio Covid, pensiamo al "made in China". Lorenzo Mottola per “Libero quotidiano” il 10 giugno 2021. «Il Servizio Sanitario Nazionale è pronto ad affrontare ogni evenienza». Era il 22 gennaio del 2020, Roberto Speranza pronunciava un discorsetto di fronte ai giornalisti per raccontare come il governo guidato da Giuseppe Conte si stava muovendo per affrontare la strana epidemia scoppiata in Cina (se ne aveva notizia da pochi giorni). Al ministero della Salute era stata riunita una squadretta di esperti diventati poi celebri per i loro quotidiani bollettini: Silvio Brusaferro, Agostino Miozzo, Gianni Rezza etc. Erano loro alla guida della cosiddetta task force contro il Covid. I verbali di quelle riunioni sono rimasti fino a ieri segreti. Oggi, grazie al ricorso di un parlamentare di Fratelli d'Italia, Galeazzo Bignami, sono stati tutti pubblicati per ordine del Tar. Così, giorno per giorno, possiamo raccontare come l'Italia si è preparata all'emergenza. 

22 GENNAIO, "PROFILO SOBRIO"

Primi obiettivi esposti dal ministro: «Monitorare gli arrivi da Wuhan» e «mantenere un profilo comunicativo sobrio». Bisogna controllare gli aeroporti anche se «resta inteso che al momento i voli attenzionati sono solo quelli diretti, rimanendo esclusi quelli provenienti da scali intermedi tra Cina e Italia». E non solo, per "test" si intende controllo della temperatura e diffusione di opuscoli informativi. D'altra parte, specifica l'Istituto Superiore di Sanità, «possono essere adottate misure di tipo organizzativo e precauzionale, poiché non esiste alcun farmaco o vaccino». Seduta aggiornata.

23 GENNAIO, IL "MADE IN CHINA"

La più grande preoccupazione della nostra squadra pare essere quella di «informare i cittadini circa la non pericolosità di giocattoli e vestiti "made in China" e sollecitare l'Oms perché confermi che lo stesso valga per gli animali». Viene per la prima volta chiarita l'opportunità di creare accessi differenziati per gli eventuali malati di Corona in tutti i pronto soccorso del Paese. Come sappiamo, non accadrà nulla di simile per molti mesi. Per il resto, il ministro parla della «necessità di comunicare adeguatamente la reale portata del fenomeno al fine di non ingenerare nei cittadini confusione e paura ad oggi non giustificate». C'è grande serenità, anche se si inizia a discutere di «risorse umane» da reperire. Si parla di mobilitare una colossale equipe composta da «8 unità di medici e 8 unità di infermieri sia su Roma che su Milano», per controllare 17mila viaggiatori al giorno. Per - sonale che, peraltro, bisognava ancora trovare. Uno squadrone.

24 GENNAIO, GLI USA E IL VACCINO

L'Istituto Superiore di Sanità fornisce una prima stima sui «tempi necessari per avere l'eventuale farmaco o vaccino». Già in queste settimane viene chiarito che ci vorrà almeno un anno e probabilmente verremo superati da Regno Unito e Stati Uniti. Lo Stato maggiore della Difesa, intanto, abbassa a 5 unità la disponibilità di personale sanitario (5 medici e 5 infermieri) da dislocare negli aeroporti in caso di emergenza. Un esercito.

31 GENNAIO, I PRIMI DUE CASI

Primi due casi di Covid in Italia. Si tratta di due turisti cinesi. Giuseppe Conte spiega che «non c'è alcun motivo di preoccuparsi». E questo perché «siamo prontissimi». Speranza, intanto, durante la riunione di quel giorno torna a insistere: è necessario trovare un modo per sottoporre a test le persone che arrivano dall'Asia facendo scalo all'estero. Ma forse è tardi. Aeroporti di Roma specifica: i cinesi passati da Fiumicino in quei mesi sono stati 800.000. Il 35% (ovvero 280.000 persone) non ha preso un volo diretto e di conseguenza non può aver subito alcun controllo.

2 FEBBRAIO, TORNA L'OTTIMISMO

Dopo la paura per i due turisti cinesi, tra gli esperti circola grande ottimismo. Il ministero comunica che «le misure di contenimento stanno portando a risultati». Si iniziano a diffondere anche altre convinzioni: «L'infezione asintomatica è rara e la trasmissione da parte dei casi asintomatici è rara. Queste situazioni non dovrebbero contribuire alla diffusione del virus in modo continuativo». E si affaccia anche il tema delle mascherine: «Al momento sono state ricevute informazioni da una ditta che sembra abbia in stock circa 800mila mascherine chirurgiche e prevede di averne altre 400mila in dieci giorni». Una scorta sufficiente per poche ore, come oggi purtroppo sappiamo. Ancora grande ottimismo. Silvio Brusaferro spiega che «i numeri ad oggi sono ancora limitati, si ritiene che le misure di contenimento adottate al di fuori del territorio cinese stiano funzionando, nonostante in Cina la situazione appaia ancora in espansione».

6 FEBBRAIO, SOLO LA CINA È IN PERICOLO

 Il virus circola in mezza Europa, compare per la prima volta in Belgio. Ma la nostra task force pare di ottimo umore: «Il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie», si legge nel verbale del giorno, «sta per effettuare una nuova valutazione dalla quale emergerebbe che la probabilità di infezione fuori dalla Cina è molto bassa, mentre il rischio risulta elevato in Cina per chi si reca in detto Paese». Si torna a parlare del problema dei voli di transito, che non è ancora stato risolto. Il tutto a 2 settimane dal primo allarme di Speranza. Sempre riguardo alla Cina, i tecnici dell'Iss spiegano che «la curva pandemica è in crescita anche perché la popolazione è molto numerosa». Ad ogni evenienza, «si suggerisce di predisporre un piano organizzativo per implementare i posti in terapia intensiva, nell'eventualità che vi fosse un'epidemia nel nostro Paese». Un'epidemia che in realtà c'era già. E i posti in TI non verranno potenziati. «È importante precisare che il virus non è arrivato in Italia», si legge nel verbale. Il ministro Speranza «evidenzia la necessità di comunicare all'opinione pubblica che resta ferma la misura di sospensione dei voli diretti da e verso la Cina». Il tutto ben sapendo (dal 22 gennaio) che sarà tutto inutile senza fermare i viaggiatori che fanno scalo in aeroporti all'estero.

7 FEBBRAIO, VOLI INDIRETTI 9 FEBBRAIO, MANCANO LETTI

Le certezze della nostra task force cominciano a vacillare. Rezza parla dei casi che si sono verificati in Francia, che riguardano «passeggeri provenienti da Singapore, ciò potrebbe dimostrare che l'azione di contenimento in Asia non sia del tutto efficace, quindi occorre fin d'ora predisporre un piano». In particolare, «bisogna verificare se disponiamo di strutture ospedaliere adeguate». Sono passati 17 giorni dalla prima riunione, ma la questione non era ancora stata affrontata. Si procede, comunque, con fiducia nel nostro principale strumento di controllo negli aeroporti: il termoscanner. Ippolito spiega che «va considerato che l'efficacia ufficialmente riconosciuta del termoscanner è pari al 43%, quindi una percentuale elevata». 

11 FEBBRAIO, "TROPPI ALLARMI DAI TG”

L'attenzione è ancora concentrata sulla Cina. Sono i giorni in cui il sindaco di Milano Giuseppe Sala lancia la sua campagna contro la psicosi da Coronavirus. Speranza annuncia che «Il governo continuerà a promuovere iniziative di sostegno umanitario e di solidarietà nei confronti del popolo cinese». Il ministro dà indicazione di «garantire una comunicazione volta a rassicurare la popolazione dopo i messaggi allarmistici comparsi sui TG». L'Istituto Superiore di Sanità conferma per l'ennesima volta: «Oggi in Europa il virus non circola». E il ministero «ritiene sufficiente una mappatura rispetto a uno scenario con bassa gravità».

12 FEBBRAIO, CONTI FARLOCCHI

Iniziano i problemi. Brusaferro spiega che circolano voci relative a una modifica della defini zione di "positività" da Covid da parte delle autorità cinesi. In pratica, non sarebbero stati conteggiati gli asintomatici, così i numeri sarebbero mostruosamente sottostimati. Uno degli specialisti del ministero (Ruocco) afferma: «Non notificare pazienti positivi asintomatici sarebbe gravissimo».

13 FEBBRAIO, PACCO CINESE

In un solo giorno la conta degli infetti in Cina passa da 45mila a 60mila. Il ministro spiega che Pechino ha effettivamente cambiato il modo di conteggiare i malati. «Abbiamo chiesto a Pechino un chiarimento», si legge nel verbale. 

15 FEBBRAIO, QUESTIONE AFRICANA

È il giorno della "questione africana", che preoccupa moltissimo Speranza. In Egitto è stato trovato un positivo asintomatico e «i mass media stanno creando allarmismo», pertanto occorre mantenere alta l'attenzione. «Solo utilizzando fonti attendibili si possono evitare fake news», dice il ministro. 

16 FEBBRAIO, "TUTTO RISOLTO"

Torna l'ottimismo. Rezza spiega che «bisogna riconoscere la grande opera di contenimento del focolaio. Ma l'attenzione resta alta».  Si va avanti con volantini e termoscanner negli aeroporti. 

17 FEBBRAIO, LO SPOT

La task force decide di girare uno spot sull'importanza del lavaggio delle mani. 

18 FEBBRAIO, NUMERI DA PECHINO

«Il prof Ippolito illustra schede che, in via confidenziale, nella tarda serata di ieri le autorità cinesi gli hanno anticipato e che nelle prossime 48 ore saranno rese note». Risultato: «Il virus dovrebbe essere alla quinta generazione». Cioè in circolazione già da un pezzo. Però questo induce «meno pessimismo rispetto a ieri». 

19 FEBBRAIO, FESTA GRANDE

Grandi notizie: «Nella regione europea non sono stati registrati nuovi casi di positività, né, a livello mondiale, l'epidemia si è manifestata in nuovi Stati. Questi dati indicano un rallentamento nella diffusione». Brusaferro continua a sostenere che «la Cina sta contenendo l'epidemia». Speranza comunque invita tutti alla prudenza: «Potremmo disporre misure più drastiche, ma è opportuno valutare ora dopo ora». 

21 FEBBRAIO, PANDEMIA

 Viene trovato il "Paziente Uno" di Codogno. Il Coronavirus probabilmente circolava da mesi in Cina come in Italia.

Covid-19, gli Usa sapevano che l'Italia era senza difese: «Il piano pandemico non esiste, è un work in progress». Già nel 2006 l'ambasciatore Spogli aveva segnalato le gravi lacune. I legali dei familiari delle vittime di Bergamo: «Quattordici anni di copia-incolla. Ora il ministro Roberto Speranza riveli quello che sa». Fabrizio Gatti su La Repubblica l'8 giugno 2021. L'ambasciata degli Stati Uniti a Roma sapeva dal 2006 che in caso di pandemia, dall'influenza aviaria a nuove forme di Sars, l'Italia non sarebbe stata affatto protetta. Lo hanno scoperto l'avvocata Consuelo Locati, tra i legali che assistono i familiari delle vittime in provincia di Bergamo, e il loro consulente Robert Lingard. Un retroscena che cambia la narrazione fatta fino a oggi da numerosi programmi tv. Non è quindi vero che il piano pandemico italiano non è stato attivato nel gennaio 2020 perché nessuno lo aveva aggiornato. Lo scandaloso copia-incolla trascinato per quattordici anni dal ministero della Salute, dal 2006 fino all'ingresso dell'epidemia di Sars-CoV-2 in Italia, anche a volerlo, non era attivabile nonostante la sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale: perché era un semplice fascicolo di carta, fatto di indicazioni teoriche sprovviste di procedure operative immediatamente applicabili e, in quelle condizioni, più che aggiornato il piano andava riscritto. Si trattava infatti di un provvedimento perfino più lacunoso della sua bozza preparatoria. Ed è proprio quello che trasmette a Washington il 10 marzo 2006 l'allora ambasciatore americano Ronald Spogli, a capo della sede diplomatica di via Veneto dal 2005 al 2009, con i presidenti George Bush e Barack Obama. «La versione finale del piano nazionale», scrive Spogli, «è molto meno dettagliata della bozza del 30 novembre 2005, che era stata fornita in via confidenziale all'ambasciata. La versione finale non precisa le specifiche, ma piuttosto definisce le linee guida di massima e gli ambiti di responsabilità nazionale/locale». «Anche se definitivo, il piano sembra essere un “work in progress”», aggiunge l'ambasciatore americano, «che ci aspettiamo evolverà a mano a mano che la regione europea e il resto del mondo risponderanno all'evoluzione dell'influenza aviaria». Gli Stati Uniti in quei mesi sono preoccupati delle gravi lacune del piano italiano, perché un'eventuale falla nella prevenzione e nel contenimento del contagio avrebbe inevitabilmente coinvolto i numerosi cittadini americani in visita per lavoro o per turismo nel nostro Paese. E avrebbe potuto trasferire l'infezione, in quel caso di influenza aviaria, sul suolo americano. È esattamente quello che poi accadrà nel 2020 quando, per il mancato contrasto alla diffusione del nuovo coronavirus Sars-CoV-2, l'Italia diventerà il trampolino di lancio perché l'epidemia partita dalla Cina raggiunga il Brasile, il Messico, la Spagna e probabilmente numerose altre nazioni. «La versione finale, che è molto meno dettagliata della precedente bozza, aggiorna e sostituisce la versione del 2002», scrive inoltre l'ambasciatore Spogli: «La versione finale elenca le linee guida per i piani operativi che devono essere preparati da ciascuna regione italiana, con il contributo di tutte le istituzioni durante una pandemia. Il governo italiano intende aggiornare il piano su base regolare, a mano a mano che i piani regionali sono completati». Ed è esattamente quello che non accadrà. Il mese dopo il rapporto a Washington di Ronald Spogli, il ministero della Salute potrebbe ancora rimediare. La prestigiosa rivista scientifica “Lancet” pubblica uno studio intitolato “L'Europa è pronta per una pandemia influenzale? Analisi dei piani nazionali”, promosso da due ricercatori della London School of Hygiene and Tropical Medicine, secondo il quale in caso di una pandemia di influenza aviaria l'Italia sarebbe uno dei Paesi europei meno preparati a fronteggiarla. Il governo italiano risponde che i ricercatori si sono sbagliati, perché hanno preso in esame il vecchio piano del 2002: «Il ministero della Salute ha offerto direttamente agli autori dello studio la nuova versione del Piano pandemico italiano alla fine di febbraio 2006, vale a dire due settimane dopo la sua approvazione, ma la risposta dei ricercatori», sostiene un comunicato del ministero, «è stata negativa perché avevano già chiuso l'analisi dei piani e inviato l'articolo per la pubblicazione. In conclusione, il ministero della Salute non ritiene attendibile lo studio inglese [...]». A febbraio 2006 ministro della Salute è Francesco Storace, oggi vicino alla Lega. Seguiranno altri sette ministri di destra, centro e sinistra: Livia Turco, Maurizio Sacconi, Ferruccio Fazio, Renato Balduzzi, Beatrice Lorenzin, Giulia Grillo e Roberto Speranza. Ciascuno assegnerà incarichi a funzionari, dirigenti e capidipartimento di proprio gradimento. Tra loro Ranieri Guerra, ora tra gli indagati nell'inchiesta della Procura di Bergamo, successivamente nominato il 9 marzo 2020 inviato personale in Italia del direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Ghebreyesus. Ma nessuno di loro, secondo i legali bergamaschi, trasforma il “work in progress” del piano pandemico in un vero sistema di difesa. E dopo quattordici anni di copia-incolla, per usare un paragone oggi drammaticamente attuale, la salute degli italiani va a schiantarsi nelle fauci della pandemia di Sars-CoV-2 come una funivia lasciata senza freni. Un piano pandemico, per essere efficace, non può limitarsi alle linee guida generali. La sua elaborazione deve stimare il fabbisogno di dispositivi di protezione individuale e di kit diagnostici e mettere a punto scorte e piani di approvvigionamento e distribuzione. Deve definire le modalità di diffusione delle campagne informative per i cittadini e anche stabilire i criteri di attuazione di isolamento, quarantena e sorveglianza attiva dei contatti. Il 25 febbraio 2020 all'inizio dell'emergenza italiana, durante la conferenza stampa della Protezione civile, Walter Ricciardi, appena nominato consigliere scientifico personale del ministro Speranza, dichiara: «Le mascherine alle persone sane non servono a niente». Se fosse davvero così, Ricciardi e Speranza dovrebbero spiegarci perché le mascherine sono, giustamente, ancora oggi obbligatorie. Ma soprattutto l'autorità giudiziaria dovrebbe finalmente verificare le eventuali conseguenze in termini di contagi e di vittime di un'affermazione ufficiale in contrasto con quanto dimostra un importante studio scientifico pubblicato dopo la prima epidemia cinese di Sars, la sindrome respiratoria acuta grave provocata da un altro coronovirus: «Le mascherine», dimostra infatti lo studio della London School of Hygiene and Tropical Medicine, smentendo l'opinione di Ricciardi, «fermano l'80 per cento dei contagi». Esistevano in Regione Lombardia gli scenari di fabbisogno di dispositivi di protezione commisurati agli scenari epidemici? Esistevano linee guida sui protocolli operativi per il contenimento delle infezioni nelle case di riposo? La risposta la dà l'ambasciatore americano in Italia già nel 2006. «Sapere che il piano pandemico del 2006 fosse un “work in progress” è un'ulteriore aggravante rispetto alle responsabilità sulla gestione pandemica fallimentare e un'ulteriore aggravante rispetto alle conseguenze letali che abbiamo avuto in Italia», commenta l'avvocata dei familiari delle vittime dell'ecatombe bergamasca, Consuelo Locati. «Chi oggi tra la stampa porta avanti la crociata della mancata attivazione del piano pandemico del 2006 e rincorre nelle aule delle procure i vari dirigenti del ministero della Salute per chiederne conto, dimostra non solo di non avere studiato e compreso la regolamentazione sanitaria internazionale, ma di prestare il fianco ai depistaggi narrativi di chi vorrebbe scaricare su una scelta politica del ministro della Salute, Roberto Speranza, quindici anni di negligenze e disinteresse che sono costati la vita a quasi 130 mila italiani», osserva il consulente dei familiari, Robert Lingard. «Sono omissioni che hanno costretto la task force prima ed il Comitato tecnico scientifico poi a mettersi a rabberciare un piano all'ultimo minuto provocando almeno due mesi di ritardo sulla scoperta del virus in Italia», aggiunge Lingard, «con tutte le implicazioni sulla diffusività dell'epidemia che ne sono conseguite. Pare dunque che l'omessa comunicazione del rischio e il tentato insabbiamento della mole di documenti prodotti tra gennaio e marzo 2020, non fosse tanto dovuta alle conseguenze che sarebbero scaturite dalla presa di coscienza della popolazione in merito alla presenza del virus sul territorio nazionale, quanto piuttosto al panico che sarebbe derivato dalla consapevolezza che era scoppiato un incendio e non solo l'allarme non era suonato in tempo, ma addirittura non c'erano gli estintori e le uscite d'emergenza erano bloccate. Se c'è una cosa che il ministro Speranza dovrà chiarire è il motivo per il quale si sia prestato a questo gioco di silenzi e misteri».

Coronavirus, Francesco Zambon contro Oms e Cina: "Report ritirato per ragioni politiche", così hanno insabbiato la pandemia. Libero Quotidiano il 10 maggio 2021. Francesco Zambon è il medico veneto che all’interno dell’Organizzazione mondiale della sanità si era occupato di coordinare la scrittura del report che segnalava i ritardi dell’Italia e soprattutto della stessa Oms nella gestione dell’epidemia di coronavirus. Zambon si è poi dimesso, ma ha scelto di non rimanere in silenzio, scrivendo anche un libro: alla luce di tutto ciò, sorge spontanea una domanda, ovvero, quanto è indipendente l’Organizzazione? Perché se è vero che c’è stato un problema italiano sul piano pandemico, allo stesso tempo il fronte più importante è quello internazionale. “Il 31 dicembre Taiwan ha captato autonomamente - ha dichiarato Zambon in un’intervista a La Repubblica - perché non gli era stato notificato dalla Cina, che c’era un’infezione di un virus nuovo. Taiwan non è uno Stato membro Oms. Lo stesso giorno ha allertato l’Oms di una possibile trasmissione tra uomo e uomo. L’Oms lo ha detto ufficialmente solo il 21 gennaio, sono passati venti giorni. Questo perché l’Oms non ascolta, per ragioni politiche, Taiwan. E Taiwan è uno degli Stati che ha avuto una reazione migliore al virus: ad oggi 12 morti”. Poi Zambon è tornato a parlare dei ritardi enunciati nel report e che lo hanno spinto a dimettersi: “Erano poche righe a pagina 2 di un lavoro collettivo. Ogni parola era verificata. Ma nessuno ha messo in dubbio le qualità scientifiche del lavoro, il problema è stato politico: come emerge dagli atti della procura di Bergamo, dalle chat, dalle mail, il report è stato ritirato per pressioni cinesi, principalmente. E poi perché si è ritenuto fosse troppo critico con l'approccio italiano.  Quello dell'Oms è stato un errore imperdonabile. E anche un campanello di allarme importantissimo. La domanda che cerco di porre è semplice - ha chiosato Zambon - l'Oms fa politica o si occupa di salute?”. 

Mezz'ora in più, Francesco Zambon e il piano pandemico insabbiato dall'Oms: "Speranza non ha detto la verità". Libero Quotidiano il 09 maggio 2021. "Sono stato approcciato da Transparency International (organizzazione internazionale non governativa che si occupa della corruzione, ndr), sono rimasti sconvolti da come l'Oms ha gestito l'intera vicenda, con progressivi insabbiamenti". Sono queste le parole di Francesco Zambon, ex ricercatore per l'Organizzazione mondiale della sanità e ospite di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più in onda su Rai Tre, a proposito del tanto criticato piano pandemico italiano. "Restare nell'Oms sarebbe stata la cosa più comoda, ho provato per un anno da dentro a cambiare le cose, ho trovato muri di gomma, ma poi ho scelto di uscirne per poter raccontare questa storia perché sia utile", ha spiegato ancora il ricercatore. Zambon è poi tornato sul ruolo del ministro della Salute, Roberto Speranza: "Speranza ha detto in Senato che gli attori di questa storia erano tutti d'accordo nella scelta di ritirare il rapporto spontaneamente, ma non è così.  Kluge (dir Omd Europa, ndr) disse che il ministro era molto seccato", ha rivelato Zambon. "Un funzionario dell'Oms non può bloccare un rapporto sulla base di un potere personale. Questo fa parte della sfera dei conflitti di interesse dentro e fuori dall'organizzazione", ha spiegato.

Zambon ha continuato a parlare del ruolo di Speranza: "Il ministro doveva essere informato del rapporto sul Covid in Italia da Ranieri Guerra (numero due dell'Oms, ndr), e non fu fatto. penso che Speranza non sapesse prima di questo rapporto, non prima che uscisse. Ma difficile pensare che dopo non ci sia stato coinvolgimento". Intanto il 13 maggio, a un anno dall'esplosione del caso che ha messo in crisi l'Oms sulla gestione italiana della pandemia, arriva in libreria proprio Il pesce piccolo. Una storia di virus e segreti il libro scritto da Francesco Zambon, dove  racconta la sua verità, gli errori e le coperture che hanno fatto del nostro paese "il grande malato".

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 15 maggio 2021. Nello scivoloso affaire del rapporto Oms sulla prima risposta dell'Italia al Covid-19, pubblicato il 13 maggio 2020 e ritirato dopo poche ore, finora mancava la voce di uno dei protagonisti. Quella di Ranieri Guerra. Il direttore vicario dell'Organizzazione mondiale della sanità è indagato a Bergamo per false dichiarazioni ai pm riguardo al mancato aggiornamento del piano pandemico 2006 e anche in merito alla storia del rapporto prodotto dal team veneziano di Francesco Zambon, ex ricercatore Oms. Ranieri Guerra, difeso dall'avvocato Roberto De Vita, ha accettato di rispondere alle domande di Repubblica.

Sapeva che Zambon avrebbe messo online il report?

 «Non ho saputo niente della versione finale e della pubblicazione. Alle 19.30 del 13 maggio Zambon mi comunica via mail, mettendo in copia Hans Kluge, (direttore regionale Europa a Copenaghen, ndr ) che era sul sito».

Lui dice che l'Oms ha dato l'ok.

 «Non è vero. Mi ero speso in prima persona e in buona fede per garantire le autorizzazioni che mi aveva chiesto di facilitare. All'inizio mi ha detto di averle ottenute quasi tutte, ma dai verbali della seduta valutativa emerge la richiesta dell'ufficio legale di Ginevra di verificare alcuni punti prima di esprimere il parere definitivo. Che, a quanto ne so, non è stato concesso».

Ha proposto 30 correzioni alla bozza. Perché?

 «Per migliorarne la qualità e correggere parti errate o esprimenti giudizi soggettivi che non erano supportati da fatti, quindi criticabili. Zambon accetta alcune correzioni, ma ne inserisce un altro centinaio».

Lei però voleva cancellare la parte sul Piano pandemico, che - secondo Zambon - era più teorico che pratico ed era fermo al 2006. Era una critica al governo italiano, che lei ha provato a togliere.

«Non è proprio così. Zambon, nella prima versione, parla di un Piano anti-influenzale in modo ambiguo, sostenendo che fornisse solo un quadro legale di riferimento. Invece il Piano del 2006 era vigente: si riferiva a un virus influenzale ignoto e provvedeva a scorte vaccinali e di antivirali. Zambon poi si dimentica di citare il Piano nazionale Covid, di cui era a conoscenza».

È stato capo della Prevenzione del ministero della Salute dal 2014 al 2017. L'aggiornamento spettava anche a lei.

«Ho compilato e aggiornato molte cose, lavorando incessantemente. Ho anche cominciato a mettere mano al Piano anti-influenzale, dato che nel frattempo si stavano generando le linee guida Oms, poi pubblicate nel biennio 2017-2018. Avevo lasciato una memoria alla ministra Lorenzin, che venne discussa brevemente con il Gabinetto. Il commento fu che non esisteva copertura finanziaria».

Non c'erano i soldi, dunque.

«Il mio successore, il dottor Claudio D'Amario, può spiegare cosa venne fatto, cosa non venne fatto e per quali motivi. Prima di me c'erano altri colleghi, dopo ce ne è stato un altro. Non capisco perché si imputi solo a me il mancato aggiornamento».

Torniamo al report. La mattina del 14 maggio viene tolto dal sito. Zambon ricevette email dall'Oms cinese che ne chiedeva la rimozione. Anche lei fece pressioni?

«Non ne avevo alcun motivo. Molte delle mie correzioni erano state adottate. La linea decisionale che porta al ritiro passa attraverso Zambon e Hans Kluge».

Nella chat con Silvio Brusaferro, però, lei sostiene di averlo fatto ritirare. Delle due l'una.

«Pezzi di chat incompleti e decontestualizzati nulla dicono rispetto alla verità, oggi documentalmente provata, su chi lo ha fatto ritirare. Ho spiegato al direttore generale Oms Tedros e a Kluge che il testo era stato pubblicato senza preavviso. Speranza aveva approvato l'indice e la copertina. Non è possibile pubblicare un testo del genere senza neppure comunicarlo all'autorità nazionale».

Secondo Zambon, spettava a lei.

«Come avrei potuto, se io stesso non ne sapevo nulla?»

Perché Speranza si lamentò?

«Mi disse lapidariamente "pubblicate un rapporto sull'Italia e non ne sappiamo niente". Aggiungendo che Kluge l'aveva chiamato per scusarsi».

Anche lei si è scusato, con una mail piuttosto goffa.

 «Speranza era all'oscuro. Le mie scuse nascevano dal fatto che non ero riuscito a convincere gli estensori a comunicarne contenuti e data di pubblicazione. L'Oms non commette mai questi sgarbi istituzionali».

Perché questa sudditanza? L'Oms non dovrebbe essere un organismo terzo e indipendente?

«Terzietà, autonomia e indipendenza dell'Oms non si giudicano sulla base di un rapporto, che, con tutto il rispetto per gli estensori, ha un valore alquanto limitato rispetto alla collaborazione che l'Oms ha prestato fin dalla prima fase dell'epidemia».

Qualcuno del governo italiano fece pressioni per ritirare il report?

«Non mi risulta. È una domanda da rivolgere a Kluge e a Zambon».

Non è l'arena, Massimo Giletti contro Roberto Speranza: "Quando si entra nei palazzi si perde la propria storia". Libero Quotidiano il 19 aprile 2021. Il tema del report dell'Oms "censurato" rischia di travolge il ministro della Salute Roberto Speranza, e forse per questo l'esponente di Leu sfugge alle telecamere di Non è l'Arena, che da mesi sul tema martella senza pietà le istituzioni. "Quando ci ha visti ha cambiato strada", denuncia l'inviato di Massimo Giletti, che lo aspettava al varo all'ingresso del Parlamento. Niente da fare, Speranza non vuole rispondere. E così il conduttore del talk domenicale di La7 si sfoga. In collegamento c'è Francesco Zambon, il funzionario dell'Oms che aveva redatto nel maggio 2020 un report sulla risposta del governo italiano alla pandemia considerato compromettente dal vicepresidente Oms Ranieri Guerra, che si sarebbe speso per farlo sparire. Uno scandalo fatto di pressioni e mail private che ha portato Zambon alle polemiche dimissioni e che ora vede proprio Guerra indagato dalla Procura di Bergamo. "Scusi Zambon, dopo tutto il casino, la sua dignità e il fatto che lei non ha ceduto l'ha chiamata per complimentarsi?". "No, assolutamente ma escluso anche che lo faccia", risponde l'ex funzionario. "Va bene - aggiunge gelido Giletti -. Sa cosa le dico? Quando si va nei palazzi si perde la storia da dove si è arrivati, si perde il modo di essere. Quando si diceva nei comizi vergogna, i politici che non rispondono. Che cosa sta facendo ora Speranza? Questa è la verità". 

La demolizione del "Modello Italia". Der Spiegel massacra l’Italia e la sua gestione del Covid: “Ha insabbiato la verità sui morti da Coronavirus”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Marzo 2021. Un atto di accusa senza mezze misure: “Prima venne il virus, poi l’insabbiamento”. Si intitola così il lungo reportage pubblicato oggi dalla rivista tedesca Der Spiegel dedicato all’Italia e alla gestione del governo Conte dell’emergenza sanitaria provocata dall’epidemia di Coronavirus. L’articolo prende spunto dalle denunce di centinaia di famiglia che dopo la morte dei propri cari hanno chiesto alla magistratura di fare luce sui fatti avvenuti dal febbraio del 2020. Le accuse nell’articolo firmato da Jan Petter sono gravi e, anche se in parte già note in Italia, ribadiscono in modo evidente le tante parti oscure ancora oggi da svelare nella gestione italiana dell’epidemia. Il giornale scrive infatti che “documenti mostrano che all’inizio della pandemia sono stati commessi e nascosti errori”, ricordando che alcuni di questi atti sono attualmente in mano alla Procura di Bergamo che indaga sulla mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro, inchiesta che ha visto sentire dai magistrati anche l’ex premier Giuseppe Conte, il ministro degli Interni Luciana Lamorgese e il ministro della Salute Roberto Speranza. “A breve deciderà se e contro chi procedere. Potrebbe essere il processo del secolo. A quel punto i sopravvissuti si potrebbero costituire parte civile”, scrive Der Spiegel. Il settimanale tedesco evidenzia che le accuse “sono serie: l’Italia avrebbe reagito troppo tardi e male alla pandemia. Il Paese sarebbe stato sovraccaricato, anche perché i piani di crisi erano datati e inadeguati. Gli errori commessi sarebbero stati mantenuti segreti. È per questo che la gente ha dovuto morire? Genitori, nonni, coniugi?”. Errori che non son più “solo tragici casi individuali” ma “fallimenti fondamentali e di insabbiamento”. Der Spiegel ritorna sulla storia ormai nota del mancato aggiornamento del piano nazionale pandemico, fermo al 2006, “nonostante il governo italiano si fosse impegnato e avesse riferito all’Oms solo settimane prima dello scoppio della pandemia di coronavirus che era ben preparato per un’emergenza”. Tuttavia “a maggio 2020 l’Oms constatava: "Senza essere preparati a un flusso di pazienti del genere, la prima reazione degli ospedali è stata improvvisata, caotica e creativa"”. La rivista amburghese rivela dunque di aver avuto accesso ad alcuni dei documenti consegnati dagli avvocati agli inquirenti, in cui verrebbero elencate ulteriori omissioni. Tra questi ve n’è uno di esperti italiani di statistica che rivela come già alla fine di febbraio del 2020 misero in guardia le autorità della Lombardia da un’epidemia con valore R al di sopra di 2.0: “un allarme valanga che evidentemente non è stato ascoltato”, si legge sul sito di Der Spiegel.

Le “Pandemie non autorizzate” di Pizzuti. Che tenta di far luce su un “giallo” mondiale. Cristiano Puglisi il 29 marzo 2021 su Il Giornale. La Pasqua 2021, in Italia e in gran parte del resto dell’Occidente, somiglierà moltissimo a quella del 2020: forzatamente casalinga e ricca di restrizioni. Così, mentre le famiglie seguitano a sperimentare la proiezione nella propria quotidianità dell’infinito pandemico, c’è un nuovo libro, fresco di pubblicazione, che punta a fare luce sugli aspetti più oscuri (e non sono pochi) della vicenda Covid-19. Si tratta di “Pandemie non autorizzate. I retroscena di un evento epocale che ha trasformato radicalmente lo scenario internazionale e la vita di tutti i giorni”, edito da Il Punto d’Incontro e scritto da Marco Pizzuti, saggista e divulgatore prolifico, ampiamente riconosciuto come voce autorevole negli ambienti della cultura cosiddetta “non allineata”. L’autore ritiene, tra le altre cose, che si possano tracciare con una certa sicurezza le origini del SARS-Cov-2. “Se stessimo indagando su un delitto – spiega infatti lo scrittore – avremmo già trovato l’assassino perché il movente e le prove indiziare sono schiaccianti. Ma partiamo dall’inizio. Come noto il primo focolaio d’infezione è stato individuato a Wuhan e secondo l’unica teoria accreditata dai governi, sarebbe giunto all’uomo dai serpenti o dai pipistrelli attraverso un salto di specie chiamato zoonosi. Ciononostante sono subito emersi dei dubbi sull’origine naturale del virus perché nella stessa città, nel 2014 è stato costruito un bio-laboratorio specializzato nella creazione dei virus ‘chimera’ più letali per l’uomo, ovvero di agenti infettivi ottenuti attraverso il potenziamento patogeno dei virus animali già esistenti in natura e per una straordinaria coincidenza, i virus utilizzati riguardavano proprio quelli dei pipistrelli per le vie respiratorie (tipo SARS). Seppur scarsamente noto a causa di narrazione mediatica a senso unico, un luminare di fama mondiale delle nano e micro tecnologie della biomedicina come il prof. Joseph Tritto, insieme al prof. Francis Boyle (redattore della legge antiterrosimo biologico USA) e molti altri Top scientist di cui ho raccolto le interviste, hanno dichiarato che il SARS-CoV-2 porta la firma della manipolazione genetica utilizzata per la creazione dei virus chimera. Gli scienziati cinesi del laboratorio di Wuhan però non hanno lavorato affatto da soli, bensì con i finanziamenti e la stretta collaborazione dei ricercatori americani, francesi, dell’OMS e dell’industria farmaceutica. Nel 2014 infatti, gli USA avevano bandito questo tipo di ricerche sul proprio territorio e il National Health Institute (finanziato anche da Bill Gates) e diretto da Antony Fauci (poi divenuto capo della task force antipandemica statunitense) oltre ad avere trasferito e finanziato la continuazione delle ricerche a Wuhan, nel 2017, durante una sua relazione alla Georgetown University, dichiarò con la sicumera precisione di una Cassandra, che entro due anni (il periodo che mancava alla fine della sua amministrazione) il presidente Trump si sarebbe trovato ad affrontare una pandemia! Poi, nel 2019, quando mancavano meno di due mesi alla scoperta dei primi casi di Covid, il John Hopkins Center for Health Security, in collaborazione con il World Economic Forum di Davos (riunisce tutti i super ricchi del mondo una volta l’anno) e la Bill & Melinda Gates Fondation, hanno simulato la scoppio di una pandemia nell’Event 201 Pandemic Exercise di New York. Notevoli coincidenze”. Nell’ultimo anno, le opinioni della cosiddetta “comunità scientifica”, non ultime quelle sui vaccini, sono spesso state contrastanti. Tanto che più di qualcuno ha iniziato a chiedersi se la stessa “comnità” possa essere considerata obiettiva…“Purtroppo – dice Pizzuti – la comunità scientifica non è un’assemblea in cui vige il libero confronto secondo il metodo galileiano. Gli scienziati sono migliaia e sono sparsi in tutto il mondo ma la letteratura scientifica accreditata dai governi è solo quella che viene pubblicata dalle grandi riviste scientifiche legate all’industria (senza i loro inserti pubblicitari fallirebbero) che sceglie cosa pubblicare e cosa no in base a criteri scarsamente trasparenti. La ricerca indipendente infatti è penalizzata dalla scarsità di fondi pubblici mentre le grandi case farmaceutiche possono finanziare molti studi a favore dei propri prodotto e l’ex direttore del British Medical Journal ha denunciato lo scandalo molto diffuso dei ghost writer, ovvero dei luminari strapagati da Big Pharma a titolo di consulenze per firmare come propri, gli studi redatti dai loro direttori di marketing che poi vengono pubblicati sulle riviste più prestigiose del mondo come scienza di “serie A”. L’ultimo scandalo ha coinvolto le riviste universalmente citate come la bibbia della scienza medica, il Lancet e il New England Journal of Medicine che hanno pubblicato entrambe uno studio farlocco sulla clorochina (un farmaco a basso costo che avrebbe potuto compromettere la necessità del vaccino) per dimostrarne l’inefficacia e la pericolosità e che poi si è scoperto invece essere stato redatto da una società creata ad hoc che tra i suoi 4 dipendenti aveva un’attrice porno e uno scrittore di fumetti fantasy come direttore scientifico. Nessuno può pubblicare su due riviste così prestigiose senza essere accreditati da qualcuno di molto influente e chi poteva avere interesse a gettare fango su un farmaco concorrente? Anche le grandi agenzie di controllo pubbliche come l’OMS e l’EMA (l’agenzia per il farmaco europea) in realtà sono sotto il diretto controllo delle case farmaceutiche private che finanziano i ¾ del bilancio del primo e l’84% della seconda. Esiste quindi un conflitto d’interessi intollerabile che priva le agenzie di controllo di qualsiasi autorevolezza. I controllori sono stipendiati dai controllati che possono decidere anche la loro carriera. Pensiamo ad esempio a quale credibilità potrebbe avere una sentenza emessa da un giudice il cui stipendio dipende dall’imputato che deve giudicare. Per questo motivo basta aprire un motore di ricerca delle banche dati scientifiche come pubmed per scoprire che tutte le ricerche finanziate dall’industria promuovono i suoi prodotti (in gergo si chiama funding effect, effetto finanziamento) mentre la ricerca indipendente produce spesso dei risultati opposti. Silvio Garattini, il più autorevole farmacologo italiano, ha ammesso in una mia intervista che su 10mila farmaci in carico al sistema sanitario italiano solo alcune decine sono realmente utili ed efficaci mentre il resto è li per ragioni diverse dalla medicina nonostante abbiano superato tutti i controlli e ottenuto tutte le autorizzazioni per essere immessi sul mercato. Un precedente che la dice lunga su questa pandemia? La pandemia suina del 2009 per la quale l’OMS, i media e gli esperti Tv avevano allarmato il mondo e alzato il livello di pericolo al massimo possibile per un virus meno patogeno dell’influenza stagionale. Almeno in quella occasione però, il British Medical Journal scoprì che gli esperti dell’OMS erano stati pagati dalle case farmaceutiche per scatenare il panico. Non venne comunque aperta nessuna inchiesta giudiziaria e i produttori del vaccino ormai avevano fatto affari d’oro anche se il loro “portentoso antidoto” non venne più utilizzato. Un’ultima cosa che non viene mai detta sui media, la Pfizer, la GlaxoSmithKline e le tutte altre grandi major farmaceutiche se fossero delle persone ricadrebbero nell’articolo del codice penale dei delinquenti abituali perché hanno incassato numerose condanne per reati gravissimi (dalla corruzione all’omissione degli effetti collaterali fino alla prescrizione di farmaci pericolosi i pazienti) in tutto il mondo. Nel lontano 1976 Henry Gadsen, allora direttore della MercK dichiarò alla rivista Fortune: ‘Il nostro sogno è produrre farmaci per le persone sane. Questo ci permetterebbe di vendere farmaci a chiunque’”.

Spesso si ha la sensazione che il clima di terrore che aleggia intorno a questo virus, che certamente esiste, sia stato cavalcato anche per altre finalità. È possibile? “Il Covid attualmente – sostiene l’autore – si può curare efficacemente anche da casa ma l’OMS e a cascata media e governi, continuano a far finta che l’unica soluzione possibile sia il vaccino sperimentale. La propaganda va avanti come un disco rotto senza nessun contraddittorio con gli scienziati critici e nonostante l’ultimo studio dell’università di Stanford abbia chiarito che i lockdown non portano alcun beneficio. Nel Comitato tecnico scientifico non c’era un solo virologo e gli scienziati catastrofisti che hanno bloccato le nazioni hanno sempre sbagliato tutto ma sono stati lasciati comunque sui loro altarini televisivi a predicare sventure e immani sacrifici: sia in Africa che in India e in Svezia, non è stata attuata nessuna campagna vaccinale e nessun rispetto dei distanziamenti eppure non si è verificata nessuna ecatombe mentre vaccinare durante un’epidemia comporta l’esplosione delle varianti come sanno anche gli studenti del primo anno di medicina. Si continua a mantenere una dittatura sanitaria inconcepibile rispetto alla reale entità del tasso di letalità del virus e si vuole rendere obbligatoria (allo studio il pass vaccinale già in uso in Israele) la vaccinazione anche su soggetti giovani che hanno più probabilità di morire per un effetto collaterale del farmaco (trombosi) piuttosto che di Covid. L’OMS prima ha colpevolmente ritardato a lanciare l’allarme, poi ha ostacolato le autopsie indispensabili per capire come andava trattato il nuovo virus e poi ha addirittura raccomandato l’incenerimento delle salme come se fosse la peste nera (oggi gli organi dei deceduti vengono trapiantati) e introdotto un sistema di computo delle vittime concepito per gonfiare le cifre (tutti i positivi deceduti, anche se asintomatici per il Covid morti per altre cause sono stati inclusi in statistica)”. A proposito dei vaccini, peraltro, è difficile non osservare come l’interesse dei media sia rivolto tutto a loro e, per contro, prossima allo zero sia l’informazione sulle possibili cure, presenti e future…“Molte migliaia di persone – ritiene Pizzuti – sono morte a causa delle cure sbagliate e fino a pochi giorni fa veniva ancora prescritta la tachipirina che allevia i sintomi ma lascia peggiorare la patologia. Quando i medici in prima linea hanno individuato i trattamenti giusti come la clorochina (molto efficace se assunta ai primi sintomi) e il plasma iperimmune, sono spuntate fuori le ricerche che ne ostacolano l’uso a favore del vaccino e degli anticorpi monoclonali brevettati e venduti a peso d’oro dall’industria ma meno efficaci del plasma ad alta titolazione”. Ci sono, peraltro, dei professionisti del settore medico che si sono opposti alle modalità con cui è stata e viene tutt’ora gestita la pandemia. Anche questo viene raccontato nel libro. “Migliaia di medici e giuristi di tutto il mondo – afferma lo scrittore – si sono uniti in associazioni per cercare di porre un freno alla dittatura sanitaria, ristabilire le libertà, sbloccare le cure efficaci e tornare alla normalità ma tutti i palazzi di potere stanno esercitando pressioni per l’esatto opposto. Sui media mainstream invece non c’è spazio per medici e scienziati fuori dal coro e i medici che hanno tentato di sgonfiare il panico come Zangrillo e De Donno, hanno dovuto subire un linciaggio mediatico che li ha costretti a ritirarsi dalla scena pubblica”. Dallo scoppio della pandemia si è parlato di “nuova normalità”. Un termine sospetto, perché usato contemporaneamente da tutti i principali centri di potere: dai governi alle organizzazioni sovranazionali. Sospetto perché, di solito, quando vi è un simile allineamento su determinate parole chiave, è presumibile che vi sia anche una certa dose di pianificazione. “Con questo tema – conclude al proposito Pizzuti – siamo arrivati al vero scopo dell’emergenza sanitaria che tiene in scacco il mondo intero ma per capire cosa sta succedendo, dobbiamo prima smettere di pensare alle case farmaceutiche solo come a dei produttori di farmaci. I pacchetti azionati delle big pharma infatti, sono detenuti dai colossi della grande finanza di Wall Street come Blackrock, State Street Corporation, Capital Group, Wellington Management Bank of America, Deutsche Bank, Morgan Stanley, JP Morgan, Ubs, Goldman Sachs, Royal Bank of Canada e Barclays che a loro volta controllano la grande editoria insieme ai social network (Bill Gates ad esempio ha i pacchetti azionari di FB). Le case farmaceutiche quindi sono le propaggini di un unico grande onnipotente agglomerato finanziario industriale in cui è difficile distinguere la testa dalla coda. Al vertice di questo impero oligarchico troviamo i super ricchi della Terra che ogni anno si riuniscono a Davos per il World Economic Forum (WEF) con i loro 1500 jet privati per decidere le sorti del mondo. Il WEF, insieme a Bill Gates (il patron dei vaccini) aveva profetizzato lo scoppio di una pandemia nell’ottobre 2019 (Event 201) e nei documenti che ha pubblico è stato espressamente dichiarato che il loro obiettivo da raggiungere entro il 2030 è la distruzione del vecchio ordine economico e sociale per stabilirne uno nuovo all’insegna del green e dell’ecosostenibile dove sopravviveranno solo le catene delle multinazionali. L’avvento della quarta rivoluzione industriale (intelligenza artificiale, robotica, 5G e digitalizzazione) renderà inutili grandi masse di lavoratori. Milioni di aziende indipendenti medio-piccole verranno fatte fallire e al contempo verrà introdotta una mancetta di povertà denominata reddito di cittadinanza universale. Questa è la nuova normalità che le elite hanno deciso per noi e che non sarebbe mai stato possibile realizzare in così breve tempo senza una pandemia con lockdown, fallimenti e aumento esponenziale del debito. Una pandemia che casualmente avevano anche previsto e che hanno espressamente dichiarato, essere un’occasione d’oro per il ‘Great Reset’. Lo stato di emergenza quindi durerà fino a quando il vecchio ordine economico e sociale non sarà stato completamente demolito perché come ha dichiarato l’organizzatore del WEF, Klaus Schwab, la normalità, non tornerà mai più”.

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 14 aprile 2021. Francesco Zambon non lavora più per l' Organizzazione mondiale della sanità. Dopo mesi "impossibili" ha dato le dimissioni, rinunciando a un contratto a tempo indeterminato, e ha lasciato l' ufficio di Venezia. Da dove, un anno fa, con il suo gruppo di lavoro, aveva scritto il rapporto della discordia, quello in cui si parlava del mancato aggiornamento del Piano pandemico italiano e di una reazione «caotica» e «improvvisata» del nostro Paese alla prima ondata del Covid: un documento pubblicato e rimosso nel giro di 24 ore dalla stessa Oms. «Negli ultimi mesi non potevo più lavorare, nessuno rispondeva alle mie richieste, come se ci fosse stata una reazione allergica nei miei confronti», racconta, ora che ha avviato una «revisione amministrativa» interna all' Oms, un complicato procedimento legale in cui «parto sconfitto, visto che il giudice e l' accusato di fatto coincidono: la prospettiva è di finire, forse, tra qualche anno al Tribunale nazionale del lavoro di Ginevra».

Ma, nel frattempo, ha capito cosa le hanno contestato?

«Niente, nessuno mi ha mai contestato nulla. Quando ho comunicato le dimissioni si sono anche detti molto dispiaciuti della mia decisione. A distanza di quasi un anno nessuno mi ha spiegato cosa ho fatto o scritto di sbagliato, quali fossero le inesattezze di quel rapporto sulla gestione dell' epidemia in Italia. Continuano a dire che era stato pubblicato prematuramente ed era pieno di errori, ma all' epoca aveva superato tutti passaggi di approvazione».

Quindi l' Oms sta mentendo?

«Hanno scelto una linea di difesa folle, oltre che facilmente confutabile. Tutto per supportare la versione data da Ranieri Guerra. Da Copenaghen avevano condiviso il nostro lavoro, c' era stata discussione e verifica, ci sono i moduli firmati dai vari responsabili, era tutto in regola. All' epoca non capivo, non sapevo cosa si muovesse sotto, ma dopo aver letto i messaggi delle chat di Guerra, diffusi in questi giorni, mi è tutto più chiaro».

Cioè?

«L' Oms, su pressione di Guerra, che aveva i suoi interessi personali, non ha voluto colpire l' immagine dell' Italia, in virtù di un accordo di tipo politico e a discapito della sua necessaria indipendenza. Ho letto lo scambio di messaggi tra Guerra e Brusaferro sulla possibilità di revisionare il rapporto, dopo che era stato ritirato: non esiste che l' Oms si metta a riscrivere un documento a quattro mani con l' Istituto superiore di sanità, cioè con il Paese oggetto del report. Un conto è informare il ministero della Salute dell' uscita del rapporto, fornendo alcune anticipazioni, un altro è scriverlo insieme».

Guerra sostiene che lei non volesse condividere il documento con le autorità italiane, l' ha accusata di scorrettezza istituzionale.

«Falso. Io il 14 aprile, un mese prima della pubblicazione, ho mandato via mail a Guerra l' indice con una sintesi dei vari capitoli. Certo, per le stesse ragioni di indipendenza, non potevo consegnare l' intero documento. Comunque, eravamo d' accordo che fosse lui, in quanto inviato in Italia dell' Oms, a girare il materiale al ministero. Del resto, io non ero autorizzato ad avere contatti diretti con il ministro Speranza o con il suo capo di gabinetto. Quando, un mese dopo, ho saputo che a Roma si erano straniti per l' uscita del rapporto, ho telefonato a Silvio Brusaferro, che conosco da tempo. Era molto infastidito, sosteneva che non avessimo avvertito, che non ci fosse stata condivisione e che Speranza fosse molto arrabbiato».

Quindi Guerra non aveva girato l' indice con i contenuti dettagliati?

«Non lo so, mi pare assurdo, ma la reazione di Brusaferro mi è sembrata genuina. In ogni caso, da quando hanno visto il rapporto, di certo non hanno fatto nulla per recuperarlo. Anzi, hanno appoggiato l' azione di Guerra per farlo sparire o, alla peggio, riscriverlo in modo edulcorato. Perché, anche se mesi fa negava di averlo fatto o di averne l' autorità, dai messaggi che mandava emerge chiaramente che Guerra si è mosso subito con questo obiettivo».

Per proteggere se stesso, prima ancora che il ministero o il governo?

«Il suo conflitto di interessi è enorme, ora è diventato evidente. Ma il punto non è solo Guerra, ma è che l' Oms non dovrebbe porsi il problema di non danneggiare un governo o non far arrabbiare un ministro con un proprio report indipendente. Un anno fa l' Italia era uno dei Paesi più colpiti dal Covid, quel rapporto conteneva informazioni che potevano essere utili ad altri Paesi per affrontare meglio la pandemia. Ritirandolo, l' Organizzazione è venuta meno alla sua missione».

Censura Oms, si dimette Zambon: "Situazione insostenibile". Report Rai l'11 marzo 2021. Si è dimesso Francesco Zambon, il capo dei ricercatori OMS che scrissero un rapporto critico sulla gestione della prima ondata Covid-19 da parte del governo italiano. Il rapporto era stato censurato proprio dall'OMS e fatto sparire frettolosamente dal sito, nonostante avesse il timbro di approvazione di Soumya Swaminathan, capo scienziato dell'ente. Report, grazie alla rivelazione di esclusivi documenti interni, aveva mostrato le pesanti pressioni fatte da Ranieri Guerra, numero due dell'agenzia delle nazioni unite, prima dell'uscita dello studio. Zambon già a maggio scorso aveva denunciato a Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'OMS, le ingerenze subite e i rischi reputazionali per la credibilità scientifica dell'Organizzazione. Ad oggi non solo non è mai stato emesso alcun provvedimento disciplinare verso i responsabili, ma lo stesso Zambon non è stato tutelato, al punto che l'OMS non gli ha riconosciuto nemmeno lo status di whistleblower. Report ha rintracciato Zambon, che conferma la notizia, parlando di un clima di crescente isolamento: "Per me era una situazione insostenibile umanamente e professionalmente". Alla domanda se sia stato costretto ad andarsene, Zambon ha preferito non commentare. Report tornerà a occuparsi dei gravi conflitti di interesse dell'OMS nella nuova stagione, in onda da aprile.

Dagospia l'11 marzo 2021. Da rai.it/programmi/report/. Si è dimesso Francesco Zambon, il capo dei ricercatori OMS che scrissero un rapporto critico sulla gestione della prima ondata Covid-19 da parte del governo italiano. Il rapporto era stato censurato proprio dall'OMS e fatto sparire frettolosamente dal sito, nonostante avesse il timbro di approvazione di Soumya Swaminathan, capo scienziato dell'ente. Report, grazie alla rivelazione di esclusivi documenti interni, aveva mostrato le pesanti pressioni fatte da Ranieri Guerra, numero due dell'agenzia delle nazioni unite, prima dell'uscita dello studio. Zambon già a maggio scorso aveva denunciato a Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell'OMS, le ingerenze subite e i rischi reputazionali per la credibilità scientifica dell'Organizzazione. Ad oggi non solo non è mai stato emesso alcun provvedimento disciplinare verso i responsabili, ma lo stesso Zambon non è stato tutelato, al punto che l'OMS non gli ha riconosciuto nemmeno lo status di whistleblower. Report ha rintracciato Zambon, che conferma la notizia, parlando di un clima di crescente isolamento: "Per me era una situazione insostenibile umanamente e professionalmente". Alla domanda se sia stato costretto ad andarsene, Zambon ha preferito non commentare. Report tornerà a occuparsi dei gravi conflitti di interesse dell'OMS nella nuova stagione, in onda da aprile.

- Le inchieste di Report sulla vicenda andate in onda tra novembre e gennaio scorsi.

Francesco Zambon, il capo dei ricercatori dell'Oms si dimette: aveva denunciato il piano pandemico dell'Italia. Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Si è dimesso Francesco Zambon, il capo dei ricercatori Oms che scrissero un rapporto molto negativo sulla gestione della prima ondata Covid-19 da parte del governo Conte 2. Il rapporto, censurato proprio dall'Oms, era stato fatto sparire anche dal sito, nonostante avesse il timbro di approvazione di Soumya Swaminathan, il capo scienziato dell'ente. La notizia, rilanciata da Report, arriva dopo la rivelazione di esclusivi documenti interni, "che avevano mostrato le pesanti pressioni fatte da Ranieri Guerra, numero due dell'agenzia delle nazioni unite, prima dell'uscita dello studio", rivela il programma condotto da Sigfrido Ranucci. Zambon già a maggio scorso aveva denunciato a Tedros Adhanom Ghebreyesus, il direttore generale dell'Oms. noltre aveva denunciato le ingerenze subite e i rischi professionali per la credibilità scientifica dell'Organizzazione. Ma nessun provvedimento disciplinare è stato emesso verso i responsabili, ma lo stesso Zambon "non è stato tutelato". Report ha rintracciato Zambon, che ha confermato la notizia, parlando di un clima di crescente isolamento: "Per me era una situazione insostenibile umanamente e professionalmente". Alla domanda se sia stato costretto ad andarsene, Zambon ha preferito non commentare. Lo stesso Zambon, ospite a gennaio di Non è l'Arena, aveva evidenziato i suoi problemi. "Da quando ha cominciato a denunciare intorno a lui si è creata solitudine", aveva ricordato Massimo Giletti. Zambon aveva parlato di una presunta postdatazione del piano pandemico per farlo sembrare aggiornato, oltre che di un misterioso dossier sulla gestione della pandemia in Italia, da lui redatto e poi scomparso. “Non ho ricevuto solidarietà dall’Oms. Mentre invece ho ricevuto una grande solidarietà dai cittadini italiani. La mia battaglia non è contro l’Oms ma al fianco dell’organizzazione", aveva detto. Ma evidentemente non è stato così. "Quando è uscito un articolo del Guardian, tradotto in 60 Paesi, che riguardava la mia vicenda, mi sarei aspettato che una parte dei 500 dipendenti degli uffici regionali mi mandasse una mail. Invece me m'è arrivata solo una, di una persona che quasi non conosco. Il mio legale è esperto di wistleblower, cioé di persone che denunciano 'da dentro'  mi aveva detto che si sarebbe generata la paura a parlare con me dopo la mia denuncia. Non gli credevo, ma è andata così". Oggi, venerdì 11 marzo, le sue dimissioni.

Così l’Italia è diventata ostaggio di Pfizer e AstraZeneca. Il contratto mai reso noto e una scelta non fatta dal governo Conte che poteva cambiare la lotta al virus. Carlo Bonini, Michele Tucci, Giuliano Foschini, Fabio Tonacci e Corrado Zunino su La Repubblica il 3 febbraio 2021. "Entro quattro mesi, ad aprile, l'Italia avrà 10-15 milioni di cittadini vaccinati" Giuseppe Conte, 31 dicembre 2020 "Un milione di italiani ha ricevuto il vaccino anti-Covid. L'Italia è prima in Ue per numero di persone vaccinate" Giuseppe Conte, 15 gennaio 2021 "Le notizie dalle aziende produttrici sono preoccupanti. Il numero di vaccini consegnati hanno avuto un taglio importante. Faremo causa" Giuseppe Conte, 23 gennaio 2021.

POTENTI. C'è un asse segreto rosso-verde dietro le quinte del Covid. Sono due gli uomini chiave nella gestione della pandemia. Uno è il capo di gabinetto del ministro della Salute Roberto Speranza. L’altro è il fedelissimo del governatore veneto Luca Zaia nella Sanità. Insieme esercitano il potere in modo trasversale. Paolo Biondani e Andrea Tornago su L'Espresso il 20 novembre 2020. Luca Zaia Che strane quelle coppie. C’è quella visibile. Il governatore del Veneto, ex pierre, agronomo, leghista non sovranista, riconfermato trionfalmente al timone della regione. E il pacifista di Modena, ex leader della sinistra giovanile, cinefilo, europeista, rieletto con il Pd per il secondo mandato in Emilia. Luca Zaia e Stefano Bonaccini. Governatori vincenti. In attesa di sfidarsi alle future elezioni nazionali, fanno vite parallele, con vistose convergenze: alle sedute della conferenza delle regioni, presieduta dal 2015 dallo stesso Bonaccini, parlano con una voce sola e decidono insieme le strategie sanitarie. Ma c’è anche un’altra coppia, sconosciuta ai più, in grado di incidere sulla gestione della medicina italiana ai tempi del coronavirus: due burocrati che contano più dei politici. Sono uomini-macchina di opposte appartenenze, che a loro volta si parlano, si confrontano. E si spalleggiano. Con la massima riservatezza. Un rapporto finora mai emerso, che da Venezia porta a Roma, al ministero della salute guidato da Roberto Speranza. E segnala un altro asse trasversale, questa volta sotterraneo, della politica italiana: un codice rosso-verde all’ombra del Covid. Il primo dei due burocrati-cerniera è il capo di gabinetto del ministro Speranza: si chiama Goffredo Zaccardi, ha 77 anni, è stato nominato nel settembre 2019, appena si è insediato l’attuale governo. Il secondo è l’ex direttore generale della sanità veneta, Domenico Mantoan, che negli stessi mesi è salito ai vertici delle più importanti agenzie nazionali. Entrambi vengono descritti come eminenze grigie della macchina amministrativa, molto esperti, capaci, efficaci. E discreti. Un rapporto finora sconosciuto, il loro, che va oltre la contingenza politica del momento. Zaccardi, fiorentino, ex consigliere di Stato, è stato capo di gabinetto di Pierluigi Bersani al ministero dello sviluppo (Mise) tra il 2006 e il 2008. E ci è tornato nel 2013 con un ministro veneto del Pd, Flavio Zanonato. Nella sua lunga carriera di funzionario di alto profilo del Deep State, però, Zaccardi ha servito diverse amministrazioni. Ha lavorato al Viminale, all’ufficio studi e legislazione, con i ministri dell’Interno della Dc, dal 1970 al 1978. Negli anni Ottanta è passato al ministero dell’Ambiente e alla Presidenza del Consiglio, diventando il consigliere giuridico del primo premier non democristiano, il repubblicano Giovanni Spadolini. Quindi è entrato al Quirinale, dove ha guidato il collegio di autodichia, l’organo giudiziario interno della Presidenza della Repubblica. Per misurare il suo peso sulla bilancia del potere reale, basta ricordare una data recente: il suo incarico al fianco dell’attuale ministro Speranza sarebbe dovuto terminare lo scorso 8 settembre, in base alla legge sui contratti dei pensionati pubblici, ma un’ordinanza della Protezione civile ha fatto un’eccezione per lui. Una deroga, che lo ha blindato al ministero per «garantire la continuità operativa» nell’emergenza coronavirus. Dove ora è al centro del pasticcio della sanità calabrese. Con tre commissari auto-annientati in due settimane: prima Saverio Cotticelli, l’ex generale nominato dalla ministra Giulia Grillo e riconfermato nel 2019 da Speranza, che non sapeva di doversi occupare del Covid; poi Giuseppe Zuccatelli, ex presidente dell’Agenas e candidato di Leu, travolto dalle polemiche per un video contro le mascherine; quindi Eugenio Gaudio, ex rettore della Sapienza, che a meno 24 ore dalla nomina se ne va spiegando a Repubblica che la moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro. Tre nomine veramente straordinarie, che dipendono direttamente dalla struttura del ministero. Guidata da Zaccardi, l’insostituibile. Come il suo contraltare veneto, che pure ha tutt’altra storia e carattere: Mantoan, 63 anni, vicentino di Brendola, per un intero decennio plenipotenziario di Zaia per la sanità. Ex ufficiale medico militare, una specializzazione in igiene e una in endocrinologia, nel 2009 è stato anche consulente del ministro Maurizio Sacconi, Pdl. E dal 2012 al 2017 consigliere di amministrazione dell’Agenas, l’agenzia che coordina i servizi sanitari regionali, nonché membro di diverse commissioni chiave. Il balzo finale è recente. Nell’autunno 2019, quando l’Agenzia per il farmaco (Aifa) ha bisogno di un nuovo presidente dopo mesi di stallo per le dimissioni di Stefano Vella (in polemica con il governo giallo-verde per la gestione sanitaria della nave Diciotti), Zaia fa il suo nome. E d’incanto Mantoan, mentre la Lega esce dal governo, conquista l’agenzia che controlla la spesa farmaceutica, facendo dimenticare le polemiche con i virologi e con l’ex ministro Beatrice Lorenzin sulla cosiddetta libertà di scelta per i vaccini: un omaggio veneto ai no-vax. Nonostante gli strali dei Cinquestelle e Leu a livello locale, tutte le regioni sono d’accordo. E a Roma è Speranza a firmare la nomina di Mantoan. Pochi mesi dopo anche l’Agenas si ritrova senza guida mentre la pandemia infuria. L’agenzia va commissariata e le regioni, unanimi, fanno al ministro lo stesso nome: Mantoan. Che grazie al decreto d’aprile assume ampi poteri di gestione dell’emergenza. Con tre ruoli che si sovrappongono: dg della sanità veneta, presidente Aifa, commissario Agenas. Il tris si riduce solo nelle scorse settimane, quando Speranza, sempre su proposta delle regioni, lo designa direttore dell’Agenas, ma gli chiede di lasciare l’Aifa, dopo essersi pensionato anche in Veneto. Il manager di Zaia, dunque, ha un ruolo chiave anche per lo staff del ministro Speranza. E un rapporto stretto con il suo capo di gabinetto. A documentare quanto sia radicato il legame tra i due burocrati è una serie di atti giudiziari della Procura di Padova, finora inediti. Nessuno dei due funzionari è mai stato accusato di nulla. Mantoan è stato però intercettato nelle indagini su un clamoroso omicidio stradale addebitato al suo autista, che secondo l’accusa fu salvato da una perizia falsa, firmata da un big veneto della medicina legale (un giallo raccontato dall’Espresso nei mesi scorsi). In quei giorni, ignorando che il suo ufficio di Venezia è imbottito di microspie, Mantoan parla apertamente, con un’amica, dei suoi incontri con il consigliere di Speranza. Che non hanno rilievo penale, ma un forte peso politico: Mantoan infatti riferisce che il mega-burocrate di Roma lo avrebbe addirittura informato «di un procedimento amministrativo e dei relativi accertamenti da parte della Corte dei conti». «Ho parlato con Zaccardi che ha parlato con un magistrato», scrivono gli investigatori che riportano le parole di Mantoan: «Mi vogliono fregare». I tabulati telefonici mostrano che non si tratta di colloqui isolati: tra Zaccardi e Mantoan ci sono «diversi contatti». «Mantoan dice che Zaccardi gli ha riferito che potrebbe arrivare dell’altro dalla Corte dei conti», riassume la polizia giudiziaria, «per cui gli ha suggerito di coprirsi il sedere». La vicenda intercettata riguarda il ruolo dell’Aifa nella fissazione dei prezzi dei farmaci: una questione che vale miliardi. E Zaccardi, stando allo stesso Mantoan, gli suggerisce pure la linea di difesa: «Prima possibile devono depositare una metodologia e certificare i criteri con cui vengono stabiliti i prezzi». Ma perché un funzionario del livello di Zaccardi, ex magistrato amministrativo e braccio destro di un ministro di sinistra, si preoccupa di aiutare l’uomo forte di Zaia? La risposta non sta nelle casacche politiche, ma nella realtà amministrativa: la gestione della sanità è costellata di accordi e intese che dalle regioni passano per Roma e poi tornano nei territori sotto forma di norme o protocolli nazionali. Tra i due governatori, Zaia e Bonaccini, ormai l’intesa è totale. E a gestire le pratiche sono proprio i burocrati. Il sistema di tracciamento dei contagi è saltato? «È necessario modificare il piano di sanità pubblica: i tamponi vanno fatti solo a conviventi e sintomatici»: parole di Zaia, dello scorso 24 ottobre, che si traducono in un’immediata lettera di Bonaccini al ministro Speranza. Il boom dei contagi manda in crisi i controlli? Basta con i vecchi tamponi molecolari, è tempo di test rapidi: sperimentati a Treviso da un microbiologo di fiducia di Zaia (dopo la rottura con il professor Andrea Crisanti), vengono inviati a Roma per la valutazione dell’Istituto Spallanzani e infine adottati dalla conferenza delle regioni. Le ordinanze auto-decretate dai governatori possono evitare la zona rossa decisa da Roma? Certo: Zaia, Bonaccini e Massimiliano Fedriga, presidente leghista del Friuli, le scrivono a sei mani. E la quarantena? Il coro si ripete: «Va ridotta da 14 a 10 giorni». Sono necessari due tamponi negativi a distanza di almeno tre giorni, per essere dichiarati guariti? «No, ne basta uno». I nuovi test per la ricerca del virus vanno prima validati da istituzioni indipendenti? «Non serve, adottiamo automaticamente quelli usati dai Paesi del G7». Sono tutte cose che «io e Luca, lo può confermare lui, chiedevamo da settimane», precisa Bonaccini il 13 ottobre scorso ai microfoni di Bianca Berlinguer, in una doppia intervista con Zaia. Detto, fatto. In questo come in molti altri casi. E così, all’asse Zaia-Bonaccini, finisce per allinearsi anche il ministro Speranza, del resto costretto dall’inizio a scendere a patti con le regioni governate in maggioranza dal centrodestra. Intanto il rapporto tra burocrati applica il codice rosso-verde anche a temi di più ampio respiro. Come la riforma della sanità territoriale, che il ministero in estate aveva affidato a un gruppo di lavoro presieduto proprio dal capo di gabinetto Zaccardi. L’intesa sul futuro dei medici di base, per ora, è saltata. Ma la prima regione a sperimentare uno dei nuovi istituti previsti dal governo, l’infermiere di famiglia, è proprio il Veneto di Zaia e Mantoan. E i grillini, che nel precedente esecutivo reggevano il dicastero della Salute? L’attuale vice-ministro, Pierpaolo Sileri, litiga da mesi con il Comitato tecnico scientifico («troppa burocrazia») e lamenta di non poter leggere i documenti riservati e neppure i dati completi sull’epidemia. La sanità ai tempi del coronavirus, insomma, è doppiamente rosso-verde. E i Cinquestelle stanno a guardare.

"Il Cts operava in segreto. Ecco perché parlai del Piano". Un nuovo tassello emerge dai documenti inediti. Spunta la missiva del direttore generale al ministro della Salute. Giuseppe De Lorenzo - Dom, 07/03/2021 - su Il Giornale. Una scusa un po' raffazzonata. Le “tensioni” che fanno dire cose errate. Lo scaricabarile sulla giornalista che “enfatizza” il contenuto delle dichiarazioni. Infine il “rammarico” per l’incidente di percorso nella speranza che l’inciampo non produca un taglio delle teste. Non c’è solo la lettera spedita ad Andrea Urbani dal ministro della Salute, e rivelata ieri dal Giornale.it, sull’ormai mitologico “piano segreto”. Nel faldone di documenti prodotti dall’Avvocatura dello Stato nel ricorso al Consiglio di Stato emerge anche la risposta che il direttore generale della Programmazione inviò preoccupato per giustificare quella “incauta” intervista. Siamo al 22 aprile, sede del ministero della Salute. Il giorno prima, il 21, il Corriere ha pubblicato le dichiarazioni di Urbani sul “piano nazionale emergenza” per contrastare il coronavirus. Pagine in cui “sono scritti gli orientamenti programmatici che hanno ispirato le scelte del governo”, con tanto di “scenari” talmente “drammatici” da non poter essere divulgati. E quindi secretati. Dopo le rivelazioni del direttore generale della Prevenzione il mondo politico e mediatico è in subbuglio. Cosa c’era scritto in quel “Piano”? E se il governo sapeva che il virus avrebbe travolto l’Italia, perché non l’ha mostrato ai cittadini? E perché Urbani ha ben pensato di rendere pubblica l’esistenza di questo documento proprio adesso? Sulla scrivania di Urbani c’è la missiva ricevuta da Speranza (leggi qui). Il tono è duro, non ammette repliche. Il ministro è infuriato. Ritiene le affermazioni rilasciate dal dg alla stampa siano “erronee”, visto che si riferiscono “ad uno studio in corso di definizione”, “non validato da alcun soggetto pubblico” e “non adottato”. Non un “Piano”, dunque. Solo uno “studio” in divenire. Speranza si mostra indignato perché, “ove si trattasse di un atto secretato”, il suo direttore avrebbe “violato le più basilari regole di correttezza e diligenza” dei dipendenti pubblici. E avrebbe anche provocato “una situazione di forte disagio istituzionale anche tenuto delle possibili ripercussioni delle sue affermazioni sull’opinione pubblica”. Come in effetti è stato. Urbani risponde il giorno successivo per fornire la sua versione dei fatti. “Mi rendo conto che nella congerie di avvenimenti - si legge - e nelle tensioni del lavoro che ci impegna da diversi mesi sono stato portato a rilasciare dichiarazioni il cui contenuto è stato enfatizzato in alcuni aspetti significativi dalla giornalista”. Non si capisce, però, per quale motivo una cronista avrebbe dovuto esagerare frasi che, già di per sé, sono sufficienti a garantire un titolo da prima pagina. Perché citare un atto ‘secretato’ se non vi era alcun segreto? E perché parlare di “Piano” se era solo uno “studio”? Quanto riportato nel pezzo, peraltro, non verrà mai smentito ufficialmente da Urbani. Solo ritrattato. “Ho utilizzato l’espressione "piano secretato" - scrive al ministro - in quanto il "piano" era in elaborazione e il ‘secretato’ era riferito alle modalità con le quali operava il Comitato tecnico scientifico nei propri lavori”. Qualcosa però non torna. È vero che in quei frangenti il Cts lavorava “nell’ombra”, e che espressamente chiese la riservatezza sul “Piano nazionale di risposta ad una eventuale epidemia da Covid-19”. Ma quel Piano nasce a metà febbraio come ricostruito nel Libro nero del Coronavirus (clicca qui): il 12 viene dato mandato a un gruppo di realizzarlo, il 20 febbraio lo presentano in bozza a Speranza e il 2 marzo il Cts lo approva nella sua prima “versione finale”. Urbani parlava invece di un documento di gennaio. Cosa conteneva? Posto che non si tratta di un errore di datazione (nell’intero ricorso al Consiglio di Stato, l’avvocatura non prende mai in considerazione questa ipotesi), cosa è quell’atto cui si riferiva Urbani? E poi: è veramente del 20 gennaio o successivo? Per Speranza la “necessità di elaborare uno studio” emerge “durante i lavori della task force”, quindi dopo il 22 febbraio, ma non spiega esattamente quando. Lo si potrebbe evincere dai verbali della task force, peccato non siano pubblici. Per l’avvocatura l’incomprensione sta nel fatto che il direttore generale si riferiva alle “prime bozze elaborative di un futuro eventuale Piano, bozze che sono confluite, perdendo ogni distinguibilità, in ulteriori e successive più ampie elaborazioni”. Cioè nel Piano vero e proprio redatto dal Cts. Ma come è possibile che il dottor Urbani se ne vada tranquillamente ai giornali a dire che sin "dal 20 gennaio” c'era "un piano secretato” spacciando per "pronta" una brutta copia? Ce ne vuole di fegato per far passare una banale “bozza” per un piano riservato, no? Inoltre il dirigente assicurò che "quel piano" era stato "seguito" nelle prime fasi dell’epidemia. Ma come si può "applicare" una bozza? In attesa che il puzzle si componga del tutto, restano alcuni interrogativi e poche certezze. Una di queste è che, nonostante lo scivolone mediatico, Urbani è rimasto saldamente al suo posto. "Non ha chiesto scusa - attacca Galeazzo Bignami, deputato FdI - ma soprattutto non ha smentito quanto detto in quella intervista: è arrivato il momento di chiarire agli italiani come stanno le cose. Chissà se ad evitare scossoni è servita la missiva di scuse piena di “rammarico” per l'“incidente di percorso”. “Da parte mia - scriveva preoccupato ad aprile il dg - non incide sul telaio di rapporti istituzionali e, spero, anche personali che si sono instaurati in questo periodo di collaborazione, segnato da un evento di dimensioni impensabili ed epocali, che ci ha visto entrambi impegnati all’estremo”.

Speranza, la lettera mai vista: "Se era un piano segreto, lei…" Il carteggio riservato dopo le notizie sul "piano segreto". Speranza infuriato: "Informazioni riportate incautamente". Giuseppe De Lorenzo - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. Martedì 21 aprile, interno giorno. Ufficio del ministro della Salute. Roberto Speranza sfoglia il Corriere della Sera, arriva a pagina 11 gli si accappona la pelle. Lo immaginiamo così il momento in cui il ministro scopre l'avventata intervista rilasciata da Andrea Urbani, direttore generale della Prevenzione e membro importante del Comitato tecnico scientifico anti Covid. Uno choc cui segue per reazione una missiva di fuoco - che ilGiornale.it mostra in esclusiva - inviata al "caro Andrea" e che segna il primo atto della "strategia difensiva" del dicastero per riparare al vespaio di polemiche provocato dal suo direttore generale. Per capire facciamo un salto indietro, come già ampiamente ricostruito nel Libro nero del coronavirus. Il 20 aprile, un giorno prima del patatrac, il Corriere della Sera pubblica un’inchiesta su "errori, omissioni e sottovalutazioni" che hanno accompagnato i primi mesi di pandemia. Nel pezzo si parla della (folle) decisione di bloccare i voli dalla Cina lasciando il "buco" degli scali intermedi, ma anche di silenzi normativi, assenza di mascherine ed altre questioni già emerse nell’inchiesta di Inside Over di alcuni giorni prima. Forse per "rispondere" all'articolo del Corsera, i tecnici del ministero della Salute si sentono in dovere di replicare. E il giorno successivo Urbani smentisce "vuoti decisionali" rivelando urbi et orbi l’esistenza del "Piano segreto": "Già dal 20 gennaio - dice - avevamo un piano secretato e quel piano abbiamo seguito. La linea è stata di non spaventare la popolazione e lavorare per contenere il contagio". L’articolo scatena un pandemonio. Possibile che il documento fosse pronto due giorni prima (20 gennaio) della nascita della task force ministeriale (22 gennaio)? E cosa c'è scritto dentro? Le Regioni, Lombardia in testa, si chiedono per quale motivo il governo non abbia condiviso con loro le previsioni di scenari così drammatici. In fondo l'Italia ha vissuto l'epopea degli aperitivi di Zingaretti, di “Bergamo non si ferma”, degli appelli di Sala ai milanesi: se il Paese fosse stato messo al corrente del rischio cui correva incontro, non avrebbe forse maturato prima la consapevolezza del pericolo? La tesi del ministero, riaffermata in un ricorso presentato al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar che la obbliga o mostrare il Piano, è ormai nota (leggi qui). Viale Lungotevere Ripa sostiene non esista alcun "Piano segreto", ma solo uno "studio" istruttorio, una bozza insomma, poi confluita in un "piano" vero e proprio realizzato dal Cts tra fine febbraio e marzo (leggi qui). Questa strategia difensiva emerge già dalla minuta vergata il 21 aprile da Speranza e spedita al direttore generale della Prevenzione Non potendo negare che un "qualcosa" esistesse già a gennaio, con tono distaccato il ministro sembra voler dettare al suo dg la linea da tenere. "Con evidenza - si legge - [il ‘Piano’] si trattava di un mero documento di studio, non validato da alcun soggetto pubblico deputato a pronunciarsi su tali temi delicati. Rammendo infatti che la necessità di elaborare uno studio di tenore analogo (…) è emersa durante i lavori della task force sul nuovo coronavirus, istituita dal Ministero della Salute il 22 gennaio 2020. Il 12 febbraio la prima versione di tale documento, successivamente aggiornata fino al 4 marzo, è stata presentata per il necessario approfondimento al Cts, i cui lavori si sono svolti in forma riservata”. Si tratta, in fondo, di quanto già contenuto nello scarno comunicato divulgato in quelle ore anche ai media. Poi però Speranza passa anche a strigliare Urbani per "l'erroneità delle affermazioni" rilasciate. Dalla prosa trapela irritazione per il caos politico provocato. "Le dichiarazioni e le notizie da lei fornite incautamente alla stampa - si legge - sono riferite ad uno studio in corso di definizione e non adottato. Le rammento inoltre che, ove si trattasse di un atto "secretato", lei avrebbe violato le più basilari regole di correttezza e diligenza che tutti i dipendenti pubblici sono tenuti ad osservare, determinando una situazione di forte disagio istituzionale anche tenuto delle possibili ripercussioni delle sue affermazioni sull’opinione pubblica". Resta tuttavia da capire cosa vi fosse scritto esattamente in quello “studio” elaborato da ministero, Iss e Spallanzani a gennaio. Poco importa se poi è confluito in un lavoro più organico del Cts, se era solo una bozza o una analisi istruttoria. "Nella lettera il ministro di fatto non smentisce l'esistenza di un documento a gennaio", dice Galeazzo Bignami, deputato di FdI che insieme al collega Marcello Gemmato è ricorso al Tar per ottenere un po' di chiarezza. "Che fosse un piano completo o altro, è arrivato il momento che Speranza lo fornisca agli italiani. Affinché tutti possano valutare l'operato di chi ha gestito l'epidemia".

Virus, ora spunta un altro atto. ​Il mistero del "Piano Urbani". Il ministero ricorre al Consiglio di Stato e si complica l'affaire "piano segreto". Quell'incontro tra Speranza e Urbani. Giuseppe De Lorenzo - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Quando sei convinto che sia tutto finito, ecco il colpo di scena. La faccenda del “piano segreto anti Covid”, che si prolunga ormai da quasi un anno e che nel Libro nero del coronavirus (clicca qui) è stata ampiamente documentata, sembrava arrivata ai titoli di coda con la pubblicazione da parte del Ministero della Salute del “Piano” elaborato in seno al Cts. In tanti, nonostante fosse trapelato sui media, lo volevano ottenere ufficialmente: i familiari delle vittime, i deputati, i cittadini. Un desiderio di trasparenza che si pensava finalmente soddisfatto con il file caricato sul sito della Salute. E invece no. Sorprende scoprire oggi, grazie al ricorso al Consiglio di Stato presentato dal ministero, che in realtà quel documento non è affatto il “piano secretato” citato da Andrea Urbani nella ormai famosa intervista di aprile. E che quindi la vicenda non si è ancora conclusa.

Partiamo col dare un nome ai documenti, così da evitare fraintendimenti:

- Per “Piano Urbani” si intende il fantomatico documento citato dal dirigente nell’intervista.

- Con “Piano nazionale anti-Covid” ci riferiamo al “Piano nazionale sanitario in risposta ad una eventuale emergenza pandemica da Covid-19”, redatto dal Cts e pubblicato pochi giorni fa sul sito.

L'intreccio delle date. Saremo sinceri: eravamo convinti si trattassero dello stesso atto. E che l'incomprensione fosse il frutto di un errore di datazione (così ha scritto nel suo libro pure Speranza). Sappiamo infatti che il “Piano nazionale anti Covid” sorge e si consolida tra febbraio e marzo: il 10-12 febbraio nasce il gruppo di lavoro del Cts che deve elaborarlo, il 20 una prima bozza viene presentata a Speranza con tanto di slide, poi il Comitato lo analizza più volte fino al 2 marzo con l'approvazione nella sua “versione finale” (e secretata). Urbani invece nell’intervista al Corriere disse che “già dal 20 gennaio avevamo pronto un piano secretato e quel piano abbiamo seguito”. Gennaio, dunque. Non febbraio o marzo. Abbiamo sempre pensato ad un errore, del giornalista o del direttore generale della Prevenzione poco importa: eravamo certi che il “Piano” citato da Urbani fosse quello di febbraio-marzo formalizzato dal Cts. Invece a quanto pare un “qualcosa” già c'era a gennaio, e non è ancora stato pubblicato.

L'incontro Speranza-Urbani. Torniamo allo scorso aprile. Pochi giorni dopo l'intervista, Speranza e Urbani si incontrano per parlare delle "incaute e inessatte" frasi pubblicate sui quotidiani. Nell'interlocuzione il dirigente smentisce "quanto riportato nell'articolo di giornale" e riconosce di aver rilasciato "dichiarazioni il cui contenuto è stato enfatizzato in alcuni aspetti significativi in alcuni dalla giornalista". Urbani spiega inoltre al ministro di aver “utilizzato l'espressione ‘piano secretato’ in quanto il ‘piano' era in elaborazione e il ‘secretato’ era riferito alle modalità con le quali operava il Comitato tecnico scientifico nei propri lavori”. L'avvocatura nel suo ricorso ne deduce dunque che a gennaio "non vi era alcun Piano pronto né un Piano segreto", e che i documenti cui si riferiva Urbani erano solo "le prime bozze elaborative di un futuro eventuale Piano, bozze che sono confluite, perdendo ogni distinguibilità, in ulteriori e successive più ampie elaborazioni”.

Come nascono i Piani. In sostanza, stando alla ricostruzione dell'avvocatura, i fatti si sarebbero svolti così. Verso fine gennaio la task force di Speranza lavora a un "qualcosa" in caso di pandemia. Il 10 febbraio il Cts decide di costituire un gruppo di esperti per lavorare su modelli di risposta ai diversi scenari possibili. Due giorni dopo, il 12 febbraio, il Comitato ascolta la relazione del prof. Merler e i suoi calcoli drammatici. A quel punto viene dato mandato “ad un gruppo di lavoro interno” di “produrre, entro una settimana, una prima ipotesi di piano operativo” contro il Covid. Gli esperti si mettono al lavoro e il Cts intanto acquisisce sia lo studio di Merler che altre “elaborazioni del Ministero della Salute”, prodotte anche utilizzando “il documento istruttorio qui definito come ‘Piano Urbani’”. Tradotto: l'atto citato da Urbani, prodotto dalla task force, sarebbe confluito in una elaborazione che poi il ministero avrebbe girato al Cts, che a sua volta lo avrebbe utilizzato per realizzare un più corposo “Piano nazionale anti-Covid”. Una catena di Sant'Antonio.

Cosa è davvero il Piano Urbani? Resta però un enorme punto interrogativo: cosa è davvero questo benedetto “Piano Urbani”? L’avvocatura lo definisce un “atto preparatorio”, un documento “istruttorio”, una “bozza”. Quindi nega di fatto che sia un Piano vero e proprio. Ma come è possibile che il dottor Urbani se ne vada tranquillamente ai giornali a dire che sin "dal 20 gennaio” c'era "un piano secretato” spacciando per "pronta" una brutta copia? Ce ne vuole di fegato per far passare una banale “bozza” per un piano riservato, no? Inoltre Urbani assicurò che "quel piano" era stato "seguito" nelle prime fasi dell’epidemia. Come a dire: eravamo pronti, lo abbiamo scritto e pure applicato. Ma come si può "applicare" una bozza? Qui allora le possibilità sono tre: o Urbani, per smentire "vuoti decisionali" nello scorso gennaio, ha millantato con i cronisti un piano che nei fatti non c’era (il che sarebbe grave: il dirigente è ancora membro del Cts); o si fa confusione sulle date; oppure l’avvocatura si sta arrampicando sugli specchi.

Perché non rivelare la "bozza"? Prendiamo comunque per buono il fatto che il Piano Urbani fosse solo "un mero documento di studio e istruttorio". Sorge comunque un altro dubbio: perché quando due parlamentari FdI (Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato) e non pochi giornalisti lo chiedono, viene più volte negato? In fondo, benché una "bozza", si tratta comunque di un documento rilevante: sono le prime informazioni da cui è partita l'azione del ministero, dunque di enorme interesse. Ma soprattutto: perché il ministero, Miozzo e pure Speranza confondo le acque citando più volte a sproposito lo studio Merler? Il motivo della mancata trasparenza per l’avvocatura sta nel fatto che i lavori del Comitato erano svolti “in forma riservata” e “il materiale istruttorio utilizzato dal Cts era classificato come ‘riservato’”. Inoltre, secondo l’Avvocatura, la legge permette sì ai cittadini di accedere ai documenti della pubblica amministrazione, ma non a tutti: non si possono avere "gli atti preparatori" prima che quello definitivo venga emanato. Ed è qui che casca l’asino: secondo il ministero, infatti, il "Piano Urbani" è "un atto interno ad un procedimento", cioè una bozza di natura "essenzialmente istruttoria e valutativa, senza un’investitura formale del ministero". Quindi Speranza non è costretto a pubblicato.

Fatto sta che, a questo punto, diventa dirimente sapere cosa fosse contenuto in quell'"atto istruttorio” citato da Urbani. Poco importa se era un “Piano” vero e proprio, oppure no. Chiamatelo “carciofo”, se volete: non è il titolo la questione. Qui diventa politicamente scottante sapere quali informazioni erano contenute nel documento, così da capire se il ministero ha reagito correttamente nelle prime fasi della pandemia. Non è pignoleria, la nostra: si chiama trasparenza. 

Da leggo.it il 23 febbraio 2021. L'Italia avrebbe mentito sul Covid all'Oms. Queste sono le accuse fatte dal “Guardian” online. L'Italia, secondo il giornale, potrebbe aver fuorviato l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sulla sua preparazione ad affrontare una pandemia, il tutto meno di 3 settimane prima che fosse confermato il primo caso di coronavirus a trasmissione locale del Paese, il paziente 1 Mattia a Codogno. La testata britannica sostiene infatti di aver visto l'ultimo rapporto di autovalutazione compilato dall'Italia il 4 febbraio 2020. Nella sezione C8, dove i Paesi devono valutare la loro preparazione complessiva a rispondere a un'emergenza sanitaria pubblica, l'autore del documento segna l'Italia nel 'livello 5', il più alto. Si tratta di un'autovalutazione che ogni anno i Paesi vincolati dal Regolamento sanitario internazionale (Ihr), trattato finalizzato a combattere la diffusione globale delle malattie, sono tenuti a presentare all'Oms per dichiarare lo stato della loro preparazione in caso di emergenza sanitaria. Il livello 5, illustra il Guardian, equivale a dire che nel Paese che si colloca in questa categoria il "meccanismo di coordinamento della risposta alle emergenze del settore sanitario e il sistema di gestione degli incidenti collegato a un centro operativo nazionale di emergenza sono stati testati e aggiornati regolarmente". Tuttavia, fa notare l'autore del servizio, "lo scorso anno è emerso che l'Italia non aveva aggiornato il suo piano pandemico nazionale dal 2006, fattore che potrebbe aver contribuito ad almeno 10mila morti di Covid-19 durante la prima ondata e che è un elemento chiave nell'inchiesta della Procura di Bergamo sui presunti errori da parte delle autorità". Il documento di autovalutazione è stato consegnato alla Procura "come ulteriore prova", e supporta l'azione civile avviata dalle famiglie delle vittime di Covid a dicembre per presunta negligenza nella gestione della pandemia. Un'azione che si affianca a quella penale. Sotto i fari dell'inchiesta di Bergamo c'è la mancata zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro dove, a 2 giorni dal paziente 1 di Codogno, era stato intercettato un ampio focolaio di Covid-19. Mentre però a Codogno e altri 9 Comuni del Lodigiano, e in Veneto a Vo' Euganeo, era stata decretata subito la zona rossa, ad Alzano l'ospedale è stato riaperto e la provincia di Bergamo è entrata in lockdown insieme a tutta la Lombardia 2 settimane dopo. La Procura ha sentito l'ex premier Giuseppe Conte, i ministri della Salute Roberto Speranza e dell'Interno Luciana Lamorgese, e il governatore lombardo Attilio Fontana. Ma anche l'attuale segretario generale del ministero della Salute, che è stato Dg della prevenzione sanitaria dal 2012 al 2014, Giuseppe Ruocco. Ruocco - riporta il media Gb - avrebbe confermato ai pubblici ministeri che il piano pandemico è stato redatto l'ultima volta nel 2006 (andava riaggiornato secondo le linee guida Oms nel 2013 e nel 2018), e avrebbe così contraddetto il rapporto di autovalutazione dell'Italia del febbraio 2020. In un'analisi di questo documento di autovalutazione, eseguita da Pier Paolo Lunelli, generale dell'esercito in pensione, 60 risposte su 70 fornite dall'Italia sono state giudicate "infondate", riporta ancora il Guardian, che cita un passaggio di questa analisi nella quale Lunelli scrive: "Abbiamo mentito sostenendo che eravamo pronti", "dichiarando di avere capacità che, alla luce dei fatti, non avevamo". L'avvocato che rappresenta le famiglie delle vittime di Covid, Consuelo Locati, ha annunciato che scriverà al nuovo premier Mario Draghi per chiedere una legge sull'indennizzo per i parenti delle vittime del coronavirus.

Oms "ingannata" sul piano pandemico. Le bugie dell’Italia all’Oms: il Guardian accusa il governo di aver mentito sulla gestione della pandemia. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Febbraio 2021. Il governo italiano avrebbe “ingannato” l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, in merito alla sua preparazione nell’affrontare una pandemia soltanto tre settimane prima del primo caso coronavirus "ufficiale" nel Paese. È quanto sostiene il quotidiano britannico Guardian, che cita a sostegno di questa tesi il rapporto di autovalutazione, datato 4 febbraio 2020, nel quale l’Italia si qualificava invece nel livello più alto, il cinque. Il giornale tira in ballo in particolare il Ministero della Salute guidato da Roberto Speranza, confermata anche nell’esecutivo a guida Mario Draghi. Proprio quel rapporto di autovalutazione, inviato all’Oms dall’allora direttore generale della Prevenzione del Ministero della Salute Claudio D’Amario, è finito ieri nelle mani del pm di Bergamo, titolare dell’inchiesta sulla gestione della crisi del coronavirus che nei mesi scorsi hanno sentito l’ex premier Giuseppe Conte, i ministri della Salute Roberto Speranza e dell’Interno Luciana Lamorgese, e il governatore lombardo Attilio Fontana. Nel rapporto italiano veniva riportato che “il meccanismo di risposta alle emergenze nel settore sanitario e il sistema di gestione degli incidenti collegato a un centro operativo nazionale sono stati testati e aggiornati regolarmente”. Una circostanza ormai notoriamente non corretta: da tempo è emerso che l’Italia non aveva aggiornato il suo piano pandemico nazionale dal 2006. Un fatto questo che, come sottolinea il Guardian, “potrebbe aver contribuito ad almeno 10.000 morti per Covid-19 durante la prima ondata”. Il mancato aggiornamento del piano pandemico è anche uno dei punti cardine dell’inchiesta di Bergamo: l’Italia sarebbe stata obbligata ad aggiornarlo, seguendo le linee guida dell’Oms, sia nel 2013 che nel 2018. Quanto invece al rapporto di autovalutazione, in Paesi vincolati dal Regolamento sanitario internazionale, un trattato internazionale per combattere la diffusione globale delle malattie, sono tenuti a presentarlo all’Organizzazione mondiale della sanità ogni anno per informare sul proprio stato di preparazione di fronte ad una eventuale pandemia.

Il "piano segreto" non è più segreto. Speranza (costretto) lo pubblica. Dopo battaglie legali e la sentenza del Tar, il ministero della Salute capitola: ecco il testo tenuto nascosto. Giuseppe De Lorenzo, Mercoledì 17/02/2021 su Il Giornale. Nel giorno dell’esordio di Draghi in Senato, il ministero della Salute finalmente capitola. Dopo richieste disattese, dopo silenzi lunghi mesi, dopo ricorsi al Tar, guerre legali e sentenze, il dicastero di Speranza pubblica sul suo sito il "piano segreto" anti Covid diventato ormai oggetto mitologico. Lo rende noto non per dovere di trasparenza, ma solo per ottemperare ai giudici amministrativi. Nel merito, infatti, gli uomini di Speranza ritengono di essere nel giusto e minacciano già di impugnare la sentenza. Quando le vicende partono da lontano è sempre doveroso un piccolo riassunto. Come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (clicca qui), tra gennaio e febbraio dell’anno scorso, quando Sars-CoV-2 sembra solo un innocuo virus cinese, la task force creata da Speranza si accorge che il piano pandemico nazionale, mai aggiornato, non basta ad affrontare l’emergenza. Vengono così avviati alcuni studi e il 12 febbraio Stefano Merler, un matematico della fondazione Kessler, presenta i suoi numeri al Comitato Tecnico Scientifico. Il resto è storia ormai quasi nota. Merler prevede migliaia di morti e di contagi, i dati sono drammatici. Così il Cts crea un gruppo di lavoro allo scopo di mettere a punto un “Piano nazionale sanitario in risposta ad una eventuale emergenza pandemica da Covid-19”. La prima bozza viene presentata con tanto di slide a Speranza già il 20 febbraio, cioè a poche ore dal caos di Codogno. Poi il lavoro viene aggiustato, analizzato dal Cts e infine approvato agli inizi di marzo. Nessuno, in Italia, ne saprà nulla: non saranno noti i numeri contenuti all’interno, rimarranno un mistero le azioni di risposta ipotizzate. Gli esperti infatti ne dispongono subito la riservatezza assoluta. In realtà tutto sarebbe rimasto nei segreti cassetti di viale Lungotevere Ripa o della Protezione Civile se Andrea Urbani, direttore generale della Programmazione e membro del Cts, non ne avesse rivelato l’esistenza in una ormai famosa intervista. Ad aprile inizia così una storia fatta di silenzi, smentite, piste false. Tutti si fiondano a derubricare il “piano” a semplice “studio”. Molti confondono le acque scambiando il “Piano” con i calcoli di Merler. E quando giornalisti o parlamentari chiedono una copia del documento, sia Speranza che il Cts oppongono un muro di gomma. Ad agosto due deputati, Galeazzo Bignami e Marcello Gemmato, producono un accesso agli atti per poter leggere il dossier. Prima non ottengono risposta, poi fanno ricorso al Tar e allora scatta la guerra legale. Il dicastero si difende, risponde nel merito, si oppone al ricorso: dice di non avere l’atto, che non è un piano pandemico, che non gli compete, rimanda alla Presidenza del Consiglio. Poi però lo scorso 22 gennaio perde: i giudici costringono il ministero della Salute a "consegnare" entro 30 giorni il "documento richiesto". Oggi la parola fine (o quasi). In una lettera inviata a Bignami e Gemmato, un ignoto dirigente dell’Ufficio di gabinetto ha trasmesso il "Piano nazionale sanitario in risposta a un’eventuale emergenza pandemica da Covid-19" (leggi qui). Cioè il "piano segreto" agognato. Dopo tanto penare, il ministero fa sapere di averlo pubblicato anche sul suo sito "unitamente agli altri atti preparatori del procedimento” che hanno portato alla nascita del nuovo piano pandemico. Il comunicato ufficiale risale al 26 gennaio, dunque dopo la sentenza, e l’ultimo aggiornamento è di ieri: all'interno c'è anche il link per trovare il documento. Insomma: ormai il “piano segreto” non è più segreto. E tutti possono finalmente leggerlo. Il ministero, però, non ci sta e promette (ancora) battaglia: procederà comunque "ad impugnare la sentenza, ritenendola non esente da vizi". Piccola domanda: a che pro sperperare altri soldi pubblici in avvocati e sentenze, se ormai il "Piano l’avete pubblicato?

Arriva il piano pandemico post Covid. Ma sarebbe servito averlo un anno fa. L'esperto: con le misure giuste il 70% dei decessi si poteva evitare. Felice Manti, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale.  Ci sono voluti più di 80mila morti ma alla fine il piano pandemico c'è. Peccato che arrivi quando il governo è a fine corsa, dopo un'inchiesta della Procura di Bergamo che indaga per epidemia colposa e dopo una sfilza di «non so, non ricordo» dei principali protagonisti di una vicenda che sui giornali ha trovato troppo poco spazio. Già, perché l'assenza di una serie di misure che sarebbero dovute scattare dopo l'alert dell'Oms del 5 gennaio 2020 - dal lockdown nazionale immediato alle mascherine da distribuire, non da regalare alla Cina, dalla produzione di dispositivi di sicurezza alla distribuzione di antivirali per contenere l'epidemia, tutte ipotesi previste nel nuovo piano diffuso ieri - avrebbero potuto evitare migliaia di morti. C'è chi dice il 70%, come il generale Pierpaolo Lunelli, che da mesi sostiene che con un piano «invece di avere 1.200 morti per milione di abitanti ne avremmo avuto 400», e che basta vedere come gli altri Paesi, come la Germania, «hanno svolto tutta l'attività di preparazione secondo le direttive del regolamento sanitario internazionale che è in vigore dal 2007», o come la Svizzera che «aveva previsto che ogni ospedale avesse tre mesi e mezzo di autonomia in termini di mascherine, non soltanto per i sanitari ma anche per i malati». Altro che regalarle. Il governo lo sapeva? Secondo il servizio di Report andato in onda ieri sera eccome. I dirigenti del ministero della Sanità che hanno sfilato in Procura lo avrebbero confermato ai magistrati. In più ieri sera la trasmissione d'inchiesta ha mostrato in esclusiva i verbali della task force che a inizio 2020 ha supportato il ministro della Salute Roberto Speranza nelle decisioni per rispondere alla prima ondata epidemica. Secondo quanto è emerso il Covid-19 sarebbe stato assimilato a una influenza. Nonostante la segnalazione della Protezione civile («messa in quarantena Wenzhou, città da cui proviene il 90% dei cinesi immigrati in Italia»), l'istituto Spallanzani e Istituto superiore di Sanità avrebbero garantito: «Il virus non è arrivato in Italia, non c'è circolazione del virus da noi». Insomma, dai primi di gennaio fino al lockdown di fine febbraio 2020 l'Italia avrebbe perso tempo prezioso per bloccare il virus, che invece era in Italia da tempo, c'è chi dice già da settembre come aveva detto al Giornale il numero uno dell'Aifa Giorgio Palù. Insomma, il Corovirus fu sottovalutato e le misure che avrebbero potuto contenere la pandemia non furono prese per tempo. Di chi è la colpa? Sarà la magistratura a stabilirlo. Nel frattempo chi doveva vigilare alla stesura di un piano pandemico, come l'attuale numero due Oms Ranieri Guerra, dg della Sanità dal 2014 al 2018, non l'ha fatto. E chi come il ricercatore Oms Francesco Zambon l'ha scritto in un report, sparito dopo 24 ore e rispuntato solo a settembre, ha dovuto subire pressioni per cambiare versione.

 “Caos-19”: un libro denuncia sugli omicidi “economici” in un anno di pandemia e di errori. Redazione giovedì 14 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Sarà in libreria, a partire da domani 15 gennaio, il libro di Antonio Gigliotti dal titolo “CAOS-19. Testimonianza di una pandemia economica e fiscale” (pp 392, Euro 15, Rogiosi editori), volume che analizza e scandaglia i drammatici avvenimenti dell’ultimo anno, sia dal punto di vista sociale che economico. Antonio Gigliotti è un dottore commercialista autore di numerose pubblicazioni in materia fiscale, collabora con diverse testate di carattere nazionale e con rubriche RAI e MEDIASET, promotore di tante “battaglie” per la professione, spesso viene indicato come il portavoce della categoria, come colui che dà voce a centinaia di colleghi (di studi medio/piccoli) e toccano insieme con mano le difficoltà che emergono dalla mala gestione del Fisco nel nostro Paese. Antonio Gigliotti è oggi Segretario Nazionale di PIÙ Partite Iva Unite, movimento politico composto da imprenditori, liberi professionisti, fiscalisti, avvocati, impegnato nello studio di strategie e soluzioni concrete per questo tempo e per il futuro dell’Italia e degli italiani.

Il libro sul Covid. “Le immagini che cristallizzano questo annus horribilis sono quelle di un mondo scientifico in confusione, di medici, anestesisti, infermieri alle prese con tante, troppe persone che affollano gli ospedali, delle bare, delle grandi potenze mondiali impegnate nella corsa al vaccino come panacea assoluta, dei commercialisti alle prese con decreti assurdi, di liberi professionisti in sofferenza e imprese, divise tra chi prova a resistere, chi ha dichiarato fallimento e chi non ha retto alla vergogna del fallimento”, è scritto nella sintesi di presentazione del volume. “Un’Italia che non è più democratica e neanche più fondata sul lavoro, schiacciato da uno tsunami di licenziamenti, che ha travolto tutti i settori produttivi. E un Governo che non tutela più nessuno e che, al tempo stesso, diventa una seria minaccia per le partite iva, su cui cerca di far ricadere il peso economico di una nazione piegata su se stessa”, è la conclusione amara dell’autore. CAOS-19 offre una testimonianza di questo tempo, attraverso una puntuale disamina, fatta quotidianamente da Antonio Gigliotti sui suoi social e nei format tv in cui è stato ospitato, dei decreti e degli annunci di azioni folli “urlate” agli italiani dai titoli dei giornali, soprattutto, ma non solo, economici; e attraverso una raccolta di lettere, che l’autore ha ricevuto, in pieno lockdown, non solo dai suoi colleghi commercialisti ma anche da commercianti, insegnanti, studenti, infermieri, medici, anestesisti, restituendo alla memoria l’umore dell’umanità. 

Il libro che non leggerete mai. Ecco l'opera scomparsa di Speranza. Il ministro scrive un libro sul Covid in piena pandemia. Poi lo ritira dalle librerie. Così potrete leggerlo anche voi. Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 11/01/2021 su Il Giornale. C'è un libro che non leggerete mai, neppure qualora voleste davvero fare lo sforzo. Non potrete acquistarlo in libreria né su Amazon (solo qualche fortunato c’è riuscito). E non avrete il piacere di sfogliarlo di fronte al calore del caminetto a meno che non vogliate sborsare 500 euro su eBay. Non si tratta per fortuna di un’opera d’arte: il mondo sopravviverà anche senza averlo sugli scaffali. Ma è un testo curioso, politicamente imbarazzante, per molti versi scottante. Difficile dare un voto a “Perché guariremo” di Roberto Speranza, ministro della Salute al tempo del Covid. È un libro solo per brevi tratti interessante e spesso banale. Non risponde ai tanti perché sulla gestione dell’epidemia. Resta vago. La storia al suo interno risulta annacquata. È sicuramente troppo ottimista sulla fine della pandemia (visto come sono andate le cose). Ma soprattutto presenta pochi mea culpa e troppe auto-assoluzioni. Insomma: non proprio un granché. A dire il vero, probabilmente non avrebbe neppure incontrato grande interesse pubblico se la Feltrinelli e il suo autore non avessero deciso, a fine ottobre, di ritirarlo dal mercato. La pubblicità inversa provocata dal richiamo in corsa del volume è stata il volano della curiosità: cosa avrà mai scritto in queste 200 pagine il ministro della Salute per decidere di gettare al vento ore ed ore di lavoro? Cosa potrebbe rivelare il contenuto? Perché bloccarne la vendita quando tutto era predisposto per il lancio in pompa magna? Va detto che non siamo i primi né gli unici ad averlo potuto analizzare da cima a fondo. Ma leggere il “libro scomparso” di Speranza sarà probabilmente un privilegio di pochi. Per sempre. Così in questi giorni, chiusi in zone rosse ed arancioni, tra incomprensibili dpcm e altrettanto vaghe Faq governative, abbiamo pensato ad un modo per farvelo avere indirettamente: raccontarvelo tutto, pezzo per pezzo. Non una semplice recensione (di quelle ce ne sono a bizzeffe), ma un’analisi del contenuto capitolo per capitolo, o quasi (qui troverete tutti gli articoli raccolti). Iniziamo allora oggi dall’incredibile premessa e dall’ottimismo che quest’estate aveva pervaso l’esponente di Leu. Prima del disastro autunnale.

Primo quesito: perché Speranza si è messo alla scrivania? “Non perdere la memoria di quanto è accaduto in questi mesi è il primo motivo che mi ha spinto a scrivere questo libro”, dice nelle prime righe del testo. Il secondo motivo è la “necessità di trasmettere un messaggio positivo, di cui credo abbiamo bisogno”. Già, perché al di là delle difficoltà, il ministro è convinto che “dobbiamo guardare al futuro con fiducia”. E anche dal punto sulla “ripresa economica e sociale” vede “segnali incoraggianti” (alla faccia…). Speranza si lancia addirittura in una previsione che, letta oggi, dopo oltre 30mila vittime provocate dalla seconda ondata, sa di tragica beffa. Il ministro ci apre l’opera: “Non ci sono dubbi. Guariremo”. Le cronache di ottobre, novembre e dicembre, così come i numeri sui decessi e sui contagi, dicono in realtà il contrario: la previsione era sballata. Non sarà stato quel “guariremo” ministeriale a portare sfiga, ma l’imbarazzo di Speranza è comprensibile: come si fa ad uscire in libreria predicando la salvezza definitiva quando anziani e pazienti muoiono sotto i colpi del virus? Certo in alcune righe il ministro ammetteva che “la pandemia non è domata”, che “non dobbiamo abbassare la guardia” e che in Italia “non siamo ancora in un porto sicuro”. Ma ne era convinto: “Il potere di questo maledetto virus ha i mesi contati”. E invece la seconda ondata, a conti fatti, ha ucciso più della prima. Nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), chiuso quasi in contemporanea con quello di Speranza, concludevamo: gli errori nella prima fase sono forse giustificabili dall’effetto sorpresa, ripeterli però sarebbe imperdonabile. Alla fine, purtroppo, è andata proprio così. Speranza deve aver capito che quanto scritto in estate era stato superato dagli eventi autunnali. Dopo quanto successo “nessuno di noi potrà dire ‘non lo sapevo’”, vergava nel testo. Oppure: “Non possiamo più permetterci di essere colti disarmati di fronte alla violenza di una eventuale nuova pandemia”. E invece disarmati ci siamo trovati non di fronte ad un altro “eventuale” agente patogeno, ma allo stesso che solo pochi mesi prima aveva già incrinato il tessuto sociale, sanitario ed economico del Paese. Lo “sapevamo”, ma siamo stati travolti lo stesso. Per questo ha stupito molti, e si capisce, che il ministro della Salute - nel pieno dello “stato di emergenza” - abbia trovato il tempo per realizzare un volume così corposo. Non era meglio impegnarsi a costruire gli argini invece di predicare cautela?

Secondo quesito: quando ha iniziato a scrivere Speranza? Si è detto da più parti che il libro sarebbe nato durante l’estate, quando i contagi erano in calo. A leggere bene la premessa, però, sembra che l’idea sia sorta già durante le fasi più critiche della pandemia. Cioè: la gente moriva, e lui pensava al saggio da editare? Lo dice lui stesso: “Ho deciso di scrivere nelle ore più drammatiche della tempesta, nelle lunghe notti in cui il sonno di sfuggiva”. Non solo: “Scrivo mentre ancora, ogni giorno, combattiamo il Covid in tutto il mondo. Scrivo nei ritagli di tempo, immerso nel mio lavoro di ministro della Salute”. Non era meglio riposare di più, per conservare maggior freschezza? Oppure dedicarsi esclusivamente alla risoluzione dei tanti problemi sorti in questi mesi? Mettere al mondo un libro è sempre buona cosa. Quando però gli autori sono i protagonisti delle vicende narrate, sarebbe il caso di attendere la fine degli eventi o almeno la conclusione del mandato. Per sfuggire alle brutte figure, banalmente. O anche solo per evitare di dover cestinare l’opera. Come successo a Speranza.

"Lo ha ritirato definitivamente". La verità sul libro di Speranza. Il ministro Speranza disse: "Uscirà quando potrò presentarlo". Ma alle librerie è arrivato un messaggio diverso. Giuseppe De Lorenzo, Martedì 12/01/2021 su Il Giornale. Vi sarete chiesti se e quando il libro di Roberto Speranza verrà pubblicato. Doveva arrivare sugli scaffali lo scorso 22 ottobre, poi qualcosa è andato storto. Le librerie lo hanno ricevuto ma non hanno potuto venderlo. All’inizio la distribuzione è stata sospesa, si parlava di un rinvio. Poi? Poi è successo che il tema ha perso centralità mediatica e così non se ne parla granché. Ma non sembra vero, come dichiarato ufficialmente dal ministro, che il volume arriverà sugli scaffali quando lui potrà girare l’Italia per presentarlo. Breve cronistoria. Il 22 ottobre alcuni fedeli lettori di Speranza sono convinti di poter acquistare l’ultima fatica dell’esponente di Leu. Vanno in libreria e restano interdetti: non c’è. Ai cronisti di Report alcuni librai assicurano che è stato solo rimandato e immediata scoppia la polemica politica. Sono i giorni della recrudescenza del virus, della nuova curva dei contagi, dell’estate spensierata scacciata via da una nuova ondata di morti e infetti. La pubblicazione di un libro dal titolo “Perché guariremo” stona un po’ con la criticità del momento: parla della pandemia come se fosse già alle spalle, quando non è così. Soprattutto se qualcuno alza il ditino per far presente che, forse, durante una pandemia un ministro dovrebbe occuparsi di gestire l’emergenza e non di inseguire velleità letterarie. La versione ufficiale, fornita ai media dal portavoce Nicola De Duce, è questa: "Il libro è stato pensato per aprire un dibattito sul futuro del servizio sanitario nazionale. E i suoi proventi sono destinati alla rete dell'Ircss, l'Istituto superiore di ricerca. Sarà pubblicato quando il ministro avrà il tempo da dedicare alla sua presentazione. Oggi ogni energia è impegnata nella gestione dell’emergenza”. Speranza lo ha ribadito anche di fronte alle telecamere de Le Iene in un servizio di metà novembre: “Non ho il tempo per presentarlo”, assicura. Come a dire: quando tutto sarà finito, allora lo avrete. Eppure le indicazioni fornite alle librerie sembrano di tutt’altro tenore. La casa editrice pare aver messo una pietra tombale definitiva sul volume. Almeno in questa versione. Il 21 ottobre - come ilGiornale.it può mostrare - in alcuni punti vendita arriva un alert dal titolo “blocco vendita novità ministro Speranza”. “Vi chiediamo - si legge - di bloccare temporaneamente la vendita del libro ‘Perché guariremo’ del ministro Roberto Speranza. Vi daremo appena possibile sulla nuova data di messa in vendita”. All’inizio, a quanto pare, si pensa a qualche settimana di rinvio: giusto per far passare la tempesta dei nuovi contagi. I nuovi infetti però tra novembre e dicembre continuano a salire. Così i piani editoriali cambiano di nuovo. Il 2 novembre un nuovo messaggio: “Si comunica che il libro (…) edito da Feltrinelli è stato ritirato definitivamente dalla vendita e verrà messo fuori catalogo. Potete rendere le copie che avete in giacenza già con la prima resa utile”. Perché questa marcia indietro? Il fatto è che la narrazione del ministro è distante anni luce dalla realtà dei fatti vissuta nel periodo autunno-inverno. Per quanto scriva che “la pandemia non è domata” e che “non dobbiamo abbassare la guardia”, dalle parole di Speranza si evince il desiderio di mettersi alle spalle le tragiche settimane di marzo, i 30mila morti, le terapie intensive che traboccano. L’idea è quella di guardare al futuro, ad una riforma del Sistema Sanitario Nazionale sul lungo periodo. Giusto. Ma forse prima di immaginare il dopodomani, il ministro avrebbe dovuto assicurarsi di mettere intanto il sicurezza il domani. Speranza scrive invece come se il peggio fosse passato. Un esempio su tutti: “Oggi siamo in grado di tenere meglio sotto controllo l’andamento dei contagi - si legge a pagina 136 - perché abbiamo intensificato il numero di tamponi eseguiti e ci stiamo progressivamente liberando dalla dipendenza di macchine che possono funzionare con un solo tipo di reagente”. Vi sembra sia andata così? Tra ottobre e novembre, al contrario, sarà proprio l’Iss a certificare il tilt del sistema di tracciamento italiano. Si darà la colpa alle discoteche, ai locali, alle vacanze degli italiani. Ma lo stesso Speranza sapeva che di fronte ad una “nuova eventuale pandemia” nessuno “potrà dire ‘non lo sapevo’". La seconda ondata era stata prevista da molti. Quello che non ci saremmo aspettati sono gli effetti del ritorno del Covid: ancora morti, ancora terapie intensive a rischio, ancora scuole chiuse. Alla fine il bis di contagi ha colto tutti di sorpresa , pure dalle parti di Palazzo Chigi. Il libro del ministro è la prova che, per quanto ancora in alto mare, nel governo vi fosse l’idea che la tempesta (economica e sanitaria) fosse ormai alle spalle. Che si potesse iniziare a progettare il futuro gestendo in tranquillità il presente. Invece ci siamo ritrovati punto e d’accapo: con un libro in più e 30mila anime in meno.

Covid, quel segreto del governo: ​"Il 2 febbraio c'era un piano..." La rivelazione di Speranza sul piano segreto: "Riservatezza decisa dagli estensori". Ma il racconto è ancora confuso. Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 14/01/2021 su Il Giornale. “La linea della trasparenza è fin da subito la nostra stella polare”. Roberto Speranza lo scrive così, senza remora alcuna, sul suo libro scritto, stampato e mai venduto dal titolo “Perché guariremo”. Forse di termini per descrivere la gestione della pandemia in Italia ve ne sono a bizzeffe. L’Oms ha usato “caotica e creativa”, che pare un connubio perfetto. Si può aggiungere “altalenante”, visto i continui dpcm emanati e subito rivisti. Oppure “mediatica”, considerate le decine di conferenze stampa di Conte in stile serie tv. O ancora “fallimentare”, se si pensa che il “modello italiano” alla fine ha prodotto più morti che nella maggior parte degli altri Paesi europei. Eppure, con un intero dizionario di parole a disposizione, Speranza sceglie “trasparenza”. La rivendica più volte nel libro, come a volerlo imprimere bene nella memoria dei (pochi) fortunati lettori. E lo fa nonostante quanto emerso in questi mesi sull’ormai famoso “piano segreto” anti-Covid. Il racconto di Speranza inizia il 2 febbraio, quando si reca in visita allo Spallanzani dopo aver ricevuto la notizia delle ricercatrici italiane che sono riuscite ad isolare il genoma del virus. Uscito dall’istituto, il ministro sostiene di avere già la “mente proiettata a un diverso tipo di studio, che ho iniziato ad affrontare”. “Insieme alla task force - si legge - stiamo cercando di capire esattamente cosa ci aspetta, quali scenari ci si aprono davanti. Le epidemie, infatti, si studiano con modelli matematici, capaci di avere un buon potere predittivo. E le previsioni non sono rosee”. Tenete bene a mente la data, quando si parla di “trasparenza”: queste cose, stando al testo, Speranza le sapeva prima che tutto esplodesse a Codogno. Non dopo. “A febbraio - continua - la task force ha avviato uno studio con il contributo della Fondazione Kessler. Sulla base degli unici numeri di cui disponiamo, quelli cinesi, i tecnici provano a disegnare scenari possibili di diffusione dell’epidemia nel nostro Paese”. Il racconto del ministro è un po’ confuso. Mescola, ancora una volta, lo studio di Stefano Merler con il “piano segreto” rivelato da Andrea Urbani in una improvvida intervista. Scrive Speranza: “Questo lavoro mi viene presentato per la prima volta a metà del mese. Si tratta di un'esercitazione teorica, mi chiarisce Alberto Zoli, un dirigente pubblico di qualità che guida il sistema di emergenza della Regione Lombardia. Stefano Merler, matematico della Fondazione Kessler, mi presenta tre potenziali scenari di impatto del coronavirus nel nostro Paese: uno più leggero, uno intermedio e uno più duro”. Poi Speranza ammette: “Ci sono, in quell’analisi, anche le prime tracce di misure che in seguito saranno affinate ed adottate: creare reparti e interi ospedali riservati ai pazienti Covid, sospendere le terapie consuete per evitare che i pazienti finiscano contagiati, ed altro”. Il 20 febbraio Speranza ascolta la relazione di Merler e Zoli e si dice “toccato dalle cifre” esaminate. Certo sono scenari ipotetici, in contraddizione con le indicazioni dell’Oms e dell’Ecdc. Ma preoccupanti. Il “piano” (o “studio”, vedete voi) non viene però divulgato. Non tanto alla stampa, ma neppure ai governatori di Regione: resta chiuso nel cassetto e neppure oggi è dato sapere esattamente cosa vi fosse scritto sopra. Chi ne decise la segretezza? Secondo Speranza, “gli stessi estensori del documento”. Chi precisamente? Nel libro il ministro cita solo Zoli e Merler, dunque furono loro? Oppure l’intero gruppo di lavoro del Cts? Chi sono “gli estensori? Secondo quanto risulta al Giornale.it, invece, Zoli e Merler quando presentano il lavoro a Speranza firmano un patto di riservatezza così come si è soliti fare per tutti lavori del Comitato tecnico scientifico. “Solo il 4 marzo - si legge nel libro - il Cts ridiscuterà di quel documento in una versione più avanzata” (in realtà viene citato nei verbali del 24 febbraio, 2, 4 e 9 marzo). Come noto sul “piano segreto” è nato un pandemonio, più per colpa del ministero che di chi prova a capirci qualcosa. “Non avrei mai immaginato - scrive Speranza - che a ridosso delle elezioni regionali di settembre si sarebbe fatto un gran parlare del presunto "piano segreto" per alimentare una desolante polemica da campagna elettorale”. In realtà il “gran parlare” è più che giustificato. Perché tenere nascosto al Paese, e soprattutto ai governatori di Regione, uno documento così importante? Prima di leggere il libro eravamo pervasi dalla convinzione che il ministro ne avrebbe approfittato per fare dovuta chiarezza. Invece non è così. Le incognite restano ancora tante. Cosa ha visto Speranza? Uno banale “studio” o un “piano” vero e proprio? Ciò di cui parla nel libro è lo studio Merler oppure il “Piano secretato” rivelato da Urbani? Propendiamo per la seconda ipotesi, per due motivi: primo, l’analisi di Merler non contiene “tracce di misure” per reagire, ma solo numeri matematici; secondo, sappiamo per certo - da fonte qualificata - che Zoli il 20 febbraio gli presentò un “piano” corposo e non lo studio Merler. Perché allora il ministero, e l’avvocatura di fronte al Tar, da tempo non fanno altro che citare il benedetto studio del ricercatore (leggi qui)? In realtà, ciò su cui il libro avrebbe dovuto dare risposte sono i motivi che portarono gli esperti a tenere riservato quel lavoro. Si dice vi fosse paura della reazione che avrebbe prodotto nel Paese. Bene. Ma se l’obiettivo era quello di convincere gli italiani a prendere sul serio la pandemia, non sarebbe stato più corretto metterli di fronte ai crudi numeri? Tra il 20 febbraio (data in cui Speranza viene a conoscenza dei dati drammatici) e il 9 marzo (giorno del primo lockdown) passano diversi giorni. In mezzo ci sono gli aperitivi di Zingaretti, gli appelli di Beppe Sala, la richiesta di “aperture, aperture, aperture” di Matteo Salvini. Il Paese a un certo punto si convince che la crisi si possa risolvere un breve tempo, con pochi contagi. Così il governo, e i governatori, rimandano le misure drastiche. Un ritardo che è costato non poche vite, come ammette nel testo lo stesso ministro della Salute. Ma se a Zingaretti, Sala e Salvini si può perdonare quel sentimento per la mancata informazione sulla reale portata del problema, lo stesso non si può dire per l’intero governo. Roberto Speranza in testa. Lui di sicuro quel “piano segreto” lo aveva letto tra febbraio e marzo. Conosceva i rischi cui il Paese andava incontro. Ha informato il premier? Lo ha spiegato agli altri ministri? L’ha detto ai capi delegazione, che avrebbero forse dovuto sconsigliare a Zingaretti di brindare alle riaperture? Il 27 febbraio, in Parlamento, Speranza in persona lanciò un messaggio tutt’altro che allarmista: "Nella stragrande maggioranza dei casi comporta sintomi molto lievi. Si guarisce rapidamente e spontaneamente nell’80% dei casi". Che senso aveva, alla luce delle previsioni presenti in quel documento?

"Venni invitato all'aperitivo, ma...". La frase che imbarazza Zingaretti. Dalle gaffe di Sala e Gori al brindisi di Zingaretti: così Speranza venne lasciato solo. La rivelazione nel libro scomparso. Giuseppe De Lorenzo, Venerdì 15/01/2021 su Il Giornale. Il capitolo più importante del libro scomparso di Roberto Speranza è il dodicesimo. Quattro pagine che vanno lette più per quello che “non” dicono che per il loro contenuto effettivo. Il titolo è eloquente: “La settimana della solitudine”. È il breve racconto di come il ministro e il suo dicastero si siano trovati isolati nei giorni immediatamente successivi alle prime zone rosse. Quando cioè il Paese e i politici di ogni estrazione ideologica evocavano il ritorno rapido alla normalità. Solo Speranza, dice lui, predicava prudenza. E in parte è vero. Ma il racconto pecca di due sbavature: da una parte non tiene conto della differenza informativa su cui poteva contare rispetto a tutto il resto d’Italia; e dall’altra dimentica di citare con più precisione chi fu, soprattutto tra i colleghi di governo e di maggioranza, ad abbandonarlo al proprio destino. Siamo nei giorni a cavallo tra febbraio e marzo. Codogno ha appena scoperto il primo caso, poi è stata la volta di Vo’, del Lodigiano, del Veneto. Dopo le prime ordinanze, il governo istituisce, per la prima volta nella storia della Repubblica, i cordoni sanitari intorno ai focolai. Divieto di entrata o uscita: interi paesi diventano aree presidiate dai militari. “Subito dopo l’istituzione delle zone rosse - scrive Speranza - comincio a ricevere messaggi fortemente critici. Il sentimento prevalente del Paese, oltre che di larghissima parte del mondo politico e del mondo economico, è che abbiamo fatto un errore. Ho esagerato l’allarme, abbiamo chiuso troppo e troppo in fretta, bisogna riaprire e il più possibile”. Il ministro ritiene questi i “giorni più duri” di tutta la pandemia. “Mi rendo conto che siamo soli, al ministero si respira un’aria di isolamento, di difficoltà”. Non tanto per gli attacchi che arrivano dall’estero, dove già ci disegnano come gli untori d’Europa. Ma soprattutto per le critiche ricevute dall’interno. “Si fa largo l’idea - insiste Speranza - che stiamo esagerando, che al costo economico e sociale che le zone rosse stanno già pagando si aggiunga un importante danno di immagine sul piano internazionale”. La ricostruzione storica del ministro è corretta, e conferma quanto scritto nel Libro nero del coronavirus (leggi qui). Speranza ricorda come i media italiani si siano subito schierati per la riapertura immediata, facendo notare “che nessuno in Europa sta adottando misure come le nostre”. Cita gli hashtag #milanononsiferma e #bergamononsiferma, promossi anche da alcuni sindaci di sinistra, tra cui quello di Milano Beppe Sala”. Un clima, scrive, che “coinvolge tutti, senza distinzioni da destra a sinistra”. Da una parte Matteo Salvini, che in un video esorta ad “aprire, aprire, aprire”. Dall’altra il Pd e le altre forze di maggioranza. Speranza sostiene che “in quei pochi giorni di fine febbraio io e i miei ci sentiamo controvento”. Non dice però chi, in Consiglio dei ministri, rema in direzione opposta. I grillini? Il premier Conte? Oppure Italia Viva? Una stoccata indiretta la riserva solo al Pd che “organizza un aperitivo sui Navigli per dimostrare che si può andare avanti senza fermarsi, continuare a produrre, a consumare”. Ed è qui che regala al lettore un aneddoto succulento: Speranza infatti era stato invitato all’aperitivo meneghino, ma ha declinato l’invito.

"Formale, lenta ed incapace". Così l'Ue ha favorito il Covid. Anche Speranza boccia l'Europa sul coronavirus. Le parole inedite nel libro del ministro ritirato dalle librerie: Giuseppe De Lorenzo, Sabato 16/01/2021 su Il Giornale. Europeisti non si nasce, lo si diventa. Ma come in ogni storia d’amore che si rispetti, ci dev’essere un buon motivo per innamorarsi del progetto comunitario. Se gli adolescenti di oggi dovessero basarsi su quanto dimostrato da Bruxelles durante la pandemia, è difficile immaginare che possano osservare l’Ue fieri e con lo sguardo incantato. Lo sa bene Roberto Speranza, esponente della “generazione Erasmus”, uno di quelli che si emoziona al ricordo del “primo prelievo della moneta unica al bancomat”. Lo scrive nel suo libro, dove il giudizio verso Bruxelles è implacabile: parla di “coesione che fa difetto”, di “debolezza della risposta europea”, di “formalità, lentezze” e di “incapacità di aggredire i problemi”. Insomma: una “delusione bruciante”. Checché ne dicano i sognatori, il coronavirus ha messo a nudo le debolezze della costruzione europea: mancato coordinamento, politiche sanitarie incomprensibili, accordi sui vaccini che saltano, solidarietà sulle mascherine quasi inesistente. Sorprenderebbe il lettore, se potesse leggerlo, quanto spazio dedichi Speranza nel suo “Perché guariremo” all’Europa. Sorprende anche la chiarezza con cui, da sinistra, il ministro sottolinei le falle dell’Ue denunciate a più riprese dai cosiddetti sovranisti. Uno dei capitoli più eloquenti è il quinto, intolato “Unire l’Europa”. Speranza ricorda la prima fase della pandemia, quando le capitali vanno ognuna per la propria strada. “La mia sensazione - scrive - è che la coesione ci faccia difetto, che il livello di allerta sul virus sia troppo basso e i meccanismi di funzionamento delle istituzioni comunitaria siano troppo deboli per attivarsi con efficacia in caso di emergenza”. Quando l’Italia chiede una riunione dei ministri della Salute, la commissaria Stella Kyriakides fa melina. “La convocazione (…) tarda ad arrivare, in uno sfibrante rimpallo di responsabilità”. Per riuscire a mettere ufficialmente tutti i Paesi intorno a un tavolo bisognerà attendere il 13 febbraio: un incontro dagli “scarsi risultati”, senza strategie né azioni coordinate. Loro non lo sanno ancora, ma la frittata è ormai già fatta. “Quel giorno, davanti ai rappresentanti dei governi (…), io non ho sentito la presenza dell’Europa”. È un peccato che gli italiani non possano leggere il libro di Speranza. Perché per quanto vago su molti aspetti oscuri della gestione dell’emergenza, sull’Europa il quadro disegnato dal ministro è chiarissimo. Un colpo in fronte ai ciechi adepti dell’Ue. Sentite qui: mentre logica vorrebbe che in una situazione del genere la Commissione facesse da collante e che Bruxelles coordinasse le azioni dei singoli Stati, tutto si inceppa nei gangli della burocrazia europea. Alla fine, invece di sfruttare le istituzioni comunitarie, l’Italia è costretta a ricorrere all’Europa “informale”. Capito? Tutto quel decantare l’Ue, e poi nel momento del bisogno sei costretto a far leva sui classici rapporti tra Stati. Quelli che, dice Speranza, “nella realtà contano ancora molto più dell’Unione”. Buono a sapersi: che ci stanno a fare allora Ursula von der Leyen e tutto il resto? “Nella reazione al virus - rivela il ministro - ogni Stato nazionale fin da gennaio si organizzerà come può. Esigenze di immagine politica e di popolarità di un singolo governo presso l’elettorato terranno in scacco non solo la salute pubblica di un Paese, ma anche quella degli altri”. E ancora: “Inutile negare che, di fronte al rischio collettivo, la risposta dell’Europa come istituzione è, per diverse settimane, molto al di sotto di ciò che sarebbe necessario”. Di più: i processi decisionali Speranza li ricorda “fatti di discussioni e riunioni passate a girare attorno ai problemi senza risolverli mai”. In che mani siamo? Come rivelato nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), dall’Europa nelle prime fasi l’Italia riceverà solo delusioni. Partite di mascherine bloccate alla dogana, chiusure, un Paese trattato da appestato. “Perché quando il grande malato d’Europa era l’Italia nessuno ha mosso un dito per aiutarla? - ci chiedevamo - Gli egoismi di Bruxelles sulle forniture dei materiali sanitari hanno mostrato, ancora una volta, la fragilità dell’Unione europee”. Solo il 6 marzo “fuori tempo massimo”, l’Ue si decide ad avviare le procedure per l’acquisto condiviso di dpi e respiratori. Forse non è una novità, ma sentirlo dalla voce dal ministro della Salute, convinto europeista, fa un altro effetto. “A distanza di tempo dall’inizio dell’emergenza - scrive - le regole condivise che avrei voluto continueranno a risultare molto difficili, e in certo casi impossibili, da ottenere: perché, per esempio, non avere linee guida comuni sull’istruzione? O sull’apertura o chiusura delle frontiere? O sui controlli relativi ai trasporti, che se non sono uguali per tutti non servono a nessuno? O sui test, e in seguito sulla app per tracciare i contagi?”. Che queste domande se le faccia Speranza la dice lunga sulla debacle dell’Unione. Non basteranno il Recovery Fund o l’accordo sui vaccini a risollevare l’immagine dell’Europa. Un’istituzione che si dice unita, ma che nei fatti non lo è.

Cosa successe prima di Codogno? Le rivelazioni nel libro di Speranza. Il racconto inedito sul "buco" di un mese prima dell'arrivo del virus. Le rivelazioni nel libro scomparso del ministro. Giuseppe De Lorenzo, Domenica 17/01/2021 su Il Giornale. Nel Libro nero nel Coronavirus (clicca qui) ci eravamo chiesti: cosa è successo prima di Codogno? L’Italia si è mossa in tempo per prevenire l’ondata di Sars-CoV-2? La cronistoria riporta un buco di circa 23 giorni in cui il Belpaese, dopo aver dichiarato il 31 dicembre lo “stato di emergenza”, sembra quasi impostare una strategia attendista: il virus arriverà? Solo il 22 febbraio, quindi a bubbone ormai esploso, il commissario Borrelli firma l’ordinanza per l’acquisto di mascherine in deroga, dando la possibilità di anticipare il 100% del costo e affidandosi così ai mediatori selezionati nelle white list delle prefetture. Per approvare la prima ordinanza che permetterà di acquistare le mascherine con "priorità assoluta rispetto ad ogni altro ordine", occorrerà aspettare addirittura il 25 febbraio. E bisognerà attendere altri tre giorni, arrivando così al 28 febbraio, per vedere applicata la priorità "all’acquisizione degli strumenti e dei dispositivi di ventilazione invasivi e non invasivi" per le terapie intensive. Le tempistiche non sono da sottovalutare. La persona che più di altre avrebbe potuto raccontare nel dettaglio quanto successo in quei giorni è forse Roberto Speranza. Al vertice del ministero della Salute, è lui che ha fatto il buono e il cattivo tempo in quella fase. E non solo. Di Covid si inizia a parlare già a gennaio e viale Lungotevere Ripa 1 si muove, va detto, quando ancora molti ritenevano il virus solo un lontano problema cinese. Ma cosa ha fatto, in concreto? Si è parlato di task force, di analisi matematiche, di bozze di “piano segreto”. Speranza a dire il vero qualcosa l’ha raccontato: nel suo libro “Perché guariremo” ci sono alcuni aneddoti (non tanti) che meritano di essere conosciuti. Visto che il volume è stato ritirato dalle librerie, ci pensiamo noi a mostrarvi cosa era contenuto all’interno. Il racconto inizia dal 22 febbraio, il giorno dopo Codogno, poco prima del Consiglio dei ministri che istituirà le zone rosse nel Lodigiano. Speranza ricorda che nei bar la gente ritiene il virus “solo un’influenza un po’ più grave”, mentre lui ha la “consapevolezza vera” di “quel che sta succedendo e di quel che sta per succedere”. Un peso che solo lui e pochi altri conoscono fino in fondo. Come poteva saperlo? Come rivelato dal Giornale.it, due giorni prima Alberto Zoli e Stefano Merler avevano presentato al ministro la bozza di “piano segreto” in cui si prefiguravano scenari da paura. Il documento è stato secretato, nessuno l’ha visto. Dunque nessuno a parte Speranza e alcuni membri del Cts possono avere la “consapevolezza” del disastro che sta per investirci. Il ministro conosce le previsioni, e lo mette nero su bianco. Dice anche di aver portato “dati e scenari precisi” in Cdm quella sera. Si vanta di aver capito prima di tutti la “pericolosità di questo virus” grazie agli “studi” e alle “conversazioni con gli scienziati”. Domanda: ha informato il Paese di questa consapevolezza? Non proprio. Il 7 febbraio, un mese prima del lockdown, il ministero della Salute pubblica uno spot con Michele Mirabella con cui rassicura gli italiani sul fatto che “non è affatto facile il contagio” da coronavirus. Di più. Il 27 febbraio, in Parlamento, il ministro in persona lancia un messaggio tutt’altro che allarmista: “Nella stragrande maggioranza dei casi comporta sintomi molto lievi. Si guarisce rapidamente e spontaneamente nell’80% dei casi”. Alla faccia della “consapevolezza” del disastro imminente. Il libro fa poi un salto indietro. A gennaio 2020. Speranza in quei giorni sostiene di aver “la sensazione che mi manchi il tempo”. Perché “qualsiasi cosa stia arrivando dalla Cina” (dunque sapeva che sarebbe arrivato?) “andrà affrontato con le risorse che non abbiamo”. È a gennaio, insomma, che il ministro si rende conto “che il Ssn sta andando verso una tempesta che lo metterà a dura prova”. Perché allora rassicurare gli italiani sulla “difficoltà di contagio”? E perché dire ai parlamentari che “il nostro Paese è più forte del nuovo coronavirus”? Fatto sta che il 22 gennaio nasce la task force ministeriale. Nella stanza di viale Lungotevere Ripa 1 Speranza raduna “i migliori cervelli di cui l’Italia dispone”: Silvio Brusaferro e Gianni Rezza (Iss), Franco Locatelli (Css), Giuseppe Ippolito (Spallanzani), Nicola Magrini (Aifa) e Adelmo Lusi dei Nas. Senza dimenticare la Protezione civile, l’Agenas e la Conferenza delle regioni. Cosa fa la task force? “In una prima fase - rivela Speranza - i lavori si concentrano prevalentemente sull’analisi di ciò che sta avvenendo in Cina e sul tentativo di evitare che il virus possa arrivare in Italia”. In quel momento l’Ecdc europeo ritiene “basso” il rischio di contagio in Europa. L’Oms non dichiara lo stato di emergenza sanitaria di rilevanza internazionale. E questa decisione, si legge nel libro del ministro, “sorprende” Speranza. “Gran parte dell’opinione pubblica occidentale - scrive - pensa che con il Covid-19 si ripeterà quanto accaduto con la Sars”. Cioè nessun problema per il Vecchio Continente ed epidemia confinata in Asia. “Ma ben presto sarà chiaro a tutti che si tratta solo di un’illusione”. Il ministro nel suo libro tenta una sorta di auto-assoluzione. Veste i panni di Cassandra: “Io l'avevo capito, ma voi non mi avete dato ascolto”. Certo nelle prime settimane ha sospeso i voli e imposto controlli agli aeroporti. Gli si può forse attribuire il premio di ministro che più di tutti ha intrapreso la linea della “massima prudenza” contro un “problema serio”. Ma se era davvero così convinto, come scrive, che sarebbe stato un disastro, perché non l’ha urlato ai quattro venti? I comunicati stampa del ministero, a rileggerli oggi, non trasmettono cotanta preoccupazione. “Sul nuovo coronavirus vogliamo dare un messaggio di assoluta serenità”, diceva Speranza a Sky il 31 gennaio. “Il Servizio Sanitario Nazionale è molto forte”. S’è visto.

"La responsabilità era la sua". Così Speranza scarica Conte sul Covid. Le rivelazioni nel libro del ministro. Errori nella comunicazione? "Scelte del premier. Chi governa non cinguetta sui social". Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 18/01/2021 su Il Giornale. Alcuni giorni fa l’epidemiologa Antonella Viola, ospite a Otto e Mezzo su La7, interrogata sulla risposta del governo alla pandemia ha espresso un parere tutto sommato positivo: Conte non avrebbe fatto peggio, a suo dire, di altre democrazie liberali occidentali. Si può essere d’accordo o meno col suo giudizio, ovviamente. Ma la Viola ha tenuto a precisare che su un punto l’esecutivo ha toppato alla grande, al pari degli scienziati: quello della comunicazione. Promesse mirabolanti difficili da mantenere (“Vivremo un Natale sereno”, ricordate?), poca trasparenza, insufficienti spiegazioni agli italiani. E su questo si fa fatica a dissentire. Nel libro di Roberto Speranza, scritto e mai pubblicato, alla “indispensabile comunicazione” viene dedicato un intero capitolo. Partiamo da un primo punto: nelle sei paginette manca una minima autocritica, non tanto personale, quanto a livello di governo. È vero che, soprattutto nella prima fase, il ministro della Salute tiene "un profilo istituzionale ma riservato”: non va quasi mai in tv, parla “poco con i giornali” e non ama particolarmente i social network. Ma a comunicare con il Paese è il primo ministro: ed è un disastro. Ricordate la drammatica notte del 7 marzo, con la conferenza stampa notturna che diede il via alla fuga dei lombardi verso altre regioni? Vi ricordate le lunghe attese per le dirette Facebook del premier? Speranza non critica direttamente Conte, ma neppure lo elogia. Sostiene che i provvedimenti li costruiscono insieme, “io sono la cinghia di trasmissione tra Cts e governo”, ma sottolinea cinico che “a impostare il modello comunicativo non spetta a me”. Ad “assumersi la responsabilità di comunicare” le misure politiche è il capo del governo. Suoi dunque gli oneri e gli errori. Sarà un’impressione, ma quella di Speranza sembra una nemmeno troppo velata critica a Conte. Dice infatti: “In questi mesi tutti parlano tanto: scienziati, presidenti di Regione, politici, opinionisti. Ma io credo che chi è al governo debba comunicare attraverso ciò che fa, non cinguettando sui social”. E chi, se non Conte, in quelle fasi fece ampio utilizzo dei social? Le dirette Fb del premier, la sua massiccia presenza mediatica, le fughe di notizie sono forse le più grandi pecche della prima ondata della pandemia. La comunicazione fu un disastro, sono tanti a dirlo: le bozze dei dpcm trapelate sui media, il casino sui congiunti, i decreti spiegati male che necessitano di migliaia di Faq. Un caos totale. E Speranza ci tiene a precisare che la "responsabilità" fu tutta del premier. Come a dire: io me ne lavo le mani. Il ministro non lo precisa, ma quando scrive che “prima si fanno le cose e poi si parla” o “di cose da fare ce ne sono così tante che per parlare manca proprio il tempo”, il lettore nota un riferimento critico anche a Giuseppi e al prode Rocco Casalino. Pur senza nominarli. Speranza nel libro spiega che sin da subito in tanti gli offrono un salotto “consono alla situazione”. Si mettono in fila Lucia Annunziata, Bianca Berlinguer, Fabio Fazio e Giovanni Floris, dove andrà volentieri e con frequenza. Il ministro sostiene di aver tentato di spiegare agli italiani “la gravità della situazione”. E qui ricorda un aneddoto curioso. Per creare un “clima di estrema attenzione e responsabilità” nei cittadini cerca "l’appoggio di trasmissioni molto popolari come quella di Mara Venier e quella di Barabara D’Urso”. Scelta corretta, ovviamente. Alla fine delle dirette in cui “le conduttrici spiegano le ragioni per cui è bene non uscire” e “trasmettono il messaggio ‘restate a casa’”, il ministro invia loro un “messaggio di apprezzamento”. Per Speranza l’obiettivo è spiegare “all’opinione pubblica” che deve “usare correttamente la mascherina”, stare a casa, mantenere la distanza e via dicendo. Coinvolge cantanti, attori e influencer nella campagna #iorestoacasa. E alla fine riesce a far scattare il “senso di responsabilità” sperato con una “adesione di popolo corposa e convinta” alla lotta al virus. Ma è davvero andato tutto così rose e fiori come ci racconta Speranza? In realtà sulla comunicazione il governo ha commesso errori grossolani ad ogni livello. Da Mara Venier il premier andò in diretta il 23 febbraio a dire che gli italiani non dovevano abbandonarsi al panico perché il super governo vegliava su di loro. “Vedrete che ce la faremo, conterremo il contagio e tutti insieme usciremo vittoriosi”, disse Conte. Forse in quella fase avrebbe fatto meglio a concentrarsi di più sui decreti che alle dirette di Domenica In o sui social. Ricordate i dpcm presentati su Facebook quando ancora non erano stati firmati, per poi modificarli poche ore dopo? E il mancato coinvolgimento del Parlamento? Oppure il ministro Boccia che, per stuzzicare la Lombardia, si presentò il conferenza stampa con la mascherina appesa all’orecchio? O ancora il commissario Borrelli che disse di non volerla indossare? Il racconto di Speranza, insomma, stride con quanto successo in quelle settimane. Forse è vero che il ministero della Salute si attenne a comunicazioni più logiche (anche se non mancò uno spot con Michele Mirabella per rassicurare gli italiani sul fatto che “non è affatto facile il contagio” da coronavirus), ma il governo nel suo insieme fu caotico, approssimativo, raffazzonato. E le cose oggi non sono molto cambiate. Lo dice anche l’epidemiologa Viola.

"Gli atti formali erano pronti, poi…". Ecco la verità sulla zona rossa. Le rivelazioni di Speranza sulla Val Seriana. Conte temporeggiò, poi non se ne fece nulla. Cosa è successo davvero? Giuseppe De Lorenzo, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Gli atti formali erano praticamente pronti. Poi… poi non se ne fece nulla. E ancora siamo qui a parlarne, a chiederci se la zona rossa in Val Seriana avrebbe cambiato qualcosa oppure no. Le immagini dei camion dell’esercito carichi di bare hanno fatto il giro del mondo e le domande sono ancora molteplici. Si poteva evitare la strage isolando il focolaio? Chi decise di temporeggiare? E perché le forze dell'ordine non furono dispiegate sul territorio? Speravamo di trovare qualche risposta nel libro scomparso di Roberto Speranza. Siamo rimasti delusi. Tuttavia il racconto che fa il ministro di quei giorni è interessante, e merita di essere letto. Il capitolo sull’”Italia blindata” si concentra nei primi dieci giorni di marzo, quando “i dati della Lombardia sono i più preoccupanti” e "l’area del contagio è sempre più estesa”. Il 3 marzo il Cts analizza una nota tecnica dell’Iss del giorno precedente e propone al governo di estendere le misure restrittive ad Alzano Lombardo e Nembro. “Per un’azione così grave - scrive però oggi il ministro - occorre una valutazione più approfondita rispetto a due righe di verbale e, dopo averlo letto, il 4 marzo chiedo a Silvio Brusaferro una relazione più strutturata da parte dell’Iss”. Perché aspettare? Perché il bisogno di ulteriori approfondimenti? Ogni ritardo che si accumula, infatti, favorisce il virus. Per Vo’ e Codogno la decisione arrivò tutto sommato velocemente: perché invece a Bergamo serve “una relazione più strutturata”? La verità è che qualcuno decide di non sbarrare la Val Seriana e richiedere pareri su pareri agli esperti sembra solo un modo per coprire responsabilità politiche. Tanto è vero che il dpcm del 9 marzo con cui si darà vita al primo lockdown nazionale verrà “approvato” dal Cts solo dopo l’adozione delle misure. Non si poteva fare lo stesso anche per Alzano e Nembro? “Al consiglio dei ministri del 5 marzo - si legge nel libro - avverto Giuseppe Conte e Luciana Lamorgese della richiesta di creare questa nuova zona rossa in Val Seriana. Il ministro dell'Interno si attiva prontamente per verificarne la fattibilità con le forze dell’ordine, che infatti effettuano i primi sopralluoghi sulla zona”. Conte invece temporeggia. Anzi, e questa è forse la vera rivelazione contenuta nel libro, stoppa un processo ormai prossimo ad essere approvato. “Gli atti formali di questa decisione - scrive infatti Speranza - sono già in preparazione quando il 5 marzo sera, mentre sono a Bruxelles, arriva la relazione dell’Iss. La giro al presidente del Consiglio che, consapevole della serietà della situazione più generale, aveva già chiesto un ulteriore confronto con il Cts il giorno successivo”. L'ennesimo giorno di attesa. “La riunione si tiene la mattina del 6 marzo presso la sede della Protezione civile” ed è “in quella riunione che il Cts matura un cambio di paradigma: il virus è ormai troppo diffuso perché abbia senso chiudere, con disposizione nazionale, singoli comuni, piccoli o grandi che siano”. Così si decide per attuare “zone rosse a territori molto più ampi e forse all’intero Paese”. Che il 6 marzo fosse tardi potrebbe anche essere vero. Ma, come rivelato nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), rappresentanti lombardi ed esperti chiedevano già da giorni misure drastiche. L’ex assessore Gallera lo disse senza mezzi termini in una conferenza stampa proprio del 6 marzo: “Se fosse arrivata una risposta tre giorni fa, si sarebbe evitata un’incertezza” e anche la possibilità che i cittadini uscissero dalla Val Seriana “rischiando di creare danni a se stessi e agli altri”. Ma si decise di aspettare. Sul caso adesso indaga la procura di Bergamo. Difficile dire se si arriverà o meno a condanne, sempre che i fatti costituiscano reato. Il dato politico però è chiaro: la zona rossa è stata più di una ipotesi, ma si preferì temporeggiare. Di chi fu la colpa? Certo non di Regione Lombardia, come qualcuno in questi mesi ha fatto intendere (leggi Boccia e Conte). Tra i dati politici più interessanti del libro di Speranza, infatti, c'è pure questo: il ministro della Salute non scrive mai che quella decisione potesse essere presa in autonomia dal governatore Fontana.

DAGONOTA l'11 gennaio 2021. “Non arriverei mai a sacrificarmi per le mie opinioni: potrei avere torto”. Ecco la battuta di Woody Allen, stavolta rovesciata (“potrei avere ragione”), che ben fotografa la querelle tra questo disgraziato sito e il super commissario Domenico Arcuri che ci ha costretto a smentire sul tamburo (e a scusarci) la notizia che suo padre, l’ex prefetto Aldo, in quanto “archiviato”, risultava ancora nell’elenco degli affiliati alla P2 di Licio Gelli. Lista sequestrata dai magistrati il 17 marzo del 1981 a “Villa Wanda”. E a puntellare le sue ragioni, l’uomo dei vaccini nel governo Conte aveva calato un solo asso: un articolo del “Corriere della Sera” del primo ottobre 1981 in cui si dava, appunto, per “archiviata” la posizione di una ventina di alti burocrati che aveva aderito alla loggia segreta del Gran Maestro aretino. Lista resa pubblica dal presidente del Consiglio, Arnaldo Forlani, il 26 maggio dello stesso anno. Atto seguito dalle sue dimissioni con l’arrivo a palazzo Chigi del primo premier laico, il repubblicano Giovanni Spadolini. Ma nella prova regina (la famosa pistola fumante) fornita da Domenico Arcuri (articolo del Corriere) l’archiviazione (o “assoluzione”) dei piduisti negli organici di Stato è figlia soltanto di un primo (e frettoloso) esame analitico sugli appartenenti alla P2 svolto dal sottosegretario alla presidenza, Francesco Compagna. “Archiviati” o “assolti” dai vari organi di controllo disciplinate interni (alcuni piduisti ricorsero pure al Tar) a cui erano sottoposti, nel senso che potevano proseguire la loro attività professionale nella pubblica amministrazione e in attesa del giudizio della magistratura. Il che non rappresentava un atto governativo che “cassava” automaticamente i loro nomi dalle liste della P2. A cui seguì una commissione di tre saggi composta da Aldo Sandulli, Vezio Crisafulli e Lionello Levi Sandri anch’essa impegnata a verificare se i piduisti avessero tradito il giuramento di fedeltà allo Stato per il venerabile Gelli. Ma una volta superata l’ostilità dei partiti di governo a mettere una pietra sopra allo scandalo e mentre la maggioranza degli iscritti puntavano a sostenere la completa inattendibilità e falsità delle liste gelliane, toccherà alla Commissione parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi (dicembre 2021-luglio 1984) di verificarne invece l’autenticità e pericolosità della loggia di Gelli e dei suoi adepti. E nell’ampia documentazione prodotta dalla commissione, oggi consultabile presso la biblioteca di Montecitorio, nell’elenco originale degli iscritti alla Loggia P2 il nome di Aldo Arcuri appare al quarto posto nella seconda pagina. Tant’è, senza mettere in discussione l’onorabilità del padre del super commissario Domenico Arcuri.

Dagospia il 12 gennaio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, scriviamo in nome e per conto del dr. Domenico Arcuri - che a tal fine ci ha conferito mandato - in relazione all'articolo oggi da te pubblicato. Il fatto che il nome del Prefetto Aldo Arcuri fosse sulla lista è un dato evidente. Se così non fosse, il Ministero degli Interni non avrebbe istituito la Commissione Disciplinare per la verifica dell'iscrizione alla P2 dei funzionari e non avrebbe provveduto all'archiviazione in ragione della verificata estraneità del dr. Aldo Arcuri. Così come non avrebbe ricoperto lo sviluppo della sua carriera di successive promozioni e di prestigiosi incarichi. Ci sono alcune sentenze che - in ragione della verificata estraneità alla P2 del Prefetto Arcuri - condannano i giornali che avevano riportato la notizia. Risalgono a circa 40 anni fa. Ti invitiamo all'immediata pubblicazione della presente nota nella stessa pagina dell'articolo, ex art. 8 L.47/48. Grazia Volo, Anna Sistopaoli.

DAGO REPLICA: Ancora una volta, la verità politico-istituzionale sancita dalla Commissione d’inchiesta parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi e dalle sentenze della magistratura - non da questo disgraziato sito - sembra essere messa in dubbio (contestata anche giuridicamente?) dagli avvocati che assistono il super commissario ai vaccini nel governo Conte, Domenico Arcuri. Dopo aver prodotto la “prova regina”, un articolo del “Corriere della Sera” del dicembre 1981, cioè prima dell’avvio dei lavori della Commissione a Montecitorio, per negare l’iscrizione di suo padre, l’ex questore di Benevento Aldo Arcuri nella lista della loggia segreta di Licio Gelli sequestrata a Castiglion Fibocchi, con una Dagonota avevamo osservato che il dottor Aldo Arcuri era stato sì “archiviato”, come tanti altri piduisti, dalle varie Commissioni ministeriali dopo aver negato la sua adesione alla P2 definendo la sua presenza in quelle liste “un arbitrio illegittimo e illegale”, ma non depennato dalle liste gelliane, che ancora fanno fede. E consultabili nella biblioteca della Camera. Tant’è che qualche mese dopo l’abiura dell’ex prefetto Arcuri, possiamo aggiungere in difesa della nostra attendibilità, la Commissione d’inchiesta dell’Anselmi renderà pubblico l’atto di giuramento di fedeltà alla P2 firmato da Aldo Arcuri (Commissione parlamentare d’inchiestaP2, volume 2, tomo 2, pag.463). E non si trattava di un apocrifo. Del resto quella pratica “autoassolutoria” delle commissioni disciplinari - prima dell’inchiesta parlamentare era figlia di una circolare emanata dal presidente del Consiglio Spadolini -, fu bollata dal componente della commissione parlamentare P2, Sergio Flamigni e dal suo partito, il Pci, “uno scandalo nello scandalo”. E agli atti ci sono le interpellanze del Partito Radicale, guidato da Massimo Teodori, sulla stessa incostituzionalità dell’operato di quelle commissioni disciplinari. Parlare poi, come fanno i legali di Domenico Arcuri della “verificata estraneità alla P2 del Prefetto Arcuri” non basta a sancirlo un ritaglio di giornale, sua pure autorevole, del “Corriere della Sera”

A.C. per “Il Foglio” il 5 gennaio 2021.

Direttore, lei è indagato?

“Non ho notizie in tal senso, è una decisione che spetta alla procura di Bergamo. A ogni modo io sono tra quelli che pensano che un avviso di garanzia sia uno strumento a tutela dell’indagato”.

Ma lei come sta?

“Sto come una persona che subisce un attacco ingiusto, un attacco che risponde chiaramente a un disegno ben preciso”.

A parlare è Ranieri Guerra, il direttore vicario dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che, secondo il funzionario della stessa organizzazione Francesco Zambon, avrebbe esercitato pressioni per occultare le lacune del piano italiano sulle pandemie, fermo al 2006. “Mi pare che le accuse siano state disinnescate – riprende Guerra – Ho spiegato come sono andati i fatti: quando gli uffici di Ginevra mi chiedono di verificare l’attendibilità e la correttezza del rapporto, mando al collega Zambon le correzioni da apportare e il collega Zambon risponde di avere inserito centosessanta correzioni e di volere procedere alla pubblicazione senza neanche informare il ministro della Salute Roberto Speranza”.

Il quale la prende male.

“Il ministro era comprensibilmente contrariato, il documento non rispondeva allo standard minimo di qualità di un documento Oms, conteneva una serie di giudizi e critiche ma l’Oms si limita alle evidenze fattuali, ai numeri. Noi non muoviamo critiche ai singoli paesi, soprattutto in una fase epidemica acuta, quando l’azione meno utile è proprio quella di puntare il dito contro la strategia difensiva di un paese”.

L’accusa di Zambon è che lei abbia cercato di fare passare per “updated”, aggiornato, un piano che era il semplice copia-incolla di quello del 2006 al solo scopo di non infastidire il governo italiano.

“In realtà, la questione triviale riguardava la definizione di piano ‘vigente’. La dichiarazione di vigenza resta valida fin quando non si verificano cambiamenti nella situazione epidemiologica dell’influenza e il piano appare coerente con le linee guida in vigore dell’Oms. L’elemento che stimola infatti l’aggiornamento del piano anti pandemia è la pubblicazione periodica di nuove linee guida, com’è poi effettivamente accaduto nel 2018. La domanda è sempre la stessa: che cosa volete da me? I giornalisti dovrebbero informarsi su chi era ministro della Salute e direttore generale nel 2018. Aggiungo poi che l’ordine di rimuovere il rapporto, con divieto di ripubblicazione, non è partito da Ginevra ma da Copenaghen, da cui dipende l’ufficio di Venezia”. In effetti, è il capo dell’Oms Europa, Hans Kluge, che, in un’email indirizzata a Zambon, definisce il ministro della Salute “molto contrariato”, mentre del governo italiano diceva: “Si sono sentiti calpestati da un amico”. “Gliel’ho detto: si rivolgano a Kluge. Che c’entro io?”.

Fino al 2017 lei è stato direttore generale della prevenzione sanitaria presso il ministero di Lungotevere Ripa. La sua vicinanza alla politica l’ha forse esposto a influenze inopportune?

“Io ho sempre agito in autonomia e neutralità, del resto non sono il rappresentante dell’Oms per l’Italia, nomina che spetta al direttore regionale di Copenaghen”.

La accusano di conflitto di interessi.

“Quando sono stato individuato dal mio direttore generale (Tedros Adhanom, ndr) come figura di collegamento tra gli uffici europei dell’Oms e il governo italiano, ciò è accaduto in virtù della mia conoscenza del paese, della lingua, delle persone. In questo modo avremmo agevolato l’accesso alle risorse tecniche e scientifiche messe a disposizione dall’Oms”.

Intanto lei è stato nominato nel Comitato tecnico scientifico italiano, mentre Zambon rischia il posto.

“Forse Zambon aspirava a dirigere l’ufficio di Venezia, forse qualcuno gli ha proposto un paracadute o lui spera in un indennizzo, non so. Quel che so è che io non posso in alcun modo interferire con la carriera di Zambon, che appartiene a una filiera di comando diversa dalla mia: lui risponde agli uffici di Copenaghen, non di Ginevra. E’ tecnicamente impossibile. E poi, in ambito Oms, c’è un sistema di protezione del personale abbastanza blindato”. Perché non mostra le email che la scagionerebbero? “Perché sono un ligio e ossequioso osservante del codice etico interno alla mia organizzazione. Zambon ha infranto ogni deontologia etica e professionale, io intendo rispettare i colleghi e l’ente cui appartengo”.

Intanto, direttore Guerra, anche la reputazione dell’Oms non brilla. Avete esaltato il “modello cinese” senza mai una parola di censura verso il regime che ha nascosto per settimane il virus al mondo intero.

“E’ in lancio una missione che, con diversi esperti internazionali, dovrebbe ricostruire l’albero genealogico del virus per capire che cosa sia davvero successo”.

La Cina ha atteso almeno due settimane prima di comunicare all’Oms l’insorgenza del virus. “Parliamo di un paese estremamente complesso, e poi dal sospetto clinico fino alla messa a punto dei test, con l’inevitabile iter burocratico per la trasmissione e validazione dei dati, un po’ di tempo passa. Quanto ciò sia imputabile all’autorità cinese, non saprei dirlo”.

L’Oms consentirà la riammissione di Taiwan tra i suoi membri?

“La decisione spetta all’assemblea dei 193 paesi. L’Oms è un’organizzazione intergovernativa interna all’Onu il cui organismo politico rimanda alla segreteria generale, con sede a New York”.

Gli Stati uniti di Donald Trump hanno sospeso il pagamento dei contributi a un’organizzazione “filocinese”.

“Le assicuro che non esiste un’influenza politica distorta da parte degli Usa o della Germania, secondo contributore, né tanto meno del Regno unito, terzo contributore. Gli Usa restano principali contributori anche dal punto di vista dei finanziamenti privati.

Con il Center for Disease Control and Prevention di Atlanta abbiamo siglato un accordo che consente all’Oms di avvalersi della straordinaria competenza di una trentina di colleghi statunitensi”.

Dal dietrofront sulle mascherine al saluto con il gomito, dagli asintomatici “non contagiosi” fino all’uso dei guanti: perché l’Oms inanella brutte figure?

“Tutti quanti possono fare meglio, certo, ma giudicare con la conoscenza di oggi ciò che accadeva lo scorso 30 gennaio non ha senso. L’organizzazione convoca e consulta tutti gli esperti settoriali del mondo, un network globale di circa 700 scienziati, che riversa una marea di informazioni su Ginevra. Facciamo del nostro meglio ma non siamo infallibili”.

"Mi chiese di falsificare la data". È bufera sul rapporto dell'Oms sull'Italia. Francesco Zambon, ricercatore dell'Oms, parla a Non è l'Arena: "Ho ricevuto dal direttore aggiunto Guerra minacce". Giuseppe De Lorenzo, Lunedì 11/01/2021 su Il Giornale. La versione di Francesco Zambon. Dopo l'apparizione di Ranieri Guerra di alcune settimane fa, ieri sera a Non è l'Arena si è presentato il ricercatore dell'Oms al centro della grande polemica di fine 2020, quella relativa al rapporto dell'Organizzazione sulla gestione "caotica e creativa" del Coronavirus in Italia. Elogiato a più riprese da Massimo Giletti, Zambon si è preso la rivincita sul collega dell'Oms nell'attesa che la procura di Bergamo decida chi aveva ragione e chi torto.

Il rapporto scomparso. Il tema è noto. Tutto ruota attorno ad un report dell'Oms sulla gestione della prima fase dell'epidemia nel Belpaese e sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale dal lontano 2006. Il report, dapprima pubblicato sul sito dell'Organizzazione, improvvisamente scompare. A scovarlo è l'associazione dei familiari delle vittime di Bergamo, che lo porta alla luce. Perché l'Oms non vuole farlo leggere? Zambon denuncia pressioni da parte di Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell'Oms e membro del Cts italiano, nonché ex direttore della Prevenzione negli anni in cui il piano andava aggiornato. Lui nega tutto. Report manda in onda alcune sue mail e la faccenda diventa pure un caso diplomatico e giuridico. La procura di Bergamo convoca Zambon e gli altri ricercatori, ma l'Oms li invita ad avvalersi dell'immunità diplomatica. All'inzio solo Guerra, a titolo personale, si reca dai pm a fornire la sua versione. Poi dopo giorni di polemiche pure Zambon potrà ribattere di fronte ai magistrati.

Zambon a Non è l'Arena. Lo scontro a distanza svolto in procura si è ripetuto nel salotto di Giletti. Due i temi scottanti contenuti nel dossier: da una parte il passaggio in cui si dà atto che il piano pandemico era stato "riconfermato" nel 2017 ma non "aggiornato"; dall'altra la reazione italiana definita "improvvisata, caotica e creativa". Ieri sera Zambon è tornato sul contenuto di quelle mail con cui Guerra gli chiedeva di rivedere i contenuti spinosi. "Quando ricevetti la mail con tono intimidatorio - ha detto il ricercatore - pensai che Ranieri Guerra fosse in buona fede, e chiesi una verifica su tutti i piani pandemici dal 2006 ad oggi. Poi mi accorsi che non si trattava di buona fede, si trattava di un copia e incolla. Guerra stava cercando di coprire o mi chiedeva di falsificare qualcosa in un periodo in cui lui era stato direttore per la Prevenzione, quindi io vedevo un conflitto d'interesse rispetto al ruolo che occupa oggi".

Il piano pandemico era aggiornato? La versione di Guerra dice invece che nel 2016 il piano era stato rivalutato e dichiarato in vigenza. Era identico a quello del 2006? Sì, ma solo perché la "situazione epidemica" non era cambiata così come identiche erano le "regole del gioco" messe a punto dall'Oms. Che le cambierà solo nel 2017-2018. "Dal 2006 il quadro dell'influenza è cambiato eccome - ha replicato però Zambon - Abbiamo avuto la pandemia nel 2009 e i piani pandemici si aggiornano sulle base delle conoscenze che si acquisiscono durante le risposte alle pandemie. È falso dire che non c'erano linee guida: c'erano nel 2009, 2013 e 2017". Insomma, la richiesta di Guerra di aggiungere la parola "updated" a "reconfirmed" non era accettabile. "In questo lavoro non ero da solo, c'era un team di 10 persone. Le cose incluse nel rapporto sono accurate e questa di non scrivere 'updated' è stata valutata da tutto il team".

Il ruolo di Guerra e Speranza. Ci sono altre questioni in sospeso. La prima: perché Guerra, che non faceva parte del team di lavoro di Venezia, venne informato del rapporto? "Avevamo riunioni settimanali indette da Copenaghen con tutte le persone che lavorano nell'Oms in Italia per coordinare le azioni - ha spiegato Zambon - Il dottor Guerra era sempre coinvolto in queste comunicazioni settimanali. Non solo sapeva della pubblicazione, ma fu anche intervistato per un capitolo sulla linea di comando e controllo. È normale fosse informato perché era uno dei lavori dell'ufficio di Venezia". Seconda questione: chi avrebbe dovuto informare il ministro Speranza della lavoro svolto? Per Zambon, a doverlo fare sarebbe stato Guerra. "Lui è venuto in Italia con una comunicazione formale da parte del direttore generale al ministro Speranza - ha spiegato - dove Tedros dice 'ti mando Guerra per i rapporti diretti con te, il tuo ufficio e l'Iss'". Dunque, se informare il ministero sull'uscita di un dossier che riguarda il Paese è "buona norma" e una "cortesia istituzionale", questo era "un compito di Guerra" ma "non l'ha fatto".

Le mail di Zambon. Nel pieno dello scontro sul rapporto dell'Oms, Zambon scrisse anche una mail al direttore Tedros per chiedergli un incontro. Il motivo? "Ho ricevuto dal direttore aggiunto Guerra minacce in merito ad alcuni punti", si legge. Ma soprattutto il ricercatore temeva che ritirare un dossier per non infastidire un governo potesse provocare un danno di immagine alla indipendenza dell'Oms. "Fu una mail dolorosa per me - ha detto Zambon - Ho informato Tedros che la pubblicazione sarebbe stata utile per gli altri Paesi che stanno affrontando la pandemia. Nell'oggetto della mail scrissi 'rischio catastrofico reputazionale per l'Oms'". Ma nessuno ha mai risposto.

Zambon solo e Speranza infastidito. La polemica dunque continua. Zambon ha riferito di aver saputo che al ministero della Salute qualcuno si era risentito per la pubblicazione del dossier. Tra questi anche Speranza e il presidente dell'Iss. "Brusaferro l’ho sentito perché lo conosco - ha spiegato Zambon - non ha fatto commenti sul contenuto, ma solo sul fatto che non era stato informato". Rifarebbe di nuovo tutto? "Lo rifarei senz'altro. Ho fatto il mio dovere, anche quello di riportare delle malacondotte all'interno dell'Oms. Ho due validi avvocati che mi aiutano nella strategia. Il mio scopo non è andare contro l'Oms, nonostante loro si siano messi contro di me. Sto solo cercando di lottare per un'Oms più trasparente e priva di conflitti di interesse".

Francesco Borgonovo per “la Verità” il 28 maggio 2021. Ranieri Guerra è stato direttore generale della Prevenzione sanitaria del ministero della Salute (2013-2017). Nell' autunno del 2017 è diventato Assistant director general dell'Oms (di cui è ancora consulente). È stato l'inviato in Italia dell'Organizzazione mondiale della sanità per l'emergenza Covid, e il suo nome è apparso sui media in relazione ad alcuni casi di notevole interesse. Il primo è il mancato aggiornamento del piano pandemico italiano: Guerra viene accusato di non essersene occupato quando era al ministero. Poi c' è la storia del report realizzato dallo studioso dell'Oms Francesco Zambon, che ha suscitato aspre polemiche. Oggi Guerra è indagato dalla Procura di Bergamo - che sta lavorando proprio sulla gestione italiana dell'emergenza Covid - con l'accusa di «false informazioni ai pm». La Verità si è a lungo occupata di queste vicende: Guerra ci ha concesso un'intervista per offrire ai lettori la sua versione dei fatti.

In una intervista lei ha detto di non essere stato sostenuto a sufficienza dal ministero della Salute e dal ministro Speranza. È così?

«Io veramente ho detto che, a fronte di una campagna di denigrazione personale violenta e aggressiva, oltre che ingiusta e manipolata, mi sarei aspettato che Oms e ministero decidessero di fornire gli elementi fattuali indispensabili per ristabilire la verità. Per esempio, io non conosco il contenuto delle molte comunicazioni parallele tenute tra Hans Kluge e Francesco Zambon, non ho mai avuto accesso né al piano Covid segretato e neppure ai verbali della task force ministeriale, per non parlare dei verbali del Cts precedenti al mio arrivo in Italia, il 12 marzo 2020. Non sapevo neppure di molte delle azioni che il mio successore al Ministero, il collega Claudio D' Amario, da fine 2017 al maggio 2020 aveva compiuto con i ministri dell'epoca per dare seguito alla mia raccomandazione del settembre 2017 sulla riformulazione del piano antinfluenzale. Solo recentemente ho avuto visione della dettagliata descrizione della situazione che il dottor Francesco Maraglino ha inviato il 15 aprile 2020 al viceministro Sileri. In quella mail si fa menzione, tra l'altro, del Piano nazionale di difesa, segretato per motivi di sicurezza nazionale, di cui ugualmente non ho conoscenza diretta. Mi sento veramente come il capro espiatorio su cui hanno fatto convergenza due interessi (o forse due disinteressi), uno nazionale uno internazionale, che hanno finito per costruire una narrativa distorta e falsa che sono stato costretto a chiarire faticosamente e da solo».

Esiste una sua mail del 13 maggio 2020 in cui fa cenno a incontri con Massimo D' Alema. Perché vi siete incontrati? E che ruolo aveva D' Alema nei rapporti fra Italia e Oms?

«In realtà la mail fa riferimento ad una puntata di Report e non ci sono cenni ad incontri ma si dice testualmente che la trasmissione aveva come obiettivo oltre a Tedros, me, Speranza e D' Alema».

C' è però una comunicazione che lei ha inviato a Tedros il 29 maggio 2020. Si parla di un accordo con ministero e Iss per rivedere il report di Zambon e «ripubblicarlo velocemente».

Lei scrive: «Ho incontrato l'ex primo ministro italiano Massimo D' Alema e ho discusso del suo possibile influente supporto all' Oms, attivandosi e facendo promozione pubblica con Sherpa e Su-Sherpa per la presidenza del G20 Ita 2021». Dunque ripongo la questione: perché coinvolgere D' Alema? A che titolo? Di che avete parlato?

«Non si tratta di una mail, ma del mio travel report, da me compilato settimanalmente, che viene approvato dal mio supervisore diretto (Tedros) e inserito nell' intranet Oms a disposizione dello staff, ivi compreso Zambon. Si riferisce a un incontro avuto il giorno 27, per essere precisi, anche se la data di chiusura della missione è il 28. In ogni caso non ho alcun problema a chiarire. Ci siamo incontrati per motivi irrilevanti rispetto al report di Venezia, infatti si tratta di un punto autonomo di un dettagliato elenco di attività e questioni diverse tra loro: voleva capire bene cosa stesse avvenendo in giro per il mondo, quali fossero le dinamiche prevedibili del virus e che cosa ci potessimo aspettare in futuro, in particolare per una possibile seconda ondata. Mi ha illustrato la sua visione d' insieme del quadro globale non sanitario e il punto di vista politico ed economico. Ha manifestato grande sensibilità per le questioni relative alla sicurezza in sanità, che erano parte del dialogo appena avviato con lo sherpa italiano del G20 del 2021. L' Oms partecipa sempre a questi eventi su invito della presidenza, in questo caso italiana, e si propone come interlocutore per le grandi tematiche globali che la presidenza decide di inserire nell' agenda con la consultazione degli altri membri. Ho ritenuto utile segnalarlo a Tedros per gli sviluppi del rapporto con l'Italia, come peraltro avvenuto con molti altri interlocutori».

Parliamo del cosiddetto «piano segreto». C' è una mail del 21 aprile 2020 in cui si legge: «Vista l' uscita di Urbani oggi sul Corriere circa il piano segreto, non mi voglio sottoporre a questioni per cui il no comment sarebbe d' obbligo, e la vicenda non finirà prima di metà maggio». Perché il no comment era d' obbligo? Che avrebbe voluto dire sul «piano segreto»?

«L'apparato di difesa del Paese è complesso. Oltre al Piano antinfluenzale, c' erano infatti un Piano nazionale Covid e il Piano nazionale di difesa. Mentre quest' ultimo è segreto, il Piano Covid venne elaborato a gennaio dal ministero, dall' Iss e dalla Protezione civile (è a quello che allude Urbani), ma subito segretato per le regole del Cts, prima del mio arrivo il 12 marzo 2020. Io ne conoscevo l' esistenza (e ne avevo infatti subito informato gli uffici Oms di Ginevra e Copenaghen, e, quindi, Venezia con Zambon, che se ne dimentica nel suo libro) ma non ne ebbi visione, fino alla sua pubblicazione televisiva. Il senso del no comment è che non avevo le informazioni, e si sarebbe dovuto chiedere al governo italiano, a Urbani, a Miozzo e al ministro, il quale di recente ha dichiarato a Lucia Annunziata come stessero le cose, sia per quanto riguarda la non attivazione del Piano antinfluenzale del 2006, che per la redazione del nuovo Piano Covid. Sono convinto che assieme sarebbero stati utili per le azioni di preparazione pre pandemiche: forse tra i primi giorni di gennaio e la fine di febbraio 2020 si sarebbe potuto agire con maggiore aggressività, ma io non sono parte del governo e certamente non ho tutte le informazioni che hanno portato a quelle decisioni».

Esiste dunque un piano segreto contro il Covid? Viene sempre citato in proposito uno studio della fondazione Kessler, ma si può definire piano quello?

«Io so di un documento che si chiama Piano nazionale in risposta a un' eventuale emergenza pandemica da Covid-19. Difficile classificarlo diversamente. Credo anche che sia molto chiaro al proposito il verbale ora pubblico del Cts numero 22 del 9 marzo 2020, che recita letteralmente: "Si ritiene utile ribadire, ai fini dell' informazione alla popolazione, che il Cts, in collaborazione con il ministero della Salute e l'Iss, si è da tempo dotato di un Piano nazionale in risposta a un' eventuale emergenza pandemica da Covid-19 e che tutte le azioni fino ad oggi suggerite ed adottate sono coerenti con i diversi stadi di sviluppo previsti dal Piano", chiedendo all' Iss di "aggiornare le stime relative al Piano..., fino ad ora utilizzato come riferimento per le raccomandazioni circa il contenimento e la gestione dell' emergenza nelle aree interessate, mantenendo secretate le informazioni ivi contenute". Mi sembra che la questione sia chiarissima».

Veniamo alle chat intercorse tra lei e Brusaferro (che provengono verosimilmente dall' acquisizione disposta dalla procura di Bergamo del contenuto informatico del cellulare di Brusaferro ad ottobre 2020). Lei ha davvero incontrato Goffredo Zaccardi, capo di gabinetto di Speranza, il 18 maggio 2020?

«Ho incontrato il capo di gabinetto, così come il ministro, molte volte, dato che mi era stata data ospitalità logistica al ministero. Lo scopo delle riunioni, sempre informali, era di avere la possibilità di rendere conto delle mie attività in Italia e di aggiornare il vertice ministeriale in merito alle iniziative dell'Oms, esattamente come previsto dai miei termini di incarico. Avevo anche il compito di trasmettere quesiti e richieste di chiarimento ai colleghi dell' emergenza di Ginevra e di Copenaghen su questioni di interesse per il contenimento dell' epidemia. Per quanto concerne le chat, ribadisco quanto già ampiamente detto dal mio legale, avvocato De Vita: pezzi di messaggi decontestualizzati e incompleti, di cui non conosciamo nemmeno l' origine, nulla dicono rispetto a quello che è ormai provato e documentato agli atti del procedimento su chi e perché abbia prima non autorizzato, poi ritirato e poi non ripubblicato il rapporto, e per quali motivi. Quel che è adesso noto a tutti è che non sono stato io e non è avvenuto per ragioni italiane».

Ma in quell' incontro specifico che cosa vi siete detti con Zaccardi?

«Abbiamo discusso del contenimento dell' epidemia e, con l' occasione, gli ho prospettato anche l' ipotesi di un salvataggio del rapporto di Venezia, già ritirato da Zambon il 14 maggio 2020, dopo la pubblicazione da lui decisa nella sera del 13 maggio, con l' invio a Venezia di tecnici dell' Iss che potessero fornire agli estensori del rapporto tutti gli aggiornamenti, i dati e le informazioni di cui il rapporto era carente. Ho anche spiegato quale fosse stato l' iter inusuale seguito da Zambon per forzare la pubblicazione, compresa la sua decisione di non informare il ministro, dopo averne a suo tempo ottenuto il gradimento sulla base delle tre pagine di indice che io - richiestone da Zambon stesso (le mail sono chiare al proposito e sono incontestabili) - avevo avuto modo di prospettare, assieme al resto del progetto finanziato dal Kuwait. A questo proposito, avevo anche necessità, come richiesto dall' ufficio di Copenaghen, titolare del finanziamento, di avere indicazioni sulle regioni da assistere: mi venne infatti proposto dal dottor Zaccardi di verificarne la fattibilità con regione Lombardia (poi sostituita da regione Sicilia) e con regione Calabria. Cosa che feci, ma che purtroppo non ebbe conclusione per decisione di Copenaghen, comunicatami solo a marzo 2021, che portò al ritiro dell' intero finanziamento del Kuwait a favore dell' Italia per le problematiche legate a Zambon».

Lei ha fatto cenno a un progetto articolato a favore dell' Italia, anche questo menzionato da Zambon. Di che si tratta?

«Vengo informato da Copenaghen a fine marzo 2020 dell' esistenza di una possibilità di finanziamento e mi si chiede di elaborare un' ipotesi. Propongo applet avanzatissime per un sistema di sorveglianza a distanza e telemonitoraggio da affidare alla medicina territoriale, così da garantire la gestione del paziente a domicilio. A questo aggiungo ecografi portatili wireless, collegabili in remoto con centrali specialistiche per avviare il possibile ricovero ospedaliero con un triage a distanza».

E poi?

«Zambon mi chiede di diminuire il valore della fornitura per poter finanziare il suo Rapporto. Lo concedo senza problemi e concordo anche di affidare a lui la direzione del progetto. Ottengo il previsto nulla osta dei due ministri competenti, Speranza e Pisano. Il Gabinetto di Speranza mi indica anche in quali regioni implementare il progetto (inizialmente Lombardia, poi Sicilia e Calabria). Copenaghen, ottenute le richieste formali delle due regioni, cambia poi per tre volte le procedure, facendo perdere tempo prezioso, chiudendo poi le comunicazioni fino al 24 marzo 2021, quando, a mia richiesta, mi viene incredibilmente risposto che, a causa delle problematiche sollevate da Zambon e a causa di altre scadenze, l' ufficio di Copenaghen aveva deciso di ritirare il finanziamento per l' Italia, cancellando il progetto (di cui era parte anche il Rapporto di Venezia, poi pagato con altri fondi) a scanso di ulteriori polemiche, dimenticando però nel frattempo di avvertire oltre che me, il ministro e le due amministrazioni regionali interessate. In questo modo, si è creato un ulteriore danno al Paese».

Restiamo sulle chat. Lei e Brusaferro concordate che, «digerito assieme», il lavoro di Zambon avrebbe comunque potuto essere utile. Lei dice poi che fu Zaccardi a proporre di far cader il report. Perché chiese una cosa del genere?

«Ribadisco quanto già detto sulle chat, ma visto che non mi sono mai sottratto al confronto sui fatti, le rispondo su quanto effettivamente accaduto. Quello che lei dice non è esattamente quel che è stato. Il commento del dottor Zaccardi fu che se nessuno avesse chiesto di rivedere e rilanciare il rapporto non avrebbe avuto senso provare a ripubblicarlo su proposta unilaterale italiana, visto che si trattava comunque di un' iniziativa Oms. Nel caso invece che Kluge avesse deciso per una revisione e ripubblicazione, allora ci sarebbe stata la disponibilità tecnica a collaborare con gli autori, espressa dall' Iss. Solo Kluge aveva la possibilità di ripubblicare il rapporto e di disporre sulla relativa procedura. Anche su questo lo stesso Zambon è stato chiaro nelle sue ultime interviste, dopo avermi accusato sia del ritiro da lui disposto, che della mancata ripubblicazione del testo, decisa invece da Kluge».

In una chat con Brusaferro lei dice che alla riunione del 18 maggio 2020 con Zaccardi per ricontrollare il report di Zambon ha incontrato «a seguire» Speranza. È vero?

«Sulle chat vale quanto premesso nella precedente risposta. Come già detto, si sono tenute diverse riunioni periodiche di aggiornamento e discussione della situazione».

Ma quel giorno cosa vi siete detti lei è il ministro? Le ha rinnovato la richiesta di «far morire» il report?

«Assolutamente no. Non ho mai ricevuto una richiesta del genere, né dal ministro né dal capo di gabinetto né da nessun altro del governo italiano. Quanto accaduto è stato raccontato anche dallo stesso Zambon. Nessuno ha provato a far morire il rapporto, anche perché era parte di un progetto molto più ampio e sarebbe stato interesse di tutti di farlo ripubblicare. Perché Kluge abbia deciso di non farlo io sinceramente non lo so, non mi è stata mai comunicata la ragione e non l' ho mai capito».

Cosa le disse Speranza quando seppe della pubblicazione del report di Zambon?

«Si disse molto sorpreso che venisse pubblicato un rapporto sull' Italia senza che l' Italia lo sapesse. E aveva ragione, la stessa ragione che avevo cercato di spiegare a Zambon quando lui decise di procedere senza avvisare nessuno, neppure me, comunicandomelo a pubblicazione avvenuta, la sera del 13 maggio. Il perché di questa fretta e di questa mancanza di trasparenza non mi è ancora chiaro, anche considerando che a metà marzo mi era stato chiesto proprio da Zambon di verificare il gradimento del ministro sulle tre pagine di indice preliminare che mi erano state trasmesse da lui stesso».

Parliamo dell' aggiornamento del piano pandemico. Prima della sua nota del settembre 2016, aveva già avvertito il ministro Lorenzin che il Piano andava aggiornato? In che modo?

«La nota è del 2017. Credo sia una questione poco rilevante, visto che anche se si fosse deciso per avviare subito il rinnovo, a gennaio 2018 si sarebbe dovuto comunque rifare tutto: era stata emanata un' istruzione europea a dicembre del 2017 per gli aggiornamenti coordinati a tutti gli stati membri, era entrata in vigore la legge sulla Protezione civile a gennaio 2018, ed erano stati pubblicati diversi manuali e linee guida dell' Oms nei primi mesi del 2018, a seguire di un primo documento di metà 2017. Ad agosto del 2018, infatti, il collega D' Amario ripropone correttamente l' avvio del processo di revisione al ministro Grillo, ma non so cosa sia accaduto dopo».

Il 27 gennaio 2020 lei partecipò a una riunione della task force anti Covid voluta da Speranza. Chi le chiese di partecipare?

«Ero in transito in Italia dalla Repubblica Democratica del Congo, dove stavo lavorando già da mesi, e mi venne chiesto dal ministro stesso, se non ricordo male. Ma furono solo un paio d' ore, in cui parlai alla task force della situazione globale e delle prossime iniziative dell' Oms. Lei in quella sede affermò testualmente che «tra i Paesi occidentali, l' Italia è la più fornita e la più attenta».

Su quali basi si fondava il suo giudizio?

««Per le iniziative già prese dal governo e per l' attivazione di una task force multisettoriale di coordinamento non frequente da vedere. Non avevo altre notizie dato che i verbali delle sedute di task force erano segretati. Vedendo il livello di forte sottovalutazione da parte di tutti i Paesi dell' area, pensai che avere una conduzione e un coordinamento così solidi fosse di per sé un elemento di forza per decisioni operative tempestive. Conoscevo anche bene la legge sulla Protezione civile del gennaio 2018 e i sistemi di sorveglianza del Paese, in funzione presso l' Iss e lo stesso ministero, tra i migliori e più avanzati dei Paesi europei. Io poi cominciai a interessarmi dell' Italia intorno al 5 marzo per ritornarvi poi l' 11 marzo su decisione del mio direttore generale».

Veniamo alle conclusioni. Ha la sensazione che vogliano scaricare solo su di lei la responsabilità del mancato aggiornamento e del ritiro del report di Zambon?

«Più che una sensazione, mi sembra sia una certezza confermata dai fatti. Sono stato il perfetto capro espiatorio. Io non ho responsabilità su un aggiornamento che si sarebbe dovuto cominciare a costruire a metà del 2018. Ci sarebbe stato tutto il tempo e il modo per recepire le istruzioni e la manualistica, oltre che i provvedimenti di legge, intervenuti dopo la mia partenza dall' Italia. E su questo, nonostante le bugie e le manipolazioni di molti, mi sembra ci sia ormai evidenza chiarissima. Per quanto riguarda le vicende legate al rapporto di Venezia, credo che le mail depositate dall' avvocato De Vita siano sufficienti a chiarire tutto su chi abbia pubblicato, chi abbia tolto e non ripubblicato il rapporto stesso. Ritengo quel rapporto irrilevante rispetto alle numerose pubblicazioni scientifiche (circa diecimila) disponibili tra inizio epidemia e la metà di maggio solo sull' Italia, quando, non ce lo dimentichiamo, la curva epidemica era avviata all' estinzione nel nostro Paese e in Europa».

Sappiamo che non fu lei a fare ritirare il report di Zambon ma fu Zambon stesso per fare alcune correzioni. Fu lei a bloccare la successiva ripubblicazione?

«Assolutamente no, come già detto e ripetuto più volte: il contrario. Io cercai di contribuire alla sua ripubblicazione proponendo a Hans Kluge di procedere. Io non avevo e non ho nessun potere nel merito. La questione fu gestita da Kluge, come dichiarato dallo stesso Zambon. A loro vanno poste queste domande. Io non ho avuto accesso alle comunicazioni tra i due, che esistono e non sono mai state rese pubbliche né da Zambon né da Kluge stesso, ma ritengo significativa la mail di quest' ultimo del 15 maggio 2020».

Se non fu lei a impedire che il report tornasse online, perché scrisse che si era rivolto a Tedros per fermarlo?

«Io diedi il mio resoconto sia a Tedros che a Kluge della vicenda relativa alla pubblicazione, decisa affrettatamente da Zambon il 13 maggio sera, senza il parere conclusivo dell' ufficio legale Oms e senza considerare la cortesia istituzionale dovuta al ministro. Della pubblicazione mi venne data informazione da Zambon solo a giochi fatti. Non parlai mai della ripubblicazione, se non per il tentativo, non accettato da Kluge per motivi che ancora non conosco, di procedere in quel senso subito. Ripeto che fui io a cercare di salvarlo».

Pensa che l' Oms l' abbia difesa a sufficienza?

«L' Oms non mi ha mai difeso, e sto ancora aspettando che venga data la risposta istituzionale alla rogatoria che non mi venne neppure comunicata dalla stessa Oms. Ne venni a conoscenza dalla stampa, con molta amarezza e la sensazione di essere appunto il capro espiatorio ideale per tutti e un facile e ignaro bersaglio, in piena buona fede. Il mio silenzio iniziale sulla vicenda è stato dovuto al rispetto istituzionale a cui mi sono sempre ispirato e al divieto che ricevetti dall' Oms a reagire utilizzando mail, comunicazioni e altre evidenze fattuali che avrebbero probabilmente fermato subito il crescendo di insulti e minacce a cui sono stato sottoposto e che mi hanno poi portato alla decisione, una volta venuto a conoscenza di essere indagato, di esercitare il mio diritto a difendermi in ogni contesto».

·        Gli errori dell'Oms.

Mirko Molteni per "Libero Quotidiano" il 30 settembre 2021. Da un anno e mezzo la pandemia Covid-19 ha portato sotto i riflettori l'Organizzazione Mondiale della Sanità, criticata per aver coperto le responsabilità della Cina in fatto di mancate o tardive informazioni sull'origine del virus SARS-CoV-2. Ma l'OMS ha sulla coscienza anche di peggio. E' stato infatti completato e presentato alla sede dell'ente, a Ginevra, un rapporto di 35 pagine che conferma gli stupri perpetrati da personale dell'OMS nella Repubblica Democratica del Congo, l'ex-Zaire, fra il 2018 e il 2020. Era il periodo in cui la parte orientale del paese africano, le regioni del Nord Kivu e dell'Ituri, ma anche lembi del confinante Uganda, era colpita da un'epidemia di virus Ebola. Dall'agosto 2018 al giugno 2020, la febbre emorragica Ebola uccise in modo orrendo 2280 persone su 3470 contagiati, con un tasso di mortalità del 65%. In una situazione già tragica, s' è innestato un dramma d'altro tipo. Secondo la Commissione d'inchiesta indipendente che ha compilato il rapporto, 83 operatori umanitari, di cui 21 membri acclarati dell'Oms, gli altri in via di verifica, avrebbero stuprato 63 donne e 12 uomini, sulla base di ricatti, per esempio minacciando di non assumere le vittime come cuochi o per le pulizie, odi far loro perdere il lavoro. Il direttore generale dell'Oms, l'etiope tigrino Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha ammesso le responsabilità dell'ente in carenza di sorveglianza e disciplina, chiedendo scusa alle vittime: «Mi spiace per quello che vi è stato fatto da persone che erano impiegate dall'OMS per servirvi e proteggervi. Mi spiace per la continua sofferenza che questi eventi devono causare, mi dispiace che abbiate dovuto riviverli. Grazie per il vostro coraggio». Il direttore ha assunto la «responsabilità» dell'accaduto ammettendo che gli abusi sono stati resi possibili da «carenze» interne. Ghebreyesus promette un'inchiesta parallela dell'ente internazionale nel rintracciare con certezza tutti i colpevoli, che subiranno «gravi conseguenze». Finora, molto è stato ricostruito dalla Commissione indipendente presieduta da due energiche donne africane, l'ex ministro degli Esteri del Niger, Aïchatou Mindaoudou, e l'attivista congolese per i diritti umani Julienne Lusenge. La commissione ha interrogato le vittime che hanno avuto il coraggio di parlare, ma l'indagine non è ancora finita. Il rapporto parla di «lacune strutturali e negligenze individuali» nell'Oms, pur tenendone fuori Ghebreyesus e altri dirigenti, come il direttore esecutivo irlandese Michael Ryan o la dottoressa Matshidiso Moeti, del Botswana, capo regionale per l’Africa. La commissione aveva iniziato i lavori nell'ottobre 2020, dopo che dal Congo erano filtrate le prime denunce. Le donne subivano "agguati" negli ospedali e nelle case dei medici, ricattate o intontite con bevande drogate. Gli aguzzini erano sia congolesi dipendenti dell'OMS, assunti con contratti temporanei, sia membri dello staff internazionale, cittadini di Belgio, Burkina Faso, Canada, Francia, Guinea e Costa d’Avorio. Gli stupratori non usavano il preservativo e almeno due donne sono rimaste incinte, senza contare i rischi di malattie veneree. Oltre che negli ospedali, le vittime venivano abbordate fuori dai supermercati, soprattutto nella città di Beni, e presso i centri di collocamento. Alcune donne congolesi hanno definito questi abusi «il passaporto per l'impiego» e altre hanno detto agli inquirenti: «Ti assumevano con le palle degli occhi». Una ragazza di 25 anni, impiegata per le pulizie, era stata invitata a casa di un medico dell'OMS per parlare di una promozione. Ha narrato: «Lui ha chiuso la porta e mi ha detto: "C'è una condizione. Dobbiamo fare sesso, adesso". Ha iniziato a spogliarmi. Ho cominciato a piangere dicendogli di fermarsi, ma non si è fermato. Allora ho aperto la porta e sono scappata». Una donna di 32 anni che invece era appena guarita dall'Ebola è stata invitata da un membro OMS in un albergo per una consulenza. Ha raccontato che nella sala dell'albergo le è stata offerta una bevanda. Si è svegliata qualche ora dopo, nuda e sola, in una stanza dell'hotel, dopo essere stata probabilmente violentata. Il danno d'immagine è devastante per la massima autorità sanitaria mondiale. E pensare che appena tre giorni fa Ghebreyesus aveva inaugurato insieme al presidente francese Emmanuel Macron la nuova accademia dell'OMS a Lione, che sfornerà 16.000 medici e funzionari all'anno.

IL RAPPORTO. Le colpe dell’Organizzazione mondiale della sanità e della Cina nella diffusione del Covid-19. Il virus è la Chernobyl del nostro secolo spiega un dossier degli ispettori indipendenti oms. Che punta il dito contro il rischio sottovalutato e la sudditanza al Dragone. Fabrizio Gatti su L'Espresso/La Repubblica il 30 giugno 2021. La pandemia di Covid-19 è come l’incidente di Chernobyl. Il riferimento al disastro nucleare del 1986 è subito scritto a pagina 4 del rapporto sulla diffusione del nuovo coronavirus, pubblicato dall’Independent panel, il gruppo di valutazione istituito dall’Assemblea mondiale della sanità, l’organo legislativo dell’Oms. E tra le raccomandazioni agli Stati membri, la bocciatura dell’attuale direttore generale, l’ex ministro etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, è evidente. Tanto che i tredici componenti del panel, dopo un anno di lavoro, suggeriscono che il delicatissimo incarico venga assegnato in futuro a un candidato esperto e senza alcuna possibilità di rielezione dopo il primo mandato. L’Organizzazione mondiale della sanità è la prima autorità al mondo a subire un’indagine indipendente sulle decisioni prese durante i mesi cruciali, da dicembre 2019 a maggio 2020: periodo in cui, secondo gli esperti, l’epidemia di polmoniti virali scoppiata a Wuhan poteva essere contenuta. Una verifica trasparente che il regime totalitario cinese rifiuta fin dallo scoppio dei primi focolai. E che nemmeno nazioni democratiche come Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno finora avviato o concluso. Non è un caso se il rapporto intitolato Covid-19: make it the last pandemic (Covid-19: facciamone l’ultima pandemia), un mese dopo la sua presentazione all’Assemblea lo scorso mese di maggio, non ha avuto l’attenzione che meritava. Il direttore generale dell’Oms e tutto il suo vertice costituiscono tuttora la foglia di fico dietro cui nascondere le catastrofiche inefficienze dei governi nazionali e, per molti di loro, la sudditanza economica e politica dalla Cina. Il copyright vegetale è di Ranieri Guerra, ex direttore della Prevenzione del ministero della Salute e inviato personale di Tedros in Italia, messo alle costole del ministro Roberto Speranza su richiesta di Speranza. Guerra oggi è più famoso per essere il primo direttore aggiunto nella storia dell’Oms indagato per false informazioni al pubblico ministero, dopo essere stato interrogato dalla Procura di Bergamo sul mancato aggiornamento del piano pandemico nazionale. «Covid-19 è la Chernobyl del Ventunesimo secolo», scrive il gruppo di esperti guidati dal premio Nobel per la pace, Ellen Johnson Sirleaf, ex presidente della Liberia, e Helen Clark, ex premier della Nuova Zelanda. «Non perché un focolaio infettivo sia come un incidente nucleare, ma perché ha mostrato così chiaramente la gravità della minaccia alla nostra salute e al nostro benessere. Ha provocato una crisi tanto profonda ed estesa che presidenti, primi ministri e capi di organismi internazionali e regionali devono ora accettare urgentemente le loro responsabilità e trasformare il modo in cui il mondo si prepara a rispondere alle minacce per la salute globale. Se non ora, quando?», ribadisce il rapporto. I silenzi e l’arretratezza tecnologica dell’Unione Sovietica portarono al disastro e aggravarono le conseguenze dell’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl, che i tecnici in servizio la notte del 26 aprile 1986 avevano spinto oltre i suoi limiti progettuali durante un esperimento. Ma oggi il riferimento a Chernobyl richiama le responsabilità, i depistaggi e la precarietà tecnologica dei laboratori di ricerca del nuovo impero comunista cinese. Un diplomatico richiamo a quanto il mondo libero potrebbe scoprire nei prossimi mesi, soprattutto dopo la defezione negli Stati Uniti di Dong Jingwei, un ufficiale del controspionaggio di Pechino, di cui Washington ha dato notizia negli ultimi giorni. Gli esperti dell’Independent panel nel loro rapporto ripercorrono le settimane tra l’allarme lanciato il 30 dicembre 2019 dai medici di Wuhan, poi puniti per questo dalle autorità del regime cinese, e la dichiarazione di emergenza sanitaria pubblica di rilevanza internazionale (Pheic) da parte del direttore generale Tedros Ghebreyesus, il 30 gennaio 2020. Il comitato di emergenza dell’Oms, che avrebbe dovuto affidare a Tedros l’avviso, si era riunito tra il 22 e il 23 gennaio e si era diviso sulla necessità di dichiarare la Pheic, nonostante proprio in quelle ore Pechino decidesse il confinamento di Wuhan e di tutta la provincia di Hubei.

I DOCUMENTI

«Il giudizio del Panel è che il focolaio di Wuhan è probabile avesse le caratteristiche perché fosse dichiarata una Pheic al momento della prima riunione del comitato di emergenza, il 22 gennaio 2020», annota il rapporto. La settimana persa ha dato al virus Sars-CoV-2 un ulteriore vantaggio per diffondersi nel mondo: a cominciare dalla Lombardia, la prima regione travolta dal contagio al di fuori della Cina. Un altro colpevole errore dell’Organizzazione mondiale della sanità è non aver messo subito in allarme il pianeta sulla probabile trasmissione umana della nuova infezione. Il ministero della Sanità cinese sapeva fin dalla notte del 5 gennaio 2020 che il coronavirus si diffondeva con il respiro da persona a persona. Il pericolo era stato segnalato dal Centro clinico di salute pubblica di Shanghai, che per primo aveva trascritto il codice genetico del nuovo virus e aveva anche scoperto la sua strettissima parentela con due coronavirus dei pipistrelli, isolati e indotti al salto di specie durante esperimenti militari dell’esercito cinese nel 2017.

Come ritorsione per l’eccessiva libertà scientifica dimostrata, il 12 gennaio il centro di Shanghai venne chiuso per mesi dall’autorità sanitaria. E, undici giorni dopo, quando Wuhan si ritrovò isolata dal resto del mondo, il fedele direttore generale dell’Oms fece una dichiarazione grottesca: «Sappiamo che c’è trasmissione da persona a persona in Cina... In questo momento non c’è nessuna prova di trasmissione da persona a persona fuori dalla Cina», come se il virus potesse riconoscere la provenienza geografica delle sue vittime.

L’INCHIESTA

«Mentre l’Oms segnalava la possibilità di trasmissione umana soltanto nel periodo in cui era stata confermata», evidenzia ora il rapporto indipendente, «il giudizio del Panel è che l’Oms avrebbe potuto avvertire i governi affinché adottassero la precauzione di considerare reale la trasmissione da persona a persona. Per ciò che conosciamo delle infezioni respiratorie, sarebbe il caso di assumere il principio che per qualsiasi focolaio provocato da patogeni di questo tipo, venga considerata la trasmissione umana, a meno che le prove dimostrino altrimenti». Non è vero che l’infezione non poteva essere contenuta o che soltanto un regime totalitario come quello cinese avrebbe potuto fermare la sua diffusione: «Dei ventotto Paesi analizzati in profondità dal Panel, quelli che hanno scelto un contenimento aggressivo includono Cina, Nuova Zelanda, Corea del Sud, Singapore e Vietnam. La maggior parte dei Paesi che hanno adottato questa risposta contro il Covid-19, hanno operato attraverso una struttura di controllo centralizzata e coordinata... Al contrario, i Paesi con i risultati peggiori... non hanno avuto la capacità di mobilitarsi rapidamente e di coordinarsi tra la risposta nazionale e quella regionale». Per ragioni diplomatiche, gli esempi da non seguire non vengono citati. Ma questa descrizione si adatta perfettamente all’Italia. Mentre tra i casi virtuosi, ancora una volta, non viene ricordata Taiwan. Sempre per non indispettire il regime cinese. Affinché non si ripeta la catastrofe, da cui non siamo ancora usciti, il report suggerisce otto pagine di raccomandazioni, con la relativa scadenza temporale. Una di queste dovrebbe impedire a Tedros Ghebreyesus di ricandidarsi: «Rafforzare l’autorità e l’indipendenza del direttore generale, prevedendo un singolo mandato di sette anni e nessuna possibilità di rielezione», scrivono gli esperti: «La stessa regola dovrebbe essere adottata per i direttori regionali». L’Assemblea mondiale della sanità, aggiunge il rapporto, deve inoltre dare potere all’Oms di indagare sugli agenti patogeni con potenziale pandemico in tutti i Paesi, con breve preavviso nell’accesso ai siti rilevanti e ai campioni accumulati. E a loro volta i governi devono fornire visti per ingressi multipli agli esperti internazionali perché possano visitare i luoghi dove scoppiano focolai. Il comitato di emergenza che supporta il direttore generale nelle sue decisioni deve essere pienamente trasparente nella sua composizione e nei suoi metodi di lavoro. E lo stesso giorno in cui è dichiarata una Pheic, l’Oms deve fornire ai Paesi indirizzi chiari su quale azione deve essere intrapresa e da chi, al fine di contenere la minaccia sanitaria. L’Organizzazione mondiale della sanità, proseguono gli esperti dell’Independent panel, deve assumere l’autorità esplicita di pubblicare immediatamente notizie sui focolai con potenziale pandemico, senza la necessità di una precedente autorizzazione da parte del governo nazionale interessato. Il lungo elenco di raccomandazioni comprende anche misure per tutelare l’indipendenza finanziaria dell’Oms e per rifornire di vaccini contro il Sars-CoV-2 le nazioni a basso e medio reddito. E tra i provvedimenti da adottare al più presto, una richiesta riguarda il reclutamento dei dipendenti: «Dare priorità alla qualità e alle prestazioni del personale, a qualsiasi livello dell’Oms, e depoliticizzare le assunzioni (soprattutto ai livelli apicali), aderendo a criteri di merito e di competenza adeguata», concludono l’ex presidente della Liberia, l’ex primo ministro della Nuova Zelanda e gli altri membri nominati dall’Assemblea. L’umanità ha già percorso una strada simile a quella ora tracciata dall’Independent panel: è successo trentacinque anni fa quando, dopo il disastro di Chernobyl, il mondo ha messo fine alla corsa incontrollata alle armi nucleari. Ma l’incognita oggi è il nuovo impero comunista: il presidente Xi Jinping sarà disposto a condividere le troppe informazioni ancora segrete sulla corsa militare e civile della Cina ai nuovi coronavirus?

Quel filo rosso tra Bill Gates e l’Oms. Andrea Massardo su Inside Over il 18 giugno 2021. Come sottolineato dalla Ong Global Justice alla conferenza sul clima di Davos del 2016, la Gates Foundation possiede le conoscenze e gli strumenti economici per poter potenzialmente condizionare le scelte di ogni istituzione nazionale e internazionale. Un potere molto forte, che discende in parte dalle esperienze passate del fondatore della Microsoft, Bill Gates, e in parte dallo scambio diretto di informazioni e conoscenze con le multinazionali che da sempre sostengono le mission della società no-profit nordamericana. È forse per questo motivo che, nel corso dello scorso anno, la figura di Gates venne indicata addirittura dalle teorie cospirazioniste come la vera fautrice della pandemia, a causa anche degli enormi benefici che il magnate americano ne avrebbe ricavato. Benché tale possibilità sia stata smentita, è però indubbio che una larghissima fetta degli interessi economici della Gates Foundation ruoti attorno al settore della sanità, della farmaceutica e della ricerca vaccinale. Ed è forse anche per questo motivo che, la stessa no-profit, risulta essere il più grande finanziatore privato dell’Organizzazione mondiale della sanità, secondo soltanto agli Stati Uniti d’America.

Bill Gates è il manovratore dell’Oms?

Il forte legame tra la Gates Foundation ed il settore farmaceutico, unito ai generosi finanziamenti stanziati annualmente all’Oms, ha indotto molti a credere che dietro alle scelte operative dell’istituzione sanitaria con sede a Ginevra ci sia lo stesso Bill Gates. Un’accusa coraggiosa e che forse si potrebbe spingere un po’ troppo oltre, ma che trova comunque il suo fondamento su una serie di casualità che, negli anni, hanno visto una simbiosi sempre più perfetta tra le ricerche mediche della no-profit e gli obiettivi dell’Oms. Come messo in evidenza dal professor Antoine Flahault dell’Università di Ginevra e riportato da La Repubblica, le capacità economiche della Gates Foundation, anche inconsciamente, potrebbero spingere davvero l’Organizzazione ad adattare il suo piano d’azione in relazione alle mission della no-profit.

Un esempio, infatti, potrebbe essere trovato nell’impegno che nello scorso decennio venne messo in campo sia dai laboratori di ricerca della Gates Foundation sia dall’Oms nei confronti della polio, malattia quasi scomparsa nel mondo occidentale ma che ancora vessava i Paesi africani. A livello di casi annuali, mortalità e difficoltà nel contrasto, però, ha sempre presentato meno criticità rispetto alla lotta contro un nemico ben più difficile da eradicare come l’Aids. Tuttavia, dal 2016 in avanti gli sforzi economici sia della Gates Foundation prima sia dell’Oms poi si sono concentrati principalmente contro la polio (come si può evincere dal bilancio annuale 2019 della società nordamericana).

L’interesse incrociato per la polio è stato il primo campanello d’allarme?

Al netto del risultato ottenuto (nel 2020 sono stati riscontrati solamente 37 casi a livello mondiale), è interessante però la coincidenza temporale che ha spinto sia la no-profit sia l’Oms nella direzione della lotta contro la polio. Concomitanza che, all’inizio di quest’anno, si è potuta riscontrare anche nella lotta ad un’altra serie di malattie che fino a quel momento sembravano essere passate in sordina: le malattie tropicali neglette. Anche in questo caso, infatti, l’interesse dell’Oms sembrava essere stato anticipato dal focus sulla questione della Gates Foundation, che nel corso degli scorsi anni e degli scorsi mesi ha mobilitato le ricerche di una cura per i principali patogeni in questione.

L’unità di intenti tra Gates e Oms confermato anche dalla pandemia di coronavirus

Con lo scoppio, nel corso dello scorso anno, della pandemia di coronavirus, la sinergia tra la Gates Foundation e l’Oms si è rafforzata ulteriormente, con la società privata che si è rivelata in grado di investire svariati miliardi di dollari nel giro di pochissimo tempo per favorire le ricerche e creare sistemi informatici di sicurezza all’avanguardia.

In modo particolare, l’attenzione della Gates Foundation si è concentrata su una particolare casa farmaceutica: l’olandese-tedesca Curevac. La stessa società che, negli scorsi mesi, era stata indicata come la speranza dell’Unione europea in quanto unica che, in futuro, avrebbe potuto garantire i ritmi vaccinali per i cittadini europei, con il contestuale acquisto iniziale concordato di 225 milioni di dosi. Speranza che, purtroppo, è stata smentita dalla terza fase della sperimentazione, dove il siero a mRna ha rivelato un’efficacia non superiore al 47% (ed ha causato, al tempo stesso, il crollo in borsa dell’indice azionario). Tuttavia, ciò potrebbe indurre a vedere una correlazione tra l’interesse iniziale della Gates Foundation, il forte sostegno dell’Oms e infine la scelta dell’Unione europea di finanziare il vaccino della Curevac.

Che sia voluto o semplicemente frutto dell’incrocio degli stessi interessi o di limitate possibilità economiche, dunque, la sensazione è che anche in questo caso tra la Gates Foundation e l’Oms ci siano state sinergie che sono andate ben oltre la semplice collaborazione per raggiungere lo stesso fine. Aumentando ulteriormente i dubbi di molti circa un legame profondo e morboso tra l’istituzione internazionale con sede a Ginevra e la no-profit con sede a Seattle.

Covid, la catena delle colpe: per fermare la prima ondata l'Oms chiedeva aiuto a Giulio Gallera. La Procura di Bergamo ha sequestrato un'email inviata da Ginevra all'assessorato lombardo: la task-force contro la pandemia invece di fornire le linee guida, voleva ispirarsi al disastroso modello della Regione. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 18 maggio 2021. Dal suo sito in inglese, l’Organizzazione mondiale della sanità ci rassicura attraverso i suoi quattro obblighi fondamentali. «Noi», dichiara l’istituzione diretta dall’ex ministro etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, «ci prepariamo alle emergenze identificando, mitigando e gestendo i rischi; preveniamo le emergenze e supportiamo lo sviluppo dei rimedi necessari durante le epidemie; rileviamo e rispondiamo alle emergenze sanitarie acute; sosteniamo la fornitura di servizi sanitari essenziali in ambienti fragili». All’inizio della pandemia provocata dal nuovo coronavirus, però, non è andata così. Cooperazione scientifica e protocolli operativi sono rimasti nei cassetti. Non soltanto in Cina, per volontà del regime comunista al potere. Anche in Europa, l’Oms ha mancato i suoi obiettivi. Ed è per questa ragione che la Procura di Bergamo, che da mesi indaga su uno dei focolai più letali al mondo, sta ora verificando l’attività dell’importante agenzia delle Nazioni Unite. Un’email del 6 marzo 2020 ha messo gli investigatori della Guardia di finanza su questa pista. Finora gli accertamenti si erano fermati ai contatti tra Ranieri Guerra, vicedirettore generale dell’Oms per le iniziative strategiche, e il ministero della Salute. Guerra è per adesso l’unico dirigente formalmente sotto inchiesta. Il procuratore di Bergamo, Antonio Chiappani, e il procuratore aggiunto, Maria Cristina Rota, lo hanno iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di false informazioni al pubblico ministero, in relazione alle sue dichiarazioni messe a verbale come testimone. E proprio partendo da lui, i magistrati hanno deciso di indagare su quanto è accaduto lungo tutta la catena gerarchica che porta sia a Copenaghen in Danimarca, dove ha sede l’ufficio per l’Europa dell’Organizzazione mondiale della sanità, sia a Ginevra, quartier generale dell’agenzia diretta da Tedros Ghebreyesus. Le prescrizioni dell’Oms sono infatti obbligatorie per i governi che vi aderiscono e in caso di ritardi o errori, gli effetti sulla popolazione possono essere catastrofici. Esaminando i documenti sequestrati, gli investigatori bergamaschi sono rimasti sorpresi dalla singolarità di un’email della responsabile tecnica della task force e del centro dell’Oms per la prevenzione e il controllo delle infezioni. Il delicato incarico in quei mesi è ricoperto da una dipendente italiana specializzata in igiene e medicina tropicale, la professoressa Benedetta Allegranzi, che non è indagata. La sua richiesta via posta elettronica parte alle 13.59 del 6 marzo dell’anno scorso dalla stanza numero 4155 del quartier generale di avenue Appia 20 a Ginevra. Quel venerdì in Lombardia i morti sono centotrentacinque, ma l’incendio dei contagi sta ormai divampando ovunque. Destinatario dell’email è Luigi Cajazzo, direttore generale al Welfare della Regione lombarda, l’assessorato allora guidato da Giulio Gallera. Secondo quanto risulta dalle indagini, la professoressa Allegranzi spiega che l’Oms è fortemente interessata a acquisire informazioni sulle decisioni e i criteri scelti dallo staff di Cajazzo per far fronte all’emergenza e garantire i servizi essenziali. La responsabile tecnica rivela inoltre che l’Organizzazione mondiale della sanità vorrebbe imparare dall’esperienza della Lombardia e ispirarsi alle sue idee per preparare un documento ufficiale da indirizzare ai governi. Evidentemente il 6 marzo nessuno a Ginevra è in grado di cogliere i clamorosi errori della strategia lombarda. A cominciare dal divieto di sottoporre a test tampone gli asintomatici, ordinato dalla Regione appena quattro giorni dopo l’email della professoressa Allegranzi, rinunciando così a contenere una delle principali vie di propagazione dell’infezione. Fino ad arrivare alla grottesca teoria dell’assessore Gallera sull’accoppiamento tra coronavirus, rivelata in diretta tv: «Per infettare me bisogna trovare due persone nello stesso momento infette». Il punto è proprio questo. A quale titolo l’Oms, nonostante i suoi doveri di indirizzo e di protezione della popolazione esposta alla pandemia, si fa ispirare da un ex poliziotto-avvocato, quale è Luigi Cajazzo, e dalle idee di un politico locale poi rimosso dall’incarico, come Giulio Gallera? Questa prospettiva cambia perfino il significato del famoso rapporto firmato, tra gli altri, da Francesco Zambon, allora dipendente dell’ufficio Oms di Venezia. Il documento era stato pubblicato sul sito istituzionale al termine della prima ondata e subito rimosso. Secondo la corrispondenza poi sequestrata dalla Procura, Ranieri Guerra e la collega Cristiana Salvi chiedono a Zambon di addolcire le critiche nei confronti del governo italiano. Le loro note censurano anche la prefazione scritta dal direttore regionale per l’Europa, il belga Hans Henry Kluge. Lo scontro ormai frontale tra Guerra e Zambon nasconde però un importante dettaglio: il rapporto censurato boccia soltanto il governo di Roma, ma non affronta le fallimentari contromisure della stessa Oms che, invece di dettare la strategia contro l’epidemia in arrivo, cerca ispirazione addirittura tra gli smarriti manager della Regione Lombardia. Perché i funzionari europei che firmano l’analisi dell’Oms sull’Italia, oltre a Zambon, Wim Van Lerberghe, Leda Nemer e Lazar Nikolic, si fermano alla prima facciata del disastro e non guardano dentro i loro uffici? Il direttore generale Tedros Ghebreyesus non sarà certo ricordato per la sua indipendenza dalle lusinghe della dittatura di Pechino. Ed è proprio questo il salto che l’inchiesta sta per compiere. L’obiettivo è stabilire quanto dell’ecatombe bergamasca sia attribuibile agli errori del governo di Giuseppe Conte, quanto alle decisioni della giunta lombarda di Attilio Fontana e quanto alla fallimentare risposta dell’Oms. Varie testimonianze confermano infatti come, fin dal 21 gennaio 2020, l’allora governo italiano venga informato del pericolo imminente, dovuto essenzialmente a due circostanze: il massiccio flusso di turisti cinesi in Italia e le analogie della nuova infezione con la prima pandemia di Sars. La sindrome respiratoria acuta grave era già apparsa in Cina nel biennio 2002-2003 ed era stata contenuta grazie ai severi provvedimenti adottati dall’Organizzazione mondiale della sanità, allora guidata dalla direttrice norvegese Gro Harlem Brundtland e ispirata sul campo dal microbiologo marchigiano, Carlo Urbani, morto nel giro di pochi giorni per quella stessa infezione. Come fa notare il legale delle famiglie delle vittime, l’avvocata Consuelo Locati, il ministro della Salute già il 30 gennaio 2020 è consapevole dei rischi che stanno per correre gli italiani e tutte le nazioni che, come l’Italia, continuano a mantenere strette relazioni con la Cina. «Il nuovo virus», dice quel giovedì Roberto Speranza nella sua informativa a Camera e Senato, «pur essendo per il momento classificato come di tipo B quanto a pericolosità (al pari di quelli della Sars, dell’Aids e della polio), viene gestito come se fosse appartenente alla classe A, la stessa del colera e della peste». E ancora: «Le informazioni attualmente disponibili suggeriscono che il virus possa causare sia una forma lieve, simil-influenzale, che una forma più grave di malattia. Una forma inizialmente lieve può progredire in una forma grave, soprattutto in persone con condizioni cliniche croniche preesistenti... Il nuovo coronavirus è strettamente correlato a quello della sindrome respiratoria acuta grave». Esattamente ciò che la dittatura di Pechino non vuole che si sappia, tanto da punire i medici di Wuhan che per primi avevano dato l’allarme. Speranza, riferendo quanto gli esperti del ministero gli hanno preparato, dimostra così di conoscere perfettamente la pericolosità della nuova epidemia. Non solo, la sua fiducia nell’Organizzazione mondiale della sanità e nel suo dirigente italiano è totale: «Siamo in constante collegamento con l’Oms», rivela il ministro al Parlamento: «Alla riunione della nostra task-force del 27 gennaio scorso ha partecipato il vicedirettore generale Ranieri Guerra che ha dichiarato: “Tra i Paesi occidentali l’Italia è la più fornita e la più attenta”». Più fornita? Sicuramente non di mascherine, né di ventilatori polmonari. Passano soltanto ventiquattro ore e il 31 gennaio, quando il Consiglio dei ministri delibera lo stato di emergenza ancora oggi in vigore, dal provvedimento firmato dal premier Conte scompaiono le parole che potrebbero dare la giusta dimensione dell’allarme: Sars, agente patogeno di classe A, peste e flussi di passeggeri cinesi e italiani in arrivo dalla Cina. Lo stesso si ripete il 3 febbraio, quando l’allora capo dipartimento della Protezione civile, Angelo Borrelli, con un’ordinanza di dodici pagine si attribuisce i poteri per operare, nomina il comitato tecnico scientifico e coinvolge i “soggetti privati”: cioè una costellazione di piccole società a responsabilità limitata che presto dimostreranno appunto i propri limiti, mentre al nord i malati cominciano a morire a grappoli. Alla fine il Cts, istituito da Borrelli e guidato da Agostino Miozzo, un medico della Protezione civile con corso di perfezionamento in ginecologia conseguito all’Università di Harare in Zimbabwe, scalzerà nelle decisioni quanto Roberto Speranza aveva annunciato a Camera e Senato: «Il 22 gennaio 2020 presso l’ufficio di gabinetto del ministero della Salute è stata istituita e si è contestualmente riunita la task-force coronavirus, composta da rappresentanti del ministero, dei carabinieri dei Nas e dai rappresentanti dell’Istituto superiore di sanità, dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, dell’Agenzia italiana del farmaco, dell’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, dalla Protezione civile, da un rappresentante delle Regioni, degli Ordini dei medici e degli infermieri, delle società aeroportuali Sea e Adr e dallo Stato maggiore della difesa». Un comitato tecnico scientifico quindi esisteva già. E non era quello di Miozzo. Cosa accade allora in quei giorni tra la Protezione civile, la Presidenza del consiglio, il ministero della Salute e l’Organizzazione mondiale della sanità, rappresentata proprio da Ranieri Guerra? Quali sono le pressioni sul governo italiano dell’ambasciatore cinese Li Junhua, che tra gennaio e febbraio 2020 incontra più volte sia il ministro Speranza, sia il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio? Perché i successivi decreti di Conte e Borrelli e le linee guida dell’Oms eliminano ogni riferimento alla prima epidemia cinese di Sars? Dopo aver dovuto inseguire per mesi il rapporto Zambon, la vera inchiesta a Bergamo comincia ora.

Dalla lettera a Speranza alla richiesta di aiuto a Gallera: il caos Oms nei giorni cruciali per fermare la pandemia. Il direttore generale Tedros Ghebreyesus aveva scritto al ministro della Salute per raccomandare Ranieri Guerra come suo inviato personale. Le ammissioni del'ex coordinatore Zambon: non sapevo cosa fare. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 19 maggio 2021. Durante la prima ondata della pandemia il vicedirettore generale dell'Oms, Ranieri Guerra, nei suoi rapporti con il governo italiano e il ministro della Salute rappresentava personalmente il direttore generale dell'Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus. Lo dimostra una comunicazione riservata del 9 marzo 2020 con cui Tedros, come si fa chiamare pubblicamente, raccomanda Guerra al ministro Roberto Speranza: un documento inedito che porta l'inchiesta della Procura di Bergamo direttamente dentro il quartier generale di Ginevra dell'importante agenzia delle Nazione Unite, dalla quale con le sue decisioni dipende - e purtroppo lo abbiamo visto - la salute degli abitanti del pianeta. La lettera è stata scoperta dal gruppo di lavoro coordinato dall'avvocata Consuelo Locati, che nelle indagini assiste i familiari delle migliaia di bergamaschi uccisi dal nuovo coronavirus Sars-CoV-2. «Questa circolare», spiega Robert Lingard, consulente del team legale, «è importante perché con il ministro Speranza il direttore generale dell'Oms parla di Italian outbreak, cioè di focolaio italiano dell'epidemia. Mentre negli altri Paesi europei si parlava di cluster, quindi di casi isolati e controllati. Questo a significare che il virus in Europa si è diffuso attraverso l'Italia». «Distaccamento del dottor Ranieri Guerra a Roma in merito al Covid-19», è l'oggetto della comunicazione. «Caro ministro», scrive Tedros Ghebreyesus, «ho l'onore di fare riferimento alla recente discussione relativa al Covid-19 in Italia. La presente a confermare che, come da tua indicazione, il dottor Ranieri Guerra, Senior Adviser, sarà distaccato a Roma per assistere il tuo Gabinetto nell'attuale sforzo di controllare il focolaio di Covid-19 in Italia. Il dottor Guerra sarà mobilitato da mercoledì, 11 marzo in avanti, per un iniziale periodo di due mesi, in attesa di ulteriori tue richieste ed esigenze aggiuntive, a seconda dello sviluppo del focolaio». «Comprendo che sarà dotato di un ufficio nella sede centrale del Ministero», prosegue il direttore generale dell'Oms, «e lavorerà direttamente con te e il tuo Gabinetto, interagendo con l'Istituto superiore di sanità e le autorità regionali, se e quando sarà necessario. Il dottor Guerra riferirà direttamente a me e al direttore regionale per l'Europa dell'Organizzazione mondiale della sanità, dottor Hans Kluge, che conosci bene. Rinnovo la piena disponibilità e il forte supporto che l'Oms è desiderosa di fornire a te e al Governo dell'Italia in queste difficili circostanze. Noi vi incoraggiamo ad accedere e a fare pieno uso delle attività e delle risorse dell'Organizzazione a qualsiasi livello. Riconosciamo inoltre gli sforzi fatti dal Governo italiano per controllare il focolaio, adottando misure di contenimento e mitigazione al più alto livello politico». Si apprende così che il nome di Guerra è stato suggerito a Tedros Ghebreyesus proprio dal ministro Speranza. In realtà quello che l'Organizzazione mondiale della sanità ha da offrire all'Italia è il caos totale. Soltanto l'11 marzo 2020 il direttore generale dell'Oms, dopo aver tentato per quasi due mesi di proteggere i buoni rapporti con la dittatura cinese, dichiara in ritardo la pandemia. Il 6 marzo, come raccontiamo in un altro articolo, la responsabile tecnica della task force e del centro dell'Oms per la prevenzione e il controllo delle infezioni, la professoressa Benedetta Allegranzi, contatta lo staff dell'assessore regionale Giulio Gallera con l'intenzione di imparare e ispirarsi al modello lombardo, che si rivelerà disastroso. Le linee guida le avrebbe dovute dare l'Oms all'autorità sanitaria regionale e nazionale. Non il contrario. E poi c'è il caos del coordinamento tra regioni. Lo rivela Francesco Zambon, l'allora medico-funzionario dell'ufficio Oms di Venezia, che ha da poco pubblicato il libro autobiografico “Il pesce piccolo” (Feltrinelli). È la sera di martedì 3 marzo: «Torniamo a Venezia, ai tavolini in piazza San Marco e alla telefonata con HK (il direttore Oms per l'Europa, il belga Hans Kluge, ndr). Intorno a me», racconta Zambon, «c'era una notevole confusione alcolica, non sentivo bene e avevo in corpo un prosecco a stomaco vuoto, ma capii quanto bastava. Il direttore voleva che quella sera stessa assumessi il controllo delle attività Oms a supporto delle regioni italiane nella risposta al Covid». «Rimasi un po' turbato», scrive Zambon, «perché io, pur medico e con un solido background in sanità pubblica ed epidemiologia, non mi ero mai occupato di emergenze. Tuttavia ero l'unico medico dell'ufficio Oms di Venezia, l'unico funzionario italiano, l'unico con contatti di fiducia ben stabiliti con molte regioni italiane […]. Senza remore accettai […]. Il 4 marzo sarei quindi entrato in ufficio come coordinatore delle emergenze del supporto Oms alle regioni italiane. Benissimo. Ma per fare cosa esattamente? Volevo avere delucidazioni sulle mie mansioni, capire quali erano gli obiettivi dell'organizzazione in Italia, quale contributo il nostro Paese si aspettava dall'Oms, su quale staff potevo contare. Domande normali per chiunque si trovi a dover ricoprire un incarico nuovo, di grande responsabilità […]. E soprattutto, avendo lavorato all'Oms per tredici anni, sapevo quanto era importante capire subito cosa non fare». È proprio questa l'immagine confusa e politica dell'Oms di Tedros Ghebreyesus. Soltanto diciassette anni prima, quando direttrice generale era la norvegese Gro Harlem Brundtland, un medico che in Vietnam si occupava della prevenzione nelle scuole contro le infezioni da parassiti nei bambini, intuisce, riconosce e diagnostica la prima epidemia di polmoniti da nuovo coronavirus arrivata dalla Cina. Nessuno gli aveva dato delucidazioni sulle sue mansioni. Attraversava la capitale Hanoi in motorino per portare in laboratorio i campioni da analizzare. È anche morto per questo, ma con le sue decisioni tempestive ha salvato il Vietnam e l'umanità dalla prima pandemia di Sars. Era marchigiano, si chiamava Carlo Urbani. Un sacrificio personale che il mondo nuovo di Tedros ha già dimenticato.

Guido Santevecchi per il "Corriere della Sera" il 13 maggio 2021. La catastrofe del coronavirus si sarebbe potuta evitare, non sarebbero morte oltre tre milioni di persone se un «cocktail tossico» di impreparazione, ritardi e scelte sbagliate nelle prime settimane del 2020 non avessero creato il «Momento Chernobyl» per il sistema sanitario mondiale. È questo il risultato del rapporto su «Preparazione e risposta alla pandemia» redatto da tredici personalità che erano state incaricate di indagare per conto dell' Oms, l' Organizzazione mondiale della sanità. E tra i principali responsabili di negligenza e impotenza c' è proprio l' Oms, assieme ai governi di Cina, Europa e Stati Uniti ai quali viene imputata «assenza di leadership politica globale aggravata da nazionalismi e tensioni geopolitiche». Questo studio non prende in considerazione l' origine del virus che causa il Covid-19, ma osserva che dopo la sua comparsa, una serie di «anelli deboli in ogni snodo della catena di prevenzione e reazione» hanno portato il focolaio di Wuhan a diventare epidemia e poi pandemia. Il rapporto ricorda che le autorità cinesi tardarono a riconoscere che la malattia si trasmetteva tra persone, ma sottolinea che i medici a Wuhan furono veloci nell' individuare già a dicembre del 2019 il nuovo virus, notizie in materia erano state pubblicate dai media e l' informazione era arrivata con chiarezza anche all' Oms. Certo, ci furono errori e omissioni nella prima gestione in Cina, ma il 23 gennaio del 2020, quando il governo ordinò la gigantesca (per allora) quarantena a Wuhan, l' Organizzazione mondiale della sanità avrebbe dovuto dichiarare l' emergenza sanitaria internazionale. Invece passarono ancora giorni, fino al 30 gennaio. E solo l' 11 marzo fu usato il termine «pandemia». La lentezza dell' Oms è legata ad una serie di regole e procedure sanitarie anacronistiche. All' Organizzazione è richiesta «confidenzialità e una quantità di verifiche» prima di poter prendere una decisione. Altre procedure per proteggere i commerci hanno impedito di imporre tempestivamente restrizioni ai viaggi internazionali. Nei giorni persi, il coronavirus ha potuto volare e diffondersi: «Viviamo nel ventunesimo secolo ma ci siamo comportati come nel Medioevo», dice Helen Clark, ex premier neozelandese e copresidente del comitato d' inchiesta assieme alla ex presidentessa liberiana Ellen Johnson Sirleaf. Già a fine gennaio i governi dei Paesi più sviluppati avevano comunque tutte le informazioni per comprendere la gravità del pericolo. E invece hanno «sprecato il mese di febbraio, alcuni Paesi hanno anche creato conseguenze mortali negando e svalutando le evidenze scientifiche», ha detto Clark e poi, quando a marzo il disastro era esploso, è partita «una pazza corsa per trovare mascherine, protezioni individuali e attrezzature mediche che è stata acuita dalla carenza di leadership globale». Sferzante il commento della signora Sirleaf: «Scaffali e archivi dell' Onu e delle capitali mondiali sono pieni di dossier su precedenti crisi sanitarie, nessuno li ha voluti studiare e prendere in considerazione, così siamo caduti in questa catastrofe». Per evitare un' altra pandemia la raccomandazione è di costituire un «Consiglio globale sulle minacce sanitarie» sotto la guida dei capi di Stato, dare più poteri all' Oms perché possa investigare appena si abbiano avvisaglie di una nuova crisi e costituire un fondo di 50 o meglio 100 miliardi di dollari per gestire le prime fasi di un' emergenza con una potenza di fuoco adeguata. Sarebbero fondi ben spesi, dicono i tredici saggi della commissione, visto che il costo economico della pandemia alla fine del 2021 sarà arrivato a 10 mila miliardi di dollari e l' onda lunga della catastrofe porterà il conto totale per il mondo a 22 mila miliardi nel 2025.

Otto Lanzavecchia per formiche.net il 12 maggio 2021. L’organizzazione mondiale della sanità (Oms) e i leader globali avrebbero potuto evitare il diffondersi della pandemia di Covid-19. Questa la feroce conclusione del rapporto definitivo dell’Independent Panel for Pandemic Preparedness and Response (Ippr), una commissione indipendente creata a maggio 2020 dalla stessa Oms con lo scopo di studiare la risposta globale all’emergere e al diffondersi del coronavirus e preparare delle linee guida per scongiurare la prossima pandemia. I risultati del rapporto non risparmiano nessuno: «[l’Ippr] ha trovato anelli deboli in ogni punto della catena di preparazione e risposta». A partire dalle autorità cinesi, ree di essere state troppo lente nel riconoscere il diffondersi del virus tra le persone a Wuhan e nell’avvertire il resto del mondo, autorità sanitarie comprese. Ma ne esce male anche il regolamento internazionale sanitario dell’Oms, l’unico strumento giuridicamente vincolante sui focolai di malattie, che «nello stato attuale serve a limitare piuttosto che facilitare un’azione rapida» ed è semplicemente inefficace per la nostra epoca iperconnessa. “La rapida trasmissione del virus sarebbe stata seriamente inibita se gli spostamenti internazionali fossero stati limitati prima e più ampiamente”, ha detto Helen Clark, co-presidente dell’Iprr, all’evento di presentazione del rapporto. L’obiettivo successivo degli schiaffi degli autori sono i leader globali, colpevoli di aver “sprecato” il mese di febbraio 2020 con un approccio del tipo “aspettiamo e vediamo che succede” invece di “attuare strategie aggressive di contenimento” che avrebbero prevenuto il diffondersi del virus, classificato dall’Oms come emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale il 30 gennaio 2020. Gli esperti dell’Ippr non mancano di criticare la mancanza di piani di contingenza o la loro debolezza, l’assenza di coordinazione globale e la svalutazione della scienza nei processi decisionali. Rimarcano come i Paesi, di conseguenza, si siano scapicollati per ottenere dispositivi di protezione, medicinali ed equipaggiamenti. I finanziamenti delle strutture di risposta e prevenzione erano insufficienti, aggiungono, e i fondi messi a disposizione in un secondo momento sono arrivati troppo tardi. Ma non è finita. «Lo staff dell’Oms ha lavorato molto duramente per fornire consigli e guida, ma gli stati membri avevano sottodimensionato il suo potere di fare il lavoro che gli veniva richiesto». Infatti il Panel propone, tra le altre cose, la creazione di un nuovo “Consiglio per le minacce alla salute globale” e un organo preposto alle pandemie. Gli esperti della commissione propongono anche di dare più fondi e poteri all’Oms, in modo da consentire all’organizzazione di raccogliere dati e agire senza dover attendere l’approvazione dei governi, e di creare uno “Strumento di finanziamento pandemico internazionale”, dotato di 5-10 miliardi di dollari all’anno da destinare alla preparazione e capace di poter raccogliere e dislocare 50-100 miliardi con rapidità estrema. Al momento i membri dell’Ippr sono in contatto con i leader di governo per garantire che le misure siano attuate. Le misure proposte, invece, saranno probabilmente discusse nella cornice di un evento globale ad hoc in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. «Gli scaffali dei magazzini delle Nazioni Unite e delle capitali nazionali sono pieni di rapporti e recensioni di precedenti crisi sanitarie», ha detto Ellen Johnson Sirleaf, l’altra co-presidente della commissione speciale. «Se i loro avvertimenti fossero stati ascoltati, avremmo evitato la catastrofe in cui ci troviamo oggi. Questa volta deve essere diverso».

Coronavirus, ecco tutti gli errori dell'Oms. Ritardi, indecisioni e indicazioni ondivaghe. A pandemia ancora in corso, l’Oms è già finita nel mirino per i suoi numerosi errori. Francesco Curridori - Sab, 02/05/2020 - su Il Giornale. Ritardi, indecisioni e indicazioni ondivaghe. A pandemia ancora in corso, l’Oms è già finita nel mirino per i suoi numerosi errori. Il Wall Street Journal non ha esitato a definire l’Oms come il “World Health Coronavirus Disinformation”, ossia la: “Disinformazione Mondiale della Sanità sul coronavirus”. L’ente guidato da Tedros Ghebreyesus ha dichiarato la pandemia solo l’11 marzo quando ormai vi erano già più di 100mila casi in tutto il mondo con oltre 4mila morti sparsi in più di 100 Paesi, mentre in Italia si contavano già 827 e 12mila positivi.

Emergenza coronavirus, Oms nel pallone. Il capolavoro dell'Oms, come spiegato anche da Il Giornale, arriva con indicazioni totalmente fuorvianti e contradditorie sull’uso delle mascherine e sui test. Inizialmente l'Organizzazione mondiale della Sanità consigliava di fare i tamponi “solo ai sintomatici” e ammoniva: “Non possiamo mettere a rischio i nostri medici e infermieri. Se non avete una persona malata a casa non avete bisogno della mascherina per favore non mettetela”. Poi, dal 16 marzo, c’è stata l’inversione di tendenza e la raccomandazione di fare “test, test, test” a tutta la popolazione, ma circa 20 giorni dopo, si ribadiva che l’uso delle mascherine non era indispensabile. In un documento dello scorso 6 aprile, infatti, l’Oms sosteneva ancora che la mascherina fosse uno strumento insufficiente per proteggersi dal coronavirus. “Attualmente non ci sono evidenze che indossare una mascherina da parte di una persona sana, anche in un contesto generale in cui si indossano universalmente, possa prevenire l'infezione di un virus respiratorio, compreso COVID-19", si legge nel documento. Una scelta che ha lasciato totalmente di stucco il virologo Roberto Burioni che, con un tweet, ha definito l’Oms "sempre più deludente” anche perché “l’autorevolezza si guadagna (e si perde) sul campo”, mentre l’epidemiologo Walter Pasini all’Agi, ha usato parole ancora più dure: “L’Oms non dà segni di leadership”.

Il parere degli esperti su tamponi e mascherine. Per capire meglio i motivi di tali errori ilGiornale.it ha interpellato altri due esperti. “Sui test l’Oms poteva cambiare idea prima”, ci dice il professor Antonio Cassone, ex direttore del dipartimento di malattie infettive dell’Istituto Superiore di Sanità. Proprio Cassone, lo scorso 15 marzo, aveva scritto insieme al professor Andrea Crisanti un articolo pubblicato sul Guardian in cui sosteneva appunto la necessità di effettuare i tamponi anche agli asintomatici. Secondo lui, infatti, l’Oms è partito da una convinzione errata, ossia che “questa infezione fosse come la Sars del 2002-2003”. In quel caso “solo i malati trasmettevano l’infezione”, mentre oggi con il Covid-19 “anche gli asintomatici possono essere infetti e possono trasmettere il virus”. A questa considerazione, però, l’ente guidato da Ghebreyesus, è giunta soltanto a metà marzo. Se questa inversione di tendenza fosse avvenuta prima, molto probabilmente le cose sarebbe andate diversamente, come dimostra anche il caso del Veneto che è già entrato nella Fase 2. L’idea di effettuare ‘tamponi a tappetto’ sulla cittadinanza di Vo’ Eguaneo, come suggerito dal virologo Crisanti, ha consentito di individuare gli asintomatici e frenare la diffusione dell’epidemia. “Attenzione, però, fare i ‘tamponi a tappetto’ non significa farli a tutti, ma solo a quegli asintomatici che sono entrati in contatto con una persona positiva”, ci spiega Cassone. Se, ormai, appare evidente la necessità di monitorare costantemente lo stato di salute del personale medico-infermieristico, poco o nulla si è fatto nelle Rsa e nelle strutture con dimensioni circoscritte. “Bisogna individuare tutti i potenziali contatti avuti da una persona positiva senza aspettare che qualcun altro si ammali”, sottolinea Cassone che, a supporto della sua tesi, porta il caso delle palazzine condominiali di piccole dimensioni. “Se, in un codominio di 20 famiglie, c’è un caso conclamato di coronavirus è bene che tutti gli inquilini di quel palazzo facciano il test, non soltanto i familiari del malato perché si presume che quella persona abbia potuto contagiare anche i condomini, magari con un incontro in ascensore”, spiega. È meno severo il giudizio sull’Oms espresso da Fabrizio Pregliasco, epidemiologo e direttore sanitario dell’istituto Galeazzi di Milano. “Quella del coronavirus è un’emergenza che si è evoluta in maniera inaspettata anche in Italia. L’Oms, poi, ha solo un compito di valutazione e supervisione, non di responsabilità e, a posteriori, è facile giudicare”, ci dice nel corso di una chiacchierata telefonica. “I test? Sì, ma con buon senso. Non si possono fare analisi tutti i giorni alle persone”, sentenzia Pregliasco secondo cui, ormai, la prospettiva è quella di puntare più sui “test sierologici da ripetere nel tempo per capire la situazione delle persone”. Su questo sta lavorando l’Istituto Superiore di Sanità che “sta valutando diverse tipologie di test visto che possono contenere un certo margine di errore”, dice l’epidemiologo.

Capitolo mascherine. “Dobbiamo portarle perché dobbiamo considerarci tutti malati. Quelle chirurgiche evitano che le persone positive diffondano la malattia, ma serve il distanziamento sociale”, osserva Pregliasco. “La mascherina protegge solo in minima parte chi la indossa, ma di fronte all’estensione della malattia, è chiaro che anche protezioni limitate possono essere molto importanti”, gli fa eco Cassone. E, così, in vista della fine del lockdown, dovremmo abituarci a una vita diversa, fatta di mascherine, tamponi e test sierologici, anche a causa di alcune sottovalutazioni dell’Oms.

In che mani siamo? Tutti gli errori commessi dall’Oms durante la pandemia. Pietro Mecarozzi il 9 giugno 2020 su L'Inkiesta. Dai tamponi all’uso delle mascherine, fino al dietrofront sugli asintomatici come portatori di infezione da coronavirus. L’ente guidato da Tedros Ghebreyesus ha collezionato ritardi, indecisioni e indicazioni ondivaghe che hanno condizionato l’evolversi dell’emergenza sanitaria. Ritardi, indecisioni e indicazioni ondivaghe. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), a margine dell’emergenza sanitaria, verrà ricordata sopratutto per questo. Ieri l’Oms è stata protagonista dell’ennesimo dietrofront, dopo aver sostenuto inizialmente che gli asintomatici non sono «un motore principale» di nuove infezioni da coronavirus. Un’affermazione che ha riscosso le critiche del mondo accademico e scientifico, costringendo Maria Van Kerkhove, PhD, responsabile tecnico dell’Oms e autrice della frase, ad aggiustare il tiro.

«Stavo solo rispondendo a una domanda, non stavo affermando una politica dell’Oms o qualcosa del genere», ha detto la dottoressa. Ribadendo che è stato un «malinteso» affermare che la trasmissione asintomatica è rara a livello globale. Van Kerkhove ha sottolineato anche che le stime della trasmissione da persone senza sintomi provengono principalmente da modelli che potrebbero non fornire una rappresentazione accurata. Insomma, nulla di nuovo. L’Oms ci ha abituati a certi scivoloni nella comunicazione. Partendo da quel 28 gennaio quando il direttore Tedros Adhanom Ghebreyesus elogiò apertamente la gestione del governo cinese nonostante la sua Organizzazione non avesse ancora fatto un’ispezione in Cina. L’Oms farà la sua prima missione sul campo solo 18 giorni dopo, a febbraio, quando il disastro è già avvenuto. L’organizzazione ha inoltre dichiarato la pandemia solo l’11 marzo quando ormai vi erano già più di 100mila casi in tutto il mondo con oltre 4mila morti sparsi in più di cento Paesi, mentre in Italia si contavano già 827 e 12mila positivi. C’è poi la questione delle indicazioni date in merito al sistema di contenimento nazionale da adottare in questa pandemia. «Un modello da seguire sulla strada di una nuova normalità» definì Mike Ryan, capo del programma emergenze sanitarie, il modello intrapreso dalla Svezia. La stessa Svezia che lo scorso 3 giugno ha ammesso, tramite l’epidemiologo Anders Tegnell che ha contribuito a decidere la strategia contro il coronavirus, di aver commesso degli errori, e che se si potesse tornare indietro agirebbe in maniera diversa. Oltre alle critiche che lo accusano di adottare una politica filocinese, l’Oms ha collezionato un album di rettifiche e modifiche in corso d’opera anche sulle disposizione più tecniche. Le mascherine, da principio definite inutili, sono diventate imprescindibile per gli operatori sanitari. Per poi, pochi giorni fa, raccomandarne l’uso anche ai cittadini: negli spazi dove non è sempre possibile il distanziamento e soprattutto per le persone di oltre 60 anni e a quelle con patologie pregresse. Inizialmente l’Oms consigliava di fare i tamponi «solo ai sintomatici», dicendo: «Non possiamo mettere a rischio i nostri medici e infermieri. Se non avete una persona malata a casa non avete bisogno della mascherina per favore non mettetela». Per poi il 16 marzo invertire la tendenza e suggerire di fare più test possibile. «Ritardi nella comunicazione del pericolo, suggerimenti sbagliati circa le norme di comportamento da adottare, indicazioni contraddittorie, ripensamenti e repentini cambi di direzione, con le autorità sanitarie italiane che si sono affidate totalmente ai dettami dell’Oms e, in qualche modo, potrebbero avere pagato le conseguenze di questo modus operandi, laddove l’Oms avrebbe sottovalutato l’emergenza coronavirus e poi dato le linee guida errate» si legge nell’esposto presentato dal Codacons alla procura di Milano. Qualche dubbio sorge, in effetti, quando l’OMS il 14 gennaio dal suo account Twitter scrive che non ci sono prove chiare del passaggio da uomo a uomo del coronavirus. E solo il 22 gennaio, dopo qualche migliaio di contagi, pubblica le prime ammissioni di un possibile contagio da persona a persona. «Noi ci abbiamo messo una settimana a capire che la presenza dei sintomatici non coincide con l’inizio della diffusione dell’epidemia, perché noi abbiamo il primo caso sintomatico il 20 febbraio ma nel frattempo avevamo già il 3% della popolazione infetta» spiegò ai tempi Andrea Crisanti, il virologo che ha gestito l’emergenza in Veneto. Anche in questo frangente l’Oms non si è fatta trovare pronta, ieri come oggi. A marzo uno studio pubblicato sulla rivista Science attribuisce agli asintomatici la responsabilità dell’80% dei contagi. L’Oms invece ne minimizza il ruolo. Fino a quando il primo aprile, sempre Maria van Kerkhove, raccomanda «l’importanza di tracciare anche gli asintomatici, che prima o poi arrivano a sviluppare i sintomi». Il tutto, come detto, è stato smontato e rivisto in questi giorni. Nonostante tutti gli errori commessi, l’Oms a settembre, in un report intitolato “A World at Risk”, profetizzò la minaccia «molto reale di una pandemia altamente letale di un agente patogeno respiratorio, che potrebbe uccidere fino a 50-80 milioni di persone e spazzare via il 5% dell’economia mondiale». Quando la realtà ha superato le previsioni, però, ha perso l’occasione per dimostrare la sua professionalità e la sua lungimiranza.

·        Gli Errori dell’Unione Europea.

San Marino libero dal coronavirus, contagi zero. La ricetta? Fregarsene dell'Europa e accordi con Putin. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano l'11 maggio 2021.

Lorenzo Mottola. Milanese sulla quarantina, storico bocconiano, nel senso che la Bocconi l'avevo cominciata, ma poi mi sono laureato in storia (altrimenti mica sarei qui a fare il giornalista). Caporedattore centrale di Libero da parecchi anni, mi occupo principalmente di politica. Ma anche di pandemie, quando qualche genio decide che è giunto il momento di scoprire di cosa sa un pipistrello alla piastra. Su questo blog cercheremo di trattare di tutto.

San Marino è l’unico stato dell’Unione Europea dove i contagi da Coronavirus sono da alcuni giorni sostanzialmente azzerati. Un risultato ottenuto fregandosene delle direttive dell’Unione Europea stessa. La piccola repubblica è infatti il fiore all’occhiello della campagna russa di immunizzazione del mondo: primo territorio a utilizzare lo Sputnik V oltre la cortina sanitaria. Nonostante i dubbi delle autorità italiane, il governo del Titano si è accordato con gli uomini di Vladimir Putin per ottenere una fornitura del vaccino che l’Ema, agenzia europea del farmaco, non ha mai neanche voluto prendere in esame come possibile rimedio contro il Covid. Certo, in condizioni simili ci voleva coraggio per iniettarsi il medicinale prodotto dall’istituto Gamaleya di Mosca, ma i sanmarinesi si sono messi in coda ugualmente. E nello staterello non sono stati registrati eventi avversi di alcun genere. Il 74% della popolazione ha già ricevuto almeno una dose. Dal 27 aprile non muore nessuno.  Negli ultimi 14 giorni a ci sono stati 28 contagiati, scesi a zero per la prima volta il 1 maggio. L’ospedale locale è stato dichiarato “Covid-free” già da qualche giorno. Il reparto di isolamento è stato chiuso con una piccola cerimonia davanti ai fotografi. “Una delle più belle emozioni della mia vita”, ha raccontato il direttore. Nei prossimi giorni prenderà il via anche la campagna di vaccinazione per i turisti (ovviamente a pagamento), purché si soggiorni entro i confini della micro-nazione per almeno sei giorni. Attenti alla clausola: gli italiani sono esclusi, così come in generale tutti gli assistiti dal nostro servizio sanitario nazionale. Le autorità locali hanno infatti spiegato che sarebbe impossibile far fronte alle continue pressanti richieste che arrivano da oltre-frontiera. L’isola felice così ora può tornare alla normalità e concentrarsi su altro: la nano-repubblica sta organizzando per inizio giugno un concerto riservato a vaccinati, guariti e persone che si saranno sottoposte a tampone (con referto negativo…) nelle ore prima dello spettacolo. Si chiamerà “Love party”, con riferimento al raduno di Barcellona organizzato qualche settimana fa: un altro concerto dove tutto il pubblico era stato testato prima dell’ingresso. Secondo i quotidiani locali, l’evento sarà ovviamente all’aperto e riservato a un numero compreso tra 3000 e 5000 persone.

P.s. se foste interessati, tanti altri Paesi stanno pensando di offrire vaccini ai turisti, a partire da New York (che offrirà dosi di Johnson&Johnson) per arrivare al lontano Alaska e perfino alla Transilvania. Nel castello di Dracula si stanno attrezzando per fare iniezioni ai viaggiatori. E lo stesso vorrebbero fare le isole Eolie. In quest’ultimo caso, tuttavia, non è chiaro con quali forniture né se il generale Figliuolo sia stato informato…

Pressioni esterne, errori e ritardi: il disastro Ue sui vaccini. Federico Giuliani su Inside Over il 12 aprile 2021. C’erano altre strade, ma non sono mai state prese in considerazione. Si poteva agire prima, e soprattutto in modo migliore. Magari stringendo accordi a “scatola chiusa” con le Big Pharma quando ancora i vaccini erano in fase di sperimentazione, proprio come hanno fatto Stati Uniti e Regno Unito. Oppure, data l’acuta fase emergenziale, esplorando opzioni alternative in aggiunta alle case farmaceutiche occidentali. L’Unione europea non ha fatto niente di tutto questo. Anzi, ad oggi, a quasi quattro mesi esatti dall’inizio delle vaccinazioni nel continente, Bruxelles è rimasta arroccata sulle proprie posizioni. La Commissione europea, guidata da Ursula von der Leyen, e incaricata di gestire il piano vaccinale dell’Ue, è in completa balia degli eventi. Non bastano un paio di frasi a effetto per cambiare una situazione iniziata male e proseguita – se possibile – peggio di quanto non immaginassero perfino i più accaniti oppositori dell’Europa. Rimasta vittima dei suoi stessi accordi stretti con le Big Pharma, probabilmente presa in giro da clausole più o meno beffarde, travolta da ritardi nelle consegne vaccinali messe nere su bianco – per non parlare dei tagli inaspettati e della carenza ormai cronica di dosi – l’Ue è stata travolta da mille polemiche.

La legge del più forte. Dopo settimane di speranze, puntualmente vanificate dalla realtà dei fatti, i governi Ue stanno iniziando a perdere le staffe. Del resto, sono saltate tutte le previsioni paventate dagli esperti, molti dei quali immaginavano un’immunizzazione quasi totale di gran parte dei cittadini europei entro l’estate. Per non parlare, poi, della mezza promessa uscita dalla bocca di Thierry Breton, commissario alle politiche industriali, che, soltanto una decina di giorni fa – forse investito da uno slancio di eccessivo ottimismo – paventava per l’Europa l’ipotesi del raggiungimento dell’immunità di gregge entro il prossimo luglio. Difficile possa avvenire qualcosa del genere, visto e considerando la penuria di vaccini che ha spinto molti Paesi membri dell’Ue a smarcarsi da Bruxelles per cercare soluzioni in piena autonomia. La sensazione è che la famosa “solidarietà europea sui vaccini”, la stessa che avrebbe dovuto guidare il Vecchio Continente a una missione comune, sia evaporata come neve al sole di fronte ai macroscopici errori a ripetizione commessi da Bruxelles. E che al suo posto sia comparsa una sorta di giungla nella quale vige la legge del più forte. Fuor di metafora: i governi che saranno in grado di stringere accordi pro domo sua con le aziende produttrici di vaccini riusciranno, con un po’ di pazienza, a uscire dall’incubo. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, Mario Draghi auspica un “coordinamento europeo” sui vaccini ma, così come altri Paesi Ue, è pronto a perseguire la politica dei contatti con i Ceo delle Big Pharma e con l’amministrazione Usa. La linea di Joe Biden è tuttavia chiara. Gli Stati Uniti vaccineranno prima i cittadini americani, poi penseranno a vendere le loro dosi in giro per il mondo, alleati compresi. Le case farmaceutiche statunitensi non possono far altro che seguire la linea della Casa Bianca.

In mille pezzi. L’Ue sperava di stringere accordi strabilianti con le Big Pharma, bruciare la “concorrenza” e uscire presto dalla pandemia. Le intese, nella migliore delle ipotesi, sono invece state alquanto mediocri, al contrario di quelle strette da altri player globali (Stati Uniti, Regno Unito, Israele). Risultato: Bruxelles è rimasta ferma al palo, a secco di dosi e, per motivazioni geopolitiche, impossibilitata a reperire i vaccini da fonti produttive che non siano occidentali. Washington, che in seguito all’elezione di Biden è tornato a professarsi grande alleato dell’Ue, non ha alcuna intenzione di cedere vaccini all’estero (almeno, non in questa fase). Allo stesso tempo, le pressioni (vere o presunte, dirette o indirette) della Casa Bianca sulle istituzioni Ue paralizzano ogni tentativo europeo di rivolgersi concretamente a Russia e Cina per reperire i vaccini mancanti. Nel frattempo, lontano dalla geopolitica del vaccino, la penuria di dosi ha spinto molti Paesi europei a cercare soluzioni in autonomia. La Germania è ufficialmente interessata al russo Sputnik, già utilizzato, assieme al cinese Sinopharm, da Ungheria, Serbia e Slovacchia. In mezzo a tutto questo, sottolinea ancora il Corsera, Roberto Speranza, ha ammesso gli errori di contrattazione commessi dall’Ue. Il ministro della Salute italiano è convinto che l’Europa stia pagando “soprattutto la mancanza di una produzione propria”, anche se “è stata giusta la scelta di comprare insieme i vaccini per evitare il tutti contro tutti”. Di questo passo tutta l’Europa, e non solo l’Unione europea, rischia di finire in mille pezzi.

Vaccini, il premio Nobel Paul Krugman contro l'Ue: "La debacle finirà per causare migliaia di morti superflue". Libero Quotidiano il 21 marzo 2021. L'Europa sui vaccini zoppica, suda e arranca. Il resto del mondo guarda e giudica percependo, da lontano, tutti i dolorosi riflessi sulla vita delle persone di un'integrazione comunitaria mai compiuta. A tracciare la radiografia, in un editoriale sul New York Times, pensa Paul Krugman, accademico americano e Premio Nobel per l'economia nel 2008. «Gli Stati Uniti -scrive - hanno molto da imparare dai successi politici dell'Europa, soprattutto quando si tratta di assistenza sanitaria». E però, in questa fase di svolta nella tragica epopea del Covid, «quando i nuovi vaccini offrono finalmente una prospettiva realistica di ritorno alla vita normale, la politica nell'Ue è stata segnata da un pasticcio dopo l'altro». E fa notare quanto a tutti ben noto, ossia che Stati Uniti e Gran Bretagna hanno somministrato dosi superiori di circa tre volte rispetto a Francia o Germania in rapporto alla popolazione. «La debacle della vaccinazione europea - ragiona Krugman - finirà quasi sicuramente per causare migliaia di morti superflue». Il punto focale, però, è che tutto ciò scaturisce non dalle decisioni di pochi leader incapaci al ruolo. «I fallimenti sembrano riflettere i difetti fondamentali nelle istituzioni e negli atteggiamenti» dell'Unione, «compresa la stessa rigidità burocratica che ha reso la crisi dell'euro un decennio fa molto peggiore di quanto avrebbe dovuto essere». E il dito viene puntato contro i funzionari europei, che sono apparsi «profondamente preoccupati per la possibilità che potessero finire per pagare troppo le aziende farmaceutiche», oppure «scoprire di aver destinato soldi per vaccini che poi si rivelassero inefficaci o forieri di effetti collaterali». Per questo avrebbero ritardato la fase di approvvigionamento. «Sembravano molto meno preoccupati - denuncia il premio Nobel - per il rischio che molti europei potessero ammalarsi o morire perché l'implementazione del vaccino era troppo lenta». L'altra questione riguarda il coordinamento. «La vaccinazione è stata ritardata dai tentativi di perseguire una politica europea comune. Ciò potrebbe andar bene se l'Europa avesse qualcosa di simile ad un governo unitario», ma così non è. E poi le carenze delle dosi nei singoli Paesi. E poi la questione Astrazeneca: «Ancora una volta - scrive Krugman - l'Europa non è riuscita a coordinarsi: la Germania ha sospeso unilateralmente» l'utilizzo di quel siero «e altri a seguire hanno fatto lo stesso per paura di essere incolpati se qualcosa fosse andato storto». Insomma, il Nobel descrive un'Unione avvitata su se stessa, incapace di sinergia interna e per questo debole innanzi alla sfida delle sfide. Con dolore di tutti.

 (ANSA il 15 marzo 2021) - "È vero che sono stati commessi degli errori nella ordinazione dei vaccini, a Bruxelles, come negli Stati membri". Lo ha detto il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, parlando al Tagesspiegel. "Sono pronto alla fine della pandemia a fare un bilancio. A quel punto si potrà vedere cosa abbiamo fatto di giusto e cosa di sbagliato". Nella situazione attuale la questione sul tavolo è che "tutta l'Europa riceva il vaccino". "Se ci sono cose che potevano essere migliorate, non è al momento dell'acquisto dei vaccini anti Covid, ma al momento della messa in opera dei contratti e dell'aumento della capacità produttiva. Questa è la posizione della Commissione europea". Così il portavoce dell'Esecutivo comunitario, Eric Mamer, incalzato a chiarire le parole del vicepresidente della Commissione, Frans Timmermans, che al Tagesspiegel aveva detto che "ci sono stati errori nell'ordinazione dei vaccini". "Incredibile, settimane dopo che anche mio figlio di due anni si era accorto del disastro nella gestione Ue, arriva anche Timmermans". Così su Twitter l'europarlamentare della Lega Marco Zanni, presidente del gruppo Identità e democrazia al Parlamento europeo, postando le dichiarazioni del vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans che oggi ha ammesso errori sugli ordini dei vaccini.

Alberto Bellotto, Federico Giuliani per it.insideover.com il 15 marzo 2021. Da una parte ci sono gli Stati Uniti, con la loro fittissima filiera farmaceutica e, anche per questo motivo, travolti da decine di milioni di vaccini anti Covid. Dall’altro lato dell’Oceano Atlantico, fatta eccezione per il Regno Unito, troviamo un Europa in crisi d’identità, ma soprattutto a secco di dosi. Il quadro che emerge è quello di un continente privo di quell’autonomia produttiva che gli servirebbe per produrre sieri a volontà, e parimenti, autore di accordi scellerati con le singole Big Pharma. Non stupisce, quindi, che l’America primeggi nei principali indicatori relativi alle vaccinazioni. Se prendiamo la media settimanale di dosi giornaliere somministrate ogni 100 persone, i dati aggiornati al 13 marzo parlano chiaro: Washington può vantare un ottimo 0.76, secondo solo a Israele (1) e Cile (1.46), mentre l’Uk veleggia intorno allo 0.49 e l’Unione europea, nel suo complesso, è ferma a un misero 0.26. Detto in altre parole, il Vecchio Continente ha letteralmente perso la guerra del vaccino. Che ha invece incoronato gli Stati Uniti come vincitori quasi assoluti della contesa. Ma come ha fatto la Casa Bianca a non commettere gli stessi errori dell’Ue? Intanto, affidandosi a una buona dose di sovranismo vaccinale. Un’arma a doppio taglio, certo. E pure un atteggiamento moralmente discutibile, visto che stiamo parlando di vaccini, ovvero di un bene globale che, in una fase d’emergenza sanitaria, dovrebbe essere a disposizione delle persone che vivono a tutte le latitudini. Eppure, è innegabile non considerare il sovranismo nella filiera dei vaccini una pietra miliare del “trionfo” statunitense. Un aspetto, quello appena descritto, da aggiungere all’ottima intesa raggiunta – in netto anticipo su Bruxelles – con AstraZeneca. Morale della favola: tra le dosi prodotte in loco e quelle provenienti dalla società anglo-svedese, Joe Biden ha potuto annunciare urbi et orbi di poter vaccinare tutti tra la fine della primavera e l’inizio della prossima estate.

Dipendenza letale. L’Unione europea, al contrario, non ha mai preso sul serio il collegamento diretto tra il possedere una funzionale filiera vaccinale e la sicurezza nazionale, continuando a dipendere dall’estero per un tema che invece avrebbe dovuto essere in cima alle agende dei funzionari Ue. Capire come funziona il gioco dei vaccini è un’impresa piuttosto complessa. Per semplificare, possiamo dire che ci sono quattro attori fondamentali: i produttori dei sieri, gli assemblatori – chi controlla, di fatto, i singoli vaccini – e chi ne gestisce i siti. Come ha sottolineato La Verità, l’Europa non può dirsi autonoma. Questo significa, come anticipato, che dipende da altri soggetti, come Regno Unito, Stati Uniti e India. Non è difficile comprendere quali siano gli effetti più importanti di un simile dato di fatto. In sostanza, le nazioni che godono di una certa indipendenza vaccinale sono in grado, in primis, di fornire dosi a volontà ai propri cittadini e, soltanto in un secondo momento, di decidere le sorti di altri Paesi. Ma tutto ciò ci riconduce a un altro ragionamento, prettamente economico. Chi vaccina prima i suoi abitanti è lo stesso che vincerà per primo la battaglia contro il coronavirus, e che quindi riemergerà dalla pandemia. Magari diventando pure una potenza globale e rafforzando la sua posizione internazionale.

La macchina americana funziona. Facendo degli esempi concreti, gli Stati Uniti sono autonomi e gestiscono l’intera filiera vaccinale, dalla produzione di sostanze e materiali – come lipidi e vettori virali – all’infialamento conclusivo. Pfizer, Moderna, Novavax e Johnson & Johnson, tutte rigorosamente americane, controllano siti produttivi, ma anche di gestione dei bulk, delle materie prime e siti di infialamento. Insomma, centri chiave sparsi in tutto il territorio americano. Uno dei più grandi stabilimenti Usa è situato a Kalamazoo, in Michigan, ed è uno dei più strategici al mondo, secondo solo ai centri indiani di Serum. Dal momento che servivano dosi extra, Pfizer ha attivato altri siti, uno in Kansas e uno nel Connecticut, per raddoppiare la produzione settimanale di fiale. E lo stesso, più o meno, hanno fatto le altre aziende. Il plus ultra americano è però la produzione di AstraZeneca all’interno dei propri confini. Ossia: gli Usa stanno producendo un vaccino teoricamente straniero. E l’Europa? In alto mare. Ci sono Paesi Ue che ospitano stabilimenti capaci di assemblare e infialare le dosi, ma le materie prime – cioè gli ingredienti – provengono per lo più dagli Stati Uniti.

Vaccini, tagli e patti segreti. Anche Ursula nella bufera. Fabiana Luca su Il Quotidiano del Sud il 14 marzo 2021. Accordi separati tra governi e produttori di vaccini contro il Covid-19 e scarsa trasparenza con i contratti. Rimontano le accuse verso la Commissione Europea di avere mal gestito la campagna vaccinale in Europa. Colpevole, secondo alcuni, dei ritardi accumulati nell’acquisto delle fiale e poi di scelte sbagliate su quali vaccini priorizzare, fino all’autorizzazione dell’esportazione di 34 milioni di dosi in 31 Paesi terzi, mentre nel Continente la distribuzione arranca. Le ultime cifre rese note dall’Ue, aggiornate all’11 marzo, parlano di 60,7 milioni di dosi consegnate negli Stati membri e 43,1 milioni già somministrate. Stavolta sotto attacco è proprio la distribuzione delle dosi, che secondo l’Austria non starebbe avvenendo in modo proporzionale all’interno dell’Unione europea, seguendo il criterio del numero di abitanti come concordato dai ventisette governi in fase di contratto. Dopo un confronto con altri Paesi sui numeri delle consegne, il cancelliere Sebastian Kurz ha parlato venerdì di differenze troppo evidenti nella somministrazione tra gli Stati membri per non pensare che qualcuno stesse ricevendo più dosi di quante gliene spetterebbero da contratto. Cita il caso concreto della piccola Malta, che potrebbe ricevere tre volte più fiale della Bulgaria entro la fine di giugno. Il cancelliere è arrivato a sollevare il dubbio che alcuni Paesi abbiano intrapreso di nuovo colloqui paralleli con le case farmaceutiche, come era successo già con la Germania che, come ormai noto, aveva concluso contratti fuori dall’ombrello Ue. Kurz ha parlato di “segretezza” all’interno del Comitato direttivo della Commissione che riunisce i rappresentanti di tutti gli Stati membri responsabili di monitorare la distribuzione del vaccino. Monta di nuovo la polemica, complice anche la frustrazione che cresce tra gli Stati per la gestione generale da parte della Commissione. Alle accuse di Vienna, Bruxelles si difende spiegando che tutti gli Stati hanno il diritto di acquistare dosi di vaccini prenotati dall’UE in base alla popolazione, ma alcuni governi potrebbero aver scelto di non dotarsene. Un modo, quello dell’Austria, per distogliere anche l’attenzione dai ritmi ancora troppo lenti della campagna vaccinale, di cui diversi governi cercano di scaricare la responsabilità solo sull’Unione Europea ma di cui non solo l’Ue è responsabile. All’orizzonte anche nuovi tagli sulle consegne delle dosi previste per il secondo trimestre che allontanano ancora di più l’obiettivo di vaccinare entro fine estate il 70% della popolazione adulta. Dopo varie indiscrezioni, AstraZeneca ha ammesso ieri sera che non riuscirà a garantire più di 100 milioni di dosi all’Ue nella prima metà del 2021, taglio drastico rispetto ai 300 milioni promessi da gennaio a giugno. L’azienda ha motivato l’impossibilità di rispettare gli impegni a causa “delle restrizioni all’export di alcuni Paesi”, tra cui gli Stati Uniti che avrebbero rifiutato la richiesta dell’Ue di permettere l’esportazione di dosi AstraZeneca. La società anglo-svedese è impegnata a compiere “il miglior sforzo ragionevole” per garantire le consegne ma a nulla è servito il richiamo del commissario Ue per il Mercato Interno, Thierry Breton, al Consiglio di amministrazione di AstraZeneca a esercitare “la propria responsabilità fiduciaria” e fare ciò “che è necessario per adempiere agli impegni”. Impegni nelle consegne che continuano a rimanere poco chiari nonostante siano stati pubblicati i contratti con CureVac, AstraZeneca e Sanofi. I contratti sono coperti da clausole di riservatezza e Bruxelles, su pressione delle case farmaceutiche, ha oscurato le “parti sensibili” sui finanziamenti, sulle dosi e sui tempi di consegna. Nonostante il Parlamento europeo abbia continuato a chiedere maggiore trasparenza da parte della Commissione. Ultimo in ordine di tempo l’appello dell’Ungheria, che ieri ha chiesto all’Esecutivo comunitario di rendere pubblici tutti i contratti sui vaccini acquistati dall’Ue per conto degli Stati membri e soprattutto i programmi di consegna. Contro il disimpegno delle case farmaceutiche, l’Ue ha esteso fino alla fine di giugno il meccanismo di controllo sulle esportazioni, che dal 30 gennaio è stato attivato solo una volta dall’Italia proprio nei confronti di AstraZeneca che ha cercato di esportare 250mila dosi di vaccino in Australia. Il meccanismo è pensato per colpire le aziende che non rispettano gli impegni di consegna, anche se finora sono state più le dosi autorizzate all’export che quelle bloccate.

Nicola Porro per “il Giornale” il 13 marzo 2021. L'Europa sui vaccini ha sbagliato tutto. E, come vedremo tra poco, ci potrebbe essere costato 90 miliardi di euro, secondo la Cdp (la controllata del Tesoro nell' economia italiana). Siamo indietro rispetto agli Stati uniti, in cui a governare c' era un certo Donald Trump. Abbiamo fatto peggio, in termini di approvvigionamento, rispetto alla Gran Bretagna. E questo è proprio uno smacco: vi ricordate quando si sosteneva che avrebbero sofferto di una tremenda scarsità di medicinali se avessero abbandonato l' Unione? La Russia, quel grande Paese a metà strada tra Europa e Asia, che fu preso per i fondelli quando il suo presidente annunciò di aver trovato il vaccino e di averlo somministrato alla figlia, ha un prodotto che tutti vogliono replicare. Per non parlare del piccolo Israele, la cui popolazione vale più o meno quella della Lombardia, eppure ha un numero di vaccinati quasi dieci volte superiore a quelli europei. In un impasto di supponenza, improvvisazione e burocrazia, abbiamo davvero sbagliato tutto. Parafrasando il mitico Vitaliano Brancati: l'Europa non si stanca mai di essere un paese arretrato e fa qualunque sacrificio, perfino delle rivoluzioni, per rimanere vecchio. Il suo organismo di controllo dei medicinali, quello che autorizza, ci ha impiegato mesi per dare il via libera a ciò che gli altri avevano autorizzato da tempo e, aggiungiamo, senza avere sicurezze maggiori su efficacia ed effetti collaterali dei sieri. Non è dotato infatti delle necessarie procedure per controllare lo sviluppo di un farmaco in corsa, per così dire. Il problema è che in Russia, e vabbè, in America, nel Regno Unito e in Israele ce l'hanno. A ciò si aggiunga che per firmare i contratti abbiamo impiegato quattro mesi in più rispetto agli altri sistemi paese: roba da matti. O, meglio, roba europea. Vi ricordate la battuta di Kissinger, che sospirava dell' impossibilità di alzare il telefono e parlare con qualcuno che davvero contasse a Bruxelles o comunque in Europa? Poi, alla farsa europea si aggiunge la commedia italiana. Pensate al vaccino AstraZeneca, quello dei presunti effetti collaterali mortali tutti da dimostrare, ebbene siamo riusciti, noi italiani, prima ad autorizzarlo solo per gli under 55, poi a portarlo fino ai sessantacinquenni. Il tutto ci ha fatto perdere un mucchio di tempo. Mentre gli altri aprono, grazie alla protezione assicurata dal siero, noi chiudiamo. Ieri la Cassa depositi e prestiti ha fatto un calcolo clamoroso. I vaccini sono costati all' Europa 22 miliardi di euro. E questo più o meno si sapeva. Ma, dicono gli economisti della cassaforte del Tesoro: «I Paesi europei registrano un ritardo di circa cinque settimane nella somministrazione dei vaccini, che potrebbe generare una perdita di circa 90 miliardi di euro, pari a circa quattro volte rispetto al valore dei contratti siglati». Per l' Italia l' inefficienza europea può essere costata, continuano da Cdp, la bellezza di 10 miliardi. «Con questo ritmo l' immunità di gregge sarebbe raggiunta solo alla fine del 2022». Quando non servirà più ad un fico secco, aggiungiamo noi. Insomma Ursula & company, che scrivono lettere pensose in cui rivendicano, contro il buon senso, la loro straordinaria capacità di contrasto al virus, sono costati quanto un figlio scemo. Anzi, converrà trovare un modo di dire meno volgare, ma più efficace per definire questo gigantesco infortunio dei nostri politici e burocrati che ci governano in Europa.

Da liberoquotidiano.it il 19 febbraio 2021. E' un attacco senza precedenti all'Europa quello di Federico Rampini. Il giornalista di Repubblica, ospite giovedì 18 febbraio di Corrado Formigli a PiazzaPulita su La7, accusa l'Unione europea di essere colpevole dell'incredibile ritardo nella campagna di vaccinazione dei cittadini dei suoi Stati membri. Rampini fa a pezzi in primis Ursula Von der Leyen che non si è mossa in fretta per combattere la pandemia di coronavirus. Un discorso durissimo, quasi da sovranista. “Stiamo parlando di una sfida mondiale per salvare centinaia di milioni di vite umane. Abbiamo tre poli che si stanno combattendo", spiega il giornalista, "la Cina, dove c’è un potere autoritario, che pare abbia vinto la sua sfida. Gli Stati Uniti, con il loro capitalismo spinto, che stanno facendo quattro volte i vaccini che fa l’Europa. E poi c'è l'Europa appunto, dove comandano le burocrazie, o le tecnocrazie, ma sempre burocrazie sono". Ecco, accusa Rampini, in Ue "hanno sbagliato tutto. La von der Leyen è stata criticata duramente anche da Angela Merkel". Non ne ha fatta una giusta. "I problemi sono a valle, e gravissimi. E’ sbagliato tutto a monte". Rampini parla di "penuria", e "quando c’è penuria", sottolinea il giornalista che vive da anni negli Stati Uniti, "si crea il mercato nero" dei vaccini, come stiamo vedendo in questi giorni in cui si sono aperte anche diverse inchieste in Italia. Rampini è scatenato: “La scarsità di vaccini è stata creata da Bruxelles, che ha rallentato le decisioni, ha fatto le sue scelte tardissimo”, affonda. “Gli Stati Uniti, e allora c’era ancora Donald Trump che su questo punto non è stato sconfessato nemmeno da Biden, e il Regno Unito hanno investito nei vaccini Pfizer e Moderna, in proporzione agli abitanti, sette volte più dell’Unione europea. E’ normale che abbiamo più vaccini e prima di voi”.

Estratto dell’articolo di Silvia Truzzi per “il Fatto quotidiano” il 19 febbraio 2021. […]

Professore, dov' è stato l'errore?

«Sono un economista e guardo ai numeri. L'Inghilterra ha vaccinato il 20 per cento della popolazione, Israele il 70, gli Stati Uniti il 15, la Serbia l'8. Tra i Paesi dell'Unione europea il migliore è la Danimarca e poi c'è l'Italia, con il 5 per cento».

Perché in Inghilterra la campagna vaccinale procede così velocemente?

«Non è una questione di distribuzione, è principalmente una questione di disponibilità. La Ue ha centralizzato l'acquisto delle dosi, ma poi non si è preoccupata di investire per averle in tempi brevi. Se il presidente Donald Trump ha fatto una cosa giusta è stata non risparmiare sui vaccini, pagando di più per fare più in fretta. All'inizio dell'estate, non c'era la certezza che l'antivirus avrebbe funzionato. Trump ha comprato a scatola chiusa una quantità enorme di vaccini, permettendo che questi fossero prodotti prima dell'autorizzazione all'uso. L'Europa non lo ha fatto. Ha comprato i vaccini tardi e senza preoccuparsi delle date di consegna. Anche ora non si dice che i nuovi vaccini comprati da Ursula von der Leyen arriveranno nel terzo e quarto trimestre. Nel compito più importante che le fosse mai stato affidato, l'Unione europea ha fallito».

Marco Bresolin per “La Stampa” il 5 febbraio 2021. Bisogna «lavorare senza sosta» al Recovery Plan italiano. Perché il tempo a disposizione è poco e i soldi da utilizzare tanti. Ma soprattutto perché ci sono ancora molti dettagli da definire, obiettivi da fissare e riforme da concordare. Ursula von der Leyen cerca di tenersi fuori dalle dinamiche politiche romane, ma il sorriso che compare sul suo volto quando sente pronunciare la parola «Mario Draghi» fotografa alla perfezione il sentimento di fiducia che si respira nel Palazzo Berlaymont verso il nuovo capo del governo. Dal quartier generale della Commissione europea, la presidente difende il piano Ue sui vaccini che le sta costando parecchie critiche. Ma per la prima volta - nel corso di un'intervista con "La Stampa" e altri media europei - ammette i passi falsi: l'Ue ha sottovalutato i problemi legati alla produzione e soprattutto ha contribuito ad alzare più del dovuto le aspettative dei cittadini.

L'Ema ci ha messo troppo tempo ad approvare i vaccini?

«Per verificare l'efficacia e la sicurezza dei vaccini abbiamo deciso di non prendere scorciatoie. Questo processo richiede 3-4 settimane e credo che sia giusto seguirlo perché si tratta di nuovi vaccini. Bisogna iniettare una sostanza biologica attiva in persone sane: è una responsabilità enorme».

Il Regno Unito ha fatto una scelta diversa: è stata una mossa azzardata?

«Loro hanno optato per la procedura d' emergenza, che dura 24 ore. Ma in quel caso le responsabilità finiscono in capo al governo, non alle società. Noi ci siamo mossi diversamente anche perché è difficile capire come si possano analizzare i dati in 24 ore. E comunque abbiamo accelerato i tempi grazie alla "rolling review", che consente all' Ema di analizzare i dati in tempo reale già durante i test clinici. Per questo siamo riusciti a chiudere in 3-4 settimane un procedimento che di norma dura 7-9 mesi».

Però, al di là della partenza anticipata, i britannici stanno andando più veloci: perché?

«Perché hanno anche deciso di allungare i tempi tra il primo e il secondo richiamo (del vaccino Pfizer, ndr). Noi non lo abbiamo fatto perché ci siamo attenuti alle raccomandazioni dell'Ema: i dati sulla sicurezza e sull'efficacia sono affidabili solo per l'intervallo di circa 4 settimane tra un'iniezione e l'altra. Ovviamente, così facendo, la quantità di gente che ottiene il primo vaccino è inferiore».

E invece come giustifica la differenza con Israele?

«Si tratta di un Paese altamente digitalizzato, il che è positivo. Ma loro hanno accettato di cedere alle società i dati sanitari dei cittadini. Noi non lo faremmo. Abbiamo un approccio diverso per quanto riguarda la privacy».

Quindi lei è soddisfatta di come stanno andando le cose?

«Siamo stati incaricati di gestire il piano a giugno e ad agosto abbiamo firmato il primo contratto con AstraZeneca. Cento società ci hanno chiesto di essere prese in considerazione, noi ne abbiamo scelte sei. È stata una scommessa, ma una scommessa giusta. Perché tre di questi vaccini sono già stati autorizzati. Poi arriveranno anche Johnson&Johnson, CureVac e più tardi Sanofi. Il successo del nostro portfolio parla da sé».

Però l'Ungheria ha deciso di affidarsi al vaccino russo e a quello cinese: teme che altri possano seguire questa strada?

«Ripeto: sul mercato europeo abbiamo vaccini efficaci e sicuri. Ovviamente tutte le case farmaceutiche hanno il diritto di chiedere l'autorizzazione all'Ema, che per noi è una precondizione. Per quanto riguarda la decisione ungherese, gli Stati sono liberi di dare un'autorizzazione d' emergenza. Anche se in questo caso la responsabilità passa dalla società al governo».

Resta il fatto che alcuni leader europei hanno criticato apertamente la gestione della Commissione: come risponde alle accuse?

«Innanzitutto vorrei sottolineare che la stragrande maggioranza dei leader ha espresso pubblicamente il suo sostegno».

Stragrande maggioranza non vuol dire unanimità.

«Da giugno abbiamo istituito lo "steering board" dei vaccini, un comitato direttivo in cui sono rappresentati tutti i 27 Stati. Nessuna decisione è presa senza il consenso dei 27 governi. Stiamo parlando di un organismo che si riunisce regolarmente, 5-7 volte al mese, per discutere di ogni piccolo dettaglio dei contratti che sono in fase di trattativa. Un piccolo gruppo di Stati era anche nel team negoziale con le case farmaceutiche, hanno seguito ogni passo».

Non ha nulla da rimproverarsi? Nessuna autocritica?

«L'anno scorso ci siamo focalizzati sulla necessità di sviluppare al più presto i vaccini, un processo che di solito dura 5-10 anni. Forse - in parallelo - avremmo dovuto concentraci di più sui problemi legati alla loro produzione di massa. Li abbiamo sottovalutati. Anche le industrie hanno visto arrivare i vaccini prima del previsto, il che è certamente positivo, ma poi bisogna aumentare la produzione e avviare per tempo le catene di approvvigionamento. Basti pensare che alcuni vaccini richiedono 400 componenti. Forse ci si poteva muovere prima. Per questo ora stiamo lavorando con le industrie per fronteggiare le possibili questioni legate alle varianti del virus. Dobbiamo guardare ad altri siti e investire insieme in nuove capacità produttive, sapendo che per essere operativi ci vogliono mesi. Meglio prepararsi ora, non si sa mai cosa può succedere tra dodici mesi. Anche perché ci possono essere alti e bassi: Pfizer/BioNTech ha dovuto rallentare le consegne per espandere la produzione. Episodi simili potranno ripetersi».

Altri errori?

«Col senno di poi avremmo anche dovuto spiegare meglio ai cittadini che il processo di distribuzione sarebbe stato lento perché si trattava di una procedura completamente nuova».

I cittadini chiedono anche maggiore trasparenza sui contratti: perché non sono pubblici?

«Perché si tratta di contratti tra noi e delle società private: serve il loro consenso. Ora stiamo cercando di convincerle che la trasparenza è anche nel loro interesse».

Da repubblica.it il 2 marzo 2021. Due curricula a confronto. A sinistra quello di Sandra Gallina, negoziatrice per i vaccini in Europa. A destra quello di Kate Bingham, negoziatrice per il governo britannico. È così che il virologo Roberto Burioni attacca il ruolo della direttrice generale alla Salute della Commissione nella Ue: pubblicando sui social i cv di entrambe e puntando il dito sul primo: "Trova le differenze", scrive in un tweet. Sandra Gallina, friulana, l'autunno scorso è stata chiamata d'urgenza da Ursula von der Leyen, presidente della commissione Ue, per negoziare i contratti dei vaccini con le case farmaceutiche. Ciò è accaduto dopo aver avuto un ruolo di primo piano nel portare a termine il trattato di libero scambio con l'America Latina (Mercosur). In un post Burioni sostiene che "la funzionaria che ha condotto la trattativa dell'Eu per i vaccini è laureata alla scuola interpreti e ha avuto a che fare per la prima volta con la sanità nel luglio 2020. Prima si occupava di agricoltura e pesca".

Dal profilo twitter di Roberto Burioni (25 febbraio 2021) A sinistra la persona che ha trattato per l'acquisto dei vaccini per l'UE. A destra la persona che ha trattato per l'acquisto dei vaccini in UK. Trova le differenze.

Dal profilo twitter di Roberto Burioni (26 febbraio 2021) Niente di personale contro  @SandraGallina  ma vista l'oggettiva catastrofe vaccinale in EU, è legittimo chiedersi se una persona con la sua formazione (Scuola Interpreti) sia stata la migliore scelta per condurre la trattativa dalla quale dipendono decine di migliaia di vite. La scelta della Dott.ssa Gallina è stata una scelta politica, messa in atto da un organismo politico e non stiamo parlando di un esperimento in laboratorio. Le questioni politiche hanno rilevanza pubblica e io ho il diritto di esprimere le mie opinioni politiche.

DAGONEWS il 2 marzo 2021. Come si è arrivati a nominare una traduttrice direttore generale della DG Salute durante un'emergenza sanitaria senza precedenti nella storia moderna? La carica le è stata assegnata ad ottobre 2020, non prima, la crisi Covid era dunque già scoppiata e conclamata. Ma quali sono le logiche e le dietrologie che portano i vertici comunitari a compiere scelte diciamo un filino avventate? Le nomine di alti livelli alla Commissioni Europea devono rispondere a determinati criteri, in un mondo in cui il finto politicamente corretto la fa un pochino da padrone. Ed è così che il posto vacante di direttore generale doveva andare ad una donna, per rispettare il principio della parità di genere. Doveva essere un'italiana, perché in posizioni apicali dopo l'abbuffata tedesca dell'ultima presidenza ne sono rimasti troppo pochi, di Italiani. E il candidato doveva avere un grado abbastanza alto per sedersi su quella poltrona. Si è arrivati a Sandra Gallina, brava donna e ottimo funzionario con zero esperienza in materia di salute pubblica. E così preparazione e competenza anche a Bruxelles cedono il passo ad altri criteri di valutazione, una specie di manuale Cencelli internazionalizzato dove sesso e nazionalità vengono di gran lunga preferiti alla competenza. Tutto giustissimo sul piano concettuale, ci mancherebbe. Ma ora l'Europa intera si ritrova a far gestire un'emergenza sanitaria da una traduttrice con laurea in interpretazione cum summa lode.

Francesca Basso per il "Corriere della Sera" l'11 marzo 2021. Da una parte l' annuncio della Commissione europea di 4 milioni di dosi aggiuntive del vaccino Pfizer-BioNTech nelle prossime due settimane, che faranno salire le forniture della casa farmaceutica da 62 a 66 milioni. Dall'altra la notizia che l'Unione da febbraio ha esportato finora oltre 34 milioni di vaccini anti-Covid verso 31 Paesi, inclusi 9,1 milioni alla Gran Bretagna, 954 mila agli Stati Uniti e 3,9 milioni al Canada. Numeri provenienti da un documento distribuito agli ambasciatori presso l' Ue (aggiornato settimanalmente), che la Commissione ha scelto di commentare solo oggi ma che ha già cominciato a far discutere perché in tutta l' Ue finora sono stati distribuiti 55 milioni di vaccini, di cui 42,7 milioni di dosi somministrate (dati Ecdc). Da aprile l' aspettativa è che la fornitura aumenti e arrivi a 100 milioni di dosi al mese fino a giugno. Ma i numeri hanno creato polemica anche alla luce delle parole del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, che nel suo blog martedì ha difeso la vocazione «esportatrice» dell' Ue, a differenza di Gran Bretagna e Stati Uniti che «hanno imposto un divieto assoluto all' esportazione di vaccini o componenti di vaccini prodotti sul loro territorio». La reazione del ministro degli Esteri britannico Dominic Raab è stata immediata: ha negato l' esistenza di un divieto e ha convocato il rappresentante dell' Ue a Londra. La sera stessa Michel aveva twittato che Ue e Gran Bretagna hanno «diversi modi per imporre divieti o restrizioni su vaccini/medicinali. L' Ue fornisce vaccini ai suoi cittadini e al resto del mondo. Nessuno è al sicuro finché tutti non sono al sicuro». Il nodo export è delicato perché per produrre i vaccini servono oltre 300 componenti, per alcuni dei quali l' Unione è costretta ad approvvigionarsi in Paesi extra Ue. Il commissario all' Industria Thierry Breton, alla guida della task force per aumentare la produzione di vaccini, tre giorni fa si è sentito con il suo omologo Usa Jeff Zients proprio per discutere della catena di approvvigionamento. Già durante la riunione tra i leader Ue del 25 febbraio scorso era stata sollevata l'opportunità di un maggiore equilibrio nell' approccio al tema export e più fermezza nei confronti della case farmaceutiche che non rispettano le forniture destinate all' Ue come da contratto. A porre con forza il problema è stato il premier Mario Draghi, che ha subito incassato il sostegno della Francia e di altri Stati membri, cui è seguita la decisione di bloccare l'esportazione di 250 mila dosi di AstraZeneca destinate all' Australia, un Paese che non è in emergenza da Covid come l'Italia e l' Europa. È stato applicato alla lettera il meccanismo per il controllo e l'autorizzazione all' export di vaccini extra Ue: la misura temporanea creata dalla Commissione dopo il comportamento manchevole di AstraZeneca ed entrata in vigore il 30 gennaio ma in scadenza. Dovrà essere deciso se prolungarla. La decisione di Roma, difesa da Bruxelles, non è stata esente da critiche e da accuse di «nazionalismo». All' indomani la Commissione ha comunicato la lista dei Paesi destinatari dei vaccini prodotti nell' Ue. Mancavano però i numeri. E delle richieste di export presentate alle autorità nazionali, come prevede il meccanismo che attribuisce a Bruxelles l' ultima parola, finora 249 sono state approvate e solo una rifiutata (dall' Italia). Ora lo sforzo è sfruttare al meglio le fiale, dopo la notizia che anche le forniture del vaccino di Johnson & Johnson, che sarà approvato oggi dall' Ema, potrebbero subire dei tagli. L' Aifa invita a «cercare di ricavare il maggior numero possibile di dosi da ciascun flaconcino di vaccino».

Vaccino, le cifre che imbarazzano l'Europa: esportate 34 milioni di dosi, non ne ha ricevuta nessuna. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Un disastro. In un solo mese l'Unione Europea si è fatta sottrarre 34 milioni di dosi di vaccino, ben oltre la metà di quelle distribuite finora agli Stati membri, la miseria di 55, quest'ultimo dato è stato diffuso dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. Le somministrazioni, complessivamente, sono state 42 milioni 700 mila. Ma veniamo ai 34 milioni di dosi. Dal primo febbraio al primo marzo, hanno riportato fonti Ue della Deutsche Press-Agentur, le aziende farmaceutiche ne hanno esportate dagli stabilimenti europei più di un milione al giorno. I capi di Bruxelles si sprecavano in dichiarazioni, hanno tentato di giustificare in ogni modo il flop delle forniture, e intanto il continente veniva inesorabilmente svuotato del medicinale più importante della storia recente. Più di 9 milioni di dosi sono state spedite in Gran Bretagna, 3,9 milioni in Canada, 3 milioni in Messico, 954 mila negli Stati Uniti. Altre 17 milioni sono state inviate a Paesi che evidentemente hanno sborsato più di Bruxelles per garantirsi il farmaco. L'Ue, per acquistare l'antidoto di Pfizer-Biontech, ha messo sul piatto 12 euro a fiala. Israele il doppio. Con 34 milioni di dosi, per rendere ancora più chiara la misura del fallimento, avrebbero potuto ricevere la prima iniezione tutti i cittadini (compresi i bambini) di Svezia, Danimarca, Norvegia, Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania.

DIRITTO DI BLOCCO. La notizia dei 34 milioni di dosi mancanti è stata rilanciata dai media di tutto il mondo, tra i primi il colosso americano Bloomberg. Il network, che ha citato un documento riservato «distribuito agli ambasciatori nella sede Ue», ha inoltre rivelato che le esportazioni hanno riguardato 31 Paesi e sono state 249 a fronte di 258 richieste. Stando a tali cifre, dunque, la quantità di vaccini prodotti in Europa e volati in altri Stati è di gran lunga superiore ai 25 milioni, già un'enormità, riportati dal New York Times. Le case farmaceutiche (anche se i contratti non sono mai stati resi pubblici) non hanno commesso alcuna irregolarità, ma anche l'avessero fatto ciascuno dei 27 Paesi Ue avrebbe potuto bloccare l'esodo dei vaccini in base al meccanismo di controllo dell'export istituito dalla Commissione Ue a fine gennaio, ciò che ha fatto Mario Draghi la settimana scorsa per fermare l'esportazione di 250 mila vaccini Astrazeneca prodotti nel Lazio che altrimenti sarebbero finiti in Australia, nazione dove peraltro il Covid è pressoché inesistente. Bruxelles non commenta l'ennesima figuraccia e questo, ce ne fosse bisogno, certifica la veridicità delle rivelazioni. Bruxelles non replica agli ultimi fallimentari dati ma lo scontro tra l'Ue e l'Inghilterra si fa sempre più acceso. Nei giorni scorsi il premier Johnson aveva duramente criticato la possibilità di bloccare l'export del farmaco anti-Covid da parte dell'Europa: «La ripresa», aveva detto, «dipende dalla cooperazione internazionale, e le restrizioni mettono a rischio la battaglia globale dei vaccini». Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, aveva ribattuto accusando a sua volta Johnson di aver fermato le esportazioni dall'Inghilterra. Londra aveva replicato dicendo che l'accusa era «completamente falsa». E a Londra, «per ulteriori discussioni», era stato convocato il rappresentante diplomatico Ue. Ieri Johnson durante il question time alla Camera dei Comuni è tornato sulla questione: «Non ho bloccato un singolo vaccino, siamo contrari a questa forma di nazionalismo». Il premier britannico ha invitato Michel a ritirare le sue affermazioni e ha rivendicato i meriti del proprio governo, capace di vaccinare finora «22 milioni 500 mila persone con la prima dose». Un portavoce di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Ue, non ha smentito Michel ma ha tenuto a sottolineare che la stessa Von der Leyen aveva già ricevuto «da qualche tempo» rassicurazioni da parte di Johnson sul fatto che «il Regno Unito non stesse adottando alcuna misura restrittiva rispetto alla fornitura destinata all'Unione Europea». «L'Ue», ha poi puntualizzato il portavoce alzando ulteriormente il livello della tensione, «rifornisce ed esporta vaccini in tutto il mondo, e questo non è sempre vero per tutti i nostri partner. Vogliamo continuare ad avere questo ruolo», ha concluso, «a patto che le società farmaceutiche che hanno contratti con noi li rispettino».

LONDRA CORRE. Nel Regno Unito, intanto, è stata già immunizzata la quasi totalità degli anziani e dei cittadini più vulnerabili. Oltre 24 milioni le dosi somministrate e l'obiettivo è quello di coprire l'intera popolazione adulta al massimo entro il 31 luglio. Johnson ha rivendicato i numeri e ha sottolineato che sono semplicemente il frutto della maggior rapidità delle somministrazioni da parte del suo governo, il quale ha saputo approvare i vaccini e chiudere i contratti con le aziende farmaceutiche prima dell'Ue. L'Inghilterra si è accollata gran parte del finanziamento della ricerca dell'Università di Oxford che ha portato alla creazione del vaccino Astrazeneca al cui sviluppo ha contribuito anche l'Irbm di Pomezia, ma la differenza è che Giuseppe Conte ha preferito investire nel bonus monopattini. Ha dormito l'Italia e continua a farlo anche l'Ue che ieri però ha firmato la dichiarazione congiunta sulla "Conferenza sul futuro dell'Europa". «La nostra promessa», ha dichiarato la von der Leyen «è che ascolteremo i cittadini, ci spieghino in quale Europa vogliono vivere. Vogliamo invitare tutti gli europei a esprimersi». Meglio di no.

L’ultima beffa firmata Ue: non ha vaccini ma ha esportato 34 milioni di dosi tra Usa, Gb e resto del mondo. Laura Ferrari mercoledì 10 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. L’Ue non ha vaccini a sufficienza, ma nel frattempo ha esportato 34 milioni di dosi in Regno Unito, Stati Uniti e Canada. Dosi che avrebbero fatto comodo a nazioni sull’orlo dell’ennesimo lockdown, come l’Italia. Una scelta scellerata della quale devono rispondere tutti i governi. Incluso quello italiano.

La rivelazione di Bloomerg. Lo riporta Bloomberg citando un documento visionato dall’agenzia riguardante le spedizioni effettuate fino al 9 marzo scorso. La Ue ha infatti esportato finora circa 34 milioni di dosi di vaccini Covid-19 verso altri Paesi. Tra questi ben 9,1 milioni al Regno Unito. Quindi 954 mila agli Stati Uniti. E 3,9 milioni al Canada. Hanno fatto scalpore le 250 mila dosi di vaccino AstraZeneca dirette in Australia e bloccate dall’Italia ma potrebbero essere solo un’inezia rispetto alla oceanica mole di esportazioni partite dalla Ue. Secondo il documento citato da Bloomberg e «distribuito agli ambasciatori presso l’Ue», le esportazioni hanno riguardato 31 Paesi e sono state 249 su 258 le richieste di export autorizzate. Nelle prossime due settimane, Pfizer-BioNTech fornirà all’Unione europea 4 milioni di dosi aggiuntive di vaccino anti Covid-19 per fronteggiare la diffusione delle varianti del virus. Lo ha annunciato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Le dosi previste del vaccino Pfizer-BioNTech erano 62 milioni, che saliranno così a 66 milioni. Per l’Italia, fanno sapere fonti di Palazzo Chigi, «ciò equivale ad una quota aggiuntiva di 532mila dosi che saranno consegnate nelle ultime due settimane di marzo e che aiuteranno ad affrontare l’emergere di nuovi contagi e varianti». La Commissione ha riferito di avere negoziato questa fornitura extra per consentire agli stati membri di utilizzare queste dosi nelle aree dove si teme maggiormente la diffusione delle varianti del virus. A preoccupare sono soprattutto alcuni focolai in Tirolo, in Austria, a Nizza e nella Mosella, in Francia, a Bolzano, in Italia, e alcune aree della Sassonia e e della Baviera, in Germania.

Federico Fubini e Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2021. Tra due giorni, i Paesi europei conteranno due mesi esatti dall' inizio della campagna vaccinale più complessa della loro storia. E pur nel ritardo complessivo di tutto il continente, non è andata nello stesso modo per tutti. L' Italia nelle prime tre settimane è partita più veloce della media europea, ma da allora ha iniziato a rimanere un po' indietro. La Francia è partita piano, mentre dalla terza settimana ha recuperato. Oggi Italia e Francia viaggiano quasi appaiate: la prima ha vaccinato almeno con una dose il 6% della popolazione, la seconda il 5,9%. Questi dati non rispondono però a una domanda essenziale, vista la capacità di Covid-19 di discriminare in base all' anno di nascita dei contagiati: chi ha già ricevuto le somministrazioni? Saperlo è utile, perché in Italia l' 86% delle vittime del virus aveva 70 anni o oltre. Quante dosi sono state date agli anziani, visto che il Paese anche di recente ha continuato a perderne oltre diecimila al mese? E quante ai giovani? Pochissimi Paesi europei informano sulla scomposizione dei vaccini in base all' età. Il ministero della Salute tedesco, a ripetute richieste del «Corriere» in proposito, non ha mai risposto. Italia e Francia invece sono molto trasparenti, ma proprio la ricchezza dei loro dati - del ministero della Salute e di Geodès Santé Publique - fa emergere differenze radicali nell' approccio fra i due Paesi. A ieri, la Francia aveva vaccinato un esercito di anziani in più rispetto all' Italia: con almeno una dose, ne aveva messi un po' meglio al sicuro quasi 900 mila settantenni o oltre in più. In realtà probabilmente lo scarto è maggiore, perché il ministero della Salute di Roma informa solo sul totale di dosi somministrate per età e molti anziani nelle case di riposo ne hanno ricevute già due. Ne ha coperti almeno 485 mila in più nella fascia dei settantenni (70-79) e almeno 406 in più fra chi ha ottant' anni e oltre, pur con dimensioni della popolazione quasi uguali in queste fasce d' età. Dato che quasi nove vittime su dieci di Covid fanno parte di quelle generazioni, la differenza può avere implicazioni serie. Com' è stato possibile? Senz' altro, ci sono scelte di priorità diverse fra Roma e Parigi ed entrambe sembrano scientificamente difendibili. In Italia il piano del ministero della Salute del 12 dicembre ha teso a proteggere prima tutto il «personale socio-sanitario» definito «in prima linea», a prescindere dall' età degli addetti. L' intenzione era di fare tutto perché il sistema sanitario continuasse a funzionare e di intervenire su coloro che possono diffondere più facilmente il virus (per esempio, un infermiere ventenne asintomatico, ma contagioso, che giri in corsia fra degenti anziani). In Francia invece un comitato di esperti della Haute Autorité de Santé ha raccomandato di dare priorità alle persone di oltre 75 anni, poi a quelle di oltre 65 anni e in terzo luogo ai professionisti del settore sanitario o socio-sanitario «di almeno 50 anni» o a rischio per altri motivi (elencando 60 studi scientifici a supporto del proprio parere). Ma davvero è tutto qua? Lo squilibrio nella distribuzione dei vaccini in Italia per ora è davvero importante. I settantenni (70-79 anni) in Italia hanno ricevuto appena il 3,7% delle dosi anche se sono il 10% della popolazione e uno su dieci fra loro, se contagiato, muore. In Italia anche i ventenni (20-29) sono il 10% della popolazione, eppure hanno ricevuto il 10% delle dosi benché fra loro muoia appena un contagiato su mille. Quanto agli ottantenni, fra i quali i decessi avvengono in due casi di contagio su dieci, a lunedì avevano avuto molte meno dosi dei trentenni (che pure muoiono in sei casi su mille). Bisogna dunque chiedersi se qualcosa è andato storto. Perché sia i dati sia le testimonianze dal mondo ospedaliero lo fanno pensare. Non è chiaro ad esempio perché il «personale socio-sanitario» abbia ricevuto a ieri 2,25 milioni di dosi, quando in base ai dati ufficiali Istat l' intero personale sanitario italiano pubblico e privato (medici generici e specializzati, infermieri, odontoiatri, ostetriche, farmacisti) risulta di 725 mila persone. Per vaccinarle tutte con doppia iniezione - come sarebbe stato comprensibile - bastavano 1,4 milioni di dosi. Invece questo gruppo sociale «socio-sanitario» ne ha assorbite ottocentomila in più: numero quasi uguale a quello degli anziani italiani protetti in meno rispetto ai loro coetanei francesi. Dove sono finite quelle ottocentomila dosi? Non certo o non tutte a personale «in prima linea» come da piano strategico del ministero. In parte, sembrano andati agli iscritti di un certo numero di ordini professionali collegati più o meno direttamente al mondo sanitario (anche solo ai laboratori di ricerca), o iscritti agli ordini ma in pensione, o a almeno parte dei circa 350 mila addetti amministrativi della sanità pubblica o privata. Una volta stabilita la connessione sociale o professionale, i criteri d' accesso per chi faceva parte degli «insider» di alcuni gruppi sono diventati straordinariamente elastici. In una certa logica molto italiana (e molto iniqua) a tanti, troppi è diventato impossibile dire di no. E gli anziani più fragili possono attendere: loro qui, in fondo, sono «outsider».

Vaccino, Pietro Senaldi: in ritardo l'Europa in ritardo? Solo i leader sovranisti riescono a difendere i loro Paesi. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 27 febbraio 2021. Va di moda essere europeisti e il virus, che gli scienziati televisivi ci insegnano essere intelligente e opportunista, si è adeguato. Infatti prospera principalmente nell'Unione Europea mentre altrove inizia a battere in ritirata. La pandemia, nel molle corpaccione di Bruxelles, che ha ben più delle tre patologie gravi solitamente necessarie al Corona per mandarti al Creatore, ha trovato il suo habitat naturale. Burocrazia, lentezza, interessi in conflitto, incompetenza e arroganza al potere, scarsa responsabilizzazione politica, confusione istituzionale, insindacabilità delle scelte, incapacità di fare fronte comune: l'emergenza sanitaria ha dimostrato che l'Europa non è una cura ma una comorbilità perché l'Unione non fa la forza bensì la debolezza. Contro il Covid vincono il sovranismo e il motto «chi fa da sé fa per tre». Bruxelles nella lotta al virus ha sbagliato tutto quello che poteva, mal guidata da un capo, Ursula Von der Leyen, che è stata più confusionaria di Conte, più impreparata di Speranza, più inefficiente di Arcuri, più divisiva di Boccia, più presuntuosa di Casalino e più ideologica del Pd. Subalterna all'Organizzazione Mondiale della Sanità, istituzione che ha depistato gli Stati dall'inizio dell'epidemia, la Ue non è stata neppure capace di copiare i Paesi che da subito sono riusciti ad arginare il contagio, come Giappone o Australia. Ha chiuso tardi e senza la severità delle nazioni che sono riuscite a contenere la diffusione del virus e ha fallito sui tracciamenti e i tamponi. Quando poi ha riaperto, lo ha fatto senza regole né precauzioni e non si è più preoccupata di tenere sotto controllo i positivi, preparando la strada per nuove chiusure. Drammatica è stata anche la gestione del capitolo vaccini. Se in Europa scarseggiano le dosi, mentre grazie alla Brexit l'Inghilterra ha immunizzato circa il 25% della popolazione, è a causa di tre gravissimi errori. Prima l'Agenzia del Farmaco ha tardato nel concedere il via libera ai nuovi ritrovati, poi la Von der Leyen si è presentata buon ultima presso le case farmaceutiche produttrici per firmare i contratti d'acquisto e infine, quando lo ha fatto, non si è preoccupata di chiedere garanzie sufficienti sulle consegne. La classe dirigente europea è stata incapace di studiare una strategia comune di contenimento del virus; anzi, non ha avuto neppure la velleità di provarci. Quando è stato il momento di finanziare le case farmaceutiche per la ricerca del vaccino, ha operato una selezione politica tesa a favorire gli interessi di Francia e Germania, anziché una scelta improntata a criteri di efficienza. Non si è preoccupata di pianificare una produzione alternativa comune delle dosi e ha comprato male, mercanteggiando sul prezzo e lasciando così strada aperta a nazioni più avvedute, che hanno ritenuto l'acquisto un investimento e non una spesa. Infine, dopo aver lasciato gli Stati membri scoperti, li ha pure diffidati dall'approvvigionarsi autonomamente, salvo consentire alla sola Germania di farlo. Il Covid ha dimostrato che l'Unione Europea di fatto ancora non esiste. È una Babele di popoli allo sbando, ammazzati dalla prosopopea dei loro leader, dove chi è piccolo e rapido ha più probabilità di salvarsi. La Danimarca e l'Ungheria sono le oasi felici, la prima perché ha acquistato più dosi di quante gli erano state assegnate dalla Ue, la seconda perché si è gettata sul vaccino russo Sputnik. Germania, Francia, Italia e Spagna invece sono i lazzaretti, oltre al Belgio, che non a caso è la sede della Ue. Tutti gli esempi virtuosi della lotta al virus sono nel segno del sovranismo. Meglio di noi sta non solo la Gran Bretagna, ma anche Israele, che ha vaccinato il 90% dei cittadini, o San Marino, che dopo aver stracciato il contratto con l'Italia si è rivolta a Mosca, o addirittura la Serbia, che ha immunizzato il 15% della popolazione. L'Europa è così vecchia e inadeguata che perfino Draghi, nel suo primo vertice da leader Ue e non da banchiere, è apparso non come il deus ex machina in grado di risolvere tutti i problemi ma come un cane che abbaia alla Luna. Il premier ha detto che dobbiamo essere inflessibili con le aziende in ritardo nel consegnare i vaccini e accelerare la profilassi. D'accordissimo signor presidente, ma come si fa?

Il flop dell’Europa sui vaccini, ecco il contratto che mostra le sue debolezze. Pubblicato il contratto di AstraZeneca per la fornitura dei vaccini all'Ue. Ma le parti salienti sono omissate. Sardone: "Cosa nascondono e perché? Ennesimo messaggio di incapacità di Bruxelles". Martina Piumatti, Venerdì 29/01/2021 su Il Giornale. Dopo il braccio di ferro durato giorni AstraZeneca cede alle pressioni di Bruxelles. E pubblica il contratto per la fornitura dei vaccini al centro del violento scontro con la Commissione europea. Per la casa farmaceutica anglo-svedese l’accordo non prevedeva consegne vincolanti delle fiale di vaccino anti Covid. Da qui, la decisione di tagliare due terzi delle dosi pattuite (31 su 80 milioni), bloccando la campagna vaccinale dei vari Stati membri. Una posizione, quella sostenuta da AstraZenca, smentita dalla Ue, come ribadito in mattinata dalla stessa Ursula von der Leyen: il testo “è chiarissimo, contiene ordini vincolanti con quantità da consegnare a dicembre e nei primi tre trimestri del 2021”. Quindi possiamo stare tranquilli che le consegne saranno garantite? Non proprio. Perché le parti cruciali del contratto che dovrebbero dare man forte alla tesi dell’Ue, vincolando AstraZeneca alla fornitura prestabilita, sono omissate. Si ripete lo stesso copione del contratto con CureVac, messo a disposizione, anche qui in versione omissata, nella reading room di Bruxelles. “Il flop dell'Unione Europea sui vaccini - commenta l’eurodeputata della Lega Silvia Sardone - è sotto gli occhi di tutti. Ora se la prendono con le multinazionali del farmaco per non ammettere di aver stipulato dei contratti fortemente penalizzanti per i cittadini e per gli stati membri. Oggi hanno pubblicato il contratto con AstraZeneca mantenendo pagine piene di omissis. Cosa nascondono e perchè?”. Insomma, la pubblicazione dell’accordo più che sciogliere i nodi sulle responsabilità, fa crescere i sospetti su un'Europa prona alle richieste delle case farmaceutiche. “Pfizer - continua Sardone - ha voluto che nel contratto venissero inserite formule per garantirsi il più possibile da reclami in caso di mancato rispetto del cronoprogramma di consegna dei vaccini. Si parla addirittura di assenza di penali. Ma la cosa più importante è la mancanza di responsabilità in caso di reazioni avverse alla somministrazione nei cittadini vaccinati. La società si dichiara non responsabile per eventuali richieste di risarcimenti e indennizzi con il risultato che saranno gli Stati a pagare in caso di problemi”. Uno scaricabarile coperto da omissis, perché inchioderebbe la pessima gestione dei contratti di fornitura da parte della Commissione europea. Oltre al danno, però, anche la beffa. Bruxelles accondiscende a tutte le richieste scriminanti per Big Pharma, ma non è nemmeno in grado di garantirci quello che ci spetta. “Usa, Regno Unito, Israele - chiosa l’eurodeputata del Carroccio - stanno andando velocissimi con i vaccini, noi invece che siamo nell'Unione Europea stiamo andando a rilento e siamo fortemente penalizzati. Perchè siamo gli ultimi mentre gli altri corrono?”. Una questione che resta controversa e che ora costringe all'azione l'Ue, finora debole. Non a caso, riporta Radiocor, Bruxelles avrebbe in canna uno stratagemma legale per costringere AstraZeneca a consegnare le dosi previste. Si tratterebbe di un meccanismo di controllo all’export per inchiodare i produttori, sospettati di vendere le fiale europee all’esterno, nel Regno Unito e negli Usa. Nel caso di anomalie, si potrebbe procedere al blocco all’export per mantenere le dosi nell’Unione. Mali estremi estremi rimedi, insomma. Resta da vedere se, dalla minaccia per mettere pressione a Big Pharma, si passerà ai fatti.

Fiorenza Sarzanini e Lorenzo Salvia per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021. La regola (generosa) è la stessa. Anche per AstraZeneca, arrivata al braccio di ferro con Bruxelles per i tagli alle forniture del vaccino anti Covid, con uno scambio di accuse che sembra non fermarsi più. Il contratto con l'azienda britannica, come tutti quelli firmati dalla Commissione europea con le altre case farmaceutiche, non fissa le forniture da garantire ogni settimana. Ma stabilisce solo le quote da rispettare ogni tre mesi. All'interno dei trimestri l'azienda può frenare o accelerare il ritmo, a seconda delle esigenze produttive. L'importante è che alla fine di marzo per il primo trimestre, alla fine di giugno per il secondo, e così via, la fornitura venga garantita. Ma anche se questo vincolo non dovesse essere rispettato, le carte in mano alla Commissione europea non sono poi così buone. Senza escludere effetti collaterali sull'ok alla vendita da parte di Ema, ormai questione di ore. Le penali non sono automatiche, anzi risultano improbabili. A definire i «rimedi» in caso di violazione delle forniture trimestrali deve essere un nuovo accordo tra la casa farmaceutica e la Commissione. La penale può essere uguale al 20% del valore delle dosi non consegnate. Una sanzione abbastanza contenuta, che può essere messa in conto da un'azienda con le spalle larghe e con gli affari che vanno bene. Ma i «rimedi» possono essere anche altri, come la restituzione delle somme versate o addirittura la risoluzione del contratto. Un'ipotesi, questa, che sarebbe un suicidio perché significherebbe rinunciare alla consegne in un momento in cui di vaccini c'è grande domanda e poca offerta. Da AstraZeneca, in un primo momento, l'Italia doveva avere nel primo trimestre 16 milioni di dosi. Una fornitura, che pur senza suscitare scandalo, era già stata dimezzata qualche settimana fa, scendendo a 8 milioni. Poi è stata ridotta di nuovo con quel taglio del 60% che ha innescato lo scontro con la Commissione europea. Per l'Italia significa avere nel primo trimestre appena 3,4 milioni di dosi a disposizione. Non solo. A proposito della possibilità di risoluzione del contratto, nel secondo trimestre di dosi ne dovremmo avere 24 milioni. Si tratta della fornitura più consistente di tutte, in un momento in cui saremo ancora esposti alle oscillazioni nelle consegne delle case farmaceutiche. E in cui non si sarà ancora concretizzata la strada della parziale autarchia, con la produzione del vaccino italiano Reithera che non arriverà prima dell'estate. Che fare, quindi? A differenza di Pfizer, la battaglia con AstraZeneca è cominciata ancora prima del via libera alla commercializzazione del vaccino, previsto a giorni. L'Italia, come tutti i Paesi europei, non ha ancora il quadro delle forniture settimanali, ma solo il totale nei singoli trimestri, come previsti dal contratto. Un paradosso, perché i tagli sono stati in qualche modo preventivi. Eppure il paradosso, al di là delle smentite e del fair play, potrebbe trasformarsi in una leva negoziale. Il via libera dell'Ema, l'Agenzia europea dei medicinali, e poi quello successivo dell'Aifa, l'agenzia regolatoria italiana, potrebbero essere di due tipi. Un'autorizzazione piena, cioè senza distinzione per fasce d'età. Oppure condizionata all'utilizzo del vaccino per le persone che hanno meno di 65 anni o addirittura 55, visto che diversi studi hanno accertato un'efficacia minore nelle persone anziane. Non è una differenza da poco. Né per l'Italia, che avrebbe una carta in meno da utilizzare per l'immunizzazione delle persone con più di 80 anni, prossima tappa della campagna vaccinale. Né per AstraZeneca, che avrebbe un prodotto meno spendibile sul mercato, e quindi meno remunerativo. Difficile pensare che queste valutazioni non entrino in gioco nel braccio di ferro in corso in queste ore. Come è difficile pensare che non conti anche il fattore nazionale e geopolitico. Lo scontro con la statunitense Pfizer è stato meno acceso non solo perché i ritardi sono stati più contenuti e comunque successivi al via libera dell'Ema. Ma anche perché partner di Pfizer è la tedesca BioNTech. Proprio questa è stata la chiave che ha aperto le porte alla fornitura, anche questa preventiva, di 30 milioni di dosi alla Germania. La britannica AstraZeneca, invece, da un mese non è più sul territorio dell'Unione Europea. La Brexit scattata il primo gennaio ha alimentato qualche sospetto su forniture preferenziali verso il Regno Unito. Ma anche eliminato qualche remora per un confronto acceso. Ricordando sempre, però, che di quelle fiale abbiamo un enorme bisogno.

Vaccini, ecco il vero motivo dei ritardi: i contratti dell’Ue con Big Pharma. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 febbraio 2021. L’Unione europea continua a essere in pesante ritardo sul fronte vaccini anti-Covid, soprattutto se paragonata a Paesi come Stati Uniti, Israele e Gran Bretagna dove la somministrazione dei vaccini procede spedita. L’Italia, come se non bastasse, rappresenta un vero e proprio fanalino di coda per ciò che riguarda la vaccinazione degli ultra-ottantenni, la categoria più a rischio: secondo l’Ispi, infatti, quattro Paesi europei (Polonia, Repubblica Ceca, Finlandia e Svezia) hanno già somministrato almeno la prima dose di vaccino a un quarto o più dei loro ultra-ottantenni. Bene anche Francia (23%) e Germania (22%), mentre il nostro Paese si ferma a un misero 6%, appena sopra la Lituania (3%). A livello europeo, tuttavia, c’è poco da festeggiare dopo l’annuncio di Astrazeneca di fornire meno della metà delle dosi di vaccino anti-Covid all’Unione europea rispetto al contratto nel secondo trimestre. Come riporta l’agenzia Adnkronos, la Commissione Europea non smentisce l’indiscrezione delle ultime ore. “Le discussioni con AstraZeneca sul calendario delle consegne continuano – risponde un portavoce della Commissione alla richiesta di una conferma all’agenzia Reuters – la compagnia sta rivedendo il calendario e lo sta consolidando, sulla base di tutti i siti produttivi disponibili, in Europa e fuori. La Commissione si attende che le venga presentata una proposta di calendario migliorata”. AstraZeneca aveva già dimezzato, da 80 a 40 mln di dosi (inizialmente a 31 mln, poi le aveva riportate a 40 mln dopo la reazione della Commissione), le consegne di dosi all’Ue previste per il primo trimestre, motivandole con non meglio specificati problemi di produzione e senza fornire alcuna garanzia per il secondo trimestre. Ora è arrivata la conferma che il taglio delle forniture della multinazionale anglosvedese riguarderà anche il secondo trimestre. Ma come si spiegano tutti questi ritardi? E che differenze sussistono con la Gran Bretagna, in particolare, dove le cose sembrano andare decisamente meglio?

Contratti Ue e Uk a confronto: il vero motivo del ritardo. Come abbiamo già spiegato su InsideOver, infatti, ritardi dell’Unione europea nella campagna di vaccinazione sono sotto gli occhi di tutti. E sul banco degli imputati la prima a finire è proprio Ursula von der Leyen. In una durissima analisi, Politico sottolinea che “i difensori del presidente della Commissione europea” possono analizzare” i contratti dell’UE con Big Pharma” che vogliono, difendere “i tortuosi protocolli di approvazione dei farmaci presso l’Agenzia europea del farmaco” e “lamentarsi della scarsità della produzione di vaccini in Europa quanto vogliono. Niente di tutto ciò cambia la semplice realtà: che nei momenti critici della crisi, Ursula von der Leyen ha preso decisioni che hanno ostacolato il lancio del vaccino e messo a dura prova la coesione dell’Unione europea”. La colpa dell’ex ministro tedesco è quella di aver voluto affrontare le trattative con le cause farmaceutiche “come un accordo commerciale”, sottolinea Politico, incaricando un negoziatore dell’Ue esperto in materia. Oltre ai prezzi più bassi, l’Unione europea ha insistito sul fatto che le case farmaceutiche si assumessero la responsabilità legale per qualsiasi errore. Cosa che, ovviamente, non è stata nemmeno presa in considerazione.

La Gran Bretagna? Ha stipulato un contratto più chiaro e dettagliato. Politico è tornato sull’argomento illustrando le principali differenze fra i contratti stipulati dalla Gran Bretagna con quelli dell’Unione europea con Big Pharma. Il modo in cui il Regno Unito si è assicurato le dosi più rapidamente rispetto all’Ue dal gigante farmaceutico AstraZeneca è stato oggetto di un attento esame da parte della testata e di alcuni esperti. Alcuni indizi si possono trovare confrontando il contratto che AstraZeneca ha firmato con Londra con quello firmato con Bruxelles. Nel complesso, i contratti sembrano più o meno gli stessi per quanto riguarda la lingua e il loro tono, afferma Sébastien De Rey, specialista in diritto dei contratti presso l’Università di Leuven. Ma c’è una differenza fondamentale, osserva: “Il contratto del Regno Unito è, su alcuni punti specifici, più dettagliato”. Il livello di specificità è in parte dovuto ai sistemi legali su cui si basano. Il contratto del Regno Unito è scritto nella legge inglese, che giudicherà se entrambe le parti hanno consegnato la merce in base all’esatta formulazione del contratto. Il contratto dell’Ue è scritto secondo la legge belga, che si concentra sul fatto che entrambe le parti “abbiano fatto del loro meglio” per consegnare la merce e “abbiano agito in buona fede”. Non è un particolare ma una differenza sostanziale e fondamentale: come spiega Politico, sono questi dettagli che danno al Regno Unito maggiore influenza al fine di garantire che il suo contratto venga rispettato efficacemente. Sebbene entrambi i contratti affermino che tutte le parti faranno il loro “miglior ragionevole sforzo” per fornire le dosi di vaccino, il governo del Regno Unito è più chiaro nell’affermare la sua supervisione dell’accordo. Questa differenza fondamentale, secondo un avvocato interpellato da Politico e specializzato in trattative commerciali, può essere attribuita al fatto che il contratto siglato con Londra è stato scritto da persone con una “significativa esperienza” di accordi di questo tipo. Il contratto della Commissione europea, al contrario, mostra una “mancanza di buon senso commerciale”, secondo l’avvocato. Insomma, l’Unione europea, nonostante tutti i burocrati di cui può vantare, è riuscita a fallire in pieno nella partita più delicata e importante di quest’emergenza sanitaria. Tutto questo mentre i Paesi europei fanno i conti con lockdown interminabili, una crisi economica spaventosa e delle riaperture che tarderanno ad arrivare.

Fabio Calcagni per ilriformista.it il 4 marzo 2021. Il video circola da poche ore sul web italiano ed è stato accolto nella sinistra più radicale, così come nella destra anti-europea, come una “boccata d’ossigeno”. Parliamo dell’intervento di Manon Aubry, 31 anni, francese, parlamentare europea e copresidente del gruppo della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica, protagonista lo scorso 10 febbraio di dichiarazioni taglienti al Parlamento europeo nei confronti della gestione Ue della pandemia e soprattutto della campagna di acquisto dei vaccini, con una bocciatura su tutta la linea dell’operato di Ursula von der Leyen. Quattro minuti in cui l’eurodeputata francese, esponente della sinistra radicale di La France Insoumise, fa “a pezzi” la gestione europea chiedendo l’istituzione di una commissione di inchiesta “sulla responsabilità (della Commissione europea, ndr) per questo disastro”. Quale sarebbe il disastro per Aubry? L’eurodeputato, rivolgendosi alla presidente della Commissione Ue von der Leyen, evidenzia come “che i grandi leader farmaceutici hanno stabilito la legge per lei”. Il punto chiave è la trasparenza: “Nessuna informazione sui negoziati nonostante le richieste del nostro Parlamento. Solo tre contratti resi pubblici, grazie alla pressione dei nostri cittadini, ma tutte le informazioni più importanti come prezzo, programma di consegna, o anche i dettagli delle clausole di responsabilità sono nascoste. Per gli altri contratti dovremo aspettare che i laboratori si degnino di pubblicarli perché sì, sono loro che decidono”, accusa Aubry. Altre critiche arrivano quindi sulla gestione delle consegne dei vaccini e dei brevetti stessi: “Un pasticcio di ritardi e nessun programma rispettato senza alcuna sanzione, perché decidono i laboratori”, mentre i vaccini “sono stati resi possibili da miliardi di euro di denaro pubblico ma i brevetti rimangono proprietà esclusiva di big pharma. Di conseguenza, gli Stati non possono produrre su larga scala le dosi di cui il mondo ha così tanto bisogno”. L’eurodeputata evidenzia i profitti delle case farmaceutiche, i 15 miliardi di fatturato e dal 20 al 25% di margine per Pfizer “che è felicissima del successo del suo blockbuster”, mentre la francese Sanofi “non ha trovato alcun vaccino, ma ha trovato 400 posti di ricerca da tagliare e 4 miliardi di euro di dividendi da distribuire”. La copresidente del gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea fa quindi un parallelo tra diverse ‘regole’: “Siamo in grado di imporre ai nostri concittadini una restrizione senza precedenti delle nostre libertà ma non saremmo in grado di stabilire le regole per big pharma?”. Errori nella gestione della campagna di vaccinazione sono stati effettivamente ammessi dalla stessa commissaria von der Leyen. “Eravamo in ritardo con l’approvazione”, ha riconosciuto la presidente, ammettendo come l’Unione europea sia stata troppo ottimista “sulle capacità di produzione di massa. E forse eravamo anche troppo sicuri che gli ordini sarebbero stati effettivamente consegnati in tempo, senza ritardi”. La gestione opaca e lenta dell’Europa ha spinto Austria, Danimarca e gli altri cosiddetti ‘first mover’ a non fare più affidamento sull’Unione Europea per i vaccini, virando su Israele, dove verranno prodotti i vaccini di seconda generazione per ulteriori mutazioni del coronavirus. Il cancelliere austriaco Sebastian Kurz ha ricordato ieri che nonostante l’approccio europeo alla vaccinazione “è stato fondamentalmente corretto”, i problemi sono derivati dall’Ema, l’Agenzia europea per il farmaco, considerata da Kurz “troppo lenta con le approvazioni dei vaccini e ci sono rallentamenti nelle consegne da parte delle aziende farmaceutiche”.

·        Il Recovery Plan.

Ilario Lombardo per “la Stampa” il 5 giugno 2021. C' è una sottotrama nella storia dell'Unione europea e di questi ultimi turbolenti dieci anni che potrebbe essere scritta raccontando il rapporto franco ma ruvido tra Mario Draghi e Wolfgang Schäuble. Negli stereotipi che facilmente inghiottono le sfumature è stato narrato come lo scontro tra la severità tedesca a guardia dell'austerity e la creatività italiana che deve trovare soluzioni fantasiose per sostenere il suo storico ed enorme debito pubblico. Oggi la sfida si ripropone con ruoli ed esiti diversi. Perché, come fanno notare fonti di Palazzo Chigi, è dentro lo stesso dibattito in Germania che vengono partorite voci contrarie alle posizioni del falco che oggi siede alla presidenza del Bundestag. Senza troppo girarci intorno, Schäuble, in un editoriale sul «Financial Times», chiede a Draghi di impegnarsi per far tornare l'Unione «a una normalità fiscale e monetaria» e per evitare «una pandemia del debito». Il tedesco, anima rigorista del partito di governo Cdu, interpreta le paure dell'Europa del Nord rispetto all' allentamento dei vincoli di bilancio scaturito dalla lotta al Covid. Ricorda i lunghi confronti con Draghi, quando uno era ministro delle Finanze in Germania (sempre di un governo di Angela Merkel, ovviamente) e l'altro presidente della Banca centrale europea, di base a Francoforte. I Paesi liberi di spendere tendono a cadere nella tentazione di incorrere in debiti, sostiene: «Ho discusso di questo azzardo morale in molte occasioni con Draghi. E siamo sempre stati d'accordo sul fatto che, data la struttura dell'unione monetaria, le politiche di sostenibilità finanziaria sono responsabilità degli Stati membri. Sono certo che rispetterà questo principio come premier italiano. È importante per l'Italia e per l'Europa intera. Diversamente avremo bisogno di un'istituzione europea con il potere di imporre il rispetto degli obblighi scaturiti dalle regole». Ufficialmente Draghi non replica. Fonti a lui vicine giurano che l'attacco di Schäuble non è stato oggetto della telefonata avvenuta ieri con la cancelliera Merkel in preparazione del G7 di Cornovaglia e del Consiglio europeo. Da Palazzo Chigi invitano a inquadrare l'iniziativa in un quadro interno alla campagna elettorale tedesca che si avvia verso le prime elezioni senza Merkel, rimandando anche a una risposta del quotidiano «Süddeutsche Zeitung». La difesa di Draghi, a firma della nota giornalista Cerstin Gammelin, è totale, anche sprezzante verso Schaeuble: «Ha appeso il titolo di convinto europeista nel guardaroba della campagna elettorale. Non si può spiegare diversamente che il presidente del Bundestag tedesco minacci il premier italiano Draghi apertamente su un giornale internazionale sul fatto che se non riporta il Paese presto sui binari del risparmio Bruxelles dovrebbe costringerlo». E ancora: «È enorme il danno che lo smaliziato politico della Cdu provoca con queste dichiarazioni motivate dalla politica interna. Si è appena instaurata di nuovo qualcosa che somiglia ad una fiducia nell' Ue grazie al Recovery Fund. Draghi come premier a Roma è una fortuna. Che nelle sue valutazioni elettorali Schäuble metta questo in discussione è irresponsabile». Ne è passato di tempo da quando i giornali tedeschi, ma erano altri, soffiavano sulla sfiducia dell'opinione pubblica nei confronti dell'Italia. Schäuble si è rifatto sotto come ai tempi in cui duellava con Draghi a un passo dal default in Grecia e durante la crisi dell'euro. Il primo - da ministro delle Finanze- l'incarnazione dello spirito dell'austerity, il secondo invece si guadagnò il soprannome di «Draghila» in prima pagina sulla «Bild» per la politica monetaria espansiva della Bce, quando caricò il bazooka del Quantitaive easing. Era solo questione di tempo perché lo scontro si riproponesse alla vigilia di un lungo dibattito sul dopo-pandemia quando l'Europa dovrà decidere che fare del Patto di Stabilità ancora sospeso causa Covid. Un dibattito che si intreccia alle complicate elezioni tedesche di settembre e che rende incerto il cammino dei cristianodemocratici, incerti se restare in competizione con i duri dell'ultradestra che tallonano la Cdu (proprio Schäuble nel 2016 disse che la politica monetaria di Draghi stava facendo un enorme favore ai nazionalisti di Afd) o se affidarsi all' idea di una nuova Europa costruita sul germe del fondo Next Generation Ue.

Da liberoquotidiano.it il 20 maggio 2021. Tensione alle stelle nel Movimento. Tra le battaglie esterne con Davide Casaleggio che non vuole fornire ai 5S i dati sugli iscritti e quelle interne, il partito fondato da Beppe Grillo è dilaniato. Martedì sera 18 maggio si è tenuta un'assemblea che è stato un tutti contro tutti e nella quale il ministro delle Politiche agricolo Stefano Patuanelli, pentastellato contiano, ha minacciato le dimissioni. Patuanelli infatti è stato attaccato da una sessantina di parlamentari del M5S , in gran parte del Sud, furiosi per la distribuzione dei soldi del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale. Le risorse, 6 miliardi per il prossimo biennio, vanno spartite tra Regioni e Province autonome. E secondo i grillini la ripartizione cui lavora da mesi anche Patuanelli, riporta il Fatto quotidiano, penalizzerebbe le regioni meridionali, e in particolare la Sicilia, che aveva parlato addirittura di "scippo". La discussione è accesissima: "Si spostano solo 110 milioni rispetto allo schema precedente, e non andranno tutti al Nord", tuona Patuanelli.  "Al Sud abbiamo il nostro principale bacino di voti, va tutelato", lo attaccano. Giulia Grillo e Carla Ruocco si scatenano contro il ministro: "Il governo e i suoi membri ottengono la fiducia in aula, ma la fiducia si può anche togliere". Quindi Patuanelli sbottai: "Se questa è la situazione ne traggo le conseguenze". Più tardi, nella chat dei senatori, annuncia di "valutare le dimissioni", per poi uscire dalla chat. "Stefano è rimasto scosso dalla riunione" raccontano. Difficile che lasci davvero ma la tensione nel Movimento è evidente. Ci sono troppi nodi da sciogliere: i grillini sono a disagio nel governo Draghi, la leadership di Giuseppe Conte ancora bloccata dalla guerra con Casaleggio. "Credo che tra fine maggio e i primi di giugno voteremo Conte come nuova guida" dice a Porta a Porta il ministro Federico D'Incà. Ma il tempo passa e come dice lo stesso Vincenzo Spadafora: "La leadership se non la eserciti ti sfugge di mano".

Il Recovery Plan, 248 miliardi per l'Italia in 6 punti. E chi avrà più benefici. Le iene News l'1 maggio 2021. Sono in gioco “le vite degli italiani, il destino del Paese, la sua credibilità”, ha detto il premier Mario Draghi parlando del Recovery plan approvato venerdì dall’esecutivo. Una montagna di soldi che potrebbe rappresentare l’ultimo treno per l’Italia per uscire dalla palude della stagnazione economia. Ecco come il governo intende spendere i 248 miliardi di euro, e chi ne beneficerà maggiormente. Sono in gioco “le vite degli italiani, il destino del Paese, la sua credibilità”. A dirlo non siamo noi ma il presidente del Consiglio Mario Draghi, che pochi giorni fa ha presentato al Parlamento prima e alla Commissione europea poi il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Tradotto, il Recovery plan finanziato coi miliardi europei e che è stato approvato venerdì dal Consiglio dei ministri. E non parliamo di spiccioli di flessibilità elemosinati da ogni governo negli ultimi dieci anni, ma di un enorme mucchio di soldi: 248 miliardi di euro in 6 anni, una cifra perfino superiore al piano Marshall che fece volare l’Italia nel secondo Dopoguerra. L’obiettivo dichiarato è far crescere il paese di 16 punti di Pil in 6 anni, dopo il drammatico crollo dell’economia registrato a causa della pandemia: quasi 9 punti di prodotto interno lordo sono andati perduti nel solo 2020, e l’occupazione è diminuita di quasi tre punti percentuali. Per centrare l’obiettivo il governo ha presentato un piano dettagliato, dalle infrastrutture alla digitalizzazione, dalla lotta alla corruzione alla riforma della giustizia. Un piano talmente lungo e complesso da realizzare che nei fatti lega le mani a qualsiasi governo per i prossimi 6 anni: un ultimo treno su cui salire per fuggire dalle sabbie mobili della stagnazione in l’Italia sta affondando da ormai vent’anni. Il governo ha deciso, su indicazione della Commissione europea stessa, di investire i 248 miliardi di euro su sei macro aree di intervento: 

DIGITALIZZAZIONE E CULTURA. Su quest’area i miliardi in gioco sono 49,2, e verranno suddivisi per centrare due obiettivi primari: promuovere la digitalizzazione dell’Italia, che da anni è ancora agli ultimi posti in Europa in questo campo, e sostenere il turismo e la cultura. In particolare questi due sono settori chiave per il rilancio del paese, considerando l’enorme patrimonio artistico e naturalistico dell’Italia.

TRANSIZIONE ECOLOGICA. Il piano prevede 68,6 miliardi di euro per convertire l’economia italiana verso un orizzonte più “green”. Per raggiungere l’obiettivo, che indicato così, bisogna dire, appare un po’ fumoso, il governo ha già annunciato alcune misure: il rinnovo del parco mezzi del trasporto pubblico con l’acquisto di autobus e treni meno inquinanti, incentivi fiscali per l’investimento in efficienza energetica, ristrutturazione delle reti dell’acqua potabile per ridurre del 15% la dispersione.

INFRASTRUTTURE E TRASPORTI. Uno dei nodi più annosi del nostro paese, l’insufficienza della nostra rete di trasporti: verrà affrontato con 31,4 miliardi di euro. Il grosso dei soldi sarà investito nella realizzazione di linee ferroviarie ad alta velocità, specialmente al Sud. Rilevanza strategica è data alle reti Roma-Pescara e Napoli-Bari. Previsti anche investimenti per la modernizzazione e il potenziamento delle linee ferroviarie regionali, anche in questo caso soprattutto al Sud.

ISTRUZIONE. In un piano che cerca di disegnare il futuro del paese, non poteva mancare un corposo investimento sull’istruzione: 31,9 miliardi di euro saranno destinati in particolare a rafforzare l’offerta pubblica costruendo nuovi asili nido e scuole materne. Nel piano del governo Draghi si parla di 152mila nuovi posti per i bambini fino a 3 anni e 76mila per i bambini tra i 3 e i 6 anni. Inoltre si prevede anche un investimento sull’istruzione post universitaria con una riforma complessiva, anche se non ancora definita, dei dottorati e dei post dottorati.

INCLUSIONE. Altro tema delicato del nostro paese è la partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Il governo intende investire su questo punto buona parte dei 22,4 miliardi di euro destinati all’area dell’inclusione. In particolare si prevede un rafforzamento dei centri per l’impiego e un fondo per l’imprenditoria femminile. Altri interventi in questo settore riguarderanno cercheranno di favorire una vita autonoma per i disabili e una riqualificazione delle periferie urbane più degradate.

SALUTE. Infine, l’area di intervento più delicata in questo preciso momento storico: la salute. Un po’ a sorpresa è il campo su cui sono investite meno risorse: 18,5 miliardi di euro. Sono in particolare due le direttrici su cui il governo intende puntare: da una parte potenziare l’assistenza di prossimità sul territorio, smantellata da anni di tagli ai servizi pubblici; dall’altra l’assistenza domiciliare per gli over 65, con l’intento di raggiungerne il 10%. Si prevede inoltre l’investimento nell’acquisto di nuovi macchinari e attrezzature, oltre alla ristrutturazione degli ospedali che la necessitano. Insomma, come potete capire il piano del governo Draghi è enorme e ambizioso. E soprattutto, per realizzarlo serviranno anni e una valanga di norme apposite che per adesso non esistono. Ci sono però già varie indicazioni che possono permettere un primo bilancio, soprattutto per capire quali saranno le fette di popolazione a guadagnarci di più da questi enormi investimenti pubblici.

Ecco una prima lista, che ci riserviamo di aggiornare quando sarà più chiaro il dettaglio del Recovery plan italiano.

FAMIGLIE (E IN PARTICOLARE LE MADRI). Nel Recovery plan sono previste misure specifiche per aiutare le famiglie e le donne con figli. Il governo ha già stanziato 26 miliardi di euro (di cui 20 recuperati dalle precedenti spese e 6 extra) per la creazione dell’assegno unico per i figli, che sostituirà le varie misure finora esistenti. L’idea è incentivare le coppie a fare figli, soprattutto per contrastare il drastico calo della natalità in Italia. Ci sono poi come detto prima molti miliardi per la costruzione di nuovi asili nido, scuole materne e servizi per l’infanzia, e in particolare un miliardo è destinato all’estensione del tempo pieno alle scuole elementari. In questo l’obiettivo è aiutare soprattutto le donne a conciliare più facilmente lavoro e famiglia. 

CHI VUOLE RISTRUTTURARE CASA. Il governo ha confermato il superbonus al 110% per chi ristruttura una casa o un condominio. La misura sarà estesa fino al 2023, e soprattutto si punta a snellire la burocrazia attualmente necessaria per ottenere dell’agevolazione. Insomma chi ha una casa da ristrutturare lo potrà fare con costi veramente limitati, a patto di rispettare i criteri già attualmente esistenti per avere accesso al superbonus. La spesa per questa misura (che sarà inserita nel decreto Semplificazioni che affiancherà il Recovery plan) è di circa 18 miliardi di euro.

I GIOVANI CHE VOGLIONO COMPRARE CASA. L’Italia, si sa, è un paese dove la cultura della prima casa di proprietà è fortissima. Peccato però che negli ultimi anni, complice la stagnazione economica e la crescente volatilità del lavoro, i giovani raramente se la siano potuta permettere. Ma con il Recovery le cose potrebbero cambiare: il governo infatti ha annunciato la creazione di una garanzia statale sui muti contratti dagli under 35 per acquistare la prima casa. Il piano prevede che lo Stato si faccia garante del mutuo, e non sarà più necessario versare un anticipo per potervi accedere: in pratica sarà possibile prendere a prestito il 100% del valore della casa da acquistare. 

CHI VIVE AL SUD. Una grossa fetta del Recovery plan è destinata proprio al Sud Italia: basti pensare che dei 248 miliardi di euro il 40% sarà per incentivare lo sviluppo e la vivibilità del Mezzogiorno. “Il potenziale del Sud in termini di sviluppo, competitività e occupazione è tanto ampio quanto è grande il suo divario dal resto del Paese. Non è una questione di campanili: se cresce il Sud, cresce anche l’Italia”, ha detto il premier Draghi. In primo luogo il grosso degli investimenti in infrastrutture avverrà al Sud, nel tentativo di colmare il gap con il resto del Paese: come detto avranno priorità la realizzazione delle linee ferroviarie ad alta velocità tra Roma e Pescara, Napoli e Bari, Palermo e Catania. Sarà poi completata la linea ad alta velocità sulla Salerno-Reggio Calabria. Non è per ora previsto nessun investimento sulla costruzione del ponte di Messina. Il governo ha poi annunciato una profonda riforma delle Zone economiche speciali, istituite nel 2017 ma di fatto ancora bloccate per la mancanza dei decreti attuativi. Infine ci saranno 23 miliardi di euro destinati esclusivamente alla transizione ecologica, mobilità sostenibile e alla tutela del territorio e delle risorse idriche al Sud.

Giuseppe De Rita per "l'Economia - Corriere della Sera" il 26 aprile 2021. Ora che si sono attenuate, o spente, le polemiche sul ruolo delle grandi società di consulenza nella redazione della parte italiana dell'European Recovery plan, si può e si deve tornare con calma sui problemi, seri e irrisolti, che stanno sotto tali polemiche. E lo si deve fare sperabilmente fuori dalle miserie circolate in merito: le denunce indignate dei possibili gravi conflitti d'interesse e le maldestre risposte sul superamento o meno della dovuta soglia contrattuale (quando tutti conoscono le collaborazioni, talvolta milionarie, fra poteri pubblici e grandi società di servizi professionali). L'argomento non può scadere in polemiche di parte, anzi merita un approccio che tenga conto del delicatissimo rapporto che si crea fra la dimensione tecnica e la dimensione politica in ogni testo di programmazione di lungo termine, che per necessità ha bisogno di due diverse competenze: da un lato, il padroneggiamento culturale dei fenomeni e dei processi economici che si vogliono risolvere nel presente e guidare nel futuro; dall'altro lato, la capacità di incardinare tale cultura socio-economica in una dinamica squisitamente politica, attenta cioè al consenso collettivo e agli strumenti amministrativi disponibili. Se queste due facce non si combinano - e addirittura talvolta si delegittimano -, allora scattano le accuse reciproche, quando molti tecnici considerano «palle al piede» le mediazioni politiche e amministrative, e tanti politici o burocrati considerano «fuori dal mondo» tecnici pur universalmente stimati, in un inutile contrasto fra migliori e peggiori (o presunti tali) che alimenta solo il qualunquismo. Non è stato sempre così. Anzi, ricordando le nostre vicende passate, si può prendere atto che per decenni tutta l'azione di governo vedeva unite in alcune strutture di vertice, spesso in poche persone, la capacità di esercitare insieme la dimensione tecnica e la dimensione politica delle varie misure da mettere in campo. Sappiamo tutti quale peso abbia avuto Nitti sulla politica economica dell' 800 (con la pratica generale dell' economia mista), prima e dopo la sua esperienza di premier; ma ancora di più conosciamo il ruolo fondante avuto da Beneduce durante il fascismo sull'assetto bancario e finanziario del Paese; sappiamo tutti quanto peso hanno avuto gli eredi di Beneduce (Saraceno, Giordani, Menichella, Mattioli, ecc.) nell'impegnativo rilancio post-bellico (l'Erp, o Enterprise resource planning, di allora), con lo sviluppo delle partecipazioni statali e la creazione della Cassa per il Mezzogiorno; e ricordiamo tutti che i primi tentativi di pianificazione degli anni '50 e '60 (Piano Vanoni, Rapporto Saraceno, Piano Giolitti, Rapporto Ruffolo, ecc.) sono stati figli di quella cultura tecnico-politica via via accumulata. Una cultura che trovava casa e sviluppo in alcuni grandi uffici studi, vere e proprie «cantere» del lavoro tecnico-politico del pianificare: l'ufficio studi dell'Iri (con Saraceno che guidava Marsan, Giovannetti, Grassini, Livi, ecc.); l'ufficio studi dell'Eni (con Ruffolo che coordinava Sylos Labini, Fuà, Pirani, Carabba, ecc.); l'ufficio studi della Banca d'Italia sotto Menichella e Baffi (con Fazio, Savona, Ciocca, Barattieri, ecc.); nonché quell'atipico ufficio studi che fu la Svimez (con Molinari, Sebregondi, Napoleoni, Annesi, Novacco, Graziosi, Baratta, ecc.). Tutti coloro, quorum ego, che hanno lavorato in quelle diverse «cantere» sanno di aver svolto un lavoro squisitamente tecnico-politico (da «centauro», è stato detto), dove il rispetto per l'autonomia e il primato della politica non era inferiore al rispetto per la propria professionalità. Certo, alcuni dei più «centauri» fra noi (penso ad Amato, ad Andreatta e a Prodi) fecero scelte personali di diretta responsabilità politica; ma anche loro si sono sempre sentiti mediatori fra tecnica e politica, non puri sacerdoti della loro alta professionalità, sempre lontani da quella declamata incompatibilità fra tecnici e politici che avremmo visto in funzione negli anni successivi. Qualcuno si sorprenderà dei tanti nomi elencati, ma è una cosa voluta, perché ogni testo, specie programmatico, deve avere il nome e il cognome di chi scrivendolo ci mette la faccia. E si capisce quanto ci si ritrovi spiazzati oggi rispetto all'assoluto anonimato che regge ogni documento di improbabile pianificazione. Passi per i piani industriali delle aziende, dove l'obiettivo è molto specifico e verificabile con gli esiti del mercato; ma l'anonimato non è accettabile per i piani di sviluppo complessivo del sistema. Qui si conoscono testi preparatori intermedi (se non di sintesi) di fatto scritti "al ciclostile", partendo da bozze preparate da singole amministrazioni, che fanno poi la ronda fra uffici centrali e periferici (con qualche sosta nelle società di consulenza); senza però nessuna firma di una persona o di un gruppo che certifichino la garanzia della necessaria osmosi fra cultura alta e umile esercizio di scrittura (ricordo che Claudio Napoleoni faceva spesso colazione con Mattioli e Sraffa, ma poi nel pomeriggio scriveva i capitoli del Rapporto Saraceno). Nel panorama attuale, i programmi li scrivono quindi gli amministrativi, senza l'aiuto delle «cantere» e spesso senza neppure una complessa linea politica da seguire. I grandi uffici studi di una volta non esistono più e Giulio Sapelli ha citato, con un voluto tono di disprezzo, un grande imprenditore che negli anni 2000 ha deciso di chiudere l'ufficio studi e la scuola di management sentenziando che «mi costano troppo, preferisco fare un contratto con un'azienda di consulenza». È la stessa decisione silenziosamente presa dallo Stato: quei pochi uffici studi o centri di ricerca esistenti sono stati chiusi (addirittura - e lo ricordo con nostalgia - l' Istituto di studi sulla congiuntura di Miconi e Cipolletta) ed è arrivata l' onda del ricorso alle società di consulenza volutamente e istituzionalmente anonime (non si capisce mai chi vi sia dietro ogni documento). Sono potenti, organizzativamente e finanziariamente; hanno un consolidato metodo di lavoro; possono mettere a disposizione folti plotoni di giovani ben preparati; gestiscono pertinenti prodotti di medio livello; ma di fatto non ci «mettono la faccia» e fanno circolare testi non imputabili a nessuno, quindi silenziosamente irresponsabili. In fondo, fanno un servizio, anche di livello, ma non hanno - anzi, non vogliono avere - una propria cultura, una propria intenzionalità, una propria idea della realtà e delle modalità di governarla. Se ripercorriamo il percorso dell'attuale nostro Erp, troviamo l'effetto della debolezza del lavoro di mediazione tecnico-politica che invece aveva sostenuto l' Erp degli anni '50; e paradossalmente avvertiamo un' assoluta assenza della politica. Sulla urgenza di consegnare presto a Bruxelles il nostro Piano, singoli dipartimenti dei ministeri sono stati impegnati a scrivere un' ipotesi di intervento; l' insieme di quelle ipotesi, senza alcuna sintesi intermedia, è stata trasferita a Palazzo Chigi; da qui il voluminoso incartamento, magari tramite una società a partecipazione statale, è finito sui tavoli delle società di consulenza; e queste hanno rimesso in bella quel che avevano ricevuto; dopo di che il tutto è stato restituito ai primi estensori del testo, affinché scrivano un programma più stringato e operativo. Un andare e venire, probabilmente con poco valore aggiunto, nella speranza che alla fine della ronda ci siano al vertice teste pensanti capaci di fare una sintesi di alto potere contrattuale presso l'Unione europea. Il che però non copre il vuoto del tessuto intermedio di elaborazione che sta sotto il via vai dei documenti di lavoro, né il vuoto di adeguate formule di attuazione e rendicontazione degli interventi. La riflessione che precede potrà apparire a molti un getto di autobiografica nostalgia per un mondo ormai scomparso e di cui pochi sono i sopravvissuti. Ma lo si prenda anche come uno stimolo a rivedere una situazione chiaramente di inerzia culturale, oltre che di povertà programmatica. E quindi, in positivo, come un invito a reagire. La prima strada da seguire per una non rinviabile reazione è quella di rinsanguare il dibattito politico sul significato profondo dell' attuale Piano di Recovery. Non è un puro rinvio di sigle ricordare che l' attuale Erp ha la stessa sigla di quell' Erp che fra il '45 e il '55 andò sotto tanti nomi e tanti padri (il punto IV di Truman, il Piano Marshall, la Banca Mondiale del presidente Edge) e rappresentò una pietra angolare della nostra ricostruzione post-bellica, ma anche una esplicita pietra di scandalo politico. Tutti i leader politici di allora (De Gasperi, Nenni, Togliatti, per primi) si sentirono impegnati a capire, decifrare, accettare o negare quello che c' era dietro quel programma di aiuti; e anche i politici di caratura tecnica si gettarono nella mischia, da Rodolfo Morandi e Ugo La Malfa ad Amendola, fino ai molto settoriali Vanoni e Antonio Segni, tutti impegnati ad avviare ogni momento della pianificazione economica del dopoguerra. Erano evidenti le linee di contrasto politico di allora (la scelta occidentale, la scelta neocapitalistica, la scelta di un pesante intervento dello Stato, la liberalizzazione degli scambi commerciali, ecc.), ma il dibattito sull' Erp di allora fu accompagnato da un forte calore politico. Non c' è chi non veda l' abissale differenza con la situazione attuale. Sull' Erp di oggi ci si dilunga su mirabolanti obiettivi innovativi (la digitalizzazione e la transizione ecologica) o ci si perde su questioni di bottega (quanti soldi sui singoli settori e come spenderli); ma nei verbali parlamentari e nei quotidiani non c' è una sola riga in cui si possa registrare un dibattito sulla dimensione politica degli obiettivi del piano. Sull' argomento è caduto un governo e ne è nato un altro, ma nell' assoluto silenzio della classe politica e dell' opinione qualificata. Per cui i documenti di pianificazione in corso d' opera rischiano di contenere elenchi di improbabili progetti di innovazione o banali agglomerati di intenzioni e di proposte, scritti da dirigenti ministeriali e da società di consulenza, in una dinamica di rimpallo e di eco destinata, a ogni passaggio, alla inevitabile perdita di vigore. Serve allora un dibattito squisitamente politico. Non si può evitarlo, perché comunque entro aprile dobbiamo presentare a Bruxelles almeno una bozza di piano. Per l' Europa, l' attuale ERP è una sfida complessa (di competizione verso Est e verso Ovest, di rafforzamento strutturale interno, di eccellenza dei propri campioni imprenditoriali, di traino dei Paesi più fragili) ed è necessario che l' Italia non arrivi a Bruxelles senza aver svolto un dibattito interno su tali sfide comuni e sul modo in cui le interpretiamo nel trattare il nostro sviluppo. Arrivare a Bruxelles con la semplice idea di indire bandi per presentare centinaia di progetti, senza una sintesi politico-programmatica, potrebbe portare al pericolo di marginalizzazione di chi andrà a contrattare la nostra parte dell' Erp. Ma si può svolgere il necessario dibattito politico senza un adeguato supporto tecnico? Negli anni tra il '45 e il '60, i leader politici poterono contare su una ricca elaborazione culturale: con vicinanze addirittura personali, con collegamenti stretti con le varie strutture collaterali tecnico-politiche; con l' utilizzo degli uffici studi e delle «cantere» sopra citate; con la presenza socio-politica dei vertici delle partecipazioni statali e della Cassa per il Mezzogiorno. Quei fili di raccordo fra la dimensione politica e la dimensione tecnica non ci sono più ed è improbabile che siano ricostruibili oggi, in una cultura collettiva diventata più povera. Ma qualcosa bisognerà pur tentare, magari sfruttando il vincolo europeo secondo cui non si finanziano interventi se non legati a riforme strutturali significative. E la riforma strutturale più significativa può e deve essere fatta nel governo della cosa pubblica: riguarda gli assetti tecnico-politici di vertice. Una riforma che si focalizzi sul rafforzamento dei soggetti primi del dibattito politico: specialmente dei partiti, che dovrebbero ritornare a essere soggetti di cultura politica e tecnica (con i loro centri di ricerca, con le loro riviste, con le antenne di collaborazioni esterne, ecc.); e specialmente dei luoghi di governo (gabinetti ministeriali e commissioni parlamentari), che dovrebbero poter contare su nuclei di persone ad alta qualificazione tecnico-politica. Nel rapporto a due fra dimensione tecnica e dimensione politica resta decisivo il ruolo dei dirigenti apicali delle diverse amministrazioni, cui si dovrebbero poter garantire occasioni collegiali di informazione e formazione di stampo manageriale, con un' adeguata conoscenza e con un adeguato padroneggiamento dei processi reali del sistema economico e sociale, in vista di un forte lavoro di raccordo fra volontà politica, intenzioni programmatiche e gestione della macchina pubblica. Si comprende facilmente che un impegno di questo tipo non è di facile attuazione: non esiste più quel contesto culturale e politico degli anni '50 che spingeva tutti a discutere e mediare. Converrà non indulgere al passato e "prendere le armi" nella più difficile situazione attuale, rimettendo lentamente a posto i fondamentali del rapporto fra dimensione tecnica e dimensione politica.

Uski Audino per "La Stampa" il 22 aprile 2021. È un sostanziale via libera quello che arriva dalla Germania sul Recovery Fund e l'Europa può tirare un sospiro di sollievo. Ieri i giudici della Corte costituzionale di Karlsruhe hanno respinto il ricorso d'urgenza che congelava l'entrata in vigore della legge tedesca sulle risorse proprie del bilancio Ue, autorizzando la Commissione europea a raccogliere fondi sui mercati per conto della Ue fino a 750 miliardi. La norma, approvata a larghissima maggioranza al Bundestag e all'unanimità al Bundesrat, era stata fermata il 26 marzo scorso un momento prima che il presidente federale Frank-Walter Steinmeier potesse firmarla per la ratifica. I giudici del secondo senato della Corte costituzionale hanno respinto la richiesta d'urgenza presentata da uno dei fondatori di Afd, Bernd Luecke, ma hanno tenuto a specificare in una nota che nella sostanza il ricorso non è «né irricevibile, né manifestamente infondato». Attendere la verifica approfondita della questione avrebbe potuto comportare conseguenze più dannose, hanno precisato. Dunque un «liberi tutti» parziale, se considerato sul lungo periodo. Nel frattempo la Germania può unirsi agli altri 18 paesi Ue che hanno ratificato la legge per le risorse proprie. All'appello mancano ancora Ungheria, Finlandia, Romania, Paesi Bassi, Irlanda, Lituania, Estonia e Polonia, dove il governo non ha ancora la maggioranza e deve affidarsi ai voti dell'opposizione. Ma il segnale che arriva da Berlino potrebbe dare un nuovo impulso al processo di ratifica nella Ue. «Rimango ottimista sul fatto che gli Stati membri possano ora finalizzare la ratifica delle risorse proprie nelle prossime settimane» ha detto il commissario al Bilancio Ue, Johannes Hahn, mentre il vicepresidente della Commissione Vladis Dombrovskis ha sottolineato che la decisione della Corte costituzionale tedesca «rafforza la fiducia che il processo di ratifica venga concluso entro giugno». Ottimismo è arrivato anche dalla presidente della commissione Ursula von der Leyen: «La Ue è sulla buona strada con la sua ripresa economica dopo questa pandemia senza precedenti e Next Generation Eu spianerà la strada a una Ue più verde, digitale e più resiliente». Sollievo si respira anche a Berlino: «Sono molto contenta della decisione» ha detto la cancelliera Angela Merkel, ma sull'estensione in futuro del Programma Next generation Eu è cauta: «Dobbiamo vedere che la cosa entri in funzione». Intanto il Recovery tedesco arriverà in consiglio dei ministri a Berlino mercoledì prossimo, dopo mesi di scambio intenso e non privo di tensioni con Bruxelles. Secondo Handelsblatt, se non ci fossero state le elezioni federali, il conflitto sarebbe deflagrato. Le ragioni sono due: la Germania da anni non sta mettendo in pratica le raccomandazioni di Bruxelles, per esempio non si decide a mettere mano alla riforma delle pensioni. In secondo luogo l'80% delle uscite previste nel Recovery non sono frutto di nuovi stanziamenti, ma - come dice Handelsblatt riprendendo il partito dei Verdi - «stanno già fluendo comunque». «La Germania non sta dando l'esempio in Europa» conclude il quotidiano economico.

Assalto ai fondi europei targato Sud (e Pd). Vittorio Macioce il 9 Maggio 2021 su Il Giornale. Non basta spendere i soldi. L'Italia ha una malattia antica che preoccupa molto l'Europa. Dove andrà a finire quel flusso di denaro che sta arrivando con il Recovery? Non basta spendere i soldi. L'Italia ha una malattia antica che preoccupa molto l'Europa. Dove andrà a finire quel flusso di denaro che sta arrivando con il Recovery? È una domanda a cui un giorno si dovrà rispondere. Il timore è che si cada nel solito vizio: le clientele. Aiuto chi mi vota. Il rischio chiaramente c'è. È un'abitudine, un abito mentale, una patologia che si nasconde spesso verso chi rivendica una vocazione governativa. È la tentazione di chi interpreta il potere in modo un po' troppo feudale: i signori del territorio. È per questo che vale la pena di raccontare una storia piccola che svela però certi vizi culturali. Non si parla di reati, ma di visioni politiche. La Regione Campania nel 2019 scrive un bando per l'assunzione di 2243 persone nella pubblica amministrazione. È uno dei grandi concorsi che aprono un sentiero nella roccaforte del posto fisso. I candidati sono 303.965. La Regione fa però una prima selezione. Si inventa un corso per la preparazione al concorso. È un bando nel bando. Gli ammessi sono 2610, che diventano 1880 perché qualcuno più fortunato ha trovato altro da fare. Il corso dura 10 mesi, fino al 31 maggio 2021, e chi partecipa riceve anche una borsa di studio di mille euro lordi mensili. È un po' strano ma non c'è nulla di male. Chiamiamola formazione. Ora però nel Pd a qualcuno è venuta una brillante idea: perché perdere tempo con il concorso? Si fa prima ad assumere tutti quelli che stanno facendo il corso. Tra gli ispiratori di questa mossa c'è Piero De Luca (in foto), vice-capogruppo del Pd alla Camera e figlio del presidente della Campania. Non è un caso. Il padre ci tiene molto e ha fatto pressioni anche sul governo. Il primo aprile è stato firmato un decreto legge per sbloccare i concorsi ancora fermi, compreso quello campano. Solo che lì non c'è la scorciatoia per i corsisti, allora il Pd si è subito mosso per riparare la dimenticanza. Lo fa con un emendamento firmato da Valeria Valente. È il tentativo di far approvare in Parlamento il lodo De Luca, padre e figlio. Qui si apre lo scontro con Renato Brunetta. Il ministro fa le barricate: «Non si può entrare nella pubblica amministrazione senza un concorso». Non è un vezzo, lo dice l'articolo 97 della Costituzione. Ma, replica il Pd, c'è il corso. Appunto. Il corso non è un concorso. Non sono la stessa cosa. Il partito di Enrico Letta alza ora la bandiera degli «apprendisti statali». Il clima non è dei migliori. I corsisti pretendono il posto e sono già iniziate le proteste. È un primo segno di quello che ci aspetta, ma la pubblica amministrazione non è una scorciatoia.

SCIPPANO IL SUD DI ALTRI 60 MILIARDI, MA LA GUERRA CONTINUA. Raffaele Vescera il 06.05.2021 su movimento24agosto.it. Il furto al Sud di una sessantina di miliardi del Recovery fund, ovvero il piano di rilancio europeo per l’Italia, condotto a termine dal governo non suscita proteste e indignazione da parte della stragrande maggioranza dei parlamentari italiani che, fregandosene delle indicazioni europee di usare il 70% dei fondi per colmare il divario Nord-Sud, per appartenenza al partito unico del Nord, ignoranza, ignavia o peggio opportunismo personale, hanno votato a favore del furto contenuto in quel piano. Un piano che anziché ridurre il divario lo aggraverà, peggiorando le condizioni di vita del 34% della popolazione italiana, lasciato senza lavoro, trasporti, sanità, infrastrutture, istruzione, giustizia, un piano insulsamente chiamato PNRR, un suono che per il Mezzogiorno e le aree interne si traduce in una sonora pernacchia. A ciò si aggiunge il vergognoso comportamento di alcuni capi politici, in primis Renzi e Salvini, i quali con disinvolte giravolte eludono le domande che il Paese pone loro, in questo aiutati dall’omertoso silenzio dei partiti, i quali tranne la finta opposizione della Meloni fanno tutti parte del governo. Tutti colpevoli nessun colpevole?  Nient’affatto, i colpevoli ci sono le loro colpe sono emerse, tali che in un qualunque governo democratico li avrebbe portati alle dimissioni da incarichi pubblici, eppure uomini che tramano facendo visita a Denis Verdini in carcere come i due Matteo nazionali sono lì a ricoprire il loro seggio in Parlamento intascando fior di soldi pagati da noi tutti. Matteo primo, ben pagato, vola da un impresentabile dittatore di un ricco paese arabo che grazie ai miliardi del petrolio compra armi a volontà, uccide gli oppositori e scatena guerre di aggressione contro i Paesi vicini, sterminando e impoverendo gli abitanti, con una politica criminale da Renzi definita “nuovo rinascimento”, e poi di ritorno in Italia incontra “per caso in strada” uomini dei servizi segreti con i quali si trattiene a lungo a chiacchierare. E Matteo secondo, detto il Capitone, tace sull’ennesimo scandalo del suo partito che continua a rubare soldi pubblici, come se i 49 milioni non bastassero, l’ultima richiesta di condanna a 4 anni di due commercialisti lombardi della Lega (Nord), il trucco del due per mille intascato due volte con il trucco del “doppio partito”, gli scandali amministrativi diffusi dalla Lombardia persino sulla pelle dei contagiati, fino al Sud da un partito che primeggia nella corsa alla corruzione, ultima quella emersa al Comune di Foggia che ha costretto alle dimissioni il sindaco leghista, il quale consegnò le chiavi della città a Salvini, nemico numero uno del Sud, condannato dalla Magistratura per razzismo antimeridionale. Un tutti d’accordo che sa di regime pro ricchi, mentre i mass-media tacciono sulla protesta di centinaia di sindaci meridionali e di quelli di alcuni senatori e deputati che a decine hanno votato no, mentre il senatore Saverio De Bonis ha scritto alla Von Der Leyen Sassoli e Michel per violazione norme delle Ue  contenute nel Pnrr, e l’europarlamentare Piernicola Pedicini nel Parlamento europeo prepara un gruppo di interesse per il Mezzogiorno per denunciare le discriminazioni di cui esso è vittima, invitando la Commissione europea a rigettare il piano Draghi, cui non resta che restituirgli un bel pnrrrrrrrrrrrrrrrrr .

SUD TI DERUBANO DI 60 MILIARDI? E DI CHE TI LAMENTI, C’E’ CHI S’ACCONTENTA E GODE. Raffaele Vescera l'1.05.2021 su movimento24agosto.it, di Paolo Mandoliti. Sig. Imperatore, Le facciamo notare che purtroppo se Lei la mattina si sveglia e incontra una persona che si lamenta, che definisce "lamentoso cronico" più che metterlo alla berlina, esortandolo a fare trade off, ovvero il vecchio e caro (a Lei, forse) do ut des, dovrebbe, in virtù di blogger del Fatto Quotidiano, chiedersi del perché del lamento continuo. Sempre secondo Lei, questo lamentoso cronico dovrebbe essere addirittura felice, in virtù del trade off, degli 82 miliardi (in realtà sono di meno, considerando che 12 miliardi del fondo di sviluppo e coesione del mezzogiorno sono finiti nel calderone degli importi del piano in generale) promessi (a parole, poiché sempre nel piano non c'è una tabella riepilogativa degli investimenti suddivisi territorialmente tra le macro aree del Paese) al mezzogiorno! Il lamentoso cronico dovrebbe essere felice (utilizza spesso questo aggettivo, non sarà che fa riferimento al guru economico del PD?) perché è una cifra enormemente superiore agli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, che, tra l'altro, dimostrandosi preparatissimo sulla  data della  legge, è abbastanza impreparato sulla premessa e sulla finalità della stessa: quanto alla premessa, non è assolutamente un intervento straordinario post bellico per il Mezzogiorno, poiché l'intervento straordinario post bellico per il Mezzogiorno doveva essere il piano Marshall (ERP), considerato che era il Mezzogiorno l'area del Paese che aveva subíto i maggiori danni (e vittime) civili durante la risalita degli alleati per la liberazione dai nazi-fascisti. Eppure il governo De Gasperi dirottò l'87% delle risorse ERP al Nord. Tanto che in quello stesso periodo un illuminato meridionalista (non come Lei che si auto definisce tale, per le persone come Lei noi meridionali e meridionalisti utizziamo un altro termine) coniò il termine ERP-ivori per denunciare il primo furto, ai danni del Mezzogiorno, da parte della neonata repubblica italiana. Quanto alla finalità, Le rammentiamo che la Caspermez fu istituita per "finanziare iniziative industriali tese allo sviluppo economico per il meridione d'Italia". Una roba completamente diversa e non paragonabile in alcun modo al Next Generation EU. Anche se gli effetti macro economici (e qui siamo nel Suo campo) della Caspermez furono estremamente positivi: il PIL italiano crebbe come non mai (miracolo economico, do you know?) e per la prima e unica volta il reddito pro-capite del Mezzogiorno crebbe più di quello del resto del Paese (sono dati facilmente recuperabili, ergo non discutibili). Prova inoppugnabile che se si investe al Mezzogiorno ne beneficia tutto il Paese. Sull'inefficienza della Caspermez a partire dal 1971 (successivamente alla nascita delle Regioni come Enti pubblici e al passaggio del livello decisionale da economisti e meridionalisti di enorme fattura come Pasquale Saraceno a politici e burocrati di mezza fattura) siamo completamente d'accordo con Lei: ma se questo significa per Lei giustificare il refrain "al mezzogiorno non si sa spendere", accusando perfino di "incapacità genetica" Le rispondiamo subito dicendoLe che se la classe politica è stata inefficiente nella spesa, questo peccato originale non può essere pagato in modo perenne sottoforma di sperequazione ai danni di 20 milioni di cittadini. E non può essere assolutamente la motivazione della mancata ripartizione secondo i criteri di ripartizione fissati dalla Commissione europea e approvati dal Parlamento europeo. Così come non può essere la giustificazione del mancato trasferimento di 61 miliardi all'anno per la mancata determinazione e applicazione dei LEP. Così come non può essere la scusa dei "criteri sperequativi" inseriti ogni volta che si sottraggono risorse al Mezzogiorno. Se per lei trade off significa subire l'essere cornuti e mazziati, sinceramente non ci stiamo. E combatteremo in tutte le sedi affinché i princípi costituzionali di solidarietà e sussidiarietà siano finalmente effettivamente realizzati. Al suo trade off potremmo rispondere in inglese con una locuzione che ci farebbe rima.

AL SUD SPETTANO 140 MILIARDI E GLIENE DANNO 82? “I PIAGNONI MERIDIONALISTI LA SMETTANO DI LAMENTATERSI” PAROLA DI UN FELICE IMPERATORE. Raffaele Vescera l'1.05.2021 su movimento24agosto.it, di Pino Aprile. Immaginate che al Veneto spettino 100 miliardi; lo Stato gliene dia 60, e dinanzi alle proteste di chi chiede conto del furto della differenza, un giornalista veneto scriva insultando “l'esercito dei venetisti lagnosi che piagnucolano”, mentre lui è “felicissimo, anche se la soluzione 'migliore' non c'è”. Oddio, la soluzione migliore sarebbe il rispetto dei criteri con cui si assegnano i soldi e in forza dei quali al Veneto spettano 100 miliardi e non 60. Ma, come si dice: chi si contenta gode. E che c'è chi gode a farsi umiliare (Bacia la mano che ruppe il tuo naso/ Perché le chiedevi un boccone). V'arimbarza?, direbbero a Roma. Ovviamente mai lo Stato si permetterebbe di trattare il Veneto come una regione del Sud, quindi se al Veneto spettassero 60 miliardi, gliene darebbe 100, ma tutti si lamenterebbero lo stesso del fatto che sono pochi, i giornalisti veneti si direbbero scontenti perché non si è adottata “la soluzione migliore“ (130-150?) e la Cgia di Mestre produrrebbe una “ricerca” per “dimostrare” che ne sarebbero giusti 200. Invece se al Sud spettano 140 miliardi e gliene danno 82, eccoti la ministra complice del furto al Sud che grida al grande successo di essere riuscita a farlo derubare di un po' di meno di quanto certi cattivoni avrebbero voluto (eh, ma c'era lei, caro lui!); parlamentari del Sud che votano in ginocchio contro il Sud, perché così vuole il padrone (Bacia la mano che ruppe il tuo naso/ Perché le chiedevi un boccone), anzi, no, mi scuso: perché sono davvero contenti di aver ottenuto un grande risultato. E il giornalista meridionale di complemento che si dice “felicissimo” e insulta chi osa ricordare (“l'esercito dei meridionalisti lagnosi che piagnucolano”) che, stando alle regole, al Sud spetta una cifra maggiore: trade off, trading up e trading down (che non è la sindrome). Che vuol dire? Chiedetelo a Vincenzo Felicissimo Imperatore. Io cito i suoi anglicismi solo per darmi un tono e far vedere che pure io ho fatto il militare a Cuneo e dico up and down e non 'ngoppa e abbascio. Ma perché la ministra contro il Sud, Mara (Maria Rosaria) Carfagna è così contenta? E Vincenzo addirittura felicissimo? Perché sono riusciti ad avere per il Sud più di quanto avrebbe meritato, stando ai criteri di suddivisione delle risorse del Recovery Fund? Noooo, la ministra ammette che non il 40 per cento, era diritto che ricevesse il Mezzogiorno, ma più del 60 (ah, ma allora lo sai!). E Felicissimo Imperatore (a occhio, ho idea che ci siano dei superlativi di troppo) scarica la sua ironia contro “l'esercito dei meridionalisti lagnosi che piagnucolano” perché “ricordano che al Sud sarebbe dovuta spettare una quota del 70 per cento”. Ovvero: pretendono qualcosa a cui il Mezzogiorno non ha diritto? Noooo, lui stesso riconosce che “forse è vero che la cifra spettante, in base ai parametri previsti, doveva essere maggiore”. Quindi, nonostante quel “forse” per cercare di mettere in dubbio quanto è costretto ad ammettere (ma se te lo dice pure la ministra contro il Sud che la percentuale giusta è superiore al 60!), lui conferma che il 40 è il resto di un furto (trade off, trading up e trading down, che non è la sindrome). Ma siccome il 40 per cento sono 82 miliardi, “tanti soldi”, la smettano di lamentarsi i piagnoni meridionalisti. A chiunque sia il datore di lavoro del Felicissimo Vincenzo, suggeriamo di darli una busta paga ridotta di quasi la metà. Così la smetterà di essere infelice perché guadagna troppo e finalmente potrà godere del fatto di avere meno di quanto gli spetta (i sogni si avverano!). Oh, se poi, metti caso, Vincenzo non ne fosse felicissimo, allora potremmo avere speranza che capisca pche chi protesta se invece di 140 miliardi ne arrivano 82, non è un meridionalista lagnoso che piagnucola, ma uno che fa i conti meglio di lui e chiede rispetto per i suoi diritti (si chiama dignità. Ma Imperatore faccia conto di non averlo letto, non vorremmo confonderlo con concetti che non sopportano il ribasso compiacente). E comunque, trade off, trading up e trading down (che non è la sindrome), uozzamerican. È così astiosamente proteso alla denigrazione del diritto e della sua rivendicazione, da dire ai lagnosi meridionalisti che somme come quella, 82 miliardi, non le hanno mai viste al Sud. Beh, tutta Italia non ha mai visto somme come quella del Recovery Fund, nemmeno il Nord, con la differenza che al Nord il Felicissimo con l'inchino non ha nulla da obiettare; né sul fatto che parte di quelle somme mai viste al Nord sono soldi del Sud. Ma Vincenzo è contento quando glieli portano via, perché lui, modestamente, trade off, trading up e trading down (che non è la sindrome). E mi sa che gli paiono troppi pure gli 82 miliardi del 40 per cento, soprattutto per il rischio, felicemente sventato da Sua Draghità Mario, che siano gestiti dai politici locali. In tal caso “scoppia il pianto della Maddalena di chi non può accettare che si riconosca ufficialmente una incapacità genetica nella gestione dei soldi pubblici, arrivando addirittura a sostenere considerazioni razziste e classiste”. V'cienz, e mo' non si scherza più: classista è il tuo modo indegno sia di ritenere accettabile il meno del dovuto al Sud e non censurabile il di più al Nord, sia di rivolgerti a chi, al contrario di te, chiede il giusto, secondo i criteri stabiliti. Razzista è chi attribuisce a incapacità genetiche altrui una differenza al ribasso, squalificante. Quanto a politici locali da cui imparare come gestire i soldi pubblici, potremmo chiedere consulenze agli esperti del Mose, dove ogni tre euro, due sono andati in mazzette; ai geni dell'Expo, inaugurata senza le grandi opere annunciate e il 40 per cento dei capannoni non finiti, con più ditte mafiose in pochi mesi lì che in mezzo secolo sulla Salerno-Reggio Calabria; oppure a chi fa l'alta velocità ferroviaria a costi sette volte maggiori, a chilometro, rispetto a quelli di Francia e Spagna; o ai luminosi esempi della Bre-Be-Mi e della Pedemontana veneta, dove le gallerie crollano per difetti di costruzione e materiali scadenti, mentre le stanno facendo o a quelli che facevano la manutenzione del ponte Morandi; o a Roberto Formigoni a Giancarlo Galan, se non hanno più problemi carcerari. Se ti va di scodinzolare felice nel cortile di chi ti deruba, sono fatti tuoi; rispetta chi ricorda che i criteri di ripartizione sono altri e altre dovevano essere le cifre. Non basta essere napoletano per dirsi meridionalista (i primi furono quasi tutti del Nord, mentre a Napoli c'era gente felicissima di farsi umiliare). Poi ognuno può dire quello vuole (resti fra noi: Cicciolina mi ha confidato di essere vergine. E meridionalista).

TRA IPOCRISIA, FANDONIE E PREGIUDIZI, L’ITALIA HA FIRMATO LA SUA CONDANNA A MORTE. LA VOTAZIONE DEL PNRR.  Antonio Picariello il 28.04.2021  su movimento24agosto.it. Mentre vi scrivo in Senato sono in corso le comunicazioni del presidente del consiglio in merito al PNRR e la camera ha già espresso il suo voto favorevole. Il tutto tra discorsi ipocriti, di facciata e colmi di pregiudizi nei confronti del Mezzogiorno. Eviterò di riportarvi dell’alt(r)a velocità di Draghi o delle idiozie proferite dalla Bonino, o ancora dell’operetta burlesca messa in scena da Dario Stefano degna del miglior copia incolla di un tesista alle prime armi. Sarebbero parole sprecate e mi restano già poche battute. Quel che è certo è che oggi l’Italia firma la sua condanna a morte. Più volte nelle aule di camera e senato si è abusato del motto “Se cresce il Sud, cresce l’Italia”. Un abuso che sa di sberleffo, di presa in giro nei miei e nei vostri confronti e di tutti coloro che abbiano un po’ di sale in zucca. Più volte abbiamo riportato i criteri da adottare per il riparto del Recovery Fund (per la verità poche mosche bianche tra senatori e deputati lo hanno ribadito nelle aule del governo) eppure per far ripartire il Sud gli è stato assegnato il 26,64% al netto di quel fenomeno che abbiamo imparato a conoscere con il nome di interdipendenza economica. E qualcuno, tra ministri e partiti i cui membri siedono dove siedono perché votati a Sud, pretendeva anche che festeggiassimo, pronti con la canna da pesca in mano, magnanimamente elargitaci, per andare a pescare. Ebbene noi pescheremo, eccome se lo faremo. Pescheremo tra quei deputati e senatori che con coscienza e con coraggio avranno votato contro questo furto; pescheremo tra i giovani appassionati ed affezionati alla propria terra che daranno ulteriore forza al nostro ideale di equità; pescheremo tra i 500 sindaci che intanto saranno diventati mille, duemila e ancor di più per dare sempre maggior voce ai nostri diritti. Perché, tra gli sberleffi e i pregiudizi, agli onorevoli senatori e deputati servi del dio nordico è sfuggita una cosa fondamentale: oggi in parlamento l’Italia è morta tra gli applausi. Oggi nasce il Sud, nasce con una nuova coscienza, con rinnovata forza. E chi c’è, c’è, mentre di chi non c’è ce ne ricorderemo alla resa dei conti.

IL NEXT GENERATION EU SPIEGATO A TUTTI: FINALITA’, COMPOSIZIONE, EFFETTI SUI COMUNI. Raffaele Vescera il 13.04.2021 su Il Movimento 24 agosto. Le politiche dell’Unione Europea a sostegno degli Stati membri nella gestione degli effetti causati dalla pandemia Covid-19, riportate da uno studio di Antonio Teta, del M24A-ET Foggia.

Il Programma SURE. Oltre alle politiche indicate in precedenza l’Unione Europea è impegnata nell’ammortizzare gli effetti della crisi economica. Il principale provvedimento attualmente utilizzato dagli Stati Membri, tra i quali l’Italia è destinataria di circa il 30% della dotazione è il programma Europeo denominato SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency), per il quale l’Unione Europea ha approvato a settembre 2020 un sostegno per un importo complessivo pari a € 84,4 miliardi di euro nei confronti degli Stati che ne hanno fatto richiesta. L’Italia è destinataria di un importo pari a 27,4 miliardi di euro, di cui 16,5 già erogati nel 2020. Il programma SURE è uno degli strumenti adottati dalla UE finalizzato al sostegno finanziario al fine di contribuire al finanziamento degli aumenti repentini e severi della spesa pubblica nazionale - a partire dal 1º febbraio 2020 - connessi a regimi di riduzione dell'orario lavorativo e misure analoghe, anche per i lavoratori autonomi, o a determinate misure di carattere sanitario, in particolare sul posto di lavoro, in risposta alla crisi. I finanziamenti richiesti dal nostro paese nell’ambito del programma SURE contribuiscono a coprire le spese di una serie di misure anticrisi adottate dal Governo, tra cui la cassa integrazione per tutti i lavoratori dipendenti, le indennità per lavoratori autonomi di vario tipo, collaboratori sportivi, lavoratori domestici e intermittenti, i contributi a fondo perduto per autonomi e imprese individuali, il congedo parentale, il voucher baby sitter. Tali fondi dunque rappresentano la prima risposta del Sostegno agli stati membri, attraverso il ricorso, mai avvenuto prima, a prestiti direttamente da parte della Commissione Europea, a tassi vantaggiosi o negativi (per i primi 10 miliardi già erogati), da restituire da parte degli Stati membri, con scadenze fino al 2050. Tutta la politica di ammortizzatori sociali messa in atto dal Governo Italiano, si basa dunque su questo fondamentale strumento, attraverso il ricorso alla leva del debito contratto dall’Unione Europea e da restituire a condizioni estremamente favorevoli, nella durata e nel tasso d’interesse.

IL NEXT GENERATION EU E IL DISPOSITIVO PER LA RIPRESA E LA RESILIENZA. Le misure previste nel bilancio dell’Unione e la loro destinazione. Relativamente invece alle iniziative di rilancio delle economie dell’area UE in un’ottica di lungo periodo, di fondamentale importanza per il futuro del paese riveste il piano straordinario per finanziare la ripresa dei Paesi europei dopo l’emergenza Covid-19 denominato attualmente denominato “Next Generation EU”. Il Presidente della Commissione Europea ha presentato nel mese di Maggio 2020 il fondo è costituito da 750 miliardi di euro: reperibili attraverso un innalzamento temporaneo del tetto delle risorse nazionali dei singoli paesi membri trasferite al bilancio comunitario, e secondariamente andando a emettere debito comune, da parte della UE sui mercati finanziari. Il fondo è costituito per complessivi 360 miliardi da prestiti da rimborsare all’UE da parte degli Stati membri, e per 390 Miliardi da sovvenzioni concesse ai vari stati membri. In dettaglio, la composizione del fondo complessivo Next Generation EU (NGEU) è pari a 672,5 miliardi di euro a prezzi 2018, 360 dei quali destinati a prestiti e 312,5 a sovvenzioni. L’importo residuo delle sovvenzioni, pari a 77,5 miliardi di euro sono rappresentati da l’incremento di programmi comunitari, già contenuti nel bilancio UE nel contesto dell'adattamento delle proposte relative al Quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027 alla crisi derivante dalla pandemia da Covid. La proposta di Regolamento per la creazione di un dispositivo per la ripresa e la resilienza, presentata originariamente dalla Commissione Europea in data 28/05/2020, è stata definitivamente approvata in data 9 febbraio 2021 dal Parlamento Europeo. L'approvazione costituisce il passo finale di un iter lungo e complesso, che si è articolato tra l'altro in una maratona negoziale di quasi cinque giorni al Consiglio europeo dal 17 al 21 luglio 2020, e di lungo e sofferto dibattito svolto all’interno del Parlamento europeo. Il quadro finanziario complessivo del Next Generation EU, pari a 750 miliardi di euro. è il seguente:

Dispositivo per la ripresa e la resilienza. Nuovo strumento

672,5 (oltre a 0,8 aggiuntivi previsti nel Q.F.P. in altre voci)

Rafforzamento delle rubriche n. 1, 2, 3 del Quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-2027:

1) mercato unico, innovazione e agenda digitale

2) coesione, resilienza e valori

3) Risorse naturali e ambiente

Iniziativa ReactEU. Nuovo strumento previsto nel Q.F.P.

47,5 Assistenza nell'affrontare le conseguenze della pandemia; gestione fondi a livello di Governo centrale

Fondo agricolo Europeo per lo sviluppo rurale

Integrazione fondi già stanziati nel Q.F.P. (FEASR)

7,5 (85,4 complessivi stanziati nel Q.F.P.)

Sostegno agli agricoltori ed alle aree rurali nei cambiamenti strutturali indotti dall'attuazione del green deal Europeo

Fondo per una transizione giusta

Integrazione fondi già stanziati nel Q.F.P.

10 (17,5 complessivi stanziati nel Q.F.P.)

Sovvenzioni a favore della diversificazione economica dei territori maggiormente colpiti dalla transizione climatica

Fondo InvestEu. Integrazione fondi già stanziati nel Q.F.P.

5,6 (9,4 complessivi stanziati nel Q.F.P.)

Promozione degli investimenti dei privati, focalizzati nelle infrastrutture sostenibili; ricerca, innovazione e digitalizzazione; PMI; investimento sociale e competenze

Fondo Orizzonte Europa.

Integrazione fondi già stanziati nel Q.F.P.

5 (84,9 complessivi stanziati nel Q.F.P.)

Ricerca nei settori della salute, del clima e dell'innovazione

Fondo di protezione civile UE e della sua riserva strategica

Integrazione fondi già stanziati nel Q.F.P. (rescEU),

1,9 (3,0 complessivi stanziati nel Q.F.P.)

Sovvenzioni o appalti per infrastrutture di risposta ad emergenze, capacità di trasporto e infrastrutture logistiche.

Saranno finanziabili misure introdotte a partire dal 1° febbraio 2020 (articolo 17, par. 2); gli impegni di spesa possono avere luogo fino al 2023; pagamenti dei contributi finanziari devono essere effettuati entro il 2026 (articolo 24, par. 1). Entro questa stessa data devono essere realizzati riforme e investimenti.  Ogni Stato membro che desidera ricevere sostegno dovrà presentare alla Commissione, di regola entro il 30 aprile (anche all'interno del Programma nazionale di riforma), un Piano nazionale per la ripresa e la resilienza. In Italia, la prima bozza di tale piano redatta dal precedente Governo, evidenzia una programmazione per complessivi, 208,6 miliardi di euro. Nello specifico, il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (DPRR) prevede una spesa per l’Italia, pari a 193 Mld. di euro, di cui 65,5 miliardi come sovvenzioni. A tale importo vanno aggiunte i finanziamenti nel Next Generation EU, previsti all’interno degli altri strumenti elencati nella precedente tabella per un importo aggiuntivo pari a 15,6 miliardi di euro. o, portando il totale complessivo delle sovvenzioni contenute nel NGEU a 81,1 miliardi di euro (pari al 38,9% del totale delle risorse NGEU previste per il nostro paese) e il totale del NGEU A 208,6 Mld. di euro. La quota dei prestiti contratti dall’Unione Europea, finalizzata al reperimento delle risorse per il finanziamento del Next Generation EU, da rimborsare da parte del nostro Paese, è di conseguenza pari a 127,5 miliardi di euro. Occorre dunque rilevare che ai fini della ripresa economica l’Unione Europea non ha solo introdotto il Dispositivo per la ripresa e la resilienza (DPRR), di cui l’Italia è beneficiaria per 193 miliardi di euro ma ha anche rafforzato il finanziamento di parte di alcuni programmi di spesa di cui l’Italia è beneficiaria destinando specifiche risorse per 15,6 Mld. di euro. L'articolo 3 del regolamento approvata in data 9 febbraio dal Parlamento Europeo approvato individua sei aree di intervento per l'azione del dispositivo, organizzate attorno ai seguenti pilastri:

transizione verde, compresa la biodiversità;

trasformazione digitale;

crescita intelligente, sostenibile e inclusiva (incluse anche occupazione, ricerca, sviluppo e innovazione);

coesione sociale e territoriale;

salute e resilienza economica, sociale e istituzionale;

politiche per la prossima generazione, infanzia e gioventù, incluse l'istruzione e le competenze.

Le risorse messe a disposizione dal Dispositivo per la ripresa e la resilienza sono soggetti ad alcuni vincoli e condizioni per il loro utilizzo. In primo luogo, esse non possono sostituire le spese di bilancio correnti al livello nazionale. In secondo luogo, sono aggiuntive rispetto alle altre risorse provenienti da altri programmi Europei per lo sviluppo economico e la coesione territoriale se non in casi debitamente giustificati. Esse possono dunque aggiungersi al sostegno fornito nell'ambito di altri fondi e programmi UE, aventi come oggetto la coesione territoriale e la resilienza, come il Fondo europeo di sviluppo regionale, il Fondo di coesione e il Fondo sociale europeo plus, a condizione di non coprire lo stesso costo. Al fine di garantire una crescita sostenibile, ulteriori prescrizioni riguardano la transizione verde, e la transizione digitale e produttività; ogni piano dovrà includere rispettivamente almeno il 37% di spesa per ambiente e lotta al cambiamento climatico e il 20% di spesa per il settore digitale. Sotto il rispetto del principio di equità, ogni piano dovrà includere misure per le pari opportunità, l’istruzione inclusiva, condizioni di lavoro eque e una protezione sociale adeguata. Infine, al fine di salvaguardare la Stabilità macroeconomica ogni piano dovrà preservare la sostenibilità di bilancio a medio termine, puntando a un potenziamento degli investimenti e della qualità delle finanze pubbliche. Le risorse messe a disposizione potranno finanziare solo misure che rispettino il principio di non apportare danno significativo agli obiettivi ambientali dell'UE. Le risorse dovranno essere impegnate per il 70% nel biennio 2021-2022 e per il rimanente 30% nell’anno 2023. I pagamenti potranno avvenire fino all’anno 2026.

I Comuni e il Next Generation EU. L’impatto per i Comuni del Next generation UE è stato evidenziato dall’ANCI più volte. Dalla documentazione presentata dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani, in data 28.09.2020 presso le Commissioni riunite Politiche dell’Unione Europea e Bilancio del Senato della Repubblica. In tale sede L’Anci ha affermato il ruolo dei Comuni  nella gestione delle risorse provenienti dal Next generation EU, sia per il loro ruolo di principali investitori pubblici sia perché la gran parte delle aree di intervento individuate dall’Unione Europea come gli investimenti per la transizione verde, la  trasformazione digitale, la crescita sostenibile, le politiche sociali di contrasto alla povertà e gli interventi a favore delle nuove generazioni destinati per l’infanzia e gioventù, incluse le spese per l'istruzione e le nuove competenze. Inoltre, i comuni sono destinatari di gran parte dei fondi non compresi all’interno del Dispositivo per la ripresa e la resilienza, destinati alla coesione territoriale, tuttavia ricompresi nei vari programmi del Next generation EU elencati in precedenza. L’Anci stima in 43 miliardi di euro l’importo che sarà gestito dai Comuni, anche se tale valore è soggetto naturalmente alla presentazione all’Unione Europea del piano definitivo da parte del Governo. Tra le principali linee d’azione proposte dall’ANCI sono presenti, per fare qualche esempio, interventi relativi all’efficientamento energetico del patrimonio edilizio esistente e la transizione energetica nelle aree urbane, gli investimenti in mobilità sostenibile pubblica, gli interventi in economia circolare di incremento di efficacia delle reti idriche con l’obiettivo di ridurre la dispersione idrica, la diffusione delle grandi banche dati digitali pubbliche, il recupero delle periferie,  un piano straordinario per l’edilizia abitativa e la realizzazione di progetti pilota per la tutela del paesaggio e della cultura locale. Il presidente dell’ANCI, in rappresentanza dei Comuni Italiani, è stato nuovamente ascoltato, in data 01.03.2021 presso le Commissioni riunite Politiche dell’Unione Europea e Bilancio del Senato della Repubblica. L’ANCI ha confermato la necessità di un trasferimento diretto e non intermediato delle risorse destinate agli interventi del DPRR, auspicando una riduzione al minimo dei passaggi formali e burocratici per l’individuazione ed erogazione dei finanziamenti a differenza di quello che è avvenuto in passato con l’erogazione dei fondi per la coesione territoriale. Ulteriori osservazioni formulate dall’ANCI relative al presentato dal Governo a Gennaio 2021, derivano da alcune lacune ed incertezze del piano relative agli interventi previsti per la coesione, l’inclusione e le politiche sociali e socio-assistenziali, che allo stato attuale non tiene in adeguato conto della centralità dei Comuni detentori di un patrimonio informativo e di una conoscenza del territorio che tale da massimizzare l’efficacia della realizzazione di tali interventi a tale livello di Governo. L’ANCI auspica una concentrazione degli interventi finanziati in diverse linee del DPRR, al fine di evitare rischi di sovrapposizioni e/o incoerenze tra le varie misure. L’ANCI evidenzia che non sono ancora stati definiti i riferimenti alla governance complessiva del Piano, alle sue modalità di attuazione e sul ruolo operativo riservato ai Comuni. L’associazione ritiene di particolare importanza, per il successo degli interventi del Next generation EU, il necessario potenziamento delle competenze amministrative attraverso un piano organico straordinario di assunzioni di personale a tempo determinato, destinato al rafforzamento delle amministrazioni coinvolte nella realizzazione del Recovery Plan, tenendo in opportuna considerazione i fabbisogni specifici dei Comuni. I recenti provvedimenti legislativi hanno previsto al tal fine la gestione delle procedure di assunzione a livello centralizzato, attraverso il FORMEZ per l’assunzione di 2.800 unità a tempo determinato al fine di consentire una migliore gestione dei fondi strutturali europei e di quelli provenienti dal Next Generation EU. Le misure messe in atto dall’Unione Europea, e la loro successiva gestione da parte del Governo Italiano determinano un impatto futuro per i Comuni del Meridione d’Italia in termini di rischi e le opportunità per la gestione degli stessi, e per la ripresa dei territori interessati duramente colpiti dagli effetti socio-economico della pandemia COVID-19. Le minacce sono di due tipi. La prima deriva da una distrazione dei fondi Europei rispetto alla destinazione territoriale prevista dai Regolamenti Comunitari. I fondi per la coesione territoriale prevedono una destinazione maggiore nelle Regioni Europee meno sviluppate, e un maggiore compartecipazione degli Enti locali alla spesa finanziata con risorse Comunitarie nelle Regioni maggiormente sviluppate. L’emergenza che stiamo vivendo tuttavia, ha determinato alcune modifiche di alcune delle regole dei Fondi Strutturali e di Investimento Europei (Fondi SIE) al fine di fornire agli Stati membri maggiore flessibilità, in questo momento necessaria, nell’attuazione dei Programmi Operativi, mobilitare risorse per rispondere all’emergenza sanitaria in corso e per sostenere gli investimenti in sistemi sanitari da un lato, i settori più colpiti dalla crisi dall’altro e della possibilità di riassegnare in modo più flessibile le risorse finanziarie all'interno dei Programmi operativi in ciascuno Stato membro. Tale facoltà si è tradotta in una riprogrammazione dei fondi che ha penalizzato nella nuova ripartizione dei fondi le regioni Meridionali. La prima conseguenza per i Comuni Pugliesi è data da una minore disponibilità di risorse finalizzate alla coesione territoriale. Un secondo rischio viene dal piano per l’utilizzo delle risorse provenienti dal dispositivo per la ripresa e la resilienza (DPRR). Il regolamento UE n. 2021/241 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 istitutivo del DPRR, disciplina, all’articolo 11 il contributo massimo concesso ad ogni Singolo Stato Membro. In base a tale articolo i fondi trasferiti nel biennio 2021-2022, pari al 70% dei Fondi assegnati all’Italia sono assegnati sulla base di tre criteri: popolazione, dell'inverso del PIL pro capite e del relativo tasso di disoccupazione di ciascuno Stato membro, secondo una metodologia riportata nell'allegato II al regolamento. Per l’anno 2023, i fondi da erogare, pari al 30% dell’intera dotazione sono assegnati sempre in base a tre criteri, della popolazione, dell’inverso del PIL pro capite, mentre il terzo criterio non è più quello della disoccupazione, ma viene calcolato in base alla variazione del PIL reale nel 2020 e della variazione aggregata del PIL reale per il periodo 2020-2021, utilizzando i dati previsionali dell’Unione Europea relative all’autunno 2020. Il calcolo definitivo del contributo finanziario sarà aggiornato entro il 30 giugno 2022, per ciascuno Stato membro sostituendo i dati delle previsioni economiche di autunno 2020 della Commissione con i risultati effettivi relativi alla variazione del PIL reale per il 2020 e alla variazione aggregata del PIL reale per il periodo 2020-2021. In considerazione che i fondi messi a disposizione dall’Unione Europea relativi al Next Generation EU sono collocati all’interno del bilancio pluriennale dell’Unione Europea per la quasi totalità (per un importo di 722 miliardi di euro su un totale della dotazione del  Next Generation EU di 750 miliardi) all’interno della seconda rubrica del quadro finanziario Pluriennale denominato “coesione, resilienza e valori” rubrica ove sono collocati i fondi che la UE destina alla politica regionale attuata attraverso tre fondi principali: Fondo di sviluppo regionale, Fondo di coesione e Fondo sociale, L’Unione Europea, è evidente che le regole che sono state alla base della destinazione dei fondi a livello regionale fino ad adesso dall’Unione Europea, sono stati mutuati anche per la ripartizione dei fondi a livello nazionale. Infatti, i fondi di coesione, ad esclusione del Next Generation EU i quali vengono ripartiti su base Regionale in base ad una metodologia che tiene conto innanzitutto della differenza tra il pil pro capite di una regione e la media UE (parametro che pesa per 81%) tenendo conto della disoccupazione, densità della popolazione e per le regioni più avanzati livelli di istruzione (parametro che determina la dotazione dei fondi destinati ad ogni singola regione per il 15%) e per il rimanente 4% di parametri residuali). In base ai fondi assegnati alle varie Regioni che compongono uno stato membro, classificate in tre fasce in base al PIL pro-capite: Regioni meno sviluppate, Regioni in transizione e Regioni più sviluppate, viene calcolata la dotazione nazionale dei fondi Europei destinati alla coesione. È evidente dunque che anche i fondi del Next Generation nella sua quantificazione sono stati ingenti per l’Italia per la presenza di sei regioni meno sviluppate e due in transizione e che la distribuzione delle risorse debba seguire i criteri europei, a prescindere da eventuali deroghe decise per l’emergenza covid-19, anche per lo sviluppo uniforme della Pandemia sul territorio nazionale. I n generale gli Stati a reddito più elevato, ma anche le Regioni maggiormente sviluppate all’interno di uno Stato Membro traggono vantaggi evidenti dagli effetti positivi degli investimenti sostenuti dalle risorse europee nelle aree deboli. Direttamente attraverso la vendita dei beni di investimento, indirettamente attraverso i maggiori scambi commerciali sostenuti dall’incremento di reddito nelle aree sostenute. Il secondo rischio per gli enti locali meridionali è rappresentato dall’eventualità che tali risorse non vengano trasferite ai comuni del Sud e\o essi non vengano messi in condizione di gestire tali fondi con efficacia. L’opportunità per i comuni meridionali è data dalla possibilità di meglio adempiere al dettato normativo di cui all’art. 3 del D.Lgs n. 267/2000, il quale prevede che: “Il comune è l'ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo.” Inoltre lo sviluppo dell’Economia del meridione, avrà nel medio periodo l’effetto di aumentare la base imponibile delle Entrate proprie degli Enti Locali, le cui finanze sono state, negli ultimi dieci anni considerevolmente ridotte pro-capite rispetto alle risorse dei Comuni del centro-nord per la mancata applicazione dei livelli economici delle prestazioni previsti dalla riforma del titolo V della Costituzione e della legislazione correlata, al fine di poter adempiere a tutti quei servizi indispensabili che attualmente non vengono presidiati con la dovuta efficacia.

IL CHIAGNI E FOTTI PADANO ADESSO TIRA LA GIACCHETTA ALL’EQUITÀ PER EVITARE LE ISOLE COVID FREE. Antonio Picariello il su Il Movimeto 24 agosto. “In questo momento dobbiamo dimostrare al Paese che c’è equità. Non creare tensione sociale, ma dare le stesse regole dappertutto. Meno ci sono disparità, anche se non tutti saranno soddisfatti, meno ci sono tensioni”. No amici, non è un esponente del Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale a parlare, ma, udite udite, Massimiliano Fedriga, new entry leghista alla presidenza della conferenza stato regioni, che si oppone, in nome dell’equità, alla proposta di adottare anche in Italia il metodo greco delle isole Covid Free per la ripartenza in sicurezza del comparto turistico. Opposizione che nasce dal fatto che le principali isole a vocazione turistica sono al Sud e che, sempre in nome dell’equità in salsa leghista, fa il paio con le levate di scudi nordiche contro l’assunzione della miseranda cifra di 2800 impiegati nei comuni del Mezzogiorno, vale a dire uno in più per comune, quando ne occorrerebbero 20 mila per andare a regime. Povero neo presidente, neanche insediato ed è costretto a rifarsi ad un diritto sconosciuto quanto disprezzato dai leghisti come lui, pur di mantenere in vita la gallina dalle uova d’oro sulla strada per il nord. Gallina le cui uova, per il turismo come per tutto il resto, sono da sempre dispensate a nord in maniera ben più consistente che al Sud e soprattutto a danno del Sud. Basti pensare ai criteri adottati dall’ultimo governo per assegnare i sussidi a fondo perduto destinati alle città d’arte in crisi per il covid. Alla faccia dell’equità, alla quale si richiama il buon Fedriga, i comuni beneficiari, manco a dirlo con parametri costruiti ad arte, furono 29: 14 al nord, 6 al centro e 9 al sud. E ca va sans dire nei primi 16 posti figuravano 11 città del nord e 5 del centro con quelle meridionali relegate in fondo alla classifica e con Verbania (sì Verbania!) al secondo posto tra le città più “foraggiate” dopo Venezia. A fregare il Sud fu la clausola che prevedeva l’assegnazione del fondo solo nei comuni capoluogo di provincia nei quali il flusso “storico” (che fa rima con spesa storica, sempre in tema di equità, eh Fedriga?) di turisti esteri fosse almeno il triplo della popolazione residente. Ora è risaputo che i turisti stranieri si concentrano in poche regioni del centro nord, mentre è il Veneto, con Venezia, che da solo vale più di tutto il Sud. Furono così tagliate fuori tutte le città del Mezzogiorno e zero ebbero anche città metropolitane come Reggio Calabria e Messina. Le uova d’oro presero la solita via e a Napoli spettò la dodicesima parte di ciò che ebbe in dote Verbania (sì Verbania!). Invoca l’equità, Fedriga, per precludere una possibilità di ripresa ad una parte del paese che non è la sua. Invoca l’equità, Fedriga, per far prevalere un canone razzista: prima il nord, oppure nessuno! È questo il concetto di “equità” proprio del neo presidente, ma non è il nostro. Se Fedriga volesse imparare cosa davvero sia l’Equità, cosa davvero significhi adottare per tutti le stesse regole, cosa davvero implichi la disparità di trattamento che il Sud subisce da sempre, venga pure a sedersi al nostro tavolo e giochi le sue carte. A parlare sarebbero solo i fatti: le mense chiuse negli asili nido del nord che hanno comunque permesso loro, in maniera fraudolenta, di appropriarsi dei fondi che spettavano agli asili del Sud; i fondi contro l’inquinamento assegnati esclusivamente tenendo conto dei parametri di PM10 escludendo zone devastate come Taranto; i soldi per il rinnovo del trasporto pubblico su gomma andati tutti a comuni del nord (De Micheli docet) con la (s)fortunata eccezione di Avellino; o ancora i 103 milioni per la riqualificazione dei siti d’arte, dei quali solo 3 milioni furono assegnati al Parco e Museo Archeologico di Sibari, unico sito del Sud presente in una lista di 11. Più in generale potremmo discutere di 64 e passa miliardi di spesa pubblica che ogni anno da Sud prendono la via della padania, di alt(r)a velocità, di porti e retroporti…e la lista è ancora lunga. Venga Fedriga al nostro tavolo, perché noi non vogliamo “dimostrare” al paese, come lei invece vuol fare, un’equità di facciata da utilizzare secondo convenienza (la vostra!). Noi pretendiamo l’Equità con la E maiuscola per tutto il paese e stiamo lottando e lotteremo per ottenerla definitivamente. Certo non tutti saranno soddisfatti, come dice lei. Men che meno lei stesso e i suoi compari leghisti e del PUN, abituati come siete all’assistenzialismo di stato. Ma di certo vivremo tutti delle stesse regole in un paese giusto dove le tensioni sociali, da voi create attraverso l’iniquità e la disparità di trattamento, potranno solo essere un brutto ricordo.

O si fa ripartire il Sud, o la crisi del Covid-19 non finirà mai. Bruno Manfellotto su L'Espresso il 12 aprile 2021. I dati sono chiari: il Recovery Fund deve aiutare soprattutto il Mezzogiorno. E ne è convinta anche l’Europa. Sostiene Mario Draghi: nel Sud il reddito è il 55 per cento del Centro Nord, negli anni Settanta era il 65; qui, nel decennio 2008-18, gli investimenti pubblici si sono dimezzati; e da qui, ogni anno, fuggono in 160 mila verso lavoro, università, migliori condizioni di vita. Altrettanto drammatico, in contemporanea, l’appello di Daniele Franco, ministro dell’Economia: a colmare il ritardo non basta un piano di sei anni (il Recovery), occorre una strategia complessiva di politica economica e sociale. Vaste programme. Ascoltiamo ora Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia. Riassunto: senza Sud non si esce dal Covid-19. Qui - un dato per tutti - c’è appena il 30 per cento dei lavori per infrastrutture e, per sovrappiù, tre quarti di queste sono opere incompiute. Conclusione: il Sud non è solo un capitolo del piano di ripresa del Paese, ma «il vincolo, la discriminante attraverso la quale debbono passare tutte le scelte di politica economica». Prima della loro, s’era alzata pure la voce di Fabio Panetta, consigliere della Bce: il Sud è «il grande inespresso dell’economia e della società italiana», «un motore inceppato da decenni»; illusorio pensare di uscire dal declino tirandosi dietro un Sud inerte; un Paese non regge se una parte guadagna il doppio dell’altra. Amen. Un insolito coro. E il ritorno sulla scena di una protagonista a lungo dimenticata: la questione meridionale, «l’eterna quistione» come la chiamava già un secolo fa Antonio Gramsci. Certo lo impongono i numeri, già drammatici e ora insostenibili causa pandemia: non sarà facile recuperare i 390mila posti di lavoro svaniti nell’anno del virus – di giovani, donne e precari -, quanti se n’erano perduti lungo gli anni neri della crisi 2009-13; gli occupati sono solo quattro su dieci, peggio che nell’Italia di dieci anni fa a rischio default; e quando poi ci sarà il rimbalzo del dopo Covid, stima la Svimez, il Sud crescerà tre volte meno del Centro Nord, aggravando così un divario secolare. L’altra ragione per cui suona l’allarme Mezzogiorno sono i 190 miliardi del Recovery. E già si teme che al Sud ne arrivino meno di quanti ne occorrano per colmare il divario. La Commissione europea vorrebbe che si concentrasse qui il grosso dei progetti, ma il precedente dei ristori/sostegni non lascia ben sperare: su cento miliardi, al Nord ne sono andati 70. Comunque preoccupa ancora di più che i fondi, tanti o pochi, siano spesi presto e bene, e non in sussidi a pioggia. Problema generale, del Sud in particolare (“Draghi, attento al burocrate”, L’Espresso n. 11). Quanti ancora si interrogano sul tema sono infatti convinti che la storica lontananza dal Nord dipenda in gran parte dalla maggiore inefficienza, dal malfunzionamento delle istituzioni: perché al Sud la macchina pubblica è stata spesso appaltata a classi dirigenti locali deboli, e tollerando che esse rispondano ai cacicchi, non allo Stato. Che molte volte latita. Come dimostra l’inesorabile degrado delle Regioni, del sistema sanitario, dell’istruzione... La “quistione” non è solo economica. C’è un’altra singolarità in questo ritorno di attenzione per il Sud. Non sono più le forze politiche a sventolarlo come bandiera dopo averne fatto il problema centrale della costruzione di un’Italia unita: dissolta la Repubblica dei partiti con le sue deformazioni finali, e superata la lunga fase in cui la spesa pubblica era sterco del diavolo, è ora una generazione di tecnici prestati alla politica a farsene carico. È quasi un ritorno alle origini, quando furono i Beneduce i Menichella i Saraceno i Morandi a progettare e a guidare l’intervento straordinario. Solo che allora erano state le grandi chiese politiche a sceglierli e a delegare loro il compito. Ora i Draghi i Franco i Visco i Panetta si muovono, come dire?, con spirito istituzionale, e soprattutto su impulso di Bruxelles, perché anche per l’Europa c’è oggi una questione meridionale: l’Italia. Davvero difficile dire se la contingenza sia o no favorevole. Potrebbe però essere l’ultima occasione per ricominciare.

Marco Bresolin per “La Stampa” il 27 marzo 2021. La spada di Damocle della Corte di Karlsruhe pende di nuovo sull'integrazione europea. Dopo aver messo in dubbio la legittimità del "Quantitative Easing", il piano d'acquisto di titoli pubblici della Bce voluto proprio dall'allora presidente Mario Draghi, ora i giudici della Corte Costituzionale tedesca minacciano di bloccare il "Next Generation EU", lo strumento da 750 miliardi per finanziare con debito comune la ripresa economica post-pandemia. O quantomeno di ritardarne l'entrata in vigore. La decisione - per una pura coincidenza - arriva proprio all'indomani dell'intervento di Draghi al Consiglio europeo, durante il quale il premier aveva sottolineato la necessità di introdurre gli Eurobond, strumenti di debito comune. Tra giovedì e ieri il parlamento tedesco ha ratificato il provvedimento che consente di alzare il tetto delle risorse proprie del bilancio Ue: il Bundestag lo ha fatto con una maggioranza schiacciante (75%), il Bundesrat all'unanimità. Si tratta di un passaggio fondamentale per consentire alla Commissione europea di emettere i titoli di debito necessari per finanziare i piani di ripresa nazionali. Bruxelles potrà andare sui mercati soltanto quando tutti i 27 Paesi avranno dato il loro via libera. Ma l'iter tedesco si è fermato proprio un attimo prima della firma del presidente Frank-Walter Steinmeier sul testo legislativo: il capo dello Stato ha ricevuto una comunicazione della Corte Costituzionale che gli ha imposto di congelare l'adozione del provvedimento. È proprio il principio della condivisione del debito, obiettivo da perseguire a livello europeo secondo Mario Draghi, che è alla base del ricorso presentato da un'associazione di cittadini alla Corte di Karlsruhe. I giudici lo hanno ammesso e così, in attesa di un pronunciamento, Steinmeier non potrà dare il via libera alla ratifica. Si tratta di un ricorso d'urgenza, ma non è stata definita una tempistica per il verdetto: la vicenda potrebbe protrarsi per 2-3 mesi. Un lasso di tempo che rischia di far slittare l'entrata in vigore del Next Generation EU e dunque l'arrivo dei primi fondi destinati all'Italia: Roma punta a ottenere circa 80 miliardi di sussidi dall'Unione e fino a 120 miliardi di prestiti. Un anticipo del 13% è atteso per l'estate. Il gruppo dei ricorrenti è guidato dal "Bündnis Bürgerwille", associazione anti-euro legata a Bernd Lucke, l'economista fondatore del partito di estrema destra Alternative für Deutschland. Non sono bastate le rassicurazioni di Angela Merkel, che in più occasioni aveva ripetuto che il Recovery è uno strumento "una tantum" e non un primo passo verso la condivisione del debito. Secondo i ricorrenti il piano di aiuti viola i Trattati Ue perché di fatto apre la strada al debito comune. Olaf Scholz, ministro delle Finanze, si è detto fiducioso che la vicenda si chiuderà in tempi brevi. Anche la Commissione europea non teme sgambetti ed è certa che la Corte tedesca deciderà rapidamente. Un portavoce ha sottolineato che «la legittima della decisione sulle risorse proprie non è stata messa in discussione». Per Bruxelles resta l'obiettivo di completare l'iter delle ratifiche in tutti i 27 Paesi entro la fine di giugno. Al di là della vicenda tedesca, il percorso non è privo di insidie. Al momento sono solo 16 gli Stati che hanno già adottato il provvedimento e qualche governo potrebbe sfruttare questo passaggio per fini politici. C'è per esempio il timore che la Polonia lo usi come arma di ricatto per ottenere il via libera ai progetti contenuti nel proprio piano nazionale, in particolar modo sul dossier ambientale. Idem l'Ungheria, che contesta le condizionalità sullo Stato di diritto. Negli ultimi giorni sono stati invece gli austriaci a ventilare uno stop della ratifica nel caso in cui gli altri governi non concedessero a Sebastian Kurz una diversa distribuzione delle dosi dei vaccini.

Uski Audino per “La Stampa” il 27 marzo 2021. La Corte di Karlsruhe torna il cuore ribelle della politica tedesca. Nell'anno che trascinerà la Germania a scegliere il corso del dopo Merkel è anche il termometro per misurare le mosse delle componenti della galassia politica tedesca. Non è un caso che - come già in passato per la vicenda del Quantitative easing - a sollevare la questione siano le frange più conservatrici della Germania. Che hanno impedito così che il presidente della Repubblica federale Frank-Walter Steinmeier potesse mettere la sua firma sulla legge sulle risorse proprie della Ue, votata giovedì con una maggioranza di due terzi al Bundestag (478 voti a favore, contro 95 contrari) e passata ieri addirittura all'unanimità al Bundesrat (Consiglio dei Länder). La ragione dello stop è un ricorso d'urgenza presentato da «Bündnis Bürgerwille» (Alleanza per la volontà dei cittadini), una piccola organizzazione di circa 2.000 persone, guidata dal fondatore di AfD Bernd Lucke, poi uscito dal partito. Ma che incarna ancora lo spirito anti-debito comune europeo che alberga in molte correnti del conservatorismo tedesco, sia quello marcato Cdu sia quello di stampo bavarese. Già poco meno di un anno fa i giudici costituzionali avevano contestato la proporzionalità del programma della Banca Centrale europea relativo all'acquisto di titoli di Stato, meglio noto come Quantitative easing, e avevano criticato il giudizio della Corte di giustizia europea del 2018. Quegli atti allora avevano trovato non solo il consenso della destra di AfD, ma anche della parte più conservatrice della Cdu, dall'ala economica di Friedrich Merz all'ex Ministro delle Finanze e ora presidente del Bundestag Wolfgang Schaueble. Nella pancia della Cdu-Csu c'è una resistenza mai sopita contro la cosiddetta «comunitarizzazione del debito», e il timore che i debiti altrui poi resti a pagarli la sola Germania. Già sulla vicenda del Fondo salva-stati alla fine la palla era stata buttata nel campo della Corte di Karlsruhe. E oggi si torna al punto di partenza con gli schieramenti divisi proprio sul debito comune con gli alleati di Bruxelles. Non una decisione di poco conto alla luce non solo delle elezioni di settembre ma anche nell'ambito di un Recovery Fund che ha abbozzato concretamente in luglio l'idea di emissione di simil-bond europei. Secondo fonti diplomatiche la scelta di Karlsruhe è poco più di una decisione tecnica «dovuta». In caso di presentazione di un ricorso non palesemente infondato, la Corte deve prendersi il tempo necessario per verificarlo. La «Frankfuerter Allgemeine Zeitung» presenta invece un retroscena dai contorni più complessi. In casi come questi, la prassi vuole che i giudici e il presidente della Repubblica si sentano a voce in modo informale per chiarire e magari dare alla Corte il tempo necessario per verificare gli estremi del ricorso prima di passare alla ratifica. Stavolta, è andata diversamente: la telefonata c'è stata, riferisce l'ufficio di presidenza ma l'accordo non è stato raggiunto. Perché? Steinmeier e la Corte non erano d'accordo e il presidente voleva firmare comunque o invece si è voluto evitare che la pressione di una decisione in presenza di un ricorso ricadesse solo sulla testa presidente della Repubblica? L'interpretazione è aperta.

70 anni fa partiva il Piano Marshall: ci rese liberi… o schiavi dell’America? Il Secolo d'Italia lunedì 2 Aprile 2021. Il 2 aprile 1948 gli Stati Uniti vararono il celebre European Recovery Program, da noi meglio conosciuto come Piano Marshall, dal nome del suo ideatore, il segretario di Stato americano del presidente Henry Truman. Fu infatti George C. Marshall, già generale dell’esercito e poi segretario di Stato, che progettò e portò a termine il Piano di aiuti all’Europa, devastata da una lunghissima guerra. Alla fine della Seconda guerra mondiale, gran parte dell’Europa fu distrutta. I bombardamenti aerei alleati durante la guerra avevano gravemente danneggiato la maggior parte delle grandi città e le strutture industriali erano particolarmente colpite. I flussi commerciali della regione erano stati completamente distrutti; milioni di persone erano in campi profughi che vivevano di aiuti di varie organizzazioni internazionali. La scarsità di cibo era grave, specialmente durante l’inverno rigido del 1946-47. Dal luglio 1945 al giugno 1946, gli Stati Uniti spedirono 16,5 milioni di tonnellate di cibo, principalmente grano, in Europa e anche in Giappone. Ammontava a un sesto del cibo americano totale. Particolarmente danneggiate erano le infrastrutture di trasporto, poiché ferrovie, ponti e banchine erano stati specificamente presi di mira da attacchi aerei anglo-americani, mentre molte navi mercantili erano affondate. Anche se la maggior parte delle piccole città e villaggi non aveva subito molti danni, la distruzione dei trasporti li lasciò economicamente isolati. Nessuno di questi problemi poteva essere facilmente risolto, poiché la maggior parte delle nazioni impegnate nella guerra aveva esaurito le loro risorse. Le uniche grandi potenze la cui infrastruttura non era stata danneggiata nella seconda guerra mondiale furono gli Stati Uniti e il Canada. Erano molto più ricchi di prima della guerra, ma le esportazioni erano un piccolo dato nella loro economia. Gran parte degli aiuti del Piano Marshall sarebbero stati utilizzati dagli europei per acquistare beni manufatti e materie prime dagli Stati Uniti e dal Canada.

Gli Usa misero 110 miliardi di dollari odierni. Il Piano Marshall (ufficialmente Programma europeo di recupero, ERP) fu quindi un’iniziativa unilaterale americana per aiutare l’Europa occidentale, nella quale gli Usa misero oltre 13 miliardi di dollari di allora (quasi 110 miliardi di dollari del 2016). Si trattava di un programma di assistenza per aiutare ricostruire le economie dell’Europa occidentale dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Gli obiettivi degli Stati Uniti erano di ricostruire materialmente le zone distrutte dalla guerra, ma anche quello di rimuovere le barriere commerciali, modernizzare l’industria, migliorare la prosperità europea e anche prevenire la diffusione del comunismo. Il Piano Marshall infatti per essere attuato richiedeva una riduzione delle barriere doganali tra gli Stati, una diminuzione di molte normative, incoraggiando un aumento della produttività, l’appartenenza ai sindacati e l’adozione di procedure commerciali più moderne e veloci. Insomma, gli Usa volevano sì aiutarci e risuscitare dalle macerie della guerra, ma anche creare un sistema capitalista e consumista che avrebbe fatto dell’Europa un affidabile partner commerciale a cui vendere i prodotti made in usa. Ma anche l’inverso. Il Piano ebbe il sostegno bipartisan di democratici e repubblicani. Gli aiuti erano diretti in massima parte alle nazioni alleate, quindi Regno Unito e Francia, ma anche alle nazioni dell’Asse, come l’Italia, e a quelle che erano rimaste neutrali ma erano state coinvolte nel conflitto. Il maggior beneficiario del denaro del Piano Marshall fu il Regno Unito (che ricevette circa il 26% del totale), seguito da Francia (18%) e Germania Ovest (11%). In tutto 18 Paesi europei ebbero benefici dal piano. L’Unione Sovietica tuttavia, pur essendo stata invitata, rifiutò i benefici del Piano e bloccò anche i l’adesione dei Paesi satelliti del blocco orientale, come l’Ungheria e la Polonia, che pure erano state colpite duramente dalla guerra.

Pareri contrastanti sull’efficacia del Piano. Tuttavia, il ruolo del Piano Marshall nella ripresa rapida dell’Europa è stato discusso. La maggior parte degli storici rifiuta l’idea che la ripresa europea si dovette al Piano, poiché una ripresa generale era già in corso. La stessa, successiva, contabilità del piano Marshall mostra che gli aiuti rappresentarono meno del 3% del reddito nazionale combinato dei Paesi beneficiari tra il 1948 e il 1951, il che significa un aumento della crescita del Pil di appena lo 0,3%. Per gli economisti americani Bradford DeLong e Barry Eichengreen il piano Marshall ha però svolto un ruolo importante nel preparare il terreno per la rapida crescita dell’Europa occidentale del secondo dopoguerra. Le condizioni allegate all’aiuto del Piano Marshall hanno spinto l’economia politica europea in una direzione che ha lasciato le economie miste post Seconda Guerra Mondiale con più mercato e meno controlli. Certamente fu di impulso almeno psicologico per le fragili democrazie occidentali sapere di poter contare su un aiuto concreto, anche se poi non fu così massiccio come si crede. In realtà ciò che contò furono gli effetti economici indiretti, in particolare nell’attuazione delle politiche liberali capitalistiche, e gli effetti politici, in particolare l’ideale dell’integrazione europea e delle partnership governative-commerciali, queste furono le principali ragioni della crescita insuperata dell’Europa. Come si accennava, per combattere gli effetti del Piano Marshall, anche l’Urss sviluppò il suo piano economico, noto come Piano Molotov, che pompò grandi quantità di risorse ai Paesi del blocco orientale dall’Urss. Lo stesso segretario Marshall si convinse a un certo punto che Stalin non aveva alcun interesse a contribuire al ripristino della salute economica nell’Europa occidentale.

Nel 1945 c’erano 5 milioni di case distrutte e 12 milioni di profughi. In ogni caso, nel 1952, alla fine del finanziamento, l’economia di ogni Stato partecipante aveva superato i livelli prebellici; per tutti i beneficiari del piano Marshall, la produzione nel 1951 era superiore almeno del 35% rispetto al 1938. Nei successivi due decenni, l’Europa occidentale ha goduto di una crescita e prosperità senza precedenti, ma gli economisti non sono sicuri di quale proporzione fosse dovuta direttamente al Piano Marshall, quale percentuale indirettamente e quanto sarebbe accaduta senza di essa. Quello che è certo è che il Piano contribuì a dare un nuovo impulso alla ricostruzione nell’Europa occidentale e un contributo decisivo al rinnovo del sistema dei trasporti, alla modernizzazione delle attrezzature industriali e agricole, alla ripresa della normale produzione, all’aumento della produttività e alla facilitazione degli scambi intraeuropei. In Germania, nel 1945-46, le condizioni abitative e alimentari erano pessime, poiché l’interruzione dei trasporti, dei mercati e delle finanze rallentava il ritorno alla normalità. In Occidente, i bombardamenti avevano distrutto cinque milioni di case e appartamenti e c’erano dodici milioni di rifugiati provenienti da est. Il Piano Marshall era stato programmato per terminare alla fine del 1953. Ogni sforzo per estenderlo fu fermato dal costo crescente della Guerra di Corea frattanto scoppiata e del riarmo. Repubblicani americani ostili al Piano avevano anche ottenuto parecchi seggi nelle elezioni del Congresso del 1950, e l’opposizione conservatrice al Piano fu quindi ripresa. Così il Piano si concluse nel 1951, sebbene varie altre forme di aiuti americani all’Europa continuarono anche negli anni successivi.

Il Piano certamente ridusse l’influenza comunista. Gli effetti politici del Piano Marshall potrebbero essere stati altrettanto importanti di quelli economici. Gli aiuti del Piano Marshall permisero alle nazioni dell’Europa occidentale di allentare le misure di austerità e il razionamento, riducendo il malcontento e portando stabilità politica. L’influenza comunista sull’Europa occidentale fu notevolmente ridotta, e in tutta Europa i partiti comunisti calarono in popolarità negli anni successivi al Piano Marshall. Le relazioni commerciali promosse dal Piano Marshall contribuirono a forgiare l’alleanza del Nord Atlantico che persisterà durante la Guerra Fredda nella forma della Nato. Il Piano Marshall ha svolto anche un ruolo importante nell’integrazione europea. Sia gli americani che molti dei leader europei hanno ritenuto che l’integrazione europea fosse necessaria per assicurare la pace e la prosperità dell’Europa, e quindi hanno usato le linee guida del Piano Marshall per favorire l’integrazione. Il Piano, collegato al sistema di Bretton Woods, ha anche imposto il libero commercio in tutto il continente. La domanda rimane: fu disinteressato altruismo o strategia per legare definitivamente l’Europa agli Stati Uniti?

Dal Piano Marshall Al Recovery Fund: La Storia Si Ripete. Tutto Al Nord? Pasquale Cataneo e Paolo Mandoliti, *Commissione Nazionale GdST “Economia e Sviluppo” M24A-ET, su Movimento24agosto.it l'08/08/2020. L’assalto alla diligenza di soldi internazionali a costo bassissimo (praticamente nullo) è ripartito. Il partito unico del nord, quello che governa l’Italia da 160 anni (dall’Unità ad oggi) formato non solo da politici, ma anche, e soprattutto, dai potentati economici e non che tengono i politic(ant)i dagli attributi, stavolta hanno puntato i 209 miliardi delle risorse del Recovery Fund (RF) che l’Europa ha destinato tramite accodo all’Italia in base all’applicazione di tre diversi criteri (popolazione, inverso del PIL pro-capite e media della disoccupazione degli ultimi 5 anni).
Simulando l’applicazione solo del criterio della popolazione al nostro Paese sarebbe stato destinato poco più del 13%, invece, per le finalità precipue del RF applicando anche gli altri due criteri previsti all’Italia è destinato circa il 27,8% di quel montante. Ciò dovuto in modo chiaro e indiscusso per due ragioni:

1) l’Italia è il Paese nei 27UE che registra il maggior differenziale interno tra abitanti delle sue regioni in termini di reddito pro-capite (es. PIL per abitante 2018 Provincia Autonoma Bolzano 47.000 € ed in Calabria 17.000 €). In modo speculare le disuguaglianze si riflettono anche nella spesa per consumi finali delle famiglie per abitante (figura 2);

2) i tassi di disoccupazione (Istat, 2020h) altrettanto differenziati (Nord 6,1%) a discapito nuovamente del Mezzogiorno (17,6%) che risulta avere quindi un tasso di disoccupazione quasi triplo rispetto al Nord, dal 2014, con il divario più ampio e realmente costante (figura 1.3).

Emerge pertanto che le risorse così consistenti per l’Italia non sono scaturite dal dato popolazione ma dai due indicatori relativi all’inverso del reddito pro-capite ed alla media di disoccupazione. Lo affermiamo con fermezza: il dato è derivante, anche se non esclusivamente, in base alla grave situazione socio-economica del Mezzogiorno. In base alle finalità proprie dell’accordo sul RF, sottoscritto anche dall’Italia, quindi una fetta consistente di queste risorse devono servire per colmare il gap (infrastrutturale, economico, sociale) tra il Mezzogiorno e la restante parte del Paese nel contesto delle Politiche di Coesione UE. Noi come Movimento 24 Agosto per l’Equità Territoriale, abbiamo quantificato queste risorse in 145 miliardi di euro (seguendo i criteri di ripartizione che l’Europa ha utilizzato per dividere gli 800 e passa miliardi tra i vari Paesi). In un apposito documento abbiamo esplicitato tale nostra previsione, con resoconto, inviata ai competenti livelli istituzionali italiani. (qui il documento completo Recovery Fund) Purtroppo non abbiamo ricevuto alcun riscontro. Così come ci pare anche per i continui richiami che diversi organi sovranazionali hanno fatto all’Italia. Rammentiamo quello di Marc Lamaitre, Direttore delle Politiche regionali UE, che ha dichiarato con una nota al Governo italiano, lo scorso ottobre, di dover rivedere al ribasso, in sede di rendiconto della programmazione 2014-2020, le risorse assegnate all’Italia se la stessa non avesse provveduto a colmare il gap di investimenti al Mezzogiorno derivanti dall’assenza delle risorse italiane in spregio al principio comunitario di addizionalità. Oppure quello di Fabio Panetta, della Banca Centrale Europea, che ha sottolineato di non riuscire ad immaginare uno sviluppo equilibrato, in un’economia nazionale, all’interno della quale un terzo della popolazione ha un PIL pro-capite inferiore di quasi la metà rispetto alla restante parte del Paese. Infine il Consiglio Europeo, con il suo Presidente, ed il Fondo Monetario Internazionale tutti a chiedere la stessa cosa, ovvero: la crescita deve ripartire da SUD! E proprio mentre gli Organismi internazionali convergono con la stessa esplicita richiesta, che aiuterebbe la crescita complessiva dell’intero sistema Paese, da Sud al Nord e quindi anche per le imprese settentrionali, come dovrebbero sapere anche i rappresentanti del partito unico del nord, sono fortemente interdipendenti (diciamo pure dipendenti) dal Mezzogiorno per la fornitura di beni e servizi. Un mercato interno pari ad 88 miliardi all’anno (che crescerebbe ulteriormente se il Mezzogiorno iniziasse a innescare politiche di sviluppo reale anche con le risorse del RF), che il Nord potrebbe invece perdere, nel caso in cui il Mezzogiorno chiudesse la borsa e si rivolgesse altrove ad esempio per i propri consumi. E’ evidente, purtroppo per loro (i componenti del partito unico del nord), che nonostante i nostri reiterati avvisi, richiami, rilievi stiano continuando imperterriti a dimostrarsi sordi alle sollecitazioni che gli provengono da più parti. La verità, con sempre maggiore rilevanza e consapevolezza, viene a galla su come loro (i componenti del partito unico del nord), siano fagocitatori di risorse pubbliche (denigrando il Mezzogiorno di essere assistito) quando, invece, con verifiche puntuali effettuate da noi e da Eurispes con tanto di certificazione del dato da parte dei CPT, è emerso che circa 840 miliardi, in poco più di 17 anni, sono stati sottratti al Mezzogiorno per sostenere la spesa pubblica del Nord senza avere crescita!

Fagocitatori e predoni lo sono sempre stati. Lo sono da 160 anni! Da quando, con l’unità d’Italia organizzata per salvare una classe regnante dalla bancarotta (con gli inglesi, i francesi, i Rotschild che non sono stati a guardare in quanto avrebbero perso i loro investimenti nel debito pubblico piemontese. in quel tempo. pari a circa 2 miliardi di lire del 1861) i primi governi (liberisti e protezionisti) sono stati, a seconda della convenienza, gli esecutori del “prendetegli tutto, non lasciategli nulla” e così hanno fatto, non lasciando al Mezzogiorno nemmeno “le lacrime per piangere” come aveva facilmente predetto Francesco II lasciando Napoli. Loro (i componenti del partito unico del nord) lo sono stati anche durante il regime fascista, quando qualche bonifica venne fatta passare “per un passo enorme verso la vera unità del paese”, in cui si negava addirittura l’esistenza della “questione meridionale”. Sempre loro (con in testa l'allora capo del Governo) lo sono stati finanche quando gli Stati Uniti mandarono una vastità di denaro per riparare i danni della guerra e rilanciare il Paese inserito nel cd Patto Atlantico. Già, il Paese. I maggiori danni sia in termini di vite umane che materiali li aveva subiti nel Mezzogiorno, con le operazioni militari ed i bombardamenti della cd Campagna d’Italia, che distrusse infrastrutture belliche e logistiche ma anche molti edifici civili di molte città martoriate (Palermo, Messina, Salerno, Napoli, Foggia) sia dal punto vista urbanistico ma, e soprattutto, in termini di vite umane spezzate con migliaia e migliaia di civili massacrati. Anche su questo c’è stata mistificazione della realtà. Due esempi tristemente accomunati: Napoli, subì circa 200 incursioni aeree e Foggia, una decina. Entrambe le due città ebbero gravissimi danni ed oltre 40.000 civili deceduti nell’estate del 1943. Per Foggia, in particolare, alla devastazione totale si associò la perdita di circa un terzo dell’intera popolazione di allora. Ebbene, anche in questo caso, vi fu una “sottrazione”. Infatti secondo l’Istituto Centrale di statistica, nel rapporto “Morti e dispersi per cause belliche negli anni 1940-45”, pubblicato nel 1957, i civili deceduti in Italia sarebbero 18919, un numero inferiore alle 20289 vittime della sola città di Foggia che si raddoppiano con quelle di Napoli. A queste oltre 40.000 vittime si aggiungono tutti gli altri civili deceduti nelle altre città meridionali già citate e Roma! Direte e cosa c'entra? Purtroppo c’è chi ha nel passato “manipolato” e vuole, da prenditore rapace di risorse, “manipolare” anche oggi la realtà, anche quando è così tragica ed ha prodotto vittime innocenti. Lo ha già fatto già nel secondo dopoguerra producendo la “sottrazione” di vittime civili e di danni di guerra nel Mezzogiorno, sostenendo una iniqua e ingiusta distribuzione di risorse economiche per proteggere la ripresa del sistema socio economico del Nord, salvaguardato dai danni dei bombardamenti e con un numero di vittime civili, ugualmente da rispettare, ma di molto inferiore rispetto a città sterminate come Foggia.

Come si concretizzò questa “manipolazione” allora? Presto chiarito: l’87% delle risorse dell’ERP (acronimo del European Recovery Plan, conosciuto ai più come Piano Marshall) finì alle industrie e nelle regioni del nord (Fiat, Ansaldo, Edison, ILVA, Piaggio, Alfa Romeo, Riva, Innocenti, Salmoiraghi, RAI, ecc.), sotto forma di prestiti che poi gli Stati Uniti rinunciarono a riscuotere. Cosa giunse alle regioni ed agli abitanti del Mezzogiorno? In totale il residuo 13%! All’intera Puglia che aveva avuto, oltre a Foggia città più martoriata, anche altre che ebbero danni materiali e vittime rilevanti giunse lo 0,13% (e NON CI SIAMO SBAGLIATI!!!). Una carognata che, dopo la denuncia di don Luigi Sturzo, venne parzialmente ripagata dalla concessione di istituire la Cassa per il Mezzogiorno. Un palliativo temporaneo (gli effetti benefici si sono visti soltanto nei primi anni di vita della Cassa, ed una certa convergenza tra i redditi pro-capite delle due aree nord e sud, e gli effetti benefici li videro anche gli industriali del nord che, grazie appunto all’interdipendenza tra le due aree, ebbero una crescita che non videro più). Dopo aver versato il sangue di tantissimi soldati meridionali, sul confine nord-orientale, per difendere l’Italia nel primo conflitto mondiale, poco o nulla giunse al Mezzogiorno. Cosa successe? Continuò l’emigrazione verso altri Continenti. Dopo la seconda guerra mondiale con i danni e le vittime più rilevanti nel Mezzogiorno ancora una volta poco o nulla giunse nelle regioni meridionali. Un'altra emigrazione, questa volta Europea e Sud-Nord (nelle fabbriche accresciute con l’ERP). La terza è avvenuta dal 2005 ad oggi hanno lasciato il Mezzogiorno, oltre 2 milioni di giovani e meno giovani. Per lo stesso motivo di fondo: Prima e solo il resto del Paese. Ed oggi sono circa 5 milioni gli italiani che sono iscritti all’AIRE, fuori dal Paese. Il resto della storia è contemporaneo: i predatori nord-centrici hanno continuato a fagocitare risorse su risorse trovando gli escamotage più “creativi” per rubare risorse al Mezzogiorno e far aumentare l’emigrazione. Che dire delle variabili “dummy” attraverso cui sono stati sottratti parte dei 840 miliardi di euro in 17 anni unitamente al mancato rispetto del dettato della L. 42/2009? Hanno fatto riunioni e “secretato” gli atti per non dar corso alla corretta applicazione della legge visti i risultati delle derivanti proiezioni economiche. Le ultime riprove del modus operandi dei prenditori del partito unico del nord riguardano i criteri utilizzati, in questi giorni, per ripartire le risorse a favore delle attività dei centri storici delle città turistiche (premiata Verbania, sconosciuto paesino sulle sponde del lago Maggiore, penalizzata Matera, capitale della cultura 2020), o ancora quelli utilizzati per rifare il parco autobus delle città italiane (solo Avellino presente come rappresentante del Mezzogiorno). Oggi, c’è chi vuole “usare” le vittime da Covid 19. Il commissario all'emergenza dichiarava il 18 aprile 2020 “Tra l’11 giugno 1940 e il 1° maggio 1945 a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2000 civili (1/10 di Foggia e di Napoli!) in 5 anni (in 5 mesi!) in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più”. Purtroppo i numeri, da allora in Lombardia e nel resto del Paese sono cresciuti ancora e di molto e di questo noi di M24A-ET siamo addolorati e vicini alle famiglie e alla popolazione lombarda, così fortemente colpita, ed a tutte le altre. Non riteniamo però che i “civili deceduti” siano da utilizzare strumentalmente, dai prenditori (i componenti del partito unico del nord), per agguantare altre risorse economiche e far andare nel dimenticatoio le responsabilità di chi non ha avuto le capacità guidare e indirizzare il sistema sanitario regionale fortemente incentrato sulla sanità privata e con una non adeguata assistenza sanitaria territoriale avvenuto soprattutto in Lombardia. Quelli del partito unico del nord invece di porre rimedio alle probabili falle registrate nel sistema sanitario nazionale e regionale sullo stato di attuazione della Decisione n. 1082/2013/UE relativa alle gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero, in vigore dal 6 novembre 2013, per le proprie relative reciproche competenze, come hanno fatto per l’ERP (Piano Marshall) vorrebbero fagocitare pure le risorse del Recovery Fund, destinate all’Italia perché il Mezzogiorno ha bassi livelli di reddito pro-capite e alto tasso di disoccupazione. Loro, però, stavolta, non hanno fatto i conti con chi davvero non ha più lacrime per piangere ma che ha tanta voglia di non emigrare e di vivere, qui, in un Paese migliore. Questa battaglia non la faremo solo nelle istituzioni italiane per non lasciare alcun alibi a chi è rappresentante del partito unico del nord, ma anche ai loro complici, gli ascari quando non sono organici. Andremo anche a pugnare nelle istituzioni che quelle risorse le hanno assegnate con determinate finalità (Parlamento Europeo, Consiglio Europeo, Direzione Generale Affari Regionali dell’UE, Corte di Giustizia). E chiederemo, estrema ratio, di non darcele, perché, forse è meglio non lasciare ai nostri figli e nipoti ulteriori debiti che vedere i fondi destinati dalle Politiche di Coesione UE al Mezzogiorno utilizzate impropriamente dai soliti predatori autoctoni a vantaggio loro e del resto del Paese come finora avvenuto. BASTA.

GLI ERPIVORI: NEL1948 DE GASPERI DIROTTO’ I FONDI DEL PIANO MARSHALL AL NORD. NEL 2020 CONTE LO EGUAGLIERA’? Annamaria Pisapia su Altaterradilavoro.com il 9 Agosto 2020. Lo stupore è stata la prima reazione dei lombardi, e di molti seguaci adoratori del nordicpensiero: belli, bravi, integerrimi, ligi (e vennero a liberarci non ce lo vogliamo mettere?) sul perché proprio quest’area sia stata la più colpita dal coronavirus, piuttosto che una del Sud. Non un moto di vergogna sulla serie incredibile di errori, dettati dalla presunzione di essere favoriti sempre e comunque ( ne hanno mai avuta di fronte ai più grandi scandali della storia del paese avvenuti proprio al nord?). Nessuna mea culpa né da chi ha gestito l’emergenza, da Fontana, al sindaco Sala (Milano non si ferma il suo leit motiv, a cui prontamente rispose l’entusiasta segretario del pd Zingaretti e il sindaco di Bergamo Gori) all’assessore Gallera, né dagli “illustri” luminari Burioni, Galli che, pur sbagliando qualunque previsione continuano a deliziarci con le loro elucubrazioni saltellando da un programma televisivo all’altro, contando sul favore dei media di regime che fanno a gara per riportarli in vetta. Nessuna traccia della figura meschina riportata, nei confronti del resto d’Italia per averci trascinati in un incubo senza fine. Ma nessuna traccia, ahimè, neanche del prof Ascierto (scopritore dell’efficacia del Tocilizumab sugli effetti nefasti del coronavirus) oscurato dai media al punto che la scoperta sembra quasi non essere ancora avvenuta. Ma Il Tg2 e il tgLeonardo si spingono anche oltre e a distanza di oltre un mese dalla scoperta di Ascierto( la cui terapia è nota e applicata in tutto il mondo) presentano servizi dall’ospedale di Padova e di Brescia come “primi” ad aver sperimentato il Tocilizumab, senza menzionare affatto il prof napoletano quale autore della scoperta. Insomma, sembra proprio che i dirigenti sanitari del nord vaghino in un’altra galassia e con loro tutta la classe dirigente politico-amministrativa della Lombardia che, presi da delirio di “superiorità” non si preoccupano affatto di azionare il cervello e, sperando di farla franca come sempre, sparano cavolate ad libitum: “La Lombardia ha salvato il Sud dal contagio coronavirus”, dice Gallera che deve aver rimosso come hanno gestito l’emergenza e come lo abbiano fatto al Sud. Insomma, un lavoro immane per ripristinare l’immagine di un nord efficiente e ricco, a cui non si sottrae neanche Conte che, come il padre di un rampollo a cui tutto si perdona e tutto si elargisce, promette di prendersi cura in special modo proprio di quel suo figlio preferito che definisce come “ nord,motore propulsivo”. Non intravvede alcuna stonatura nel riconoscere al nord il ruolo di comando, ed è pronto a riconfermarlo. Eppure l’unica area su cui sarebbe logico investire per ripartire è il Sud con contagi vicini allo zero. Sembrano le scene di un film già visto: quelle della fine della II guerra mondiale. Era il 1947 quando l’America annunciò l’avvio del Piano Marshall per la ricostruzione post bellica dell’Europa. Il piano prevedeva l’impiego dei fondi ERP (european recovery program) nelle aree maggiormente devastate e, per l’Italia, il Sud era quella maggiormente danneggiata pur uscendo due anni prima del nord dall’evento bellico. Ma Il Capo del Governo, il trentino Alcide De Gasperi, non intese ragioni e mise in piedi un piano ben congegnato: dirottamento dei fondi in favore degli imprenditori del nord, dando la possibilità all’industria di quell’area di rimettersi in piedi, e reclutamento di manovalanza a basso costo dal Sud che, data la profonda miseria in cui versava,in seguito alla devastazione bellica del suo territorio, non era difficile da reperire. Molti provarono a ribellarsi a questa politica scellerata e predatrice, che vedeva assegnare quasi l’87% di quei fondi al nord e il restante al sud, tra questi Don Luigi Sturzo che su “Il Popolo” del 25 luglio 1948 si scagliò contro gli industriali del nord definendoli “erpivori” ( consumatori parassiti di fondi erp). Don Sturzo, in qualità di presidente del “Comitato permanente per il Mezzogiorno”, si battè affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno. In questo fu appoggiato anche dal ministro dell’agricoltura Segni, il quale in una lettera a Don Sturzo del 22 luglio 1948 esprimeva tutto il suo rammarico: ” a poco a poco, industria e nord stanno tentando di accaparrarsi tutto. Io negozio, sino alle estreme conseguenze ma la lotta è impari, solo, coll’ottimo Ronchi: contro quasi tutti gli altri” (als 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Al Sud arrivò il 13% di quei fondi ( briciole) che non riuscirono a risollevare le sorti del Sud. Il pil del nord fece un balzo in avanti registrando un +22%, (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) al Sud diminuì al 10% . Don Sturzo dovette difendere con i denti anche le briciole, contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. Con grande “magnanimità” nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l’esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall e con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , venne istituita “La Cassa per il Mezzogiorno” (soldi che servivano a sopperire in parte alla sottrazione dei fondi erp del Piano Marshall al Sud). L’annuncio di un aiuto per il mezzogiorno fu fatto a suon di grancassa ( “quanto è buono lei”, di fantozziana memoria), mentre in devoto silenzio se n’erano andati al nord i fondi erp. La prepotenza del nord fece sì che i fondi erp risultassero un risarcimento loro dovuto , mentre la “Cassa per il Mezzogiorno” un’elemosina di cui essere grati. Il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Mezzogiorno, Il fato ci ha riproposto uno scenario simile a quello del 1948 di cui potremo cambiare il finale. Diversamente Il Sud sarà costretto a una morte definitiva e neanche indolore, data dalla scarnificazione delle ossa della nostra gente. Annamaria Pisapia

Sud mobilitato: lo «scippo» del Recovery non passerà. L’Europa ha detto che bisogna attivare la locomotiva del Sud, ma l’Italia punta sempre sulla locomotiva del Nord che non la fa crescere da vent’anni. Lino Patruno il 18 Dicembre 2020 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Non deve passare. Non può passare. Il Sud si sta mobilitando per non far passare la rapina del secolo ai suoi danni. L’Europa ha detto che il 70 per cento del Recovery fund deve andare al Sud, ma il governo lo dà al Nord. L’Europa ha detto che scopo principale dell’intervento è ridurre il divario territoriale, ma col 34 per cento che si vuole dare al Sud quel divario aumenta. L’Europa ha detto che bisogna attivare la locomotiva del Sud, ma l’Italia punta sempre sulla locomotiva del Nord che non la fa crescere da vent’anni. L’Europa ha detto che si può costruire al Sud un’economia moderna, verde e digitale, ma si insiste invece su un Nord che è tutto il contrario. Il presidente della Campania, De Luca, si è detto pronto a lanciare una sommossa istituzionale. Immediata l’adesione del presidente della Basilicata, Bardi. E vertice oggi con gli altri presidenti delle Regioni del Sud. Intanto l’Europa vigila. Ma altre voci si sono alzate. Per primo il Movimento per l’equità territoriale (società civile) ha scritto una lettera alla presidente europea Von der Leyen. Vi si chiede di non far arrivare in Italia un euro del Recovery se la sua distribuzione ampliasse il divario fra Nord e Sud. Il costituzionalista Cesare Mirabelli ha invitato le Regioni del Sud a rivolgersi alla Corte Costituzionale perché è la Costituzione a stabilire l’obbligo del Paese a rimuovere tutto ciò che crea ricchi e poveri. Un Manifesto in tal senso è stato diramato dall’Alleanza degli Istituti meridionali. Ma anche il Parlamento non è fermo. Anzitutto con una raccolta di firme fra tutti i partiti. Dopo che le stesse Commissioni competenti di Senato e Camera avevano raccomandato che si andasse oltre quel 34 per cento. Il Senato: «I fabbisogni per le infrastrutture fisiche e sociali del Sud sono ben superiori alla misura del 34 per cento». La Camera: è auspicabile che le risorse per il Sud siano maggiori del 34 per cento «considerato il più alto moltiplicatore della spesa di investimento al Sud», perché «ne beneficerebbe l’intero territorio nazionale». Lo ha spiegato il presidente della Svimez, Giannola. Ogni euro pubblico investito al Sud, porta un beneficio di un euro e 30 all’intero Paese. E di questo euro e 30, il 25 per cento (cioè 0,30 euro) va al Nord. Del resto la stessa Commissione europea ha più volte spiegato che mai all’Italia sarebbero stati assegnati 209 miliardi se non ci fosse stato il Sud. E 209 miliardi (oltre il 30 per cento del totale) sono la massima cifra conferita a un Paese membro (alla Germania 22, alla Francia 100, alla Spagna 140). Un Sud verso il quale l’allarmata attenzione europea si deve al fatto che sia ancòra mantenuto come la più grande (e inammissibile) area di ritardato sviluppo nell’Unione. E il 70 per cento dei 209 miliardi si devono non solo alla sua popolazione (il 34 per cento), ma anche al suo più alto tasso di disoccupazione e al suo Pil pro-capite che è la metà di quello del Centro Nord. Frutto di una sottrazione al Sud di una spesa pubblica di 61 miliardi all’anno che vanno al resto del Paese. Frutto di un livello di investimenti al Sud che è sceso allo 0,15 per cento. Frutto di una perequazione infrastrutturale mai avviata dopo la legge del 2009 che la imponeva. Il tutto per una sottrazione al Sud di 840 miliardi in 17 anni, come ha certificato l’Eurispes. Ma non è finita. Sarà il Sud a subire le peggiori conseguenze della pandemia. La previsione è che nel 2021 il Centro Nord recuperi quasi integralmente il reddito perso rispetto al 2019, mentre al Sud addirittura aumenti. Ma non è ancora finita. Giannola denuncia un altro trucco sui miseri e illegali 68 miliardi del Recovery che si vogliono attribuire al Sud (appunto il 34 per cento). Ben 23 non sono un’aggiunta, ma derivano dal Fondo nazionale sviluppo e coesione, cioè da soldi che comunque spettavano al Sud in riparazione per tutto ciò che è fatto a suo danno. Mentre i Conti pubblici territoriali da tempo rivelano che un cittadino meridionale non vale quanto uno centrosettentrionale, visto che lo Stato spende per il primo 4 mila euro in meno rispetto all’altro. Un abitante del Sud si è già condannato nascendo. Questo del Recovery è il più grande intervento pubblico in Europa dal Piano Marshall. Già quello per l’80 per cento andò al Nord pur essendo stato deciso viste le condizioni del Sud dopo la guerra. Se dovesse andare così anche ora, se dovesse ancora essere sacrificato per consentire lo sviluppo del Nord, il Sud non esisterebbe più. Desertificato, spopolato, immiserito. Dopo una serrata campagna da parte dei poteri forti del Nord per attribuirgli tutta la colpa dei suoi mali. E allora perché dargli quanto gli spetta? Diamolo a chi finora per egoismo ha fatto diventare l’Italia la poveretta d’Europa. E quella dalla quale tutti vogliono andare via.

Michele Eugenio Di Carlo: LO SAPEVATE? I fondi del piano Marshall, vennero utilizzati da De Gasperi per l'87% al nord mentre gli Stati Uniti li avevano previsti in particolare per il Mezzogiorno molto danneggiato dai danni da guerra. Ricordate i 22 mila uccisi dai bombardamenti alleati a Foggia? Nonostante Sturzo ed altri non ci fu verso: i fondi andarono come sempre al nord. Una situazione che potrebbe ripetersi con i 209 miliardi del Recovery fund che dovrebbero essere utilizzati per il 70% per ridurre il divario del Mezzogiorno.
Terroni di Pino Aprile: BERLUSCONI INVOCA UN NUOVO PIANO MARSHALL PER IL SUD? E' PER PORTARE ALTRI SOLDI AL NORD. Di Annamaria Pisapia. Su "Il Popolo" del 25 luglio 1948, Don Luigi Sturzo si scagliò contro gli industriali del nord definendoli "erpivori", cioè consumatori parassiti di fondi ERP,(european recovery program). Gli ERP, meglio conosciuti come Piano Marshall, erano i fondi destinati dal governo americano per la ricostruzione e il rilancio delle aree maggiormente devastate dall'evento bellico della seconda guerra mondiale. Don Luigi Sturzo, in qualità di presidente del "Comitato permanente per il Mezzogiorno", si batteva affinchè gli aiuti del Piano Marshall venissero destinati in massima parte al Mezzogiorno, che era l'area maggiormente colpita, rispetto al nord, pressando i ministri in tal senso. Purtroppo il governo, presieduto da De Gasperi, ritenne di dirottarli in misura dell'87% al nord e solo del 13% al Sud favorendo il rilancio delle industrie settentrionali. Il ministro dell'agricoltura Segni inviò una lettera a Don Sturzo il 22 luglio 1948 in cui diceva: " A POCO A POCO, INDUSTRIA E NORD STANNO TENTANDO DI ACCAPARRARSI TUTTO. IO NEGOZIO, SINO ALLE ESTREME CONSEGUENZE, MA LA LOTTA E' IMPARI, SOLO, COLL'OTTIMO RONCHI; CONTRO QUASI TUTTI GLI ALTRI". (ALS 1947-59, cart. 52 fasc. 1948 Piano Marshall ERP). Era nell'idea del governo e degli industriali del nord di puntare sull'emigrazione a basso costo del Sud per il decollo dell'economia italiana(nord). Così, di 1 miliardo e trecentomilioni di dollari, al Sud arrivarono le briciole. Purtroppo anche quelle briciole Don Sturzo dovette difenderle con i denti contro la crescente avidità degli industriali settentrionali. E come era ovvio il pil di zone come il Veneto, fino ad allora povero, schizzò a +22% e al Sud diminuì del 10%. Ma con grande "magnanimità" nel 1950 il governatore Donato Menichella, dato l'esaurimento dei fondi ERP, mandò avanti una contrattazione, per protrarre la scadenza degli aiuti del Piano Marshall con il governatore della Banca Mondiale Eugene Black , per istituire "La Cassa per il Mezzogiorno". Così, mentre i soldi dei fondi ERP se ne andarono in silenzio al nord, la "Cassa per il Mezzogiorno" venne annunciata con tanto di grancassa.

Insomma, la prepotenza del nord fece in modo che i fondi ERP risultassero un risarcimento che gli era dovuto , mentre la "Cassa per il Mezzogiorno" un'elemosina di cui essere grati. Inutile dire che il parassitismo erpivoro infesta ancora il nord, che negli anni ha mutato denominazione pur conservando la modalità trasmessa dai loro avi: succhiare linfa vitale al Sud.

La mitologia del Piano Marshall. Lo «European Recovery Program» ebbe precise finalità, a cominciare dal ritorno di quella dimensione atlantica crollata con la Grande Guerra. Mauro Campus il 15 aprile 2020 su ilsole24ore.com. A qualunque latitudine, quando si verificano situazioni di emergenza, è abituale ricorrere a questo luogo comune del lessico politico: «Qui ci vorrebbe un piano Marshall». Era dunque immaginabile il ricorso alla mitologia dello European Recovery Program (Erp) anche nell’attuale situazione. Tale previsione, in sé banale, ha però superato ogni aspettativa, poiché ovunque la formula del piano americano è invocata con un’insistenza svincolata dal significato storico che ebbe quell’operazione. Anche se il generale George Marshall non ne fu né l’ispiratore né l’estensore, il piano prese il nome di quel segretario di Stato dell’amministrazione Truman, che fu anche l’organizzatore della vittoria alleata senza però aver mai calcato il campo di battaglia. Con un breve discorso molto citato – anche se pochissimo letto – pronunciato all’Università di Harvard il 5 giugno 1947 Marshall ne fu piuttosto il latore. Quel testo che riannodava la tela dell’idealismo wilsoniano e compendiava in poche righe anni di trasformazione del sistema politico statunitense è divenuto sinonimo di «intervento risolutivo e benefico per i momenti di crisi drammatica». Come chiarì la legge che lo rese effettivo – l’Economic Cooperation Act del 1948 – non si trattava di un piano generosamente elargito dal vincitore ai Paesi in macerie dopo il conflitto della Seconda guerra mondiale. Esso si triangolava su tre assi connessi e destinati ad avere un significato costituente per il sistema internazionale. Il primo era la riorganizzazione dell’Occidente e il ritorno della dimensione “atlantica” dell’interdipendenza, naufragata con la Prima guerra mondiale, cioè con il collasso della prima globalizzazione. Il secondo era il far funzionare attraverso la ricostruzione delle correnti di scambio il motore del Grand Design rooseveltiano, ossia il ventaglio di organizzazioni pensate a guerra in corso da Roosevelt (dall’Onu all’Fmi, dal Gatt alla Banca Mondiale), le quali avrebbero dato corpo all’idea di “governo del mondo” che costituiva lo sfondo di un sistema internazionale multilaterale. Il terzo era la creazione geografica di un campo economico omogeneo in funzione antisovietica: un blocco politicamente stabile proteso a combattere quella che si andava definendo come la Guerra fredda e che segnò i successivi 40 anni di vita internazionale. Le ricadute dell’attuazione del Piano furono legate all’alba della cosiddetta Pax Americana, cioè la creazione di rapporti di forza che descrivevano anche attraverso il dollar standard il dominio egemonico degli Stati Uniti su un Occidente i cui confini dilatati avrebbero coinciso con l’affermazione delle strutture del capitalismo democratico. Per essere precisi, il Piano costituì la premessa di quella trasformazione. Con la regia di Washington i Paesi dell’Europa occidentale – senza distinzione fra vinti e vincitori – si sedettero al tavolo dell’Organizzazione per la cooperazione economica europea (Oece, l’antenato dell’Ocse), nata allora per riprogrammare il sistema produttivo continentale e renderlo funzionale all’ottimizzazione dei beni e dei fondi messi a disposizione dagli Stati Uniti. Si formò lì il processo d’integrazione europea, che da allora prese una strada autonoma ma seguitò (e seguita) a riconoscersi attorno alle istanze economiche delle origini. Il Piano fu molte cose, ma il suo valore materiale derivava sostanzialmente da due fattori. Anzitutto il suo importo – circa 13,2 miliardi di dollari, pari all’1,1% del Pil americano e al 2,7 dei 16 Paesi riceventi – era finanziato con i soldi dei cittadini statunitensi, i quali furono spinti ad accettarlo sulla base di una campagna martellante nella quale si sottolineava il nesso tra la sicurezza economica della Repubblica americana e quello dell’Europa occidentale. Secondariamente esso non era composto solo da prestiti agevolati (alla cui riscossione gli Stati Uniti poi rinunciarono), ma da beni e materie prime che i 16 Paesi incamerarono gratuitamente e poterono trasfondere nel sistema produttivo attraverso aste o assegnazioni strategiche. Il ricavato delle vendite di quei beni costituì un fondo vincolato al lancio di politiche di produttività e quindi, di fatto, all’adozione di uno straordinario aggiornamento tecnologico rispetto alla grammatica industriale europea. Questo meccanismo inseriva una doppia condizionalità per i Paesi che attuarono il Piano. La prima era protesa allo sviluppo e alla modernizzazione del sistema produttivo, la seconda, squisitamente politica, prevedeva l’allineamento dei Paesi Erp all’American way of life in termini di consumo e accesso ai beni e di adesione a modelli liberal-democratici costituzionali. Fu l’implicita condizionalità politica a rappresentare l’oggetto principale del dissenso attorno al Piano. Esso fu, infatti, accolto in modo controverso non solo dalla sinistra ma da eterogenee parti della popolazione europea. Anzitutto perché esso si proponeva di vincolare e dividere. Sebbene formalmente offerto ai Paesi della costellazione sovietica, esiste un’ampia evidenza documentaria che tale offerta fosse poco meno che un ballon d’essai: neanche volendo, il socialismo reale si sarebbe potuto curvare ai precetti dell’americanizzazione sottintesi al Piano. È del pari eloquente che le critiche accese, dal 1947 in poi, contro un patto accusato di essere l’espressione più aggressiva del capitalismo statunitense siano state poi ribaltate in severe diagnosi rispetto al modo in cui gli aiuti furono utilizzati. Ciò, da un lato, spiega però perché il Piano sia il passaggio preliminare per comprendere la storia del conflitto bipolare, e dall’altro perché ogni paragone col presente sia impraticabile. A suo tempo, nemmeno i più accaniti cold warriors sostennero che il Piano fosse il frutto di una volontà filantropica degli Stati Uniti, ed esiste un generale consenso verso la tesi secondo cui esso servisse ai destinatari quanto ai promotori. Le ipotesi di un piano per fronteggiare la crisi da coronavirus che ricalchi le aspirazioni globali dell’Erp, per come negli ultimi giorni sono state richiamate prima dal presidente del Consiglio europeo Charles Michel e poi dalla presidentessa della Commissione Ursula von der Leyen, descrivono un’ambizione priva di legami con la realtà. Il bilancio dell’Unione (circa l’1% del reddito nazionale lordo) – perché sarebbe l’Unione a essere chiamata a organizzare il “nuovo Piano Marshall” – è insufficiente per affrontare un programma simile a quello del 1948-1952, e una contrazione dei bilanci nazionali a favore del bilancio dell’Unione pare in questa fase una prospettiva lunare. Sarebbero dunque necessarie misure (e visioni) straordinarie. Vi è inoltre un crinale ancora più invalicabile della limitatezza delle risorse e della relativa contabilità ordinaria che appassiona alcuni strabici politici del Nord Europa, e riguarda l’assunzione di responsabilità politica che un Piano simile comporterebbe. Per essere davvero onesti, nessuno oggi nell’Unione è intenzionato a guidare la drammatica transizione che si aprirà a breve e sarebbe questo ciò di cui si sente il bisogno. Non dell’evocazione imbambolata di feticci storici.

SENZA VERGOGNA. I leghisti veneti contro il Sud per i fondi previsti dal Recovery Plan. «Chiediamo di investire in progetti concreti, perché il Veneto è terra di fatti e non di parole». Il Friuli non vuole più versare il suo 13% allo Stato (e la Gelmini apre un tavolo). Giuseppe Pietrobelli su Il Quotidiano del Sud il 18 marzo 2021. Lega bifronte a Nordest. In Veneto ha approvato l’altra sera (con i voti anche del Pd) una mozione a favore di un piano regionale di resilienza con la richiesta di cambiare il piano Recovery del governo Conte, che per due terzi prevedeva fondi per il Meridione. In Friuli Venezia Giulia, invece, inneggia all’unità d’Italia e all’essere “uniti nelle diversità da Nord a Sud”. Non possono non colpire le due diverse posizioni assunte dallo stesso partito in due realtà dove si trova al governo regionale. A Venezia sono state discusse tre mozioni relative alle proposte per il Recovery Fund. La prima della Lega di Luca Zaia, la seconda di Verdi-M5S, la terza del Pd. Sulla mozione della Lega, pur con qualche distinguo, sono confluiti i voti del Pd, che in cambio ha avuto dalla Lega il sostegno per far approvare la propria mozione. La proposta della giunta regionale punta su 155 progetti, per un valore di 25 miliardi di euro. Il Quotidiano del Sud ne ha analizzato a suo tempo i contenuti, visto che si tratta di un libro dei sogni che equivale al 12 per cento dell’ammontare dei finanziamenti europei per il rilancio dell’Italia. Troppo per pensare che una regione possa portarseli a casa, visto che il Recovery individua anche finalità globali. In questo contenitore c’è davvero di tutto: ospedali, infrastrutture, strade, idrovie e perfino alcune opere (come la pista di bob) per le Olimpiadi Milano-Cortina 2026. Contenuti a parte, hanno colpito le motivazioni anti-meridionaliste di leghisti e Fratelli d’Italia. La mozione di maggioranza era presentata da Alberto Villanova, capogruppo in consiglio regionale della Lista Zaia Presidente. «Il precedente Governo aveva affrontato questa battaglia facendo errori macroscopici: aveva del tutto tagliato fuori Regioni ed enti locali, contravvenendo apertamente a quelle che erano le direttive di Bruxelles. Aveva operato una suddivisione ingiusta delle risorse, concentrandole per i due terzi al Sud Italia». Ecco il tarlo per i leghisti veneti, troppi soldi al Sud. «Al nuovo premier Draghi chiediamo di porre rimedio a questi errori, di tornare indietro su quello che era stato uno schiaffo alla parte produttiva del Paese, di inserire benzina nel vero motore del Paese, Veneto, Lombardia, Emilia Romagna». Chi più è ricco non deve ricevere di meno. «Lasciare al margine queste tre grandi regioni, sarebbe una scelta davvero miope.  Chiediamo di investire in progetti concreti, perché il Veneto è terra di fatti, e non di parole. Chiediamo che il Veneto abbia dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza quanto gli spetta, perché fino ad ora ha dimostrato di saper non solo spendere i fondi assegnati, ma di saperli investire nel migliore dei modi». Posizione-fotocopia per Giuseppe Pan, capogruppo Lega Salvini Premier. «Sarà fondamentale investire questi fondi nel migliore dei modi.  Sappiamo tutti quale è il male principale della nostra Italia: la burocrazia, l’eccessiva lentezza e macchinosità dei nostri ministeri. Se Roma pensa di poter gestire una quantità di fondi come questa senza coinvolgere le Regioni, sbaglia di grosso. Ed è anche sbagliato, come aveva fatto il premier Conte, concentrare la stragrande maggioranza delle risorse al Sud». La convinzione di Pan è granitica: «Dobbiamo dimostrarci all’altezza di questi fondi, dobbiamo dimostrare di saperli investire. Ma conosciamo purtroppo tutti la capacità di spesa del Mezzogiorno. Solo che la Regione Puglia ha restituito 90 milioni dell’ultimo Piano di sviluppo rurale europeo, proprio perché non è stata capace di investirli». Ma c’è qualcuno che si è spinto ancor più in là. Non un leghista, ma un consigliere di Fratelli d’Italia-Giorgia Meloni. Enoch Soranzo ha detto: «Il territorio  merita un riparto dei fondi proporzionale al nostro PIL regionale». Chi più ha, più deve continuare ad avere. «Visto che la nostra regione contribuisce per il 10% del PIL nazionale, se ne riconosca il merito e si ripensi un PNRR ove troppe risorse del Recovery Fund sono già state ipotizzate per il Sud Italia». FdI ha anche punzecchiato la Lega. «Oggi siede in Consiglio dei Ministri: ci aspettiamo non una via privilegiata, ma un riconoscimento concreto che per il Veneto si traduce nell’avere la benzina per tornare a correre in termini di rilancio dell’economia». Qualcuno, nel Pd, ha alzato la testa, Vanessa Camani: «La denuncia di un Nord penalizzato nelle scelte per favorire il Sud è in contrasto con l’europeismo che deve ispirare questa pianificazione». I leghisti friulani hanno detto qualcosa di molto diverso.  Il gruppo regionale, in occasione del 160 anniversario dell’Unità d’Italia, ha dichiarato: «Riscoprire il nostro essere comunità, uniti nelle diversità da Nord a Sud, è una necessità quanto mai stringente per affrontare la drammatica situazione di emergenza causata dalla pandemia. Stiamo affrontando un’emergenza sanitaria senza precedenti, con pesantissime ripercussioni anche di natura economica, finanziaria e sociale. Dunque, ricordare l’Unità nazionale significa mantenere vivi quei valori di solidarietà, di fratellanza e di spirito di sacrificio che serviranno per costruire l’Italia del domani».

ORGOGLIO SUD. RECOVERY PLAN. L’OPERAZIONE VERITÀ HA VINTO: ORA TOCCA A NOI. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 23 marzo 2021. Abbiamo fatto rotolare a valle il macigno della verità e si è sbriciolato il luogo comune del Sud che vive sulle spalle del Nord. C’è il segno di una nuova consapevolezza. Attenzione, però, a cantare vittoria. I soldi ora ci sono, sbucano da ogni angolo. Bisogna spenderli, però, questi soldi. Bisogna fare progetti buoni e bisogna saperli attuare. Questa volta davvero tocca a noi. Dimostriamo di essere capaci di fare squadra e smettiamola di inventarci nemici. Orgoglio Sud. Il segno di una nuova consapevolezza che nasce da una vittoria culturale che è entrata nella coscienza comune del Paese. È figlia dell’operazione verità sulle abnormi sperequazioni territoriali della spesa pubblica sociale e infrastrutturale lanciata in assoluta solitudine due anni fa da questo giornale. Orgoglio Sud. Ce ne era da vendere negli interventi documentati dei Presidenti delle Regioni del Mezzogiorno (primo nei tempi di pagamento della sanità, primo nella somministrazione dei vaccini) alla due giorni di ascolto voluta da una donna tenace, la ministra Mara Carfagna, e inaugurata dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, alla vigilia della definizione del Recovery Plan italiano. Il segno di una nuova consapevolezza che ha fondamento granitico nella geografia ribaltata del piano vaccinazioni delle Regioni. La Puglia, la Campania e la piccola Basilicata fanno con dignità e efficienza un lavoro che non sono stati in grado di fare Regioni del Nord come la Lombardia e l’Emilia-Romagna arbitrariamente foraggiate molto di più dalla spesa pubblica. Ci sono piaciute molto le ultime parole dell’intervento di Draghi. Ve le riproponiamo: “In questa sfida un ruolo cruciale è anche vostro, classi dirigenti. Ma un vero rilancio richiede la partecipazione attiva di tutti i cittadini. Vi ringrazio per il vostro contributo e vi auguro buon lavoro. Grazie.” Queste parole colgono il punto di svolta necessario per cambiare stabilmente passo perché segna il passaggio dai tanti piccoli e grandi io in guerra tra di loro alla condivisione di una comunità che si rimette in gioco insieme. Domenica scorsa per esprimere esattamente questo concetto, avevamo usato le seguenti parole: “Sarebbe bello che la mobilitazione della pubblica opinione portasse a dire: noi siamo qui insieme per fare questa operazione e ti mettiamo a disposizione questo capitale comune, non di questo o di quell’altro. Insomma: butta il seme perché troverai un terreno già dissodato, buttalo con fiducia perché non cadrà nella roccia. Questa è la battaglia civile e culturale per cui è nato questo giornale e per cui intende continuare a combattere. Sprecare l’occasione del governo Draghi sarebbe imperdonabile.” Non avremmo molto da aggiungere se non che l’operazione verità sui Livelli essenziali di prestazione, come ci scrive la ministra Carfagna, è partita perché nessuno oggi può fare finta di niente. Abbiamo fatto rotolare a valle il macigno della verità e si è sbriciolato il luogo comune del Sud che vive sulle spalle del Nord. Attenzione, però, a cantare vittoria. I soldi ci sono, sbucano da ogni angolo: Next Generation Eu, 2 piani europei settennali, Fondo di sviluppo e di coesione, Fondo di perequazione infrastrutturale. Bisogna spenderli, però, questi soldi. Bisogna fare progetti buoni e bisogna saperli attuare. Questa volta davvero tocca a noi. Dimostriamo di essere capaci di fare squadra e smettiamola di inventarci nemici. Il tempo della propaganda è finito.

Sud, dalle opere alla sanità: 20 anni di iniquità da risarcire. Nel Mezzogiorno ampiamente disatteso il diritto alla salute e ad avere infrastrutture efficienti: sono questi i settori che, più di altri, necessitano di un’iniezione di liquidità per recuperare il gap storico con il Nord. Vincenzo Damiani su Il Quotidiano del Sud il 23 marzo 2021. Sanità e infrastrutture sono i settori che, più di altri, necessitano di una iniezione di liquidità al Mezzogiorno per recuperare quel gap che si è creato negli ultimi venti anni di sottofinanziamento rispetto al Nord Italia.

LA SANITÀ. La spesa per investimenti in sanità, ad esempio, è stata del tutto squilibrata territorialmente: dei 47 miliardi totali impegnati in 18 anni (2000-2017), oltre 27,4 sono finiti nelle casse delle regioni del Nord, 11,5 in quelle del Centro e 10,5 nel Mezzogiorno. E’ questa l’analisi che emerge dal sistema Cpt (Conti pubblici territoriali): in termini pro-capite, significa che mentre la Valle d’Aosta ha potuto investire per i suoi ospedali 89,9 euro, l’Emilia Romagna 84,4 euro, la Toscana 77 euro, il Veneto 61,3 euro, il Friuli Venezia Giulia 49,9 euro, Piemonte 44,1, Liguria 43,9 euro e Lombardia 40,8 euro; la Calabria ha dovuto accontentarsi di appena 15,9 euro pro-capite, la Campania 22,6 euro, la Puglia 26,2 euro, il Molise 24,2 euro, il Lazio 22,3 euro, l’Abruzzo 33 euro. Altri indicatori confermano che ogni anno al Nord arrivano maggiori trasferimenti da Roma destinati alla sanità: dal 2017 al 2018, ad esempio, la Lombardia ha visto aumentare la sua quota del riparto del fondo sanitario dell’1,07%, contro lo 0,75% della Calabria, lo 0,42% della Basilicata o lo 0,45% del Molise. Lo stesso Veneto, nel 2018 rispetto al 2017, ha ricevuto da Roma lo 0,87% in più. Dal 2012 al 2017, nella ripartizione del fondo sanitario nazionale, sei regioni del Nord hanno visto aumentare la loro quota, mediamente, del 2,36%; mentre altrettante regioni del Sud, già penalizzate perché beneficiarie di fette più piccole della torta dal 2009 in poi hanno visto lievitare la loro parte solo dell’1,75%, oltre mezzo punto percentuale in meno. Significa che, dal 2012 al 2017, Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno ricevuto dallo Stato 944 milioni in più rispetto ad Abruzzo, Puglia, Molise, Basilicata, Campania e Calabria.

LA CORTE DEI CONTI. Ecco come è lievitato il divario tra le due aree del Paese: mentre al Nord sono stati trasferiti 1,629 miliardi in più nel 2017 rispetto al 2012, al Sud sono arrivati soltanto 685 milioni in più. Basterebbero questi dati – certificati dalla Corte dei conti nella relazione sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali – per far emergere la disparità di trattamento tra due aree dello stesso Paese. Ma possiamo aggiungerne altri: le disuguaglianze sono ancora più palesi se analizziamo la spesa pro-capite totale. Per un pugliese, ad esempio, nel 2020 ha speso complessivamente 1.826 euro, contro i 1.918 riservati a un emiliano o i 1.877 a un veneto. Per ogni lombardo, lo Stato destina 1.880 euro; per un campano, invece, 1.827 euro. Ma peggio va ai calabresi, ai quale spettano appena 1.800 euro a testa, contro i 1.916 euro che “riceve” ogni friulano, i 1.935 euro di spesa pro capite del Piemonte o i 1.917 euro della Toscana.

LE INFRASTRUTTURE. Capitolo infrastrutture: fra il 1950 e il 1960 la dote per le infrastrutture era pari allo 0,84% del Pil; tra il 2011 e il 2015 è crollata a uno striminzito 0,15%. Ma non è finita qui: solamente nel 2018 mancano all’appello 3,5 miliardi di euro di investimenti per il Sud, calcolo effettuato dalla Svimez partendo dalla regola, spesso e volentieri, per non dire sempre, tradita del 34% della ripartizione delle risorse in conto capitale da destinare al Mezzogiorno. Nel 2018, stima la Svimez, la spesa in conto capitale è scesa al Mezzogiorno da 10,4 a 10,3 miliardi, nello stesso periodo al Centro-Nord è salita da 22,2 a 24,3 miliardi. Gli investimenti infrastrutturali nel Mezzogiorno, che negli anni Settanta erano circa la metà di quelli complessivi, negli anni più recenti sono calati a un sesto di quelli nazionali. In valori pro capite, calcola Cpt, nel 1970 erano pari a 531,1 euro a livello nazionale, con il Centro-Nord a 451,5 e il Mezzogiorno a 677 euro; nel 2017 si è passati a 217,6 euro pro capite a livello nazionale, con il Centro-Nord a 277,6 e il Mezzogiorno a 102 euro. Fra il 2008 e il 2018 – aggiunge Banca d’Italia – gli investimenti fissi lordi della Pubblica amministrazione sono calati del 20 per cento, attestandosi a quota 37 miliardi, un taglio netto di dieci miliardi di euro.. E i sacrifici maggiori, neanche a dirlo, sono stati fatti dal Sud.

INVESTIMENTI PUBBLICI. Stesso copione nelle tabelle sugli investimenti pubblici in rapporto alla popolazione: la quota destinata al Sud è risultata sistematicamente inferiore rispetto al Centro-Nord. Tra il 2008 e il 2016, sempre secondo i dati di via Nazionale, il calo degli investimenti al Sud è stato del 3,6% annuo; più debole e in maggior flessione rispetto al resto del Paese è stata anche l’attività di progettazione di opere pubbliche. Eppure, secondo uno studio di Bankitalia, un incremento degli investimenti pubblici nel Sud, pari all’1% del suo Pil per un decennio, cioè 4 miliardi annui, avrebbe effetti espansivi significativi per tutta l’economia italiana.

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Gli effetti della crisi. Sul virus i conti non tornano, ma a pagare non può essere sempre il Sud. Serena Giglio su Il Riformista il 10 Marzo 2021. Mario Draghi non ha fatto in tempo a insediarsi e a prendere in mano la questione della campagna vaccinale – cioè, da un lato, la necessità di ottenere le dosi del vaccino da somministrare alla popolazione al più presto e nella maggiore quantità possibile e, dall’altro, quella di intervenire sulle strutture indispensabili per conservarlo e veicolarlo nel modo adeguato – che sul cielo della nostra bella Penisola si è abbattuto un nuovo fulmine. E, difatti, all’istituto Pascale di Napoli, già da qualche settimana è stata isolata una variante del virus finora mai individuata in Italia e registrata, in pochi casi, solo in Nigeria, Gran Bretagna, Danimarca e Stati Uniti. Si tratta di una versione del virus molto somigliante alla variante inglese, ma contenente altre mutazioni da approfondire e analizzare con attenzione, per evitare che le stesse risultino “resistenti” ai vaccini disponibili e che, di conseguenza, vanifichino la campagna vaccinale in atto. I casi di soggetti positivi a tale variante del virus sono aumentati tanto rapidamente in Campania – insieme al generale incremento dell’incidenza anche nelle classi più giovani di età – da eleggerla regione con il più alto tasso di contagi e relegarla nuovamente nella cosiddetta zona rossa. D’altra parte, tale rischio era stato denunciato a gran voce dai migliori epidemiologi che avevano appunto evidenziato come la mancanza del quantitativo dei tre vaccini al momento disponibili (Pfizer-Biontech, Moderna e AstraZeneca), a coprire i 50 milioni (almeno) di persone da vaccinare, avrebbe purtroppo avuto la conseguenza di lasciare a “piede libero” il virus per il tempo sufficiente a consentire allo stesso di mutare. A ogni buon conto, pur volendo adottare un approccio estremamente ottimista e fiducioso nell’operato di Mario Draghi, l’intera popolazione italiana potrà risultare vaccinata non prima della fine del prossimo autunno, con la conseguenza che sarà fortemente sacrificato anche il numero degli elettori presenti alle urne nelle prossime elezioni regionali, che perciò  vedranno gravemente pregiudicato il valore supremo della democrazia tanto nella propaganda quanto nella veicolazione dei programmi politici e nell’espressione effettiva del diritto al voto. Il tutto mentre anche la Corte dei Conti si è pronunciata sul tema “salute”, sul diverso e non meno importante fronte delle attività intraprese con i fondi erogati alle Regioni sulla base del Piano straordinario del Ministero della Salute, censurando lo stato di attuazione di questo stesso Piano e ritenendolo, in via generale, inadeguato e inefficace a realizzare gli obiettivi stabiliti dalla legge. Di conseguenza la Corte dei Conti ha bocciato anche le misure atte a fronteggiare il Covid rilevando, in via più specifica, un drammatico risultato numerico negativo nelle regioni del Centro-Sud rispetto a quelle del Centro-Nord, nella dotazione di adeguati strumenti tecnologici e di apparecchiature sanitarie all’avanguardia. Intanto anche il mercato del lavoro registra numeri che fanno tremare le ginocchia. Basti pensare che la Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, nel report Gli occupati in Italia ai tempi del Coronavirus, partendo dal numero di occupati prima dell’emergenza, ha dichiarato che, a oggi, «ammontano a circa 3 milioni i lavoratori che si sono ritrovati da un giorno all’altro a casa: un milione di questi sono autonomi, mentre 1,9 milioni sono dipendenti per lo più addetti alle vendite». Al nuovo presidente del Consiglio spetta, dunque, anche intervenire, con assoluta celerità, sulla situazione economica generale che sembra “dare i numeri” quasi in ogni settore, che va protetta e rafforzata con potenti interventi strutturali. In linea con il discorso tenuto dallo stesso Draghi al meeting di Rimini della scorsa estate, per fare tutto ciò occorrerà un enorme sforzo in termini di istruzione e formazione dei giovani e meno giovani, affinchè si diventi tutti più competenti e competitivi, cioè in grado di gestire in maniera adeguata i settori economici esistenti e di accedere alle nuove professioni richieste dai settori in via di sviluppo: è indispensabile per abbassare in maniera significativa il saldo degli inoccupati. Per altro verso, va rinforzata quella coscienza collettiva necessaria e va compreso che abbandonare oggi al proprio destino i più deboli, presenti soprattutto nelle regioni del Sud, equivale a condannare l’intera nazione a un futuro di povertà e disperazione sociale.

Christian Rocca per linkiesta.it  il 20 gennaio 2021. Uno che non riesce nemmeno a far entrare Clemente Mastella al governo, fallendo un rigore senza portiere, come può scrivere un Recovery plan che non sia respinto dalle istituzioni europee; come può organizzare una campagna di vaccinazione nazionale per immunizzare il paese; come può, insomma, rimettere in carreggiata l’Italia che sotto i suoi occhi è prima per numero di morti, per misure restrittive e per decrescita economica? Giuseppe Conte è un irresponsabile. Con i bonus e con le mance, con il no al Mes e il sì allo spreco di denaro, con le primule e con le dirette Facebook, con gli hacker e con i centralini intasati da Casalino (copyright Dario Franceschini), il presidente del Consiglio deve essere rimosso da Palazzo Chigi subito, oggi stesso, mentre esce di scena l’amico e sodale Donald Trump, se si vuole provare a ridare efficienza all’azione di governo. Tutto il resto sono chiacchiere, perdita di tempo, declino irreversibile. I giornali continuano a essere ancora molto rispettosi di Conte, tralasciandone gli impacci e l’inadeguatezza, tanto da nascondere tra le righe degli articoli, per esempio di ieri, del grottesco lavorìo del premier, o per conto del premier, per raccattare deputati e senatori in grado di sostenere la sua maggioranza perduta. Secondo due editoriali della Stampa, le grandi manovre contiane hanno coinvolto avvocati vicini alla massoneria, generali della Guardia di Finanza, arcivescovi, monsignori, prelati, intermediari del capo dei servizi, in una pochade tragica a metà tra Signore e signori di Pietro Germi e Amici miei di Mario Monicelli. Commedia all’italiana, insomma. Solo che non possiamo permettercelo, con il debito pubblico fuori controllo (160 per cento), con buona parte dei soldi del Recovery Plan già impegnati per i sussidi invece che per lo sviluppo, addirittura con l’incapacità di presentare un Recovery plan degno di questo nome per cui trascorreremo la seconda metà del 2021 e il 2022 a pietire la misericordia di Bruxelles a causa dei disastri del Conte-Casalino con grandi ringraziamenti da parte del fronte sovranista. Le mattane di Matteo Renzi hanno già avuto il merito di migliorare il Recovery Plan, anche se non ancora in modo sufficiente, e di smontare il disegno imperiale di Conte, servizi segreti più accentramento della gestione dei soldi, ma avranno un senso compiuto soltanto se alla fine riusciranno a liberare il paese dell’avvocato del popolo e associati. Il compito spetta al Pd. Al Pd di Paolo Gentiloni e delle tante persone serie e preparate che non capitolano di fronte al populismo straccione dei Cinquestelle e non possono cedere al governo degli irresponsabili. Anziché concentrarsi sulla distruzione di Renzi e Calenda, che peraltro ci pensano da soli, anziché inseguire alleanze strategiche con gli altri amici di Trump e altre stronzate sul leader fortissimo dei progressisti, la leadership del Pd prenda in mano la situazione che Renzi le ha offerto. Prendano l’iniziativa, Dario Franceschini e gli altri. Facciano partire un nuovo governo senza Conte e senza Casalino, possibilmente senza Bonafede anche se non si può pretendere tutto, con la vecchia o con una nuova maggioranza. Un governo di adulti, senza mezzecalzette, europeista e animato da uno spirito di rilancio, non da vendette e narcisismi da quattro soldi. Il Pd cerchi i competenti, coinvolga quelli bravi, affidi palazzo Chigi a qualcuno o qualcuna capace prima di immaginare e poi di realizzare un piano di investimenti per tornare a crescere e poi anche di pianificare una campagna di vaccinazione universale.

Matteo Renzi al Senato durissimo contro Giuseppe Conte: "Lei non sa fare politica. Un provinciale pronto a tutto per la poltrona". Libero Quotidiano il 19 gennaio 2021. Nel giorno della fiducia al Senato, cercata disperatamente da Giuseppe Conte, arriva il momento dell'attesissimo intervento in aula di Matteo Renzi, leader di Italia Viva e artefice della crisi di governo in atto. "Una crisi incomprensibile - esordisce l'ex premier -? Le dico guardandola negli occhi che cosa ci ha portato ad allontanarci dal governo. Il suo non è il governo migliore del mondo. Per la tragedia in corso, pensiamo ci sia bisogno di un governo più forte. Noi non pensiamo che davanti alla tragedia che questo paese sta vivendo possa bastare la narrazione del: gli altri paesi ci copiano, siamo un modello", ha picchiato durissimo, sin dal principio, Renzi. "Mentre la crisi istituzionale non si è ancora aperta, perché lei non si è dimesso, ci sono tre gravissime crisi in atto", ha ripreso il leader IV, che ha poi citato una crisi economica; poi sanitaria, "abbiamo il peggior rapporto tra popolazione e ricoveri". Terzo punto, una crisi educativa e scolastica. "Noi abbiamo chiesto di aprire un dibattito in Parlamento. Lei ha scelto un arrocco istituzionale che spero sia utile per il governo ma temo sia dannoso per le istituzioni. Mi ha chiesto chiarezza? Dice che i cittadini non capiscono? Non capisco neanche io, è una persona intelligente. Da mesi in quest'aula le chiediamo una svolta - lo ha incalzato -. A maggio, sulla sfiducia ad Alfonso Bonafede ci ha chiesto un gesto di responsabilità: noi la abbiamo seguita. Mentre sul Recovery Plan, a luglio, non siamo stati seguiti. La bozza è arrivata a dicembre, indecente: abbiamo detto che non era neppure il caso di parlarne", ha ricordato Renzi, rispedendo le accuse mosse da Conte nei suoi confronti al mittente. E ancora, "a settembre Italia Viva ha chiesto un cambio di passo. Salto di qualità". Dunque, Renzi si è speso in un lungo elenco con tutte le richieste avanzate al premier e che, a suo giudizio, sono state eluse, ignorate. "Forse siamo stati fin troppo pazienti. Dobbiamo dirci le cose in faccia: dice che non è il momento di una crisi? Lo dicono anche i miei amici al bar, la comunicazione è passata. Ma questo è il momento per guardarsi dentro fino in fondo e decidere: ora o mai più si può fare una discussione. Chi dice che durante la pandemia non si può parlare di politica, nega la possibilità di occuparsi del bene comune. Ora ci giochiamo il futuro, non tra sei mesi". "Se non investiamo ora sulla scuola o sulla sanità saremo maledetti dai nostri figli", ha ripreso il fu rottamatore. "Faccia un passo in avanti, non riduca la politica a una mera distribuzione di incarichi". E ancora, l'attacco si fa personale: "Con rispetto, credo che a lei presidente manchi la gavetta politica. Le manca l'esperienza, le vittorie e le sconfitte. Non ci si può ridurre a dare poltrone per avere una maggioranza". Urlando, Renzi ha aggiunto: "Capisco che fate fatica ad accettarlo, ma dovreste avere rispetto per chi abbandona una poltrona in cambio di un'idea", afferma riferendosi al passo indietro di Teresa Bellanova ed Elena Bonetti. "Quando questo gesto nobile è oggetto di ironie, stiamo perdendo la realtà. Lei ha fatto l'opposto: pur di restare al governo, ha cambiato tre maggioranze. Ha governato con Matteo Salvini, ha firmato i suoi decreti. Poi è diventato europeista. Ora si accinge alla terza maggioranza diversa. Ma ci risparmi la frase l'agenda-Biden è la mia agenda dopo aver detto lo stesso su Trump. Non sia provinciale, lei rappresenta l'Italia - ha brutalizzato Conte -. Se prima rivendica il sovranismo, lei poi non può fare il leader anti-sovranista. Signor presidente, lei non può cambiare le idee per tenere la poltrona. Abbia il coraggio di fare una cosa diversa, racconti che c'è uno spazio per tutti noi", ha aggiunto Renzi. "Sento dire che non posso parlare perché non ho il consenso. Perché ho il 2%: questo è segno della definitiva trasformazione della politica in reality show. Ma la politica non si fa con i sondaggi", ha sottolineato l'ex premier. "Chi è irresponsabile? Chi le chiede di parlare di politica o chi dice no ai soldi per la sanità con la stessa forza con cui diceva no ai vaccini e al Tav". Riferendosi al voto, Renzi ha aggiunto: "Vediamo se avrà la maggioranza" al Senato. "In passato ci sono stati dei governi che non la hanno avuta". Dunque, al Pd: "Se volete chiacchiere astratte sui grandi temi, fatela. Se volete rispondere agli italiani, fate presto. Vi auguro che sia maggioranza, di sicuro sarà raccogliticcia. Ma fate presto". "Mi auguro che nelle prossime settimane lei metta al centro le idee, non le poltrone: l'Italia, in questo momento, non si merita questo spettacolo indecoroso", ha concluso Renzi.

Interrogazione parlamentare bipartisan. Per Draghi scoppia il caso McKinsey: bufera per la consulenza sul Recovery Plan.

Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Una prima, forte polemica politica per Mario Draghi. Il presidente del Consiglio, che fino ad oggi ha agito “nell’ombra”, come dimostrato anche dalla conferenza stampa sul Dpcm affidata ai ministri Roberto Speranza e Mariastella Gelmini, viene chiamato direttamente in causa dall’opposizione ma anche all’interno della stessa maggioranza per l’affidamento di una consulenza agli americani di McKinsey per la stesura del Recovery Plan. Una consulenza, con la notizia riportata inizialmente da Radio Popolare, che secondo Repubblica dovrebbe portare alla società americana “solo una sorta di rimborso spese”. Una collaborazione che sarebbe stata chiesa dal ministero dell’Economia guidato da Daniele Franco, piazzato sulla poltrona ‘scottante’ proprio da Draghi, visti i tempi stretti a disposizione per portare il Recovery Plan in Europa. La McKinsey dovrebbe, secondo i retroscena, valutare costi e impatto dei diversi progetti inseriti nel Recovery ed esaminare quelli già realizzati in altri Paesi. Il Mef ha parzialmente confermato nel pomeriggio la notizia, facendo sapere che il contratto con la società statunitense “ha un valore di 25mila euro +Iva ed è stato affidato ai sensi dell’articolo 36, comma 2, del Codice degli Appalti, ovvero dei cosiddetti contratti diretti sotto soglia”. Il Ministero ha però sottolineato che McKinsey “non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr. Gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia”, precisa il Mef.

LE POLEMICHE – Sulla consulenza sono nate immediate polemiche, su più fronti. Per il Dem Francsco Boccia, ex ministro per gli Affari regionali e ‘big’ del Pd, “se le notizie uscite oggi fossero vere, sarebbe abbastanza grave”. A dare manforte il senatore Dem Antonio Misani, che ricorda come “la governance del Pnrr è incardinata nel Ministero dell’Economia e Finanza con la strettissima collaborazione dei Ministeri competenti’ aveva detto Draghi al Senato. Se lo schema è cambiato, va comunicato e motivato al Parlamento”. Da sinistra arriva quindi la bordata di Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana che ha rotto con LeU sull’appoggio al goveno Draghi. Visto che il precedente governo è stato “lapidato” sulla governance che espropriava il Parlamento, la cosa sarebbe piuttosto grave. Oltre che grottesca. Intanto, in attesa che qualcuno risponda alle domande poste da Barca, – spiega Fratoianni – presenterò una interrogazione parlamentare”. Da destra invece è Fratelli d’Italia con il deputato Federico Mollicone ad annunciare una interrogazione parlamentare: “E’ un esproprio di sovranità nazionale affidarsi a una società straniera. Presenterò un’interrogazione per chiedere chiarezza sulla governance e sull’attribuzione di questa consulenza a McKinsey. E’ possibile che con tutti i ministri, viceministri, sottosegretari, capi dipartimento, capi uffici legislativi, task force, dirigenti, tecnici e funzionari dello Stato che abbiamo, il Governo Draghi debba affidare la stesura del Recovery Plan ad una società privata di consulenza?”.

CALENDA DIFENDE LA CONSULENZA – Chi invece non vede problemi nella consulenza di McKinsey è il leader di Azione Carlo Calenda, secondo cui “i consulenti McKinsey o altro, si usano per scrivere piani strategici straordinari. Quando hai bisogno di elaborazioni veloci e verifica di fattibilità su progetti. Ma se la guida rimane saldamente nelle mani dei Ministri non vedo alcun problema, anzi. No polemiche inutili”.

LE ACCUSE A MCKINSEY – Il nome della società di consulenza americana è effettivamente legato a diversi casi spinosi. La McKinsey ha dovuto infatti pagare quasi 600 milioni di dollari di risarcimenti per il proprio ruolo nell’alimentare l’epidemia di dipendenze da oppiacei negli Stati Uniti. L’azienda, che per questo ha poi silurato il suo ex numero uno Kevin Sneader, aveva lavorato con la casa farmaceutica Purdue Pharma, riconosciuta poi colpevole di tre reati federali, per aumentare le vendite del farmaco oppioide Oxycontin. Ma "a sinistra" la McKinsey è nel mirino anche per aver collaborato con l’amministrazione di Donald Trump nelle politiche repressive contro l’immigrazione, avendo lavorato per migliorare l’efficacia dell’ICE nel respingere i migranti. 

Draghi chiama gli esperti di McKinsey per la stesura del Recovery Plan. Federico Giuliani su Inside Over il 6 marzo 2021. Il tempo stringe. Entro il prossimo 30 aprile l’Italia deve presentare alla Commissione europea il piano finale per accedere ai fondi europei previsti dal Recovery Plan. Sul piatto ci sono 209 miliardi di euro, che potranno essere sbloccati soltanto se il governo italiano riuscirà a convincere l’Ue con un rapporto dettagliato, capace di tener conto di tutte le raccomandazioni giunte negli ultimi mesi da Bruxelles. Riforme e investimenti sono le due parole chiave, che dovranno accompagnare interventi chirurgici volti a rafforzare il potenziale di crescita del Paese, creare nuovi posti di lavoro e migliorare la resilienza economica, sociale e istituzionale. Insomma, il cammino da qui al 2026 dovrà essere messo nero su bianco, con tanto di mezzi e fini, e niente potrà essere lasciato al caso. Ecco alcune “regole” da seguire: gli investimenti destinati al Green – considerati prioritari – dovranno ad esempio essere almeno il 37% dell’intero pacchetto, mentre quelli inerenti alla trasformazione digitale almeno il 20%. Ampio spazio dovrà poi essere dato al settore sanitario e all’istruzione. I contenuti del piano conclusivo dovranno quindi arrivare sulle scrivanie degli esaminatori europei, i quali saranno chiamati a dare i loro voti seguendo una scala di valori da A a C.

La mossa del governo. La stesura del suddetto piano spetterebbe al Mef, al Ministero dell’Economia e delle Finanze. Tuttavia, come anticipato da Repubblica, il dicastero incaricato sarà affiancato da McKinsey, ovvero il colosso americano della consulenza strategica aziendale. La società statunitense e il ministero hanno firmato un contratto nei giorni scorsi e, pare, sia stato proprio il ministero guidato da Daniele Franco a contattare McKinesy. Per quale motivo? Per accelerare la riscrittura del documento italiano, così da rimediare nel minor tempo possibile ai ritardi (e agli errori) accumulati nei mesi precedenti. In una nota, il Tesoro ha respinto le critiche derivanti dalla mossa del governo di affidarsi a una società di consulenza per definire il Recovery Plan. McKinsey “non è coinvolta nella definizione dei progetti del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza ndr)”. Inoltre “gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia”. Il contratto con la società inoltre “ha un valore di 25mila euro +IVA ed è stato affidato ai sensi dell’art. 36, comma 2, del Codice degli Appalti, ovvero dei cosiddetti contratti diretti sotto soglia”.

L’intervento di McKinsey. L’Italia ha quindi scelto di affidarsi a McKinsey. Non si tratta dell’unico Paese al mondo ad aver richiesto la consulenza di una società specializzata. Anzi: la prassi risulta piuttosto diffusa all’estero. Scendendo nel dettaglio, e cercando di capire meglio la scelta dell’esecutivo Draghi, due sono gli aspetti da considerare. Primo: come spiegato, il tempo stringe. E la macchina burocratica del Mef potrebbe non essere così rapida come servirebbe. Secondo: l’Europa è pronta a offrire ingenti risorse, ma chiede in cambio di rispettare vincoli ben precisi. Quella di McKinsey sarà una collaborazione prettamente tecnica, visto che gli indirizzi politici dei progetti saranno responsabilità dello stesso Mef. Indefinitiva, l’esecutivo italiano valuterà con i consulenti americani i costi e l’impatto dei progetti, sempre facendo attenzione di restare in linea con le regole europee. La governance del Piano resta in capo alle amministrazioni competenti e alle strutture del MEF che si avvalgono di personale interno degli uffici. Ricordiamo, infine, che le risorse provenienti dall’Ue non arriveranno tutte insieme, ma solo quando la Commissione e gli altri Paesi membri avranno accertato il rispetto delle suddette condizioni (da questo punto di vista, la prima tranche, pari al 13% del totale, potrebbe essere sbloccata in estate).

Il Tesoro conferma il contratto a McKinsey sul Pnrr, "ma la governance resta alle amministrazioni pubbliche". Andrea Greco su La Repubblica il 6 marzo 2021. Il ministero precisa che la multinazionale Usa, con una consulenza "sotto soglia" da 25 mila euro, farà uno studio per confrontare i Recovery plan di vari Paesi e darà "solo un supporto tecnico-operativo". Il Tesoro conferma il ruolo di consulente di McKinsey nella redazione del Recovery Plan da presentare a Bruxelles entro la fine di aprile. Un ruolo, si legge in una nota del ministero, “solo di solo supporto tecnico-operativo e studio di benchmark”, poiché “la governance del Pnrr è in capo al Mef e alle Amministrazioni competenti, che si avvalgono di personale interno degli uffici”. La multinazionale Usa, “così come altre società di servizi che regolarmente supportano l’Amministrazione nell’ambito di contratti attivi da tempo e su diversi progetti in corso, non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr”, prosegue ancora la nota del Tesoro, che punta a chiarire come “gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia”. Il ricorso a McKinsey, resosi necessario per la ricerca di “competenze tecniche specialistiche” o perché “il carico di lavoro è anomalo e i tempi di chiusura sono ristretti”, come nel caso di specie, sarebbe relativo alla richiesta di “elaborare uno studio sui piani nazionali Next Generation già predisposti dagli altri Paesi dell’Unione Europea, e a un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”, prosegue la nota. Il Tesoro ha anche fornito il valore del contratto con McKinsey, pari a “25 mila euro +Iva”: una cifra esigua, pertanto affidata, secondo l’art. 36 del Codice degli appalti, ai cosiddetti contratti “sotto soglia”.

Luca Monticelli per la Stampa il 7 marzo 2021. Il governo ha incaricato la multinazionale McKinsey di una consulenza sul Piano nazionale di ripresa e resilienza, ma le decisioni sui 209 miliardi che andranno spesi nei prossimi anni spettano al Mef. Dopo una giornata di polemiche politiche il ministero dell' Economia è costretto a intervenire con una nota nel pomeriggio per chiarire la vicenda, soprattutto dopo l' altolà arrivato da Partito democratico e Movimento 5 stelle. «La governance del Pnrr italiano è in capo alle amministrazioni competenti e alle strutture del Mef che si avvalgono di personale interno. McKinsey non è coinvolta nella definizione dei progetti», assicura il Tesoro. Gli investimenti e le riforme «restano unicamente in mano» all' esecutivo. L' attività di supporto richiesta a McKinsey «riguarda l' elaborazione di uno studio sui piani nazionali Next Generation già predisposti dagli altri Paesi dell' Ue e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro», precisa il dicastero guidato da Daniele Franco. Svelata anche l' entità del contratto che raggiunge i 25 mila euro più Iva. La richiesta di trasparenza era arrivata soprattutto dall' asse giallorosso, con la vecchia maggioranza che ha alzato un muro contro il coinvolgimento di soggetti privati nelle scelte del Recovery plan. Il primo a chiedere l' intervento del Parlamento è stato Stefano Fassina di Leu: «Così si umiliano le competenze della pa e si allontana l'accountability politica». Seguito dal segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, che aveva annunciato una interrogazione. Quindi l' ex ministro del Pd, Francesco Boccia, ha definito «grave» la notizia dell' accordo. Concetto ribadito con forza da un altro ex ministro dem del Conte II, Giuseppe Provenzano, che si è lasciato andare a un tweet al veleno: «Un giorno trapela che Draghi il Recovery se lo scrive da solo, poi che invece lavora con McKinsey, un po' di chiarezza? Dobbiamo richiamare i migliori nello Stato, magari tra i giovani, non delegare a privati esterni funzioni fondamentali». Alla fine, dopo la precisazione di via XX settembre, è il ministro 5 stelle ai Rapporti con il Parlamento, Federico D' Incà, a tentare di chiudere la vicenda: «Ora stop alle polemiche e avanti con il lavoro, non è il momento di ulteriori fratture». Sollecitazione che non fa breccia nei pentastellati che rilanciano: «Ci aspettiamo chiarezza e per questo depositeremo nelle prossime ore un' interrogazione parlamentare che faccia piena luce e consenta di dissipare ogni dubbio». Ambienti vicini al governo spiegano come le grandi società di consulenza siano spesso e volentieri utilizzate dalle amministrazioni in Europa per valutare scenari su temi specifici. In Italia, a giocare un ruolo centrale nella gestione del Pnrr, ci sono già il Tesoro, i ministeri della Transizione ecologica e digitale. I tempi sono stretti perché il piano va consegnato in Europa il 30 aprile, forse è arrivato il momento di decidere e accelerare la tabella di marcia più che condurre analisi comparative.

ESCLUSIVO. Ecco i manager di McKinsey che lavorano con Vittorio Colao al piano del Recovery. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 12 marzo 2021. Il ministro all’Innovazione, con poche deleghe e ancora meno potere, è riuscito a riavere un senior partner e un suo collega della multinazionale americana. Una coppia che aveva già lavorato con lui nella "task force" di Conte. È Il metodo dei consulenti globali che a Draghi non piace. L’avvolgente McKinsey, la multinazionale americana delle consulenze, non ronza attorno al governo di Mario Draghi, con sommo dispiacere del medesimo Mario Draghi. McKinsey è nel governo, McKinsey è Vittorio Colao, il ministro per l’Innovazione e la transizione digitale. È stato Colao a ispirare il contratto da poche migliaia di euro che il Tesoro ha firmato con McKinsey per alcune marginali mansioni nella scrittura del cosiddetto Recovery plan, il piano italiano da consegnare entro aprile per ottenere circa 200 miliardi di euro di risorse europee. E c’era il precedente: l’anno scorso, nel secondo governo Conte, Colao scelse McKinsey per una collaborazione a titolo gratuito durante la sciagurata esperienza della sua task force per la ripartenza dopo la pandemia. Un’attrazione fatale quella tra il neoministro e la griffe globale della consulenza. Un’attrazione non casuale. L’intera carriera di Colao, 59 anni, nato a Brescia da famiglia calabrese, già amministratore delegato del gigante della telefonia Vodafone, è cominciata ed è stata forgiata nelle stanze di McKinsey, forte di una fenomenale rete di collaboratori e di ex dipendenti che hanno trovato posto ai vertici di grandi imprese nel mondo. Si rimane sempre un ragazzo di McKinsey e si propende sempre per il «metodo analitico» di McKinsey. Un metodo forse necessario nel privato, di aleatoria utilità nel pubblico. Stavolta, di sicuro, non sembra compatibile con il «metodo politico» di Draghi, che predilige le strutture statali perché da lì proviene col suo decennio da direttore generale del Tesoro e da lì ha imparato il mestiere di banchiere col suo lustro a Bankitalia. Questa attitudine fa di Colao un ministro in teoria centrale che scivola verso la periferia del governo. Dove si è marginali, o meglio: ininfluenti. Sono quelle motivazioni che non si dichiarano neppure a sé stessi, ma Colao ha accettato il ministero anche per vendicarsi della figuraccia a cui l’ha esposto il governo di Conte. Non poteva rifiutare, poi, perché l’ha cooptato il Quirinale nell’esecutivo di Draghi. Lo schema per il Recovery era Colao a un lato con la transizione digitale, Roberto Cingolani a un altro lato con la transizione ambientale e al vertice il Tesoro di Daniele Franco che fa riferimento a Palazzo Chigi. Però lo schema si è sfaldato presto perché Colao ha ricevuto un ministero senza portafoglio, cioè senza spesa, con deleghe scarne, cioè vuote di potere, ma un delicato incarico di coordinamento per le attività del digitale sul Recovery: vuol dire tutto e niente, dipende da quanto si è incisivi. Siccome dispone di un unico dipartimento e di un organico esile, com’era per l’ex ministra Paola Pisano, Colao ha azionato subito la chiamata di emergenza e dunque ha convocato McKinsey. Già l’anno scorso per la task force di Colao la società ha offerto dirigenti come Guido Frisiani, senior partner nella sede di Milano, e il collega Fabrizio Bacchini, entrambi molto referenziati per il settore delle telecomunicazioni. Per quell’incarico non serviva il nullaosta del governo. McKinsey ha prodotto «analisi di scenario e ha organizzato e sintetizzato gli incontri online» per la task force. A costo zero, si fa sapere da Colao, ma è bene ricordare che McKinsey non è un’associazione non profit, ma una multinazionale che agisce per interessi legittimi e però di parte, la sua parte. Gli stessi Frisiani e Bacchini, adesso, sono stati arruolati al ministero. Questa volta, però, per completare l’operazione, era indispensabile il via libera del Tesoro. Il ministro Franco ha accontentato Colao e ufficialmente l’accordo con McKinsey - con un compenso di soli 25.000 euro che non giustificano né disvelano le intenzioni - riguarda una «comparazione europea e un cronoprogramma italiano del Recovery» che coinvolge i tre ministeri. L’incarico affidato a McKinsey ha senso soltanto se si conosce l’esigenza di Colao di avere al suo fianco Frisiani e Bacchini. Il ministro per l’Innovazione e la transizione digitale ha un disperato bisogno di rendere efficace il pomposo titolo che gli hanno affibbiato, grazioso come una elegante scatola di cioccolatini, ma spietato come una elegante scatola di cioccolatini senza cioccolatini. E non ha tempo, manca un mese e mezzo alla definizione del Recovery. E non ha ruoli, il denaro per la banda larga e le strategie per il G5, materie che l’hanno reso un manager di fama internazionale, sono altrove. Allo Sviluppo Economico del ministro leghista Giancarlo Giorgetti, per esempio. Così si spiega l’istinto a rifugiarsi da McKinsey. Appena due anni fa, intervistato proprio da Frisiani sulla rivista trimestrale di McKinsey, Colao ha depositato le memorie della sua stagione a Vodafone. Oggi Frisiani si occupa del presente di Colao assieme a Stefano Firpo, il capo di Gabinetto. Firpo fu reclutato da Banca Intesa da Corrado Passera, ministro di due ministeri nel governo di Mario Monti tra cui lo Sviluppo Economico, ora rientra al governo dopo un anno a Mediocredito. Firpo ha un profilo tecnico, ma il capo di Gabinetto deve coprire il versante politico del ministro, ancora di più se il ministro non ha addentellati politici. Nell’isolamento di largo di Brazzà, dov’è confinato il ministero, Colao e Firpo studiano come gestire il denaro del Recovery sotto le insegne dell’«innovazione e transizione digitale». Per non arrivare ultimi hanno deciso di consultare le aziende a controllo statale come Poste o le aziende di rilevanza pubblica come Tim per avere idee su cui investire i fondi europei. Se Colao e Firpo ci riescono, il ministero avrà una funzione nel governo. Se non ci riescono, il vantaggio di quel ministero rimane la collocazione della sede a due passi dalla fontana di Trevi. Colao assomiglia già a una sorta di epigono di Passera. Anche il banchiere Passera era stimato, coccolato, trasversale. Anche Passera doveva innovare e snellire lo Stato. Ci ha creduto. Tant’è che si presentò al Colle da Giorgio Napolitano con un dettagliato progetto per rendere veloce e moderna l’economia italiana come se dovesse restare al governo per tre legislature. Napolitano non gradì e non nascose il suo disappunto. Passera, mesto, se ne tornò in ufficio con quell’ammasso di carta, non compreso da Napolitano e mal sopportato dal premier Monti. All’inizio anche Passera fu aiutato da McKinsey per ridisegnare la macchina statale. Non serve neppure porsi la domanda: sì, pure Passera ha lavorato in McKinsey. L’Italia è piena di ex McKinsey. Paolo Scaroni, presidente del Milan, una dozzina di anni fra Enel ed Eni. Alessandro Profumo, già amministratore delegato di Unicredit, presidente del Monte dei Paschi e attuale ad di Leonardo/Finmeccanica. Francesco Caio, già ad di Poste Italiane, presidente di Saipem e la compagnia aerea Ita (la prossima Alitalia). Fabrizio Palermo, ex direttore finanziario di Fincantieri, oggi a capo di Cassa depositi e prestiti. La ragnatela di McKinsey, che raggiunge i posti di comando di grosse imprese internazionali, si è rivelata formidabile per le relazioni e dunque per i profitti della società americana. Un’ampia letteratura, tra libri e inchieste giornalistiche, descrive questa ragnatela di professionisti della gestione aziendale come un comitato d’affari in grado di tessere trame più o meno occulte. I rapporti sorti all’interno di quello che appare, e si autorappresenta, come un corpo d’élite tornano preziosi per consolidare carriere e alleanze. Ecco un esempio concreto. Alla fine del 2013 Colao chiamò in Vodafone Aldo Bisio, un ex partner McKinsey che fu messo alla guida delle attività italiane. I due manager avevano una lunga consuetudine di lavoro in comune. Già nove anni prima, Bisio era sbarcato in Rcs-Corriere della Sera al seguito di Colao amministratore delegato del gruppo editoriale. Questione di settimane e la coppia ex McKinsey potrebbe incrociarsi ancora una volta, poiché Vodafone Italia è in prima linea sul fronte dell’evoluzione digitale e Bisio di certo non faticherà a ottenere udienza al ministero di largo di Brazzà. La conferma la si può rintracciare in un video pubblicato lunedì otto marzo sul canale Yotube dell’università Bocconi in cui Bisio, a colloquio con il rettore Gianmario Verona, senza mai citare l’amico e mentore Colao, si definisce ottimista sull’operato nelle telecomunicazioni del governo Draghi. L’addio di Colao alla multinazionale della telefonia è recente. Era il settembre del 2018 quando il manager italiano lasciò Londra dopo dieci anni al comando della multinazionale britannica e altrettanti in posizioni di vertice dello stesso gruppo, che vale 45 miliardi di euro di fatturato. Nel mezzo, un intervallo di due anni come amministratore delegato di Rcs, dove il pragmatico manager bresciano si scontrò sin da subito con il variegato parterre di azionisti del Corriere della Sera. Le dimissioni arrivarono nel luglio del 2006 e tre mesi dopo Colao volò a Londra come capo europeo di Vodafone. Una scalata di manager abile a immaginare e anticipare un mercato in rapidissima trasformazione, dai telefoni Gsm di un quarto di secolo fa al 5G dei giorni nostri. «Sto reinventando me stesso», confessò Colao nell’estate di due anni fa. Allora il futuro ministro era dato in rampa di lancio verso il comitato organizzatore delle Olimpiadi del 2026, quelle di Milano e Cortina. Alla fine, il governo Conte, quello giallorosso, indicò un altro manager della telefonia, Vincenzo Novari, già capo di Tre. Fu il fondo americano General Atlantic, invece, ingaggiare Colao come special advisor. Lo stesso fondo che ad aprile dello scorso anno, nel pieno della prima ondata della pandemia, annunciò di essere pronto a investire 5 miliardi di dollari nei cosiddetti “distressed assets”, cioè nelle aziende messe al tappeto dalla crisi. A luglio del 2018 General Atlantic aveva puntato 250 milioni di dollari su un gruppo finanziario in crescita. Si chiamava Greensill capital e pochi giorni fa, l’8 marzo, è stato travolto da un fallimento miliardario che ha fatto scalpore a Londra. Nel frattempo, Colao è andato al governo di Roma e il giorno dopo il giuramento ha lasciato l’incarico nel fondo Usa. Perché le carriere non si macchiano. Semmai si lucidano. Con McKinsey.

RECOVERY PLAN. LE INUTILI PROTESTE DEI NOSTALGICI “CONTIANI”SULL’ INCARICO DI DRAGHI ALLA MCKINSEY. Banker il 7 Marzo 2021 su Il Corriere del Giorno. BANKER è lo pseudonimo firma di uno dei più importanti economisti europei, che per ovvi motivi non può firmarsi personalmente. Chi come i soliti giornalisti “giallorossi” del Fatto Quotidiano attaccano la decisione di Palazzo Chigi di utilizzare i consulenti della McKinsey scrivendo “Tradimento! Draghi lascia scrivere ai consulenti americani le nostre politiche di investimento!” parlano, tanto per cambiare, senza sapere nemmeno di cosa stiano parlando. La decisione del premier Draghi di affidare un contratto di consulenza alla McKinsey sotto il nuovo Governo Draghi ha scatenato l’ennesima nuova polemica inutile della solita politica becera. Infatti non è la prima volta che lo Stato Italiano affida degli incarichi di consulenza alla multinazionale statunitense leader mondiale nelle consulenze strategiche. McKinsey ha uffici in più di 130 città e 65 paesi ed è la 35a più grande azienda privata degli Stati Uniti con 10,5 miliardi di dollari di ricavi nel 2019, stima il noto magazine USA Forbes. La Mc Kinsey ha già lavorato gli scorsi anni per il Mef come consulente ed ha addirittura ristrutturato la sua organizzazione per un importo che è il doppio della cifra ora contestata. Il primo incarico venne assegnato con il governo gialloverde nel febbraio del 2019, quando alla guida del ministero dell’Economia c’era Giovanni Tria, i cui i pagamenti sono stati effettuati dal governo successivo quello giallorosso, dal ministro Roberto Gualtieri. Quindi non si è trattata di una novità introdotta dal premier Mario Draghi. Chi come i soliti giornalisti “giallorossi”del Fatto Quotidiano attaccano la decisione di Palazzo Chigi di utilizzare i consulenti della McKinsey scrivendo “Tradimento! Draghi lascia scrivere ai consulenti americano ani le nostre politiche di investimento!” parlavano tanto per cambiare senza sapere nemmeno di cosa stessero parlando. L’incarico affidato ai consulenti è la necessità doverosa e conseguenza di verificare come è stato impostato il PNRR: un insieme di linee progettuali ciascuna delle quali contiene specifici progetti che hanno risorse dedicate, tempi di attuazione e risultati attesi. Questi progetti, devono raggiungere gli obiettivi indicati dalla Commissione attenendosi ai rigorosi parametri di valutazione con tanto di voto finale: se il PNRR supera l’esame arriveranno i soldi, contrariamente l’ Italia rischia di restare a bocca asciutta. La scadenza per la presentazione delle proposte del Governo Italiano è stato fissato dalla Commissione Europea per il prossimo 30 aprile, è quindi assolutamente normale che in vista della scadenza, dati i notevoli picchi di lavoro, il Mef di avvalga anche di risorse esterne, chiaramente non per decidere niente ma per eseguire le scelte fatte in sede politica dall’ Italia, nel rispetto delle specifiche rigorosamente indicate dalla Commissione. Se il piano è quello, è quindi logica conseguenza che si avverta la necessità di esperti consulenti aziendali capaci di redigere con competenza ed oculatezza le schede di Excel richieste dalla Commissione, impostate con stati di avanzamento, obiettivi intermedi, ritorni degli investimenti. Un lavoro specifico consueto per i “tecnici” della McKinsey e di qualsiasi altra organizzazione di consulenza internazionale, che sicuramente non si reperiscono negli staff ministeriali dell’ex-Governo Conte. A questo punto che è legittimo chiedersi dove erano a settembre 2020 quei “criticoni” fiancheggiatori del Governo Conte bis, quando la varò le prime linee guida per la stesura del PNRR, poi aggiornate lo scorso gennaio? Sarebbe il caso di far cadere quello squallido velo d’ipocrisia di quelli che adesso si indigna per i “consulenti americani”. Se i “criticoni” del Fatto Quotidiano a partire da Marco Travaglio e Peter Gomez, che poverini di economia non capiscono nulla avendo costruito le rispettive fortune giornalistiche pubblicando libri farciti di carte giudiziarie, avessero letto quelle 59 pagine, oltre al regolamento del RRF, avrebbero dovuto avere l’onestà intellettuale di indignarsi a suo tempo, leggendo la quasi totale spoliazione di qualsiasi spazio di discrezionalità, di flessibilità decisionale, di autonomia nella decisione delle destinazioni di spesa. Il precedente incarico alla McKinsey era quello “di avviare la procedura dura di affidamento diretto su M.E.P.A. della fornitura dei servizi relativi al progetto interdirezionale di analisi volto ad accrescere la performance organizzativa del Dipartimento del Tesoro, ai sensi dell’art. 36, comma 2, lett. a) del D.Lgs. 50/2016 alla società McKinsey & Company inc. Italy – Piazza Duomo 31, 20122 Milano Partita IVA:00805970159 – tramite trattativa diretta sul M.E.P.A. Bando “Servizi” – Categoria Merceologica “Servizi di supporto specialistico”. Sulla questione è arrivato una nota di chiarimento del Mef : “L’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri paesi dell’Unione Europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano. Il contratto con McKinsey ha un valore di 25mila euro +IVA ed è stato affidato ai sensi dell’art. 36, comma 2, del Codice degli Appalti, ovvero dei cosiddetti contratti diretti “sotto soglia”. Le informazioni relative al contratto saranno rese pubbliche, come avviene per tutti gli altri contratti del genere, nel rispetto della normativa sulla trasparenza”. Il Mef ha precisato il perimetro del coinvolgimento della società Usa: “La governance del Pnrr italiano è in capo alle amministrazioni competenti e alle strutture del Mef che si avvalgono di personale interno degli uffici. McKinsey, così come altre società di servizi che regolarmente supportano l’amministrazione nell’ambito di contratti attivi da tempo e su diversi progetti in corso, non è coinvolta nella definizione dei progetti del Pnrr“, si legge in una nota diramata da Via XX Settembre. Il vero scandalo di cui nessuno parla, è quello di del precedente governo guidato da “Giuseppi” Conte, di aver a suo tempo rinunciato a qualsiasi spazio di manovra nelle scelte politiche in relazione alle alle direttrici di investimento, invece di lamentarsi di poche decine di migliaia di euro pagate per la consulenza strategica dei consulenti di McKinsey. Le polemiche attuali sono buoni solo per far dimenticare, incompetenza, incapacità di qualche politicante allo sbaraglio che a maggio 2020 aveva probabilmente altro da fare.

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2021. Il Recovery plan italiano sta entrando nella fase decisiva di preparazione. Per il governo di Mario Draghi, significa superare in tempi record la tappa più difficile per un Paese dall'amministrazione pubblica notoriamente sfilacciata: avere le persone per attuarlo. Non però quelle di McKinsey. Nei corridoi del ministero dell'Economia ha suscitato un certo stupore l'attenzione sul contratto da 25 mila euro alla società di consulenza. I suoi esperti sono chiamati solo a ricontrollare il piano per Next Generation Eu in base agli standard di riferimento dei progetti degli altri Paesi e confezionare il prodotto finale con la grafica e parti di testo accattivanti, prima dell'invio a Bruxelles. Ma tutti nei ministeri coinvolti capiscono che la partita vera è altrove. Non solo nella squadra formata per il Recovery dei 50 tecnici del ministero dell'Economia, destinata tra l'altro a crescere. Né in quelle di una quindicina di addetti l'una in ciascuno dei principali ministeri. Il problema di fondo riguarda le strutture dello Stato per poter investire in maniera produttiva 209 miliardi di euro in cinque anni e mezzo, perché ogni euro del Recovery non speso nel 2026 rischia di andare perso. Gli apparati di oggi non hanno le competenze necessarie e le procedure per reclutare nuovi profili sono inadeguate, anche perché troppo lente. Stanno entrando ora nuovi dirigenti che hanno vinto concorsi pubblici banditi dieci anni fa, mentre il governo ha bisogno di assumere migliaia ingegneri, informatici, geologi e altri professionisti entro sei mesi. La fase esecutiva del Recovery incombe e c'è l'intera struttura tecnica dello Stato da ricostruire, senza compromessi sulla qualità dei profili. Di qui il disegno di innovazione nel reclutamento dello Stato, confermato al «Corriere» da una mezza dozzina di persone al corrente degli sviluppi. Quel progetto sarebbe un tassello della riforma dell'amministrazione posta dalla Commissione Ue come condizione all'Italia per poter ricevere i bonifici da Bruxelles. Nel governo si sta dunque studiando un meccanismo di reclutamento rapido di migliaia di esperti, con remunerazioni di mercato e inizialmente con contratti a tempo. Niente concorsi tradizionali. Per ingegneri o geologi il ministero della Pubblica amministrazione potrebbe appoggiarsi agli albi professionali di chi ha superato l'esame di Stato. Non conterebbero i punteggi ottenuti nei test di accesso agli ordini, ma quella selezione prima farebbe da filtro per l'iscrizione a concorsi speciali. Quanto ai professionisti senza albo - attivi in settori nati dopo l'epoca d'oro di ordini fondati come enti pubblici negli anni '30 - si pensa a altri metodi: individuazione dei profili tramite i sistemi di ricerca tipici delle grandi imprese, incluso il ricorso all'intelligenza artificiale. Chi sarà assunto per il Recovery, potrà esserlo solo a tempo proprio perché i fondi finiscono nel 2026 e le regole europee non permettono contratti permanenti. Ma potranno diventarlo dopo, se le amministrazioni trovano le risorse. Fin qui la gestione dell'emergenza, che però rischia di non bastare in una Roma dai ministeri sempre più disarticolati (ad eccezione di Esteri e in parte di Giustizia ed Economia). Nel governo si pensa dunque a un meccanismo già usato nelle grandi amministrazioni europee: la chiamata diretta di circa 500 figure per ruoli di vertice, per esempio nei gabinetti dei ministri. L'idea è di creare un'osmosi dal settore privato (che coinvolga anche talenti italiani all'estero), al pubblico, in vista di un ritorno al privato in seguito. Anche qui sulla base di retribuzioni che non scoraggino i più capaci dal servizio nello Stato. C'è poi un terzo fronte aperto sui concorsi pubblici già banditi, ma bloccati dalla pandemia. Molti comuni, anche grandi, sono sempre più a corto di personale e si cercherà di tenere esami digitali in sedi istituzionali (per esempio, le grandi aule universitarie). Di certo la riforma dell'amministrazione è l'aspetto su cui finora Bruxelles ha criticato di più l'impianto italiano del Recovery. Serve un progetto per nuovi sistemi di reclutamento, un nuovo impianto sulla progressione delle carriere, un nuovo metodo di valutazione delle performance. L'Italia è in mezzo al guado. Non può restare dov'è.

Giuseppe Liturri per startmag.it l'8 marzo 2021. Sabato pomeriggio è stato necessario un comunicato del ministero dell’Economia per arginare la marea montante dei tanti cascati ingenuamente dal pero, alla notizia che la prestigiosa società di consulenza internazionale McKinsey era al lavoro sul Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR). La valutazione di questo piano da parte della Commissione e la sua approvazione da parte del Consiglio, da eseguirsi entro 3 mesi dalla presentazione, sono condizione di accesso ai tanto agognati fondi del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF). Da via XX Settembre sono stati costretti a scoprire l’acqua calda, ribadendo l’ovvio e cioè che “gli aspetti decisionali, di valutazione e definizione dei diversi progetti di investimento e di riforma inseriti nel Recovery Plan italiano restano unicamente in mano alle pubbliche amministrazioni coinvolte e competenti per materia”. E specificano che “l’attività di supporto richiesta a McKinsey riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri paesi dell’Unione Europea e un supporto tecnico-operativo di project-management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. Il tutto avverrà con un contratto da €25.000 (appena sufficienti per pagare qualche decina di giornate/uomo di consulenti junior). Queste parole, ripetiamo ovvie, erano rivolte a placare una gazzarra mediatica al grido di “Tradimento! Draghi lascia scrivere ai consulenti americani le nostre politiche di investimento!”. In testa al corteo (virtuale) dei manifestanti spiccava il Fatto Quotidiano seguito a ruota da tutto il fior fiore della gauche caviar, quelli sempre pronti ad indignarsi a comando, senza sapere nemmeno di cosa si stia parlando. Noi, che di queste cose scriviamo ormai da fine maggio 2020, appena la Commissione rese noti i primi dettagli, crediamo che chi si indigna (solo) oggi possa essere inscritto in un insieme a scelta tra quello degli ipocriti, degli ignoranti, o di quelli in malafede. Con elevata probabilità di intersezione tra i suddetti insiemi. Il lavoro che sarà richiesto ai consulenti è la naturale e quasi doverosa conseguenza di come è stato impostato il PNRR: un insieme di linee progettuali ciascuna delle quali contiene specifici progetti che hanno risorse dedicate, tempi di attuazione e risultati attesi. Se tali progetti, così congegnati, raggiungono gli obiettivi indicati dalla Commissione secondo rigorosi parametri di valutazione con tanto di pagella finale, il PNRR passa ed arrivano i soldi, altrimenti si resta a secco. È quindi normale che, soprattutto in presenza di picchi di lavoro in vista della scadenza del 30 aprile, il ministero di avvalga di risorse esterne, non per decidere alcunché ma per eseguire, secondo le specifiche dettate dalla Commissione, le scelte fatte in sede politica. Ed è proprio su questo punto che cade il pesante velo d’ipocrisia di chi ora si indigna per i “consulenti americani”. Dove erano a settembre 2020, quando la Commissione varò le prime linee guida per la stesura del PNRR, poi aggiornate a gennaio scorso? Se avessero letto quelle 59 pagine, oltre al regolamento del RRF, avrebbero dovuto indignarsi allora, nel leggere la quasi totale spoliazione di qualsiasi spazio di discrezionalità, di flessibilità decisionale, di autonomia nella decisione delle destinazioni di spesa. Se il piano è quello, è poi logica conseguenza che ci sia bisogno di aziendalisti capaci di scrivere le schede di Excel richieste dalla Commissione, impostate con stati di avanzamento, obiettivi intermedi, ritorni degli investimenti. Tutto pane quotidiano per i ragazzi di McKinsey e di qualsiasi altra società di consulenza internazionale. Lo scandalo, che avremmo voluto vedere denunciato dagli indignati della 25ma ora, è quello di aver rinunciato a qualsiasi spazio di agibilità nelle scelte politiche relative alle direttrici di investimento. Chi ha deciso che dobbiamo dedicare il 37% degli investimenti alla transizione ambientale (qualsiasi cosa voglia dire, fumo incluso) ed il 20% alla transizione digitale? E se l’Italia avesse bisogno di qualcosa in meno o qualcosa in più su altre linee, come il dissesto idrogeologico e la manutenzione del territorio? Non si può toccare palla. Abbiamo supinamente subito importanti scelte politiche relative alle destinazioni di spesa ed alle condizioni per l’ottenimento dei fondi, e da luglio al MEF stanno impazzendo per “inventarsi” progetti che incrocino le linee guida della Commissione. È questo lo scandalo di cui nessuno parla, non quattro ragazzi di McKinsey chiamati a compilare dei fogli di Excel o scrivere qualche diagramma di Gantt per i progetti. Buoni solo per pulire la coscienza di qualche sepolcro imbiancato che a maggio 2020 aveva altro da fare.

E ora Mario Draghi deve stare attento ai burocrati. Bruno Manfellotto su L'Espresso l'8 marzo 2021. Il presidente del Consiglio sta scrivendo il recovery plan in prima persona e con un gruppo ristretto di fedelissimi. Ma perché funzioni serve che gli apparati non si mettano di traverso. Per uno di quei paradossi di cui si nutre la politica, è assai probabile che Mario Draghi debba presto fare i conti con qualcosa di molto più insidioso del Salvini di lotta e di governo o della congenita confusione dei Cinque stelle: corre due rischi che, viva i paradossi, riguardano proprio lui. Il primo si chiama “pubblica amministrazione”. E cioè: saprà questa rispondere alle esigenze del momento? Intanto, per sbrigarsi e per rifuggire vane governance barocche, il premier il recovery plan se lo sta dunque scrivendo da solo, come trapela da Palazzo Chigi. Con pochi amici fidati, come Daniele Franco, ministro dell’Economia e suo stretto collaboratore già negli anni del ministero del Tesoro e poi della Banca d’Italia, e Francesco Giavazzi, economista assai stimato, pur se di scuola accademica alquanto lontana. Bene, si dirà, evviva, è la sua tazza di tè, no? Laurea brillante, master al Mit, superbo cursus honorum nella nomenklatura pubblica, un passaggio di un anno nel privato (Goldman Sachs) che non guasta, e infine Francoforte tra quantitative easing e mediazioni con Angela Merkel. Tecnico e politico: che volete di più? Ma il fatto è che Bruxelles vincola l’accesso al Next Generation non solo alla tempestività dei progetti presentati e alla loro congruità con le linee guida indicate dalla Commissione europea, ma alla effettiva capacità di spesa (i prestiti saranno erogati a rate, in base - come dire? - allo stato avanzamento lavori) e all’impegno a darsi da fare per accelerare la giustizia e rendere più efficiente la pubblica amministrazione. Ah, le riforme! Poco amate da lobby e corporazioni, che nel fermare le novità si sono dimostrate spesso più forti delle tante eccellenze che pure brillano nella burocrazia. Mario Monti, per esempio, diceva di essere stato incatenato proprio da certi apparati ministeriali, bravissimi, quando vogliono, a impedire che le cose si facciano. In quel caso, il suo governo voleva tagliare la marea di sussidi alle imprese, ma non ci riuscì; ora, al contrario, si tratta di spendere i 209 miliardi del Recovery, ma il problema è sempre lo stesso. Per capirci: tra il 2014 e il 2020 l’Ue ha destinato all’Italia quasi 45 miliardi di euro (i cosidetti fondi strutturali e di coesione) che però, documenta la Corte dei Conti, ne ha impiegati solo 18. Dal che Monti deduce che non solo non sappiamo spendere, ma nemmeno progettare dove e come farlo. E Draghi? Sarà proprio questa la sua principale battaglia. Che per un verso combatterà attaccando il nemico, cioè cercando far camminare meglio la macchina pubblica che conosce bene, per un altro aggirandolo: è sua intenzione «valutare il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi», ha detto nel suo primo discorso alle Camere. Traduzione: quando e dove occorre, sarà dato più spazio ai privati, che hanno interesse a fare molto e presto, e questo vale sia per i progetti del Recovery, sia per i grandi dossier ancora aperti: Ilva, Alitalia, Autostrade, Mps… Insomma, c’è debito buono e debito cattivo, e vabbè. Ma bisogna pur farlo, ‘sto debito. Presto e bene. E poi c’è un altro pericolo per Draghi: le enormi aspettative legate al suo nome e alla sua storia, alimentate fin da quando è salito la prima volta al Quirinale ed esaltate giorno dopo giorno nella nostra tradizionale, sfacciata corsa all’agiografia (indimenticabile il loden di Monti). Continuare a dire che non c’è problema che non sia in grado di risolvere, che questa è l’ultima carta e che dopo di lui il diluvio, certo non lo aiuta, anzi lo danneggia: più lo si mitizza - adda venì Marione! - più diventa inevitabile la corsa a trovare magagne, limiti, incapacità. Un assaggio s’è già avuto con la vicenda dei sottosegretari e del ricorso ai Dpcm, e perfino con l’allarmante crescita dei contagi che, secondo la vulgata, doveva scendere al solo apparire di Super Mario. No, meglio restare con i piedi per terra, lasciare i miracoli ai santi e aspettare che parlino i fatti e le decisioni. Di cui c’è gran bisogno.

Carlo Clericetti per clericetti.blogautore.repubblica.it il 9 marzo 2021. Il “governo dei migliori” ci ha appena fatto sapere che a fare il Recovery Plan da solo non ce la fa, e ha bisogno della consulenza della McKinsey. Per fare che cosa? Un comunicato del ministero, che riproduciamo sotto, afferma che il compito di McKinsey “riguarda l’elaborazione di uno studio sui piani nazionali “Next Generation” già predisposti dagli altri paesi” e “un supporto tecnico-operativo di project management per il monitoraggio dei diversi filoni di lavoro per la finalizzazione del Piano”. Resta difficile capire perché l’esame dei piani altrui non possa essere affidato a risorse interne alla nostra amministrazione pubblica. Chi abbia la curiosità di consultare il sito del ministero dell’Economia (Mef) può constatare che dispone di un notevole numero di dirigenti. Il solo dipartimento del Tesoro, poi, può contare su un “Consiglio tecnico-scientifico degli esperti” che conta nove “prof.” e quattro “dott.” Se non fanno un lavoro di questo genere, si può sapere che cosa fanno? E se quegli esperti non ne avessero voglia, ci sarebbe per esempio l’Uffico V della Ragioneria, tra i cui compiti c’è lo “Studio e analisi comparata delle discipline contabili adottate nei Paesi dell'UE. Analisi comparata a livello internazionale sulle procedure di bilancio e delle relative discipline contabili, sulle metodologie dei sistemi di controllo interno e di misurazione delle performance. Analisi, studi e proposte per l'applicazione degli standards internazionali di contabilità pubblica”. Eccetera. Mentre studiano le procedure di bilancio, non possono dare anche un’occhiata ai piani Next Generation, che comunque nei bilanci ci devono entrare? Naturalmente si potrebbe proseguire ad libitum, addentrandosi nei meandri degli uffici del Mef, del ministero dello Sviluppo economico e di tutti gli altri ministeri. Allora, i casi sono due: o si ritiene che siano tutti una massa di incapaci, e allora licenziamoli per giusta causa. Oppure si è scelto di rivolgersi all’esterno per avere un maggior controllo su che cosa si dirà e su come lo si dirà. Visto che non si parla di licenziamenti, dev’essere buona la seconda. Il secondo compito di McKinsey, quello esposto nella frase che inizia con “supporto tecnico-operativo”, non è chiaro per niente. Veramente a leggere quella frase viene in mente la “supercazzola” del film Amici miei. A meno che il compito dei consulenti non sia quello di inventare un linguaggio così complicato da tentare di indurre un complesso di inferiorità nelle controparti della Commissione che esamineranno il Piano, che per non mostrare di non averci capito niente direbbero che è bellissimo. Sarebbe una scommessa ardita. Ma in fondo, si dirà, a questi gli danno un tozzo di pane, appena 25 mila euro. Si vede che questi signori non hanno ancora letto il libro di Franco Debenedetti appena uscito, intitolato “Fare profitti”. Oppure lo fanno per fare un favore a un vecchio amico, il ministro per l’Innovazione tecnologica Vittorio Colao, che in McKinsey c’è stato per dieci anni. D’altronde la società non è nuova a questi favori: quando l’ex consulente economico di Matteo Renzi, Yoram Gutgeld (ex McKinsei anche lui), stava per essere nominato commissario alla Spending review, facendo fuori Carlo Cottarelli, al Mef, di fronte alla sala conferenze della Ragioneria generale, c’era una stanza sulla cui porta faceva bella mostra una targa con scritto “Laboratorio McKinsey-Mef”. E da quando si erano insediati attorno a Cottarelli si era fatto il deserto. Una sorta di nemesi: la spending review, che dovrebbe essere un compito dei ministri e della pubblica amministrazione, affidata a un esterno (Cottarelli, appunto) che viene scalzato da altri ancora più esterni di lui. Avanti così e per una consulenza cercheremo gli extraterrestri. Speriamo almeno che i nostri consulenti non si esercitino a inventare altri condoni fiscali. Questo governo uno lo ha già varato (quello delle cartelle fino a 5.000 euro), ma il piano che Colao aveva preparato per gli Stati generali del governo Conte ne prevedeva vari. Tra le riforme che dovrebbero essere attuate per rispettare le raccomandazioni della Commissione c’è anche quella della pubblica amministrazione. Ma forse è una fatica inutile. Facciamo fare tutto a Mckinsey, tanto lavorano quasi gratis.

Giuseppe Liturri per “La Verità” il 2 aprile 2021. Sapete chi ha «aiutato» l'Italia a scrivere le riforme del mercato del lavoro, con fattura gentilmente pagata dalla Commissione? Il gigante internazionale della consulenza Ey. E chi ha collaborato col Belgio per la progettazione della riforma fiscale? L'altro gigante Pwc. Che però, secondo le rivelazioni dello scandalo Luxleaks, assieme alle altre «big four» ha anche fornito a 340 multinazionali gli strumenti (complessi schemi societari) per evitare il pagamento delle tasse. Stessa cosa è accaduta all'Estonia e alla Francia. Nulla di illecito, ci mancherebbe. Ma il problema resta ed è enorme, al punto che martedì scorso ben 73 europarlamentari hanno scritto e firmato una ben dettagliata lettera alla presidente della Commissione Ursula von der Leyen e al vice presidente esecutivo Valdis Dombrovskis esprimendo preoccupazione circa le notizie rivelate dal sito Euractiv.com lo scorso 18 e 19 marzo e chiedendo ben dettagliate spiegazioni. Tutto nasce dal programma per il sostegno alle riforme strutturali, lanciato dalla Commissione nel 2017, con l'obiettivo di fornire assistenza tecnica agli Stati membri per la progettazione delle riforme strutturali. A questo scopo, la Commissione metteva a disposizione sia risorse interne che esterne provenienti da organizzazioni internazionali e società private di consulenza. Si è passati in pochi anni da una «modesta» spesa di 22 milioni nel 2017 a 85 milioni nel 2020 (462 milioni complessivi nel periodo 2016-2019) e una spesa prevista nel prossimo settennio di 864 milioni. E la quota di questa spesa assorbita dalle «big four», inizialmente insignificante, nel 2019 è stata pari a quasi un terzo del totale. Il problema non è quello della congruità della spesa rispetto ai servizi forniti: nessuno mette in dubbio la professionalità di queste grandi firme della consulenza internazionale. C'è piuttosto un enorme problema di opportunità e di potenziale conflitto di interessi su materie particolarmente delicate come fisco, sanità e lavoro. Tutti i lavori prima elencati comportano l'emissione di importanti raccomandazioni relative alle scelte politiche. Nonostante il portavoce della Commissione abbia puntualizzato che i consulenti non sono responsabili di scelte politiche, i dubbi non sono fugati. Non si tratta solo di fare lavori di ricerca o comparazione di alternative, ma si termina spesso con specifiche prescrizioni che non possono essere affatto neutrali, ma necessariamente portano con sé l'appartenenza a ben determinate scuole di pensiero. La scienza, soprattutto quella economica, non è mai neutrale e le conclusioni a cui giunge sono sempre il risultato di ipotesi e metodi di analisi caratterizzati da elevata discrezionalità. La questione è talmente importante che, oltre all'attenzione dei parlamentari, aveva già coinvolto l'ombudsman europeo Emily O'Reilly - che aveva puntato i riflettori su un contratto di consulenza a Black Rock - e la Corte dei Conti della Ue che dovrebbe anche pubblicare un rapporto all'inizio del prossimo anno. Il presidente del gruppo dei Verdi all'Europarlamento, Philippe Lambert, non ha avuto peli sulla lingua nell'identificare i rischi: «Non si tratta di dipendenti che ragionano su basi scientifiche in modo indipendente, ma la gran parte sono laureati nelle business school, la cui formazione è stata guidata dall'unico credo neo liberista, che si è rivelato essere sbagliato». Accanto al problema del sottile confine esistente tra consulenza e prescrizioni di politica economica, la cui violazione è altamente probabile, c'è il tema del conflitto di interessi. È noto che queste società di consulenza hanno anche tra i loro clienti le più grandi imprese private. Ed è evidente che il patrimonio di conoscenze acquisito lavorando con i governi su temi di politica fiscale, del lavoro o di innovazione tecnologica è spendibile anche come know-how lavorando sul fronte privato. Il caso di McKinsey, riportato nell'inchiesta, è emblematico. Se lavori per la Commissione, con un congruo onorario di 966.000 euro, per aiutare le Pmi a sfruttare i vantaggi dell'intelligenza artificiale, poi è molto più facile consulenza alle imprese sullo stesso argomento. Proprio McKinsey ha incassato 5,5 milioni dalla Commissione a partire dal 2016. Se il quadro, non proprio tranquillizzante, è questo, allora i parlamentari chiedono che la Commissione «intraprenda interventi incisivi per evitare il rischio di un'indebita influenza delle società di consulenza nelle sue decisioni e nella progettazione delle riforme strutturali in settori delicate delle politiche pubbliche». Inoltre chiedono di spiegare perché la quota di consulenze affidate all'esterno sia cresciuta così tanto negli ultimi anni con un dettagliato riepilogo delle spese effettuate dal 2016. Infine, invitano la Commissione a valutare la convenienza di pagare consulenze rispetto all'assunzione di personale e, per chiudere, chiedono che l'affidamento di questi lavori sia preceduto da un vaglio rigoroso per impedire il sorgere di conflitti di interessi. Quando, qualche settimana fa, spiegavamo che il problema non erano i quattro spiccioli pagati dal Mef a McKinsey ma la evidente «impronta ideologica» lasciata da queste società sulla definizione delle famose riforme strutturali con cui si angoscia il nostro Paese da anni, non immaginavamo di avere delle conferme così tempestive.

Recovery, così gli uomini delle grandi società di consulenza indirizzeranno la spesa dello Stato. Non solo gli esperti McKinsey. Tagliato l’apparato burocratico sono 4mila i consulenti esterni in ministeri, Regioni e Comuni. Un giro di affari pari a 3 miliardi di euro negli ultimi sei anni. Sono loro che si occuperanno dei bandi di spesa con i fondi di Bruxelles. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 5 aprile 2021. Il caso McKinsey è solo la punta dell’iceberg. L’utilizzo di uomini provenienti da società di consulenza nelle tolde di comando dello Stato, e nel caso McKinsey di governo con Colao, è ormai una pratica diffusa a macchia d’olio in tutta la pubblica amministrazione. Da tempo lo Stato ha esternalizzato un pezzo del suo cuore pulsante, le scelte chiave sulla spesa in ministeri, Regioni e Comuni, alle società esterne che hanno fatto affari d’oro: con contratti con la pubblica amministrazione che valgono più di 3 miliardi di euro negli ultimi sei anni e un esercito di 4 mila esperti dentro le amministrazioni. Società che con le loro lobby, e spesso gli strofinamenti con la politica, hanno acquisito un peso enorme dentro le stanze del potere. Perché in assenza di esperti e tecnici, sono spesso gli uomini delle società di consulenza ad avere un ruolo chiave: esperti targati Deloitte, Pwc, Ernst&young, Dbi, Invitalia, Formez, solo per citare le principali società internazionali con rami in Italia e le aziende parapubbliche ma che agiscono da privati in questo ricco mercato. Volti che controllano la spesa, suggeriscono i criteri e le linee guida dei bandi e hanno accesso di prima mano a informazioni su come verranno indirizzate le risorse dello Stato, interne ed europee, per investimenti e progetti. Un ruolo spesso vitale perché, è bene ribadirlo subito, dopo aver assestato colpi micidiali alla pubblica amministrazione, adesso senza gli esperti esterni le già lente macchine degli enti locali e dei ministeri non riuscirebbero a spendere un euro. Peccato però che in questo scenario si sia creata in Italia una grande zona grigia: con il meccanismo delle porte girevoli, le stesse società fanno anche consulenza per le aziende private che partecipano spesso ai bandi pubblici per ottenere finanziamenti; oppure sono gli stessi ex consulenti che diventano dirigenti della pubblica amministrazione e affidano poi a loro volta consulenze esterne allo stesso mondo dal quale provengono. Una cosa è certa: il fiume di denaro del Recovery fund sarà nella pratica investito e speso con bandi e progetti scritti spesso dalle grandi società esterne.

LA CARICA DEI TECNICI. A fronte di un calo dei dipendenti pubblici, scesi a 3,2 milioni con 300 mila posti vacanti da dieci anni a questa parte, è cresciuto il ricorso agli esperti esterni. Solo con i fondi europei sono stati spesi per «assistenze e rafforzamento della Pa» 3 miliardi di euro. A questa cifra vanno aggiunti gli incarichi dati anche per le consulenze su fondi statali, come quelli gestiti dalla Cassa depositi e prestiti o da altri rami dello Stato. Impossibile avere un dato certo, ma gli addetti al settore sussurrano di una spesa aggiuntiva di almeno un miliardo di euro negli ultimi sei anni. Ma dove lavorano questi esperti? Ad esempio al ministero dell’Istruzione lavorano circa ottanta consulenti della Pricewaterhouse advisory (Pwc) per un contratto di 30 milioni come assistenza alla spesa dei fondi del Piano operativo nazionale che per il comparto dell’istruzione vale oltre 1,2 miliardi. Sono gli uomini della Pwc che si occupano di «assicurare la verifica e il controllo sui progetti». Al Miur un altro contratto di consulenza esterna ce l’ha la società Nova srl per 56 milioni di euro. Al ministero delle Infrastrutture la gara per l’assistenza dei piani «reti e infrastrutture» è stata aggiudicata alla Deloitte, insieme a Pwc, per 9 milioni di euro. E, ancora, all’Agenzia per la coesione territoriale ci sono gli uomini di Ernst&Young con gara vinta da 30 milioni e una cinquantina di consulenti. Pwc ha poi vinto la gara nei ministeri del Lavoro, dei Beni culturali e dell’Interno con un’altra gara da 28 milioni di euro, mentre i consulenti Deloitte sono anche nelle principali regioni del Sud, dalla Calabria alla Sicilia, dopo essersi aggiudicati il bando da 28 milioni per l’assistenza sui fondi Ue.

IL PUNTO. La gara per l’assistenza tecnica di Liguria, Lombardia, Piemonte, Umbria, Valle d’Aosta, del valore di 27 milioni di euro, è stata vinta dall’inglese Bdo insieme alla Bip, Creasys srl e Selene audit Srl. I consulenti della Pwc sono anche nelle Regioni Lazio e Sardegna con contratti da 18,3 milioni. Ernst&Young è in Abruzzo, Basilicata, Marche, Molise con contratti da 11,6 milioni. In Campania e Puglia, con contratto da 55 milioni di euro, ci sono Meridiana Italia e Lattanzio. Anche la creatura di Domenico Arcuri, Invitalia, riceve decine di milioni di euro per assistenza tecnica ai ministeri. McKinsey invece ha un ruolo nella valutazione dei progetti del Fondo nazionale innovazione di Cassa depositi e prestiti, che da solo vale 1,2 miliardi di euro, mentre il fondo dell’Agenzia nazionale giovani ha come consulenti gli uomini della Ernst&Young. A proposito di porte girevoli, sia l’amministratore del fondo Cdp sia il direttore dell’Agenzia nazionale giovani arrivano da esperienze nelle stesse società di consulenza.

ACCESSO ALLE INFORMAZIONI. Il vero problema è che negli ultimi venti anni gli investimenti nella pubblica amministrazione sono crollati. Non solo non c’è stato un ricambio, ma sono stati dimezzati i fondi per la formazione e da anni non si fanno veri concorsi per assumere dirigenti apicali nei ruoli chiave. Qualche selezione c’è stata, ma non per numeri sufficienti. Secondo Maurizio Petriccioli, segretario generale Funzione pubblica Cisl, ormai non c’è più tempo da perdere se non si vuole dare tutto ai privati: «Chi paga le conseguenze dei tagli al sistema pubblico sono i cittadini: in un anno di guerra al Covid ci siamo illusi di poter recuperare, in pochi mesi, il gap determinato da decine di miliardi di mancati investimenti nella sanità. E ci siamo illusi di poter rendere immediatamente esigibili quelle risorse destinate alle categorie più esposte e colpite dai lockdown chiamando la pubblica amministrazione a uno sforzo organizzativo senza precedenti con le dotazioni organiche di personale ridotte all’osso, in un comparto in cui l’età media è di 50,7 anni e solo il 3 per cento è composto da nativi digitali». Nel 2021, per la prima volta, il numero di pensionati della Pa supererà i suoi dipendenti. Per Petruccioli va posto un freno ai contratti esterni: «Oggi sono innumerevoli le agenzie, grandi o piccole, che si occupano di offrire quelle risorse che hanno capacità in materia di project management. Ma per quale motivo non è possibile internalizzare determinate figure? Se continuiamo a rimandare questo processo, vedremo le grandi aziende di consulenza fare affari con i governi senza che sia chiaro ai cittadini a quali tipologie di informazioni o dati sensibili possono accedere. E continueremo a vedere i rappresentanti di interessi particolari svolgere attività di lobbying sul decisore pubblico con poca trasparenza». Secondo Luca Bianchi, direttore della Svimez, nonostante la spesa per consulenze esterne, i risultati sulla qualità degli investimenti degli enti pubblici non sono stati buoni: «Il meccanismo prevalente è stato quello della costruzione di una sorta di amministrazione parallela. L’incapacità di una pianificazione degli interventi da parte delle figure apicali della pubblica amministrazione ha schiacciato gli interventi esterni sulla risoluzione di problemi strettamente amministrativi, che avrebbero dovuto essere svolti da personale interno. Un meccanismo che peraltro genera un’inevitabile tendenza a prorogare negli anni i contratti di assistenza tecnica, unica formula per molte amministrazioni pubbliche per avere personale aggiuntivo in tempi rapidi, con i rischi di intermediazione politica connessi all’assenza di procedure trasparenti di selezione del personale impiegato».

IL PIANO DEL MINISTRO BRUNETTA. Già il governo Conte, su proposta del ministro del Sud Giuseppe Provenzano, aveva presentato nella legge di stabilità una norma per ridurre il ricorso alle società private creando un bacino da 2.800 esperti da assumere a tempo all’Agenzia della coesione territoriale. Il bando per assumere questi esperti sarà pubblicato a breve, come ha assicurato il ministro della Funzione pubblica, Renato Brunetta. Il nuovo ministro conosce bene l’argomento delicato delle consulenze. Nel 2008 chiese, da componente del governo Berlusconi, che fossero pubblicati online tutti i dati relativi alle consulenze esterne pagate dalle amministrazioni pubbliche. Oggi annuncia di voler irrobustire una macchina, quella del pubblico impiego, che ha perso quasi 300mila dipendenti rispetto ad allora e che è invecchiata. «Senza ricambio generazionale e senza l’innesto di nuove competenze, tecniche e gestionali, nella Pa, rischiamo di non riuscire a spendere i quasi 200 miliardi del Recovery fund», ripete in ogni occasione pubblica. Il ministro non criminalizza le consulenze. «Sono sempre stato convinto, allora come oggi, che esistano consulenze buone e consulenze cattive. Se un piccolo Comune rischia di essere travolto dalla frana della montagna che ha di fronte e non annovera geologi tra i suoi dipendenti, è assolutamente positivo che si avvalga di un geologo esterno. Ma se un Comune con mille dipendenti chiama i consulenti per la disposizione delle fioriere, è chiaro che si tratta di uno spreco». Il tema dell’accesso alle informazioni, delle lobby e della trasparenza avrà un ruolo chiave anche nell’utilizzo del Recovery fund. E al momento tutti questi aspetti lo Stato li ha appaltati all’esterno.

Il Tafazzismo Meridionale. Il Sud separato in casa.

LA COERENZA MERIDIONALISTA DEL MINISTRO FRANCO E LA GUERRA DEI MANIFESTI. Roberto Napoletano su Il Quotidiano del Sud il 9 marzo 2021. Siamo al solito frazionismo deteriore. Manca l’intelligenza strategica e manca un’idea condivisa. Passano tutti il tempo a scrivere documenti inutili perché ognuno si deve distinguere dall’altro e si deve attaccare la sua medaglietta. Ognuno vuole essere interlocutore di qualcuno per avere qualcosa. Questa è l’autoreferenzialità che fa più male al Mezzogiorno perché fa male al Paese. Si tiri dritto con la coerenza meridionalista del piano nazionale di ripresa e di resilienza rifacendo una struttura tecnica centrale con la stessa missione che fu della Cassa di Pescatore negli anni del prestito Marshall e del miracolo economico italiano e si assuma dal centro l’esercito di “soldati” del diritto, dell’informatica e dell’ingegneria che dovranno cambiare la faccia delle amministrazioni meridionali unendosi a quel che di buono già c’è. Ho davanti agli occhi il testo più meridionalista che mi sia capitato di leggere negli ultimi due anni. Lo ha firmato il ministro dell’Economia e delle Finanze in carica, il bellunese Daniele Franco. Coincide con la Proposta di piano nazionale di ripresa e resilienza illustrata in Parlamento lunedì otto marzo. C’è tutta la coerenza meridionalista del trentino De Gasperi nei governi centristi della Ricostruzione italiana del Dopoguerra. Di principi, di metodo, di dettaglio. C’è lo spirito che ha ispirato tutte le battaglie di questo giornale, l’operazione verità sulla spesa pubblica e il ritardo della macchina amministrativa meridionale, la consapevolezza che il “nostro Paese soffre di forti eterogeneità lungo diverse direzioni: quella territoriale, generazionale e di genere”. Che sono in prima battuta Sud, giovani, parità di genere e, quindi, in seconda battuta quasi in toto Mezzogiorno. La prima disparità indicata ha la sua sintesi algebrica in un tasso di occupazione di oltre 20 punti inferiore a quello delle regioni del Centro Nord. La seconda disparità si racconta con la quota più elevata dell’Unione di giovani che non studiano e non lavorano e con la quota predominante di questa quota del disonore interamente collocata nelle regioni meridionali. La terza disparità è un tasso di occupazione femminile in Italia nella fascia 15-64 anni pari al 50% e, quindi, di 18 punti inferiore a quello degli uomini e di 8 punti inferiore alla media dell’Unione Europea. Domandina: dove ritenete che questa terza disparità sia smaccatamente più forte? Ve lo dico io: nel Mezzogiorno. Poche righe più sotto si legge “i piani finanziati con il PNRR possono contribuire ad accrescere il potenziale di sviluppo del Paese e devono farlo muovendo lungo le direttrici strategiche indicate dalla Commissione che sono la digitalizzazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale”. Siamo sempre realisticamente alla coerenza meridionalista e lo siamo, soprattutto, quando si pone l’esigenza di “un deciso rafforzamento delle strutture tecniche ed operative deputate all’attuazione degli interventi”, quando si parla di “logica di competenza orizzontale per assicurare la coerenza complessiva del Piano con l’obiettivo di riduzione dei divari territoriali” e quando, infine, si scrive che “solo con il coinvolgimento dei territori è possibile selezionare progetti in grado di soddisfare i bisogni di cittadini e di imprese”. Precisando che ciò è particolarmente vero “per i progetti nel campo dell’istruzione, della sanità, del ciclo di rifiuti, di trasporti e di mobilità in genere”. Siamo, ancora di più, alla coerenza meridionalista con le riforme della pubblica amministrazione, della giustizia civile, della semplificazione normativa trasversale e con il “rafforzamento delle strutture tecniche”. Basta, mi fermo qui. Di fronte a un’apertura di credito così lucida vi immaginate che le forze migliori del Mezzogiorno, il mondo intellettuale e dell’impresa, e i Capi delle Regioni si riuniscano tutti insieme? E che, per una volta, presentino un progetto Paese organico – questo vuol dire occuparsi del Mezzogiorno – e siano tutti insieme pronti a cogliere l’occasione irripetibile di fare progetti seri finalmente finanziabili e di potere assumere personale qualificato che inneschi il circolo virtuoso dell’efficienza per le pubbliche amministrazioni meridionali? No, tutti si sono messi a scrivere manifesti da separati in casa, ex ministri, presidenti e direttori di associazione, chi a titolo personale e chi no. Prolificano le nuove associazioni e i nuovi movimenti per non parlare delle chat. Siamo al solito frazionismo deteriore. Manca l’intelligenza strategica e manca un’idea condivisa. Passano tutti il tempo a scrivere documenti inutili perché ognuno si deve distinguere dall’altro e si deve attaccare la sua medaglietta. Ognuno vuole essere interlocutore di qualcuno per avere qualcosa. Questa è l’autoreferenzialità che fa più male al Mezzogiorno perché fa male al Paese. Si tiri dritto con la coerenza meridionalista del Piano nazionale di ripresa e di resilienza rifacendo una struttura tecnica centrale con la stessa missione che fu della Cassa di Pescatore negli anni del prestito Marshall e del miracolo economico italiano e si assuma dal centro l’esercito di “soldati” del diritto, dell’informatica e dell’ingegneria che dovranno cambiare la faccia delle amministrazioni meridionali unendosi a quel che di buono già c’è e uscendo per sempre dal labirinto delle divisioni e dei manifesti personali. Questa è la rivoluzione che serve al Paese intero. Al Nord come al Sud. Perché i diritti di cittadinanza negati delle popolazioni meridionali sono insieme la questione civile e la questione economica del Paese. Riunire le due Italie con la banda larga, i porti, i treni veloci e il Ponte sullo Stretto significa realizzare il più strategico dei progetti di transizione ecologica e digitale dell’Italia, non del Mezzogiorno. Significa uscire da venti anni di crescita zero perché si attua finalmente l’inclusione sociale. Significa fare ciò che ci chiede l’Europa che è anche ciò che serve all’Italia. Non c’è bisogno di questo o quel Manifesto per capirlo.

·        Gli Errori del Governo.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 9 dicembre 2021. Il mondo è ancora impreparato a future pandemie e la maggior parte dei paesi non è pronta neanche per affrontare piccoli focolai di malattie nonostante da due anni il mondo conviva con il Covid-19. Secondo il Global Health Security Index (GSH Index), nessun paese ha «le capacità critiche» per rispondere efficacemente al Covid né è preparato per future epidemie oggi di quanto non lo fosse nel 2019. L'indice, che è stato messo insieme dal Johns Hopkins Center for Health Security presso la Bloomberg School of Public Health e dalla Nuclear Threat Initiative, misura quanto sono preparati per le emergenze sanitarie i 195 paesi del mondo. Gli Stati Uniti si sono rivelati il Paese più preparato ad affrontare future emergenze sanitarie, seguiti a ruota da Australia e Finlandia, mentre il Regno Unito si è classificato al settimo posto. Nonostante ciò, l'indice ha rilevato che i paesi a tutti i "livelli di reddito" sono rimasti "fondamentalmente deboli" nel prepararsi a future emergenze, nonostante il mondo abbia affrontato la pandemia di Covid-19 negli ultimi due anni. Il rapporto recita: «L'indice GHS 2021 continua a mostrare che tutti i paesi mancano ancora di alcune capacità critiche, il che ostacola la loro capacità di rispondere efficacemente a Covid-19 e riduce la loro preparazione per future minacce di epidemie e pandemie». Nell'indice, che prende in considerazione il periodo da agosto 2020 a giugno 2021, nessun paese al mondo si è classificato al primo posto nei cinque livelli. Il punteggio medio nel 2021 è stato di di soli 38,9 punti su 100, ed è rimasto «sostanzialmente invariato rispetto al 2019», secondo i risultati. Quattro delle sei categorie del GHS Index hanno avuto un punteggio medio inferiore a 40, posizionandosi nelle ultime tre delle cinque fasce. La regione con il punteggio più alto, che si è rivelata la località più preparata per una futura epidemia, sono gli Stati Uniti, che si sono classificati con un punteggio di 75,9. L’Italia si è classificata al 41esimo posto, tra la Georgia e La Grecia. 

Nicoletta Cozza per ilgazzettino.it il 30 ottobre 2021. In magazzino in giacenza ce ne sono ancora poco più di 300. Sono smontati, imballati con il cellophane e appoggiati sui pallet di legno, esattamente come quando erano stati consegnati dalla ditta che li aveva realizzati. Anche nel deposito della Provincia di Padova, quindi, c'è ancora un significativo quantitativo di banchi a rotelle, ma contrariamente a quanto è avvenuto a Venezia, non andranno al macero. Anzi, potrebbero avere a…

La (brutta) fine dei banchi a rotelle di Azzolina&Co. Alessandro Imperiali il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. Scatta la polemica a Venezia per i banchi a rotelle voluti da Arcuri e Azzolina. Nessuno li vuole più (ammesso che qualcuno li abbia mai voluti). Solitamente mentre si naviga per i canali di Venezia non ci si aspetta di incontrare una chiatta piena di banchi a rotelle. Eppure, questo è ciò che turisti e abitanti hanno visto ieri mattina. Banchi a rotelle accatastati uno sopra l'altro destinati allo smaltimento. La foto scattata all'imbarcazione ha cominciato a circolare su chat e gruppi Whatsapp di diversi professori, assistenti amministrativi e bidelli, non senza scatenare ilarità. Immediatamente ci si è cominciati a chiedere quale scuola si stesse sbarazzando in questo modo delle sedute che, in teoria, avrebbero dovuto garantire il distanziamento. Acquistate lo scorso anno con tempestività dall'allora commissario all'emergenza Domenico Arcuri, si è trattato di uno scherzetto costato allo Stato circa 100 milioni di euro. Tornando ai banchi, appartengono, o meglio appartenevano al liceo Benedetti dove alcuni docenti, riporta il Corriere della Sera, confermano che sono stati portati via diversi oggetti e mobili. La maniera in cui però sono disposti i banchi sulla chiatta di una ditta privata però lasciano poche interpretazioni: le sedute non erano dirette a un'altra scuola, tutt'altro. La dirigente scolastica nei giorni scorsi ha chiamato una ditta di trattamento rifiuti ingombranti che ha effettuato il trasporto. Il motivo è l'impossibilità di utilizzarli. Ovviamente la vicenda è immediatamente diventata politica. Non sono mancate le polemiche, in particolare modo nei confronti dell'ex ministro dell'Istruzione Lucia Azzolina e l'ex commissario straordinario Arcuri. Il capogruppo di Fratelli d'Italia in Consiglio regionale Raffaele Speranzon ha parlato di "denaro pubblico buttato via" e ha chiesto l'intervento della Corte dei conti. Sulla stessa linea anche il deputato leghista Alex Bazzaro il quale non nasconde tutta la sua disapprovazione attraverso un post su Facebook. L'Azzolina però non ci sta e irritata, spiega l'Ansa, ha risposto a una cronista: "Chieda alle scuole chi ha voluto e ha chiesto i banchi. Le domande che mi sta facendo indicano che lei è una persona profondamente disinformata. La questione è stata raccontata urbi et orbi, e io non ho più la voglia di rispondere. Non glielo devo spiegare io, deve andare nelle scuole e chiedere. È un dramma che facciate ancora a queste domande". L'ex ministro però dovrebbe anche ricordarsi quando lo scorso 5 gennaio annunciava fieramente con queste parole il ritorno in presenza a scuola: "Le ricerche ci dicono che nella scuola c'è stato solo il 2 per cento dei focolai, è anche merito dei nuovi banchi, oltre che delle altre misure, che hanno permesso il distanziamento. Ringrazio il commissario Arcuri per il lavoro fatto: ottenere 2,4 milioni di banchi in pochi mesi è un risultato eccezionale". Da questa dichiarazione non pare proprio che lei fosse contraria o all'oscuro della decisione di acquistarli. 

Alessandro Imperiali. Nato il 27 gennaio 2001, romano di nascita e di sangue. Studio Scienze Politiche e Relazioni Internazionali alla Sapienza e ho preso la maturità classica al Liceo Massimiliano Massimo. Sono vicepresidente dell'Associazione Ex Alunni Istituto Massimo e responsabile di ciò che

Da liberoquotidiano.it il 29 ottobre 2021. Come i bambini che si tappano le orecchie per non sentire il rimprovero, così Lucia Azzolina messa al muro sul caso dei banchi a rotelle mandati in discarica da un liceo di Venezia risponde: "La questione è stata raccontata urbi et orbi, e io non ho più la voglia di rispondere. Non glielo devo spiegare io, deve andare nelle scuole e chiedere. È un dramma che facciate ancora a queste domande", dice ai giornali locali che l'hanno interrogata. "Chieda alle scuole chi ha voluto e ha chiesto i banchi. Le domande che mi sta facendo indicano che lei è una persona profondamente disinformata". Insomma, l'ex ministra grillina dell'Istruzione non vuole commentare in alcun modo la notizia di questo liceo del centro storico lagunare, il "Benedetti-Tommaseo", che aveva acquistato un anno fa i famosi banchi a rotelle e che nei giorni scorsi, vista l'impossibilità di utilizzarli, tramite la dirigente ha chiamato una ditta di trattamento rifiuti ingombranti, che ieri ha effettuato il trasporto come si vede nella foto che ha fatto il giro dei social. "Ritengo francamente sconcertanti le dichiarazioni di Lucia Azzolina, che nelle ultime ore ha preso pubblicamente le distanze dall'acquisto dei banchi a rotelle. Probabilmente l'esponente del Movimento 5 Stelle dimentica, o finge di non ricordare, le pompose conferenze stampa e le sue improvvide affermazioni rese quando occupava lo scranno più alto del Dicastero della pubblica istruzione, quando annunciava l'arrivo massivo nelle scuole italiane di queste 'sedute ludiche' quale presidio cruciale per affrontare l'insegnamento in presenza all'insegna della sicurezza e del distanziamento sociale", sbotta Elena Donazzan, assessore regionale all'Istruzione, alla Formazione e al Lavoro del Veneto, ed esponente di Fratelli d'Italia. La Donazzan già un anno e mezzo fa aveva più volte bollato questa operazione come uno "spreco di denaro pubblico in un acquisto inutile di banchi, ingiustificato e irrealizzabile per l'inizio dell'anno scolastico". Quindi affonda: sebbene non sia più ministro "restano però gli strascichi di certe scelte politiche rivelatesi erronee, com'era ovvio che fosse, e l'amaro in bocca nel constatare che chi allora ha sbagliato oggi tenta di nascondere la propria testa nella sabbia e non sarà chiamato a risponderne".

 Stefano Filippi per “La Verità” l'1 febbraio 2021. Li ha voluti, li ha comprati e si ostina a difenderli: «Hanno contribuito a ridurre i contagi nelle scuole», ripete la ministra Lucia Azzolina a proposito dei banchi a rotelle. Di sicuro, spaccano la schiena agli studenti. E i presidi del Veneto, dopo averli piazzati a debita distanza l'uno dall'altro nelle classi, li hanno tolti di mezzo. I banchi con le ruote sono stati fatti sparire. «Lo stesso Ufficio scolastico regionale», dice Elena Donazzan, assessore all'istruzione della Regione Veneto, «ha diramato tempo fa una nota in cui ne sconsigliava l'uso. E quell'Ufficio è la rappresentanza territoriale del ministero». L'unica a non pentirsi dell'errore è proprio Azzolina. Il caso è scoppiato venerdì pomeriggio durante un incontro convocato da Donazzan in Regione per discutere della ripresa delle lezioni in presenza alle scuole superiori. In Veneto le elementari e le medie sono rimaste sempre aperte, licei e istituti tecnici e professionali no. Dopo l'Epifania il governatore Luca Zaia ha firmato un'ordinanza in cui l'obbligo della didattica a distanza veniva prorogato fino a oggi. Per tutto gennaio alle superiori sono entrati in classe soltanto i ragazzi disabili o con particolari difficoltà di apprendimento. Venerdì dunque c'è stato un vertice con le assessore Donazzan ed Elisa De Berti (Trasporti), la direttrice dell'Ufficio scolastico regionale, la prefettura di Venezia e le sigle sindacali. È stata Daniela Avanzi, segretaria dello Snals, a segnalare l'accantonamento dei banchi a rotelle, soprattutto nelle scuole medie, perché hanno provocato «problemi posturali» agli studenti. Lo hanno confermato gli altri sindacalisti presenti e la direttrice dell'Ufficio scolastico, Carmela Palumbo. «C'era da aspettarselo», spiega Donazzan. «Già a luglio avevo segnalato che quei banchi erano inutili e pericolosi. Non c'è nessuna omologazione. Dalla scheda tecnica risulta che essi sono "sedute con rotelle per adulti". Non sono per niente adatti ai ragazzi, soprattutto se sono nella fase della crescita. Gli insegnanti sono molto attenti a questi aspetti, agli alunni chiedono di stare composti proprio per evitare posture scorrette». Banchi a rotelle in soffitta, dunque. Per Azzolina è una nemesi tragicomica. I tavolini mobili sono il suo cavallo di battaglia, l'unica arma con cui la pubblica istruzione è andata all'assalto del Covid nelle aule. Per mesi se ne è discusso perché la ministra ne aveva fatto una battaglia personale: null'altro se non le scrivanie semoventi sarebbero state in grado di arginare il virus negli edifici scolastici. E di conseguenza non è stato fatto altro. Poi la faccenda è passata in mano alla struttura commissariale di Domenico Arcuri e i problemi si sono ingigantiti, con i contratti di acquisto segretati, i dubbi sulle forniture perché i banchi consegnati ai presidi italiani non sono omologati per uso scolastico, il mistero doloroso di quanto sia stato effettivamente speso per gli acquisti, solo di recente svelato dal commissario: un budget di 461 milioni. La Corte dei conti e la guardia di finanza hanno aperto indagini. I banchi a rotelle sono diventati il simbolo degli sprechi di questa emergenza sanitaria. Al giallo degli ordini è subentrato il caos delle consegne, cominciate con il contagocce quando l'anno scolastico era già avviato, e completate quando gli istituti chiudevano i battenti sotto l'avanzare della seconda ondata del coronavirus. Poco prima di Natale si è avuta la conferma da due documenti del ministero della Salute (uno datato 12 agosto e l'altro 12 ottobre) che l'operazione banchi a rotelle non aveva alcun senso: il governo li ha comprati senza sapere se sarebbero stati davvero utili e, quando sono arrivati, non aveva idea di come il loro impiego avesse influito sulla diffusione del contagio nelle scuole. «Non è noto l'impatto che potranno avere le misure di riorganizzazione scolastica che si stanno mettendo in campo in questi giorni», scriveva il ministero guidato da Roberto Speranza a metà agosto, ammettendo che il governo procedeva alla cieca ignorando se i banchi semoventi sarebbero stati davvero utili o no. A ottobre, quando già erano arrivate un po' di suppellettili da distanziamento, la nebbia non si era ancora alzata. Giovanni Rezza, direttore generale della Prevenzione al ministero della Salute, ha firmato un vademecum in cui si legge che «la reale trasmissibilità di Sars-Cov-2 nelle scuole non è ancora nota, anche se cominciano a essere descritti focolai in ambienti scolastici in Paesi in cui le scuole sono state riaperte più a lungo. Non è inoltre stato quantificato l'impatto che potranno avere le misure di riorganizzazione scolastica adottate». Ma per Lucia Azzolina quella sui banchi a rotelle resta una «polemica stucchevole»: lo ha detto 10 giorni fa alla riapertura della Galleria degli Uffizi a Firenze. «Sono strumenti che fanno parte di scuole innovative e permettono un approccio alla didattica diverso: è un patrimonio che rimarrà strutturalmente nelle scuole». Le scuole, invece, la pensano ben diversamente. I presidi del Veneto hanno preferito rinchiudere i banchi nei magazzini e riesumare le vecchie sedute. «Sono arredi non necessari, inutili e dannosi», conferma Donazzan. Oggi l'assessore farà partire un'indagine conoscitiva in tutte le scuole della regione: «Chiederò informazioni, voglio sapere chi ha chiesto i banchi a rotelle, dove sono stati consegnati, se sono stati usati oppure no e per quale ragione sono stati tolti. Quei soldi potevano essere impiegati meglio per comprare altri dispositivi di protezione e assumere nuovi docenti».

Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 18 aprile 2021. Sei indizi su come è andata a finire la storia dei banchini a rotelle voluti dall' ex ministra Lucia Azzolina. Il primo: su TikTok si trovano decine di video in cui gli studenti rientrati in classe si mettono la mascherina, indossano il casco e fanno il banco- scontro nei corridoi (colonna sonora più gettonata: Checco Zalone). Il secondo: diecimila "sedute didattiche innovative" mai consegnate prendono la polvere in un magazzino di Pomezia. Il terzo: ce ne sono novemila nei depositi dei plessi del Veneto, consegnate dalla struttura commissariale ma rimesse nel cellophane e accantonate. Il quarto: alcuni alunni che le hanno provate lamentano dolori alla schiena e le trovano scomode. Il quinto: ci sono costate 95 milioni di euro. Sesto e ultimo indizio: alla Corte dei conti e alla Guardia di finanza sono arrivati diverse denunce. No, non è andata bene. Ne sono consapevoli anche al ministero dell' Istruzione, retto ora da Patrizio Bianchi. Negli uffici di viale Trastevere circola una stima, sussurrata sottovoce dai Capi dipartimento, che dà la dimensione del flop: il 50 per cento delle sedute con rotelle comprate come misura anti-Covid non è stato utilizzato. «Sì, è così», conferma a Repubblica una qualificata fonte ministeriale. «Tra quelle che i dirigenti scolastici hanno chiesto e poi abbandonato, quelle tuttora imballate perché gli istituti di destinazione erano in zona rossa dunque vuoti, quelle messe fuori dalle classi, la stima appare corretta». La scelta politica La parabola dei banchi a rotelle è una fiera dell' errore. Li ha voluti l' allora ministra Azzolina. Una scelta politica, la sua. «Era necessario garantire il distanziamento sociale nelle aule, ma abbiamo ragionato anche per fare investimenti che non fossero per forza legati al Covid», rivendicava ancora a dicembre. Del resto, interpellato sulle precauzioni da prendere per un rientro protetto a scuola, il Comitato tecnico scientifico nella seduta del 22 giugno 2020 fissa la distanza minima da tenere tra gli alunni (un metro) e raccomanda l' uso di banchi monoposto. Tradizionali e fissi. Nessun cenno a sedute mobili, alle rotelle. A suggerire ad Azzolina una seconda strada è in qualche modo un suo collega: il preside ed ex sottosegretario all' Istruzione Salvatore Giuliano. I due condividono la militanza nel Movimento 5 Stelle. Giuliano è l' esempio a cui Azzolina si è ispirata. «A Brindisi siamo stati tra i primi, dieci anni fa, a sperimentare le sedute innovative», dice. «Sono state un successo. Rappresentano però la fine di un percorso, non il principio. Per usarle, e usarle bene, serve rinnovare la pratica didattica quotidiana ». 219 euro a banco L' allora commissario straordinario Domenico Arcuri viene investito del compito di reperire sul mercato i monoposto, il cui numero è stabilito dal ministero dell' Istruzione, sulla base delle indicazioni raccolte da 16 mila plessi scolastici italiani. A luglio Azzolina comunica ad Arcuri di acquistare 2,4 milioni di banchi, tra cui 434.344 con le rotelle, e di consegnarli in tempo per la prima campanella. Per il sistema industriale del nostro Paese, tarato sui 200 mila pezzi all' anno, si tratta di fabbricare in tre mesi quanto produce in dodici anni. Il commissario, dopo selezione della commissione aggiudicatrice esterna, affida i lavori a dodici aziende, italiane e straniere. Le sedute innovative sono costruite da Estel, Principle e Arredalab. Il costo a pezzo è di 219,17 euro, inferiore ai 307 euro previsti, ma pur sempre consistente: la spesa totale sarà di 95 milioni. Aggiungendo l' esborso per i banchi tradizionali, si sfiorano i 400 milioni. Al di là della questione soldi, è un fatto che il 14 settembre scorso nelle aule di banchi monoposto ce ne sono pochi. La distribuzione è completata a fine novembre. Ancora oggi, in un deposito Sda di Pomezia, giacciono 26 mila banchi, saldo tra consegne e rese. Ci sono, infatti, dirigenti scolastici che ne hanno richiesti in più, e altri che hanno sbagliato i calcoli degli spazi e li hanno rimandati indietro. Ecco perché non funzionano Il tema sull' utilità è ancora caldo e dibattuto. Per farsi un' idea scevra dal pregiudizio politico (Lega e Fratelli d' Italia ne hanno fatto una campagna) bisogna farsi un giro a Vo', nel padovano. Qui si incontra il preside Alfonso D' Ambrosio, un entusiasta della sperimentazione. «Ho chiesto al ministero 30 sedute mobili. Altre 70 le abbiamo comprate col bilancio comunale, ci sono costate 150 euro a pezzo: meno di quelle del Commissario, e secondo me sono anche meglio», racconta D' Ambrosio. «Le trenta erano per una classe delle medie, ma ho dovuto toglierle perché gli studenti più alti avevano dolori alla schiena». Spazi e funzionalità sono i due punti dolenti. Spiega Roberta Fanfarillo, responsabile scuola Cgil: «Possono andare bene per i laboratori, gli auditorium, meno per le classi: sono la cosa più lontana dalla didattica frontale ». «Pronti, partenza, via», urla un ragazzo con un casco da pilota, a bordo di un banco a rotelle, in un video cult su TikTok: dopo dieci metri si schianta. Più che didattica frontale, un frontale.

Dal Green pass al gran caos, gli errori del governo: Pietro Senaldi, sotto accusa c'è Draghi. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Il 15 ottobre entra in vigore l'obbligo di Green pass per accedere nei luoghi di lavoro. Si sapeva da tempo, ma non siamo pronti. Il governatore del Veneto, Luca Zaia, un Sì vax della prima ora, lancia l'allarme: in regione ha 300mila non vaccinati e per venerdì prossimo si attende il caos, va fatto qualcosa. Condividono l'allarme anche i presidenti di tutte le altre Regioni italiane, che chiedono nuove regole. Preoccupati pure gli industriali e gli imprenditori agricoli: i primi temono di trovarsi dall'oggi al domani senza operai specializzati, i secondi non hanno manodopera nei campi, perché gli extracomunitari, che sono ormai la maggior parte dei lavoratori della terra, sono allergici alla profilassi. È panico. Solo il ministro Brunetta è ottimista, ma lui gestisce la Pubblica Amministrazione, carrozzone non legato al profitto e alla produttività. Nell'Italia dei guelfi e dei ghibellini, che è riuscita a far scoppiare una guerra civile tra vaccinati e no, trasformando la salute pubblica in questione ideologica, gli anti-profilassi godono al pensiero che il passaporto sanitario possa paralizzare il Paese. Avevamo ragione noi, sostiene la mandria No vax, il passaporto verde non serve; anzi, è dannoso, oltre che liberticida, e ora se ne accorge pure il governo. Ieri si sono radunati in diecimila in Piazza del Popolo, a Roma, per protestare, al grido di «Draghi vattene». C'era di tutto, No vax duri e puri ma anche persone normali. È finita male: tensioni e scontri con la polizia.  I No vax hanno torto, ma il governo non ha tutte le ragioni. La vaccinazione di massa ha permesso di limitare il Covid, tant' è che oggi abbiamo la metà dei contagiati quotidiani rispetto all'anno scorso, quando la curva dei malati di questi tempi era già in forte salita e ci preparavamo a richiudere. Ora invece l'epidemia è in ritirata e si respira solo ottimismo. Però l'obbligo di Green pass rischia di creare problemi alla produzione, tant' è che i governatori, stavolta d'accordo con Salvini, chiedono di allungare da 48 a 72 ore la validità del tampone e alcuni imprenditori vorrebbero posticipare l'entrata in vigore del Green pass obbligatorio al lavoro. Bisogna avere il coraggio di dirla tutta per come è.

1) Se la crescita economica ha livelli superiori al 6% e le nostre vite hanno ripreso una parvenza di normalità è solo perché fa ammalare meno persone e meno gravemente.

2) Il Green pass è servito a far sì che i luoghi di grande diffusione del contagio, come ristoranti e palestre, fossero frequentati solo da vaccinati e quindi ha ridotto la diffusione del contagio.

3) Il governo ha puntato tutto sul vaccino, senza preoccuparsi troppo di contrastare altrimenti l'epidemia e l'introduzione del Green pass obbligatorio è stata la mossa per convincere anche i riluttanti a vaccinarsi.

4) Il Green pass ha evitato che fosse imposto l'obbligo vaccinale ma così com' è ha esaurito la sua funzione e vanno cambiate le regole. Il passaporto sanitario infatti ha avuto un successo limitato: nei primi giorni si è registrato un forte incremento delle iniezioni però gli scettici non sono stati convinti, tant' è che ancora oggi abbiamo oltre otto milioni di italiani sopra i dodici anni non vaccinati. 

5) Neppure la minaccia di sospensione dallo stipendio è servita al governo per convincere i contrari a vaccinarsi. Anzi, molti hanno vissuto l'obbligo di Green pass al lavoro come una sfida a cui resistere a tutti i costi. Era prevedibile, conoscendo l'anarchia e la testardaggine degli italiani.

6) Il numero di persone non ancora vaccinate, e che probabilmente non si vaccineranno mai, abbinato all'obbligo di Green pass, ha determinato una carestia di tamponi, quindi è possibile che il 15 ottobre diversi italiani non potranno andare al lavoro perché non riusciranno a farsi certificare in farmacia.

7) È giusta la preoccupazione dei governatori e degli imprenditori ma il tentativo di correre ai ripari è tardivo. Se gli adoratori di Draghi non fossero stati tutti concentrati nel contribuire alla narrazione «tutto bene, madama la marchesa», oggi non saremmo così in ritardo. A questo punto non resta che accogliere le richieste delle aziende: sì ai tamponi veloci fai-da-te e all'estensione della validità del Green pass legato al tampone.

8) Per un mese e mezzo Salvini, che prima ha parlato di obbligo vaccinale e poi ha chiesto un prezzo calmierato dei tamponi e aiuti alle aziende, è stato trattato dalla sinistra come un sabotatore. Invece aveva capito tutto prima degli altri, ma in Italia chi parla fuori dal coro viene sempre fatto passare per un fesso a cui volentieri si appiccica l'etichetta di non essere in grado di governare.

9) Come al solito il governo in Italia scarica le proprie inefficienze sui cittadini. Spetta alle aziende controllare che i propri dipendenti siano vaccinati e assumersi la responsabilità di errori e disguidi. Spetta ai lavoratori, che nel loro pieno diritto non si sono vaccinati, procurarsi un tampone costoso e introvabile. Della serie: fare di tutto per allargare la platea dei vaccinati è un'idea giusta, ma l'obiettivo poteva essere perseguito meglio.

10) Il clima sta tornando pesante. In piazza c'erano invasati da condannare, ma a questo punto forse, come suggerisce Forza Italia, valeva la pena introdurre direttamente l'obbligo vaccinale e affrontare il problema per tempo e apertamente.

11) Le proteste sono legittime, la violenza no e ha l'effetto controproducente di indebolire la voce di chi scende in piazza. I No vax duri e puri sono i più grandi nemici di chi chiede nuove regole per il green pass.

12) Il governo deve trovare una soluzione subito, già da domani. E stavolta deve essere chiara, diretta e coraggiosa. 

Magistratura, "serve una nuova Norimberga": chi è il giudice no vax che vuole "carcerare" Mario Draghi. Libero Quotidiano l'11 ottobre 2021. Sul palco No green pass a Roma, sabato scorso, c'era anche un magistrato, Angelo Giorgianni, noto per aver scritto un libro, "Strage di Stato: le verità nascoste della Covid-19" che ammicca al complottismo. Un libro che nega l'esistenza del Covid e di cui si è discusso parecchio per via della prefazione scritta dal collega Nicola Gratteri. "Oggi il popolo sovrano ha dato il preavviso di sfratto a coloro che occupano abusivamente i palazzi del potere...per loro vogliamo una nuova Norimberga", ha detto il giudice. Giorgianni - impegnato ad arringare la folla vicino a Giuliano Castellino, leader di Forza Nuova - ha detto che serve una nuova Norimberga, col governo sul banco degli imputati, "per i morti che hanno causato, per le privazioni, per i nostri figli e per la sofferenza”. Il magistrato, adesso in servizio alla corte d’Appello di Messina, non sarebbe nuovo a questo tipo di uscite. Come scrive l'Huffpost, infatti, basta dare uno sguardo a ciò che scrive sui suoi social per inquadrare il personaggio. In ogni caso, pare che Giorgianni - ex sottosegretario all'Interno - sarà in attività come giudice ancora per poco. Lo ha detto lui stesso dal palco di Roma: "Io tra voi e il popolo scelgo il popolo sovrano. E lascio la toga. Lascio la toga”.

Ora Giorgianni appenda davvero la toga al chiodo. Il magistrato Angelo Giorgianni torna a far parlare di sé prendendo la parola dal palco della manifestazione “no green pass” di sabato scorso: «Il popolo italiano ha dato il preavviso di sfratto a coloro che occupano abusivamente i palazzi del potere» Rocco Vazzana su Il Dubbio l'11 ottobre 2021. «Oggi il popolo italiano ha dato il preavviso di sfratto a coloro che occupano abusivamente i palazzi del potere». Dopo aver scritto “Strage di Stato. Le verità nascoste del Covid 19”, con tanto prestigiosa prefazione di Nicola Gratteri, Angelo Giorgianni torna a far parlare di sé prendendo la parola dal palco della manifestazione “no green pass” sfociata nelle violenze di sabato scorso. Poco male – si fa per dire – se a pronunciare quelle frasi fosse stato un privato cittadino o il leader di un’organizzazione extraparlamentare. Il problema è Giorgianni è un magistrato in attività, presidente di sezione della Corte d’appello di Messina, rappresentante autorevole di un potere dello Stato. E con la toga ancora sulle spalle, il giudice porta il suo saluto ai manifestanti. «Oggi il popolo sovrano reclama giustizia per i morti che hanno causato, per le privazioni, per i nostri figli e per la sofferenza. Noi per loro vogliamo un processo, una nuova Norimberga», dice senza arrossire nemmeno un attimo Giorgianni e senza setirsi mai fuori luogo a paragonare la gestione dell’emergenza al nazismo. «E allora qua davanti a voi voglio dire: da magistrato sono venuto a onorare il popolo sovrano, il popolo di Roma», prosegue accorato il magistrato, prima di aggiungere solenne: «E a coloro che dicono che la mia posizione è incompatibile con il popolo dico che tra voi ed il popolo scelgo il popolo sovrano e lascio la toga, lascio la toga. Roma vi amo». E tra una dichiarazione d’amore e l’altra non resta che sperare che il dottor Giorgianni sia di parola e appenda la toga al chiodo.

Inchieste. Epidemia colposa, ammissioni e nuove carte. L'ombra della Procura su Conte. Felice Manti il 9 Ottobre 2021 su Il giornale. Indagati e consulenti smontano la ricostruzione del governo sulla gestione. Non c'è solo il caso Di Donna a turbare i sonni dell'ex premier Giuseppe Conte. Sul neo leader M5s si allunga sempre di più l'onta del processo per epidemia colposa, assieme al ministro della Salute Roberto Speranza, al suo stretto entourage al ministero (il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi si è dimesso a sorpresa qualche settimana fa), fino all'ex numero due Oms Ranieri Guerra (Dg della Prevenzione tra il 2014 e il 2017) e ai vertici del Cts e dell'Iss. Quando uscì la notizia di Conte indagato, qualche manina si affrettò a scrivere che si trattava di «un atto dovuto e che le accuse sarebbero state infondate», ma la Procura di Bergamo la pensa diversamente. Certo, la famosa commissione d'inchiesta parlamentare sul Covid che dovrebbe insediarsi tra il 20 e il 22 ottobre rischia di diventare una barzelletta per colpa degli emendamenti di Pd, Lega e M5s che ne hanno depotenziato lo spazio di manovra, limitandone il campo d'indagine al 30 gennaio 2020 e ai Paesi di origine del Covid. Ma ad oggi alcune ammissioni dei protagonisti dimostrerebbero anche che alcune decisioni di Palazzo Chigi, nei giorni tra lo scoppio dell'epidemia a Wuhan e il primo caso conclamato a Codogno, avrebbero aggravato la pandemia anziché frenarla. C'è una cartella clinica (di cui ha parlato il Giornale, recapitata in forma anonima al team di legali dei familiari delle vittime della Bergamasca e oggi in mano ai pm) di un 54enne cinese della Valle Seriana ricoverato il 26 gennaio 2020 all'ospedale di Seriate con sintomi Covid, che sposterebbe di un mese lo scoppio dell'epidemia Covid in Italia, anche se c'è chi pensa (come Giorgio Palù) che il virus fosse in Italia già a settembre. Ma al paziente non venne fatto il tampone per la retromarcia di Speranza, su pressione delle Regioni. La motivazione? «La mancanza di risorse», come ha rivelato ai microfoni di Francesca Nava per Presa Diretta l'ex Dg della Prevenzione del ministero della Sanità Claudio d'Amario, successore di Guerra. C'è un documento che rivela come l'Italia avrebbe disatteso anche le richieste Ue sui test ai viaggiatori provenienti da Wuhan, innescando il cluster nel cuore dell'Europa. Governo e Regioni non avevano né soldi né reagenti, sebbene fossero previsti dal piano pandemico del 2006, ignorato e non aggiornato dallo stesso Guerra e D'Amario. Tanto che secondo un medico di Bergamo «se si faceva un tampone ad un paziente nel febbraio 2020, e se era negativo, chi lo aveva fatto correva il rischio di pagarselo di tasca propria». C'è il nodo della mancata chiusura di Alzano e Nembro, ipotizzata il 23 febbraio e sfiorata il tre marzo. Che bisognasse chiudere subito lo dice anche l'Avvocatura dello Stato in un passaggio della memoria difensiva. Quanti morti è costata? Migliaia, secondo il report del generale Pier Paolo Lunelli, consulente dei legali delle vittime: «Se si fosse chiuso anche il 27 febbraio ci sarebbero stati solo 61 morti over 65», ha detto ai pm. Decisiva in merito sarà la consulenza del professor Andrea Crisanti, in arrivo entro fine anno. Poi c'è la clamorosa ammissione di colpa, forse tardiva, di alcuni dei principali protagonisti. In un libro in uscita in questi giorni Guerra, sospettato dai pm di aver fatto pressioni sull'ex funzionario dell'ufficio Oms di Venezia, Francesco Zambon perché non rivelasse in un report (misteriosamente sparito e in mano ai pm) le falle del governo, spara contro Speranza sulle mascherine donate alla Cina e sul piano pandemico disapplicato. Persino per il consulente di Speranza Walter Ricciardi «serviva la quarantena obbligatoria di chi, anche asintomatico, tornava da zone a rischio». Per il sindaco di Bergamo Giorgio Gori «la partita Atalanta-Valencia non andava giocata». Pentimenti tardivi per evitare guai giudiziari? Lo sapremo presto. Felice Manti

La decisione della Corte. La Consulta “assolve” Conte e i suoi Dpcm: “Legittimi per il contrasto al Covid”. de Il Riformista il Fabio Calcagni de Il Riformista il 23 Settembre 2021. La Consulta boccia le prime censure ai Dpcm, i Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, firmati dall’ex premier Giuseppe Conte per le misure di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica provocata dall’epidemia di Coronavirus. La Corte costituzionale ha esaminato oggi le questioni sollevate dal Giudice di pace di Frosinone sulla legittimità costituzionale dei decreti legge n. 6 e n. 19 del 2020 sull’adozione dei Dpcm ‘anti Covid’. Nel caso concreto, un cittadino aveva proposto opposizione contro la sanzione amministrativa di 400 euro inflittagli per essere uscito dall’abitazione durante il lockdown dell’aprile 2020, in violazione del divieto stabilito dal Dl e poi dal Dpcm. Secondo il Giudice di pace, i due decreti legge avrebbero delegato al Presidente del Consiglio una funzione legislativa e perciò sarebbero in contrasto con gli articoli 76, 77 e 78 della Costituzione. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa fa sapere che la Corte ha ritenuto inammissibili le censure al Dl n. 6, perché non applicabile al caso concreto. Ha poi giudicato non fondate le questioni relative al Dl n. 19, poiché al Presidente del Consiglio non è stata attribuita altro che la funzione attuativa del decreto legge, da esercitare mediante atti di natura amministrativa. 

LA REAZIONE DI CONTE – Ovviamente soddisfatto l’ex presidente del Consiglio Conte, ora leader del Movimento 5 Stelle. Impegnato in un punto stampa a Roma prima del comizio a villa Lazzaroni con Virginia Raggi, Conte ha spiegato che “le notizie che arrivano dalla Consulta ci confortano, sul fatto che siano state respinte le censure contro il nostro operato e i Dpcm. Ma, lo dico da giurista, quando si tratta di mettere in sicurezza il Paese nulla deve fermare chi ha una responsabilità di governare il Paese”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

UNA NUOVA FIGURACCIA PER “GIUSEPPI” CONTE: “DECISIONI ILLEGITTIME DURANTE L’EMERGENZA”. Il Corriere del Giorno il 10 Agosto 2021. La sentenza del Tar del Lazio “stabilisce che non è stata fatta alcuna valutazione di impatto preventivo. È stata una decisione illegittima, fatta senza valutare i pro e i contro della scelta”. Un obbligo che, si precisa nel dispositivo di sentenza, è stato imposto “senza fornire alcun supporto a sostegno di tale determinazione”. La prima sezione del Tar del Lazio, presieduta da Antonino Savo Amodio, ha stabilito che il Dpcm del 14 gennaio 2021, che prevedeva l’obbligo di mascherine a scuola per i bambini sotto i 12 anni, è illegittimo ai soli fini risarcitori. La sentenza è stata promulgata dopo il ricorso dai genitori di una bambina di 9 anni che, all’epoca dei fatti, frequentava la scuola primaria in Alto Adige. Con l’assistenza degli avvocati Linda Corrias e Francesco Scifo, la coppia si è opposta all’obbligo previsto dal Dpcm a firma di Giuseppe Conte. Il decreto firmato dall’ ex-presidente del Consiglio, che è stato uno degli ultimi del governo Conte, prevedeva che la mascherina dovesse essere indossata a scuola, anche al banco, dai bambini tra i 6 e gli 11 anni. Nel ricorso si legge che i ricorrenti “lamentano che l’imposizione dell’obbligo di indossare la mascherina, per tutto il tempo delle lezioni ‘in presenza’, sia immotivata e sia viziata da difetto di istruttoria in quanto adottata in contrasto con le indicazioni fornite dal Comitato tecnico Scientifico e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità”. Un obbligo che, si precisa nel dispositivo di sentenza, è stato imposto “senza fornire alcun supporto a sostegno di tale determinazione”. I due genitori che hanno presentato il ricorso contro Conte hanno definito come “sproporzionata e irragionevole” la decisione che era stata adottata dal governo Conte, evidenziando “che non sia stata adottata alcuna misura al fine di garantire che un minore, pur privo di patologie conclamate, possa essere esonerato dall’uso della mascherina in classe ove risenta di cali di ossigenazione o di altri disturbi o difficoltà”. Scifo, uno dei due legali dei genitori ha espresso la sua soddisfazione per la sentenza del Tar del Lazio, per il risultato: “Stabilisce che non è stata fatta alcuna valutazione di impatto preventivo. È stata una decisione illegittima, fatta senza valutare i pro e i contro della scelta”. L’avvocato ha aggiunto: “La sentenza è importantissima, perché permette il risarcimento dei danni per un obbligo che è abusivo, quello di portare le mascherine al chiuso senza che sia stata fatta prima alcuna prescrizione o valutazione medica”. La conseguenza della decisione del Tar del Lazio è una causa legale che verrà intentata contro l’ex premier: “Agiremo contro Conte e i suoi ministri ai sensi dell’articolo 28 della Costituzione per responsabilità personale, con volontà di dolo”.

La sentenza che inchioda Conte. “Dpcm illegittimo”, così il giudice assolve una coppia per l’autocertificazione falsa. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Marzo 2021. Incuranti delle normative in materia di Covid una coppia di Correggio, in provincia di Reggio Emilia, decide di uscire di casa nonostante la zona rossa. Siamo al 13 marzo 2020, prima volta che il Paese ‘assaggia’ le restrizioni di questo tipo, e i due per poter uscire di casa compilano le autocertificazioni indicando dei motivi falsi. Scrivono che la donna deva fare delle analisi e vuole essere accompagnata, ma non è così. I carabinieri li fermano, scoprono il ‘trucco’ e li denunciano, con uomo e donna che finiscono dunque sotto processo. Ma come si legge nella sentenza pubblicata dal sito Cassazione.net, il 27 gennaio scorso il Tribunale di Reggio Emilia li ha assolti “perché il fatto non costituisce reato”. Una sentenza che farà sicuramente discutere per le motivazioni utilizzate dal giudice Emilia Dario De Luca, che ha dichiarato “l’illegittimità” del Dpcm dell’8 marzo 2020, il primo firmato dall’ex premier Giuseppe Conte, che dava la possibilità di uscire di casa solo “per comprovate esigenze lavorative, situazioni di necessità, spostamenti per motivi di salute”. Per il giudice, infatti, “in forza di tale decreto, ciascun imputato è stato "costretto" a sottoscrivere un’autocertificazione incompatibile con lo stato di diritto del nostro Paese e dunque illegittima“. Inoltre “siccome è costituzionalmente illegittima, va dunque disapplicata, la norma giuridica contenuta nel Dpcm che imponeva la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione” e proprio per questo “il falso ideologico contenuto in tale atto è, necessariamente, innocuo“. Secondo il giudice di Reggio Emilia infatti il Dpcm, un atto amministrativo, non può imporre l’obbligo di permanenza domiciliare, neanche in presenza di un’emergenza sanitaria. L’obbligo di permanenza domiciliare infatti è una sanzione penale che può essere decisa dal magistrato per singole persone “per alcuni reati, e soltanto all’esito del giudizio”. Nel motivare l’assoluzione della coppia il giudice ricorda come la  Costituzionale stabilisce garanzie molto forti a tutela della libertà di movimento, citando in tal caso l’esempio del Daspo nei confronti dei tifosi violenti, che impedisce a questi di recarsi allo stadio durante le partite, una misura che “richiede una convalida del giudice in termini ristrettissimi”. La pensa diversamente il professor Enzo Balboni, ordinario di diritto Costituzionale all’Università Cattolica di Milano, che a LaPresse spiega cosa succederà nelle prossime settimane dopo la sentenza di Reggio Emilia. “Adesso si andrà davanti alla Corte Costituzionale – dice – la presidenza del Consiglio dei Ministri si costituirà in giudizio e vediamo la Corte cosa deciderà. Se dovessi scommettere qualcosa, scommetterei sul fatto che il Dpcm alla fine verrà considerato legittimo”. “A mio avviso – sottolinea il professor Balboni – a che cosa è ‘appeso’ il Dpcm in tema costituzionale è un problema che è stato risolto. Un appiglio di cui il governo si fa garante c’è”.”Siamo solo noi in tutta Europa che ci inventiamo le autocertificazioni fasulle per uscire di casa – conclude Balboni – . Se l’autodisciplina non c’è, deve darla chi ha il potere e il dovere di farlo. La gente comprenderà e non credo farà ricorso in massa contro le sanzioni ricevute”.

(ANSA il 25 marzo 2021) Finito a processo con l'accusa di falso per aver mentito nel dichiarare nell'autocertificazione che stava tornando a casa dal lavoro, durante un controllo a Milano nel marzo dello scorso anno in pieno lockdown da emergenza Covid, un 24enne è stato assolto. E ciò perché "un simile obbligo di riferire la verità non è previsto da alcuna norma di legge" e, anche se ci fosse, sarebbe "in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo", previsto dalla Costituzione. Lo ha deciso, accogliendo la richiesta della Procura di Milano di assoluzione "perché il fatto non sussiste", il gup Alessandra Del Corvo con rito abbreviato. Per il giudice, si legge nella sentenza, "è evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di "dire la verità" sui fatti oggetto dell'autodichiarazione sottoscritta, proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica" sul punto. Il giovane, difeso dall'avvocato Maria Erika Chiusolo, fermato per un controllo alla stazione Cadorna il 14 marzo, aveva dichiarato di lavorare in un negozio e che in quel momento stava rientrando a casa. Una decina di giorni dopo, però, un agente per verificare se avesse detto la verità aveva mandato una email al titolare del negozio, il quale aveva risposto dicendo che il 24enne quel giorno non era di turno. Per il giudice non solo mancano una norma specifica sull'obbligo di verità nelle autocertificazioni da emergenza Covid e pure una legge che preveda l'obbligo di fare autocertificazione in questi casi, ma è anche incostituzionale sanzionare penalmente "le false dichiarazioni" di chi ha scelto "legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative".

Una sentenza inchioda i Dpcm: violare zona rossa non è reato. Il giudice smonta i dpcm di Conte: "Incostituzionali". Una coppia dichiara il falso nell'autocertificazione e viene assolta. Giuseppe De Lorenzo - Gio, 11/03/2021 - su Il Giornale. Infrangere la zona rossa in barba ad ogni Dpcm e scrivere una bugia nell’autocertificazione non è reato. Almeno secondo il Tribunale di Reggio Emilia che, “in nome del popolo italiano”, ha emesso una sentenza storica destinata a far discutere. Una coppia in pieno lockdown era uscita di casa senza un valido motivo e, fermata dai carabinieri, aveva presentato un autocertificazione poi risultata farlocca. Denunciati per falso ideologico in atto pubblico, sono stati assolti “perché il fatto non costituisce reato” e perché il Dpcm di Conte era “illegittimo”. I fatti risalgono al primo lockdown nazionale. Il 13 marzo 2020 la coppia di imputati viene fermata dai carabinieri di Correggio, in provincia di Reggio Emilia, senza un buon motivo per starsene in giro. Alla richiesta dell’autocertificazione, i due dichiarano che la donna era andata a sottoporsi ad esami clinici e l’uomo l’aveva accompagnata. Tutto falso. I militari si rivolgono all’Ospedale di Correggio e scoprono che la donna quel giorno non ha fatto alcun accesso in corsia. Immediata scatta la denuncia e la richiesta da parte del pm di un decreto penale di condanna, poi rigettato dal Gip. Per il giudice Dario De Luca, infatti, è acclarata “l’indiscutibile illegittimità del Dpcm dell’8 marzo 2020”, come pure di “tutti quelli successivamente emanati dal Capo del governo”, quando questi prevedono il divieto di muoversi in città. “Tale disposizione - scrive il magistrato - stabilendo un divieto generale e assoluto di spostamento al di fuori della propria abitazione, con limitate e specifiche eccezioni, configura un vero e proprio obbligo di permanenza domiciliare. Tuttavia, nel nostro ordinamento giuridico, l’obbligo di permanenza domiciliare consiste in una sanzione penale restrittiva della libertà personale che viene irrogata dal Giudice penale per alcuni reati all’esito del giudizio". Può verificarsi anche nei casi custodia cautelare, certo, ma comunque deve essere disposta da un giudice. Non da un dpcm. I decreti anti-Covid sono allora incostituzionali? Sì, almeno secondo la toga. Lo si evince dal’articolo 13 della Costituzione, il quale vieta proprio le limitazioni alle libertà personali, se non con “atto motivato dall’autorità giudiziaria”. “Primo corollario di tale principio costituzionale - aggiunge il magistrato - è che un dpcm non può disporre alcuna limitazione della libertà personale, trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge”. A ben vedere, secondo De Luca, neppure una legge (o un decreto legge) potrebbe rinchiudere in casa "una pluralità indeterminata di cittadini”: l'obbligo può essere imposto solo ad uno specifico soggetto e solo previa autorizzazione del giudice, non certo con una norma generale. Va detto però che diversi giuristi ritengono la legittimità dei dpcm si fondi sull’articolo 16 della Carta, secondo cui la libertà di movimento può essere ridotta dalla legge per motivi “di sanità o di sicurezza”. In sostanza, sostengono alcuni, le prescrizioni dei vari dpcm anti-Covid sarebbero una limitazione della libertà di circolazione e non della libertà personale, dunque pienamente legittima e costituzionale. Differenza minima, eppure sostanziale. Il giudice De Luca, però, ribadisce che “la libertà di circolazione riguarda i limiti di accesso a determinati luoghi, come ad esempio l’affermato divieto di accedere ad alcune zone circoscritte che sarebbero infette, ma giammai può comportare un obbligo di permanenza domiciliare”. Inoltre, "quando il divieto di spostamento è assoluto", come nel caso del dpcm, "in cui si prevede che il cittadino non può recarsi in nessun luogo al di fuori della propria abitazione", allora è "indiscutibile che si versi in chiara e illegittima limitazione della libertà personale”. Una libertà che l'autorità amministrativa non può in alcun modo precludere. Neppure il presidente del Consiglio. Di conseguenza, senza neppure ricorrere alla Corte Costituzionale (non essendo il dpcm una legge), il giudice ha "disapplicato" il decreto risultato incostituzionale. Se era illegittima la norma che prescriveva l’obbligo di rimanere in casa, “incompatibile con lo stato di diritto” era anche l’autocertificazione che i cittadini sono stati costretti a compilare. Dunque, sebbene sia vero che i due imputati emiliani hanno commesso un falso ideologico, la loro condotta non è tuttavia punibile perché “integra un falso inutile”. Non essendoci nessun obbligo a compilare l'autocertificazione, poiché il dpcm che lo prevede va disapplicato, “il falso ideologico contenuto in tale atto è necessariamente innocuo”. Tradotto: proscioglimento per gli imputati. E prossima bagarre giuridica in arrivo.

Perché dichiarare il falso nell’autocertificazione non è reato. Lanotiziagiornale.it il 29/3/2021. Non è obbligatorio dire la verità nell’autocertificazione o modulo autodichiarazione per gli spostamenti Covid-19 che bisogna compilare per giustificare l’uscita per ragioni di lavoro, salute o necessità. E ciò perché “un simile obbligo di riferire la verità non è previsto da alcuna norma di legge”. E, anche se ci fosse, sarebbe “in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo”, previsto dalla Costituzione. Lo ha deciso, accogliendo la richiesta della Procura di Milano di assoluzione “perché il fatto non sussiste”, il gup Alessandra Del Corvo con rito abbreviato. Ma questa è la terza sentenza in cui chi è stato mandato a processo per aver dichiarato il falso nell’autocertificazione finisce assolto. Trattandosi di un’autocertificazione, disciplinata dal Dpr n. 445 del 2000, la falsità delle dichiarazioni ivi contenute sembrava poter essere punita dall’art. 483 c.p., che sanziona chi attesti al pubblico ufficiale «fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità». Invece i giudici sono stati in altri due casi di parere contrario. Un gip di Milano ha assolto un imprenditore che dichiarava di recarsi presso un fornitore e poi da un cliente. I controlli avevano dimostrato che dal cliente l’imprenditore era andato prima, ma il gip, nel rigettare la richiesta di decreto penale di condanna, affermava che sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. dichiarazioni che, come quelle “sotto processo”, non riguardano fatti del passato, di cui può essere attestata la verità ma mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi. La seconda vicenda riguarda due persone che compilavano l’autocertificazione dichiarando di essersi recate una a sottoporsi ad esami clinici, l’altra ad accompagnarla. Una verifica presso l’ospedale mostrava la falsità del dato. Anche qui il Gip non accoglieva la richiesta di decreto penale. Secondo il magistrato i Dpcm 8 marzo 2020 e 9 marzo 2020 nonché «tutti quelli successivamente emanati dal Capo del Governo» sono affetti da «indiscutibile illegittimità» proprio nella parte in cui introducono un divieto di spostamento salvo che per «comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute». Poi c’è il terzo caso. Il giovane, difeso dall’avvocato Maria Erika Chiusolo, fermato per un controllo alla stazione Cadorna il 14 marzo, aveva dichiarato di lavorare in un negozio. In quel momento stava rientrando a casa. Una decina di giorni dopo, però, un agente per verificare se avesse detto la verità aveva mandato una email al titolare del negozio. Il quale aveva risposto dicendo che il 24enne quel giorno non era di turno. Per il giudice non solo mancano una norma specifica sull’obbligo di verità nelle autocertificazioni da emergenza Covid e pure una legge che preveda l’obbligo di fare autocertificazione in questi casi. Ma è anche incostituzionale sanzionare penalmente “le false dichiarazioni” di chi ha scelto “legittimamente di mentire per non incorrere in sanzioni penali o amministrative”. Per il giudice, si legge nella sentenza, “è evidente come non sussista alcun obbligo giuridico, per il privato che si trovi sottoposto a controllo nelle circostanze indicate, di "dire la verità sui fatti oggetto dell’autodichiarazione sottoscritta. Proprio perché non è rinvenibile nel sistema una norma giuridica” sul punto.

Da liberoquotidiano.it il 18 giugno 2021. Duro botta e risposta a Otto e mezzo su La7 tra Paolo Mieli e Marco Travaglio. Il direttore del Fatto quotidiano critica il premier Mario Draghi e il commissario Francesco Figliuolo per l'organizzazione degli Open Day di AstraZeneca: "Perché dare un vaccino sconsigliato ai ragazzi e alle ragazze proprio a queste due categorie che non rischiano nulla se prendono il coronavirus? Questo è il tema. E poi la spettacolarizzazione: la vaccinazione di massa non è un happening, ma un fatto medico. È stato un errore di comunicazione". Quando Travaglio ricorda che la Germania è nettamente avanti nella campagna vaccinale, "mentre con Arcuri e Conte eravamo davanti", Mieli interviene: "Era il primo giorno, siamo partiti praticamente a febbraio". "Però non si può dire che questi sono fenomeni, anche perché Arcuri ha rendicontato le sue spese e Figliuolo non ha ancora rendicontato un euro". " Ah no, io sono contrario a fare questo giochetto", ribatte Mieli. "Vai sul sito e vedi se ci sono spese rendicontate da Figliuolo!". "Allora te lo dico io: quando è arrivato Draghi, ha scoperto che Conte e Arcuri avevano ordinato e acquistato mascherine da qui al 2035, 763 settimane, 14 anni e mezzo". "Assolutamente no - lo interrompe Travaglio - un dato completamente campato per aria, è un dato che fa riferimento a marzo 2020, erano le mascherine che servivano per un solo mese, quando andavamo in giro con la sciarpa". "Guarda che penso l'abbiano fatto per principio di precauzione, che non siano dei ladri, che non ci sia nessun inghippo nemmeno con la Cina. Un giorno, quando sarà guarito anche l'ultimo malato di Covid, faremo i conti. Io sbagliando le ho definite opacità, ma cose strane ce ne sono. Se è vero, 763 settimane ammetti che sono troppe?". Travaglio fa muro: "Ma un milione di mascherine ce le siamo fumate in una settimana...". "Ove mai fosse vero, ammetti che sono troppe?", lo incalza ancora Mieli. Nessuna risposta. Al direttore del Fatto la mascherina dev'essere finita sull'orecchio.

Da liberoquotidiano.it il 18 giugno 2021. "Ieri sera qui ho sentito delle sciocchezze". Marco Travaglio, in collegamento con Otto e mezzo su La7, non la tocca piano e Lilli Gruber, inquadrata dalla regia, lancia uno sguardo a Paolo Mieli, seduto alla sua sinistra, e si esibisce in un sorrisino sarcastico che tradisce l'irritazione per quanto ha appena sentito. Si parla di mascherine e il direttore del Fatto quotidiano ne approfitta ovviamente per partire in quarta contro Matteo Salvini, che ne chiede l'abolizione dell'obbligo di indossarle all'aperto. "Mario Draghi si può criticare ma credo che sia una persona seria e non penso che ascolterà Salvini - spiega Travaglio -, che tra l'altro non portava la mascherina anche quando era obbligatoria e consigliata in tutto il mondo nel pieno dell'epidemia, cioè la scorsa estate. Non mi pare un punto di riferimento autorevole sulla materia". Secondo Travaglio, il leader della Lega sta cavalcando la campagna contro le mascherine "per due motivi. Il primo, nascondere la sconfitta abbastanza probabile sulla fine dello stato di emergenza a luglio". E qui la situazione sfugge di mano: "Anche qui ieri sera ho sentito delle sciocchezze. Lo stato d'emergenza non c'entra nulla con i poteri del premier e del governo. Serve esclusivamente per disciplinare i poteri del commissario straordinario che deve fare acquisti in deroga alle norme sugli acquisti dello Stato. Senza stato d'emergenza, prima Arcuri e poi Figliuolo forse non avrebbero visto ancora una mascherina, visti i tempi della burocrazia italiana". "E quindi?", domanda stizzita la Gruber. "Se sparisce lo stato d'emergenza sparisce il commissariato, ma il governo non ha un potere in meno o in più. Un anno fa si diceva che eravamo sull'orlo della dittatura, sono state raccontate un sacco di balle da Matteo Salvini o dal professor Cassese e ora chi lo dice è in difficoltà perché vede che lo stato d'emergenza viene prorogato perché ancora necessario fare accordi commerciali in deroga alle norme abituali". Si torna infine al ragionamento iniziale: "Salvini chiede l'abolizione delle mascherine perché sa che prima o poi accadrà, ma non sarà per la sua richiesta ma sulla base di ragionamenti scientifici".

Luca Ricolfi, l'affondo: "Covid, così gli elettori di destra sono stati discriminati". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 25 maggio 2021. Medici a parte, c'è un uomo in Italia che ha capito il Covid più degli altri, probabilmente anche perché l'ha studiato di più e senza paraocchi ideologici. È Luca Ricolfi, sociologo, docente di Analisi dei dati nonché presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. L'estate scorsa fu il solo a prevedere, fin da giugno, l'arrivo della seconda ondata. Suggerì la strategia delle tre «T», tamponi, tracciamento e trattamento, sottolineando l'importanza della cura tempestiva da casa. Provò a dire anche, prima dell'avvento di Draghi, che per far ripartire l'Italia bisognerebbe abbassare le tasse anziché vagheggiare di patrimoniale. Parlò di lockdown tempestivi e fortemente localizzati, attaccando Conte, colpevole di intervenire sempre troppo tardi, quando lo esigeva la pressione sugli ospedali, e con provvedimenti generalizzati e non mirati. Oggi che si respira euforia, Libero è andato a disturbarlo, per sapere se non stiamo gettando troppo il cuore oltre l'ostacolo.

Professore, il calo dei contagi è dovuto più al generale Figliuolo o al generale estate?

«Una risposta rigorosa è difficile, ma credo che il peso del generale estate sia un po' maggiore di quello della campagna di vaccinazione. Però per "generale estate" io intendo almeno 3 cose, che sommano i loro effetti: la vita all'aperto, che rende molto più difficile la trasmissione, la temperatura e l'umidità medie, che facilitano la caduta a terra delle goccioline, l'esposizione ai raggi ultravioletti che (attraverso la vitamina D), rafforza il sistema immunitario. Nelle ultime 5 settimane abbiamo assistito a una riduzione spettacolare della mortalità, che ci viene spontaneo attribuire soprattutto al decollo della campagna di vaccinazione. Ma un'analisi fredda, effettuata considerando i tassi di vaccinazione, la composizione per età della popolazione, l'efficacia media delle prime dosi, suggerisce che solo 1/3 della caduta della mortalità sia imputabile alle vaccinazioni: credo che stiamo sottovalutando il ruolo mitigatore del "generale estate"».

Lei è sempre stato molto prudente: stiamo tardando a riaprire, considerato che il Covid è una polmonite e si va verso l'estate?

«No, non stiamo tardando, perché il rischio di una risorgenza dell'epidemia non è affatto scongiurato, specie se la variante indiana dovesse rivelarsi più letale e/o trasmissibile di quella inglese (i casi in Italia sono ormai parecchie migliaia). Però devo ammettere che è la prima volta che il pessimismo di Galli e Crisanti (in particolare il timore di 5-600 morti al giorno per fine maggio) mi è parso eccessivo».

L'anno scorso lei fu quello che con più precisione e tempismo previde la seconda ondata: ravvisa delle analogie?

«Ben poche, e infatti io non cassandreggio più. La differenza fondamentale è che l'estate scorsa non avevamo i vaccini, e quindi le scelte del governo di allora - aprire per rilanciare il turismo - erano evidentemente e platealmente sconsiderate. Oggi la situazione è diversa (i vaccini frenano l'epidemia), però questo non vuol dire che Draghi si stia muovendo con prudenza. Anche le scelte di Draghi, viste con l'occhio dello statistico, sono incaute, sia nel breve periodo (si stanno facendo troppo pochi tamponi) sia, soprattutto, su un orizzonte di tempo più lungo: se continuerà a non fare nulla per la messa in sicurezza di scuole, trasporti e uffici in autunno le cose potrebbero mettersi di nuovo male. Naturalmente, e fortunatamente, non è detto, perché i vaccini potrebbero sbaragliare il virus. Ma la vittoria non è affatto sicura: possiamo sperare, non confidare».

Secondo lei adesso serve portare la mascherina all'aperto?

«Serve pochissimo. Però è meglio fingere che serva».

Perché fingere?

«Per due motivi. Il primo è che, in determinate circostanze, la mascherina serve anche all'aperto: tutto dipende dall'umidità, dalla temperatura, dalle correnti, dalla vicinanza fra le persone e dal tono di voce con cui si parla. Il secondo motivo, ben più importante, è che l'obbligo di mascherina è un fondamentale, insostituibile, segnale di allerta, che permette di mantenere vivo un clima di prudenza che è cruciale per vincere la guerra contro il virus ed evitare di ripiombare nell'incubo».

È a ottobre che capiremo se davvero abbiamo sconfitto il Covid?

«Un po' più in là, secondo me: direi a novembre o dicembre. Il vero test sarà dato dal combinato disposto di più fattori: rientro dalle vacanze, ritorno a scuola, umidità, vita al chiuso, andamento delle rivaccinazioni. Non dimentichiamo che, in autunno, dovremo rivaccinare almeno 30 milioni di persone in pochissimi mesi».

Come ci stiamo preparando?

«Malissimo. Non vedo nessun piano di rivaccinazione. Non vedo nessun investimento sulla sicurezza di scuole e trasporti, come se Draghi in cuor suo pensasse: non facciamo nulla, tanto a combattere il virus basteranno i vaccini. E poi c'è il buco nero dei sequenziamenti, essenziali se si vuol tenere a bada le varianti. Siamo agli ultimi posti nel mondo, e nulla stiamo facendo per recuperare».

Ci sono errori che ripetiamo immancabilmente e dei quali non riusciamo a liberarci?

«Mah, a me l'errore più pervicacemente iterato sembra quello di decidere sempre tutto all'ultimo minuto. Ovvero: quando è troppo tardi per raddrizzare la barca».

Quali sono le pecche dell'Italia nell'affrontare la pandemia?

«Mi c'è voluto un intero libro per descriverle (La notte delle ninfee, La Nave di Teseo). Ma dovessi riassumere in una riga direi: la superbia dei governanti».

La superbia?

«Sì, la superbia. Perché gli errori che si stavano facendo erano evidenti fin dall'inizio, gli studiosi indipendenti li hanno segnalati sempre tempestivamente con lettere aperte, appelli, petizioni, saggi, articoli, ma i governanti e le autorità sanitarie si sono sempre rifiutati di rispondere. Attenzione: non dico dare ragione, o seguire i suggerimenti, ma degnarsi di rispondere qualcosa. È come se, in Italia, vigesse una sorta di diritto alla non risposta, di cui sistematicamente usufruiscono i responsabili delle istituzioni, dal capo del governo fino ai funzionari della pubblica amministrazione».

C'è stato un cambio di passo tra Draghi e Conte nella lotta alla pandemia?

«Sono stato fra i più convinti e severi critici di Conte, e penso che fra Conte e Draghi vi sia un abisso. Tuttavia non posso non notare due cose: la campagna di vaccinazione avrebbe accelerato anche con Conte (forse un po' meno, grazie alla permanenza di Arcuri); e il "rischio ragionato" di Draghi intanto è stato possibile perché la primavera era alle porte. Detto questo, sì: con Draghi le cose vanno meglio, non solo grazie all'attivismo del generale Figliuolo ma anche grazie a una maggiore serietà nella pianificazione delle riaperture».

Il tema Paese è: ora tutti in ferie, si riparte a settembre. È uno dei segnali del declino della nostra società signorile di massa?

«Quando ho pubblicato La società signorile di massa (ottobre 2019) il Covid c'era già ma non ce n'eravamo accorti. A giudicare da come si stanno comportando gli italiani, direi che il Covid non ha insegnato molto, anzi per certi versi ha accentuato i tratti signorili del nostro sistema sociale: che paese è un paese che lascia andare in rovina il mondo del lavoro autonomo pur di tutelare i garantiti, e quando quel medesimo mondo prova a rialzare la testa, non gli permette di farlo perché giovani e meno giovani preferiscono il reddito di cittadinanza piuttosto che lavorare duramente nel settore del turismo e della ristorazione? Eppure è quel che sta succedendo in questi giorni».

Lei è un sociologo: la pandemia come ha cambiato l'Italia?

«Per ora la società, gli stili di vita, i rapporti sociali sono cambiati ben poco, compatibilmente con le regole di distanziamento. È la struttura economica che è profondamente cambiata: la pandemia ha distrutto una parte considerevole della base produttiva del paese, ed è enormemente aumentato il rischio di una nuova crisi finanziaria, Draghi o non Draghi».

E come ha cambiato gli italiani?

«A me sembra che gli italiani siano cambiati pochissimo, e aspettino solo di ricominciare tutto come prima, con qualche modestissima e marginale variazione sul tema: Dad, riunioni a distanza, telemedicina, Amazon. La pandemia ha distrutto le basi della società signorile di massa, ma la gente - abbagliata dai 200 e passa miliardi del Pnrr - non ha la minima intenzione di prenderne atto».

I giovani sono stati le grandi vittime: come sconteranno la pandemia le nuove generazioni?

«Sì, per i giovani - dopo due anni di annacquamento di scuola e università - trovare un lavoro diventerà ancora più difficile. Ma siamo sicuri che lo desiderino tutti, o quasi tutti? Temo che, perché si torni a cercare attivamente lavoro, occorrerà tempo e dovranno cambiare un bel po' di cose».

Per esempio?

«Ovviamente, occorrerà che si formino nuovi posti di lavoro. E occorrerà che lo Stato assistenziale faccia un passo indietro. Senza queste due condizioni quel che ci attende è un processo di impoverimento complessivo, lento ma inesorabile».

La pandemia ha fatto saltare lo schema destra/sinistra?

«No, direi che lo schema destra/sinistra, che era saltato essenzialmente perché Di Maio e Salvini lo avevano fatto saltare alleandosi, è tornato alla ribalta. Alle prossime elezioni avremo un sano scontro fra centro-destra e centro-sinistra, con un po' di fricioletti nel ruolo di disturbatori (Di Battista, Paragone) o nel ruolo di aspiranti ago della bilancia (Calenda, forse Renzi).

C'è stato un razzismo delle chiusure?

«Razzismo no, solo discriminazione. Il governo giallo-rosso ha discriminato la base sociale della destra (il mondo del lavoro autonomo), a favore di quella della sinistra, fatta di pensionati, impiegati pubblici, dipendenti delle medie e grandi imprese, tutelati dai sindacati».

Ci sono settori della società che si porteranno le ferite del Covid nell'anima e nelle tasche a lungo?

«Sì, essenzialmente lavoratori autonomi e dipendenti più o meno precari delle piccole imprese e dei piccoli esercizi commerciali. E poi, forse, una parte dei giovani maschi».

I giovani maschi?

«Sì, il livello di istruzione dei giovani maschi in Italia è drammaticamente basso, e così la loro disponibilità ad accettare lavori umili o poco gratificanti. Quindi, per i meno qualificati, temo che si prospetti un futuro di (modesti) sussidi e lavoretti in nero».

Cosa ci serve per rialzarsi e quanto tempo ci impiegheremo?

«Per rialzarci avremmo dovuto non sperperare 150 miliardi usandoli quasi esclusivamente in sussidi. Il danno fatto dal governo Conte nei mesi cruciali dell'epidemia è così ingente che neppure per super-Mario sarà facile rimediare completamente. Temo che, per tornare ai livelli di Pil del 2007, dovremo aspettare almeno fino al 2027: un ventennio perduto».

I partiti come escono dalla pandemia?

«Divisi su una dicotomia demenziale, quella fra aperturisti e chiusuristi. Ma pronti, non appena l'epidemia si spegnerà, a tornare a dividersi sulle solite cose».

In una classifica delle reazioni alla pandemia dei diversi Stati, dove colloca l'Italia e perché?

«Se ci limitiamo alle società avanzate (le uniche per cui si hanno statistiche ragionevolmente confrontabili), direi che l'Italia contende al Belgio la maglia nera della peggior gestione del Covid. La ragione? Il numero dei morti per abitante, che è l'unico parametro solido per giudicare come sono andate le cose».

Daniele Capezzone per "la Verità" il 17 maggio 2021. Il professor Luca Ricolfi, sociologo, ordinario di analisi dei dati all' università di Torino, è presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume (Fondazionehume.it). In libreria (ed. La Nave di Teseo) il suo ultimo libro, La notte delle ninfee.

Come si malgoverna un' epidemia. Cominciamo con uno sguardo al passato. Lei ha coerentemente contestato al vecchio e pure al nuovo governo la scelta di tenerci «a bagnomaria» per un tempo troppo lungo. In che senso?

«Nel senso che sia il primo lockdown (marzo-aprile), sia il secondo (ottobre-aprile) potevano essere molto più brevi, con enormi benefici per l' economia (e per le nostre esistenze). Nel mio libro dimostro che, dato un obiettivo di abbattimento dei contagi e dei decessi, lo si può raggiungere molto più rapidamente anticipando il lockdown, e invertendo l' ordine dei fattori (swap): prima il lockdown duro, poi quello soft. Se avessimo seguito questa strategia (anticipo+swap) avremmo risparmiato almeno 3 settimane in occasione del primo lockdown, e almeno 3 mesi (forse 4) in occasione del secondo. Per non parlare dei morti, che - secondo una stima di larga massima - sarebbero stati al massimo un terzo di quelli che abbiamo avuto, con un risparmio di almeno 80.000 vite umane».

La sua idea è che sia stato un azzardo avviare la campagna vaccinale senza prima aver drasticamente ridotto la circolazione del virus.

«Più che una mia idea, è una tesi di Andrea Crisanti e degli studiosi che hanno studiato il problema della pressione selettiva sulle varianti del virus, a partire dai lavori di Paul Ewald negli anni Novanta. Fondamentalmente è un problema statistico, di grandi numeri: se vaccini a manetta mentre l' epidemia dilaga, il virus ha molte più probabilità di dar luogo a una variante pericolosa, che si trasmette velocemente ed elude i vaccini. Se avessimo prima abbattuto la curva epidemica (tra ottobre e novembre), e poi iniziato a vaccinare, oggi correremmo meno rischi».

Comunque, adesso la campagna di vaccinazione sembra aver finalmente preso un ritmo migliore. A che punto siamo secondo lei?

«Gli italiani dotati di qualche protezione (guarigione o vaccino) sono 1 su 3, quelli dotati di una buona protezione (2 dosi di vaccino) sono 1 su 7. Non è malaccio, ma l' obiettivo di vaccinare pienamente il 70% degli italiani (il massimo realisticamente raggiungibile) è ancora lontano. Secondo gli ultimi calcoli della Fondazione Hume, che ogni settimana fa il bilancio della campagna vaccinale, inizieremo le vacanze estive senza averlo ancora raggiunto».

È realistico immaginare che raggiungeremo un livello collettivo accettabile di protezione? E, se sì, quando?

«Risposta difficile, perché ci sono tre aspetti distinti, che spesso vengono confusi. Un conto è chiedersi quando avremo vaccinato il 70% degli italiani, e la risposta è: abbastanza presto, quasi sicuramente entro la fine di agosto. Un altro conto è chiederci se, una volta raggiunto questo obiettivo (che potrà essere superato solo con vaccini per gli under-16), saremo protetti, e la risposta è: probabilmente non del tutto, perché l' efficacia media dei 4 vaccini usati in Italia è ampiamente sotto il 100%. Un altro conto ancora è chiedersi se, quest' autunno, avremo raggiunto l' immunità di gregge. Qui la mia risposta è: probabilmente no, perché l' immunità di gregge richiede non solo un' elevata percentuale di vaccinati, ma anche che tutti o la maggior parte dei vaccinati non trasmettano l' infezione, il che al momento pare ancora dubbio, specie per Astrazeneca».

In passato, lei ha fatto spesso previsioni assai cupe (non di rado, va detto, confermate dalla realtà). C' è però qualcosa su cui le pare di aver avuto preoccupazioni eccessive? Correggerebbe qualcosa delle sue affermazioni passate?

«Sì, ci sono cose che correggerei. La più importante è la mia preoccupazione dell' estate scorsa per movida, assembramenti, spiagge. Resto convinto che le discoteche dovevano restare chiuse, e i voli turistici limitati e controllati, ma per la maggior parte delle attività all' aperto penso di aver sopravvalutato i rischi: oggi abbiamo evidenze empiriche che suggeriscono che, almeno in estate, la trasmissione all' aperto sia molto meno probabile di quanto si supponesse. Per altri aspetti, invece, sono autocritico nella direzione opposta: abbiamo sottovalutato, e continuiamo a sottovalutare, il pericolo della trasmissione negli ambienti chiusi. Il grave è che questo pericolo, almeno nelle scuole e negli uffici, avremmo potuto evitarlo con dispositivi di purificazione o di ricambio dell' aria. Ho fatto un calcolo, e mi risulta che purificare l' aria in tutte le aule scolastiche sarebbe costato meno che acquistare i banchi a rotelle. Se si voleva salvare l' economia, era meglio mettere in sicurezza scuole, uffici e trasposti pubblici, anziché massacrare quella che chiamo "la società del rischio", ossia il mondo del lavoro autonomo».

In questi giorni, anche differenziandosi significativamente dalle analisi dei professori Galli e Crisanti, lei ha preso le distanze da previsioni di evoluzioni drammatiche sul piano della mortalità.

«Sì, in questo momento (e per la prima volta) le mie previsioni non sono in sintonia con quelle di Galli e Crisanti. Non credo che, a fine maggio, avremo 500 o 600 morti, e sono felicemente sorpreso del fatto che gli Rt regionali, per ora, siano quasi tutti sotto la soglia di 1».

A pesare in positivo sarà il fatto che ora staremo di più all' aperto, e che la campagna vaccinale sta accelerando.

«Esattamente. Ma aggiungo un altro fattore: la temperatura, e forse pure l' esposizione ai raggi ultravioletti, che - attraverso la vitamina D - irrobustiscono il sistema immunitario».

Fin qui gli aspetti positivi. Ragioniamo invece sui rischi futuri. Mi pare che ben poco si stia facendo per la messa in sicurezza di aule e trasporti. È vero che il prossimo autunno saremo tutti vaccinati, ma non varrebbe la pena di darsi da fare da subito?

«Sì, il governo sta calcolando male i rischi per l' autunno. Uno degli scenari possibili è che diventi più difficile che un contagiato si ammali, ma diventi anche molto più facile contagiarsi, perché la gente non fa attenzione e una parte dei vaccinati continua a trasmettere il virus. Se la letalità (probabilità di morire una volta contagiati) è bassa, ma siamo quasi tutti contagiati, la mortalità (decessi per abitante) può anche aumentare, in barba alle vaccinazioni: non è una previsione, ma uno scenario possibile».

Se dovesse fare una critica alla sinistra, cosa direbbe?

«Al governo giallorosso rimprovero di non aver fatto, almeno, le cose ovvie e quindi doverose: comprare dispositivi di protezione del personale sanitario a gennaio-febbraio, aumentare il numero di tamponi in primavera ed estate, controllare la qualità dei miliardi di mascherine comprate, organizzare per tempo un piano vaccinale sensato. Alla sinistra rimprovero l' iper-tutela della sua base elettorale, ossia dei garantiti, e il cinico abbandono dei non garantiti, come se questa non fosse la diseguaglianza fondamentale dell' Italia di oggi».

E se dovesse farla alla destra?

«Non aver capito che, se voleva tutelare il mondo del lavoro autonomo, doveva essere ancora più rigorista della sinistra, e pretendere lockdown precoci, duri, ma in compenso molto, molto più brevi di quelli che ci hanno inflitto i giallorossi».

Vuole dare un suggerimento finale al premier Draghi?

«No, la politica va dove vuole. Una delle caratteristiche più sorprendenti della gestione della pandemia è che la politica abbia completamente ignorato le proposte (costruttive) degli scienziati indipendenti».

Cambiamo tema. Sul ddl Zan lei ha parlato di due vizi della sinistra: da un lato il tradizionale «complesso dei migliori» e dall' altro la tendenza a legiferare compilando elenchi di soggetti più o meno opportunamente ritenuti «fragili».

«In realtà il ddl Zan è una estensione della legge Mancino, di cui condivide la debolezza fondamentale: l' incapacità di distinguere fra parole che concretamente minacciano le persone o lo Stato, e parole che si limitano a ledere la sensibilità di individui e gruppi. Un tema magistralmente sviluppato da Guia Soncini in L' era della suscettibilità. Con in più tre regalini niente male: la rieducazione dei reprobi, in perfetto stile maoista (art. 5); l' indottrinamento degli scolari (art. 7); il finanziamento permanente, con 4 milioni annui, delle associazioni Lgbt presso cui i reprobi potrebbero essere rieducati (l' unica porzione della legge Zan già in vigore, grazie al suo inserimento nel "decreto agosto")».

Perché c' è così poca sensibilità al tema della libertà d' espressione?

«Forse perché finora la legge Mancino è stata applicata molto raramente. E perché la gente si accontenta di potersi sfogare su internet, dove quasi mai si paga per quel che si scrive».

Non le pare che a volte i contrari al ddl Zan, anziché imbracciare, come dovrebbero, il tema del free speech messo a rischio dall' art. 4, si facciano trascinare su altri terreni, cadendo in trappole, facendosi mettere la scomoda e sgradevolissima maglietta dell' omofobia?

«Concordo pienamente, la libertà di espressione è stato sempre un tema di sinistra, e la censura una tentazione della destra conservatrice e bacchettona. Oggi è il contrario, ma è logico: perché ci sia censura, occorre un establishment, e oggi l' establishment è la sinistra».

La reazione dei paesi al Covid: Italia bocciata. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 4 maggio 2021. Il Lowy Institute è un think tank di Sydney e da qualche mese è impegnato a monitorare la situazione relativa alla pandemia. Gli australiani del resto sono stati tra i primi ad uscire a testa alta dall’emergenza coronavirus e si sono potuti permettere di impegnare più risorse nel valutare cosa è nel frattempo accaduto all’estero. Da questo studio emerge come l’Italia non sia messa proprio bene: nel ranking stilato dagli australiani, il nostro Paese è dietro anche ad alcune nazioni africane.

I movimenti del virus tra i Paesi. Dalla Cina all’Europa, fino all’America: il coronavirus ha preso alla sprovvista le Nazioni più all’avanguardia mettendole in ginocchio per diversi mesi. Un evento, quello della pandemia, che ha cancellato le disparità fra i Paesi più ricchi e quelli più poveri mettendoli sullo stesso piano. Già perché quando in passato si è parlato di virus catastrofici, il riferimento è stato rivolto ai Paesi poveri e spesso è stato visto come la normale conseguenza della mancanza di un’adeguata situazione igienico sanitaria. Un esempio fra i tanti l’ebola in Africa. Non è stato così nel caso del coronavirus il cui percorso, come evidenziato dall’Istituto di Sydney, è stato completamente diverso. Dopo la sua diffusione nel continente asiatico, il virus è approdato in Italia per poi diffondersi negli altri Paesi europei. Il Sars-CoV-2 si è comportato in modo del tutto opposto dagli altri virus perché ha fatto tappa innanzitutto nelle Nazioni più sviluppate. Qui le attività commerciali ed imprenditoriali, hanno sottolineato gli analisti australiani, si basano sui rapporti con le città estere e quindi voli e mezzi terrestri internazionali hanno permesso anche al virus di viaggiare da uno Stato all’altro, diffondendosi rapidamente. I Paesi in via di sviluppo, al contrario, non avendo molte relazioni economiche internazionali, hanno osservato quanto stesse accadendo altrove riuscendo a giocare d’anticipo attraverso l’applicazione di misure idonee a mitigare gli effetti della pandemia. I grafici del Lowy Institute lo dimostrano ampiamente: le regioni Asia – Pacifico e Africa – Medio Oriente inaspettatamente sono apparse in cima rispetto ad Europa ed America sulla gestione dell’emergenza. La situazione potrebbe capovolgersi adesso ma soltanto per via della campagna vaccinale. In Europa e negli altri Paesi sviluppati la somministrazione dei vaccini procede spedita, mentre i Paesi in via di sviluppo hanno difficoltà a reperire le dosi con conseguenze abbastanza gravi.

Gli effetti della densità di popolazione. Altro elemento evidenziato dagli studiosi australiani riguarda la densità della popolazione. Il coronavirus per replicarsi ha bisogno di un terreno fertile. Il terreno è più fertile laddove la concentrazione della popolazione risulti alta e, ancora meglio, appaia concentrata in piccoli territori. Per rendere chiaro il concetto basta concentrarsi sul caso delle favelas in Brasile e delle slum in India. In questi due contesti la situazione è pressoché simile: più famiglie vivono concentrate in spazi ristretti. È chiaro che, a prescindere da quelle che sono le condizioni igienico sanitarie, il coronavirus in questi contesti ha la possibilità di propagarsi da un soggetto all’altro con rapida velocità trovando il suo ambiente ideale per restare in vita. Un altro esempio che rappresenta l’esatto opposto è quello dato dal caso Australia. Su quasi 8 milioni di chilometri quadrati di territorio, vi risiedono circa 25 milioni di abitanti. È vero che lo Stato australiano per tutelarsi dal coronavirus ha blindato i propri confini rinunciando anche ad eventi di prestigio economico e sociale, ma la sua fortuna è stata anche dovuta ad un territorio molto più vasto rispetto a quella che è la densità della popolazione. In un contesto di questo tipo è chiaro che il Sars-CoV-2 non ha trovato le condizioni per veicolare facilmente. Il risultato è che nei grafici dell’istituto australiano, i Paesi meno densamente abitati hanno presentato livelli prestazionali migliori nel fronteggiare la pandemia. Al contrario, quelli più popolosi sono risultati meno efficienti.

Le curiosità della classifica. L’analisi degli australiani, oltre a concentrarsi su specifici fattori, ha prodotto poi una vera e propria classifica, con tanto di punteggi utili a valutare il complessivo lavoro di ciascun Paese contro l’emergenza sanitaria. Così come spiegato dagli stessi analisti del think tank di Sydney, sono stati sei i fattori presi in considerazione per elaborare il ranking: il numero di casi confermati, quello delle morti confermate, il coefficiente dei casi confermati per ogni milione di abitanti, il coefficiente delle morti confermate anche in questo caso per ogni milione di abitante, l’incidenza del tasso di positività in relazione ai tamponi effettuati e infine i risultati dei tamponi per ogni mille abitanti. In base a questi dati è stato fatto poi il calcolo per stabilire il ranking: “Una media ugualmente ponderata delle classifiche dei sei indicatori – hanno evidenziato gli analisti australiani – è stata normalizzata per ciascun Paese per produrre un punteggio compreso tra 0 (prestazioni peggiori) e 100 (prestazioni migliori) in un dato giorno nelle 43 settimane successive al centesimo caso confermato di COVID-19”. La classifica saltata fuori vede in testa a pari punti, con un ranking di 93 su 100, Nuova Zelanda e Bhutan. Il primo Paese in questi mesi di pandemia è stato preso a modello per aver chiuso subito le frontiere consentendo tassi di contagio molto bassi, l’altra nazione invece è saltata agli onori delle cronache di recente grazie al record di vaccini somministrati al 60% della popolazione adulta in appena 16 giorni. A completare il podio è Taiwan con un punteggio di 84.8. Nella top ten sono soltanto tre i Paesi dell’Ue e sono tutti tra i più piccoli e meno popolosi: Cipro figura infatti al quinto posto, la Lettonia al settimo, l’Estonia al decimo. I “padroni di casa” australiani sono al nono posto con un ranking di 76.8. Nella parte alta di questa speciale graduatoria anche Paesi “insospettabili”, come ad esempio il Ruanda e il Togo piazzatisi rispettivamente al settimo e sedicesimo posto. Con un punteggio di 75.5 e 74.6 invece, anche Sri Lanka e Cuba sono state inserite nella top 15.

L’Italia molto indietro. Per trovare il nostro Paese occorre scorrere la classifica verso il basso. L’Italia infatti, con un punteggio complessivo di 37.5, si trova al sessantottesimo posto, tra la Bulgaria e il Pakistan. L’unica vera consolazione sta nel fatto che Roma si è piazzata comunque davanti a molti altri Paesi dell’Ue, quali Belgio, Francia, Polonia e Paesi Bassi. Complessivamente però l’immagine uscita fuori, tanto dell’Italia quanto dell’Europa, è apparsa decisamente deleteria. E non è soltanto una questione di numeri e ranking. L’istituto australiano ha analizzato dati e cifre in modo asettico, ma ha anche fotografato il livello di conduzione della gestione dell’emergenza coronavirus. In questo contesto l’Italia ne esce malconcia. Il presunto “modello italiano” altro non è stato che una lunga sequela di errori su ogni campo. Il nostro Paese è arrivato in ritardo su tutto: sul numero dei tamponi giornalieri, accresciuto soltanto a seconda ondata già arrivata, sul livello di sequenziamento del virus e poi ci sono i dati tragici sulla mortalità. Non è ancora ben chiaro sotto il profilo scientifico come mai è proprio l’Italia ad avere in Europa il più alto numero di vittime da Covid in rapporto alla popolazione. È proprio quest’ultimo dato, anche in base alla classifica del Lowy Institute, ad inquietare maggiormente e a dare all’Italia un ranking complessivo molto basso. Nelle prossime classifiche del think tank di Sydney, forse qualcosa potrebbe cambiare in positivo in caso di successo della campagna vaccinale.

Marco Conti per "il Messaggero" il 21 aprile 2021. «Non sappiamo per quanto tempo durerà questa pandemia e quando ci colpirà la prossima volta», quindi dobbiamo ristrutturare il sistema sanitario perché «la maggior parte di noi non era pronta ad affrontare una crisi sanitaria di tale portata». In un videomessaggio di introduzione al webinar di ascolto dei rappresentanti della società civile in vista del prossimo 21 maggio, Mario Draghi sottolinea gli errori fatti e spinge i Paesi che parteciperanno al Global Health Summit a unirsi nella lotta alla pandemia. «Il nostro lavoro deve iniziare ora». «Dobbiamo sostenere la ricerca, rafforzare le catene di approvvigionamento e ristrutturare i sistemi sanitari nazionali. Dobbiamo rafforzare - continua il presidente del Consiglio - il coordinamento e la cooperazione globali». Obiettivo del webinar è raccogliere idee e suggerimenti dalla società civile in vista del vertice di Roma e della sua dichiarazione conclusiva. Draghi e la Presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, introducono i lavori rivolgendosi anche alla comunità scientifica ricordando che sinora la pandemia ha fatto più tre milioni di morti e ha imposto un costo elevato alle nostre economie. «L' anno scorso - prosegue Draghi - la produzione globale ha subito la contrazione più profonda dalla Seconda Guerra mondiale, colpendo sia le economie avanzate che i mercati emergenti». Poi un memento che vale anche per l' Italia quando dice che «la maggior parte di noi non era pronta ad affrontare una crisi sanitaria di tale portata. Ci mancava la capacità di rilevare la pandemia attraverso un sistema di allerta precoce. I nostri piani di emergenza erano obsoleti e insufficienti». «Nonostante tutto - sottolinea - il coraggio dei nostri medici e infermieri, il virus ha messo in luce le fragilità dei nostri sistemi sanitari. Ma abbiamo mostrato la capacità di reagire». Sostenere la ricerca e rimettere in sesto i sistemi sanitari è quindi, per il Capo del governo italiano, un dovere e «questo webinar è nato - sottolinea Draghi - per un confrontarci con voi e con le vostre idee. Anche a partire dal vostro contributo puntiamo a gettare le basi per la Dichiarazione di Roma che chiuderà i lavori del summit». Draghi spiega anche che «la Dichiarazione conterrà una serie di principi per rafforzare i nostri sistemi sanitari, migliorare le nostre capacità di risposta ed avere gli strumenti per rispondere a future emergenze sanitarie». Occorre per Draghi mettere insieme risorse e conoscenze e per questo «contiamo sul vostro contributo per costruire un mondo più sicuro» con l' obiettivo di creare «una cooperazione tra governi, aziende e organizzazioni non governative». L' attesa per i contributi che la società civile e i ricercatori daranno alla stesura del documento finale è alta. I principi della Dichiarazione di Roma del prossimo 21 maggio chiuderanno l' evento e serviranno a dare ancora maggiore forza a quella parte del Recovery Plan che affronta con progetti ed idee anche la riforma del sistema-salute italiano. Anche ieri Draghi è partito dall' analisi su cosa non ha funzionato nella crisi pandemica e ha avanzato una serie di linee propositivo che poi dovranno essere sviluppate nel dibattito. Le ricadute sull' Italia anche della Conferenza di Roma saranno importanti e c' è da scommettere sin d' ora che il progetto di ristrutturare la sanità italiana aprirà di nuovo il dibattito sull' utilizzo del Mes. Come conferma il botta e risposta tra Matteo Renzi e il grillino Stefano Buffagni.

MaS. per "il Giornale" il 15 aprile 2021. C'è un legame - ipotetico ma sempre più documentato - tra la somministrazione dei vaccini a vettore virale e i casi trombosi. Pur essendo ancora tutto in via di accertamento, questo potrebbe causare limitazioni anche al sogno del vaccino italiano. Anche Reithera infatti, in corso di sperimentazione allo Spallanzani di Roma, si basa sul vettore virale dell' adenovirus come Astrazeneca e Johnson & Johnson. Il rischio è che nasca un vaccino già vecchio e che quindi faccia tramontare l' ambizione italiana di dare una svolta alla campagna vaccinale con un prodotto «fatto in casa». Dai laboratori di Castel Romano, gli scienziati stanno seguendo le evoluzioni sui vaccini stranieri con molta attenzione ma non perdono le speranze. Anzi, cercheranno di mettere a frutto tutto ciò che apprendono. In ogni caso non c' è la minima intenzione di interrompere i lavoro. Almeno non fino a quando non lo diranno Aifa e Ema. «Il nostro vaccino - spiegano i responsabili di Reithera - è attualmente in fase 2. Ci atterremo al parere e alle linee guida che saranno definite dalle agenzie regolatorie italiana e europea. Stiamo seguendo con attenzione tutte le informazioni relative ai vari vaccini per Covid-19 sviluppati utilizzando diverse tecnologie e quindi anche quanto sta emergendo dall' utilizzo di quelli basati su adenovirus. Si tratta di vaccini relativamente giovani, tutti, compresi quelli basati sulla tecnologia mRNA, e che quindi necessitano di un monitoraggio attento, approfondito e costante per un tempo sufficiente al raggiungimento di quelle statistiche che ne definiscono le caratteristiche: pertanto sarà corretto chiarire i dubbi che sono emersi recentemente, attraverso i necessari approfondimenti». Da questo punto di vista arrivare per ultimi sul mercato dei vaccini può essere un vantaggio. Come funziona il vaccino italiano? In sostanza simula il contatto con l' agente infettivo evocando una risposta del sistema immunitario simile a quella causata dall' infezione naturale, ma senza causare la malattia. Per trasferire il gene della proteina Spike nell' organismo (la Spike, utilizzata dal virus per attaccarsi alle cellule umane è il bersaglio di tutti i vaccini ora in produzione) usa un adenovirus derivato dal gorilla. I primi risultati sembrano dire che nei soggetti più giovani il vaccino sia ben tollerato e in grado di stimolare risposte immunitarie. Adesso va testata la sua efficacia sulla popolazione più anziana, ma già un primo elemento ci dice che potrebbe andare a coprire quella fascia di popolazione su cui gli altri vaccini a vettore virale hanno creato qualche rarissimo caso di trombosi. Ovviamente, anche nel caso di Reithera, un conto è la sperimentazione su un campione di pazienti, un altro sarà la somministrazione su larga scala. Nel progetto di Reithera lo stesso Governo punta molto e ha investito parecchio. Oltre agli 8 milioni della Regione Lazio e dal Miur, altri 81 milioni sono i finanziamenti arrivati da Invitalia, la società pubblica che è entrata al 27% nell' azionariato di ReiThera dove l' azionista di maggioranza è la svizzera Keires.

I dubbi dopo i casi AstraZeneca e Johnson&Johnson. ReiThera, il vaccino "italiano" nato vecchio: l’Europa punta sull’mRna mentre Arcuri ci ha investito 81 milioni di euro. Carmine Di Niro su Il Riformista il 15 Aprile 2021. L’Italia ha puntato sul "cavallo sbagliato"? Un dubbio legittimo dopo le indicazioni arrivate nelle scorse ore dall’Unione Europea attraverso la presidente Ursula von der Leyen, che annunciando un accordo con Pfizer per accelerare l’approvvigionamento di vaccini, con 50 milioni di dosi consegnate in anticipo nel secondo trimestre, ha confermato che le intenzioni dell’Ue sui vaccini sono di “focalizzarci sulle tecnologie che hanno dimostrato il loro valore: i vaccini a Rna messaggero (come Pfizer e Moderna, ndr) sono un caso chiaro”. Un segnale di evidente bocciatura per i composti a vettore virale, come AstraZeneca e Johnson&Johnson. Come noto il primo, prodotto dalla casa farmaceutica anglo-svedese, è stato al centro di una lunga querelle sulla sua sicurezza per un legame che rarissimi casi di trombosi. Esami e studi che hanno portato l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, a raccomandarne l’uso solamente alla popolazione over 60. Sembra probabile un trattamento simile anche il monodose americano di Johnson&Johnson, bloccato negli Stati Uniti dalla Food and Drugs Administration per sei casi di trombosi sospette sulle quasi sette milioni di dosi somministrate negli Usa. Per questo il suo utilizzo in Europa e in Italia è stato momentaneamente sospeso. Insomma, il presunto legame tra vaccino a vettore virale e casi di trombosi mette a rischio l’uso “universale” di questo tipo di farmaci. Una vicenda che mette a rischio l’esito della campagna di vaccinazione in Italia anche per un secondo motivo: il nostro Paese ha puntato, anche economicamente, su una tipologia di vaccino simile. Parliamo del siero sviluppato nei laboratori di Castel Romano da ReiThera, in corso di sperimentazione all’Istituto Spallanzani di Roma. Il vaccino si basa, come AstraZeneca e Johnson&Johnson, sul vettore virale dell’adenovirus. Di un possibile stop agli under 60, come l’omologo anglo-svedese, non sembra preoccupato il ministro della Salute. “Stiamo lavorando per rendere l’Italia più forte nella produzione di vaccini sicuri ed efficaci. Tra le iniziative è già bene avviata quella di Reithera che potrà portarci ad avere il primo vaccino italiano in produzione e distribuzione”, ha detto Speranza oggi nel corso dell’informativa in aula alla Camera sull’aggiornamento della campagna vaccinale. Attualmente il vaccino ‘italiano’ è in fase 2 e la speranza resta quella che, arrivando più tardi sul mercato rispetto ad AstraZeneca e Johnson&Johnson, i responsabili possano aver fatto ‘tesoro’ dei dati e dei problemi emersi con i sieri concorrenti. I responsabili di ReiThera, a Il Giornale, hanno spiegato che si atterranno “al parere e alle linee guida che saranno definite dalle agenzie regolatorie italiana e europea. Stiamo seguendo con attenzione tutte le informazioni relative ai vari vaccini per Covid-19 sviluppati utilizzando diverse tecnologie e quindi anche quanto sta emergendo dall’ utilizzo di quelli basati su adenovirus”. Che l’Italia punti molto su Reithera è evidente anche dallo sforzo economico dietro la sua produzione. Invitalia, la società pubblicata guidata dall’ex commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri, ha investito ben 81 milioni di euro per entrare nell’azionariato della società, il cui azionista di maggioranza è la svizzera Keires. Altri 8 milioni di euro erano arrivati invece dalla Regione Lazio e altri tre dal Ministero dell’Istruzione.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia.

Stefano Pagliarini per today.it il 9 aprile 2021. L’Italia sarebbe potuta essere comproprietaria del brevetto del vaccino di AstraZeneca e invece l’allora Presidente del consiglio Giuseppe Conte ha reputato troppo rischioso effettuare un bonifico di 70 milioni di euro. Lo ha detto ieri sera Piero Di Lorenzo, presidente e amministratore delegato di Irbm, società che produce il vaccino anglosvedese in Italia, ospite della trasmissione Porta a Porta di Bruno Vespa. “Io avevo invitato il governo Conte a prendere contatti con l’università di Oxford per diventare comproprietari del vaccino AstraZeneca visto che, come imprenditore, non mi conveniva fare un finanziamento perché Oxford ci aveva detto in tutte le lingue che avrebbe chiesto di vendere a prezzo industriale e quindi non c’era un utile. Abbiamo fatto un paio di riunioni in call con i rappresentanti delle istituzioni. Se avessero seguito questo consiglio, oggi saremmo comproprietari. Non c’era possibilità di finanziamento pochissimi giorni ad una università straniera. Stiamo parlando di 20 milioni di euro subito e 50 milioni in un paio di mesi”. E’ anche per questo che l’Italia si ritrova ad essere fuori dalla produzione del vaccino anti Covid e si ritrova ad inseguire accordi con le grandi case farmaceutiche per avere accesso ai brevetti. Senza contare il problema della produzione locale, di cui, tra l’altro si è discusso proprio oggi in Senato. Infatti, a mettere in dito nella piaga di un Paese fuori classifica da qualsiasi competizione industriare nel campo della scienza biomedica, è stato lo stesso ministro allo Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti, che ha spiegato come il tavolo con Aifa, industria ed esponenti del governo serva proprio a supplire ad una “carenza strategica, al totale abbandono della ricerca e dell’industria farmaceutica sui vaccini”. Dunque è stato proprio Giorgetti ad ammettere come l’Italia abbia rinunciato alla ricerca nel lungo periodo perché “servono molti investimenti per risultati incerti e non remunerativi. Ecco perché serve il ripristino della forza propulsiva dello Stato che è assente”. Ma questo in un’ottica di lungo periodo. Oggi siamo nel pieno della pandemia e l’Italia, senza brevetti e senza ricerca scientifica, può fare una sola cosa: “Riconvertire, far sposare le attività produttive di chi i vaccini li ha già disponibili, trasferire brevetti da parte dei big della farmacologia con una partnership a livello europeo e valutare di costruire in Italia nuovi poli di produzione vaccinale”. E l’esponente del Governo Draghi non ha dubbi: fra qualche mese ci sarà una sovrapproduzione di vaccini. Ormai tanti treni sono stati persi, per cui si procede a vista e l’unica cosa possibile è farsi trovare pronti nel momento in cui si potranno produrre vaccini in massa. "Con il decreto Sostegni sono stati stanziati 200 milioni per previsioni di agevolazioni fiscali per investimenti privati nel settore bio-farmaceutico" ha ribadito sempre Giorgetti, rispondendo al Senato ad un'interrogazione sulla produzione di vaccini contro il Covid-19. Intanto però sarebbero già stati individuati i siti produttivi. Massima priorità agli impianti capaci di convertirsi velocemente. Ma attenzione a non trascurare il Sud Italia. Nell’aula parlamentare infatti ha replicato al ministro il senatore del gruppo Misto, Saverio De Bonis, chiedendo al Governo di non privilegiare le industrie del Nord perché “a me risulta che anche al Sud vi siano centri in grado di operare una veloce riconversione produttiva e di rispondere quindi con tempestività all'esigenza di produrre vaccini italiani nel giro di pochi mesi". La paura, almeno quella di De Bonis è che, anche in una partita fondamentale come quella della corsa alla produzione del vaccino, si possa rinfiammare la ferita che divide il Nord dal Mezzogiorno.

Augusto Minzolini, l'amara verità su Giuseppe Conte: "Succube dei magistrati, Draghi riaffermi il primato politico". Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. “Giuseppe Conte per paura di gestire la pandemia è stato succube di altri poteri: Regioni, scienziati e pm”. È la riflessione di Augusto Minzolini, che nell’ultimo editoriale su Il Giornale si è soffermato su ciò che l’ex premier non ha saputo fare e che Mario Draghi invece dovrebbe fare per trascinare il Paese fuori da questo stato di emergenza perpetua. Tra l’altro l’Italia è rimasto l’unico paese con un numero di morti per Covid al giorno spaventoso, nonostante il procedere della campagna di vaccinazione: è lampante che qualcosa non ha funzionato nei mesi scorsi e continua a non farlo anche adesso. “Il decisionismo di Boris Johnson - ha sottolineato Minzolini - ha salvato l’Inghilterra: ha usato AstraZeneca a tappeto e i morti non si sono ridotti a 10. Draghi riaffermi la supremazia della politica”. Nel corso del suo editoriale, l’ex direttore del Tg1 non è stato affatto clemente su Conte e si è avvalso di una battuta di Carlo Calenda: “L’abbiamo scampata bella, meno male che è andato via. Altrimenti saremmo tutti morti. Mai incontrato un fesso del genere in vita mia”. “In quelle parole - ha commentato Minzolini - c’è l’immagine di un premier che per deresponsabilizzarsi ha delegato spesso e volentieri le decisioni, quelle importanti, dai casi di Alzano e Nembro in poi, vuoi alle Regioni, vuoi all'Europa, vuoi al Comitato Tecnico Scientifico, vuoi al Commissario per l’Emergenza”. Per quanto concerne AstraZeneca, a Minzolini appare chiaro perché sia difficile replicare il modello-Johnson: “Immaginate che potrebbe succedere a un premier che decidesse da solo di somministrare un vaccino che salvasse 100mila persone e provocasse due casi di trombosi? Come minimo il circuito mediatico-giudiziario lo accuserebbe di omicidio colposo, ma se il numero delle vittime superasse i cinque casi addirittura di strage: del resto per quel circuito varrebbero più quei due decessi a cui un’autopsia darebbe un’identità, che non i cinquecento morti senza volto di cui si incolperebbe il virus”. 

Marco Imarisio e Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" l'8 aprile 2021. Come se ogni giorno cadesse un aereo. Anche l' utilizzo di questa immagine, che viene spesso usata per dare la misura di quel che sta accadendo, sta diventando ormai un luogo comune. Ma forse ha ancora una sua validità. Perché l' aereo che si abbatte sul nostro Paese è il più grande di tutti, almeno in Europa. Succede ovunque, da noi ancora di più. La prima ondata ci colpì in un modo così violento che ancora pesa nel bilancio complessivo dei decessi. Al culmine della seconda, nello scorso dicembre, superammo anche il Regno Unito, fino a quel momento pecora nera dell' Occidente. Adesso siamo nel pieno della terza, l' ultima si spera. Sono arrivati i vaccini, che dovrebbero essere la prima arma per abbattere il nostro abnorme numero di decessi. Ed è stato confermato il sistema a colori, zona gialla, rossa o arancione, introdotto il 3 novembre per attutire gli effetti del «liberi tutti» estivo. Eppure il nostro bollettino quotidiano continua a essere terribile, con una media di 400 decessi al giorno nell' ultimo mese. A febbraio avevamo registrato 38 decessi alla settimana per milione di abitanti. Più o meno alla pari con Francia e Germania, rispettivamente a 39 e 37. E meglio del Regno Unito (60), alle prese con la variante inglese. Negli ultimi quattro mesi, grazie ai vaccini era infatti cominciata una storia diversa. In UK i decessi sono passati da 79 alla settimana per milione di abitanti agli attuali 11. In Germania da 55 a 16. In Francia, che pure ha il tasso di saturazione dei posti in terapia intensiva più alto d' Europa, da 40 a 30. Anche l' Italia era scesa, da 60 a 43. Ma è stato l' unico Paese che in questo lasso di tempo ha registrato un aumento dei morti, passando dai 38 decessi per milione di abitanti a febbraio, un dato che comunque non ci avrebbe tolto il triste primato, ai 43 di marzo. La nostra catastrofe quotidiana. È il caso di chiedersi ancora una volta se davvero esiste una anomalia italiana. E soprattutto, perché. L' ultimo report dell' Istituto superiore di sanità (30 marzo) fissa a 81 anni l' età media dei pazienti deceduti tra coloro che sono risultati positivi al Covid con il tampone. Oltre il 61% dei decessi totali è di persone «over 80», il 24% riguarda i 70-79enni. Il primo studio sugli effetti potenziali del vaccino contro il coronavirus venne pubblicato già lo scorso ottobre sul New England Journal of Medicine , e aveva una sola raccomandazione: mettere in sicurezza le fasce fragili della popolazione. Dopo, gli altri. A fine dicembre abbiamo cominciato ad avere gli strumenti per farlo, i vaccini. Ma l' Italia ha fatto altre scelte. Nel primo mese e mezzo di campagna, la distanza con Germania e Francia, per tacer del Regno Unito che ormai fa corsa a sé, è stata enorme. Alla data del 19 febbraio, gli «over 80» che avevano ricevuto almeno una dose erano solo il 6% contro il 23% della Francia e il 22% della Germania. A fine marzo, la Germania raggiunge quota 72%, contro il 57% di Italia e Francia. La differenza si è accorciata. Ma il nostro recupero delle ultime settimane non basta a fare crollare la curva dei decessi. Per due motivi. La prima dose di vaccino ha effetto dopo 12-14 giorni. E poi, la storia di questa epidemia dice che l' effetto di qualunque misura di contenimento del virus sul numero di morti diventa tangibile a distanza di 4-6 settimane. Intanto, già il 24 gennaio la Gran Bretagna aveva vaccinato con una prima dose il 75% degli ultraottantenni. Venerdì 2 aprile, ci sono stati solo dieci morti in 24 ore. Il numero più basso di vittime dal 14 settembre 2020, quando sembrava che fosse quasi finita. Stava ricominciando, invece. Anche allora, in quell' autunno che ci sembra ormai lontano, molti sostennero che si muore tanto perché siamo il Paese più vecchio d' Europa. Ma la Germania ha un' età mediana di un anno superiore all' Italia. E anche il Regno Unito ha il 24% della popolazione ultrasessantenne contro il nostro 30%. E poi c' era il fallimento della medicina di base. Il nostro sistema sanitario, modellato sul National Health Service inglese, assegna ai dottori di famiglia il ruolo di «controllori», addetti alla gestione del flusso terapeutico che inviano allo specialista i malati seri, ma sprovvisti di mezzi adeguati come invece accade in Germania e Francia dove la medicina del territorio è organizzata su base assicurativa. Questo, assieme ai continui tagli alla Sanità avvenuti dalla crisi del 2008 in poi, poteva in parte spiegare il disastro della prima fase. Ma c' era dell' altro, e di peggio, durante la seconda ondata. Così come in questa terza. Il nostro continuo ritardo nel rincorrere un virus che va veloce. A marzo del 2020 fummo i primi a chiudere, con una media di 54 morti al giorno, mentre la Gran Bretagna lo fece per ultima, quando già ne contava 140. Ebbe un picco terrificante, 920 morti in 24 ore, e un plateau di mortalità durato più a lungo che in ogni altro Paese. A ottobre, siamo stati invece noi a far scattare il sistema a zone quando le cose andavano molto male, con 350 morti al giorno. A Londra avevano già chiuso negozi, palestre e ristoranti da quasi due settimane, dopo aver toccato i 120 morti in 24 ore. E da allora, dopo aver fermato anche le scuole il 6 gennaio, il Regno Unito ha mantenuto restrizioni ferree. La Germania aveva preso misure simili dal 2 novembre, e dal 16 dicembre ha fatto scattare un lockdown ancora più duro. Idem per la Francia, che dal 30 ottobre ha tenuto aperte solo le scuole, fino alla recente resa, aggiungendo un coprifuoco che cominciava alle 18. Una ricerca della Columbia University intanto ha stabilito che se durante la prima ondata gli Usa e i Paesi europei avessero agito due settimane prima di quanto hanno fatto, avrebbero ridotto i decessi dell' 85%. Anche UK, Germania e Francia si sono mossi in ritardo. Ma a differenza nostra, da allora hanno mantenuto le loro misure di contenimento in modo costante. Le loro restrizioni hanno portato a un crollo della mobilità - ossia degli spostamenti delle persone - che secondo le stime elaborate da Matteo Villa dell' Ispi, da Natale a metà febbraio in Germania è stato del 60% rispetto alla normalità, attestandosi poi su una media del meno 50%. L' Italia, che ha chiuso dopo, ha avuto comunque un picco di spostamenti sotto Natale, con una riduzione della mobilità solo del 20%. Ma soprattutto, ha riaperto. Prima di tutti gli altri. Il 31 gennaio torniamo in giallo, e da allora gli spostamenti restano contenuti ma scendono solo del 30%, mentre la riduzione è sempre almeno del 50% in Germania e Gran Bretagna. La Francia che pure è meno incisiva, ha una discesa costante nel tempo, meno 40% di media. A marzo abbiamo avuto il triplo dei decessi rispetto alla Germania e il 30% in più della Francia. Per tacere del confronto con il Regno Unito. Un recente studio elaborato dal ministero della Salute, dall' Istituto superiore di sanità e dalla fondazione Bruno Kessler disegna alcuni scenari possibili per il nostro Paese. Andando avanti con le attuali restrizioni, e a patto di vaccinare mezzo milione di persone al giorno per ordine di età, è ipotizzabile un ritorno alla normalità entro agosto. L' abbandono progressivo delle misure di contenimento, stimato al 25, 50 e 75%, sposterebbe in avanti questo traguardo di 14, 16 e 17 mesi dall' inizio della campagna vaccinale, avvenuto lo scorso 27 dicembre. E inoltre comporterebbe la perdita di altre 40 mila vite umane, nel caso peggiore. Non è questione di essere aperturisti o chiusuristi. Si può fare tutto. Basta essere consapevoli del fatto che c' è sempre un prezzo da pagare.

Zecchi vuole il "processo di Norimberga" e Fiano si infuria. A Quarta Repubblica scatta la rissa. Libero Quotidiano il 05 aprile 2021. Parlando del ministro della Salute Roberto Speranza, il filosofo Stefano Zecchi, in collegamento da Milano con gli studi di “Quarta Repubblica” lunedì 5 aprile, non usa mezzi termini. “Noi abbiamo un ministro incapace, un ministro che a giugno dell’anno scorso ha scritto un libro sul fatto che aveva risolto il problema del Covid. Libro che poi ha ritirato - attacca Zecchi nella trasmissione condotta da Nicola Porro su Rete4 - Siamo in una guerra terribile. Ma nelle guerre ci sono generali capaci di comandare il proprio esercito e generali incapaci che mandano allo sbaraglio la loro gente. La mandano a crepare". Ma la ‘gente’ "siamo noi italiani che moriamo come mosche quando si sarebbe dovuto realizzare questo piano vaccinale già con il governo precedente. Il governo Draghi eredita una situazione disastrosa, ma non sta facendo assolutamente meglio. Sta dando soltanto obiettivi. La realtà è disperante", dice il filosofo che è un fiume in piena. "È inutile qui continuare a fasciarci la testa. Qui non si è capaci. Il governo non è capace di organizzare minimamente le aperture che significano "vita". Sono soltanto capaci di dare "morte"", attacca lanciando un paragone che fa saltare sulla sedia Emanuele Fiano. "Qui ci vuole un processo. Il processo di Norimberga. Perché i morti che sono caduti in questa battaglia sono morti sulla coscienza della politica”, sbotta Zecchi. E il parlamentare del Pd non si tiene, e ribatte: “Il processo di Norimberga lasciamolo stare, lì si sterminarono 6 milioni di ebrei. Se fosse vero significherebbe che Speranza è come Goebbels e Draghi è come Hitler. Le consiglio di moderare le parole. La storia ha un peso e le parole sono sacre”. I due si sovrappongono, il parallelismo usato da Zecchi tocca nell'intimo il parlamentare Pd che poco prima aveva anche ricordato la morte dei genitori, in tempi recenti, soprattutto del padre sopravvissuto alla Shoah, Nedo Fiano, al quale il dem ha dedicato anche un libro.

Marco Conti per "il Messaggero" il 13 aprile 2021. Il tentativo è in atto e, malgrado il diretto interessato abbia raddoppiato l' esposizione mediatica, il suo destino pare segnato. Il presidente del Consiglio - non potendo dimissionare ministri - sta infatti cercando il modo per convincere il titolare della Salute Roberto Speranza ad accettare un nuovo incarico prima di tramutarsi in un problema per la stessa tenuta della maggioranza. L'insofferenza della Lega e di FI nei confronti dell'unico esponente che ha gestito la pandemia con il governo Conte ed è rimasto al suo posto, Draghi pensava di poterla contenere spingendo al massimo la campagna vaccinale. Ma ora che i vaccini scarseggiano emergono ancor più alcune scelte sbagliate e per Draghi è venuto il momento che Speranza si faccia da parte anche se l'esponente di Leu resiste. Il «mese di ritardo», come lo definisce l' infettivologo Matteo Bassetti, con il quale il ministero della Salute ha deciso solo ora di allungare i tempi della seconda dose, l' eccessiva prudenza del ministro, del Cts e di tutta la cabina di regia nel mettere nero su bianco i protocolli necessari per le riaperture. Ciò che è avvenuto all' inizio della diffusione della pandemia e che è oggetto di un' inchiesta a Bergamo. O la sottovalutazione estiva sulla ripresa della pandemia certificata dal libro, ritirato, Perché guariremo. Come la confusione sulle priorità vaccinali e la difficoltà che ha il ministero della Salute ad interloquire con i presidenti di regione nel frattempo divenuti quasi tutti di centrodestra. Tutti motivi che in poche settimane l' inquilino di Palazzo Chigi ha messo insieme e ai quali si aggiunge che il ministro anche ieri pomeriggio - insieme al premier - è stato sulla bocca, non benevola, dei manifestanti che hanno invaso il centro della Capitale. Le proteste di ristoratori e barman si infittiscono e l' assedio ai palazzi della politica - anche ieri Montecitorio e Palazzo Chigi sono stati accerchiati - rimbalzano sui media internazionali irritando vieppiù Draghi. Un dettaglio, forse, rispetto ad alcuni passaggi della gestione della pandemia dove il dicastero di Speranza non ha brillato e che sono oggetto di inchieste giudiziarie. Si va dal mancato aggiornamento del piano pandemico con l' indagine in corso su Ranieri Guerra, alle inchieste sulle mascherine e sui ventilatori polmonari che hanno tirato in ballo anche autorevoli esponenti della sinistra. Un insieme di complicati nodi che solo una prorompente campagna vaccinale o un coraggioso e ponderato piano di riaperture avrebbe potuto, forse, mettere in secondo piano. Resta il fatto che il requisito della continuità, motivo della conferma di Speranza al ministero della Salute anche con il governo-Draghi, è rapidamente venuto meno. Nel giro di poche settimane dall' insediamento del governo è avvenuta la rimozione di tutta la squadra che nel precedente esecutivo aveva gestito aperture-chiusure, distribuito incarichi e commesse miliardarie. Con estrema rapidità Draghi ha allontanato Domenico Arcuri, cambiato il capo della Protezione Civile e ridotto il Comitato tecnico scientifico nella composizione e nel potere mediatico. L' unico rimasto al suo posto è il sottosegretario Sileri ed ora potrebbe toccare a Speranza per il quale è partita la caccia ad un ruolo, in Europa o nell' Organizzazione mondiale della Sanità, in modo da rendere più facile il cambio di passo. Per ora non si hanno certezze sulle volontà del ministro tanto meno sul possibile successore al quale spetterà non solo gestire la fase finale delle vaccinazioni-2021, ma preparare il sistema sanitario alle pandemie future per affrontare le quali non sarà possibile spendere la marea di miliardi impiegati sinora, ma occorrerà riformare la sanità italiana anche in discontinuità con ciò che si difende al ministero. «A Salvini ho detto che l' ho voluto nel mio governo e che lo stimo molto», ha raccontato qualche giorno fa il presidente del Consiglio dopo aver incontrato il leader della Lega e dopo la prima manifestazione dei ristoratori davanti Palazzo Chigi. Una «stima» che motiva la ricerca di un incarico diverso che permetta al ministro un' uscita onorevole e permetta al governo di non subire scossoni. Il piano vaccinale di Speranza e Conte, raddrizzato da Draghi e dal generale Figliuolo, non prevedeva come unica priorità la vaccinazione agli ottantenni così come sollecitato dalla Commissione Ue a gennaio, ma ha dato priorità a insegnanti, operatori sanitari e forze dell' ordine permettendo poi ad una cospicua serie di furbetti (circa 2 milioni) di infilarsi. Il numero dei decessi e la scarsissima utilità riscontrata nel contenere il virus complicano ora l' obiettivo del governo sulle riaperture e i ristoratori promettono di tornare in piazza. Davanti Montecitorio e Palazzo Chigi, ovviamente.

Renato Farina per Libero Quotidiano il 16 aprile 2021. Ci fu chi scrisse del diritto a dire di un libro: non l'ho letto, ma non mi piace. Qui si va più in là, che è un problema di coscienza: è possibile recensire un saggio che però non risulta esistere? Però l'abbiamo trovato lo stesso. Uno di quei casi di oggetti emersi da mondi paralleli, come teorizzato da alcuni arditi scienziati, probabilmente inclusi nel Comitato tecnico scientifico. Ci riferiamo all'opera di Roberto Speranza Perché Guariremo. Dai giorni più duri a una nuova idea di salute (Feltrinelli. 234 pagine). Sulla copertina c'è scritto euro 15,00, ma a noi, come è giusto per le cose provenienti da un'altra dimensione come gli Ufo, ci è costato assai di più: 54 euro e rotti. Il libro in sé viene via a poco: 4,99 euro perché in quell'altra galassia, fuori dal tempo e dallo spazio, c'è il comunismo e tutto è a buon mercato come l'autore prevede che capiterà anche a noi grazie alla pandemia, ma le spese di spedizione assommano a 49 euro. Lo si trova su Ebay, i più abili lo recuperano a prezzi minori tramite Amazon Francia. Che dire? Ne vale la pena. I diritti d'autore finiranno ad associazioni benefiche, e impareremo leggendolo a conoscere quale siano i contenuti di una delle zucche più pure della sinistra contemporanea. Abbiamo capito perché Speranza sia stato convinto a ritirarlo precipitosamente dai magazzini da cui stava per essere smistato alle librerie in Italia nello scorso ottobre. Dev' essere capitato come alle mascherine cinesi procurate dal suo sodale Domenico Arcuri: facevano un po' schifo, secondo i suoi consiglieri. In realtà è un testo molto istruttivo. La sintesi è questa, e Speranza si mette subito una medaglia da solo, altro che il generale Figliuolo: «È un libro di attualità e di impegno civile». Come Franz Kafka, ma a differenza di Marcel Proust che «andava a letto presto la sera», questo volume immortale è stato scritto «nelle ore più drammatiche della tempesta, nelle lunghe notti in cui il sonno mi sfuggiva».

SENTIMENTALISMI. È un saggio dove, modestamente, l'autore «propone idee, valori, progetti», ma che a noi pare anche un documento imperdibile di letteratura romantica. Lui forse ha creduto di porsi soltanto sulla scia biografica del "giovane Marx", che però non fu mai ministro, o più probabilmente del "giovane Koba-Stalin", ma qui siamo davanti anche agli esperimenti giovanili di uno Shakespeare. Si immagini trasferito a teatro un dialogo come questo. Siamo in piena pandemia. Sono «ore difficilissime». Come Alessandro Magno prima della battaglia di Guagamela, 331 a.C., annota nel suo diario napoleonico il momento in cui lascia la sua tenda al luogotenente, in questo caso Domenico Arcuri, detto Mimmo il Tenace. Roberto Speranza in quel momento sta per tornare al campo base,lasciando la casamatta al Commissario straordinario per l'emergenza. E qui trascriviamo senza sciupare una virgola, mandando a capo per non perdere i sussulti di poesia, l'arte delle pause, questa pagina di diario datata 14 marzo 2020. «Mentre lascio la sede della Protezione civile per tornare a lavorare al ministero, mi volto verso Federica e Massimo (gli attendenti, ndr), che mi stanno accompagnando. Mi colpisce un pensiero: non posso lasciare solo Domenico Arcuri. «Voi restate qui, per favore», dico ai miei collaboratori. «Ma tu come fai da solo?», protestano. «Poi vediamo. Intanto date una mano a Domenico» (pag. 126, da ritagliare e incorniciare se non fosse un sacrilegio rovinare un volume raro). Sublime, non trovate? Del resto tutto è un impegno civico, ma soprattutto una tremenda necessità spirituale. Impossibile trattenere la penna: «La forza dei tanti ricordi che si rincorrono nella mia mente è straripante», e infatti straripano. Come può non raccogliere in questa esondazione del grande fiume che è la sua mente questo frammento foscoliano? Racconta la gioia di tagliarsi i capelli alla riapertura dei barbieri: «Finalmente, posso anch' io tagliarmi i capelli. Era dai tempi del mio Erasmus a Copenaghen che non li avevo così lunghi, ma quella volta era stato per scelta». È molto bello immaginarselo capellone. E per fortuna non mancano simpatici flash-back sulle sue avventure giovanili. Del resto, si definisce «esponente della generazione Erasmus», proprio così "esponente", magari capogruppo o qualcosa del genere. Spiega i capisaldi di quella generazione, con enormi zaini, in tre arrivano a Parigi. Vanno a ritrovare al cimitero Jim Morrison e Oscar Wilde (segnatevi l'indirizzo: camposanto Père Lachaise). Lui però è già un europeista, e trascina i suoi sventurati compagni in pellegrinaggio alla sede del parlamento europeo a Bruxelles. Dopo di che si precipitano nel sud della Francia. «A Marsiglia, una notte, incappammo in un uomo con il coltello che voleva derubarci. Provai ad argomentare che non avevamo nulla e rapinarci era quindi assolutamente inutile: funzionò. Me la cavai dando all'aspirante ladro un pacco di biscotti». Speranza fa rilucere qui le sue doti di mediazione. Deve aver fregato così le Regioni nelle trattative sulla zona rossa, un biscottino e via.

ESAME DI COSCIENZA. Questa trattativa felicemente conclusa lo ha di sicuro sospinto ai vertici della Sinistra Giovanile, da cui è rimbalzato a 34 anni a capogruppo del Pd alla Camera nel 2013. Bisogna riconoscere che ha saputo dimettersi da questo posto di potere, finendo nel gruppuscolo separatista di Pierluigi Bersani, in Articolo 1, poi Leu: «Non era quella che si usa definire una mossa politica astuta. La coerenza, d'altra parte, spesso non coincide con l'astuzia». Ma un po' di presunzioncella gli è rimasta attaccata, questa superiorità morale, per cui è molto portato «all'esame di coscienza», ed esaminata la coscienza per lungo tempo si è creduto il miglior ministro della Salute dell'orfanotrofio. Per puro scrupolo offriamo alcuni diamanti pescati tra le pagine. Frasi che saranno presto patrimonio immateriale tutelato dall'Unesco. La vita interiore: «La vaga inquietudine che provo... si coagula in preoccupazione»; «La nube che mi pesa sulla mente si solleva». Il ruolo della donna: «Sandra Zampa, persona seria e leale... mi impone di mangiare e bere quando non ho nemmeno il tempo di respirare»; «Nella mia stanza comparirà ogni giorno Silvia con tè e biscotti». Anatomia dei sentimenti: «Io penso anche a questo, ai nostri anziani»; «Non dimenticherò mai i medici cubani». Considerazioni di geopolitica: «Viviamo su un unico pianeta». Soprattutto, a pagina 142, la confessione definitiva: «Il Paese merita molto di più».

Toni Capuozzo contro Roberto Speranza: "Facile chiudere, lui appartiene alla cultura del posto fisso". Libero Quotidiano il 16 aprile 2021. Toni Capuozzo non usa mezzi termini quando si tratta di Roberto Speranza. Nel mirino del giornalista l'ennesimo balletto sulle riaperture. Il ministro della Salute, anche oggi che Mario Draghi ha annunciato parziali via libera dal 26 aprile, ha ribadito la necessità di prestare massima attenzione. Intransigente sul coprifuoco fino alle 22, su cui l'esponente di Leu ha detto chiaro e tondo: "Resta". Almeno per ora. Quando basta per scaldare gli animi. Quello di Capuozzo compreso che, in uno sfogo rilanciato dalla pagina Twitter ufficiale della Lega, tuona: "Speranza? Chiudere è molto semplice e non costa nulla. Ti dà un potere enorme. È come avere lo scettro del re. Mentre per aprire devi attuare un piano vaccinale veloce ed efficiente. Proprio quello che noi non abbiamo fatto". Parole pesanti sono quelle rilasciate per il Giornale. Qui Capuozzo ha travolto il ministro della Salute definendolo come uno che "la gazzetta dei concorsi ce l’ha scritta sulla fronte. Appartiene in pieno a quella cultura del posto fisso. Non sa forse che esistono anche i commercianti, i ristoratori, i lavoratori autonomi, quelli che creano molti posti di lavoro. E poi sa qual è il punto?”. Presto detto. Questa volta però il dito è puntato contro il governo Conte, perché "ha capito che il Covid poteva essere un’opportunità da un punto di vista politico e l’ha sfruttato per crescere nei consensi. Ma non è stato in grado di gestire la pandemia. Ha svuotato l’attività parlamentare con l'arma dei dpcm; ha dato la colpa dei contagi ai cittadini senza però preoccuparsi di migliorare i trasporti". Infine non è mancata la frecciata a chi, come Michela Murgia, ha criticato la divisa del genare Francesco Figliuolo, ora a capo della Protezione civile. "Se c’è una minaccia oggi in Italia, viene più dalla politica, da chi è in giacca e cravatta, non certo dai militari in uniforme". 

Roberto Speranza: "Ho chiuso per imporre la cultura di sinistra". Una vergogna che sa di stalinismo: il ministro peggiore. Renato Farina su Libero Quotidiano il 14 aprile 2021. Il punto di fragilità di questo governo è Roberto Speranza. Non dura. Non al ministero della Salute, perlomeno. La zavorra va gettata a mare, oppure trasferita su qualche zattera imbandierata dove il giovane lucano si occupi senza far danni di materie innocue, tipo organizzazione di campeggi per amici del Vietnam o per figli della lupa bolivariana. Mario Draghi lo aveva salvato qualche giorno fa, caricandoselo sulle spalle e sottraendolo mezzo morto alle bordate di Matteo Salvini: «Ho detto a Salvini che l'ho voluto nel mio governo e che lo stimo molto». Così recitò in conferenza stampa, dove però si era ben guardato dal tenerselo al fianco. È successo l'8 aprile, ma sembra passato un secolo. Adesso il gravame è diventato insopportabile. Non è una questione di immagine, ma di sostanza: il fiore della gioventù comunista lucana, già pupillo di Sergio Mattarella, e oggi soltanto di Pier Luigi Bersani (tra i vivi) e di Giuseppe Stalin (tra i defunti), coincide agli occhi del popolo con la sciagurata gestione della pandemia. Il relitto del governo Conte sarebbe ancora stato restaurabile senonché alla chiara impreparazione i è aggiunta un'aggravante tombale: il fatto di essersi circondato di una ciurma di collaboratori che ha occultato scientemente la verità, taroccando e cancellando la relazione per l'Oms di una squadra di scienziati di Venezia sui gravissimi errori del suo ministero che hanno aggravato il bilancio dei morti. L'indagine della procura di Bergamo è devastante. Sapeva o non sapeva, Speranza? Opto personalmente per il no. Ma questo è un dilemma che attiene alla sua moralità, però chi ha venduto patacche predispostegli dai suoi fidati consiglieri deve salutare tutti, o almeno gentilmente spostarsi. Se no? Non è che va a fondo soltanto un governo, ma naufraga l'Italia nella sfiducia. Emerge altro che rende incompatibile la presenza di un ministro siffatto in un governo che si regge su una maggioranza dove il centrodestra è decisivo. Ci tocca citare un libro di Roberto Speranza che non c'è ma purtroppo esiste. Parlo del volume Perché guariremo, dai giorni più duri a una nuova idea di salute ( Feltrinelli. 226 pagine) mai uscito in Italia ma in vendita tramite Amazon in Francia e Spagna (ma anche su eBay in Italia al prezzo esorbitante di circa 50 euro perché «libro rarissimo»). Accanto a pagine patetiche, da ragazzo della via Paal, ci sono affermazioni che sono accettabilissime in una democrazia liberale, cioè comunismo puro, rivendicazione di una strategia cinica pur di arrivare al potere eccetera. Ma non quando passa da parola ad azione governativa. Qual è il problema? Egli candidamente dichiara che il suo lavoro di ministro è una galoppata sul cavallo della pandemia per guidare il popolo nella terra dove gli italiani finalmente vivranno nel paradiso invano cercato da Gramsci, Togliatti e forse D’Alema. Non che scriva questa confessione apertis verbis. È una filigrana ideologica che è individuabile perfettamente nel manifesto compiacimento di istituire il lockdown dovunque e comunque e le zone rosse non tanto per ragioni di salute fisica ma come pedagogia per il popolo, così da insegnargli a sottomettersi a ukaz del potere centrale. La pura essenza manipolatrice del governo giallo-rosso sta tutta in questa frase: «Non si poteva lasciar pensare agli italiani che ci fossero regioni dove si viveva meglio». Con uno così si lotta contro. Non si governa insieme. Impossibile. Il fatto è che ci sono pagine in cui la dissimulazione sparisce per l’entusiasmo. Quando scrive questo libro, nell’estate del 2020, Speranza è convinto che in «pochi mesi» si potrà tornare alla normalità. Ma non la vecchia normalità, ma – grazie a questa alleanza sinistra-M5S - una nuova normalità. In fondo, la pandemia porta con sé l’alba di un altro mondo. Sembra di sentire una sinfonia di Shostakovich al Bolschoi di Mosca con il Grande Timoniere dai baffi inzuppati di pianto. Grazie pandemia, che «ha dissodato per la sinistra un terreno politico molto fertile», un tempo in cui «dopo tanti anni controvento perla sinistra ci sia una nuova possibilità di ricostruire un’egemonia culturale su basi nuove». Cito per la terza volta Stalin, e mi scuso con il vecchio georgiano, ma mi tocca. Speranza, mutando i termini per non inciampare nelle censure del politicamente corretto, ripristina il grande vaglio dell’«origine sociale» come criterio per selezionare la classe dirigente in Urss, e prossimamente su questi schermi. Non il merito, ma la «pura origine proletaria». I proletari non ci sono più, ma ci si prova. Nel governo Conte 2, scrive Speranza, «nessuno è figlio dell’establishment, nelle biografie di molti di noi c’è un connotato popolare vero». Visto che adesso è arrivato Draghi, che diremmo essere abbastanza establishment, magari per coerenza e per pudore, dovrebbe darsi a una certa clandestinità. E lasciare cavalcare la pandemia a chi vuole semplicemente ucciderla invece che ringraziarla. E se non lo fa da solo, che faceva Stalin? La purga. 

Alberto Gentili per il Messaggero il 29 aprile 2021.   «Vado avanti ancora più determinato nel mio lavoro. Conta il Paese, non le piccole schermaglie». Il Senato ha appena bocciato ben tre mozioni di sfiducia contro di lui e Roberto Speranza dribbla le polemiche. Del resto quello che aveva da dire l'ha scandito nell'aula del Senato: «In un grande Paese non si fa politica su una tremenda epidemia, la politica non è un gioco d'azzardo sulla pelle dei cittadini. Per combattere il virus dobbiamo essere uniti e non sfruttare l'angoscia degli italiani per miopi interessi di parte». L'appello del ministro della Salute è però destinato a cadere nel vuoto: Lega e Forza Italia, che ora si definiscono «centrodestra di governo» e isolano Giorgia Meloni contribuendo con i loro voti a bocciare le tre sfiducie (una di Fratelli d'Italia), subito dopo hanno lanciato la commissione d'inchiesta sull' operato di Speranza nella gestione della pandemia. Insomma, per evitare la crisi di governo, Matteo Salvini e Antonio Tajani non sfiduciano il ministro voluto e difeso da Mario Draghi. Ma vogliono processarlo in Parlamento. E Matteo Renzi è con loro.  La bocciatura delle tre mozioni di sfiducia che hanno preso meno voti nella storia repubblicana (con l'eccezione di Giulio Andreotti nel 1984: 15 sì contro i 29 incassati dal documento di Fdi) non riporterà, insomma, il sereno all' interno della maggioranza. E se è vero, come ha detto il ministro 5Stelle Stefano Patuanelli, che «ora si è chiuso il teatrino», è altrettanto vero che continuerà la guerriglia sulle riaperture. A cominciare dall' abolizione o dall' allentamento del coprifuoco a maggio e per finire con la commissione d' inchiesta che dovrà essere messa ai voti nelle prossime settimane.  «Questa commissione che indagherà sul piano pandemico e sul comportamento del ministro Speranza vale dieci volte di più di una mozione di sfiducia», già celebra Salvini ossessionato dalla competition a destra con Giorgia Meloni. Nel suo discorso Speranza ha dato sfogo all'amarezza, senza mai citare il leader leghista di cui è il bersaglio preferito da mesi: «Nessuno dovrebbe Dimenticare che il nemico è il Covid e che occorre essere uniti nel combatterlo, invece si alimenta un linguaggio di odio. Si tenta di sfruttare l'angoscia di tanti italiani per miopi interessi di parte. La politica non è un gioco d' azzardo sulla pelle dei cittadini».  Speranza si è poi difeso dalle accuse: «Tutte le mozioni sottolineano come il piano pandemico non sia stato aggiornato secondo le linee guida dell'Oms e fanno riferimento a 180 mesi durante i quali si sono alternati ben 7 governi. Tutti i gruppi di quest'aula, nessuno escluso, compresi quelli che hanno presentato le mozioni, hanno sostenuto alcuni di questi governi. Troppo facile oggi far finta di non vedere. Posso dire a testa alta che adesso il piano pandemico antifluenzale aggiornato c'è. Quello che non è stato fatto in molti anni è stato invece realizzato in pochi mesi proprio durante il mio mandato». Il discorso di Speranza è stato salutato dalla standing ovation dei senatori di centrosinistra e dagli applausi di una parte del centrodestra. Poi però sono arrivate le bordate di Giorgia Meloni, in primis su Salvini: «Tutti i partiti di maggioranza hanno deciso di sostenere la gestione opaca e fallimentare della pandemia». E l'annuncio di Lega e Forza Italia che la partita non è tutt'altro che chiusa: «La fiducia la diamo a Draghi, non a Speranza. Il centrodestra di governo propone fin da oggi una commissione di inchiesta sull' operato del ministero della Salute». Nel disegno di legge di Lega e FI è scritto: «La commissione punta ad accertare se nell' ipotesi in cui il nostro Paese avesse aggiornato il piano pandemico, seguendo le linee guida indicate dall' Oms, si sarebbe potuto limitare il numero dei morti». Ma la competizione con Fdi è anche su questo fronte: il partito della Meloni ha presentato un proprio ddl. Come Italia Viva. In più la Commissione potrebbe passare alla Camera solo con i voti di Pd e 5Stelle. E i dem già fissano i paletti e alzano il prezzo con la capogruppo Simona Malpezzi: «Nella storia parlamentare si è sempre indagato a evento concluso. Ed è scontato che si dovrà partire dalla Regione Lombardia, in cui si sono registrati le maggiori criticità e il più alto tasso di mortalità. Salvini la smetta di fare il doppio gioco, l'azione di governo così è a rischio». Insomma, nella maggioranza si annuncia una nuova battaglia lunga e velenosa.

L'aria che tira, Pietro Senaldi contro Roberto Speranza: "Un comunista che ci condanna a non avere una vita". Libero Quotidiano il 31 marzo 2021. Pietro Senaldi è stato ospite nello studio de L’aria che tira, la trasmissione in onda tutti i giorni su La7 e attualmente condotta da Francesco Magnani al posto di Myrta Merlino. Il direttore di Libero è partito dalla vicenda del giorno, ovvero dal pasticcio combinato dal governo presieduto da Mario Draghi sui viaggi all’estero mentre sul suolo italiano non è consentito spostarsi, per esporre il suo giudizio sul ministro Roberto Speranza. Il quale in precedenza da Magnani era stato definito un pedagogo, ma Senaldi è stato di tutt’altra opinione: “Secondo me lui non è un pedagogo, ma un comunista, come d’altronde ha sempre detto. Nel suo libro sul Covid che non è mai stato pubblicato ha detto che l’epidemia era una grande occasione per la sinistra, che avrebbe dovuto riformarsi. Invece qui si è capito che finché c’è Speranza non c’è più vita. Poi sul caso specifico non vedo perché se uno va all’estero rischia di contagiarsi di più che in Italia, dove siamo tra quelli messi peggio”. Magnani gli ha fatto notare però che il provvedimento sui viaggi all’estero è stato avallato anche da Mario Draghi: “Io credo che il premier utilizzi in parte Speranza come un bersaglio. Per qualsiasi provvedimento antipatico del governo c’è Speranza che è lieto di assumersene la responsabilità. I politici si danno dei ruoli, lui fa quello dell’uccello del malaugurio ed è contento di farlo, anche perché magari poi capitalizzerà”. 

Speranza, il ministro dell'1% che vuole rinchiuderci in casa. Giuseppe De Lorenzo il 14 Aprile 2021 su Il Giornale. L'esponente Leu è ministro della Salute quasi per caso. Berlusconi gli disse: "Cosa ci fai con i comunisti?" Articolo Uno oggi, più che al nome di un partito, somiglia piuttosto alla sua forza politica. Nomen omen: Articolo Uno per cento. Da tempo gli smacchiatori di giaguari non si schiodano più dalla colonna destra dei sondaggi, dedicata ai movimenti con pochi elettori, eppure per una sorta di maledetta congiunzione astrale si trovano tra le mani il più importante dei ministeri del governo Draghi. Magie della politica: alla guida del dicastero della Salute, croce e delizia degli italiani in pandemia, c’è ancora lui, il sornione Roberto Speranza, bravo ragazzo con l’indole da anzianotto, volto pulito di una politica (di carriera) vecchio stampo che purtroppo non sempre riesce a produrre i migliori amministratori. Come in questo caso. Classe 1979, potentino, cravatte noiose e capelli da monaco, Speranza di sé dice di essere un uomo che ama “abbattere” muri o almeno “scavalcarli”. Cosa significhi, non è chiarissimo. Ma quello che il ministro della Salute è riuscito a scalare con indiscutibile rapidità è il cursus honorum della politica nostrana. Ragazzino di liceo quando si combattevano battaglie a prescindere contro Berlusconi, è diventato segretario Regionale e Presidente Nazionale della Sinistra Giovanile del Pds prima e dei Ds poi. Del movimento guidato negli anni anche da Nicola Zingaretti e Gianni Cuperlo, giusto per dare un’idea dell’imprinting culturale, Speranza ne è stato l’ultimo presidente prima della nascita del Partito Democratico. Ed è proprio la nuova creatura di Veltroni la vera rampa di lancio per il roseo futuro politico di Roberto: assessore a Potenza, membro della costituente del Pd, segretario regionale finché, ad appena 33 anni, Pier Luigi Bersani gli cambia del tutto la vita. Nel 2012 infatti lo chiama a coordinare la campagna nazionale per le primarie del centrosinistra e l'anno dopo lo "nomina" capogruppo alla Camera. Sono gli anni in cui a sinistra si affaccia pure Matteo Renzi, praticamente l’alter ego di Speranza, due personalità agli antipodi benché vicini per carta di identità. Istrionico il primo, pacato il secondo. Rottamatore Matteo, fedele alla “Ditta” Roberto. Il democristiano versus il post-comunista. Il carismatico contro il burocrate. Le loro strade si incontrano quando Speranza e la sinistra Pd tradiscono Letta invitanto Renzi a salire a Palazzo Chigi. Poi la rottura è insanabile, a partire dal voto contrario al referendum costituzionale. “Non sono una primadonna”, disse nel 2016 Speranza candidandosi alla segreteria del Pd proprio contro Matteo. Ed è vero. C’è un aneddoto che dipinge meglio di ogni altra cosa l’effetto che fa questo prodotto della “Ditta” su chi lo osserva. Nel 2013 le delegazioni di Pd e Forza Italia si incrociano al Quirinale in occasione delle consultazioni per la formazione del governo. Bersani presenta il “giovane capogruppo” dem al nemico di sempre, Silvio Berlusconi, il “grande avversario del movimento giovanile della sinistra”. Il Cav guarda Speranza “con curiosità”, poi esclama: “Lei ha una faccia così pulita, da bravo ragazzo, ma che ci fa con questi comunisti?”. Ecco. In realtà di quei “vecchi” comunisti, o del loro modo di fare politica, Speranza è prototipo perfetto. Uomo di partito, mai una parola fuori posto, schivo al punto giusto, buono per ogni tipo di ruolo il leader gli chieda di occupare. Non gode di slanci particolari, dimostra poca verve, la capacità di scaldare le masse è prossima allo zero. A parte le dimissioni da capogruppo nel 2015 (in dissenso - guarda caso - con le scelte del premier Renzi) e la successiva fondazione di Articolo 1, Speranza forse non avrebbe lasciato grandi ricordi di sé nell’almanacco della politica se non fosse per Sars-CoV-2. A viale Lungotevere Ripa infatti ci arriva per mancanza di alternative, un po’ per occupare la casella lasciata libera nel traballante scacchiere del Conte II e assegnata a uno dei più piccoli dei partiti della nuova coalizione. Ed è qui che gli italiani imparano a conoscerlo. Nella prima ondata veste i panni del fantasma. Se ne sta nascosto, parla poco, non va molto in tv e scarica ogni responsabilità comunicativa su Conte che infatti ci rimette la faccia. Speranza intanto instaura un buon rapporto con le Regioni (pure quelle leghiste), dialoga con gli scienziati, sembra aver fatto la scelta giusta: mentre gli altri brancolano nel buio e alternano richieste di aperture con decreti di chiusura, lui resta in disparte. Faccio mea culpa: ad aprile dello scorso anno lo giudicai il migliore dei ministri in quelle tragiche fasi, ma la sua prudenza nascondeva un segreto inconfessabile. O meglio, un “piano segreto”. Uno tra i pochi a conoscere i numeri del contagio calcolati dai matematici, infatti, Speranza può vantarsi di essere stato l’unico, dopo le prime zone rosse di Codogno e Vo’, a non chiedere subito le riaperture. Il suo istinto rigorista, la linea della “prudenza”, non è però frutto del fiuto politico: poche ore prima il Cts gli aveva presentato proiezioni catastrofiche che lui si guarda bene dal rendere di dominio pubblico. Paura di scatenare il panico? Forse. Decisione del Cts? Chissà. Quel che è certo è che il vertice politico del ministero della Salute, deputato ad avere la responsabilità su cosa dire e cosa celare, preferisce non gettare in pasto all’opinione pubblica le previsioni di Merler&co. Anzi. Il 27 febbraio va in Parlamento a rassicurare tutti che “nella stragrande maggioranza dei casi” il virus “comporta sintomi molto lievi” e “si guarisce rapidamente e spontaneamente nell’80% dei casi”. Ed è vero, per carità. Ma sentirselo dire da chi oggi detta i tempi delle chiusure a oltranza fa un certo effetto. Soprattutto se si pensa alle allarmanti informazioni contenute nel “Piano” che solo lui e pochi altri avevano avuto l’onore di leggere. Molti oggi gli imputano questi silenzi, ma lui non fa un frizzo. Di interviste continua a rilasciarne poche, si espone il meno possibile, parla solo quando costretto. E così gli scandali sulla gestione della pandemia, benché in parte lo riguardino, alla fine non ne hanno ancora scalfito davvero l’immagine politica. Non è servita la bufera sul piano pandemico inspiegabilmente lasciato in un cassetto. Non sono bastate le querelle sul report dell’Oms ritirato dal sito, le rivelazioni sull’Organizzazione usata come “foglia di fico” del governo o i tentennamenti sulla zona rossa in Val Seriana. I suoi fan ricordano che fu lui a chiudere per primo i voli dalla Cina, dimenticando però che non si occupò di fare lo stesso con gli scali intermedi. Non hanno avuto eccessivo effetto neppure i pronunciamenti del Tar sul piano segreto o lo scivolone di scrivere un libro ottimista (“Perché guariremo”) mentre il virus si apprestava a ri-esplodere. Speranza alla fine è ancora là: per un inspiegabile desiderio di continuità politica, Draghi lo ha confermato alla Salute. E lui da diversi mesi a questa parte non fa che interpretare un ruolo tutto sommato semplice, quello che più gli si addice: cavalcare la prudenza, sempre e comunque, restando il più possibile in disparte. Poco importa se l’economia arranca, se i cittadini sono esasperati, se le nuove regole appaiono ormai più incomprensibili: la mano di Speranza affoga le speranze di ripartenza del Paese. Dall’alto dell’1% di Articolo 1, determina le sorti dell’Italia nonostante tutto. Nonostante lui stesso dicesse: il virus “nella stragrande maggioranza dei casi comporta sintomi molto lievi”.

Felice Manti per “il Giornale” il 12 aprile 2021. C'è una domanda alla quale il ministro della Salute Roberto Speranza deve rispondere. È vero che il governo italiano concordò una versione di comodo con l' Organizzazione mondiale della Sanità per sminuire le reciproche responsabilità, vale a dire l' assenza di un piano pandemico aggiornato e un errore grave nelle procedure Oms sul tracciamento dei positivi? Dalle chat in mano ai pm di Bergamo che indagano per epidemia colposa sembra proprio di sì. Ieri Speranza era a Chetempochefa su Raitre ma né lui né Fabio Fazio hanno deciso di affrontare l' argomento. Chi ha letto le carte capisce perché. L' indagine sembra infatti puntare su di lui. All' ex responsabile della Prevenzione del ministero della Sanità Ranieri Guerra, oggi numero due dell' organismo delle Nazioni le conversazioni con il portavoce del Comitato tecnico scientifico Silvio Brusaferro - mostrate ieri a Non è l' Arena su La7 - quelle chat sono già costate un avviso di garanzia per false informazioni ai pm. Per i magistrati guidati da Antonio Chiappani il report del gruppo di lavoro Oms con base a Venezia, guidato da Francesco Zambon, che definiva l' azione anti Covid-19 del governo di Giuseppe Conte «caotica e creativa» venne fatto sparire in 24 ore grazie alle pressioni dello stesso Guerra ai vertici dell' Organizzazione mondiale della Sanità, smentite ai pm ma cristallizzate nelle chat: «Sono stato brutale con gli scemi del documento di Venezia - scrive Guerra - Ho mandato scuse profuse al ministro (Speranza, ndr) e (...) e fatto ritirare il documento». E ancora, dopo un incontro con il suo capo di gabinetto Goffredo Zaccardi: «Dice di vedere se riusciamo a far cadere il report nel nulla». Cosa che succederà, finché il consulente del team di legali che ha innescato l' inchiesta di Bergamo Robert Lingard lo ripesca, lo rende noto in una conferenza stampa rilanciata dal Guardian e lo porta in Procura, dove diventa la testata d' angolo dell' inchiesta. Perché il report faceva a pezzi l' Italia e i criteri sul tracciamento con cui l' Oms cercava di stare dietro alla pandemia. Un guaio per Guerra, che per colpa di quel report vedeva sbriciolarsi «un percorso di costruzione di fiducia e confidenza», dice ancora a Brusaferro. Nonostante Zambon avesse segnalato a tutti i vertici Oms le indebite pressioni subite per modificare il report, compreso Gebreyesu, l' Oms lasciò che il report sparisse, anzi fece pressioni anche sulla Farnesina chiedendo una sorta di «vigilanza sull' operato della Procura. Una cosa non piacevole», ha detto alle telecamere di Report il procuratore aggiunto di Bergamo Maria Cristina Rota nella puntata che andrà in onda stasera e che promette «nuove prove che rivelano una realtà alquanto diversa dalla versione ufficiale sin qui raccontata al pubblico». Mentre il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri chiede la testa di Speranza («L' opportunità di mantenerlo al ministero è venuta meno da tempo») e chiede di allargare l' indagine «ad altri soggetti come Brusaferro e Zaccardi», l' avvocato Consuelo Locati che rappresenta i familiari delle vittime della Bergamasca è ancora più netta: «Emerge inconfutabilmente una responsabilità, quantomeno istituzionale, anche del ministro Speranza, consapevole di come quel rapporto mettesse in scacco la narrativa della fatalità artatamente costruita per nascondere le negligenze delle istituzioni. Nonostante Draghi abbia avuto parole di encomio ha rimosso alcuni elementi chiave della squadra costituita per fronteggiare l' emergenza». Di fatto, commissariandolo.

Le domande che Fazio non ha fatto al "compagno" Speranza. Giuseppe De Lorenzo il 12 Aprile 2021 su Il Giornale. Il ministro della Salute "intervistato" a Che tempo che fa. Nessuna domanda sulle inchieste e gli scandali del report Oms. Ben 27 inutili minuti di diretta televisiva. Quasi mezz’ora di “domande molto basiche”, quesiti “generici”, interrogativi “banali” e un microfono prostrato al ministro della Salute senza incalzarlo troppo. Anzi: proprio mai. Ci sarà un motivo se Roberto Speranza nel suo libricino (pubblicato e poi ritirato) riserva cordiali ringraziamenti a Fabio Fazio e a pochi altri eletti giornalisti. Lo si è capito ieri sera, quando nel salotto radical chic di Che tempo che fa il conduttore aveva l’occasione di bombardare il ministro della Salute su milioni di argomenti e invece ha deciso di regalargli la scena senza punzecchiarlo neppure di striscio. O meglio, fingendo di farlo su temi assolutamente futili tipo la riapertura delle scuole, il “perché non abbiamo i vaccini che servono”, la variante inglese che corre e fregnacce varie. Roba trita e ritrita. Ci saremmo attesi uno slancio tipico del segugio da giornalismo d’inchiesta, quello che non lascia al Potere neppure il tempo di respirare. Mica capita tutti i giorni di avere ospite Speranza proprio mentre è nell’occhio del ciclone. Chessò, avrebbe potuto domandare: che ha da dire sul piano pandemico del 2006 mai aggiornato che avrebbe salvato 10mila vite? Come spiega il fatto che l’Italia decise di non attivarlo nel pieno della prima ondata? Oppure, sulla trasparenza: perché tenere “segreto” un piano? E dove sono i verbali della task force ministeriale? Macché. Il David Letterman dei poveri ha incalzato così tanto il nostro Roberto, che il ministro ha pure avuto modo dire: “La ringrazio per questa domanda”. Capirai: vuole pure un pasticcino? A tre minuti dalla fine, però, Fazio ha promesso “l’ultima domanda”. Immaginatevi la scena. Tu sei lì, sul divano, sdraiato da 23 minuti di noia, e l’annuncio ha l’effetto di una scarica elettrica. Esulti: “Evviva, eccoci finalmente: ora lo incastra”. I quesiti possibili ti balenano in testa e martellano sul cranio come un tamburo. Gli domanderà degli sms tra Ranieri Guerra e Silvio Brusaferro? Lo costringerà a spiegare se è vero che il suo capo di gabinetto, Goffredo Zaccardi, era a conoscenza del tentativo di insabbiare il report Oms di Francesco Zambon? Gli chiederà cosa pensa di quel dossier che distruggeva il mito del “modello Italia” nella lotta alla pandemia? O dell'inchiesta della procura di Bergamo? Anzi no: visto che di pallottola ne ha una sola, "l'ultima domanda", forse è meglio se Fazio concentra l’attenzione su quella mail di Guerra in cui parlava di un “outout” dato da Speranza all’Oms per renderla la sua “consapevole foglia di fico”. Ecco: “Ministro, ma lei di tutto questo cosa sa? Non è il caso di fare chiarezza?” Invece no. Nulla. Anziché cercare la verità, invece di mettere alla sbarra Speranza, anziché fare del buon giornalismo per indagare le ombre del Potere, Fazio ha preferito sprecare l’ultima cartuccia sull’accordo coi sindacati per iniettare i vaccini nelle aziende. “Si sommano o si sottraggono a quelli disponibili?”. Machissenefrega! Siamo seri? Oltre ai pasticcini, allora, forse era il caso di offrire anche un caffè. Nel caso Speranza non si fosse trovato fino in fondo a suo agio. Alla faccia del servizio pubblico.

Roberto Speranza, l'affondo di Paolo Becchi: "Ecco perché è intoccabile anche se è il più colpevole di tutti". Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero Quotidiano il 12 aprile 2021. Draghi avrebbe già pronta la squadra per redigere il Recovery Plan: Franco, Cingolani, Colao, Giovannini e Speranza. Non si capisce perché ci dovrebbe essere il ministro della Salute e non ad esempio quello dello sviluppo economico. Si capisce invece che l'unico ministro "politico" di cui Draghi si fida è Speranza, lo ha scelto lui anche per il Recovery. Mentre la Procura di Bergamo indaga per «false informazioni rese al pm» Ranieri Guerra - direttore vicario dell'Oms ed ex componente del Cts -, quella di Roma avrebbe iscritto nel registro degli indagati Domenico Arcuri nell'affaire mascherine. L'unico a restare indenne dalle inchieste sulla gestione nel 2020 della Covid-19 è l'intoccabile, Roberto Speranza. Eppure il ministro della Salute ha più responsabilità di tutti. Tralasciando l'aspetto nefasto di aver rassicurato gli italiani fino al 21 febbraio 2020 che la situazione era sotto controllo, lo sa Draghi di chi ha preso le difese? Quello che da oltre un anno imprime una linea dura contro la vita e la libertà degli italiani, nel marzo-aprile 2020 ha commesso errori tali da avere sulla coscienza migliaia di morti.

PRIME LINEE GUIDA - Oggi se non porti la mascherina all'aperto ti arrivano addosso quattro volanti e sei sottoposto a moralizzazione governativa e mediatica, eppure nel Dpcm dell'8 marzo 2020 - quello che produsse la diaspora da Nord a Sud - su proposta del ministro della Salute Palazzo Chigi dettava le prime linee guida igienico-sanitarie. Tra queste la raccomandazione di non prendere antibiotici o farmaci antivirali e il consiglio di usare la mascherina solo nel caso vi fosse il sospetto di essere malati o in caso di assistenza a persone malate. Con indicazioni prive di riscontro scientifico, nei primi venti giorni di marzo 2020, i medici sono stati lasciati in balìa dell'incertezza e confusione. Molti malati sono morti perché non curati o curati male, seguendo le linee guida del ministro, che poi per nascondere le tracce di quanto combinato li ha fatti cremare. Nessuno ha ancora fatto chiarezza sulla regolarità nel rilascio delle manifestazioni di volontà ai sensi della Legge n. 130/2001 in merito alle cremazioni, ma sulle autopsie è stato proprio Speranza a raccomandare di non farle con ordinanza ministeriale dell'8 aprile 2020 (art. C, num. 1). Bruciare tutti senza fare le autopsie, così le prove scompaiono. Reati da codice penale. Questione AstraZeneca. Il 13 marzo 2021 Speranza rassicurava gli italiani che «i vaccini in Italia e in Europa sono tutti efficaci e sicuri», mentre il 15 marzo Aifa - dopo le rassicurazioni dei giorni precedenti - sospendeva AstraZeneca in tutta Italia. Dopo un paio di rassicurazioni dell'Ema, il 6 aprile la stessa agenzia europea per i medicinali ammetteva che tra il vaccino AstraZeneca e le trombosi qualchecorrelazione c'è, ma al momento non si sa a cosa sia dovuta anche perché - di fatto - parliamo di percentuali irrisorie. Così il ministero della Salute, con circolare del 7 aprile, raccomanda per AstraZeneca «un suo uso preferenziale nelle persone di età superiore ai 60 anni». Ci chiediamo se sia lo stesso ministero che, il 9 febbraio 2021, con il comunicato n. 29 firmato da Speranza dichiarava: «Oggi arrivano le prime dosi del vaccino Astrazeneca. Saranno somministrate alla popolazione tra i 18 e i 55 anni». Dunque è Speranza che ha ordinato la vaccinazione dei giovani con AstraZeneca. In pratica Speranza prima rassicura l'intero Paese che AstraZeneca è sicuro fino a 55 anni di età, mentre adesso (dopo che alcuni giovani sani sono morti a causa del vaccino) ne raccomanda la somministrazione solo per gli over 60. Si può avere fiducia in un ministro che gioca in questo modo con la vita degli italiani?

CHIUDI E CREPA - Su misure come lockdown e coprifuoco il ministro ha ancora maggiori responsabilità. Il 10 marzo 2021, giorno in cui il governo metteva l'intero Paese in zona rossa e chiudeva nuovamente tutte le scuole di ogni ordine e grado, si contavano 332 decessi. Il 7 aprile, dopo un mese di zona rossa nazionale, i morti sono stati addirittura 627, saliti a 718 il 9 aprile. Chiudi tutto e i morti aumentano, un percorso fallimentare che ha distrutto l'economia di un intero Paese. Il Cts che consiglia Speranza propone adesso di eliminare addirittura i pagamenti in contanti nel caso si decidesse la riapertura dei ristoranti, l'ennesima mazzata ad una categoria distrutta da chiusure ideologiche e senza base scientifica. I pm indagano Guerra e pare Arcuri. Perché Speranza è invece indenne da ogni indagine? Che rapporti c'erano tra il ministro, Ranieri Guerra e Arcuri? Per quale motivo nessuno presenta una interrogazione parlamentare al ministro chiedendogli spiegazioni su tutti questi aspetti? Potrebbe farlo la Lega, ma se per motivi politici non intende esporsi, perché non lo fa FdI che è l'unico partito di opposizione? Chi c'è dietro a Speranza? Chi lo protegge?

Le strane priorità dei giallorossi: sì a ius soli e omotransfobia. Massimo Malpica - Dom, 04/04/2021 - su Il Giornale. Omotransfobia, ius soli e ristori. Il menu politico della vigilia pasquale per il Pd prevede una sorpresa, il rilancio tra le priorità del Ddl Zan e dell'acquisizione della cittadinanza per chi è nato sul suolo italiano. La novità nell'uovo farà piacere a buona parte della base dem, attenta al tema dei diritti, ma non è decisamente un ramoscello d'Ulivo in un «governo di tutti» dove entrambi i temi sono e i fatti degli ultimi giorni lo hanno dimostrato estremamente divisivi. Eppure ieri l'ex ministro per gli Affari regionali Francesco Boccia su Twitter ha rilanciato il primo tema, con un chiaro avvertimento alla Lega. «Omotransfobia, crimini d'odio, abilismo, misoginia, questi i reati regolati dal ddl Zan. Il senatore Ostellari e la Lega non possono impedire al Parlamento di esprimersi; nomini presto un relatore libero, senza pregiudizi o provocazioni alla Pillon. È inaccettabile tenere in ostaggio la commissione giustizia del Senato». Il riferimento è al supposto ostruzionismo del presidente leghista della commissione, che aveva annullato a fine marzo la riunione dell'ufficio di presidenza che avrebbe dovuto calendarizzare il ddl. E se il deputato dem Bordo aveva spiegato che comunque il Ddl Zan non c'entra con l'agenda di governo ma attiene «alle iniziative parlamentari sulle quali non ci sono vincoli di maggioranza», a rilanciare il tema come centrale proprio per l'esecutivo è arrivata l'europarlamentare Pd Pina Picerno. Ribadendo che «la lotta alle discriminazioni deve rappresentare uno dei cardini dell'azione di governo», senza restare ostaggio «del tatticismo politico della destra più becera». Immediata la sponda del M5s che parla attraverso il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli: «Assurdo pensare che non serva una legge contro l'omotransfobia». Sempre ieri, il senatore dem Andrea Marcucci, commentando i «colloqui al vertice tra 5 stelle e Partito democratico» ha introdotto un altro tema non esattamente condiviso nella larghissima compagine del governo, lo ius soli, rilanciato proprio dal segretario del partito Enrico Letta a inizio mese. Così, dopo essersi augurato che al centro degli incontri vi siano stati i ristori «per aiutare le imprese a resistere», ha aggiunto: «Spero anche si sia concordata la strategia parlamentare per far approvare lo ius soli, o meglio lo ius culturae. Non abbiamo più bisogno di parole e di slogan, se è una priorità come enunciato dal segretario si deve essere conseguenti». Priorità, ma non per tutti.

Coronavirus, Roberto Speranza e le 600mila dosi di vaccino regalate all'Europa: perché? Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. L'Italia ha rinunciato a 574mila dosi di vaccino. Ci sarebbero spettate in base alla ripartizione decisa dall'Unione Europea per numero di abitanti e invece niente, le abbiamo lasciate ad altri. Nel documento che da qualche ora gira tra i diplomatici Ue si legge chiaramente che il governo, per il primo semestre, avrebbe potuto richiedere 34,5 milioni di fiale Pfizer ma s'è accontentato di 33 milioni 925mila 632. Abbiamo detto "no" a circa il 2% delle dosi, e il perché - chiaramente per inettitudine - dovrebbe spiegarcelo soprattutto il ministro della Salute Speranza, nefasto protagonista del governo Conte e incredibilmente riconfermato da Draghi. L'unica motivazione plausibile, per quanto folle, è che Roma l'abbia fatto per ragioni economiche preferendo puntare su Astrazeneca, peraltro boicottato per autolesionismo. Sta di fatto che Speranza, con la straordinaria collaborazione di Arcuri, ha confezionato l'ennesimo capolavoro. Con 574mila dosi, per intenderci, si potevano immunizzare con doppia somministrazione tutti gli abitanti del comune di Venezia, più di 4 volte quelli di Bergamo, idem per Salerno, Latina o Sassari.

DIETRO AL MAROCCO. Ma tant'è: nella vaccinazione siamo dietro al Marocco, alla Turchia, all'Ungheria, alla Serbia, ci ha raggiunti la Polonia, viaggiamo anni luce dietro al Cile eppure abbiamo preferito lasciare la nostra parte - così riporta il documento - a Malta che è già ampiamente in testa nella vaccinazione tra i Paesi Ue, alla Danimarca (la quale ha acquistato il 26,4% in più di quanto inizialmente pattuito), alla Germania (+11,2), alla Svezia (7,5), all'Olanda (4,1), alla Francia (2,7). Peggio di noi hanno fatto solo Lettonia, Croazia, Bulgaria, Estonia e Austria. Quest' ultima comunque ci ha superati nel numero di dosi somministrate per 100 abitanti. L'Ue ne ha inoculate circa 16, un terzo del Regno Unito e degli Usa. Va detto che il meccanismo che regola l'assegnazione delle dosi extra tra gli Stati Ue dovrebbe far sì che l'Italia riceva 10 milioni di fiale Pfizer supplementari nel secondo trimestre anziché nel terzo, e però finora le case farmaceutiche hanno disatteso in larga parte gli accordi, dunque non v' è la minima certezza di riuscire a recuperare i lotti regalati alle altre nazioni. Nel frattempo sentite Speranza, ieri, intervenuto all'incontro con Coldiretti e Filiera Italiana: «La pandemia non si è spenta, purtroppo lo dimostrano i numeri. Le prossime settimane ci mettono davanti a una doppia sfida: quella della vittoria contro l'epidemia (stando al suo libro non avremmo già dovuto vincerla da un pezzo?) e la programmazione del futuro del Paese».

AIUTI IMPROBABILI. Che sarà funereo, finché ci sarà Speranza. L'immunità di gregge è una chimera: altro che mezzo milione di iniezioni al giorno! L'Italia non è nemmeno capace di acquistare ciò che gli spetta di diritto. Bruxelles non fa di meglio ma non è una consolazione. L'agenzia di stampa Reuters ha diffuso la notizia secondo cui la Commissione Europea avrebbe chiesto a Nuova Delhi 10 milioni di dosi di vaccino Astrazeneca prodotte nel Serum Institute of India, il maggior produttore mondiale. Fonti del governo indiano hanno riferito che l'Ue starebbe insistendo da settimane per acquistarle. Incredibile: Bruxelles, fallita totalmente la campagna di approvvigionamento, vorrebbe a tutti i costi il siero di Oxford che ha osteggiato per settimane per ripicca nei confronti del Regno Unito. «Un ambasciatore Ue», hanno riferito le fonti del governo indiano, «ci ha scritto una lettera chiedendoci l'approvazione per l'esportazione». La mail sarebbe stata inviata 15 giorni fa. Bruxelles 13 mesi dopo l'inizio ufficiale della pandemia sta elemosinando 10 milioni di vaccini (quindi 5 milioni di immunizzazioni) a fronte di 450 milioni di abitanti. Solo Speranza poteva fare peggio.

Guido Bertolaso a Stasera Italia svela l'impensabile sul governo Conte e il Covid: "Lo dissi ad alcuni ministri". Libero Quotidiano il 26 marzo 2021. Guido Bertolaso aveva capito fin dall'inizio che l'Italia sarebbe stata travolta da una seconda ondata di coronavirus lo scorso ottobre. Ne ha parlato lui stesso a Stasera Italia, ospite di Barbara Palombelli su Rete 4. Alla domanda della conduttrice su un eventuale scambio di idee con il governo Conte sulle sue previsioni nere, l'ex capo della Protezione civile ha spiegato: "Io sono un semplice pensionato, un cittadino qualsiasi del nostro Paese, oltre a dirlo a lei e a pochi altri giornalisti che in quel periodo volevano cercare di capire meglio la situazione, non è che io avessi canali privilegiati. Lo dissi ad alcuni ministri di quel governo che conoscevo un po’ meglio e ai quali sollecitavo una serie di interventi che poi purtroppo non sono stati attuati". Bertolaso, insomma, provò a farsi sentire, ma rimase inascoltato. "A un certo punto, con grande amarezza, ho aspettato di vedere quello che poi è accaduto dallo scorso mese di ottobre", ha continuato, riferendosi al boom di morti e contagi da Covid degli ultimi mesi. Il consulente della Lombardia ha parlato anche delle sue due creature, l'ospedale di Civitanova e quello in Fiera a Milano, entrambi molto criticati in un primo momento perché considerati inutili. Il fatto che oggi le due strutture ospitino decine di pazienti, comunque, non rappresenta una rivincita per l'ex capo della protezione Civile. Anzi. "All’ospedale di Civitanova oggi ci sono 75 posti letto occupati su 84, per non parlare dell’ospedale in Fiera in Milano dove è stato registrato il paziente numero 404 da quando è stato aperto l’ospedale. Oggi ci sono 72 pazienti in rianimazione provenienti da tutta la Lombardia. Non sono  numeri che mi danno soddisfazione, mi addolora molto tutto questo", ha spiegato Bertolaso, dimostrando così superiorità rispetto a tutti coloro che lo avevano sbeffeggiato. "Forse se lo scorso novembre si fosse fatto un lockdown duro e rigido, come io e  pochi altri chiedevamo, probabilmente non ci saremmo trovati nella condizione di dover stare tutti chiusi in casa a Natale, di non poter godere delle nostre meravigliose montagne durante l’inverno e ancora adesso di essere in questa fase di incertezza", ha detto infine Bertolaso.

Luca Ricolfi per “il Messaggero” il 27 marzo 2021. Da qualche tempo si riparla di aprire le scuole, o perlomeno le scuole materne ed elementari. Il tema della riapertura delle attività culturali sta particolarmente caro alla sinistra, come quello della riapertura delle attività commerciali alla destra. È dunque probabile che, nelle prossime settimane, assisteremo a esperimenti di riapertura su entrambi i fronti. Ma che cosa ci dicono i dati dell'epidemia? I dati dell'epidemia parlano purtroppo piuttosto chiaro. Fra le società avanzate, l'Italia continua a primeggiare sia in termini di nuovi casi sia in termini di decessi. Quel che è più grave, però, è il trend: in Italia, come in molti altri Paesi avanzati, dopo un periodo di rallentamento dell'epidemia (gennaio-febbraio), è partita una nuova ondata: la terza, dopo quelle di marzo-aprile e ottobre-novembre dell'anno scorso. Perché, ancora una volta, siamo stati colti di sorpresa? Perché non riusciamo a contenere la circolazione del virus? Perché gli ospedali e le terapie intensive sono di nuovo al collasso? La spiegazione prevalente, su cui convergono mass media, autorità sanitarie e politici di ogni schieramento, punta il dito sui ritardi della campagna vaccinale. Questa spiegazione trova (apparente) sostegno nel fatto che nei tre Paesi che sono più avanti nella campagna vaccinale, e cioè Israele, Regno Unito e Stati Uniti, l'epidemia è in ritirata. Ma è una spiegazione fasulla, per almeno due motivi. Primo, perché la inversione delle loro curve epidemiche è avvenuta a gennaio, ben prima del decollo delle campagne vaccinali. Secondo, perché ci sono almeno quattro Stati importanti (Portogallo, Irlanda, Canada, Sud Africa) in cui la campagna vaccinale arranca almeno quanto in Italia ma l'epidemia è in ritirata spettacolare fin da gennaio. In tutti e sette i Paesi che abbiamo ricordato l'epidemia è stata riportata sotto controllo nel giro di poche settimane. C'è anche una spiegazione di riserva, però. Secondo molti la colpa delle difficoltà dell'Italia e di altri Paesi starebbe nella diffusione delle varianti, e in particolare di quella cosiddetta inglese. La loro crescente trasmissibilità e letalità sarebbe all'origine della terza ondata, e spiegherebbe l'aumento dei casi e dei morti che stiamo osservando in Italia. Ma, di nuovo, è una spiegazione incompatibile con i dati. La variante inglese si è diffusa innanzitutto nel Regno Unito e in Irlanda, e ciò nonostante entrambi sono riusciti a far retrocedere rapidamente l'epidemia. Quanto alla variante sudafricana, non ha impedito al Sud Africa di invertire la curva fin dal 12 gennaio, senza alcun aiuto da parte delle vaccinazioni, che sono tuttora abbondantemente sotto l'1% (noi siamo vicini al 15%). Del resto un'analisi statistica più generale, che correla diffusione delle varianti e andamento dell'epidemia, rivela che le differenze nella capacità dei vari Stati di contrastare l'epidemia non dipendono in modo apprezzabile né dalla diffusione delle varianti, né dallo stato di avanzamento della campagna vaccinale. Spiace doverlo ammettere, ma è inevitabile concludere che quel che ci differenza dai Paesi che stanno efficacemente contrastando l'epidemia non è né il ritardo della campagna vaccinale né la diffusione delle varianti, ma sono le nostre politiche e i nostri comportamenti. In che senso? In due sensi. Primo, non abbiamo fatto e continuiamo a non fare le molte cose che potrebbero servire a contrastare il virus senza lockdown, dalla messa in sicurezza di scuole e trasporti pubblici alle politiche di sorveglianza attiva. Secondo, il nostro lockdown reso inevitabile dall'inerzia del governo Conte non è un vero lockdown. Se, usando i dati di mobilità resi pubblici da Google, proviamo a misurare il grado di confinamento effettivamente messo in atto nei vari Paesi, scopriamo che nei mesi critici di gennaio e febbraio siamo rimasti a casa circa la metà del tempo dell'Irlanda. Non solo, ma se facciamo una graduatoria dei Paesi in base al grado di rispetto del lockdown troviamo ai primi posti precisamente coloro che più hanno avuto successo nel contrastare l'epidemia: Irlanda, Portogallo, Regno Unito, Sudafrica, Canada, Israele. In questa graduatoria l'Italia è solo 21ª (su 36 nazioni). Detto altrimenti, l'andamento dell'epidemia nelle società avanzate è strettamente connesso al rispetto delle misure di confinamento, specie nei mesi critici di dicembre-gennaio-febbraio. Né le cose vanno in modo sostanzialmente diverso se, anziché guardare ai comportamenti della popolazione, ci rivolgiamo ai provvedimenti adottati dalle autorità politico-sanitarie. Una comparazione sistematica fra Paesi mostra che la misura più efficace nel contenere l'epidemia è stata la chiusura più o meno totale delle scuole, seguita dalla limitazione degli spostamenti sui trasporti pubblici: la capacità di contenimento dell'epidemia migliora man mano che le chiusure delle scuole diventano più sistematiche e generalizzate. Questo, purtroppo, dicono i dati se li si analizza senza pregiudizi (cosa sempre più difficile, stante la spinta bipartisan alle riaperture). Dobbiamo concludere che il lockdown è l'unica strada? No, il lockdown non solo non è l'unica strada, ma è la strada sbagliata. Il lockdown è semplicemente l'arma dei governi inerti, che a un certo punto se lo ritrovano come unica arma disponibile perché - prima - non hanno fatto nulla o quasi nulla di quel che avrebbero dovuto fare. E' quel che è successo a noi in autunno (ai tempi della seconda ondata), ed è risuccesso quest' anno, quando non avendo di nuovo fatto nulla ci siamo esposti alla terza. E ora? Ora è tardi, perché nel governo la linea del lockdown breve ma durissimo, invano caldeggiata da Walter Ricciardi (consulente del ministro Speranza) fin da ottobre scorso, è stata definitivamente sconfitta, a favore di una linea del tipo «apriamo appena possibile», che tradotto in pratica significa: apriamo appena c'è abbastanza posto negli ospedali e nelle terapie intensive per accogliere i nuovi malati. È possibile che questa linea, che già ci è costata almeno 40 mila morti non necessari da dicembre a febbraio, ce ne costi ancora solo alcune migliaia in più nei prossimi mesi, perché un miracolo farà improvvisamente decollare la campagna vaccinale, abbassando drasticamente il numero di morti quotidiano, e perché nessuna nuova variante riuscirà ad eludere i vaccini. Ma è anche possibile che le cose non vadano così, e che una campagna vaccinale zoppicante combinata con un'altra estate incauta ci espongano, a settembre-ottobre, all'arrivo di una quarta ondata, ancora una volta amplificata dal ritorno a scuola. Possiamo, almeno questa volta, sperare che si faccia finalmente qualcosa, e che lo si faccia in tempo? Ad alcune misure si sta già per fortuna pensando, ad esempio a tamponi e test periodici a studenti e professori. Poco si sta facendo, invece, sulle due misure chiave: garantire il distanziamento sui mezzi pubblici e mettere in sicurezza le aule. Eppure, se si vuole davvero riaprire definitivamente le scuole, sarebbero due mosse cruciali. Perché le misure di sicurezza dentro le scuole non sono sufficienti se il contagio avviene fuori, nel tragitto casa-scuola e ritorno. E, quanto alle misure interne, quella cruciale è garantire la qualità dell'aria, o mediante filtri che la depurano, o mediante impianti di ricambio con l'esterno (il costo sarebbe inferiore a quello sostenuto per i banchi a rotelle). Speriamo tutti che, quest' autunno, l'epidemia sia sostanzialmente sotto controllo. Ma sarebbe imperdonabile che la prossima stagione fredda, per sua natura favorevole al virus, dovesse trovarci ancora una volta spiazzati, traditi dalla nostra attitudine ad auto-illuderci. fondazionehume.it

I cinque errori commessi durante la pandemia che non possiamo più ripetere. L'Inkiesta il 9/3/2021. Molti errori sono stati ormai commessi. E indietro non è possibile tornare. Quello che possiamo fare, però, è imparare dai nostri sbagli, in particolare sotto l’aspetto comunicativo. Parte da queste premesse l’analisi dell’Atlantic, dopo un anno di gestione in gran parte fallimentare: «Quando il vaccino antipolio è stato dichiarato sicuro ed efficace la notizia è stata accolta con felicità immensa. Le campane delle chiese suonarono in tutte le città degli Stati Uniti, in molti ballarono per le strade, altri piansero. I bambini furono mandati a casa da scuola per festeggiare. Lo stesso non si può dire dell’approvazione iniziale dei vaccini contro il coronavirus. Al contrario del vaccino antipolio, il ritmo costante delle buone notizie sui vaccini è stato accolto da un coro di implacabile pessimismo». Non c’è niente di sbagliato nel realismo e nella cautela, ma una comunicazione efficace richiede un senso delle proporzioni, distinguendo tra il dovuto allarme e l’allarmismo. E invece di un equilibrato ottimismo sin dal lancio dei vaccini al pubblico è stato offerto un ventaglio di preoccupazioni sulle nuove varianti di virus. La popolazione è stata impaurita con dibattiti fuorvianti sull’inferiorità di alcuni vaccini, e distratto dalle molteplici voci esperte che enucleavano le nuove emergenze. Questo pessimismo ha indebolito le persone, privandole della forza per superare il resto di questa pandemia. Galvanizzando invece i gruppi anti-vaccinazione e quelli che si oppongono alle attuali misure di salute pubblica, che hanno amplificato vigorosamente i loro messaggi – in particolare l’idea che farsi vaccinare non significa poter fare di più. «Stanno usando il momento e il messaggio per approfondire la sfiducia nei confronti delle autorità sanitarie, accusandole che i vaccini non siano così efficaci come affermato. Suggerendo invece che il vero obiettivo delle misure di sicurezza contro la pandemia è quello di controllare il pubblico, non il virus», spiega l’Atlantic. In particolare, cinque sono gli errori chiave che hanno influenzato la messaggistica, così come la copertura dei media, e hanno svolto un ruolo enorme nel far deragliare una risposta efficace alla pandemia.

Compensazione del rischio. Tra i problemi più importanti che hanno minato la risposta alla pandemia ci sono stati la sfiducia e il paternalismo che alcune istituzioni ed esperti di sanità pubblica hanno mostrato nei confronti della popolazione. Una ragione chiave di questa posizione sembra essere che alcuni esperti temevano che le persone avrebbero risposto a qualcosa che aumentava la loro sicurezza – come mascherine, test rapidi o vaccini – comportandosi in modo sconsiderato. Temevano che un maggiore senso di sicurezza avrebbe portato i cittadini a correre rischi che non solo avrebbero minato i benefici, ma li avrebbero invertiti. Ma, di volta in volta, i numeri hanno raccontato una storia diversa: anche se le richieste di sicurezza inducono alcune persone a comportarsi in modo sconsiderato, i benefici in questo caso hanno superato gli effetti negativi.

Regole al posto di meccanismi e intuizioni. Gran parte della messaggistica pubblica si è concentrata sull’offerta di una serie di regole chiare alla gente comune, invece di spiegare in dettaglio i meccanismi di trasmissione virale di questo patogeno. «Concentrarsi sulla spiegazione dei meccanismi di trasmissione e sull’aggiornamento della nostra comprensione nel tempo avrebbe aiutato le persone a fare calcoli sul rischio in contesti diversi», spiega l’articolo. Negli Stati Uniti, per esempio, ai cittadini è stato inizialmente detto che un contatto ravvicinato significava trovarsi a meno di sei piedi da un individuo infetto, per 15 minuti o più. Questo messaggio ha portato a situazioni paradossali in quanto «la falsa precisione non è più informativa, è fuorviante», spiega l’Atlantic. Tutto ciò è stato complicato dal fatto che le principali agenzie di sanità come il Cdc (Centers for Disease Control and Prevention) e l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) hanno tardato a riconoscere l’importanza di alcuni meccanismi di infezione chiave, come la trasmissione per via aerea. E anche quando lo hanno fatto, il cambiamento è avvenuto senza una modifica proporzionale delle linee guida e dello stile comunicativo.

Rimprovero e vergogna. Nel corso dell’ultimo anno anche i media tradizionali e i social media sono stati coinvolti in un ciclo di disinformazione. «Come ti permetti di andare in spiaggia?», ci hanno rimproverato i giornali per mesi, spiega l’articolo, nonostante la mancanza di prove che ciò costituisse una minaccia significativa per la salute pubblica. E così molte città hanno chiuso parchi e spazi ricreativi esterni, anche se hanno mantenuto aperti ristoranti e palestre al coperto. Sui social media, nel frattempo, le immagini di persone all’aperto senza mascherine attirano rimproveri e insulti, anche se stanno svolgendo attività considerate a basso rischio. Stefan Baral, professore associato di epidemiologia presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, afferma che è quasi come se, invece di fornire il supporto e le condizioni necessarie affinché più persone possibili si tengano al sicuro, avessimo «progettato una risposta per la salute pubblica più adatta per i gruppi a reddito più elevato» e la «generazione di Twitter», composta di persone che attendono la consegna a casa della spesa, mentre criticano comportamenti considerati sconsiderati. Dovremmo invece enfatizzare un comportamento più sicuro e sottolineare quante persone stanno facendo la loro parte, incoraggiando gli altri a fare lo stesso.

Riduzione del danno. In mezzo a tutta la sfiducia e il rimprovero, un concetto cruciale di salute pubblica è caduto nel dimenticatoio. La riduzione del danno è il «riconoscimento che se c’è un bisogno umano insoddisfatto eppure cruciale, dobbiamo consigliare le persone su come fare in modo più sicuro ciò che cercano di fare», spiega l’articolo. Julia Marcus, epidemiologa e professoressa associata presso la Harvard Medical School, dice all’Atlantic che «quando i funzionari presumono che i rischi possano essere facilmente eliminati, potrebbero trascurare le altre cose che contano per le persone, come nutrirsi e alloggiare, essere vicini ai propri cari, o semplicemente godersi la vita. La salute pubblica funziona meglio quando aiuta le persone a trovare modi più sicuri per ottenere ciò di cui hanno bisogno e che vogliono». Un altro problema è l’effetto “violazione dell’astinenza”. Quando impostiamo la perfezione come unica opzione, possiamo indurre le persone che non raggiungono quello standard a decidere che hanno già fallito. La maggior parte delle persone che hanno tentato una dieta o un nuovo regime di esercizio hanno familiarità con questo stato psicologico. L’approccio migliore è incoraggiare la riduzione del rischio e la mitigazione a più livelli, sottolineando che ogni piccolo aspetto aiuta, pur riconoscendo che una vita priva di rischi non è né possibile né desiderabile.

L’equilibrio tra conoscenze e azione. Ultimo punto, ma non meno importante: la risposta alla pandemia è stata distorta da uno scarso equilibrio tra conoscenza, rischio, certezza e azione. A volte le autorità sanitarie hanno insistito sul fatto che non sapevamo abbastanza per agire, quando la preponderanza di prove giustificava già un’azione precauzionale. Indossare mascherine, ad esempio, poneva pochi svantaggi e offriva la prospettiva di mitigare la minaccia esponenziale che dovevamo affrontare. L’attesa per la certezza ha ostacolato la nostra risposta alla trasmissione per via aerea. Abbiamo sottolineato il rischio di trasmissione sulle superfici mentre ci rifiutavamo di affrontare adeguatamente il rischio di trasmissione aerea, nonostante le prove crescenti. In più, molto spesso il modo in cui gli accademici comunicano si è scontrato con il modo in cui il pubblico costruisce la conoscenza. Nel mondo accademico, la pubblicazione è la moneta del regno, e spesso viene eseguita rifiutando l’ipotesi nulla, il che significa che molti articoli non cercano di dimostrare qualcosa in modo conclusivo. «Nei momenti cruciali durante la pandemia, tuttavia, ciò ha provocato traduzioni errate e incomprensioni che sono state ulteriormente confuse da posizioni diverse nei confronti della conoscenza e della teoria scientifiche precedenti», spiega l’articolo. «Sì, abbiamo affrontato un nuovo virus, ma avremmo dovuto iniziare facendo alcune proiezioni ragionevoli dalla conoscenza precedente, cercando tutto ciò che poteva rivelarsi diverso. L’esperienza precedente avrebbe dovuto renderci consapevoli della stagionalità, del ruolo chiave della sovradispersione e della trasmissione via aerea». Allo stesso modo, da quando sono stati annunciati i vaccini, troppe dichiarazioni hanno sottolineato che non sappiamo ancora se i vaccini impediscono la trasmissione. Le autorità invece avrebbero dovuto dire che abbiamo molte ragioni per aspettarci che i vaccini attenueranno l’infettività, ma che stiamo aspettando ulteriori dati per essere più precisi al riguardo. È stato un peccato, perché mentre molte, molte cose sono andate storte durante questa pandemia, i vaccini sono una cosa che è andata molto, molto bene, continua l’articolo. Eppure, a due mesi dall’accelerazione della campagna di vaccinazione negli Stati Uniti, le persone non sono state correttamente informate dello stato attuale del piano. Sì, ci sono nuove varianti del virus, che alla fine potrebbero richiedere nuovi vaccini, ma, almeno finora, i farmaci esistenti stanno resistendo bene. I produttori stanno già lavorando a nuovi vaccini o versioni di richiamo incentrate sulle varianti, nel caso in cui si rivelassero necessarie, e le agenzie di autorizzazione sono pronte per una rapida inversione di tendenza se e quando saranno necessari aggiornamenti. I rapporti provenienti da luoghi che hanno vaccinato un gran numero di individui, e persino i dati proventi dai luoghi in cui le varianti sono diffuse, sono estremamente incoraggianti, con drastiche riduzioni dei casi e, soprattutto, meno ricoveri e decessi tra i vaccinati. La speranza ci nutre nei momenti peggiori, ma è anche pericolosa, conclude l’articolo. Sconvolge il delicato equilibrio della sopravvivenza e ci apre a una schiacciante delusione se le cose non vanno bene. Dopo un anno terribile, molte cose ci stanno comprensibilmente rendendo più difficile osare sperare. Ma, soprattutto negli Stati Uniti, tutto sembra migliore di giorno in giorno. Tragicamente è stato confermato che almeno 28 milioni di americani sono stati infettati, ma il numero reale è sicuramente molto più alto. Secondo una stima, ben 80 milioni sono già stati infettate da Covid-19 e molte di queste persone hanno ora un certo livello di immunità. Altri 46 milioni di persone hanno già ricevuto almeno una dose di un vaccino e se ne stanno vaccinando altri milioni ogni giorno man mano che i vincoli di fornitura si allentano. I vaccini sono pronti a ridurre o quasi eliminare le cose di cui ci preoccupiamo di più: malattie gravi, ospedalizzazione e morte.

Non tutti i nostri problemi, però, sono risolti. Dobbiamo superare i prossimi mesi, mentre ci impegniamo per vaccinare contro varianti più trasmissibili. Dobbiamo assicurarci che i vaccini non rimangano inaccessibili ai Paesi più poveri, puntualizza l’articolo. È tempo di immaginare un futuro migliore, non solo perché si sta avvicinando, ma perché è così che superiamo ciò che rimane e teniamo alta la guardia se necessario.

Tutti gli errori dell’Italia contro la pandemia. Parla il generale Lunelli. Maria Scopece su startmag.it. Che cosa hanno sbagliato le istituzioni nel contrastare la pandemia secondo Pier Paolo Lunelli, un generale dell’esercito in pensione che nella sua carriera è stato autore di protocolli per piani pandemici in diversi Stati europei. “Tra il 2007 e il 2012 dovevamo sviluppare le capacità necessarie per gestire una pandemia. Ci sono molti indizi che ci dicono che questo aspetto è stato sottovalutato”. Queste sono le parole di Pier Paolo Lunelli, un generale dell’esercito in pensione che nella sua carriera è stato autore di protocolli per piani pandemici in diversi Stati europei, responsabile della Scuola interforze per la difesa Nbc, la struttura che forma il personale militare e quello ministeriale al contrasto delle minacce di tipo biologico, radiologico e chimico ed ha lavorato anche per la Nato. Il generale da mesi analizza gli errori dell’Italia nella risposta al coronavirus ed ha prodotto un rapporto di 131 pagine che entrerà tra gli atti della causa civile dei familiari delle vittime contro il Governo e la Regione e nell’indagine della Procura di Bergamo, che indaga per il reato di epidemia colposa. 

Le inadempienze dell’Italia secondo Lunelli. Una ricerca accurata che accusa l’Italia di non aver preparato per tempo un piano pandemico che la mettesse a riparo dall’eventualità di pandemia come quella da Covid-19 che, fino a oggi, ha infettato 2,4 milioni di persone e ha mietuto più di 84mila vittime. “Un piano deve indicare chi fa cosa e deve anche assegnare le risorse per poterlo eseguire – ha detto Lunelli a La7 –  se queste risorse non sono state sviluppate nel periodo dei 5 anni intercorsi tra il 2007 e il 2012 è chiaro che non ci siamo fatti trovare pronti”. Secondo il rapporto di Lunelli nella finestra 2012-14 l’Italia avrebbe dovuto procedere non solo “all’elaborazione ex novo del piano pandemico nazionale, come chiedevano le linee guida dell’Oms nel 2013, il Parlamento europeo e la Commissione europea ma anche il completamento delle otto capacità previste dal RSI senza le quali i piani sono soltanto libri dei sogni”, si legge nel piano. Oltre a queste sarebbe stato necessario “sviluppare scenari e condurre la valutazione del rischio, come richiesto dall’Oms. Il primo documento ufficiale che delinea scenari e rischi è stato pubblicato solo nell’autunno del 2020”.

L’Italia avrebbe risparmiato 10mila vittime secondo Lunelli. Se il nostro Paese avesse aggiornato il proprio piano pandemico seguendo le linee guida indicate negli anni scorsi dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) avrebbe potuto risparmiare almeno diecimila morti.

Le core capacity: l’assenza di investimenti secondo Lunelli. Nel suo duro atto di accusa l’ex generale Lunelli imputa all’Italia di aver trascurato di sviluppare le “8 capacità fondamentali per fronteggiare una pandemia” come sarebbe stata obbligata a fare dal Regolamento sanitario internazionale (RSI) dell’Oms. Il dossier del generale afferma che il primo documento italiano sulle “core capacity” sarebbe stato pubblicato “nell’autunno 2020 dal Ministero della Sanità e dall’Istituto Superiore della Sanità, il primo corso di contact tracing è partito a ottobre 2020 e i relativi protocolli erano stati diramati soltanto qualche mese prima”. Oltre a questo, continua Lunelli facendo riferimento a quanto prescritto dal Regolamento, si sarebbe dovuto “investire sull’efficienza della sanità, sul suo dispositivo di sorveglianza e individuazione precoce delle malattie infettive, sulle strutture ospedaliere per gestire le epidemie (posti letto, terapie intensive) e sul personale necessario per la gestione di emergenze, compresa la sua formazione”. Tutte attività che, come abbiamo imparato a nostre spese,  sono state disattese.

L’assenza di coordinamento tra Regioni e Ministeri. Altre capacità che non sono state sviluppate riguardano il “coordinamento interministeriale sia nelle attività di preparazione, sia in quelle di emergenza”. In Italia, soprattutto nelle prime fasi dell’emergenza, le comunicazioni delle regioni sono state difformi l’una dall’altra, “e molti degli attori in gioco si muovevano per conto proprio senza condividere in maniera integrata le risorse per la crisi”. Tali strategie comunicative si pongono in netto contrasto con la richiesta di dare luogo a un “National Focal Point (NFP) di coordinamento”, capacità disattesa sino al 2020. Nelle linee guida del 2015 dell’Oms, infatti, si chiedeva di dar vita a “un centro di comando e controllo per le emergenze sanitarie” ma “il Ministero della Salute non lo aveva realizzato e il ‘cerino’ e’ passato alla protezione civile che tuttavia possiede competenze in questo ambito”. 

L’Italia non era pronta secondo Lunelli. Il report del generale Lunelli evidenza che per 5 anni su 10, nel 2012, 2013, 2014, 2015 e nel 2017, l’Italia non risulta avere risposto “al dettagliato questionario di autovalutazione proposto dall’Oms” sulle proprie capacità in chiave di gestione di una possibile pandemia. In definitiva, per Lunelli “l’Italia non era pronta”. Alla stessa conclusione era arrivato il Rapporto del 13 maggio 2020 dell’OMS, pubblicato e poi sparito. A dimostrazione dell’approccio dilettantistico dell’Italia c’è il tasso di mortalità. “Siamo i primi al mondo tra i Paesi più grandi – scrive Lunelli – con un tasso di mortalità pari a 120 decessi ogni 100mila abitanti, mentre tra quelli piccoli ci supera solo il Belgio. Non e’ un caso che Belgio, Spagna ed Italia avevano piani pandemici aggiornati al 2006″.

Saranno Italia e Grecia a salvare l’Ue dal flop sui vaccini. Andrea Massardo su Inside Over l'8 marzo 2021. Con la gestione dell’approvvigionamento dei vaccini e nella fase delle trattative con le grandi casa farmaceutiche l’Europa ha dimostrato quanto purtroppo il Vecchio continente abbia perso l’importanza che ha lungamente detenuto nel corso della storia. A causa di un enorme numero di errori che spaziano dal non aver sottoscritto delle clausole vessatorie all’essersi disinteressati completamente alla supervisione della condotta dei Big Pharma, l’Unione europea si è trovata in difficoltà nella gestione stessa della campagna vaccinale. Fiale arrivate in ritardo, con la promessa di consegne straordinarie che ancora non sono arrivate e criticità nel trasporto delle soluzioni non sono che la punta dell’iceberg di un fallimento marchiato (quasi) esclusivamente Bruxelles. Ma non una Bruxelles qualsiasi, bensì quella che ha tra i suoi principali esponenti i cosiddetti Paesi frugali del Benelux e dell’asse franco-tedesco. Un’alleanza di intenti che da sempre ha contraddistinto gli obiettivi comunitari che però, adesso, potrebbe segnare anche la più grande disfatta nella storia comunitaria.  Forse un punto di non ritorno che potrebbe segnare un’importante percorso di svolta in grado di dare nuovi equilibri (e nuovi obiettivi) a tutta l’Unione europea.

Macron e Merkel sono paralizzati, mentre Draghi e Mitsotakis agiscono. La linea tenuta dal presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nei confronti delle casa farmaceutiche è stata un disastro, così come il sostegno ottenuto da Francia e Germania una grave macchia nel curriculum politico di Emmanuel Macron e di Angela Merkel. E proprio a causa di questa disfatta il presidente francese e la cancelliera tedesca si sono nelle ultime settimane completamente eclissati sotto al piano internazionale. Quasi paralizzati da un errore drammatico che potrebbe condannare non solo l’Europa ma anche i loro stessi cittadini. In questo scenario ecco però che le redini della situazione vengono prese da due Paesi che, sino ad un paio di anni fa, sono sempre stati additati come causa principale dei problemi debitori dell’Unione: l’Italia di Mario Draghi e la Grecia di Kiriakos Mitsotakis. Forse perché a differenza degli altri la pandemia è stata patita maggiormente, dal lato sanitario per Roma e dal lato economico per Atene, forse perché la Storia antica insegna quanto i due popoli siano combattivi, i due Paesi sembrano davvero destinati a segnare la svolta per l’Europa. Dopo la dichiarazione di Mario Draghi di voler vietare l’esportazione dei vaccini al di fuori d’Europa, anche il premier greco Mitsotakis ha sposato tutta la linea dell’ex presidente della Bce, che benché un tempo fosse visto come nemico di Atene adesso pare essere l’unico ad essersi mosso nella direzione corretta. Segno, forse, di come la sua figura sia forse la carta migliore in questo momento che si può giocare non soltanto l’Italia ma l’Europa tutta.

L’Europa ha bisogno di una figura forte che tenga testa al resto del mondo. Mentre le conseguenze sanitarie ed economiche della pandemia si fanno ancora sentire in tutta l’Unione, la battaglia dei vaccini è appena agli inizi. Chi possiede il siero (e, anzi, è in grado di produrlo) detiene la più potente arma dei giorni nostri, in grado di cambiare lo scenario di una comunità o del Paese con il quale sta trattando le forniture. E questo si avvicina maggiormente alla definizione di conflitto. Durante un periodo segnato dai grandi scontri internazionali (siano essi di natura militare, economica o sanitaria) è molto importante dunque il modo stesso in cui la propria immagine viene venduta ai nemici. E se in questo momento Macron, Merkel e i rappresentanti dei Paesi frugali sono l’immagine di una leadership ferita e sconfitta, Draghi e Mitsotakis incarnano la reale combattività di un’Europa che crede ancora di poter tornare ad occupare i posti che contano nello scacchiere internazionale. All’elenco manca forse la Spagna, tradita da un momento politico di instabilità che l’ha atterrata in modo ancora maggiore rispetto alle attese. Ma se questa volta l’Europa si salverà, dunque, il merito potrebbe essere proprio di quei Paesi che più duramente negli scorsi anni sono stati indicati come vero problema dell’Europa e che più duramente hanno patito la pandemia. I quali però, al tempo stesso, hanno sempre avuto le energie per rialzarsi e a differenza del passato hanno però deciso di ergersi a difesa degli interessi non soltanto nazionali ma anche comunitari. In un certo senso vendicandosi – con la comprensione – di tutta l’incomprensione che hanno subito negli scorsi due decenni, nella speranza di prendersi finalmente quei posti che contano all’interno dell’Unione dai quali sono stati tenuti distante.

Vaccino Covid, tutti gli errori dell’Italia e dell’Europa: contratti, poteri e il piano operativo che non c’è. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'8 marzo 2021. Stati Uniti e Gran Bretagna stanno viaggiando veloci, sono rispettivamente al 27% e al 35% della popolazione vaccinata contro il 9% del’Europa. Nella nostra lentezza c’è più di un motivo, sempre taciuto nelle dichiarazioni ufficiali, e che origina ben prima dell’arrivo delle fiale.

I poteri delle Agenzie del farmaco: perché Ema arriva 20 giorni dopo. La campagna di vaccinazione europea, ormai l’abbiamo capito, è iniziata in ritardo rispetto agli Usa e al Regno Unito perché l’autorizzazione delle agenzie regolatorie, ossia il via libera all’uso dei vaccini, è arrivata venti giorni dopo. Pfizer/BioNTech ottiene l’autorizzazione il 2 dicembre dall’Mhra inglese, l’11 dicembre dall’Fda americana, mentre solo il 21 dicembre dall’Ema europea. Lo stesso per Moderna: Fda 18 dicembre, Ema 6 gennaio, Mhra 8 gennaio. AstraZeneca: Mhra 30 dicembre, Ema 29 gennaio, Fda non ha ancora sciolto le riserve. Ma cosa sta davvero dietro a quello che viene liquidato come un semplice ritardo di Ema? La mancanza di uno strumento che consente, in contesti di emergenza, e mancanza di alternative, di approvare con una procedura più veloce l’uso di medicinali. L’Fda invece questo potere lo possiede e lo ha esercitato, come pure la Gran Bretagna. In Europa l’emergency use authorisation è delle agenzie del farmaco dei singoli Stati, ma non è mai stata contemplata nella legislazione europea per volontà dei Paesi membri di limitare il ruolo di Ema, che ha così dovuto seguire un iter più lungo. Dopo l’epidemia di Ebola 2014-2016, si è discusso della necessità del valore di tale strumento a livello europeo, ma senza successo. Ora che abbiamo toccato con mano, la questione è tornata sul tavolo.

I retroscena delle trattative: chi c’era al tavolo a negoziare. La mancanza di un mandato forte la scontiamo anche nelle trattative con le case farmaceutiche. Stati Uniti e Gran Bretagna siglano gli accordi per l’acquisto delle dosi con Pfizer e AstraZeneca fra maggio e luglio, l’Europa arriva dai tre ai quattro mesi dopo. Con Moderna gli Usa chiudono l’11 agosto, la Ue il 25 novembre.

La differenza è che loro si presentano alle trattative con le industrie da partner, noi europei da clienti. Gli americani, dopo l’epidemia suina H1N1 hanno cominciato a investire nella ricerca sui vaccini e creato una apposita autorità, il Barda. A finanziare e coordinare le ricerche l’Istituto Nazionale di Sanità (Nih); mentre ad accompagnare lo sviluppo degli studi clinici, imponendo anche i protocolli da seguire, c’è l’Fda. Queste agenzie pubbliche creano, il 17 aprile 2020, il consorzio Activ, una partnership pubblico-privato dove siedono le principali industrie farmaceutiche, finanziate inizialmente con 10 miliardi di dollari, con lo scopo di coordinare le ricerche e sviluppare velocemente un vaccino. La Gran Bretagna, in uscita dalla Ue, e con un produttore in casa (AstraZeneca) di fatto tratta per sé stessa. In Europa invece non solo sono stati fatti pochi investimenti mirati nella ricerca sullo sviluppo di vaccini, ma su pressione di una parte dell’opinione pubblica diffidente, è stato smantellato quel che già c’era. Pertanto la capacità produttiva, oggi tanto invocata in nome dell’autonomia dagli altri Paesi, si è ridotta: Baxter e Novartis hanno chiuso con i vaccini, GSK ha trovato più conveniente espandersi in America. Realtà importanti, ma piccole, come BioNTech, Oxford e CureVac non bastano all’Europa per affrontare l’immensa sfida. Così dopo aver capito che pochi Paesi hanno la forza di trattare da soli, si delega la Commissione europea a negoziare per tutti. Ma non ha un apparato esperto e nemmeno un’autorità specifica: un potere che gli Stati membri non hanno mai voluto concedere.L’unico strumento che possiede dal 2014 è la base legale per l’acquisto congiunto di vaccini pandemici costruita dall’allora direttore generale Salute, Paola Testori Coggi, dopo la febbre suina del 2009, quando ogni Paese, andando per conto proprio, aveva speso miliardi.

Le condizioni a cui acquista l’Europa: le clausole secretate dei contratti. Negoziare un prodotto farmaceutico è un’attività molto complessa e richiede competenze specifiche, ma all’interno della Commissione non ci sono. Ursula von der Leyen opera la migliore delle scelte possibili: sposta in corsa da Dg Commercio a Dg Salute Sandra Gallina, abile nel suo settore, ma senza l’esperienza che serve in questo caso. La direttrice generale avvia i lavori con un gruppo negoziale di sette Stati membri, selezionato dal comitato direttivo in cui sono rappresentati tutti i Paesi. Per l’Italia la scelta migliore sarebbe stata quella di delegare il direttore dell’ufficio che prepara i dossier negoziali dell’Agenzia Italiana del Farmaco, che conosce tutti i trucchi del mestiere, ma si è preferito mandare Giuseppe Ruocco, segretario generale del Ministero della Salute. In queste condizioni la Ue siede al tavolo delle trattative, mentre dall’altra parte ci sono schiere di avvocati e case farmaceutiche che non hanno fatto altro nella vita. Alla fine dettano le condizioni: la Ue partecipa al rischio d’impresa nell’ampliamento della catena di produzione con un contributo di 2,8 miliardi di euro, da scalare dal prezzo di ogni fiala sulla prima fornitura. Fortunatamente il vaccino si trova e funziona. L’accordo prevede che gli eventuali effetti collaterali siano totalmente a carico dei singoli Stati (qui il documento). Non è mai successo prima, ma è ragionevole, visti i tempi stretti con cui viene richiesta la commercializzazione; altrettanto ragionevole sarebbe stato pretendere di fare metà e metà. I vincoli di consegna: la dicitura utilizzata è che la casa farmaceutica «farà tutto il possibile», ma non viene stabilita nessuna penale in caso contrario (qui il documento). C’è l’ok di tutti i Paesi membri. Concordato il prezzo, vengono opzionate 2,6 miliardi di dosi, da distribuire ad ogni Paese in proporzione alla popolazione. A dicembre parte la campagna vaccinale e il risultato è questo: la Ue parte con 48 mila dosi, la Gran Bretagna con 86 mila, gli Usa con 556 mila. Nonostante il corposo contributo, siamo gli ultimi della fila. Solo il 29 gennaio la Commissione blinda le dosi prodotte in Europa, vincolandone l’esportazione ad una preventiva autorizzazione. È il provvedimento che consente all’Italia di bloccare a fine febbraio l’invio di 240 mila fiale AstraZeneca all’Australia.

La situazione italiana: i vaccini consegnati e quelli in arrivo. Il nostro piano vaccinale del 12 dicembre prevedeva la consegna, fra gennaio e marzo e da più fornitori, 28,2 milioni di dosi (qui il documento). Non sarebbero mai potute arrivare, perché in quella data AstraZeneca e Moderna non erano ancora state autorizzate nemmeno da Stati Uniti e Gran Bretagna. L’unica pronta a consegnare era Pfizer-BioNTech, e tutti hanno chiesto a Pfizer, che ha dovuto spartire le dosi, con un occhio di riguardo alla Germania, che aveva finanziato con la loro ricerca con 325 milioni. Sta di fatto che nei documenti del 12 febbraio le forniture vengono ridotte a 15,7 milioni (qui il documento). I tagli più pesanti sono operati da AstraZeneca. Le ragioni «sospette» è che in parte abbiano preso altre destinazioni, ma ci sono anche quelle tecniche (non ci sono scorte, e basta un malfunzionamento per ritardare la produzione). Pertanto le consegne, per settimane avvengono a singhiozzo. A ieri Pfizer/BioNTech ha consegnato 4,5 milioni di dosi su 9 (50%), Moderna 493 mila su 1,3 milioni (38%) e AstraZeneca 1,5 milioni su 5,4 (28%). Tra gennaio e febbraio complessivamente abbiamo ricevuto 6,3 milioni di vaccini, ciò vuol dire che nel mese di marzo complessivamente ne avremo 9,4 milioni (9,1 milioni ancora da consegnare). E da aprile sono in programma consegne per altri 24 milioni da Pfizer/BioNTech, 4,6 da Moderna, 10 da AstraZeneca e 7,3 del nuovo vaccino monodose Johnson & Johnson (qui il documento). Significa che occorre essere pronti con la macchina organizzativa, e che tagli e ritardi non potranno più essere un alibi per giustificare le inefficienze del sistema che ci sono state finora. Vediamo quali.

Cosa funziona e cosa no: più dosi che capacità di farle. Per velocizzare le somministrazioni serve personale: in Finanziaria vengono stanziati 508 milioni di euro, messi nelle mani del commissario all’emergenza (fino alla scorsa settimana Domenico Arcuri) per assumere 3 mila medici e 12 mila infermieri. Il compito di trovarli è affidato alle agenzie interinali. Finora non è arrivata neppure la metà del personale previsto. Nel piano vaccinale del 2 gennaio, che per decreto deve essere attuato dal commissario, ci sono indicazioni generiche sulle categorie che hanno la priorità (personale sociosanitario, ospiti delle case di riposo, over 80, malati cronici, poi per età). I vaccini sono distribuiti dal Commissario con un doppio binario: per Pfizer e Moderna su numeri indicati dalle Regioni (che hanno calcolato ognuna con criteri diversi), mentre per AstraZeneca si va in percentuale rispetto alla popolazione Istat. Da lì in avanti la responsabilità e le scelte sono delle Regioni. In base alla circolare del commissario Arcuri del 12 gennaio su 100 vaccini che arrivano, 30 vanno messi da parte come scorta per il richiamo (qui il documento). Se guardiamo i dati generali, la differenza tra vaccini consegnati e somministrati, pur con variazioni regionali, è in linea con le scorte da tenere (dal 3 marzo il Ministero formalizza che per AstraZeneca basta un’unica dose per chi ha già avuto il Covid). Ma è sufficiente scomporre i dati per capire che le cose non vanno così bene. Finché gli ospedali devono vaccinare medici, personale sociosanitario e gli ospiti delle case di riposo, l’organizzazione funziona: da fine dicembre al 7 febbraio, su dieci dosi arrivate ne vengono somministrate circa nove.

I problemi iniziano quando dagli ospedali si passa agli over 80. La velocità della campagna di vaccinazione comincia a rallentare proprio nella settimana 8-14 febbraio: su 100 dosi consegnate ne sono state somministrate solo 36, quella dopo 46, la successiva 67. A ieri il Lazio ha vaccinato 146.861 (37%) over 80, l’Emilia-Romagna 110.682 (30%), la Lombardia il 115.480 (16%), la Sicilia 57.983 (18%). Con AstraZeneca (richiamo dopo 12 settimane) si parte da insegnanti e forze dell’ordine. Docenti e personale scolastico in genere vaccinati in Toscana intorno ai 43 mila, in Campania 64 mila, in Lombardia 2.651. Al 5 marzo (rilevazione Gimbe per Dataroom) su 1,5 milioni di dosi AstraZeneca consegnate ne sono state utilizzate solo 516.489. Le altre sono tutte nei frigoriferi.

La campagna di massa: basta con le Regioni in ordine sparso. Da aprile inizierà la campagna di massa, che vuol dire almeno 500 mila persone al giorno. Sarà possibile? Forse si, ma deve essere velocemente attuato un piano operativo strategico nazionale che finora non è mai stato fatto. Al momento è completamente assente il coordinamento delle diverse attuazioni regionali della campagna vaccinale, producendo così i disallineamenti che sono sotto gli occhi di tutti. In sintesi: nessuno ha ancora detto «tu Regione devi rispettare questo obiettivo, dimmi che personale utilizzi, qual è il tuo modello organizzativo, e io commissario ti monitoro». Oltre a indicare il sistema di appuntamenti. Il modello della Gran Bretagna porta a considerare migliore la modalità a chiamata piuttosto che su prenotazione. Da una settimana abbiamo un nuovo commissario, Francesco Paolo Figliuolo, esperto in logistica. È stato anche potenziato il ruolo della Protezione Civile. Speriamo bene.

Draghi finalmente parla e asfalta Conte: «A un anno dal Covid siamo al punto di partenza». Antonio Marras lunedì 8 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Un anno dopo, non c’è più Conte ma Draghi. E poco è cambiato, per ammissione dello stesso premier. “Il 10 marzo di un anno fa l’Italia si chiudeva diventando, per la prima volta, una grande zona rossa. Un nostro concittadino su venti è stato contagiato, secondo i dati ufficiali che, come è noto, sottostimano la diffusione del virus. Mai avremmo pensato che un anno dopo ci saremmo trovati a fronteggiare un’emergenza analoga e che il conto ufficiale delle vittime si sarebbe avvicinato alla terribile soglia dei centomila morti. Dobbiamo al rispetto della memoria dei tanti cittadini che hanno perso la vita il dovere del nostro impegno”. Il premier Mario Draghi torna a parlare, dopo i discorsi di insediamento del governo al Parlamento e l’ottenimento del voto di fiducia. Nel giorno della Festa della donna, Draghi interviene con un videomessaggio alla Conferenza ‘Verso una Strategia Nazionale sulla parità di genere’, organizzata dal ministro per le Pari Opportunità Elena Bonetti e lo fa con toni allarmanti, cercando al contempo di essere rassicurante, sia sul fronte dei vaccini anti Covid che del piano di sostegno economico, che del Recovery Fund. Il premier del governo tecnico-politico non cita mai il suo predecessore e non entra nel merito di tutti gli errori commessi dal precedente governo, ma sullo sfondo se ne coglie lo spirito critico, soprattutto sul fronte della gestione delle vaccinazioni e dei ricoveri. Un anno è passato invano, a quanto pare, e il triste record dei morti italiani, giunti quasi a centomila, suona come una pesante eredità del passato prossimo. “Ci troviamo tutti di fronte, in questi giorni, a un nuovo peggioramento dell’emergenza sanitaria. Ognuno deve fare la propria parte nel contenere la diffusione del virus. Ma soprattutto il governo deve fare la sua. Anzi deve cercare ogni giorno di fare di più. La pandemia non è ancora sconfitta ma si intravede, con l’accelerazione del piano dei vaccini, una via d’uscita non lontana”. “Nel piano di vaccinazioni, che nei prossimi giorni sarà decisamente potenziato, si privilegeranno le persone più fragili e le categorie a rischio. Aspettare il proprio turno è un modo anche per tutelare la salute dei nostri concittadini più deboli”. Lo afferma il premier Mario Draghi, intervenendo alla Conferenza "Verso una Strategia Nazionale sulla parità di genere". Questo non è il momento di dividerci o di riaffermare le nostre identità. Ma è il momento di dare una risposta alle tante persone che soffrono per la crisi economica, che rischiano di perdere il posto di lavoro, di combattere le disuguaglianze. In un solo anno il numero di italiani che vivono in una situazione di povertà assoluta è aumentato di oltre un milione, mentre si sono acuite altre disparità, prima fra tutte quella tra donne e uomini”. “Non voglio qui ripetere le bellissime parole di oggi del Presidente della Repubblica sulla condizione femminile. Voi sapete bene quanto sia dolorosa”, aggiunge Draghi. “Sul femminicidio e su ogni forma di violenza di genere, sono da condividere le proposte della Commissione parlamentare d’inchiesta. Oggi, per le vittime dei troppi femminicidi e anche come reazione prodotta dalla pandemia, sembra formarsi una nuova consapevolezza che trova un’opportunità straordinaria nel programma NextGeneration EU per diventare realtà nell’azione di governo, del mio governo. Tra i vari criteri che verranno usati per valutare i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ci sarà anche il loro contributo alla parità di genere. È con questo spirito di fiducia nel nostro, nel vostro, futuro e con l’impegno di questo governo a conquistarsela, che vi auguro buon 8 marzo”, conclude il presidente del Consiglio.

C’è la terza ondata del Covid-19 ma non abbiamo ancora imparato nulla. Il virus continua a mutare. Zone rosse ovunque. Scuole di nuovo chiuse. Crisanti porta la Sardegna in zona bianca, ma il Comitato tecnico scientifico continua a ignorare la sua strategia. Fabrizio Gatti su L'Espresso il 5 marzo 2021. Pazienti ricoverati nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Sant'Agostino di Modena. Anche con un nuovo governo, la strategia all’italiana ha fatto sbocciare zone rosse lungo tutta la penisola. Esattamente come è accaduto un anno fa al Nord, all’inizio della prima ondata. E poi ancora in autunno, con il bis della seconda. Così come sta avvenendo ora, che sentiamo montare sotto di noi il frangente del terzo atto della pandemia. Avere un affollato comitato tecnico-scientifico nazionale e infilare per tre volte la stessa strada meriterebbe un Lebon, cioè il premio Nobel al contrario. Solo la Sardegna ha puntato nella direzione opposta. Certo, è favorita dall’isolamento, dalla scarsa densità della popolazione, dal clima ventoso. Eppure prima che arrivasse il professor Andrea Crisanti, se la passavano male pure lì. Poi è partita la campagna “Sardi e sicuri”. Come in Veneto un anno fa: tamponi a tappeto tra la popolazione, per «arrivare con fasi sequenziali», spiegava l’azienda sanitaria regionale qualche giorno fa, «a un azzeramento della circolazione virale in un tempo ragionevolmente breve». Lo status di zona bianca, a inizio settimana, è stato raggiunto grazie a questa unica, semplice strategia. La stessa che gli allevatori di tutta Italia mettono in pratica ogni qual volta si infetti un loro prezioso animale: si testa, si traccia, si isola. Davanti al coronavirus Sars-CoV-2 e alle sue varianti, anche noi che camminiamo su due gambe siamo soltanto mammiferi da colonizzare. Gli agenti patogeni non si interessano di governi, ideologie, religioni. La Sardegna ha un presidente leghista, Christian Solinas. Così come il Veneto di Luca Zaia, che si è prima servito del professore dell’Imperial College di Londra e poi l’ha licenziato. Un classico esempio di meritocrazia di casa nostra. Chi dimostra dai risultati la sua preparazione deve andare all’estero, come conferma lo stesso curriculum londinese di Andrea Crisanti. Anche il cervello politico della Lombardia è sempre leghista. Eppure da quando sono stati ingaggiati l’assessore al Welfare, Letizia Moratti, e l’ex capo dipartimento della Protezione civile, Guido Bertolaso, la Regione sembra guidata dal motto del grande Giovannino Guareschi: contrordine compagni! La precedenza del vaccino agli ultraottrantenni. Contrordine compagni, la precedenza agli over sessanta che abitano ai confini della variante inglese, tra le province di Bergamo e Brescia. Contrordine compagni, adesso vacciniamo anche gli insegnanti. Tutto questo in pochi giorni. Medici di famiglia e farmacisti devono raccogliere le prenotazioni, ma hanno un po’ perso il filo del discorso. «Non sappiamo nulla neanche noi», risponde un dottore lombardo su whatsapp alle 7.40 del mattino: «Soltanto questa notte, grazie a un preside, è arrivata questa notizia...». Segue il pdf di un documento: «A tutto il Personale della Scuola», annuncia pomposamente, «per il tramite dei Dirigenti scolastici e dei Coordinatori didattici... L’Ufficio scolastico regionale per la Lombardia e la Regione Lombardia comunicano l’avvio della campagna di vaccinazione anti Sars-CoV-2/Covid-19, rivolta a tutto il personale scolastico che lavora nelle scuole della Lombardia». Testuale. Ci si può iscrivere dalle 8 di mercoledì 3 marzo. Basta digitare vaccinazionicovid.servizirl.it. Anche se quel “rl” alla fine della parola “servizi”, sta mettendo alla prova la vista e il rosario vernacolare di migliaia di persone. Ma almeno, per quanto riguarda la scuola, il sito è sincero: «Di prossima attivazione!», c’è infatti scritto che sono già le due del pomeriggio del giorno inaugurale. Ma da quando l’Italia vuole adottare la strategia Johnson, ispirata al cognome del premier inglese e non alla marca del prossimo vaccino, la seconda dose va fatta oppure no? «Non l’ho ancora capito», ammette un cinquantenne in coda in un ospedale della provincia appena fuori Milano, entrato nell’elenco per ragioni di salute: «Oggi è la data del richiamo e mi sono presentato. Al telefono non erano sicuri. E anche ora che sono in fila, fino a quando non mi inseriranno l’ago non posso dire di esserne certo». Gli altri davanti vengono comunque vaccinati. Poco prima di mezzogiorno è il suo turno: sì, per ora si prosegue con la doppia dose. Dopo l’abbuffata di zone gialle, ma con contagi da zona arancione, ecco la grande novità: d’ora in poi, le nuove restrizioni cominceranno sempre di lunedì. Così sabato e domenica migliaia di persone potranno andare a infettarsi sul lungomare, nei locali, o sui Navigli. Esattamente come un anno fa, con le serate da coronaspritz che ci hanno portati al lungo lockdown. Il prezzo lo stiamo già pagando. Meglio un weekend di movida che un anno scolastico regolare, pensa il popolo della notte. Piuttosto che permettere a bar e ristoranti il servizio d’asporto e compensare con aiuti statali quanti fanno più fatica, preferiamo l’andatura da tamponamento a catena: aprire-aprire-aprire, secondo il mantra di Matteo Salvini, per poi chiudere-chiudere-chiudere. E ora che la Lega sostiene il premier Mario Draghi, il mantra è praticamente una regola. La via di mezzo però, un po’ di comuni chiusi e quelli accanto aperti, non è sufficiente. La strategia a macchia di leopardo, cominciata il 4 febbraio con il primo grosso focolaio di variante inglese a Corzano in provincia di Brescia, non ha infatti fermato il virus. Le zone rosse o le nuove zone arancione rinforzato si sono allargate come chiazze di vernice sull’acqua. E la prima a pagarne è sempre la scuola. «Almeno finora se c’era da stare a casa, stavamo a casa tutti e ci si collegava a distanza», osserva una professoressa delle medie che chiede l’anonimato. Con la nuova regola, però, la scuola non è più uguale per tutti. Nei comuni sopra i 250 positivi ogni centomila abitanti si chiude, sotto si resta aperti. E gli studenti pendolari che abitano nelle zone rosse e vanno a lezione in una zona gialla o arancione cosa fanno? È il caso dell’area metropolitana di Milano, dove sono scattate restrizioni nei comuni di Melzo, Vimodrone, Pozzuolo Martesana, Vignate, Rodano. Ma non nei paesi in mezzo. La soluzione è un antipatico porta a porta nelle classi. Entra il delegato del preside, chiede i nomi di quanti arrivano dalle zone confinate e invita quegli alunni, soltanto quelli, a stare a casa. Faranno didattica a distanza, come se fossero in isolamento. Mentre gli altri continuano ad andare a scuola. I consigli di istituto, inorriditi dalla nuova soluzione, si stanno mobilitando. Anche perché per un insegnante è più complicato collegarsi in Dad da scuola: il livello tecnologico e la velocità di connessione di molti istituti è troppo arretrato. Questo sistema, ora adottato dal nuovo governo in tutta Italia, è già fallito a Brescia. Non è infatti riuscito a contenere il virus quando era limitato a Corzano, un paese di appena millequattrocento abitanti: da lì in pochi giorni la variante inglese si è infatti trasmessa a tutta la provincia. Dimentichiamo le due caratteristiche fondamentali del Covid-19. Il 42 per cento dei contagiati non sa di esserlo, perché è asintomatico. E ogni positivo scoperto oggi, tenendo conto del tempo di incubazione, si è infettato una decina di giorni fa. Un periodo in cui è andato al lavoro, ha incontrato persone oppure, se è uno studente, si è seduto in classe. Resta quindi fondamentale anticipare la diffusione dell’epidemia con un alto numero di test molecolari. Il professor Crisanti lo ha ripetuto anche in questi giorni a chiunque gli chiedesse un commento sul successo in Sardegna. Un risultato che si sarebbe potuto estendere a tutta Italia «se si fossero fatti i giusti investimenti, come la creazione di una struttura per i tamponi molecolari». Un principio che in Lombardia, la regione più colpita dalle prime due ondate con migliaia di morti, sembra ormai dimenticato. L’attenzione dell’assessore Moratti è concentrata sui vaccini, che ovviamente non servono a diagnosticare i nuovi casi e diventano efficaci soltanto a distanza di settimane. Così come il suo predecessore, Giulio Gallera, sperava nell’efficacia dei test sierologici, che però non rilevano i casi contagiosi nella fase iniziale dell’infezione. Gallera comunque è giustificato: a maggio 2020 era ancora convinto che servissero due positivi per infettare una persona. Un ripasso delle nozioni basilari servirebbe a buona parte dello staff regionale che continua a impedire l’applicazione dei protocolli internazionali, gli stessi seguiti da Andrea Crisanti in Veneto e in Sardegna. È il caso di Valgoglio, un piccolo paese di montagna in provincia di Bergamo. A fine febbraio il sindaco, Angelo Bosatelli, chiede all’Ats, l’azienda sanitaria, di sottoporre a test i seicento abitanti, dopo l’improvviso aumento di casi positivi nella zona. «Ma l’Ats ha sconsigliato questa strategia», racconta il sindaco in quei giorni, «perché un controllo massimo potrebbe portare all’adozione di misure molto stringenti per l’intero paese e tale scelta va considerata come estrema». L’incompetenza della risposta non ha impedito a Valgoglio di diventare a inizio marzo zona rossa, con 29 positivi e sei persone ricoverate in ospedale, di cui una in gravi condizioni. Ancora due mesi di pazienza e vedremo se con la terza ondata, tra tante nuove restrizioni in tutta Italia, la Regione Lombardia saprà ancora una volta battere se stessa.

La seconda volta. Contagi in salita, centomila morti, studenti a casa. È cambiato il governo ma non le chiusure. E la politica resta in emergenza. Marco Damilano su L'Espresso il 5 marzo 2021. Insicurezza. In copertina c’è la parola del nostro tempo. Della nostra Italia a rischio per l’emergenza Covid-19 (Fabrizio Gatti sull’ultimo numero dell’Espresso), emersa da un anno, con centomila morti, e per il cambiamento climatico che corrode le nostre città (Stefano Liberti). Insicurezza che è anche richiesta di messa-in-sicurezza, protezione sociale, interventi di lungo periodo e non lo stilicidio della paura, delle chiusure e delle riaperture. L’insicurezza va avanti da un anno. Dal primo Dpcm, la conferenza stampa di Giuseppe Conte alle due del mattino, la zona rossa estesa a un’intera regione e a quattordici province. Il silenzio delle strade la domenica mattina, i soldati a presidiare le stazioni, le piazze vuote, il coprifuoco. Un anno fa, nella notte tra il 7 e l’8 marzo 2020, l’Italia scoprì la chiusura, sperimentò il lockdown: nel giro di poche ore, e di pochi giorni, prima la Lombardia e poi l’intero territorio nazionale. Fu il primo paese europeo e occidentale a farlo, consegnando al mondo l’immagine di uno Stato democratico che decide di chiudere l’accesso a scuole, università, negozi, attività produttive, palestre, piscine, teatri, cinema, chiese e altri edifici di culto, e di limitare o bloccare del tutto la circolazione dei cittadini. Gli altri paesi europei arrivarono dopo, gli Stati Uniti ancora più tardi. Era la prima volta e furono giornate drammatiche, segnate dalle fughe dalle zone rosse verso le regioni del Sud e dalle violente e oggi dimenticate rivolte nelle carceri, con un bilancio di dodici vittime tra i detenuti (nove a Modena), e evasioni, saccheggi, il penitenziario milanese San Vittore in fiamme. Il nuovo decreto della presidenza del Consiglio, il primo del governo presieduto da Mario Draghi, arriva esattamente un anno dopo. Impossibile non provare il deja-vu. Nuove zone rosse si annunciano, si teme un nuovo lockdown, la stessa escalation del marzo 2020, in un paese diviso tra qualche segno di reazione e un sentimento diffuso di disagio e di frustrazione. Ci sono attività produttive che non si sono mai fermate e che hanno guadagnato in questi dodici mesi di Covid-19: la grande distribuzione alimentare, in particolare, le aziende farmaceutiche, il distretto del biomedicale a Mirandola, ma anche il settore della meccanica in Lombardia e in Emilia Romagna. Sono le zone più colpite dalle prime chiusure di questa terza ondata, in attesa del lockdown prossimo venturo. E ci sono, al contrario, le fratture invisibili della società che non conoscono riprese e ristori. Sono le famiglie e le donne su cui grava l’assistenza, la cura dei bambini senza scuola. Sono i giovani che pagano il prezzo più alto, con l’anno scolastico devastato e la socializzazione spezzata, come un anno fa. Tre alunni su quattro finiranno nella didattica a distanza, secondo le stime della rivista Tuttoscuola. Sono senza un sindacato che li tuteli, un presidente di regione che li rappresenti, un partito che se ne faccia carico. Di fronte alla terza ondata della pandemia, la più imprevedibile sul piano sanitario con le varianti del virus che si moltiplicano più rapide delle campagne di vaccinazione, come in un maledetto videogame, c’è la stanchezza dei dodici mesi più duri alle spalle e c’è diffidenza verso le promesse future. La novità più importante è arrivata dalla politica, con il governo di unità nazionale e le prime mosse del nuovo premier. Cambiare gli uomini della squadra, riportare in prima linea le strutture che erano entrate in sofferenza un anno fa e poi messe in seconda fila dietro la figura del commissario Domenico Arcuri. La protezione civile, tornata sotto la guida dell’esperto Fabrizio Curcio, l’esercito con la nomina del generale Francesco Paolo Figliuolo al posto di Arcuri, la supervisione del sottosegretario alla sicurezza Franco Gabrielli che sul piano formale ha la delega al controllo dei servizi segreti ma che sul piano sostanziale è il motore di questa cabina di regia. Torna lo Stato, con le sue istituzioni, i suoi uomini. Lo Stato entrato in agitazione un anno fa, all’inizio della guerra della pandemia. Mentre sul sistema sanitario nazionale gravava tutto il peso della risposta all’attacco del virus, con la retorica insopportabile sui medici e gli infermieri eroi, il resto dell’apparato pubblico si fece cogliere tragicamente impreparato: la sicurezza, la pubblica amministrazione, la scuola, la macchina della giustizia, fino a risalire la scala e arrivare ai vertici delle istituzioni, i comuni, le regioni, il Parlamento e il governo. È rimasta illesa la presidenza della Repubblica, il motore di riserva che si accende quando tutto il resto sembra precipitare. Oggi combattere il virus significa ripristinare l’efficienza degli apparati ma anche la normalità del funzionamento delle istituzioni democratiche previste dalla Costituzione. Non c’è bisogno che l’ordine regni a Varsavia, ma che almeno gli interventi siano ordinati e non scomposti. A gestire il recupero è stato chiamato un presidente del Consiglio che dell’emergenza è espressione, dopo una crisi politica che stava per provocare l’infarto del sistema. Draghi sa di avere a disposizione un orizzonte di tempo limitato. Si gioca tutto in uno spazio breve: il mese del nuovo Dpcm, dal 6 marzo al 6 aprile, è anche il periodo in cui la campagna delle vaccinazioni deve decollare, dopo il bilancio modesto di gennaio e febbraio. Nello stesso periodo, bisogna lavorare alla missione che vale un governo, la stesura definitiva del Recovery Plan, il Pnrr (Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza) e la sua presentazione alla Commissione europea entro il 30 aprile. Sono otto settimane per correggere, se non riscrivere, il progetto del governo precedente. Anche in questo caso la governance straordinaria che avrebbe dovuto occuparsi del Piano, la piramide di Giuseppe Conte con l’aggiunta di sei supermanager e un esercito di tecnici, mai entrata in ruolo, è stata superata con una scelta lineare: se ne occupa il ministero dell’Economia con gli altri ministeri competenti, a partire da quelli per la Transizione ecologica, l’Innovazione, le mobilità sostenibili. Anche in questo caso tornano le vecchie istituzioni, tocca a loro disegnare il volto dell’Italia dei prossimi dieci anni. Sono ciò che tiene, mentre tutto sembra incerto. Manca la politica che si regge su una organizzazione di partito e su una visione del mondo, un tempo lontano si sarebbe detto ideologia. I partiti e le leadership sono sopravvissute a se stesse in questa folle legislatura, ma il governo Draghi è l’ultimo bivio, oltre il quale c’è la dissoluzione. E infatti arrivano le onde d’urto. La Lega di Matteo Salvini ha fatto una specie di congresso sotterraneo, il Capitano è finito in minoranza ma i vincitori (Giancarlo Giorgetti, Luca Zaia) gli hanno permesso di restare in carica a patto di interpretare la linea vincente e lui si è acconciato a farlo, nel tentativo di trasformare il governo Draghi nel laboratorio politico del nuovo centro-destra: un patto tra i sovranisti depurati del populismo anti-euro e anti-establishment, a quel punto presentabili nel salotto buono, e i moderati centristi finiti in minoranza elettorale. Il patto era già pronto nel 2019, fu Salvini a mandarlo all’aria con l’incontro dell’hotel Metropol a Mosca del suo faccendiere Gianluca Savoini con gli uomini di Putin, la scelta rovinosa di votare contro Ursula von der Leyen mettendosi all’opposizione in Europa, la crisi aperta sulla spiaggia accaldata del Papeete. Il leader della Lega non ripeterà l’errore catastrofico e approfitterà di questo tempo per rendersi spendibile nella buona società. Sul versante opposto (ma per quanto tempo?), gli ex alleati del Movimento 5 Stelle si frantumano e provano ad affidarsi alla leadership di Conte, forse con un nuovo simbolo. I sondaggi che premiano questa operazione sono una sconfitta per chi nel Pd ha considerato l’ex premier il federatore del nuovo centro-sinistra: una prospettiva talmente generica e inesistente che Conte ha preferito buttarsi su un partito che c’è e che strapperà molti voti ai democratici. Il Pd di Nicola Zingaretti è immerso in un lungo congresso, lasciando insoluta l’eterna questione della sua identità: chi sei? Chi vuoi rappresentare? In quale sistema politico immagini la tua azione? Infine, c’è il drappello che finisce a pezzetti: gli ex Pd con Roberto Speranza, gli ex Rifondazione con Nicola Fratoianni, i verdi che verranno con Rossella Muroni. Mentre a destra Matteo uno (Salvini) costruisce il nuovo centro-destra, con il possibile approdo del Matteo due (Renzi), nel Pd c’è una intera strategia da ricostruire. Passa per una riscrittura delle regole che difendano un assetto bipolare, altro che legge elettorale proporzionale, e per una ricostruzione della propria identità e del proprio radicamento sociale. Altrimenti, a furia di voler evitare un destino di irrilevanza, si scivola nell’esito del partito socialista francese che è finito per rilevare nulla nell’elettorato oppure, nella migliore delle ipotesi, nel ruolo della socialdemocrazia tedesca, costretta a decenni di grande coalizione con Angela Merkel, ma da alleato minore e secondario. A dispetto di una forza sociale che esiste, ma che è mortificata dalle correnti romanocentriche del partito, da un elettorato sconfortato ma resistente, da una classe dirigente diffusa nei territori ma stretta dai caminetti dei capi che si spartiscono ministeri e sottosegretariati. Nel 2014 la vittoria di Renzi alle elezioni europee fece illudere che il Pd del 40 per cento potesse trasformarsi nel partito della Nazione: ma era un numero, senza anima e senza orizzonte, e svanita la percentuale gonfiata dalle speranze suscitate in quel momento dall’ex sindaco di Firenze è venuto giù anche quel progetto politico. Resta in piedi, invece, l’ambizione di affiancare al governo del Paese (Draghi) un partito che si faccia carico del Paese a partire da una visione del mondo alternativa alla destra in tutti i suoi volti e le sue numerose metamorfosi, che sia sovranista, moderata o liberale. Che, per storia, è il pensiero democratico. Riformista e di sinistra. L’insicurezza è il suo nemico. La messa in sicurezza, ovvero la risposta alla domanda di uguaglianza, di giustizia sociale, di rispetto per l’ambiente, di parità tra le persone senza differenze di genere, ancora più urgente in questo 8 marzo 2021, è la sua ragione sociale, la sua missione di vita.

Vaccini, i Paesi «pragmatici» contro quelli «giuridici»: così Usa e Israele hanno battuto l’Europa. Fabio Colasanti il 6/3/2021 su Il Corriere della Sera. Non credo che ci sia alcun dubbio che l’Unione europea oggi, inizio marzo, sia chiaramente indietro rispetto a Stati Uniti, Gran Bretagna e, soprattutto, Israele nella sua campagna di vaccinazione anti-Covid. Ma questo non è dovuto a responsabilità specifiche della Commissione europea. Questo è in piccola parte dovuto al fatto che prendere decisioni tra 27 Paesi è inevitabilmente più complesso che prenderle in uno solo. Ma la spiegazione principale va cercata in una differenza fondamentale tra i Paesi dell’Unione europea, da un lato, e gli Stati Uniti, Israele e, in una certa misura, del Regno Unito, dall’altro, nella maniera di concepire i rapporti tra Stato e imprese per raggiungere degli obiettivi eccezionali di interesse comune. Si tratta di una differenza tra pragmatismo, accompagnato da una certa fiducia nella pubblica amministrazione che rende possibile concederle una forte discrezionalità, e un approccio giuridico, basato spesso sulla necessità di limitare il più possibile la discrezionalità della pubblica amministrazione. Nel riuscire a ottenere vaccini anti-Covid rapidamente i Paesi «pragmatici» (i tre che ho citato) si sono rivelati più efficaci dei Paesi con un approccio giuridico (la quasi totalità dei Paesi dell’Unione europea). Questa differenza non è una cosa nuova. È descritta molto bene nel libro di Mariana Mazzucato, Lo Stato innovatore. Il libro spiega come gli Stati Uniti abbiano raggiunto obiettivi notevolissimi in termini di ricerca scientifica in una maniera che a noi europei appare per lo meno disinvolta. Semplificando un po’, gli americani hanno identificato degli obiettivi di ricerca importanti; hanno creato delle organizzazioni ad hoc con lo scopo di raggiungerli; hanno messo sul tavolo cifre molto alte; hanno messo a capo di queste organizzazioni scienziati/manager di livello altissimo dando loro una grandissima discrezionalità su come utilizzare i fondi a disposizione. Nell’Unione europea siamo abituati a spendere fondi per la ricerca sulla base di programmi a carattere piuttosto generale, aperti a tutti e con procedure molto complesse che riducono il rischio di arbitrio e aumentano la trasparenza, ma allungano i tempi e non agevolano il raggiungimento dell’obiettivo desiderato. Per i Paesi «pragmatici», quello che conta è il risultato finale, per i Paesi «giuridici» quello che più conta è che i soldi siano spesi correttamente. Per i vaccini gli Stati Uniti partivano già avvantaggiati per il lavoro fatto da alcuni anni attraverso la Barda (Biomedical Advanced Research and Development Authority). Ma in più, all’inizio del 2020, hanno creato un’organizzazione ad hoc chiamata Warp Speed a capo della quale hanno messo il generale responsabile della logistica dell’esercito americano e un ricercatore di alto livello, Moncef Slaoui, nato in Marocco, cittadino belga e ora anche cittadino americano visto che lavora in quel Paese da una ventina di anni. Hanno anche affidato alla Warp Speed dieci miliardi di dollari. L’organizzazione ha cominciato a lavorare con le ditte produttrici di vaccini senza badare a spese. Le ha aiutate in tutti i campi dove queste potevano avere difficoltà. Ha, per esempio, creato una struttura per cercare, gestire e inoculare le molte decine di migliaia di volontari necessari per i trials. La Warp Speed ha poi discusso con le ditte i loro accordi con altre che potessero aiutarle nella produzione di vaccini e nel loro infialamento. È di oggi la notizia che Warp Speed ha appena dato un aiuto di un miliardo di dollari alla J&J per aiutarla nell’espandere la produzione del suo vaccino e 270 milioni di dollari per facilitare l’accordo in questo senso tra la J&J e la Merck. Pfizer e Moderna avrebbero ricevuto circa due miliardi di dollari ciascuna per i primi 100 milioni di dosi. In un recente webinar, Moncef Slaoui ha raccontato che il 15 maggio dell’anno scorso Warp Speed si è trovata a dover scegliere i vaccini di cui sostenere lo sviluppo. Avevano sul tavolo 94 progetti. Moncef Slaoui ha detto delle parole che per un europeo sono inconcepibili: «Non potevamo perdere dieci giorni ad esaminarli tutti e abbiamo quindi elaborato dei criteri top down per sceglierne alcuni. In questa maniera ne abbiamo scelti dieci». L’agenzia Bloomberg ha scritto che Warp Speed avrebbe finora speso 18 miliardi di dollari, molto più della cifra inizialmente stanziata. La Ue, prima degli ultimi acquisti del mese di febbraio, aveva speso 2,7 miliardi di euro ai quali vanno aggiunte alcune centinaia di milioni di aiuti nazionali (per esempio, i 375 milioni di euro di aiuti tedeschi alla BioNTech). I Paesi «pragmatici» hanno sollevato le ditte produttrici da ogni responsabilità per gli effetti collaterali che i vaccini avrebbero potuto avere visto che dovevano metterli sul mercato senza tutti i controlli. La Ue ha rifiutato di prendere una decisione simile e, almeno nel caso dell’AstraZeneca, ha solo accettato di rimborsare alla ditta le somme che fosse eventualmente condannata a pagare dai tribunali. Non era possibile che i contratti contenessero delle clausole con penalità in caso di ritardi. Per le ditte era impossibile accettare clausole del genere per prodotti che, al momento della firma dei contratti, non si sapeva nemmeno se un giorno sarebbero esistiti e per i quali non era possibile prevedere le difficoltà di produzione su larga scala. Il problema non era comunque stabilire delle penalità per eventuali ritardi. Era di operare concretamente perché questi non si verificassero. I contatti in corso tra la Commissione europea e le ditte produttrici e quelli simili organizzati dal governo italiano sono una cosa giustissima. Ma avrebbero dovuto essere organizzati a settembre o ottobre del 2020, senza aver paura di dare l’impressione di essere troppo amichevoli con le ditte farmaceutiche. Il governo tedesco ha recentemente confermato nella risposta a una domanda parlamentare di aver rifiutato nel luglio scorso una domanda di sovvenzione di una ditta specializzata nell’infialamento dei vaccini che voleva aumentare le proprie capacità di produzione. Il ministro Altmeier aveva risposto di non vedere la necessità di questo aumento di capacità. Tutti gli esperti ci avevano messi in guardia per mesi sulle enormi difficoltà dello sviluppo e della produzione di nuovi vaccini. Forse le autorità europee avrebbero dovuto avere una comunicazione più prudente. Ma nonostante le difficoltà di produzione di AstraZeneca, i risultati che sono stati ottenuti dall’insieme dei Paesi industrializzati (ad ogni vaccino hanno collaborato laboratori e industrie di tanti paesi diversi) sono spettacolari. Pfizer-BioNTech e Moderna hanno già aumentato fortemente le loro capacità di produzione e saranno presto in grado di fornire grandi quantità di dosi. Pfizer ha già sottoscritto un accordo con Sanofi per la produzione del vaccino della prima e starebbe negoziando con dieci altre ditte. Nell’insieme, i risultati sono eccezionali. Tra due o tre mesi ci saranno altri vaccini oltre a quelli di cui si parla oggi e non avremo più problemi di insufficienza di dosi. I limiti alla vaccinazione nei Paesi dell’Unione europea verranno solo dalle difficoltà organizzative nell’inoculazione. Il problema principale sarà come produrre i miliardi di dosi necessari per il resto del mondo. La Commissione europea ha proposto la creazione di un’agenzia, la Hera, che faccia un po’ il lavoro che fa la Barda negli Usa. Ma ho paura che fintanto che permarranno le differenze di approccio, che ho caratterizzato come differenze tra «pragmatici» e «giuridici», non saremo in grado di far fronte efficacemente a nuove grosse sfide come potranno farlo l’altro gruppo di Paesi o la Cina.

Vaccino, Palazzo Chigi ferma l'esportazione di 250mila dosi AstraZeneca: la mossa di Mario Draghi, le conseguenze per la Ue. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 05 marzo 2021. Finalmente! L'Italia, prima nazione europea a farlo, ha bloccato la spedizione fuori dal Continente di un ingente quantitativo di vaccini, nella fattispecie 250 mila 700 destinati all'Australia. D'altronde non ci sono nemmeno per noi: perché dovremmo continuare a cedergli agli altri? Il siero, infialato nello stabilimento di Anagni (Frosinone) che lavora per la casa farmaceutica anglo-svedese, verrà ridistribuito tra gli Stati membri. Il governo ha notificato la decisione a Bruxelles e la Commissione Ue non si è opposta. Mario Draghi ha fatto ricorso al meccanismo di controllo dell'export introdotto dall'Europa il 30 gennaio proprio per evitare che dosi destinate per contratto agli Stati europei vengano rivendute dalle case farmaceutiche fuori dal continente. LaPresse) Un carico del siero AstraZeneca pronto per la spedizione ( È stata una delle poche mosse azzeccate, seppur tardiva, dai burocrati Ue. Il sistema, in particolare, è stato attivato dopo la polemica tra la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e l'amministratore delegato di Astrazeneca, Pascal Soriot, quando questi per la prima volta aveva annunciato tagli drastici alle consegne in Europa. 

SOTTO CONTROLLO. Per Draghi, sul fronte vaccinale, è il terzo successo in pochi giorni: l'investimento di 2 miliardi per accaparrarsi più dosi possibili, il "no" alla proposta francese di spedire 13 milioni di fiale in Africa, e ora il rifiuto all'esportazione in Australia, nazione dove peraltro i contagi sono quasi inesistenti, 11 nelle ultime 24 ore a fronte di 49mila tamponi. I casi attivi sono 1.900 su una popolazione di 25 milioni di abitanti. Stando al sito worldometers.info, la bussola da inizio pandemia, non risultano pazienti in terapia intensiva. La scelta di Draghi dunque non avrebbe dovuto nemmeno far notizia se non vivessimo in un Paese dove il ministro della Salute ha regalato tonnellate di mascherine alla Cina lasciando senza le nostre farmacie, e in un Continente i cui capi non sono stati nemmeno in grado di assicurare alla popolazione un numero decente di farmaci salvavita, facendo peggio di super potenze quali Marocco, Cile e Serbia. Ieri il ministro dello Sviluppo Economico, Giancarlo Giorgetti, ha incontrato a Roma il commissario Ue al mercato interno, Thierry Breton, il quale ha annunciato: «A fine anno in Europa avremo una capacità produttiva tra i 2 e i 3 miliardi di vaccini, mentre gli Stati Uniti saranno a circa 2,5. L'Europa», ha continuato, «sarà il primo continente per produzione. La Russia non è in grado e la Cina è molto indietro». Che dire: la faccia di bronzo dalle parti di Bruxelles non manca. Poi l'ennesimo annuncio: «Sono fiducioso sulla nostra capacità di consegnare i vaccini sempre più rapidamente e da qui all'estate confidiamo di vaccinare tutti i cittadini europei». Roberto Speranza ha chiesto agli scienziati di verificare la possibilità di somministrare Astrazeneca anche alle persone con più di 65 anni. La decisione è stata presa nel corso della riunione col commissario all'emergenza Francesco Figliuolo, il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio e i responsabili dell'Aifa. Sarà l'Agenzia italiana del Farmaco a dare o meno il benestare. Il presidente della Commissione tecnico-scientifica, Patrizia Popoli, mercoledì si è detta possibilista. 

MENO LIMITI. Ad alimentare le speranze ci sono anche i nuovi dati provenienti dall'Inghilterra e dalla Scozia. «Rispetto all'età», ha affermato Popoli, «non sono stati posti dei veri e propri limiti, ma si è suggerito un uso preferenziale nei soggetti meno anziani, che erano maggiormente inclusi negli studi clinici. Tuttavia si era detto fin dall'inizio che queste indicazioni si sarebbero dovute riconsiderare quando fossero state acquisite ulteriori evidenze dagli studi in corso». Sempre in merito all'antidoto anglo-svedese, dall'incontro tra Figliuolo, Curcio, Speranza e l'Aifa è emersa la volontà di non tenere da parte le scorte ma di procedere in modo costante con le somministrazioni, anche alla luce della circolare del ministero della Salute che prevede una sola dose alle persone che hanno già contratto il virus. Nel frattempo l'Agenzia europea per i medicinali si è decisa ad avviare la valutazione del siero russo Sputnik V. Mosca, in caso di nulla osta, è pronta a inviarne all'Ue 50 milioni a partire da giugno.

Francesca Basso per il Corriere della Sera il 6 marzo 2021. «L' Italia deve sentire il sostegno pieno dell' Unione europea. In questo periodo in cui le persone stanno morendo, dobbiamo mostrare ai nostri cittadini che ci prendiamo cura di loro».

Manfred Weber è il presidente dei deputati del Partito popolare al Parlamento europeo. La decisione del premier Mario Draghi vi ha sorpreso?

«Abbiamo discusso a livello europeo se attivare il meccanismo di controllo dell' export dei vaccini e se in specifici casi fare ricorso al blocco. È stato discusso nella riunione dei leader Ue con la presidente della Commissione. La scelta dell' Italia si basa su solide motivazioni: la situazione in Australia vede dieci casi di Covid al giorno e non ci sono morti. Per questo sostengo pienamente il messaggio di Mario Draghi, che si è coordinato con la Commissione. Il commissario Thierry Breton era a Roma. Dobbiamo occuparci dei nostri cittadini, l' Ue è il continente più colpito al mondo, abbiamo il più alto numero di contagi e morti».

C' è il rischio di una guerra dei vaccini?

«La guerra è già in corso. Gli Stati Uniti hanno un blocco totale sulle esportazioni di vaccini anti-Covid. Il Canada è rifornito dalla produzione europea. Il nazionalismo dei vaccini è stato adottato dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna con AstraZeneca. Da europeo e da politico non voglio un blocco totale delle esportazioni di dosi ma non dobbiamo essere naïf, ci dobbiamo concentrare sulle aziende che non sono corrette: AstraZeneca non sta adempiendo al contratto con l' Ue e sta dando precedenza alle forniture verso il Regno Unito e altri Paesi. Ma nello stesso tempo c' è BioNTech-Pfizer, un partner estremamente affidabile: stanno consegnando più di quanto promesso e questo ci permette di aiutare altri Paesi. Va adottato un approccio caso per caso. E con chi è inadempiente l' Ue deve essere rigorosa e forte».

Ha già discusso della decisione italiana con la cancelliera Angela Merkel?

«Siamo sempre in contatto diretto. Ma questa settimana i miei interlocutori sono stati la Commissione e in particolare Thierry Breton. I cittadini europei si aspettano di essere vaccinati. L' Europa resta pronta a condividere le dosi con i suoi vicini. Ed è nel nostro interesse per evitare varianti in futuro. Ma se le aziende non rispettano gli obblighi devono sentire la forza dell' Ue e l' impatto sul lungo termine. AstraZeneca e coloro che non cooperano devono capire che l' Ue è il più grande mercato unico al mondo: ricordino, per i prodotti futuri, che l' accesso al mercato è nelle mani dei regolatori Ue. E poi chi non rispetta i contratti non potrà più beneficiare dei finanziamenti per la ricerca».

Cosa può fare il Parlamento Ue sul fronte vaccini?

«In tempi di crisi è il potere esecutivo, la Commissione, che guida la situazione. Noi però abbiamo chiesto la piena trasparenza sui contratti. Ma cosa più importante siamo i legislatori e ora abbiamo un dossier cruciale sul tavolo: il passaporto vaccinale. Ora tocca a noi e chiedo una procedura rapida. Il pass ci serve adesso, non in agosto. Bisogna avere subito un passaporto per mostrare che sei vaccinato o hai un test negativo. Questo creerà molti vantaggi per la vita dei cittadini Ue».

I vaccini sono la nuova benzina per i populisti e gli antieuropeisti di destra e sinistra?

«La domanda di vaccini è molto più alta della produzione, per questo c' è grande delusione ed è comprensibile. La presidente Ursula von der Leyen ha ammesso in un discorso davanti al Parlamento Ue che sono stati fatti degli errori. Tutti però stanno cercando di fare del loro meglio. Per riconquistare i cittadini Ue bisogna essere onesti. È vero che i populisti stanno cercando di sfruttare la situazione ma i cittadini sanno che i populisti non avrebbero avuto soluzioni migliori».

L' Ungheria di Orbán ha deciso prima degli altri di usare i vaccini russo e cinese. Ora anche la Slovacchia.

«Nessuno nell' Ue è stato obbligato dalla legge a partecipare alla strategia Ue sui vaccini. Chiunque voglia andare da solo può farlo, ma non si può avere anche la solidarietà europea. L' Ungheria sa perfettamente che non sarebbe stata in prima fila nel ricevere i vaccini senza l' Europa».

Le nuove regole che il Ppe ha adottato hanno portato all' addio di Orbán dal gruppo.C' è qualcosa di cui si pente? Come cambierà il Ppe?

«Viktor Orbán ama attaccare Bruxelles ma prendersi i vantaggi dell' Ue, i vaccini sono uno dei tanti esempi, e questo non è accettabile per il Ppe. Mi dispiace aver perso dei membri nella mia famiglia politica, ma avendo presente che Orbán continua a praticare una politica antieuropea e che ci sono problemi sostanziali di rispetto dello Stato di diritto, con la libertà di stampa e l' indipendenza della giustizia messe in discussione, non c' erano più alternative. Sulla migrazione restiamo il partito che difende i confini europei, come sta facendo il premier greco Mitsotakis al confine con la Turchia. Le ragioni del divorzio sono la difesa dei valori europei».

Von der Leyen, da subito con Roma sullo stop a AstraZeneca. (ANSA l'8 marzo 2021. ) "Se un'azienda non" onora i propri impegni, "non possiamo permettere che esporti. Ho sostenuto l'Italia" di Mario Draghi "fin dall'inizio perché da quanto vediamo AstraZeneca distribuisce meno del 10%" in Europa "di quanto fosse stato pattuito per il primo trimestre. Perciò pieno sostegno e allineamento con l'Italia". Quella di bloccare l'export "è stata una decisione consensuale". Così la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ad un gruppo ristretto di media europei, tra cui l'ANSA.

Von der Leyen, stop export AstraZeneca fino rispetto patti.

(ANSA l'8 marzo 2021) - "Ci aspettiamo che AstraZeneca accresca i suoi sforzi per distribuire di più e mettersi in pari. Questo sarà il riferimento sulla possibilità" per l'azienda "di esportare anche da altri Stati membri". La mancata autorizzazione dell'Italia "non è una tantum, dipende dall'azienda" ricreare "la fiducia onorando il contratto. Se lo farà, certamente le porte dell'export saranno aperte". Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un'intervista ad un gruppo ristretto di media europei, tra cui l'ANSA.

Von der Leyen,da AstraZeneca meno del 10% di dosi pattuite.

(ANSA l'8 marzo 2021) - BRUXELLES, 08 MAR - "Da quanto vediamo AstraZeneca sta distribuendo meno del 10%" delle dosi di vaccino in Ue rispetto a quanto pattuito per il primo trimestre. Così la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in un'intervista ad un gruppo di media europei, tra cui l'ANSA. Secondo il contratto, "AstraZeneca doveva iniziare a produrre prima di avere l'autorizzazione al mercato" e preparare le scorte "per distribuire le dosi una volta avuto il via libera. Ha funzionato con Biontech-Pfizer e Moderna, non ha funzionato con AstraZeneca. Vogliamo sapere cosa è successo", ha aggiunto.

Antonello Guerrera per repubblica.it il 5 marzo 2021. “Porre limiti a esportazioni di vaccini mette a repentaglio lo sforzo globale contro il virus”. Boris Johnson non sembra aver apprezzato la mossa di Mario Draghi che, insieme all’Unione Europea, ieri ha bloccato l’esportazione di 250mila dosi di vaccino anti Covid di Oxford-AstraZeneca verso l'Australia. Camberra a parte, Johnson pare dunque essere il primo grande leader mondiale critico di questa decisione. Alle domande di “Repubblica" e di altri giornalisti britannici, stamattina uno dei suoi portavoce ha risposto, pur non citando esplicitamente il premier italiano, che “il virus può essere sconfitto solo con la collaborazione internazionale. Tutti siamo dipendenti dalle catene di produzione globali. Ma porre limiti a esportazioni di vaccini mette a repentaglio lo sforzo globale contro il virus”. Non solo. A domanda di “Repubblica” se il primo ministro britannico ieri ne abbia parlato con Draghi durante la loro prima telefonata bilaterale dall’arrivo a Palazzo Chigi, la risposta di Downing Street è stata negativa: “La conversazione c’è stata prima dell’annuncio dell’Italia, quindi non è stato un tema della discussione”. Il portavoce però ha ricordato come “il primo ministro abbia parlato alla presidente della Commissione europea Ursula Von Der Leyen a inizio anno, la quale nell’occasione gli aveva confermato che l’obiettivo del meccanismo (attivato ieri, ndr) ha l’obiettivo di una maggiore trasparenza e non di bloccare export di vaccini di aziende… ci aspettiamo che l’Ue rispetti questi impegni”.

Luca Ricolfi per ilmessaggero.it l'11 febbraio 2021. È abbastanza stupefacente, almeno per me che da un anno seguo quotidianamente l’andamento dell’epidemia, quanta attenzione si concentri sulle scelte di Draghi in campo economico-sociale, e quanto poco, invece, ci si interroghi sul futuro della politica sanitaria. Come se accelerare la campagna di vaccinazione fosse l’unica cosa che ci si può aspettare da lui. È quindi con un sospiro di sollievo che ho ascoltato le considerazioni di Walter Ricciardi, consulente del ministro Speranza, in una intervista televisiva concessa martedì notte. In essa, accanto a una (ben poco convincente) difesa della politica di Conte durante la prima ondata, Ricciardi ha sostenuto tre tesi molto forti, che meritano attenta considerazione. Le riassumo brevemente.

Tesi 1: nella seconda ondata, decidendo lockdown tardivi e troppo blandi, il governo Conte ha sbagliato politica, finendo per dilapidare i sacrifici degli italiani.

Tesi 2: dobbiamo cambiare completamente rotta, abbandonando il protocollo europeo, che si accontenta di mitigare l’epidemia, e passare risolutamente al protocollo dei Paesi orientali e dell’emisfero Sud, che punta alla soppressione del virus.

Tesi 3: la via maestra per farlo è un inasprimento e allungamento dei lockdown.

Sulle prime due tesi, avendole io sostenute da più tempo di Ricciardi, non posso che concordare (ho addirittura scritto un libro, “La notte delle ninfee”, per spiegare come la seconda ondata si sarebbe potuta evitare). L’unica cosa che avrei da aggiungere è: poiché il prezzo di questi errori, misurato in migliaia di vite umane sacrificate, è enorme, e poiché – questo gli va riconosciuto – è da quattro mesi che il consulente del ministro Speranza critica la politica sanitaria del governo, come mai né lui né il ministro della Salute si sono mai palesati nell’unico modo politicamente efficace, ossia minacciando le dimissioni? Possibile che, per sferrare un attacco frontale a Conte, si sia dovuto aspettare che Conte stesso avesse perso il potere, disarcionato da Renzi? Ma veniamo alla tesi 3: ci vuole un maxi-lockdown. Su questa tesi è inevitabile che ognuno abbia le proprie opinioni, per lo più dettate dall’età (i giovani si ammalano pochissimo) e dalla professione (gli autonomi rischiano di perdere tutto). Però c’è un punto di cui, a mio parere, dovremmo renderci conto tutti: esaurita la sorpresa della prima ondata, ogni lockdown lungo e non circoscritto è semplicemente un certificato di fallimento della politica. Perché, ormai dovrebbe essere chiaro, quando il governo chiede ai cittadini di farsi carico, con le loro rinunce e con i loro sacrifici, della lotta al virus, è precisamente perché le autorità politiche e sanitarie non hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per contenere l’epidemia. Vogliamo ricordarle, queste omissioni e mancanze? Eccone un succinto elenco: dimezzamento (anziché aumento) del numero di tamponi nel bimestre critico che va da metà novembre 2020 a metà gennaio 2021; sostanziale rinuncia al tracciamento elettronico; debolezza delle misure di controllo della quarantena; timidezza nel far rispettare le regole in estate; mancato rafforzamento del trasporto locale; mancata messa in sicurezza delle scuole e delle università sul versante dell’aerazione e deumidificazione dei locali; debolezza della politica di controllo delle frontiere e dei flussi turistici. Ecco perché l’invocazione del lockdown, di un lockdown più severo e lungo, è poco credibile, per non dire inquietante, se non è accompagnata dal riconoscimento che, dopo la prima ondata, l’errore primario del governo Conte non è stato di non aver fatto un lockdown durissimo a ottobre (quello è stato l’errore secondario, o derivato), ma è stato quello di non fare tutto ciò che ci avrebbe permesso di arrivare a ottobre in condizioni meno critiche, rendendo assai meno necessario il ricorso al lockdown. Perché, nell’intervista a Ricciardi, tutto questo non emerge con la dovuta evidenza? Forse per lo stesso motivo per cui il consulente del ministro Speranza considera «ineccepibile» il comportamento del governo durante la prima ondata. Spiace doverglielo ricordare, ma anche ammesso (e non concesso) che nulla sia stato sbagliato nella tempistica dei lockdown di marzo-aprile, resta il fatto che nella prima ondata egli fu in prima linea nella guerra del governo contro la politica dei tamponi del Veneto, accusato di farne troppi. E che, oltre all’errore di frenare i tamponi di massa, furono parecchi gli errori gravi ed evitabili del governo Conte anche durante la prima ondata: perché nulla fu fatto, a gennaio-febbraio, per dotare il personale medico di dispositivi di protezione individuale? Perché si aspettarono così tanti mesi per rendere obbligatorio l’uso delle mascherine nei negozi e nei locali al chiuso? Perché così poco venne fatto per controllare le frontiere? Insomma, la mia impressione è che il fascino discreto che il lockdown esercita sui politici dipenda semplicemente dalla loro consapevolezza che su tutto il resto, su cui si è fatto quasi nulla quando si era in tempo, si continuerà a fare ben poco. E che alla fine della fiera, nell’attesa messianica del vaccino, la loro idea sia ancora oggi quella di sempre: che la lotta al virus non si fa dall’alto, costruendo politiche sanitarie incisive, ma si fa dal basso, limitando le nostre libertà. È come se la politica, tutta la politica, fosse perfettamente in grado di riconoscere il debito accumulato dai governi passati quando esso è di natura economica, ma non lo fosse quando è di natura sanitaria. Eppure il dramma odierno, in cui un nuovo e severo lockdown appare a molti come l’unica misura praticabile, è il frutto amaro del debito sanitario accumulato in mesi e mesi di omissioni e atti mancati. Non ci resta che sperare che, con questo genere di debito, il governo Draghi cominci a fare i conti nell’unico modo possibile: facendo oggi, finalmente, tutto ciò che non si è fatto fino a ieri.

Lo stato di emergenza perenne per coprire gli errori del governo. Come ha fatto Conte a rendere perenne l'emergenza? Dove ha sbagliato? Ma soprattutto: cosa ha tenuto nascosto? Gli italiani ora pretendono risposte. Giuseppe De Lorenzo e Andrea Indini, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Quanto può durare un'emergenza? Di solito poco, giusto il tempo di risolverla. Perché va da sé che prorogarla significherebbe mettere in pericolo le persone. Non è stato così, però, nella gestione del coronavirus. Il governo Conte ha sottovalutato una circostanza imprevista, un incidente che aveva dato tutte le avvisaglie di quanto potesse essere dannoso per la popolazione, e l'ha resa endemica. Dal 31 gennaio 2020 ci troviamo in uno stato di emergenza perenne. Il momento critico, che un anno fa richiedeva un intervento immediato, si è protratto nelle settimane e, poi, nei mesi. Ma perché lo ha fatto? Dove ha sbagliato? Ma soprattutto: cosa ci ha tenuto nascosto?

Il governo parte col piede sbagliato. Quando il 31 gennaio due turisti cinesi vengono ricoverati d'urgenza all'ospedale Spallanzani di Roma dopo essere risultati positivi al coronavirus, il Consiglio dei ministri si fionda a decretare lo stato di emergenza, stanzia appena 5 milioni di euro sul fondo per le emergenze nazionali e nomina il capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, commissario per la gestione dell'emergenza. Come ricostruito nel Libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), una scelta che lascia parecchi dubbi. È vero che c'è una legge ben precisa che affida alla Protezione civile la gestione delle emergenze nazionali, ma è anche vero che il neo commissario non sa nulla di virus e tantomeno di virus sconosciuti. Sin dai primi momenti, quando ancora l'opinione pubblica sottovaluta la portata della pandemia che da lì a poco investirà il mondo intero, si intravede tuttavia l'incapacità dell'esecutivo di gestire una situazione più grande di lui e per cui non si è preparato negli anni passati. Anni segnati, dal governo Monti in poi, di pesantissimi tagli alla sanità. Organizzare un intero Paese ad affrontare una minaccia come questa risulta una vera e propria utopia.

Speranza messo in un angolo. Per quale motivo il premier Giuseppe Conte sfila il dossier dalle mani del ministro della Salute, Roberto Speranza? Non è lui a gestire i rapporti con la Cina quando da Wuhan emergono i primissimi casi di "polmoniti anomale"? Cosa succede a fine di gennaio per optare un drastico cambio di passo e affidare la gestione dell'emergenza a Borrelli? Al Comitato operativo della Protezione civile, che si avvale di 21 tecnici tra rappresentanti dei Vigili del Fuoco, Forza armate, Forze di Polizia, Croce Rossa, Servizio sanitario nazionale, organizzazioni nazionali di volontariato, Soccorso alpino e Cnr, viene chiesto di assicurare la direzione e il coordinamento delle attività di emergenza, nella fattispecie deve "valutare le notizie, i dati e le richieste provenienti dalle zone interessate dall’emergenza, definire le strategie di intervento e coordinare in un quadro unitario gli interventi di tutte le amministrazioni ed enti interessati al soccorso". Un'attività che, come purtroppo sappiamo, non gli riuscirà affatto bene. Sin dalle prime battute la decisione di fissare (ogni giorno alle 18 in punto) un bollettino per elencare il numeo di contagiati, morti e guariti, non fa altro che gettare l'intera popolazione nell'insicurezza. Gli italiani sono disorientati. La politica, poi, ci mette il carico da novanta. Sono i giorni della campagna "Milano non si ferma" del sindaco Beppe Sala, degli spritz sui Navigli del leader piddì Nicola Zingaretti e dei selfie in pizzeria di Giorgio Gori e consorte.

Il dualismo col ministero della Salute. Ben presto la concorrenza tra la Protezione civile e il ministero della Salute finisce per complicare una situazione già di per sé difficile. Come ricostruito nel Libro nero del coronavirus, infatti, Pierpaolo Sileri non accetta l'idea di "delegare funzioni e compiti". Vuole che il dicastero dove lavora sia centrale nelle scelte governative sulla lotta al virus. Un protagonismo che, però, non piace a Speranza con cui si verificano subito forti dissapori. "Credo che il ministro non abbia mai voluto fare il commissario - ammetterà più avanti Sileri con una punta di amarezza - non è nel suo carattere…". In realtà, in quei giorni, il ministro è tutt'altro che immobile. Nella prima metà di febbraio i suoi uomini sono già al lavoro per cercare di capire cosa sta per investire l'Italia e non è affatto vero che non ci arrivano. Ci arrivano eccome. Solo che i tecnici vengono costretti a mantenere un alto livello di segretezza. E così il piano anti Covid, che avrebbe potuto allertare le Regioni della tempesta che gli si sarebbe abbattuta addosso di lì a poco, finisce chiuso in un cassetto.

L'immobilismo di Palazzo Chigi. I primi giorni dell'emergenza Conte si fionda da una televisione all'altra. Il suo obiettivo è rassicurare il Paese. Vuole far passare il messaggio che il governo è "prontissimo" ad affrontare il virus. Peccato non sia così. Al ministero della Salute credono ancora che "il rischio di introduzione dell’infezione in Europa, attraverso casi importati, sia moderato". A rileggere oggi la circolare numero 1997, in cui viene messa nero su bianco la necessità di raccogliere "maggiori informazioni per comprendere meglio le modalità di trasmissione e le manifestazioni cliniche di questo nuovo virus", appare evidente l'inadeguatezza del governo. Nonostante già a fine gennaio Conte sia conscio del fatto che deve "provvedere tempestivamente" a mettere in campo "iniziative di carattere straordinario" dal momento che questo tipo di emergenza, "per intensità ed estensione, non è fronteggiabile con mezzi e poteri ordinari", nessuno muove un dito per almeno tre settimane. E non è che dopo recuperano il terreno perduto. Anzi. Da un anno a questa parte non riescono a fare altro che chiudere e riaprire il Pase. In un'altalena di lockdown decisi sulla scorta di algoritmi che continuano a cambiare il Paese assiste (impassibile) al teatrino di un esecutivo incapace di invertire la curva dei decessi, di garantire a tutti il diritto alle cure, di mettere in sicurezza il Paese per evitarne la bancarotta e di legare lo Stato a un debito che difficilmente estinguerà a breve.

L'intervento del Premier e i morti dimenicati. Conte non parla dei morti per Covid per occultare il suo fallimento. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 30 Gennaio 2021.

1. 82.177: questi i decessi per coronavirus in Italia, alla vigilia delle comunicazioni alle camere svolte dal Presidente del Consiglio il 18-19 gennaio. Una cifra enorme, molto superiore alla capienza massima dello stadio di San Siro o dell’Olimpico. Incontrovertibile, diversamente da altri indicatori pandemici. Non riducibile attraverso la distinzione – vagamente eugenetica – tra morti di covid e morti anche di covid ma affetti da pregresse patologie (diremmo mai che un anziano malato, investito sulle strisce pedonali, è morto anche di incidente stradale?). Inequivoca nella sua parabola, che mostra come la seconda ondata abbia fatto più vittime della precedente (cadendo così l’alibi del Paese in prima linea e perciò più duramente colpito). Una cifra che ci colloca tra le nazioni peggiori al mondo per tasso di mortalità in rapporto alla popolazione. Eppure, di quella cifra non c’è traccia nel resoconto stenografico dell’intervento del premier alla Camera, mentre al Senato le sue uniche parole a verbale sono queste: «Tante famiglie che ci stanno guardando in questo momento stanno soffrendo per la perdita dei propri cari». Tutto qua. La rimozione è sempre spia di un problema irrisolto: qui interessa indagarne le ragioni politiche, le conseguenze e i possibili rimedi, nella convinzione – come scriveva Albert Camus ne La peste – che il numero dei morti in una pandemia è «un dato di fatto. Certo si [può] anche far finta di non vederlo, coprirsi gli occhi e negarlo, ma un dato di fatto ha una forza terribile che prima o poi ha la meglio su tutto».

2. Il silenzio del Presidente del Consiglio serve, innanzitutto, a celare un inadempimento contrattuale, in un’emergenza sanitaria durante la quale – come ha scritto Bernard-Henri Lévy – al vecchio contratto sociale è subentrato un nuovo contratto vitale, con la salute al posto della sicurezza. Un diritto alla salute che l’art. 32 della Costituzione qualifica «fondamentale» e, per questo, elevato dal governo a bene da assicurare a tutti i costi, nell’interesse del singolo e della collettività. Già questo è un abbaglio interpretativo. In Costituzione non è possibile individuare un diritto che abbia prevalenza assoluta sugli altri, perché tutti – nel loro insieme – sono espressione della dignità umana. La loro tutela deve essere pertanto «sistemica e non frazionata», come insegna la Corte costituzionale; diversamente, l’illimitata espansione di uno solo lo renderebbe “tiranno” tra i diritti della persona. Sulla base di un assunto sbagliato, quindi, è stata edificata al loro interno una «gerarchia sostanziale» (così la costituzionalista Giuditta Brunelli) che ne nega, in radice, il necessario bilanciamento in concreto. Così assolutizzato, per assicurarne credibilmente il primato la salute è stata ridimensionata a mera assenza di malattia o, ad esser più precisi, di questa specifica malattia, rinviando la prevenzione e la cura di tutte le altre a data da destinarsi. Ma se le biografie personali si riducono a cartelle cliniche, la vita biologica (e la paura di perderla) diventa giocoforza il parametro di giudizio dell’operato del governo. E poiché il dato tragico e vertiginoso dei decessi ne certifica il fallimento, non resta che occultarlo.

3. Quel dato, invece, merita centralità nel discorso pubblico anche per svelarne una seconda dimensione sottaciuta: la scelta di anteporre a tutto l’esigenza immunitaria, infatti, ha decretato le forme del commiato dalla vita biologica. Durante la pandemia – annota Donatella Di Cesare – «si muore da soli. In una solitudine diversa da quella che accompagna pur sempre gli ultimi momenti. Il virus isola già prima», costringendo per ragioni di profilassi l’esilio dal calore umano dei propri cari. Una separazione disumana, dettata da un’impropria equivalenza tra distanziamento sociale e distanziamento affettivo che genera esclusivamente dolore: quello immaginato dell’assente e quello, lacerante fino al senso di colpa, di chi lo ha forzatamente abbandonato per mai più rivederlo vivo. Così decine di migliaia di persone sono scomparse, in tutti i sensi. Il principio di massima precauzione ha ipotecato la prima ondata pandemica, consentendo alle ordinanze ministeriali di violare ciò che Michel Foucault indicava come «il punto più segreto dell’esistenza, il più “privato”», dunque inaccessibile al potere politico. Adesso, però, va pretesa dal governo la capacità di coniugare umanità e profilassi, generalizzando – ad esempio – l’esperienza avviata il 22 dicembre dalla giunta toscana: una sua delibera detta linee guida alle Asl e alle strutture socio-sanitarie affinché si dotino di protocolli che autorizzino visite di 15 minuti ai pazienti dalla prognosi infausta a breve, secondo modalità in grado di assicurare la tutela della salute di tutti i ricoverati. Non solo videochiamate su tablet o cellulari: “stanze degli abbracci” che consentano contatti mediati da teli e protezioni; supporto sanitario, psicologico e – se richiesto – spirituale; scelta riservata al malato di quali persone avere vicine nel momento del trapasso. Si può fare. Dunque si poteva già fare. Certamente andrà fatto per evitare la violazione della dignità nel morire, che si consuma ogni qual volta è imposta un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che possa ritenersi la sola ragionevole e praticabile: è questa – in ultima istanza – la risposta data dai giudici costituzionali agli interrogativi posti dal “caso Cappato” (sent. n. 242/2019). È bastata la disposizione di un dpcm a farne tabula rasa.

4. Diversamente da Enea, dunque, siamo stati obbligati ad abbandonare Anchise, invece di caricarcelo sulle spalle. Peggio ancora: diversamente da Antigone, abbiamo anche obbedito all’ordine di non dare degna sepoltura al corpo di Polinice. Nel tempo della pandemia, infatti, la tumulazione si è risolta «in un gesto di impazienza profilattica» (Bernard-Henri Levy), all’insegna della massima rapidità e della minimizzazione dei rischi. Anche qui, il potere di ordinanza ministeriale ha stretto a lungo la sua presa: dapprima sospendendo le cerimonie funebri, sostituite da anonime e solitarie cremazioni dei cadaveri di morti per covid; poi consentendole «con l’esclusiva partecipazione di congiunti» in numero non superiore a 15 (d.P.C.M. del 26 aprile 2020), arrivando così all’inedito di un governo che dispone – per tutti, e sempre – la priorità dei legami di sangue su ogni altra relazione affettiva (forse che la carica virale di un congiunto è minore o nulla rispetto a quella di un amico?). Oggi, indipendentemente dal colore della zona (gialla, arancione, rossa), è ovunque consentito partecipare a tumulazioni e sepolture, nel rispetto del distanziamento interpersonale e del divieto di ogni assembramento. Ma fino a ieri, «in nome di un rischio che non era possibile precisare» (Giorgio Agamben), abbiamo accettato l’inaudito antropologico: privare i morti di un rito funebre, religioso o laico che sia, negando ai familiari il conforto della propria comunità, prodromo al lavoro faticoso e graduale di elaborazione del lutto. In ciò trova rispecchiamento l’atteggiamento preferito dalla politica verso i temi del fine-vita: non occuparsene e, se possibile, cancellarli.

5. Riassumendo: nel pandemonio della pandemia non è stato possibile scegliere come morire e con chi farlo: reticente sul numero dei decessi per covid, il Presidente del Consiglio rimuove l’accaduto. L’oblio artificiale che ne deriva non è, però, a costo zero. Come racconta Camus ne La peste, un lutto incompiuto rende «insofferenti al presente, nemici del passato e privi di futuro»: i morti trattengono i vivi in una condizione rancorosa che spinge alla ricerca di un responsabile tra i soggetti investiti di potere. Servirebbe uno sforzo comune di rielaborazione: non tacere l’accaduto, semmai farne memoria collettiva. Lo ha chiesto il Capo dello Stato – era il 28 giugno – commemorando i morti di covid a Bergamo. Gli ha fatto eco la Camera approvando, il 23 luglio, la proposta di legge per l’«Istituzione di una Giornata nazionale in memoria delle vittime dell’epidemia da coronavirus», ora all’esame del Senato. Frequente, nei lavori parlamentari, è il richiamo alla necessità di conservare e rinnovare il ricordo dei troppi decessi e – tragedia nella tragedia – delle vittime morte in solitudine o private di degna sepoltura. La data simbolo prescelta, il 18 marzo, rammenta la notte dello spettrale corteo di mezzi militari carichi di bare in sovrannumero, trasportate da Bergamo verso i forni crematori di altre città. È stato il giorno con il più alto numero di morti su scala nazionale: 2.978. Ma quelle immagini ormai indelebili raccontano anche «di un diritto negato: il rito collettivo del commiato» (Donatella Di Cesare).

6. Commemorare, tuttavia, non basta: la ritualizzazione comandata per legge rischia sempre – negli anni – una solidarietà fabbricata in serie, buona solo a salvare le apparenze. La memoria va storicizzata, riflettendo a fondo sulle carenze e gli errori commessi, per non ripeterli alla prossima emergenza sanitaria. Nelle sue comunicazioni, il Presidente del Consiglio ha rivendicato la scelta «tutta politica» di tutelare in via prioritaria la salute, individuale e collettiva, anche al fine di preservare il tessuto produttivo del Paese. Ciò che va indagato, però, è il come si è tentato di centrare l’obiettivo. Anche qui, tutte politiche sono state le scelte di non esercitare la competenza esclusiva statale in materia di profilassi internazionale (art. 117, comma 1, lett. q, Cost.), né i poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali (art. 120, comma 2, Cost.), preferendo una – caotica e atomizzata – cogestione tra tutti i livelli di governo, diluendo così la responsabilità per quanto non fatto o mal fatto. Tutta politica è stata anche la scelta di accantonare le camere e la collegialità dell’esecutivo a favore di un potere normativo d’ordinanza, sottratto ai controlli del Quirinale e della Corte costituzionale. «La memoria ci carica di responsabilità», ha detto il Capo dello Stato. Responsabilità che andranno accertate, quando il virus incoronato avrà finalmente abdicato, istituendo una commissione d’inchiesta bicamerale su quanto compiuto per contrastare la pandemia e le sue ondate virali. In Francia lo si è già fatto. Commissioni d’inchiesta simili sono state istituite in Liguria, Lombardia, Veneto (mentre Emilia-Romagna e Piemonte hanno deliberato in senso contrario). Alla Camera giacciono due disegni di legge (nn. 2497 e 2453) così orientati. Nel difendere «a testa alta» l’operato del governo, il premier ha rivendicato lo scrupolo e la consapevolezza delle difficili scelte fatte. Ma la responsabilità politica non guarda alle intenzioni dei titolari di potere: ne giudica l’esercizio in concreto e, soprattutto, i risultati complessivi. La circostanza che, proprio in questi giorni, il governo in carica sia già finito in discarica non fa venir meno il «pubblico interesse» (art. 82, comma 1) che la Costituzione richiede per le materie su cui il Parlamento può disporre inchieste. Farlo, sarebbe il modo migliore per non dimenticare.

·        Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

Da iltempo.it il 21 dicembre 2021. Ci mancava la hit natalizia dei virologi. Myrta Merlino, durante l'"Aria che tira" su La7 mostra il video della canzoncina pro-vax cantata da Bassetti & Co. e l'infettivologo Massimo Galli deve faticare parecchio per nascondere il suo imbarazzo. "Il tempo è poco e vale la pena usarlo per le cose serie - attacca Galli che ha una faccia che è tutto un programma durante la visione della clip - sono basito, ma anche divertito. I colleghi hanno avuto spirito e hanno tentato anche in questo modo di convincere la gente a vaccinarsi. Non so quanto ci si possa riuscire così". 

Dagospia il 21 dicembre 2021. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. Il 'trio virologi' accetta l'invito di Un Giorno da Pecora Rai Radio1 e canta per i vaccini. Tre tra i più noti virologi italiani in versione cantanti per spingere tutti a vaccinarsi, anche sotto le feste. Il 'trio virologi' in questione è quello formato da Andrea Crisanti, Matteo Bassetti e Fabrizio Pregliasco, i quali hanno accettato l'invito di Un Giorno da Pecora, la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, ad interpretare il classico natalizio 'Jingle Bells' in versione 'pro vax'. Il risultato è il divertente brano 'Si si vax', di cui si può leggere di seguito il testo e vedere il video a questo link

Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci 

se tranquillo vuoi stare i nonni non baciare 

Sì sì sì sì sì sì vax vacciniamoci 

Il covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu 

Se vuoi andare al bar felice a festeggiar 

Le dosi devi far

Per fare un buon Natal 

Mangia il panettone 

Vai a fare l'iniezione 

Proteggi gli altri oltre a proteggere anche te 

Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci 

Con la terza dose tu avrai feste gioiose 

Sì sì sì sì sì sì vax vacciniamoci

Il covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu 

Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci

Per il calo dei contagi dosi anche i remagi 

Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci 

Il covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu

Bassetti, Crisanti e Pregliasco? La vanità dei virologi canterini dà argomenti ai loro nemici. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 21 dicembre 2021. Sanremo, diciamolo, al confronto, è roba da dilettanti. «Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci/Per il calo dei contagi, dosi anche ai re magi/Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci/ il Covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu...». Di Lauro-Pagnani-Di Bona, ecco a voi Sì, sì, sì Vax. Canta: il Trio Virologi. Applausi, nelle stroboscopiche notti natalizie che nessun virus potrà mai offuscare. I Tre tenores, i Tre amigos, i Magnifici tre (Walter Chiari, Raimondo Vianello in sombrero, e Ugo Tognazzi con gli occhi storti nel film omonimo del '61); ma pure il trio Lescano, e anche, perfino, un po' I Gemelli di Guidonia senza trucco o le Sorelle bandiera senza parrucco. Molti allegri spettri del passato ci richiama, oggi, la stupefacente - anche nel senso farmacologico del termine - esibizione canora di cui sopra, ad opera dei nostri tre scienziati preferiti, Andrea Crisanti, Matteo Bassetti e Fabrizio Pregliasco sulle note di Jingle Bells a Un giorno da pecora. Ieri, sintonizzato sul programma di Raiuno ero piantato, in attesa, sotto un semaforo; e mentre mi sbellicavo nell'abitacolo come un cretino, osservavo il mio vicino di sosta che si perdeva nella mia stessa identica risata, evocata dalla stesse frequenze radiofoniche. Pure lui, il vicino, seguiva il "Trio Virologi" addirittura dallo smartphone; e, nel video, osservava gli insigni prof ricoperti da finto nevischio digitale che proseguivano nella performance. «Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci/se tranquillo vuoi stare i nonni non baciare/Sì sì sì sì sì sì vax vacciniamoci/il covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu», intonava Pregliasco tenendo il ritmo con una bacchetta, o forse era un tampone.

«Se vuoi andare al bar felice a festeggiar/Le dosi devi far/Per fare un buon Natal/Mangia il panettone/Vai a fare l'iniezione», seguitava Bassetti. «Sì sì sì sì sì vax vacciniamoci/Con la terza dose tu avrai feste gioiose» chiosava Crisanti il quale, di solito ha l'aria smunta di uno che si è appena accorto che gli è scaduta la patente; ma qui, diamine, era visibilmente orgoglioso. Ecco. I conduttori di Un Giorno da pecora, il simpatico Giorgio Lauro e la simpatica Geppy Cucciari per questa cover apparecchiata dalla loro Orchestrina mostravano gli occhi liquidi - e non era, vi assicuro, per la commozione - e la scena dei nostri tre medici, fari nella pandemia, che si esibivano come all'Ariston, be' m'insufflava sensazioni diverse e contrastanti. Da un lato emergeva l'idea di una grande operazione di marketing informativo: una sorta di beneficenza vaccinatoria prodotta dall'inedito terzetto in modalità Usa for Africa, roba tipo We Are The World. 

Infatti, onestamente sono rimasto un po' deluso che, dalle quinte, armato di cuffie e microfono, non fosse sbucato il professor Galli in gridolini e outfit alla Michael Jackson. Comunque il loro intento, encomiabile, era quello di divertire spingendo più ascoltatori possibili alla vaccinazione. Dall'altro lato, invece, si faceva largo l'idea che uno spettacolo del genere - virologi free stile - potesse fornire abbondante materiale per la propaganda No Vax. Insomma, un po' come se Draghi si lasciasse convincere a cantare l'elogio del Pnnr sullo spartito di Daje de tacco/ daje de punta ma quant'è bona la sora Assunta (e non dubito che Lauro & Cucciari, a questo punto, non possano convincere il premier alla deriva canora). Alla richiesta di esibirsi, mi dicono che le reazioni dei Tre Virologi siano state diverse a seconda del carattere. «Ok lo faccio» ha detto Pregliasco. «Ok lo faccio, ma suggerisco io i testi» ha risposto Bassetti. «Oddio che vergogna, ma lo faccio» chiudeva Crisanti. Devo ancora capire se deprimermi, o se applaudire...

Aldo Grasso per corriere.it il 21 dicembre 2021. Mentre la variante Omicron avanza con la tracotanza di chi vuole rigettarci ancora nell’angoscia, i virologi (o quel che sono: epidemiologi? O infettivologi? ) Andrea Crisanti, Matteo Bassetti e Fabrizio Pregliasco si sono trasformati in canterini e si sono esibiti in un’interpretazione sui generis sulle note di Jingle Bells per «Un giorno da pecora» su Rai Radio1: «Sì sì sì vax vacciniamoci - Se tranquillo vuoi stare i nonni non baciare - Il Covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu - Se vuoi andare al bar -felice a festeggiar - le dosi devi far - per fare un buon Natal». Dicono, i tre tenori, che l’hanno fatto per alleggerire la tensione, per dire cose molto serie in modo simpatico (Bassetti), per portare una nota d’allegria in tanta tristezza.

Star televisive

La realtà è che ormai si comportano come star televisive, basterebbe calcolare il tempo che passano sotto i riflettori. A fin di bene, dicono loro, per portare una parola di competenza, e nessuno lo mette in dubbio, ma la tv ha le sue leggi e si fa presto a passare da spettatori a spettacolo. Nonostante l’aria burbera (Crisanti e Bassetti), nonostante l’aria dimessa (Pregliasco), i tre sono diventati degli inguaribili narcisisti, pronti a sguainare le spade nei talk show, a dire la loro su tutto. Corteggiati dai conduttori, non fa certo loro difetto la disponibilità alla pubblica scena (quando mai capiterà loro un’altra occasione così?). 

Riso amaro

Ridiamo della canzoncina, ma è un riso amaro perché ogni volta che i più esposti fra i virologi (o quel che sono: epidemiologi? O infettivologi?) si esibiscono alla radio o in tv capiamo quanto scarsa sia la comprensione del loro ruolo e del momento difficile che stiamo attraversando. Fanno la stessa impressione di quando i preti imbracciano la chitarra e cominciano a salmodiare rincorrendo i «tempi moderni». In ospedale, con un camice bianco, meritano tutto il nostro rispetto; in video, in versione Sorelle Bandiera, sono solo una triste parodia. Dalla tragedia alla farsa il passo è breve. 

Mattia Feltri per "la Stampa" il 22 dicembre 2021. Ho tenuto duro fino alle sei di sera, perché sapevo come sarebbe andata a finire. Poi ho ceduto, ho guardato anche io il video del giorno e infatti, accidenti, eccomi qui a scriverne. Parlo del video in cui i tre tenori Matteo Bassetti, Andrea Crisanti e Fabrizio Pregliasco passano dalla provetta al provino e reinterpretano Jingle Bells per un Giorno da pecora («Sì sì sì / sì sì vax / vacciniamoci / Se vuoi andare al bar / felice a festeggiar / le dosi devi far / per fare un buon Natal»). Mi è venuto in mente Ennio Flaiano, non quello della situazione grave ma non seria, un Ennio Flaiano molto più alto e profetico: gli scienziati, stanchi dell'infinitamente piccolo e dell'infinitamente grande, si dedicheranno all'infinitamente medio. Ma non voglio prenderli in giro, in fondo sono gli ultimi arrivati sull'ubriacante giostra della fama, ci siamo già saliti noi giornalisti, i parlamentari, pure i magistrati (i miei preferiti sono gli esperti militari che per tornare in diretta tv devono aspettare la prossima guerra). Ciascuno ebbro di sé, felice di avere abbandonato un ruolo e un'incombenza per rivestire quello della star, con l'irresistibile effetto collaterale di essere riconosciuti al ristorante. Si entra dritti in un copione, si recita per il pubblico, per eccitare i tifosi ed essere incitati, vale per tutti e tutto è buono, pure una pandemia da cinque milioni e mezzo di morti nel mondo. Ognuno di noi è già un portatore sano di ridicolo, bisognerebbe almeno evitare di sguazzarci dentro con lo champagne in mano e la trombetta in bocca. In fondo - citazione - il successo non cambia l'uomo, lo smaschera.

Da lastampa.it il 23 dicembre 2021. Non è piaciuta a tutti la canzone «Sì, sì vax», interpretata dal trio Andrea Crisanti, Matteo Bassetti e Fabrizio Pregliasco a Un giorno da pecora. su Radio uno Rai. Sulla musica di Jingle bells, i tre scienziati, non particolarmente intonati, hanno interpretato il testo che dice, fra l'altro: «Sì sì sì sì sì sì vax vacciniamoci. Il Covid non ci sarà più se ci aiuti anche tu». Ma su Twitter il video con la performance è finito in tendenza soprattutto per chi protesta. «Questo è il livello degli esperti», «Mi è venuta voglia immediata di una dose. Quella sbagliata». «Non volevo crederci. Vorrei non averli mai visti». Tra chi non ha gradito c’è anche Ultimo, che sui social ha attaccato il trio: «Tornate negli ospedali a fare il vostro lavoro. Smettetela di andare in tv a fare i pagliacci e le star». Nella storia pubblicata sul suo profilo Instagram, Ultimo ha pubblicato uno screen del video incriminato criticando Crisanti, Bassetti e Pregliasco: «Lasciate che a cantare e a tornare sul palco siano i cantanti siano tutti quelli che lavorano con noi. Sono due anni che molti di noi non possono fare il proprio mestiere». Ma gli scienziati cantanti tirano dritto. «Dalla quantità di insulti e di odiatori scatenati credo sia stata una buona iniziativa. L'Italia è piena di gente che di mestiere è abituata ad odiare e invidiare. Il termometro di quanto sia stata buona un'iniziativa viene dato da quanta gente scrive 'contro'. Credo che il mio social media manager abbia bannato qualcosa come 1500 o 2000 persone, anche se ci sono stati anche tanti commenti positivi». Lo racconta a Un giorno da pecora, su Rai Radio1, Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive dell'Ospedale S. Martino di Genova. Sulla canzone Bassetti aggiunge: «Prima cosa mi ha fatto piacere stare insieme a due colleghi, e poi prima che medici siamo padri, figli e nipoti, ed è giusto dare dei messaggi che possono arrivare attraverso la scienza e anche attraverso questo mezzo». «Sulla canzoncina penso questo: sono stato invitato a partecipare a un livello di comunicazione diverso. In modo particolare, si volevano coinvolgere anche i bambini sul tema del vaccino anti-Covid e non è che si potevano fargli vedere i morti o immagini forti come le bare di Bergamo. Come si mettono pupazzi e palloni colorati negli hub vaccinali dei più piccoli, è chiaro che questo era un livello di comunicazione completamente diverso. E poi posso dire una cosa? Io odio cantare, quindi non l'ho fatto sicuramente per esibizione perché nei miei peggior incubi c'è proprio il canto. Nasceva come una cosa scherzosa per i bambini. È evidente», spiega il virologo Andrea Crisanti. «Il problema è che in Italia siamo pieni di bacchettoni e ipocriti - replica Crisanti - Se qualcuno pensa che questa cosa era fuori posto perché è Natale o perché c'è il Covid, allora che dobbiamo pensare di tutti quelli che sperano che le misure di restrizione arrivino dopo le feste, ben sapendo che le feste sono un’occasione di contagio e creeranno un eccesso di mortalità? È ipocrita, no?». Il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'università di Padova spiega di non essersela presa e di aver anche sorriso per alcuni commenti. Ma tiene a precisare: «Tutto va contestualizzato».

Da corriere.it il 22 dicembre 2021. Il duo inedito Fabrizio Pregliasco - Jerry Calà intona la hit di Natale, Myrta Merlino: "Se fate una serata voi due insieme io mi faccio tamponi per tre giorni di fila pur di venire

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 22 dicembre 2021.

Dei tre Re Mogi in camice bianco che stonano la canzoncina natalizia «Sì sì vax», l'imbucato è chiaramente il professor Crisanti. Dagli altri due, gli istrionici Pregliasco e Bassetti, ce lo si poteva aspettare, anche se avrebbero fatto meglio a intervenire un po' sul testo, che sembra scritto da un Cacciari in vena di sfottò: «Se vuoi andare al bar - felice a festeggiar - le dosi devi far» potrebbe essere fischiettato senza rischi in Corea del Nord, dove per legge in questi giorni è vietato ridere. Nessun comico, poi, canterebbe «mangia il panettone e vai a fare l'iniezione», nemmeno sotto tortura. Ecco, forse Crisanti è stato rapito e torturato. Il suo sguardo perso nel vuoto trasuda un imbarazzo di cui ci rende partecipi. Magari gli ideatori hanno pensato che creasse un effetto ipnotico tale da indurre anche il più accanito no vax a offrire il braccio alla patria. Ma allora lo spietato Galli sarebbe risultato più credibile dell'impacciato Crisanti, il quale scatena la stessa reazione di un Draghi che si candidasse al Quirinale cantando «Su di noi» di Pupo. Riguardando il video con attenzione, sembra di scorgervi in controluce un fumetto che esce dalla sua bocca: «Che ci faccio io qui?». Un equivoco, un ricatto, una scommessa persa al gioco dei quattro tamponi: non lo sapremo mai. Una sola cosa è certa: i medici hanno l'obbligo di vaccinarsi, mentre il prestarsi a certe figure di palta rimane facoltativo.

Due giganti e tanti divi tv, ecco il vero voto dei virologi star. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 25 ottobre 2021. Gli esperti italiani più autorevoli nel dibattito scientifico mondiale? Sono quelli che si vedono meno in televisione. Mentre i volti ormai diventati familiari per le ripetute apparizioni nei talk sono considerati, dalla comunità scientifica, assai meno influenti. È quanto svela l’H-Index, il parametro elaborato dal database Scopus che classifica i vari scienziati in base alle pubblicazioni effettuate e a quante volte le stesse pubblicazioni sono citate in altri lavori. Una graduatoria che "Il Tempo" aveva già segnalato alcuni mesi fa e che oggi, con i dati aggiornati, non riserva molte sorprese. I vari Roberto Burioni, Fabrizio Pregliasco o Silvio Brusaferro - magari proprio perché perennemente «arruolati» in televisione - continuano a non produrre opere di particolare peso scientifico. Premessa doverosa: come ogni parametro, anche l’H-Index va maneggiato con cautela. Non è necessariamente detto che un esperto con un parametro basso in questa classificazione sia un cattivo medico o un millantatore. Tutti i dati vanno contestualizzati, altrimenti non si spiegherebbe perché scienziati che hanno avuto un impatto enorme nella storia dell’umanità - si citi il caso di Enrico Fermi, con un H-Index pari ad appena 28 - siano collocati in basso nella graduatoria. Magari in passato si pubblicava e si citava di meno. O magari le opere accessibili gratuitamente sono destinate ad avere un impatto maggiore rispetto a quelle disponibili a pagamento. Come che sia, l’H-Index resta un parametro interessante. E a confermare la sua autorevolezza c’è un aspetto non secondario: il fatto che ai vertici, con il ragguardevole punteggio di 180, ci sia quell’Anthony Fauci giustamente considerato come il riferimento della virologia mondiale. E allora, consapevoli di tutti i limiti di una simile graduatoria, vale la pena di dare uno sguardo agli italiani. Per scoprire, come detto, che quelli ai vertici dell’autorevolezza scientifica sono coloro che meno si vedono in tv. A partire da Alberto Mantovani, immunologo e patologo con un rilevantissimo curriculum internazionale e un H-Index appena inferiore a quello di Fauci: 175. Risultati considerevoli sono poi quelli raccolti da Giuseppe Remuzzi, direttore scientifico dell’Istituto Mario Negri (169), e Franco Locatelli, coordinatore dell’ormai famoso Comitato tecnico scientifico, che arriva a 108. Quelli citati sono gli unici a raggiungere un punteggio a tre cifre. Gli altri si barcamenano con risultati meno brillanti. E, paradossalmente, la loro notorietà in tempi di pandemia sembra essere inversamente proporzionale all’H-Index. Giovanni Rezza dell’Iss si ferma a 64. Poi c’è il gruppone di esperti impegnati spesso a battibeccare tra di loro e a contraddirsi sulle strategie di contrasto al virus, specie nei primi mesi di pandemia: si tratta di Andrea Crisanti, Alberto Zangrillo, Matteo Bassetti e Massimo Galli, tutti racchiusi tra i 62 e i 60 punti. Dopo l’immunologo Sergio Abrignani (58) c’è un altro gruppone di esperti che, in quanto a pubblicazioni e citazioni, non hanno lasciato tracce indelebili nel dibattito scientifico. Si tratta di Ilaria Capua (52), Walter Ricciardi (48), Pier Luigi Lopalco (37) e Roberto Burioni (28). Chiudono mestamente la fila Maria Rita Gismondo (26), il portavoce del Cts Silvio Brusaferro (25) e Fabrizio Pregliasco (18). È evidente che a rendere interessante una simile classificazione è stata soprattutto la proliferazione di esperti in tv fin dall’arrivo del Covid in Italia. Un fenomeno prettamente nostrano che, come «effetto avverso», ha prodotto scontri, fiere della vanità e conseguentemente disorientamento nella popolazione. Che, ansiosa di sapere la verità su un virus sconosciuto, ne ha ricavato solo indicazioni contrastanti. Le mascherine? Non servono, anzi sì. Gli asintomatici? Non contagiano, però forse sì, anzi sicuramente. Tutti i vaccini sono uguali, ma probabilmente quelli a mRna sono meglio. Anzi, quelli a vettore virale meglio non usarli più. Sarebbe stato più utile, va ribadito, avere una sola voce autorevole e, in alcuni casi più prudenti. Un Fauci, magari. E gli altri ad ascoltare.

Covid, Trizzino e i virologi in tv: "Devono essere autorizzati, serve un freno: sono ovunque. Così si creano danni ai cittadini". Valeria Forgnone su La Repubblica il 23 settembre 2021. Il deputato ex 5S ora al Gruppo misto e medico ha presentato un odg (accolto dal governo) per limitare la presenza degli esperti in trasmissioni televisive e sui giornali con il permesso della struttura in cui lavorano. "Ero consapevole di scatenare una reazione così scomposta di molti professionisti, miei colleghi". Lo ammette senza problemi, il deputato Giorgio Trizzino, ex 5S, passato al Gruppo misto a marzo scorso. Politico ma anche medico: igienista ex direttore sanitario dell'ospedale Civico di Palermo e di quello pediatrico. È suo l'odg della discordia al Dl Green Pass bis, accolto dal governo, che chiede che virologi, immunologi, infettivologi in tv, alla radio o intervistati dai giornali parlino solo se autorizzati dalla struttura di appartenenza.

«Virologi in tv solo se autorizzati», il governo accoglie l’ordine del giorno. Bassetti: «No al bavaglio ai medici sui media». Andreoni: «Preistoria». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2021. La richiesta dell’ex 5 Stelle Trizzino: «Stop allo strombazzamento mediatico». La replica dei virologi: «Non dobbiamo chiedere l’autorizzazione a nessuno, piuttosto si regoli l’informazione veicolata da politici che parlano di Covid senza saperne niente». Dovrà essere la struttura sanitaria ad autorizzare medici ed esperti a parlare dell’emergenza sanitaria in corso: lo prevede un ordine del giorno di Giorgio Trizzino (Gruppo misto) al dl green pass, accolto dal governo, e che sta già sollevando un polverone. I virologi non ci stanno: «Non si può mettere un bavaglio a medici e professori che parlano sui media di come evolve una malattia infettiva perché fino a prova contraria siamo in uno Stato democratico. Limitare la libertà di parlare sarebbe gravissimo, scandaloso, questo è fascismo. Sarebbe una norma che rasenta la stupidità, il ridicolo», dice Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova. «L’attacco ai professionisti sanitari che parlano con i media è incomprensibile e inconcludente», aggiunge il virologo Fabrizio Pregliasco. «Un’uscita peregrina», interviene anche Massimo Galli, primario dell’ospedale Sacco di Milano, aggiungendo: «Fa specie che un professionista abbia da subire una censura preventiva nell’esprimere un’opinione o su una spiegazione tecnica sul Covid. Questo è un bavaglio». «Io, se invitato, vado in televisione o in radio a parlare di quello che conosco e se devo chiedere l’autorizzazione alla mia struttura lo faccio», aggiunge Massimo Andreoni, primario di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma. «Pensare di mettere dei vincoli alla voce della scienza o di limitarla è preistoria».

L’ordine del giorno. Ma andiamo per ordine. Innanzitutto un ordine del giorno non è una prescrizione di legge, ma è un’indicazione che, se accolta, come in questo caso, impegna il governo a lavorare in quella direzione, eventualmente prendendo dei provvedimenti. Il governo dunque si è impegnato ad intervenire, per quanto di competenza, «affinché l’esercente la professione sanitaria dipendente di una struttura pubblica o privata, siano esse convenzionate o accreditate, nonché i dipendenti e i collaboratori, gli organismi ed enti di diretta collaborazione con il Ministero della salute possano fornire informazioni relative alle disposizioni concernenti la gestione dell’emergenza sanitaria in corso, tramite qualunque mezzo di comunicazione, previa esplicita autorizzazione della propria struttura sanitaria, da fornire all’inizio della partecipazione pubblica sia essa televisiva, radiofonica, per mezzo stampa, o con qualunque altro sistema di comunicazione al fine di evitare di diffondere notizie o informazioni lesive per il Sistema Sanitario Nazionale e di conseguenza per la salute dei cittadini». Qual è la ratio? Trizzino, medico siciliano ed ex 5 Stelle, la spiega: «Questo strombazzamento mediatico costruito spesso per la ricerca della ribalta e della notorietà è responsabile di un numero imprecisato di vittime. Credo che non si sia posta la necessaria attenzione al fenomeno e che adesso si debba porre un freno a questa vergogna».

I limiti. Ma un conto è limitare la spettacolarizzazione degli aspetti scientifici, spesso «trattati come news, notizie di cronaca», come ammette lo stesso Pregliasco, altro è censurare i medici: «L’infodemia è stata parallela alla pandemia perché in uno Stato democratico le informazioni non sono controllabili in termini di censura», spiega Pregliasco, che propone, «più che l’autorizzazione delle aziende sanitarie di appartenenza, la necessità di una Carta che contenga modalità e principi per la divulgazione di notizie scientifiche». Anche perché non sempre l’azienda sanitaria per cui si lavora ha il polso della situazione: Galli ricorda che solo pochi mesi fa, dopo aver dichiarato che l’ospedale in cui lavora era pieno di pazienti con variante Beta (l’inglese) venne prontamente smentito dalla sua struttura ospedaliera. «Che a sua volta - sottolinea - fu smentita dai fatti due o tre giorni dopo, perché le corsie erano piene di malati di Beta». Adesso, quindi, cosa succederà? Tutti zitti in tv? «Personalmente, dico che sono un professore universitario e per dire cosa penso in tv non devo chiedere l’autorizzazione a nessuno se parlo della mia materia -dice Bassetti - quella di Trizzino è una proposta liberticida. Magari invece si faccia una proposta di legge per i politici che vanno a parlare in televisione di Covid e medicina senza saperne niente, si stabilisca che dovrebbero studiare prima di parlare. Non ci limiteranno, continueremo a spiegare questa malattia». Anche il direttore dell’Inmi Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, ritiene «giusto che ci sia una pluralità di voci sui media», perché «i cittadini sanno orientarsi, e che si ascoltino con correttezza anche le persone che la pensano diversamente da noi. La scienza però deve essere autonoma e indipendente per poter fare bene il proprio lavoro e farci uscire dall’emergenza», precisa Vaia. La presenza dei virologi in tv, con le loro opinioni a volte contrastanti, era già stata al centro dell’attenzione qualche mese fa. Galli ha anche preso un periodo di pausa dalla tv per evitare la confusione causata dal «troppo apparire».

Ruggiero Corcella per corriere.it il 24 settembre 2021.

Professoressa Viola siete di nuovo finiti sulla graticola?

«Sì e non si capisce il motivo francamente. Non mi sembra che questo sia il problema che deve affrontare il Paese in questo momento, quello di preoccuparsi della libertà di espressione del mondo scientifico, no? Il momento proprio non si riesce a comprendere, anche perché siamo abbastanza in una buona situazione, fuori dall’emergenza, la campagna di vaccinazione sta andando molto bene. Per cui è strana questa posizione in questo momento».

Antonella Viola, ordinario di Patologia generale presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e direttrice scientifica dell’Istituto di Ricerca Pediatrica (IRP - Città della Speranza), è uno dei volti - e dei sorrisi - più noti tra gli esperti che hanno accompagnato gli italiani in questi diciotto mesi di pandemia. 

Cerchiamo di capire meglio: nel vostro ambiente di lavoro esistono «regole di ingaggio» per quanto riguarda il parlare con il pubblico o con la stampa?

«Io sono una biologa quindi al limite per me il problema è l’università. Sono un ordinario di Patologia alla scuola di Medicina di Padova. C’è la massima libertà, siamo degli accademici, facciamo ricerca, facciamo della libertà il nostro vessillo, quindi non c’è nessuna regola di ingaggio. Siamo liberi di esprimerci, liberi di parlare. Naturalmente se mi mettessi a insultare il ministro della Salute Roberto Speranza in televisione ne risponderei io personalmente, non l’università. Penso a me e ad Andrea Crisanti: siamo colleghi ordinari qui alla scuola di Medicina di Padova e nessuno ci ha mai detto cosa si può o non si può dire. Abbiamo avuto anche dei modi diversi di comunicare, non cose diverse nella sostanza: lui ha parlato di più anche dell’operato della Regione, si è scontrato di più con il governatore Luca Zaia, è stato polemico. Io ho sempre evitato questi argomenti, ma nessuno è mai venuto a dire né a me né immagino ad Andrea quello che si può e quello che non si può dire». 

In questi diciotto mesi però, la polemica sulla «spettacolarizzazione» degli aspetti scientifici è emersa più volte: momenti sbagliati anche quelli?

«Sì, però credo che qui ci sia anche da fare un altro discorso. Come in tutti i tipi di mestieri, anche nel nostro c’è la persona che ha sensibilità, eleganza, gusto e quella che invece cerca la visibilità e lo fa magari esagerando. Ci sono cioè dei colleghi che hanno detto stupidaggini all’inizio, e gravi, stupidaggini pesanti: il Covid è una banale influenza; il virus è clinicamente morto. Ma i mezzi di comunicazione? Dovrebbe esserci una selezione della credibilità di una persona sulla base delle affermazioni che sono state fatte. Purtroppo questo non è successo. I giornali invece di andare a scegliere chi nel tempo ha dato sempre delle informazioni credibili, ha avuto delle posizioni equilibrate, le cui affermazioni si sono dimostrate poi nei fatti, ha cercato continuamente lo scontro e appunto lo spettacolo. Questo è il vero problema: non si è fatta informazione, si è fatto spettacolo. Ovviamente ci sono delle testate, dei programmi che hanno scelto tra gli scienziati che sono stati più affidabili, che hanno sbagliato di meno, meno polemici e meno litigiosi. Ma in generale, si è preferito lo spettacolo». 

Il confronto è comunque importante: si è forse fatta confusione invece tra i diversi contesti nel quale deve svolgersi?

«Qui ci sono due temi: uno è il confronto scientifico nel senso proprio di scienza. Il confronto scientifico nei termini di scienza certamente lo dobbiamo fare tra di noi e lo dobbiamo fare nel nostro ambiente. Però questo nella prima parte della pandemia non è stato possibile, perché appunto ci veniva richiesto di commentare quello che accadeva lì, in diretta. Quindi non c’è stato molto tempo. Certo qualcuno di noi lo ha fatto. Io per esempio non sono mai andata a parlare, soprattutto nei primi periodi, della pandemia senza prima confrontarmi con quattro o cinque persone che stimo e con le quali condividevamo un percorso. Quindi c’è stato almeno da parte di alcuni noi, almeno parte mia senz’altro, questo tipo di atteggiamento. Oggi però spesso le posizioni diverse non sono scientifiche, sono più di interpretazione delle regole, di gestione sociale politica della post- emergenza che stiamo vivendo in questo momento. Quindi sono opinioni. Questa forse è la cosa più difficile da far capire alle persone. C’è una differenza quando Antonella Viola parla di efficienza dei vaccini, sicurezza dei vaccini, memoria immunologica: queste non sono opinioni perché sta parlando una scienziata che si occupa di questo da tutta la vita e rappresenta la scienza. Quando Antonella Viola dice: il green pass per me è giusto, o dice forse l’obbligo vaccinale sarebbe addirittura meglio, o dice secondo me possiamo gestire la scuola in maniera diversa, questa è una mia opinione personale». 

Tenere separate le opinioni dai fatti, però, non dovrebbe essere il “faro”, soltanto dei giornalisti: non pensa?

«Certo ma è ovvio che nel momento in cui siamo chiamati a parlare di gestione della pandemia e non solo del dato scientifico ci prestiamo anche noi a dare le nostre opinioni. All’inizio della pandemia mi rifiutavo di fare l’opinionista. Dicevo no, io sono una scienziata, devo dire solo le cose assolutamente vere, dimostrate e provate. Poi mi sono trovata a vedere che in queste trasmissioni o sui giornali chiunque parlava di scienza: c’erano il filosofo, l’economista e il professore di storia dell’arte. Chiunque si sentiva in grado di discutere di qualunque argomento tranne noi scienziati che invece saremmo dovuti restare in questo nostro angolino a guardare solo i numeri. A quel punto mi sono resa conto che forse era arrivato il momento di fare anche un cambio di passo e di dire: forse servono anche le opinioni degli scienziati sulla società perché tutto sommato anche noi siamo parte di questa società, siamo persone di intelligenza medio alta, si suppone, e abbiamo una visione del mondo che finora non è stata portata nel mondo perché siamo sempre stati chiusi a guardare i nostri numeri. Quello è stato il cambiamento dal mio punto di vista. È ovvio però che è diverso nel senso che Antonella Viola quando parla di vaccini sa di non poter essere contraddetta, cioè io non accetto il contraddittorio sulla scienza, non parlo con un no-vax che mi dice stupidaggini. È ovvio che quando Antonella Viola parla delle sue opinioni appunto posso essere tranquillamente contestata, perché la mia opinione vale tanto quanto quella dell’economista, del giurista e così via». 

Come andrà a finire questa storia?

«È fuori tempo, fuori contesto, ma poi in un paese come l’Italia in cui c’è libertà di espressione veramente sembra una posizione inaccettabile».

Dagospia il 24 settembre 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Vorrei glossare la bella intervista apparsa sul “Corriere della Sera” ad Antonella Viola sul tema della iper-esposizione mediatica dei virologi (alla quale la Viola non intende rinunciare) con alcune osservazioni, visto che parla anche di giornalisti, storici dell’arte, economisti ecc. 

1) “Io sono una biologa quindi al limite per me il problema è l’università”: Antonella Viola è una patologa, quindi non è del raggruppamento disciplinare di virologia. Quando parla di virus la sua non è certo l’opinione del garagista, ma ci sono specialisti più iperspecialisti di lei.

2) “C’è la massima libertà, siamo degli accademici, facciamo ricerca, facciamo della libertà il nostro vessillo, quindi non c’è nessuna regola di ingaggio (da rispettare ndr”). A parte che i concorsi universitari dimostrano come la “libertà” sia assai compromessa dalla cooptazione su base non meritocratica e quindi non sventola alcun vessillo, inoltre sarebbe meglio sapere che solo la Legge Gelmini, n.240 comma 10 (e successive aperture definite di “Terza missione”) ha liberalizzato attività prima soggette ad autorizzazione per i docenti a tempo pieno come Antonella Viola. Attività quali, ad esempio, scrivere libri di pseudo “filosofia” o partecipare costantemente a programmi televisivi o, per altre colleghe, intrattenere un rapporto continuativo con i giornali. Le regole di ingaggio ci sono, anzi sono Leggi (ma lei è una virologa non una giurista, quindi la sua è un’opinione come quella del garagista).

 3) “Poi mi sono trovata a vedere che in queste trasmissioni o sui giornali chiunque parlava di scienza: c’erano il filosofo, l’economista e il professore di storia dell’arte”. Quindi quando Antonella Viola, sui social, il 14 giugno del 2021 attacca la critica d’arte Angela Vettese rea di scrivere articoli di critica d’arte per il “Sole 24 ore” doveva star zitta, anche perché scrivere articoli di critica d’arte è il lavoro di un critico d’arte; parlare di società o di chi sia il virologo più affascinante da Lilli Gruber, invece, non è proprio il lavoro del ricercatore di patologia. Ma questa è un’opinione da aiutante del garagista.

 4) “Antonella Viola quando parla di vaccini sa di non poter essere contraddetta, cioè io non accetto il contraddittorio sulla scienza”. Se le tesi scientifiche non possono essere contraddette (persino quelle della Viola) allora, come scriveva il maggior epistemologo del Novecento, Karl R. Popper, non sono scientifiche, ma metafisiche e la Viola non è una scienziata ma una sibilla. “La falsificabilità è la base della ricerca scientifica”, che è fatta di congetture e confutazioni (Popper). 

5) “I giornali invece di andare a scegliere chi nel tempo ha dato sempre delle informazioni credibili, le cui affermazioni si sono dimostrate poi nei fatti, ha cercato continuamente lo scontro e appunto lo spettacolo”. Questa la rubrichiamo tra le opinioni a caso, visto che Antonella Viola non è abilitata anche in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Quindi questa sta al pari di quelle del garagista sui vaccini.

6) “Noi scienziati… siamo persone di intelligenza medio alta”. Il QI, si sa, è controverso da misurare, soprattutto quello di chi sostiene di averlo. Di certo, così come gli umanisti hanno scarsissima predisposizione scientifica gli scienziati italiani sono mediamente ignorantissimi nelle discipline artistiche, letterarie e filosofiche: chiedo pertanto a Lilli Gruber di far loro a sorpresa il nome di un musicista o di un artista del passato e sentire cosa dicono: ci sarebbe da ridere e, forse, ce li toglieremmo finalmente da tv, social e giornali. Un lettore

Antonella Viola, bomba sul bavaglio ai virologi in tv: "Collusione tra scienza e poteri forti", corriamo un rischio enorme. Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. "Ammetto che non ci potevo credere. Quando un giornalista mi ha telefonato e mi ha chiesto cosa ne pensassi del bavaglio che si vuole imporre alla scienza, non solo non avevo idea di cosa stesse parlando ma, quando me l'ha spiegato, non gli ho creduto e non ho rilasciato commenti, perché credevo fosse una notizia falsa, e sono andata quindi a verificare direttamente alla fonte". Così l'immunologa Antonella Viola, dalle colonne della Stampa, commenta l'ipotesi del deputato del Gruppo Misto Carlo Trizzino di mettere un freno alla presenza di virologi e simili ospiti in tv. "Chi ha letto il libro "Spillover", di Quammen, sa che la scienza riteneva non solo che una pandemia si sarebbe verificata ma anche che sarebbe stata causata da un coronavirus, che sarebbe stata una malattia di tipo respiratorio e persino che il virus avrebbe compiuto il salto nell'uomo in un mercato della Cina. Perché allora non ci siamo preparati adeguatamente per affrontarla? Il motivo è semplice: la scienza non aveva voce, parlava solo agli addetti ai lavori, non è mai arrivata ai cittadini e, quindi, non ha destato l'attenzione alla politica. Se quindi devo cercare qualcosa di positivo nella tragedia che ci ha colpito, lo trovo proprio nella nuova familiarità che gli italiani hanno con noi scienziati, nell'inattesa irruzione della ricerca scientifica nelle case delle persone, nel nuovo ruolo che ha assunto la comunicazione della scienza", precisa la Viola. Infine la stoccata finale a Trizzino. "Dovrebbe essere inoltre superfluo ricordare all'onorevole Trizzino che uno degli argomenti maggiormente utilizzati dai no vax riguarda proprio la collusione tra scienza e poteri forti, e che solo la pluralità e la totale libertà di espressione degli scienziati può mettere a tacere queste derive complottiste. E, infine, non va dimenticato che nulla in campo educativo funziona meglio dell'esempio: se vogliamo vivere in un mondo di cittadini pensanti e liberi, mostriamo loro rispetto per il pensiero e per la libertà", conclude la Viola. 

Maria Berlinguer per "la Stampa" il 24 settembre 2021. Non toglieteci i virologi. Giuseppe Cruciani conduce con David Parenzo, «La zanzara», su Radio24. «È una follia, una cosa da regime, innanzitutto non sta alla politica decidere chi va in tv e chi non va, se poi un'azienda sanitaria vuole autonomamente decidere le regole di ingaggio dei propri dipendenti, fatta salva La libertà di espressione, bene un ospedale può decidere di farlo. La trovo una cosa assolutamente anti democratica che penso e mi auguro non passerà mai». «Poi certo - aggiunge Cruciani - possiamo parlare fino alla morte della sovraesposizione dei virologi, si può anche dire che c'è stata, ma l'argomento non è quello. Sono i media che decidono chi intervistare. Nelle democrazie è così che funziona. Chi ha voluto questo ordine del giorno ha un'idea della comunicazione e della democrazia quantomeno bizzarra. Siamo arrivati a una cosa quasi stalinista». La pensa così anche Nicola Porro che su Rete4 è il dominus di «Quarta Repubblica». «È una follia totale io non sono un grande amante della categoria, ho bisticciato con Galli e via social spesso me la prendo con Burioni, un'altra grande star, ma l'idea che ci sia un ordine del giorno rivolto a questi che ritengo presenzialisti la trovo una cosa da pazzi», spiega. «Mi fa schifo citare Orwell ma davvero siamo alla psico-polizia che decide chi può parlare in tv e chi no. È una misura illiberale. Siamo in una fase in cui in virtù dell'emergenza stiamo scivolando verso un'intolleranza eccessiva. Chiunque discuta sembra un non vax. L'emergenza non giustifica tutto». «Ieri avevo ospite Bassetti. L'ho accolto chiedendogli professore non è che le faccio perdere il posto? Nemmeno nella Cina di Mao e nella Russia di Stalin, mi ha risposto. Poi ha spiegato che la politica non ha capito come funziona e che la regola negli ospedali è già così. Un medico si fa autorizzare», racconta Myrta Merlino. Per la giornalista che conduce «L'aria che tira» su La7 l'odg è una bandiera. «Il Parlamento ha voluto dare la sensazione che la politica si occupa della cacofonia che c'è. I virologi li invitiamo noi perché siamo pieni di dubbi che spesso non riusciamo a superare. Viola dice che la terza dose non va bene per tutti, dopo tre giorni Crisanti invece pensa che è ovvio che dobbiamo farla perché dopo sei mesi calano gli anticorpi, un altro sostiene che il Covid diventerà endemico abbiamo le idee confuse. Secondo me l'ordine del giorno è stato un modo per finire sui giornali e dimostrare che il Parlamento esiste nel momento in cui Draghi fa come gli pare e i virologi pure. Un colpo riuscito male». «È una voce che non può mancare", aggiunge Luisella Costamagna tutte le mattine su Raitre con «Agorà». «Non è la politica che può dare le patenti di chi può o non può parlare. Io continuerò a invitarli. È una voce indispensabile sono informazioni che soprattutto chi fa servizio pubblico non può non dare».

La rivolta dei virologi sul bavaglio grillino "Una censura fascista". Lodovica Bulian il 24 Settembre 2021 su Il Giornale.  L'ex M5s Trizzino: "In tv solo se autorizzati" Bassetti: "Ridicolo". Crisanti: "Corea del Nord". I virologi gridano alla censura. I volti più celebri dell'era della pandemia, da Bassetti a Galli, da Crisanti a Pregliasco, ormai ospiti fissi dei programmi televisivi, sono in rivolta di fronte a un ordine del giorno accolto dal governo che prevede un'autorizzazione prima di poter parlare a giornali e tv. Il caso scoppia quando in Aula passa il testo firmato dal deputato Giorgio Trizzino - laurea in Medicina, ex M5s e oggi nel Misto -: prevede che i professionisti sanitari possano fornire «informazioni relative alle disposizioni sulla gestione dell'emergenza sanitaria in corso, tramite qualunque mezzo di comunicazione, previa esplicita autorizzazione della propria struttura sanitaria». Un modo per evitare, si legge, «di diffondere notizie o informazioni lesive per il sistema sanitario e per la salute dei cittadini. A stretto giro è una valanga. Protestano all'unisono virologi e infettivologi: «È un bavaglio». Furibondo Matteo Bassetti, direttore della Clinica malattie infettive de Policlinico San Martino di Genova: «Non si può mettere un bavaglio a medici e professori universitari che parlano di come evolve una malattia infettiva come il Covid perché fino a prova contraria siamo in uno Stato democratico. Limitare la libertà di parlare sarebbe gravissimo, scandaloso, questo è fascismo. Sarebbe una norma che rasenta la stupidità, il ridicolo». Aggiunge che «se il governo dovesse fare questo passo saremmo l'unico Paese al mondo che limita il pensiero di professori universitari. Quindi non posso neanche scrivere un libro sul virus? O rilasciare un'intervista a un giornale? Rischiamo di scadere profondamente». E rilancia: «Si faccia una proposta di legge per i politici che vanno a parlare in tv di Covid e medicina senza saperne niente, si stabilisca che dovrebbero studiare prima di parlare». Di fronte all'ipotesi di autorizzazioni da parte delle aziende ospedaliere, anche Massimo Galli si indigna: «Certo ci sono persone che dicono assolute sciocchezze, altri che dicono e poi disdicono, e ci sono anche professionisti che spiegano le cose come stanno. Ma in questo caso siamo al grottesco: impedire ai medici di esprimersi è come dire che un avvocato non può discutere di argomenti giuridici in tv e sui giornali o un ingegnere di argomenti tecnici». È una «buffonata» secondo Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'università di Padova: «Credo che l'idea gli sia venuta dopo una visita in Corea del Nord. Forse non sa che non si possano fare le leggi ad personam o per categorie. Io posso pure capire che magari si è esagerato. Ma se si è esagerato, come in tutte le cose, è un problema di rapporto tra domanda e offerta. Evidentemente - dice il virologo - c'è una domanda gigantesca da parte delle persone di informarsi, che i media intercettano, e chiaramente l'offerta viene dalle persone che hanno da dire qualcosa. Una proposta di questo tipo è principalmente un affronto verso i cittadini». Dal canto suo il deputato Trizzino finito sotto accusa giustifica la proposta con la necessità di porre un freno allo «strombazzamento mediatico costruito spesso per la ricerca della ribalta e della notorietà, una vergogna». Ma secondo il virologo Fabrizio Pregiasco sarebbero altre le categorie da regolamentare: «Più che quest'ordine del giorno servirebbe una Carta che contenga modalità e principi per la divulgazione di notizie scientifiche. Una Carta che valga anche per politici, giornalisti, avvocati, cosiddetti esperti, insomma tutti coloro che intervengono sui media. Di sicuro molti aspetti scientifici sono stati trattati come news, notizie di cronaca. Ma con la medicina non funziona così». Per Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica dell'ospedale Sacco di Milano, un conto è «esprimere il proprio pensiero scientifico, cosa che noi professori universitari dobbiamo fare istituzionalmente. Altra cosa se si tratta di fornire dati di gestione interna o comunque dati sensibili». Lodovica Bulian 

Da corriere.it il 23 novembre 2021. Matteo Bassetti, infettivologo e direttore della Clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, ha querelato Gianluigi Paragone, senatore eletto con il M5S e oggi esponente del gruppo Misto, dove ha creato la componente Italexit per l’Italia. «Ogni promessa è debito, questa mattina, il mio avvocato Rachele De Stefanis ha depositato la denuncia querela nei confronti di Gianluigi Paragone per diffamazione aggravata» scrive Bassetti sulla sua pagina Facebook e su Instagram, dove posta anche una foto di lui in compagnia del padre davanti al New Heaven Hospital, dove nel 2001 ha svolto un master in malattie infettive dell’Università di Yale. La querela fa seguito ad uno scambio avvenuto mercoledì scorso durante la trasmissione Non è l’Arena condotta da Massimo Giletti, su La7. In quell’occasione il parlamentare aveva ironizzato sulla carica di Bassetti sostenendo di non avere «un padre che mi piazza lì, alla Clinica di malattie infettive di Genova, dove sei adesso». Paragone aveva anche detto esplicitamente che «Bassetti è figlio di papà». Poco prima Bassetti aveva commentato alcuni interventi precedenti definendo «panzane» alcune dichiarazioni sentite sul tema del vaccino e aveva invitato Paragone a «prendersi una laurea di medicina» prima di addentrarsi in commenti medici, scatenando così la reazione del senatore. L’offesa contestata da Bassetti — che già in trasmissione aveva sottolineato di essere orgoglioso di essere figlio del padre, che è stato infettivologo e titolare del suo stesso attuale incarico — è legata al passaggio in cui Paragone evoca una via preferenziale nell’assunzione del primario e nell’assegnazione del ruolo di direttore della Clinica. «Peccato — fa notare Bassetti — che mio padre, purtroppo, sia prematuramente scomparso il 12 settembre 2005 ed io abbia ottenuto la cattedra di malattie infettive a Genova nel novembre 2019, cioè oltre 14 anni dopo la sua morte». Di qui la decisione di procedere con la querela, peraltro già annunciata durante la diretta tv. Non è avvenuta all’indomani mattina, come prometteva Bassetti in video, ma a stretto di giro di consultazione con il proprio legale. «Un atto dovuto — precisa il primario —, non solo per dignità del sottoscritto ma soprattutto per mio padre, un padre retto e un uomo stimato, prima ancora che grande medico e professionista. Non resta che attendere che la giustizia faccia il suo corso».

Francesco Rigatelli per “La Stampa” il 26 settembre 2021. «I No Vax erano il 2 per cento e grazie ai partiti populisti sono diventati il 15». Matteo Bassetti, professore ordinario di Malattie infettive all'Università di Genova e primario al San Martino, si scaglia contro «le responsabilità politiche che frenano la campagna vaccinale».

Cosa intende?

«Alcuni partiti soffiano sul fuoco No Vax, mentre sui vaccini la politica dovrebbe restare unita».

Come mai Fdi e Lega invece di candidarsi a guidare il Paese lisciano il pelo ai No Vax?

«Me lo chiedo spesso e penso sia un errore storico. Da liberale cresciuto leggendo Montanelli non li trovo maturi, anche se pure l'ultima uscita di Trizzino, medico ex Cinquestelle, e l'estrema sinistra sono preoccupanti». 

 Si riferisce alla richiesta che i virologi vengano autorizzati dalle loro aziende sanitarie prima di parlare?

«I professori universitari hanno tra i loro doveri didattica, ricerca e divulgazione. È solo l'ultimo occhiolino strizzato ai No Vax, che ora mi scrivono "Vedi, ti tappano la bocca". Una caduta di stile, aspetto una parola del governo». 

Voi scienziati avete creato confusione?

«Su una malattia nuova era difficile concordare, mentre sui vaccini la scienza è compatta. Trovo curioso che certe critiche arrivino ora e non un anno fa quando litigavo con Galli sulle chiusure».

Come si trova con la scorta?

«Non è normale per un medico andare in giro accompagnato, ai convegni come a casa di amici. Alla fine penso: non si vogliono vaccinare, affari loro. Tengo più alla sicurezza di mia moglie e dei miei figli che ai No Vax». 

È finita l'emergenza?

«No, 6-7 milioni di non vaccinati saranno gestibili, ma più si procederà con la vaccinazione più chi ne rimarrà fuori rischierà. La variante Delta in un anno contagerà tutti. I vaccinati si salveranno, gli altri meno e di questi il 5% finirà male». 

Dove non li ha trovati il generale Figliuolo lo farà il virus?

«Certo, è triste da dire ma col freddo avremo più contagi e ricoveri, soprattutto al Sud dove si è vaccinato meno». 

Il virus alla fine ha un andamento stagionale?

«Si va confermando questa tendenza, anche in Inghilterra dove fa già freddo e le scuole sono aperte da tempo. Le mascherine aiutano, ma non sono tutto. In Italia torneremo a 150-200 morti al giorno e saranno tutti non vaccinati». 

Le scuole sono al sicuro?

«No, un anno dopo non hanno fatto niente di più della tanto criticata Azzolina. Bisognava vaccinare le classi, e sbrigarsi a recuperare, ma ha sentito il ministero parlarne?».

Terza dose per tutti?

«Sì, sarà un richiamo a un anno dalla seconda. E si ripeterà periodicamente contro le nuove varianti, così da non preoccuparsene più».

Il caos mediatico. “Medici in TV dopo autorizzazione preventiva”, Bassetti contro la proposta di Trizzino: “Sei un fascista”. Fulvio Abbate su Il Riformista il 26 Settembre 2021. Giorgio Trizzino, medico, parlamentare già del Movimento di Grillo, ora nel Gruppo Misto, si è visto dare del “fascista” dal collega Bassetti. La sua colpa? Semplice, scandalosa, in verità venata da sincero candore professionale, deontologico; incurante dell’altrui narcisismo, messo in scena e centrifugato dai media nell’evidenza mediatica cui sono pervenuti i virologi, tutti o quasi. Con un ordine del giorno parlamentare, Trizzino… Dimenticavo, già mio compagno di banco alle elementari, Palermo, bianco e nero dei primi anni Sessanta. Un dettaglio affatto secondario, posto che la sua natura compunta, metodica, si coglieva perfino allora… Sia detto per inciso, il nostro prof, quello, sì, un fascista, già “centurione” della Milizia, si guardava bene dal picchiarlo sui polpacci con la bacchetta cui aveva dato nome “Bettina”, diversamente da ciò che avveniva con tutti noialtri. Giorgio, va ancora detto, è un impeccabile cattolico “di sinistra”, venuto su politicamente e umanamente tra i ragazzi vicini a Sergio Mattarella. Le sue parole recenti, ritenute addirittura “illiberali”, comprendono la convinzione che i medici debbano prender parti ai talk televisivi “solo se autorizzati”. Dunque, «un richiamo al compito istituzionale che i colleghi Bassetti, Pregliasco, Crisanti, Galli, in quanto virologi, immunologi, igienisti, in quanto dipendenti del Sistema Sanitario Nazionale e delle Università devono "possedere". Questi colleghi prima di tutto devono fare il loro dovere nelle strutture sanitarie, come già fanno. Poi devono osservare la correttezza di comunicazione verso chi gli paga lo stipendio. Insieme a loro dobbiamo costruire un modo nuovo e corretto di comunicare. Questa è la vera scommessa». E ancora: «Sia il governo a intervenire affinché i virologi possano partecipare alle trasmissioni tv previa autorizzazione della struttura sanitaria di appartenenza» (sic). Ho parlato di candore, poiché le parole di Giorgio sfuggono a un dato essenziale, cioè che la dialettica pubblica, perfino sui temi connessi al quotidiano sanitario della pandemia, diserta prevedibilmente ogni possibile placet preventivo istituzionale, assodato il contagio, altrettanto umano, del narcisismo. Irrilevante, sotto questa luce da studio di registrazione che Trizzino appaia immune, estraneo com’è al richiamo della società dello spettacolo, perfino medica. Il suo senso quasi monastico della misura non è infatti estensibile all’intera classe dei medici. Giorgio così rilancia. «Occorre un’informazione giusta e corretta. A mio modo di vedere, certa informazione scientifica cui assistiamo non è adeguata, i virologi non devono portare a comportamenti non corretti rispetto al contenimento del virus. Sappi, Fulvio, che personalmente, da direttore sanitario, anche quando dovevo partecipare a trasmissioni televisive o congressi avevo l’obbligo di chiedere il permesso; non credo di avere pronunciato nulla di scandaloso», a spiegare è ora l’ex responsabile dell’Ospedale Civico e dell’Ospedale dei Bambini di Palermo, ciclopici nosocomi, narrativamente suggestivi nella babele medica siciliana. Lo interrompo, provando a dirgli, con familiarità da compagno di scuola, che in Italia, storia nota, esistono sessanta milioni di commissari tecnici, allenatori di calcio, perché così pretendono le leggi della democrazia e del comune sentire rionale, nulla esclude che se ne possano contare altrettanti in ambito medico e addirittura medicale, infermieristico, no? Giorgio, non ti è venuto in mente neppure per un istante che in questi lunghi mesi funestati dal covid, i virologi siano cresciuti a ciuffi intorno a noi, compreso chi, privo di regolare titolo di studio e doverosa specializzazione, si accodato per puro spleen? In un paese dove il narcisismo, mediaticamente parlando, è d’obbligo, e non più peccato da punire nelle malebolge dantesche, nonostante l’ampio sentire cattolico, lui avrebbe spinto un nervo scoperto. Insomma, Giorgio, hai peccato di tragica ingenuità, spero tu lo comprenda. In più, dovresti sapere anche questo, i media procedono per semplificazione, quanto invece ai colleghi virologi, per loro è giunta un’età dell’oro che avrebbero mai supposto quando stavano in camice nei reparti rispettivi o nelle medicherie…” In verità, a me appartiene un pensiero di Umberto Eco: l’uomo colto sa dove andare a cercare l’informazione, ma sappiamo anche che l’uomo medio non si identifica con l’uomo colto, e nessun cittadino ha cura di discernere tra l’informazione distorta e quella seria. Purtroppo questa presenza ossessiva, spesso anche distorta, viene interpretata a uso e consumo di chi tutto ignora, sono cose che hanno portato anche a un numero di vittime che si sarebbe potuto evitare…Non ti starai confessando No vax, vuoi darmi questo ulteriore dolore? Come puoi pensare che uno come me, specializzato in Igiene, possa essere tacciato d’essere un No vax, così come hanno detto al Tg4. Proprio io che, dall’inizio della pandemia, mi sono speso per l’obbligo vaccinale, e per questa ragione emarginato dal Movimento 5 Stelle dopo avere affermato che l’obbligo doveva essere assoluto, come prescritto dalla direttiva Lorenzin. Malmenato per queste parole anche dal mio stesso partito di allora. Non metto in discussione il diritto d’opinione, desidero soltanto che ci sia una corretta informazione sanitaria…Insisto. Le leggi dell’intrattenimento televisivo rispondono semmai a suggestioni, anche le più spettrali e fantasmatiche. Il roccioso senso deontologico, a fronte dell’epifania di visibilità che con i talk i colleghi, diciamo, più amanti di se stessi hanno conquistato, qualcosa che avrebbero mai immaginato per le proprie carriere; la manna del coronavirus…È vero, infatti provocatoriamente ho aggiunto: perché allora a questo punto non vanno direttamente da Maria De Filippi a ‘C’è posta per te’? Gli rimane quest’ultimo spazio da conquistare. Che tu sappia, sì, che tu sappia, qual è stata la reazione dei virologi, parlo sempre di quelli che si amano, ricambiati da se stessi, davanti alle tue affermazioni pronunciate in Parlamento? L’ho detto, Matteo Bassetti mi ha dato addirittura del ‘fascista’. Antonella Viola ha invece, nella sostanza, compreso tutto. Semplicemente, la scienza non è libera, meglio, non può avere libertà d’espressione, deve semmai avere onestà d’opinioni, la scienza ha il dovere di esprimersi con correttezza; proprio perché sulla pandemia non ci sono posizioni univoche non possiamo mettere il bavaglio, ma neppure confondere chi ci ascolta. Trizzino, magari mi hai convinto. Spero tuttavia di avere aperto gli occhi anche a te sull’ingovernabilità delle pulsioni di protagonismo. Così come lo scoglio della canzone non può arginare il mare, il camice bianco non mette al riparo l’apprezzata, baronale, classe medica da ciò che il pensatore Karl Kraus affermava: “Il narcisismo è indispensabile alla bellezza e allo spirito”. Certamente, molto meno alle terapie intensive. A proposito, Giorgio, hai più sentito Vassallo e Fiorito, almeno loro dubito che abbiano mai fatto i virologi, sai se sono poi andati in pensione?”

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Burioni ha scelto l'ombra: "In video si viene travisati". Maria Sorbi il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. Lo scienziato da maggio non appare più e usa solo twitter: "Voglio tornare tra i miei studenti". Tutti, ma proprio tutti, lo tempestavano di domande sul virus: quanto durerà, come ci cureremo. E lui rispondeva, come un divulgatore scientifico fa. Che lo facesse pure con estrema chiarezza è un dettaglio. Roberto Burioni, virologo al San Raffaele, non si è mai tirato indietro davanti ai mass media desiderosi di chiarimenti nel cuore della pandemia. Poi però si è pure sentito dire: «Sei sempre in tv, vieni pagato per altro, parli sempre». E lui, che è un uomo di scienza e non punta a fare il prezzemolino da prima serata, ha capito che era arrivato il momento di sparire dai riflettori. Era il 30 maggio quando l'infettivologo ha dichiarato: «Basta tv, basta interviste». E così ha fatto, usando come unico canale di comunicazione Twitter e i social. «Lì quotidianamente cerco di spiegare le novità scientifiche e chiarire ciò che accade». Burioni è stato il primo, forse l'unico, a scegliere di limitare i suoi interventi televisivi, senza aspettare nessun Giorgio Trizzino della situazione. Lo ha fatto per buon senso. «Faccio il medico e voglio continuare a farlo - aveva dichiarato - Ho il solo desiderio di tornare in aula dai miei studenti che mi mancano». Per altro oggi Burioni, essendo professore universitario, con la cattedra di Microbiologia e Virologia all'università Vita e Salute San Raffaele, potrebbe dire in tv ciò che crede senza bisogno di nessuna autorizzazione da parte della sua struttura ospedaliera. Ma non intende farlo ancora per un bel po'. La scelta era stata dettata, dice ora, «da un senso di misura» che non tutti hanno. «Pensare che, prima di maggio, io non andavo nelle trasmissioni a dibattere di Covid, andavo solo da Fabio Fazio la domenica sera per mezz'ora. Quindi semmai rubavo del tempo alla partita e non certo al laboratorio». Tanto gli era bastato per rendersi conto, come dichiarò la scorsa primavera, che «i tempi della tv non sono quelli della scienza. Si viene travisati. Mi hanno attribuito di tutto». Da uomo di scienza, il virologo aveva capito una cosa: la sovraesposizione rende antipatici, anche quando si è bravi a comunicare e si dicono cose sensate. E lui, che era già parecchio sovraesposto sulla battaglia pro vaccini da ben prima che il Covid gelasse le nostre vite, ha fatto quel passo indietro che gli ha permesso di mantenere intatta l'autorevolezza di ciò che dice. Ha imparato però a usare molto bene i social. E da lì approfondisce, chiarisce, corregge, posta articoli scientifici e aiuta a interpretare ciò che altrimenti non sarebbe comprensibile da noi non virologi. Gli hater non mancano nemmeno sui social, anzi. Ma ormai ha imparato a gestirli, consapevole che comunque i canali per sostenere la scienza e le vaccinazioni vanno trovati. Maria Sorbi

Alessandro Sallusti e i virologi censurati, la bordata: "In tv Toninelli e Claudio Borghi, ma la gente che ha studiato no?" Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 24 settembre 2021. Parlare male della classe politica è come sparare sulla Croce Rossa, facile e a colpo sicuro. Chi lo fa di solito viene accusato di qualunquismo, populismo e disfattismo. C’è del vero, perché il movimento anti casta, nato sull’onda del clamore del libro “La casta” scritto nel 2007 da Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, e approdato in Parlamento pochi anni dopo con la divisa dei Cinque Stelle, si è dimostrato più incapace, inaffidabile e arraffatutto di chi lo aveva preceduto. Detto questo ci sono delle volte in cui non ci si può trattenere dal prenderla di mira, anche la comprensione ha un limite. Ieri la Camera ha deciso che i deputati potranno entrare in Aula solo se muniti di Green pass (cosa logica avendo loro approvato che noi dobbiamo andare al lavoro nelle medesime condizioni) ma con una variante rispetto ai comuni mortali: quei deputati che per avere il via libera sceglieranno la strada del tampone non dovranno pagare l’esame, che gli sarà rimborsato dalla cassa mutua, la quale tecnicamente si pagano loro ma pur sempre con soldi nostri. Ora, un tampone costa 15 euro e ha validità per 48 ore. I deputati, ben che vada, di giorni ne lavorano quattro alla settimana. Totale: 120 euro al mese, cifra rilevante per chi guadagna 1200 euro, irrisoria per chi, come loro, viaggia attorno ai 15mila netti più benefit. “Onorevoli scrocconi”, titoliamo. Ma avremmo potuto fare anche “Onorevoli barboni” oppure “Onorevoli buffoni” che il senso forse era più chiaro. Oltre un certo reddito uno,io per primo, il tampone se lo deve pagare e non scaricare sugli istituti di previdenza o sulla collettività. Ma si sa, il Parlamento nelle ultime legislature da luogo della classe dirigente si è trasformato in un coacervo di mediocrità e stipendificio per falliti. Ma non solo. Gli stessi onorevoli ora vogliono vietare a virologi e medici di andare liberamente in tv. La babele della scienza è in effetti fastidiosa e a tratti pericolosa però, in quanto a limitazioni di libertà, direi che abbiamo dato a sufficienza. Anche perché se giustamente possono andare in tv Toninelli e Borghi non vedo perché no Bassetti o la Capua. Gente che almeno ha studiato.

Maria Berlinguer per "la Stampa" il 24 settembre 2021. Non toglieteci i virologi. Giuseppe Cruciani conduce con David Parenzo, «La zanzara», su Radio24. «È una follia, una cosa da regime, innanzitutto non sta alla politica decidere chi va in tv e chi non va, se poi un'azienda sanitaria vuole autonomamente decidere le regole di ingaggio dei propri dipendenti, fatta salva La libertà di espressione, bene un ospedale può decidere di farlo. La trovo una cosa assolutamente anti democratica che penso e mi auguro non passerà mai». «Poi certo - aggiunge Cruciani - possiamo parlare fino alla morte della sovraesposizione dei virologi, si può anche dire che c'è stata, ma l'argomento non è quello. Sono i media che decidono chi intervistare. Nelle democrazie è così che funziona. Chi ha voluto questo ordine del giorno ha un'idea della comunicazione e della democrazia quantomeno bizzarra. Siamo arrivati a una cosa quasi stalinista». La pensa così anche Nicola Porro che su Rete4 è il dominus di «Quarta Repubblica». «È una follia totale io non sono un grande amante della categoria, ho bisticciato con Galli e via social spesso me la prendo con Burioni, un'altra grande star, ma l'idea che ci sia un ordine del giorno rivolto a questi che ritengo presenzialisti la trovo una cosa da pazzi», spiega. «Mi fa schifo citare Orwell ma davvero siamo alla psico-polizia che decide chi può parlare in tv e chi no. È una misura illiberale. Siamo in una fase in cui in virtù dell'emergenza stiamo scivolando verso un'intolleranza eccessiva. Chiunque discuta sembra un non vax. L'emergenza non giustifica tutto». «Ieri avevo ospite Bassetti. L'ho accolto chiedendogli professore non è che le faccio perdere il posto? Nemmeno nella Cina di Mao e nella Russia di Stalin, mi ha risposto. Poi ha spiegato che la politica non ha capito come funziona e che la regola negli ospedali è già così. Un medico si fa autorizzare», racconta Myrta Merlino. Per la giornalista che conduce «L'aria che tira» su La7 l'odg è una bandiera. «Il Parlamento ha voluto dare la sensazione che la politica si occupa della cacofonia che c'è. I virologi li invitiamo noi perché siamo pieni di dubbi che spesso non riusciamo a superare. Viola dice che la terza dose non va bene per tutti, dopo tre giorni Crisanti invece pensa che è ovvio che dobbiamo farla perché dopo sei mesi calano gli anticorpi, un altro sostiene che il Covid diventerà endemico abbiamo le idee confuse. Secondo me l'ordine del giorno è stato un modo per finire sui giornali e dimostrare che il Parlamento esiste nel momento in cui Draghi fa come gli pare e i virologi pure. Un colpo riuscito male». «È una voce che non può mancare", aggiunge Luisella Costamagna tutte le mattine su Raitre con «Agorà». «Non è la politica che può dare le patenti di chi può o non può parlare. Io continuerò a invitarli. È una voce indispensabile sono informazioni che soprattutto chi fa servizio pubblico non può non dare».

"In tv solo se autorizzati". E scoppia la rivolta dei virologi. Luca Sablone il 23 Settembre 2021 su Il Giornale. Approvato l'odg di Trizzino del gruppo Misto: "C'è troppo strombazzamento mediatico". La struttura sanitaria dovrà dare l'ok prima della partecipazione pubblica. Arriva una sorta di "stretta" sulla presenza dei virologi in televisione. In questo anno e mezzo di pandemia in molti hanno lamentato un'eccessiva partecipazione degli uomini della scienza sulla scena pubblica, spesso fornendo indicazioni e opinioni del tutto contrastanti tra di loro. Il risultato è stato evidente: una totale confusione tra i cittadini, già messi a dura prova nella comprensione e nell'attuazione degli intricati Dpcm del governo giallorosso. Ecco perché l'onorevole Giorgio Trizzino ha deciso di farsi avanti e proporre una condizione legata alla partecipazione in tv.

La "stretta" sui virologi. Il deputato del gruppo Misto ha presentato un ordine del giorno (approvato dalla Camera) che impegna il governo a intervenire in tal senso: tutti i dipendenti delle strutture sanitarie pubbliche o private (virologi, immunologi, infettivologi, igienisti ecc) e degli organismi ed enti di diretta collaborazione con il ministero della Salute potranno partecipare alle trasmissioni televisive o radiofoniche e rilasciare interviste "previa esplicita autorizzazione della propria struttura sanitaria di appartenenza".

Dunque occorrerà il via libera prima di fornire, "tramite qualunque mezzo di comunicazione", informazioni relative alle disposizioni riguardo la gestione dell'emergenza sanitaria in corso. L'intento è quello di "evitare di diffondere notizie o informazioni lesive per il Sistema Sanitario Nazionale e di conseguenza per la salute dei cittadini". Trizzino ha denunciato "questo strombazzamento mediatico costruito spesso per la ricerca della ribalta e della notorietà", che a suo giudizio sarebbe responsabile "di un numero imprecisato di vittime". Da qui la scelta di porre attenzione sul fenomeno in questione: "Adesso bisogna porre un freno a questa vergogna".

Le reazioni. Non sono ovviamente mancate le prime reazioni dei diretti interessati. Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, chiede che non venga messo il bavaglio a medici e professori universitari che - in uno Stato democratico - parlano semplicemente dell'evoluzione di una malattia come il Coronavirus: "Limitare la libertà di parlare sarebbe gravissimo, scandaloso, questo è fascismo. Sarebbe una norma che rasenta la stupidità, il ridicolo". Per Fabrizio Pregliasco, docente dell'Università Statale di Milano, sarebbe necessaria una Carta che contenga modalità e principi per la divulgazione di notizie scientifiche: "Una Carta che valga anche per politici, giornalisti, avvocati, cosiddetti esperti, insomma tutti coloro che intervengono sui media. Anche se poi non si sa chi è che dovrebbe controllare". Massimo Galli, primario dell'ospedale Sacco di Milano, riconosce la presenza di teorie che si sono rivelate fasulle ma si oppone all'odg di Trizzino: "Siamo al grottesco. Impedire ai medici di esprimersi è come dire che un avvocato non può discutere di argomenti giuridici in tv e sui giornali o un ingegnere di argomenti tecnici".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte 

Andrea Malaguti per “Specchio- La Stampa” il 27 settembre 2021. Non so se capita a tutti, ma in questi due anni mi sono fatto la mia speciale classifica di scienziati, virologi e infettivologi. Convinto con Thomas Hardy che gli aspetti sono in noi e dunque chi si sente più regale è il re, ho deciso che il mio re è il 70enne Massimo Galli. C'è qualcuno di cui fidarsi nel bizzarro circo televisivo di luminari poco illuminanti? Galli, nessun dubbio. Forse perché ha quello sguardo che non si addolcisce e non vacilla mai, forse perché ha sbagliato solo una previsione («se riapriamo le città durante l'estate rischiamo un nuovo collasso», magari non con queste parole ma una cosa molto simile), forse perché si vede che nei dibattiti vorrebbe incenerire i ciarlatani. Ma in definitiva perché con i virus ci ha passato la vita. Li conosce e ha imparato a temerli e a batterli. Prima l'epatite, poi l'AIDS (nel campo è uno degli scienziati più stimati del pianeta) adesso, da primario del Sacco di Milano, il Coronavirus. C'è qualcosa di profondamente politico nel rigore aggressivo di Galli, un'intransigenza progressista (sembra un ossimoro, certo) che gli impedisce qualunque forma di indulgenza verso chi blandisce sgangheratamente i No Vax. Anzi, quel disastro da piccola piazza, sbandierato come salvifico da certa destra, gli sembra un commento pertinente alla vanità delle cose, alla fragilità di idee che fingono di farsi principio e invece sono solo micro-calcoli elettorali destinati al naufragio. «Sono di sinistra, ma con la mia avversione ai No Vax non c'entra nulla». E in questa intervista, in cui racconta un pezzo della sua storia, spiega il perché. E, soprattutto, chi è. 

Professor Galli, peggio il Covid o l'Aids?

«Mi perdoni se comincio con una pedanteria: ma si dice la Covid, o il Coronavirus». 

Mi perdoni lei. Peggio la Covid o l'Aids?

«L'Aids è stata una cosa tremenda, tuttora non risolta, che ha caratterizzato una gran parte della mia vita professionale e mi ha messo nella condizione di fronteggiare problemi di persone che sono andati avanti per anni». 

Da principio non si salvava nessuno.

«Ho assistito a lungo al declino dei pazienti in condizioni di impotenza. Non è stato facile, perché spesso si trattava di giovanissimi. Ragazze e ragazzi che peggioravano inesorabilmente. Con loro il rapporto di conoscenza e di solidarietà finiva per superare quello professionale, trasformandosi in una relazione anche emotiva. Ho molto chiara nella mente la galleria di ritratti delle persone che ho visto morire. E ho chiaro il loro stato d'animo».

Qual era?

«Alcuni erano legittimamente furibondi. Non accettavano il loro fato. Altri erano arresi, perché il virus li aveva colpiti profondamente, debilitandoli. Altri rimanevano lucidissimi e pieni di dignità fino alla fine, malgrado il dolore li schiacciasse». 

C'è una storia che proprio non dimentica?

«Non ne dimentico nessuna. Ma tre mi vengono in mente prima. Una giovane donna che aveva contratto l'infezione con un unico rapporto a rischio. Un collega che era stato infettato da una ragazza con cui aveva un rapporto stabile. E poi un giovane con un breve trascorso di tossicodipendenza, infuriato col mondo e deciso a rifiutare i farmaci perché comunque non garantivano la sopravvivenza».

Erano i favolosi anni 80 e l'Aids sembrava un castigo divino. Che esperienza fu per lei?

«Dal punto di vista professionale fu un'esperienza estremamente coinvolgente. Mi mise in contatto con mondi a me in larga misura sconosciuti. La chiamavano la peste dei gay, dei tossicodipendenti, o anche, con una definizione altrettanto orrenda, la malattia delle devianze, dei comportamenti contrari alle regole, alla più banale ortodossia sociale. E sì, qualcuno parlava di Castigo di Dio, dicendo che colpiva gli omosessuali perché si caricavano di antigeni che i maschi non dovrebbero ricevere da altri maschi e i tossicodipendenti perché bucandosi alteravano il sistema immunitario».

E invece?

«Era una malattia virale, come l'epatite B. Fu subito chiaro a chiunque capisse un minimo di epidemiologia, poi ci accorgemmo che era un retrovirus. Quando arrivava lo faceva per rimanere. Combatterlo fu difficilissimo. Sembrava una sentenza inappellabile, il bacio della morte». 

Le piaceva la Milano da bere?

«Erano anni in cui ero impegnato soprattutto a lavorare. La mia socialità era piuttosto limitata dal punto di vista della mondanità. Ma no, se devo dare una risposta secca, la Milano da bere non mi piaceva».

A lei è mai venuta la tentazione di giudicare un paziente?

«Beh, guardi, no. La mia esperienza nel campo delle malattie infettive, e dell'epatite in particolare, mi aveva portato a una scelta di campo. In reparto, su 90 letti che avevamo, 85 in genere erano occupati da tossicodipendenti in crisi di astinenza. Non me la sentivo proprio di giudicare. Mica potevo mettermi a fare il carceriere. Ho sempre avuto un atteggiamento sinceramente empatico. Diversamente sarebbe stato impossibile».

Non giudica neppure i No Vax?

«È una cosa completamente diversa, abbia pazienza. Quelli erano gli anni Settanta e Ottanta e noi curavamo tossicodipendenti duri. I No Vax però somigliano a una categoria di persone che c'era già allora e forse c'è sempre stata e ci sarà sempre: i negatori». 

Chi sono?

«Quelli che dicono: ma no, non esiste, ma quale malattia, è Big Pharma che vuole fare soldi sulla pelle dei poveri cristi». 

Oggi c'è la destra a cavalcare l'onda negazionista.

«Ma quella è arrivata dopo. Io parlo dei cultori delle terapie alternative, degli oppositori della medicina ufficiale, dei demonizzatori delle case farmaceutiche, che certo hanno molti peccati sulla coscienza ma senza le quali non riusciremmo a campare fino a 90 anni. O meglio, ci riuscirebbe solo una sparuta minoranza di ricchi privilegiati». 

Quanto è grave che la politica occhieggi a certe sensibilità antiscientifiche?

«È irrilevante che io dica se è accettabile o meno, perché purtroppo è un dato di fatto. Che da un lato rispecchia il fallimento della politica, perché se scendi a questo livello per cercare consensi significa che non hai grande fiducia nelle tue idee. E dall'altro dimostra che per alcuni tutto fa brodo. Anche fare leva sulla paura di molte persone, figlia di una comunicazione che è stata una schifezza». 

Gli scienziati hanno contribuito alla comunicazione schifezza?

«Alcuni, può darsi».

Vi hanno diviso in partiti. Con un paradossale ribaltamento: a sinistra i rigorosi intransigenti (tipo lei o Burioni), a destra i tolleranti speranzosi (tipo Zangrillo e un tempo Bassetti).

«Una semplificazione giornalistica voluta dalla destra che è andata a cercare i riduzionisti. Un'operazione bieca. Non dico che nella comunità scientifica ci sia una unanimità bulgara, ma su numeri e dati la stragrande maggioranza di noi ha la stessa identica posizione.

Per me, che non amo guardare indietro, è difficile dimenticare che ancora il 27 luglio del 2020, durante un convegno al Senato, ci fu chi sostenne che il virus era stato battuto. Invece il virus si stava ancora dando un bel da fare. Dal primo settembre del 2020 al primo settembre del 2021 i morti sono stati 93 mila. Qualche responsabilità morale i riduzionisti e quelli che "apriamo tutto o la gente morirà di fame", a mio avviso ce l'hanno». 

Le norma italiane sul Green Pass sono le più rigorose d'Europa.

«Perché si sono create le condizioni giuste. Una maggioranza larga e una guida forte. Non c'erano alternative se volevamo traghettare il paese in una fase di minore problematicità. In Italia la crisi è arrivata prima e siamo stati capaci di affrontarla in anticipo». 

Nessuna dittatura sanitaria, quindi?

«Quello è solo uno slogan buono per chi strizza l'occhio ai No Vax, salvo scoprire che anche all'interno del proprio elettorato i No Vax sono una minoranza. La gente non ha voglia di trovarsi al lavoro colleghi non vaccinati. È anche una questione di solidarietà. E di buonsenso. Che fortunatamente sono prevalenti». 

Perché lei è diventato più famoso di altri?

«In verità non lo so. Non certo per la mia indiscutibile bellezza. Forse perché sono credibile. E quello che dico in genere accade». 

Un flashback. Il clamoroso bacio di Ferdinando Aiuti a Rosaria Iardino fu necessario o piuttosto il primo caso di marketing individuale?

«È abbastanza noto che io sono contrario alla spettacolarizzazione. Ma Aiuti, che è stato un grande combattente con qualche forma di attrazione verso il protagonismo, con quel gesto fu in grado di mettere in crisi le stupide certezze di chi demonizzava l'Hiv». 

Professore che mestiere faceva sua madre?

«La casalinga». 

E suo padre?

«Era un medico di base. Il primo laureato della sua famiglia». 

Lei ha fratelli?

«No figlio unico». 

È sempre stato di sinistra?

«Alle medie forse no, dal liceo in avanti certamente sì». 

Perché?

«Perché in quegli anni l'indifferenza pedagogica era inaccettabile. Noi eravamo baby boomers e la tendenza era quella di stiparci nelle classi per poi bocciarci in massa lasciando che al liceo arrivassero in pochi». 

Mai stato bocciato?

«No. Ma quel modo mi sembrava da combattere».

Negli anni Settanta lei era un ventenne. Allora la tentazione di prendere un'arma in mano per cambiare il mondo era abbastanza diffusa.

«È vero, ma io non avevo né l'indole, né i contatti, né l'intenzione». 

Ha conosciuto qualcuno che l'avesse?

«Un famoso leader delle Br era nella classe di fianco alla mia, ma fortunatamente per me abbiamo imboccato strade molto diverse». 

Chi era?

«Non mi pare giusto dirlo. Però non posso fare a meno di rilevare che eravamo pesci che nuotavano nello stesso mare. Forse mi ha salvato avere solide basi culturali». 

Quando ha conosciuto sua moglie?

«Ventisette anni fa. Ero volontario per l'Anlaids e lei si occupava di educazione alla salute. Entrambi avevamo già un figlio». 

È un romantico?

«Mi piace pensare che gli infettivologi lo siano. La professione non è particolarmente remunerativa, però piuttosto significativa. Soprattutto in aree del mondo spesso dimenticate. È uno dei motivi per cui l'ho scelta in una Milano da bere molto più concentrata, anche adesso, sulle cose pratiche, mentre io per tutta la vita ho curato persone ai margini». 

Crede in Dio?

«Sono un laico incallito. Ma forse certe scelte le faccio per narcisismo». 

Professore, Draghi o Conte?

«È abbastanza ovvio dire Draghi. Senza offesa per Conte, che è certamente una persona perbene. Ma il curriculum di Draghi è un'altra cosa. Diciamo che la voce di Draghi in Europa è più esportabile e ascoltata». 

Letta o Bersani?

«Ce l'ha una domanda di riserva?». 

Renzi o Bonaccini?

«Mettiamola così: direi che nella sinistra politica c'è molto da ricostruire». 

Se le chiedessero di entrare in politica?

«È successo più di una volta. Anche recentemente. Ma per ora la risposta è stata no».

Per ora.

«Dovrebbero esserci solidissime motivazioni e solidissimi scopi perseguibili». 

Professore, che voto dà ai suoi primi 70 anni?

«Credo di non avere fatto flanella. Ho lavorato molto, sperimentato molte cose. Ho pochi rimpianti e pochissimi rimorsi e in ogni caso preferisco i rimorsi ai rimpianti. Certo, se mi fossi divertito di più in effetti sarebbe stato meglio».

Magari lei si diverte così.

«Magari sì». 

A che età si diventa vecchi?

«Quando si muore. O quando non si è più in condizione di fare le cose principali e soprattutto di usare la testa come si vorrebbe. Ma la domanda è troppo complessa per rispondere con una battuta. Se i miei colleghi gerontologi mi sentissero rispondere così probabilmente mi infilzerebbero».

Che rapporto ha con la morte?

«L'ho incontrata molte volte e ho dovuto anche scherzarci su. Spesso i medici lo fanno, diversamente diventa difficile portare avanti la propria professione e la propria esistenza. In caso di necessità mi rifugio nella saggezza di un mio amico francese». 

Possiamo rifugiarci anche noi?

 «In verità lui è solo mezzo francese. Viene da una famiglia del Lago Maggiore e la frase che usa, citando suo padre, è questa: pecà morì, peccato morire. Che letta nel modo giusto significa: bello vivere. Ecco, io credo che sia importante non buttare via il tempo, impiegarlo bene, perché poi non è che ne abbiamo tanto a disposizione. Bisognerebbe usarlo per cose che ci danno gusto». 

A lei che cosa dà gusto?

«A me dà gusto servire gli altri».

Adesso va in pensione.

«Giusto così. Lascio spazio ai giovani e darò una mano a chi me lo chiede». 

È vero che sta scrivendo un libro?

«Due». 

Cioè?

«Uno è un libro intervista. L'altro un romanzo di fantascienza. Solo che le case editrici mi dicono che da me la gente si aspetta altro». 

E lei che cosa risponde alle cosa editrici?

«Rispondo: chissenefrega».

Massimo Galli, l’accusa della Procura: «Stratagemma dei punteggi per far vincere i propri allievi». Pressioni sui concorrenti. I pm: emergerebbe un sistematico condizionamento.  Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. Come si fa a far vincere un concorso universitario al proprio beniamino se l’altro candidato ha il doppio dei suoi titoli scientifici come indice di impatto sulle più prestigiose riviste mediche internazionali? A questo problema il professore Massimo Galli, se si confermerà esatta la lettura che la Procura di Milano in base a intercettazioni fa degli atti del concorso vinto da Agostino Riva, nel febbraio 2020 avrebbe risposto con uno stratagemma, peraltro in parte condiviso proprio con il suo candidato: far sì che la commissione giudicatrice, fra i criteri per attribuire il punteggio, privilegiasse le pubblicazioni nelle quali, a prescindere dalla maggiore autorevolezza e prestigio delle riviste scientifiche internazionali, il candidato (Massimo Puoti, direttore di struttura complessa di malattie infettive dell’ospedale Niguarda di Milano) figurasse come primo o ultimo autore, e non nel mezzo del gruppo di autori. Criterio ritagliato su misura del candidato di Galli, perché Riva in molte pubblicazioni era autore come ultimo nome (benché su riviste normali e molto meno prestigiose scientificamente di quelle sulle quali il concorrente XX aveva pubblicato ricerche figurando però nel gruppo degli autori. Non per niente proprio il rivale del pupillo predestinato da Galli capisce subito, visti i criteri fissati per la valutazione, che sta per essere fatto fuori con quello stratagemma. E lo capisce talmente bene da precipitarsi a telefonare a Galli per ritirarsi dal concorso che sta così a cuore a Galli per il suo allievo, e nel contempo però riscuotere in cambio dal primario del Sacco una apertura di credito futura per un altro concorso a Napoli che a quel punto gli interessa di più e sul quale Galli gli assicura che si spenderà. Sempre le intercettazioni (disposte all’inizio per una ipotesi di associazione a delinquere che poi ha perso quota) persuadono gli inquirenti Galli non solo all’inizio non si sia astenuto dal conflitto di interessi di giudicare in un concorso un candidato con il quale aveva stretti rapporti professionali e fiduciari (essendo stato Galli coautore in oltre metà delle pubblicazioni di Riva), ma abbia di fatto trasformato il concorso in un giudizio monocratico, del tutto esautorando (ma con loro piena accettazione e mera ratifica dell’esito) gli altri due commissari provenienti dalle Università di Roma La Sapienza e di Palermo (Claudio Maria Mastroianni e Claudia Colomba). Uno spaccato per il quale la stessa segretaria di Galli si diceva sconcertata, insofferente nelle intercettazioni con amiche per il modo con il quale Galli le sembrava non badare a un minimo di forme: ad esempio comunicando agli altri due commissari, presente il proprio pupillo, la certezza di quale sarebbe stato l’altro candidato (notizia in teoria non notagli) e anche la probabilità che comunque infine si ritirasse, togliendo a tutti le castagne dal fuoco. Persino l’atto conclusivo della prova didattica di Riva, già rimasto unico candidato, sarebbe stata viziata dal fatto che Galli, in sintonia con il prescelto che poi in teoria avrebbe dovuto valutare, avrebbe deciso da solo (e poi comunicato agli altri due commissari raccomandando loro di dare in fretta il loro ok formale) i tre possibili argomenti appunto della prova. Nelle casistiche dell’inchiesta dei pm Luigi Furno e carlo Scalas, questa è una delle storie che agli inquirenti appare «un sistematico condizionamento dei concorsi per assegnare il titolo di professore nella Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano», perseguito con manovre per nominare nella commissione esaminatrice docenti che fossero poi ligi o quantomeno non ostili agli accordi pregressi sul prescelto da far vincere; con criteri di valutazione ritagliati proprio sul ritratto del favorito e quindi calcoli di punteggi che penalizzassero i concorrenti più titolati e invece sovrastimassero i lavori presentati dal predestinato di turno (talvolta con la sua diretta condivisione); e infine con lo scoraggiamento dei candidati più pericolosi perché più meritevoli, o facendo velatamente capire che la loro presenza turbava il preventivato andamento della concorso, o lasciando vagheggiare implicite promesse di futuri aiuti su altri tavoli nel caso in cui gli altri contendenti capissero da soli l’antifona e revocassero la domanda.

Luigi Ferrarella per corriere.it il 5 ottobre 2021. Lo scienziato Massimo Galli, uno dei più ascoltati infettivologi e presenza ormai familiare a milioni di italiani per quanti giornali e tv lo consultano di frequente da quando è iniziata la pandemia Covid, è fra i numerosi professori che - da quanto si riesce a comprendere da una trentina di perquisizioni che martedì mattina hanno svolto i carabinieri del Nas - sono indagati per turbativa d’asta e falso ideologico dalla Procura di Milano in una inchiesta su concorsi universitari di Medicina ritenuti truccati all’Università degli Studi di Milano nel 2020, con coinvolgimento di alcuni docenti di altri atenei nelle commissioni giudicatrici.

Penalizzare il più titolato

L’ipotesi di reato mossa al primario dell’ospedale Sacco, chedal 1° novembre andrà in pensione come professore ordinario di malattie infettive all’Università degli Studi di Milano, è che, nella veste di presidente della commissione giudicatrice della selezione bandita nel giugno 2019 per un posto di professore di ruolo di seconda fascia all’Università Statale in malattie cutanee, infettive e dell’apparato digerente nel Dipartimento di scienze biomediche e cliniche dell’ospedale Sacco, avrebbe condizionato l’intera procedura allo scopo di penalizzare un candidato (Massimo Puoti, direttore di struttura complessa di malattie infettive dell’ospedale Niguarda di Milano) attraverso criteri di valutazione dei punteggi che nel febbraio 2020 favorissero invece il candidato poi risultato vincente, Agostino Riva, legato a Galli da stima professionale e fiducia personale. Per questa procedura insieme a Galli sono indagati anche lo stesso Riva, la segretaria di Galli (Bianca Maria Teresa Ghidini, in ipotesi per aver raccomandato a Riva di non farsi vedere in sede ma di discutere i nodi cruciali solo per telefono), e due componenti della commissione giudicatrice, il professore dell’Università La Sapienza di Roma, Claudio Maria Mastroianni, e la professoressa associata dell’Università di Palermo, Claudia Colomba: ad essi viene addebitato di aver consentito a Galli di operare senza mai coinvolgerli, e di essersi alla fine limitati soltanto a recepire in via supina le valutazioni che Galli e il suo candidato avevano in concreto predisposto. Conseguente, dunque, nell’ipotesi di accusa dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas è l’annessa ipotesi di reato di falso ideologico, perché il prospetto con i punteggi attribuiti ai candidati sarebbe stato il risultato non del lavoro collegiale della commissione durante la riunione ufficiale svoltasi in modalità telematica il 14 febbraio 2020, ma di quanto concordato in precedenza, e il relativo documento sarebbe stato predisposto solo in un secondo momento da Galli e Riva. 

Gli attriti con la professoressa Gismondo

Allo scienziato viene contestato un secondo episodio, stavolta nel giugno 2020 nella procedura di selezione per assumere a tempo determinato per otto mesi quattro dirigenti biologi da assegnare all’Unità malattia infettive del Sacco: qui l’accusa è che il direttore generale dell’Azienda sociosanitaria territoriale Fatebenefratelli-Sacco, Alessandro Visconti, avrebbe concordato con Galli di far sì che il professore predisponesse un avviso pubblico ritagliato sulle caratteristiche di due candidate che intendeva a favorire (di cui una poi vincente); e che sempre Galli decidesse la composizione della commissione presieduta da una professoressa del Sacco, Manuela Nebuloni, in modo da poter contare su membri che sarebbero stati favorevoli alle proprie indicazioni. In questo caso, però, il risultato non si sarebbe perfezionato per l’opposizione di un’altra scienziata, Maria Rita Gismondo, che aveva minacciato di rivolgersi all’autorità giudiziaria. 

Il profilo ritagliato su misura

Da quanto sinora si riesce a comprendere, Galli è indagato anche per una terza ipotesi di reato sempre di turbativa d’asta, ma in relazione a un concorso per un posto di professore di ruolo di prima fascia sempre alla Statale di Milano) in Igiene generale e applicata, scienze infermieristiche e statistica) bandito nell’aprile 2020 e vinto da Gianguglielmo Zehender: qui ciò che viene addebitato in ipotesi d’accusa a Galli, a Zehender, e al professore ordinario della Statale, Francesco Auxilio, che era nella commissione giudicatrice, è di avere ritagliato il profilo del concorso sul ritratto di Zehender intorno al settembre 2020. 

La relazione riassuntiva di Torino

Altri professori, e cioè Giovanni Di Perri dell’Università di Torino, Claudio Maria Mastroianni della Sapienza di Roma, e Massimo Andreoni dell’Università Roma Tor Vergata, componente come Mastroianni della commissione giudicatrice di un concorso per professore di seconda fascia all’Università di Torino bandito nel luglio 2020, sono infine indagati insieme a Galli per l’ipotesi di falso nella relazione riassuntiva della riunione tenutasi in remoto il 21 settembre 2020: qui il punto è che la relazione attestava che durante la riunione i commissari avessero elaborato tutti insieme i criteri con cui valutare i candidati, mentre invece per il pool del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli quella relazione sarebbe stata predisposta unicamente dal professor Di Perri, e Galli non avrebbe partecipato alla riunione.

L'infettivologo Massimo Galli, tra i professori più impegnati nella lotta contro il Covid, è indagato dalla procura di Milano. Andrea Crisanti lo difende. Il Dubbio il 6 ottobre 2021. C’è anche l’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, tra i docenti indagati nell’inchiesta della procura di Milano su presunte iscrizioni e nomine irregolari per un episodio di turbativa e falso ideologico. Massimo Galli, in qualità di professore all’Università degli Studi di Milano, “dipartimento di scienze biomediche e cliniche” al Sacco, e di direttore del reparto di malattie infettive, avrebbe “turbato” con “promesse e collusioni”, in concorso col dg della Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti e la collega Manuela Nebuloni, la procedura per assumere a tempo determinato “4 dirigenti biologi” per favorire in particolare “due candidate”. Assunzioni che sarebbero state, invece, “fortemente” osteggiate da Maria Rita Gismondo, anche lei nota virologa del Sacco. È uno degli episodi contestati, come si legge nel decreto dei pm.

Le altre accuse a Massimo Galli

Massimo Galli è indagato anche per un’altra ipotesi di turbativa, oltre a quella relativa alle assunzioni di 4 dirigenti biologi, e in particolare per quella riguardante un posto da professore di ruolo all’Università Statale. Avrebbe truccato il “concorso” per favorire un candidato risultato vincente e avrebbe commesso un falso come componente della “commissione giudicatrice” sul verbale di “valutazione dei candidati” il 14 febbraio 2020. Avrebbe attestato che il «prospetto contenente i punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale», mentre fu “concordato” solo dopo.

Chi sono gli altri indagati

Oltre a Massimo Galli, anche un noto virologo in prima linea durante l’emergenza Covid è indagato dalla Procura di Milano per la vicenda dei presunti concorsi pilotati di docenti e di personale sanitario e irregolarità nelle iscrizioni alle facoltà di medicina. E’ Massimo Andreoni, ordinario alla Sapienza di Roma, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e primario al policlinico Tor Vergata. Andreoni, risponde di falso in concorso con Galli e altri colleghi, come componente della commissione giudicatrice del concorso bandito nel luglio 2020 per un professore di seconda fascia all’università di Torino. «Hanno inquinato sistematicamente la regolarità delle procedure di selezione» ai concorsi «sostituendo logiche clientelari al metodo meritocratico e al principio di imparzialità». E’ scritto nel provvedimento con cui la procura di Milano ha disposto perquisizioni e acquisizioni di documenti, anche informatici, nell’ambito dell’inchiesta su presunti concorsi universitari pilotati nella quale, tra i 24 docenti universitari di tutta Italia indagati, ci sono i nomi degli infettivologi in prima linea durante l’emergenza Covid Massimo Galli e Massimo Andreoni.

«Fiducia nei nostri ricercatori»

«Nel confermare la nostra piena collaborazione alle indagini in corso, esprimo piena fiducia nel lavoro di tutti i nostri ricercatori». Così il rettore dell’Università Statale di Milano, Elio Franzini, in merito all’inchiesta della procura di Milano su presunte iscrizioni e nomine irregolari per un episodio di turbativa e falso ideologico. «Posso dire a nome dell’intera comunità della Statale – continua – che stiamo seguendo con un senso di sconcerto e sgomento profondi quanto sta accadendo. Si tratta di ipotesi per ora, ma di una gravità senza precedenti per la Statale».

Crisanti difende Galli

«Non posso commentare le indagini e la vicenda, perché non conosco il concorso e le persone coinvolte, ma ho una grande stima professionale di Massimo Galli. E’ una persona di grande integrità, come ho potuto constatare di persona, e la mia opinione su di lui non cambia», ha detto Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’università di Padova. «Spesso gli elementi d’accusa emersi in fase di indagini preliminari – conclude Crisanti – vengono poi smentiti in fase dibattimentale. Posso solo dire che la mia stima per Galli rimane intatta».

Galli indagato per concorsi truccati va in tv: «Sono tranquillo, non ho fatto niente di particolare».  Corriere Tv su Il Corriere della Sera il 6 ottobre 2021. Galli indagato per concorsi truccati va in tv: «Sono tranquillo, non ho fatto niente di particolare» Il professore parla a Cartabianca dell’indagine che lo ha coinvolto. Traspare un po’ di amarezza – Ansa

Da video.corriere.it il 5 ottobre 2021. Massimo Galli è indagato dalla Procura di Milano per concorsi truccati. Insieme a 23 colleghi, avrebbe favorito alcuni candidati per l’assegnazione di posti di professore di ruolo all’Università degli Studi di Milano, penalizzandone altri. L’infettivologo replica a Cartabianca, su Rai3: «Sono tranquillo, da quel che leggo non ho niente di particolare di cui preoccuparmi. Sto comunque aspettando che definiscano meglio l’atto di accusa. Fatti gravissimi secondo il Rettore? Se conoscesse la sostanza dei problemi avrebbe una posizione più tranquilla», ha aggiunto.

Cartabianca, Massimo Galli: "Io indagato? Non credo di dover venire qua a discutere", imbarazzo in studio. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. "Ne ho avuto notizia questa mattina con un avviso di garanzia quando sui giornali la notizia era già presente": Massimo Galli, infettivologo dell'ospedale Sacco e professore all'Università degli Studi di Milano, indagato per concorsi universitari truccati insieme ad altri docenti, ha commentato così l'inchiesta che lo vede coinvolto in collegamento con Bianca Berlinguer a Cartabianca su Rai 3.  "Pare che debba funzionare così", ha detto Galli in maniera stizzita, riferendosi alla notizia data prima sui giornali e solo in un secondo momento a lui. "Francamente sono tranquillo, da quello che leggo non ci vedo nulla di particolare. L'ho ricevuto questa mattina, ci ragionerò sopra. Questo è quello che posso dire ora", ha proseguito il professore. L'ipotesi dell'accusa è che il professore, con altri suoi colleghi, avrebbe favorito alcuni candidati per l’assegnazione di posti di professore di ruolo all’Università degli Studi di Milano, penalizzandone altri non graditi. "Quindi non ha compiuto quei reati che sono stati tirati in ballo?", ha chiesto la conduttrice. Ma Galli non si è sbilanciato più di tanto: "Non mi sembra ci sia nulla di consistente, però abbia pazienza. L'ho ricevuto stamattina, ho messo tutto in mano al mio avvocato. Faremo le nostre controdeduzioni quanto prima". Poi ha concluso: "Questo è quanto, non credo di dover venire qua a discutere, trattandosi anche di un argomento in mano alla magistratura in questo momento". Imbarazzo in studio.

Massimo Galli indagato, "minacciato da Maria Rita Gismondo": il clamoroso risvolto nell'inchiesta. Libero Quotidiano il 05 ottobre 2021. Massimo Galli si ritrova indagato insieme ad altre 32 persone per falso ideologico e turbativa d’asta: l’accusa è di aver pilotato alcuni bandi dell’università Statale di Milano per favorire alcuni ricercatori e docenti. Non solo, perché il Corriere della Sera parla di uno screzio pesante con la collega Maria Rita Gismondo, che si sarebbe opposta a una delle procedure portate avanti da Galli, minacciando anche di rivolgersi all’autorità giudiziaria. L’episodio risale al giugno del 2020, quando si doveva assumere a tempo determinato per otto mesi quattro dirigenti biologi da assegnare all’unità malattie infettive dell’ospedale Sacco. L’accusa riguarda un presunto accordo tra Galli e Alessandro Visconti (direttore generale dell’azienda sociosanitaria Fatebenefratelli-Sacco) per fare in modo che il professore disponesse un avviso pubblico su misura per le caratteristiche di due candidate che intendeva favorire (e una poi ha effettivamente vinto). Inoltre sempre Galli e Visconti avrebbero concordato la composizione della commissione presieduta da una professoressa del Sacco, Manuela Nebuloni, descritta come vicina al virologo e quindi più predisposta a seguirne le indicazioni: in questo caso però sarebbe stata Maria Rita Gismondo a mettersi di traverso. Ora toccherà alla Procura di Milano far luce sulla questione: nella mattinata di oggi, martedì 5 ottobre, sono avvenute una trentina di perquisizioni da parte dei carabinieri del Nas.

La “guerra” tra Galli e Gismondo per i bandi pilotati: “Minacciò di denunciarlo”. Giorgia Venturini su Fanpage.it il 5 ottobre 2021. C’è chi si è imposta e ha impedito un concorso pilotato nell’aprile del 2020. Secondo i carabinieri dei Nas, è stata la direttrice del Laboratorio di virologia dell’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo a fermare il piano illecito del dottor Massimo Galli e del direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti: questi, secondo l’accusa, si erano messi d’accordo per creare un bando pubblico sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire. C’è chi si è imposta e ha impedito un concorso pilotato nell’aprile del 2020. Secondo i carabinieri dei Nas, è stata la direttrice del Laboratorio di virologia dell’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo a fermare il piano illecito del dottor Massimo Galli e del direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti: questi, secondo l’accusa, si erano messi d’accordo per creare un bando pubblico sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire. C’è chi si è imposta e ha impedito un concorso pilotato nell’aprile del 2020. Secondo i carabinieri dei Nas, è stata la direttrice del Laboratorio di virologia dell’ospedale Sacco di Milano Maria Rita Gismondo a fermare il piano illecito del dottor Massimo Galli e del direttore generale dell’Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti: questi, secondo l’accusa, si erano messi d’accordo per creare un bando pubblico sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire. Era tutto deciso e concordato. Le vincitrici del bando di assunzione a tempo indeterminato da assegnare al reparto di malattie infettive dell'area di medicina diagnostica e dei servizi dell'ospedale Fatebenefratelli doveva avere già un nome e cognome. A violare il principio di imparzialità secondo l'operazione "Laurus", condotta dai carabinieri del Nas di Milano, sono stati il direttore generale dell'Asst Fatebenefratelli-Sacco Alessandro Visconti e il direttore del reparto di malattie infettive Massimo Galli: stando a quanto si legge sulle carte dell'inchiesta i due si concordavano affinché il famoso medico predisponesse un avviso pubblico modellato sulle caratteristiche delle due candiate che intendevano favorire, nonché che lo stesso Galli decidesse anche la composizione della commissione giudicatrice in modo farvi entrare dei membri a lui favorevoli che avrebbero privilegiando le candidate a lui indicate. Un piano che secondo i carabinieri non è andato a buon fine perché fortemente osteggiato dalla dottoressa Maria Rita Gismondo (non è indagata) che aveva "minacciato" i due di rivolgersi all'autorità giudiziaria. A mettersi invece a disposizione di Gallie del suo "progetto illecito" – come lo definiscono gli inquirenti – c'era la presidente della commissione giudicante Manuela Nebuloni.

Il concorso pilotato nel pieno dell'emergenza Covid

Ed è tra i due medici diventati famosi per i loro commenti durante la pandemia che ci sarebbe stata una "guerra" sui concorsi pubblici truccati: nel dettaglio si tratterebbe di un concordo dell'aprile del 2020, nel pieno della pandemia Covid. Al centro del dibattito tra i due c'era l'assunzione di quattro dirigenti biologi da inserire per otto mesi nell'unità di malattie, ovvero una figura fondamentale nel pieno dell'emergenza Covid. Galli avrebbe voluto decidere – sempre quanto riportano le carte – sia i vincitori del concorso sia i membri della commissione. A fermare tutto sarebbe stata alla fine proprio Maria Rita Gismondo, che si dice estranea alla vicenda.

La replica di Massimo Galli

Interpellato sulla vicenda infettivologo Massimo Galli, primario del reparto di Malattie infettive all’Ospedale Sacco di Milano, si è dichiarato "tranquillo" durante un'intervista rilasciata a Cartabianca. E poi ha aggiunto: "Diventare un personaggio pubblico ha una serie di contro e pochi pro, per quanto mi riguarda. Ho avuto un avviso di garanzia che mi è stato consegnato quando la notizia era già su tutti i giornali. Sono tranquillo, da quello che leggo non vedo niente di particolare in ciò che mi viene contestato". Massimo Galli ha poi aggiunto di avere provveduto a tutelarsi mettendo tutto in mano al suo legale. "Faremo le nostre controdeduzioni, è un tema in mano alla magistratura".

Massimo Galli: che cosa si sa sui concorsi "truccati". Today.it il 6/10/2021 Fonte: La Repubblica. L'infettivologo è accusato di aver pilotato quattro bandi. Gli inquirenti: "Favorì l'assunzione di amici". Il terremoto della nuova Concorsopoli travolge la Statale di Milano e con lei docenti e ricercatori, presidenti e membri di commissioni d’esame. Tutti accusati a vario titolo di associazione a delinquere, turbativa, falso materiale e ideologico per aver pilotato almeno 13 bandi a favore di candidati loro protetti. Indagati 17 docenti della Statale e 7 di altre università: Bicocca (sempre a Milano), Pavia, Tor Vergata e Sapienza a Roma, Torino, Palermo. Con loro anche i ricercatori che sarebbero stati favoriti nei bandi. Tra i 33 indagati anche l’infettivologo del Sacco Massimo Galli, accusato di aver pilotato quattro bandi. L’indagine del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas avrebbe individuato un ''sistematico condizionamento delle procedure per l’assegnazione dei titoli di ricercatore e di professore ordinario e associato alla facoltà di Medicina e Chirurgia'' della Statale. Coinvolti nell’inchiesta, partita nel 2018 da un caso di corruzione di un dentista che chiede a un docente di favorire i figli nel corso di laurea di Igiene dentale, nomi di primo piano del mondo accademico. In Statale, Riccardo Ghidoni, Pierangela Ciuffreda, Gianguglielmo Zehender, Manuela Nebuloni, Paola Viani, Alessandro Ennio Giuseppe Prinetti, Sandro Sonnino, Agostino Riva, Antonio Schindler, Cristiano Rumio, Pietro Allevi, Antonella Delle Fave, Francesco Auxilia, Gagliano Nicoletta, Tiziana Borsello, Angela Maria Rizzo. E ancora: Claudia Colomba (università di Palermo), Giuseppe Riva (Cattolica di Roma), Guido Angelo Cavaletti (prorettore alla Ricerca alla Bicocca), Vittorio Luciano Bellotti (Pavia), Claudio Maria Mastroianni (Sapienza), Giovanni Di Perri (Torino), Massimo Andreoni (Tor Vergata).

I bandi per cui è indagato Galli

Quattro i bandi per i quali è indagato Galli. Uno riguarda il posto da associato a Malattie infettive al Sacco, vinto da uno dei ricercatori che lavorano con lui. In un secondo caso, ci sarebbe stato il tentativo di favorire due altre collaboratrici del professore (indagato anche il direttore della Asst Fatebenefratelli-Sacco, Alessandro Visconti). Galli, inoltre, avrebbe dovuto decidere anche la composizione della commissione, trovando l’opposizione di Maria Rita Gismondo, altra virologa del Sacco, che aveva minacciato denunce. In un terzo caso Galli avrebbe lavorato per allontanare altri potenziali candidati a favore di un suo prescelto. E infine il professore è indagato anche per la selezione da associato a Scienze mediche a Torino.

Se un candidato a un concorso ha il doppio di pubblicazioni scientifiche rispetto al proprio protetto, basta organizzare quello che la procura di Milano definisce ''un simulacro di competizione''. A leggere le carte dell’inchiesta sulla Concorsopoli alla Statale di Milano, il professor Galli lo avrebbe pianificato quattro volte. Quattro bandi, come quello in cui decide di eliminare la candidatura del primario del Niguarda Massimo Puoti, molto più titolato del suo fedele Agostino Riva, associato presso il dipartimento di Scienze biomediche e cliniche all’ospedale Sacco. Con Riva - hanno scoperto i pm Luigi Furno e Carlo Scalas - Galli aveva una ''lunga contiguità professionale''. Delle 121 pubblicazioni su riviste internazionali di Riva, ben 63 vedono come coautore Galli. E delle 16 allegate al verbale della commissione giudicatrice del concorso, di 9 risultava coautore anche lui. Un ''primo elemento di anomalia'', scrive la procura, ''e non un conflitto d’interessi che avrebbe dovuto imporre a Galli di astenersi dal ricoprire la qualifica di presidente della commissione valutatrice''.

La segretaria: ''Questo finisce in galera''

Come riporta Repubblica, Puoti ha un indice H-index (criterio per valutare quantità e impatto scientifico dei lavori di un candidato) doppio rispetto a Riva. Un problema che rischia di sbarrare la strada al protetto del professore infettivologo. Dalle indagini dei Nas emergono così numerosi incontri tra Galli (presidente di commissione giudicatrice) e Riva (candidato al concorso) in cui in due - insieme alla segretaria di Galli, anche lei indagata, Bianca Ghisi - cercano il modo per pompare il curriculum di Riva e ridurre quello di Puoti. Nasce così per i pm un «accordo preventivo» tra Galli e Riva. In cui si decide di accordare in anticipo un punteggio maggiore ai lavori nei quali i candidati figurano singolarmente, rispetto a quelli in cui compaiono in un gruppo di studiosi. Il 14 febbraio 2020 Galli convoca Riva, attraverso la segretaria, proprio per definire i punteggi. Uno stratagemma che, alla fine, funziona: Riva ottiene 69,01 punti, Puoti 66,04. Ma l’attivismo di Galli manda nel panico chi si occupa materialmente di preparare le pratiche. Come una segretaria amministrativa che esplicita il timore che il professore in questo modo rischia di finire nei guai. Di andare in galera.

Di fronte alla falsa valutazione del suo curriculum, Puoti recepisce il messaggio: quel concorso non è per lui. Secondo quanto ricostruito dalla procura, il docente non protesta, non fa ricorso - potendolo vincere facilmente - al Tar, ma decide di revocare la candidatura. E lo fa parlandone direttamente con Galli. In maniera cordiale, con la promessa da parte dell’infettivologo del Sacco che sarà appoggiato in una futura selezione. E ieri, dopo la notizia dell’indagine, Puoti ha rinnovato la propria solidarietà a Galli: ''Io non ho presentato denuncia e non so come sia partita la cosa - ha precisato - . Non voglio fare commenti sulle indagini in corso ma voglio esprimere la mia massima stima a Massimo Galli, come professionista, medico e docente''.

Concorsi truccati, il medico intercettato: "Io escluso dal bando, Galli mi ha fregato". Maria Rita Gismondo allarga le accuse verso il collega infettivologo. La Repubblica il 7 ottobre 2021. Prima Massimo Puoti, il direttore del reparto Malattie infettive del Niguarda, che sarebbe stato penalizzato in uno dei bandi al centro dell'inchiesta e che, dopo un tentativo di minimizzare i fatti, non ha potuto che confermare che il bando era preconfezionato a favore del suo concorrente. Dopo, la virologa Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica al Sacco, che ha ribadito di essersi opposta alla composizione della commissione per un altro bando con persone fedeli a Galli, ma che ha anche allargato il recinto delle accuse.

Galli intercettato mentre parla dei punteggi. "Adesso mettiamo questo requisito nel bando". Cristina Bassi il 7 Ottobre 2021 su Il Giornale. Così l'infettivologo si accordava con il candidato. I pm sentono la Gismondo. Sarà ascoltato in Procura a Milano la prossima settimana il professor Massimo Galli, coinvolto nell'inchiesta su presunti concorsi pilotati per assunzioni nel mondo universitario tra il 2019 e il 2020 insieme ad altre 32 persone. I pm Luigi Furno e Carlo Scalas hanno sul tavolo tra l'altro le telefonate intercettate in cui il celebre virologo parla con altri indagati dei punteggi da attribuire ai candidati «predestinati» al successo e di come scrivere i bandi in modo da agevolarli. Galli è indagato per falso ideologico e turbativa d'asta. Nelle perquisizioni svolte martedì i carabinieri del Nas hanno sequestrato le mail di tutti gli indagati e la documentazione relativa ai 13 concorsi al centro dell'indagine. Sono state effettuate inoltre le copie forensi dei pc e dei telefoni cellulari degli indagati. Ieri è stato ascoltato intanto il professor Massimo Puoti, direttore di Malattie infettive all'ospedale Niguarda, che secondo gli inquirenti sarebbe stato danneggiato da Galli, presidente della commissione che doveva giudicarlo, allo scopo di favorire un altro candidato che poi in effetti ha vinto. «Ho risposto alle domande - ha detto alla fine Puoti -. Quello che posso dire è che rinnovo la mia stima a Galli e che non sono stato io a denunciare». Sempre ieri è arrivata in Procura, sentita come persona informata sui fatti, la direttrice di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica bioemergenze del Sacco Maria Rita Gismondo. Secondo gli inquirenti, la procedura per truccare i concorsi e favorire determinati candidati, messa in atto da Galli in concorso con altri colleghi, sarebbe stata «fortemente osteggiata» proprio da Gismondo «che aveva prospettato di rivolgersi all'autorità giudiziaria». Nel febbraio del 2020 nelle telefonate tra Galli e Agostino Riva, candidato che ha vinto il concorso e anche lui indagato, si discute di un posto da professore di ruolo alla Statale. Dalle intercettazioni emergerebbe che lo stesso Riva avrebbe indicato al virologo del Sacco i «punteggi» che dovevano essergli attribuiti dalla commissione. Riva si sarebbe in pratica auto valutato. Inoltre avrebbe detto al professore, su indicazione di quest'ultimo, quali «sub criteri» dovevano entrare nel bando per il ruolo di docente di seconda fascia in Malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente. In questo modo si poteva superare l'ostacolo delle «mediane», cioè il numero di citazioni in articoli scientifici che erano più numerose per il concorrente, Puoti appunto. Galli martedì ha brevemente commentato la notizia dell'inchiesta alla trasmissione Cartabianca: «Ne ho avuto notizia questa mattina con un avviso di garanzia che mi è stato consegnato quando già su tutti i giornali la notizia era presente. Pare debba funzionare così Sono tranquillo, da quello che leggo non ci vedo nulla di particolare nelle contestazioni. Ci ragionerò sopra. Francamente non mi sembra che ci sia consistenza. Ho messo tutto in mano al mio avvocato, faremo le nostre controdeduzioni quanto prima». Ancora: «Diventare un personaggio pubblico ha un serie di contro e pochi pro, per quanto mi riguarda». Cristina Bassi

Stefano Zurlo per “il Giornale” il 6 ottobre 2021. Non hanno neppure aspettato che andasse in pensione. Fra una manciata di giorni. La faccia vagamente cimiteriale di Massimo Galli è diventata familiare agli italiani, naturale che ora, nel contrappasso tricolore, gli faccia compagnia un'inchiesta e un grappolo di accuse. In Italia è difficile sfuggire a questa regola: diventi un personaggio, oltretutto quando gli altri tirano i remi in barca sull'orizzonte corto dei settant' anni, e milioni di connazionali si identificano nei tuoi sospiri e nei tuoi tic. Fin troppo facile quindi che la stella precipiti o che qualcuno provi a oscurarla. È successo anche a questo austero professore, primario al Sacco di Milano, sbucato dalle retrovie di alambicchi e corsie di ospedale nel febbraio 2020, quando l'Italia ha resettato il suo modo di essere e ha scoperto, con la pandemia, quella specializzazione fino ad allora sconosciuta. I virologi, o meglio, gli esperti del Covid, i Bassetti, i Crisanti, appunto i Galli, e gli Zangrillo, che in realtà era l'unico ad essere già noto. Galli è entrato nel salotto delle nostre case e non ne è più uscito, a colpi di previsioni e profezie. Lui era ed è un chiusurista, uno allergico alle riaperture facili, con un background naturalmente di sinistra, anzi Sessantottino, comodo per le semplificazioni della nostra politica. Destra o sinistra: lui militava sul versante progressista di quel partito. La realtà, va da sé, è più complessa del fumetto cui sono stati ridotti gli scienziati che al camice bianco hanno affiancato lo schermo, ma non si può sfuggire al rito dell'etichettatura e lui l'ha fatto con una certa disinvoltura, sbandierando solo, come col Corriere, il curriculum: 60 pubblicazioni dal 2000. Un numero imponente, anche se inferiore a quello delle ore consumate in tv, saltando da un programma all'altro con l'abilità di un trapezista, qualche volta eliminandosi da solo, dopo aver schiacciato per sbaglio il tasto del collegamento Skype, offrendo agli spettatori oltre alle sue parole, impregnate di un sottile pessimismo ma mai apocalittiche, le sagome di allegri stegosauri allineati su una mensola dello studio. Ha ammesso di aver sbagliato all'inizio, quando era convinto che il cielo fosse meno scuro: «Ma avevo in mente i parametri della Sars». Poi, un anno fa o poco più, ha ingaggiato un robusto duello con Zangrillo che, abbagliato, aveva predicato la scomparsa del nefasto virus, sollevando nel Paese speranze poi naufragate. Facile identificarli come le figurine del calcio che collezionavamo da ragazzini: il buono, il cattivo, il berlusconiano, quello che portava l'eskimo. Una galleria delle maschere della commedia dell'arte, con ruoli che alla fine stanno stretti a tutti. Ma il piccolo mondo dei virologi, improvvisamente troppo grande, è esploso come il dentifricio davanti a noi con le sue vanità, pettegolezzi e storie di letto, come in ogni ambiente, passioni sportive, come quella per l'Inter di Galli. Aveva ragione lui nel temere la seconda ondata e si può dire che spesso l'ha azzeccata. Il 1° novembre dovrebbe entrare nel regno degli ex. Ma è difficile immaginarlo giù dal palco, anche se la situazione come speriamo dovesse normalizzarsi. Ora che è diventato anche lui una notizia di cronaca giudiziaria ha trovato qualcosa da fare, ma i suoi programmi sono ben più ambiziosi: vorrebbe scrivere un romanzo e soprattutto dedicarsi al grande libro dei morti che, come lui stesso spiega, a Milano sono censiti dal 1452. Cinquecento e passa anni, dai tempi di Leonardo e pure prima, di epidemie, sciagure, malattie e lacrime da compulsare e digitalizzare. Una specie di sterminata Spoon River di rito ambrosiano. Insomma. Andrà avanti come prima, fra ammonizioni, raccomandazioni e quei sorrisi che il telespettatore medio, anche quello Sì Vax, accoglie toccando quel che può.

Massimo Galli indagato, la segretaria intercettata: "Se va avanti così, finisce in galera". Libero Quotidiano il 06 ottobre 2021. Massimo Galli indagato. Sono bastate alcune intercettazioni a portare la Procura di Milano ad accusare l'infettivologo dell'ospedale Sacco di associazione, turbativa e falso. Al centro i presunti concorsi truccati su cui il 29 gennaio 2020 i giudici si sono espressi rilevando "un condizionamento". "Quel giorno - riporta Il Fatto Quotidiano -  un dirigente dell'ospedale arriverà a dire: se va avanti così rischia di finire in galera". Sempre il 29 gennaio un'impiegata del nosocomio, in un'intercettazione agli atti, discute con la ricercatrice Claudia Moscheni di un bando per professore associato, dove Galli è presidente della commissione giudicatrice. Il candidato da favorire sarebbe Agostino Riva. Chiamati i commissari, Galli spiegherebbe come fosse probabile che il secondo pretendente, Massimo Puoti, primario al Niguarda, non si sarebbe presentato. Nell'ottobre 2019, Galli al telefono con Claudio Mastroianni, primario all'Umberto I di Roma, commissario indagato per la vicenda, spiegherebbe che delle due candidature una sparirà per evitare casini. Questo, secondo i pm, il passaggio decisivo. Il rischio - prosegue il quotidiano di Travaglio - sarebbe stato di dover sminuire forzatamente il curriculum di Puoti rispetto a quello di Riva. Altrettanto decisive le intercettazioni del 21 febbraio 2020, quando Galli viene avvertito della rinuncia di Puoti da un collega dell'Università di Brescia. A quel punto l'infettivologo avrebbe potuto tirare un sospiro di sollievo. E ancora, al telefono la segretaria di Galli Bianca Ghisi parla con Riva e gli passa il virologo, il quale in modo illecito secondo i pm, concorda con lui ciò che dovrà scrivere rispetto alle pubblicazioni. Dopo il confronto Galli leggerebbe al candidato cosa scriverà nel verbale sulle sue pubblicazioni. Il 14 febbraio è il giorno decisivo. Galli e la commissione devono fare i punteggi rispetto alle pubblicazioni. I punteggi non ci saranno nemmeno verso sera, quando alle 19 Galli al telefono con Mastroianni spiega che ancora li sta facendo, fino a che i due concordano di assegnare oltre tre punti in più a Riva rispetto a Puoti. Il primario del Niguarda dice che lo hanno fregato. Poi l'ultimo atto, quello del 18 marzo: Riva sostiene la prova orale con a fianco Galli e collegato coi commissari mentre in un'altra intercettazione l'infettivologo ammette di aver tirato fuori dal fondo della classifica Riva portandolo avanti. 

Concorsi truccati, Galli indagato. "Se Massimo continua finisce in galera". Affari Italiani Mercoledì, 6 ottobre 2021. Un dirigente del Sacco parla con un collega e lo mette in guardia. "Finirà indagato per associazione, turbativa e falso". Le intercettazioni telefoniche.  Il direttore malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, il noto virologo Massimo Galli è indagato insieme ad altre 33 persone per concorsi truccati. I pm: "Verbali falsificati e accordo sui punteggi pattuiti". È il 29 gennaio 2020 - si legge sul Fatto Quotidiano - quando la Procura di Milano capisce “il livello di condizionamento dei concorsi pubblici”e il modo di agire del virologo Massimo Galli, tanto da far dire a un dirigente dell’ospedale Sacco: se va avanti così rischia di finire in galera. Nell’ottobre 2019, Galli al telefono con Claudio Mastroianni, primario all’Umberto I di Roma, commissario indagato per la vicenda, si augura di non avere rogne per l’assegnazione del posto. Dice che le domande sono due, ma che una salterà, perché sennò potrebbe venire fuori un casino. Aggiunge che il candidato Puoti sparirà per logica e non con delle pressioni. Secondo i pm il passaggio è decisivo, perché se il candidato non si fosse ritirato c’era il rischio di casini dati dal fatto di dover sminuire forzatamente il curriculum di Puoti rispetto a quello di Riva. Decisive le intercettazioni del 21 febbraio 2020 - prosegue il Fatto - tra Galli e un collega dell’Uni - versità di Brescia che lo avverte della rinuncia di Puoti. Galli, soddisfatto, spiega che così potrà risolvere il problema in amicizia senza doversi trovare a fare cose che non si addicono a nessuno di loro professori. Il dialogo, per i pm, chiarisce come fin da subito “vi era solo un simulacro di competizione”. Visto che Puoti ha un indice di valutazione (H-index) doppio rispetto a Riva. Il 3 febbraio 2020 il condizionamento si fa più forte. Puoti è ancora in corsa. Al telefono Bianca Ghisi, segretaria di Galli, parla con Riva e gli passa il virologo, il quale in modo illecito, secondo i pm, concorda con lui ciò che dovrà scrivere rispetto alle pubblicazioni. Galli è in riunione con i due commissari. Dopo il confronto in diretta con il candidato, il virologo rilegge a Riva persino la frase che scriverà nel verbale sulle sue pubblicazioni. “L’accordo preventivo” è, secondo i pm, dimostrato.

Sandro De Riccardis, Luca De Vito per repubblica.it il 7 ottobre 2021. Prima Massimo Puoti, il direttore del reparto Malattie infettive del Niguarda, che sarebbe stato penalizzato in uno dei bandi al centro dell'inchiesta e che, dopo un tentativo di minimizzare i fatti, non ha potuto che confermare che il bando era preconfezionato a favore del suo concorrente. Dopo, la virologa Maria Rita Gismondo, direttrice di Microbiologia clinica al Sacco, che ha ribadito di essersi opposta alla composizione della commissione per un altro bando con persone fedeli a Galli, ma che ha anche allargato il recinto delle accuse. Ieri in procura sono state così puntellate le ricostruzioni dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas che, coordinati dall'aggiunto Maurizio Romanelli, indagano sulla "Concorsopoli" alla Statale di Milano, in cui sono indagati 24 professori, tra cui l'infettivologo Massimo Galli. Puoti ha di fatto confermato quanto emerso nell'indagine e dalle intercettazioni agli atti. Al telefono con la moglie il primario diceva: "Il concorso che avevo fatto a Milano, hanno valutato i titoli e m'hanno fregato". Estromesso dal bando per un posto da professore di seconda fascia presso il dipartimento di Scienze biomediche e cliniche al Sacco, escluso per far posto all'altro candidato, Agostino Riva, meno titolato di lui ma fedelissimo del professore Massimo Galli, il docente Massimo Puoti si sfogava con la moglie al telefono.

Concorsi truccati, il presidente dei rettori Morzenti Pellegrini: "Sbagliato parlare di un sistema ma serve la riforma del reclutamento"

"Sono riusciti a fregarmi sui titoli.. - le diceva - abbastanza penosi..". Nelle intercettazioni agli atti dell'inchiesta, Puoti parla della turbativa dei concorsi di medicina alla Statale. Quando si accorge di non poter vincere il concorso, si mostra comunque cordiale con Galli, gli comunica personalmente la decisione di lasciare campo libero a Riva. "Niente Massimo...un abbraccio, quella cosa lì l'ho sistemata, non so se hai visto". In cambio Puoti ottiene da Galli la promessa di essere appoggiato, nell'immediato futuro, nei prossimi bandi. Un accordo che appare esplicito. "Il mio appoggio ce l'avrai - assicura l'infettivologo - in tutte le sedi possibili eh". Con la moglie però Puoti manifesta tutta la sua amarezza. "Sono riusciti a fregarmi sui titoli nel senso che una pubblicazione sul Science è stata equiparata a una pubblicazione sulla rivista con uno di Impact Factor". Puoti ha un indice H-index (criterio per valutare quantità e impatto scientifico dei lavori di un autore) doppio rispetto a Riva, ma alla fine - secondo i nuovi parametri tarati da Galli sul suo protetto - Riva batte Puoti 69,01 a 66,04. Gismondo invece ha ribadito di essersi opposta - minacciando di fare denuncia in procura - alla nomina in commissione di fedelissimi di Galli che avrebbero poi privilegiato le candidate da lui indicate per l'assunzione a tempo determinato di quattro dirigenti biologi presso l'Asst Fatebenefratelli Sacco. Davanti ai magistrati Gismondo avrebbe però anche allargato le accuse, parlando dell'uso - a suo dire - non appropriato dei laboratori di infettivologia del Sacco che Galli avrebbe concesso in uso anche a privati. Accuse pesanti su cui ora la procura dovrà fare nuove indagini. 

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 7 ottobre 2021. «Dobbiamo ragionare, magari in due è meglio che one. Se no (i punteggi, ndr ) li metto io alla c..., sperando che non ci siano casini e menate». I punteggi del concorso universitario all'Università Statale di Milano? Il presidente della commissione giudicatrice, professor Massimo Galli, il 14 febbraio 2020 parrebbe averli fatti scegliere direttamente al candidato (Agostino Riva) che sponsorizzava nei confronti dell'unico altro concorrente (Massimo Puoti) titolare però di un indice di valutazione H-Index di 50 contro 25 di Riva. «Scendi dalla Bianca (la segretaria di Galli, ndr ) e cominciamo a lavorare sull'assegnazione...», diceva di pomeriggio Galli a Riva, quando in teoria, stando al verbale, la commissione aveva già terminato di mattina i propri lavori: «Adesso (i punteggi, ndr ) fatteli vedere dalla Bianca... che possono essere attribuiti a te e a lui per le varie questioni... Però non me lo far dire...», concludeva Galli, con inconsapevole profetico cenno alla rischiosità della cosa che i carabinieri dei Nas stanno intercettando. Simile alla rischiosità il 3 febbraio 2020 (mentre in teoria la commissione sta elaborando i criteri di valutazione) del fatto che il presidente di commissione (Galli, coautore di 63 delle 121 pubblicazioni internazionali nel curriculum di Riva, e di 9 sulle 16 allegate al concorso) chieda appunto a uno dei due candidati (Riva) come debba modellare la griglia di criteri. «Allora, senti, quanti lavori avevi presentato? Sedici? Ed erano tutti quanti a tuo primo e ultimo nome tranne uno, mi pare... E di argomento coprivano... Va beh, allora senti la frase che avevo scritto...», e gliela legge, di fatto ritagliando i criteri sui lavori del candidato, al quale chiede conferma: «C'è tutto, no? Va bene, questo potrebbe andare e risolvere la questione». La cui scivolosità Galli doveva aver presente già in partenza, quando, in risposta a uno degli altri due commissari che gli chiedeva quanti fossero gli aspiranti, si augurava che l'unico altro candidato revocasse (come in effetti poi accadrà) la propria domanda: «Spero non ci siano rogne, insomma... mi auguro che una delle due domande vada a spari'... se no viene fuori un bel casino, voglio dire... Ma sparire per logica eh, non dico per pressione». La «logica» è quella che Puoti, primario di malattie infettive all'ospedale Niguarda, capisce benissimo quando il 2 marzo si sfoga con la moglie: «Sono riusciti a fregarmi sui titoli... nel senso che una pubblicazione su Science è stata equiparata a una rivista comune... non conta l'indice di impatto della rivista, contava solo la posizione del nome nel lavoro... Lui (Riva, ndr ) mette tutti lavori del cavolo dove sei primo nome, però tutti lavori del cavolo... Così mi possono fregare anche a Napoli» in un altro concorso. Il candidato Puoti ritira allora la domanda e chiama il presidente di commissione Galli: «Niente, Massimo, quella cosa lì l'ho sistemata, non so se hai visto». E Galli: «Ti ringrazio e... ne parleremo... Il mio appoggio ce l'avrai... in tutte le sedi possibili, eh». Tema che un docente di Brescia già aveva anticipato a Galli («Puoti non si presenterà al tuo concorso... comunque lui ecco... piuttosto ci sarebbe una certa cosa... parliamone fra noi un attimo... si tratterebbe di cercare di dargli una mano lì a Napoli...»), incontrando il sollievo di Galli: «Io sono molto, molto lieto di avere la possibilità di risolvere un problema in una situazione di amicizia, senza dovermi trovare a fare cose... a dire cose che non... che non corrispondono... insomma, che non mi si addicono e non si addicono a nessuno di noi...». Anche su queste conversazioni ieri i pm Luigi Furno e Carlo Scalas, prima della teste professoressa Maria Rita Gismondo in serata, nel pomeriggio per 4 ore hanno ascoltato come teste Puoti, che all'uscita ha di nuovo voluto ribadire la propria stima per Galli.

Massimo Galli, le intercettazioni con il candidato che "spingeva": gli diceva che voto dargli. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano il 7 ottobre 2021. I telefoni sono bollenti, prima del concorso per il ruolo di professore di seconda fascia in malattie cutanee, infettive e dell'apparato digerente all'Università Statale di Milano. Da un capo della cornetta c'è Massimo Galli, primario del reparto di malattie infettive all'ospedale Sacco e professore ordinario presso il dipartimento di Scienze biomediche dell'ateneo meneghino, nonché sessantottino fiero e idolo della sinistra che tanto aspirerebbe a mettere le mani sulla sanità lombarda; dall'altro c'è Agostino Riva, protetto dell'infettivologo col vizio delle ospitate televisive, aspirante candidato alla cattedra della Statale (che otterrà nel febbraio del 2020). Le telefonate tra i due sono finite all'interno dell'inchiesta della Procura di Milano, che li vede entrambi indagati insieme ad altre 31 persone in merito a presunti concorsi pilotati nel mondo accademico. Alcune intercettazioni darebbero la cifra del sistema messo in piedi per aggiustare le nomine. Sarebbe Riva a indicare a Galli il punteggio che deve dargli la commissione giudicatrice, di cui il professore faceva parte.

SU MISURA. Non solo. Sarebbe sempre lui a decidere i "sub criteri" che vanno inseriti nel bando, ritagliati su misura. Un modo, secondo i pm Luigi Furno e Carlo Scalas, con cui si poteva bypassare l'ostacolo delle "mediane", ovvero il numero delle citazioni in articoli scientifici che erano più alte per il candidato concorrente, Massimo Puoti, direttore del reparto Malattie infettive dell'ospedale Niguarda di Milano, sentito ieri per ore dai magistrati come testimone. Ovviamente gli eventuali reati sono tutti da dimostrare, ma l'ipotese dell'accusa è chiara: è facile far vincere chi vuoi, se le regole del gioco le stabilisci tu. Martedì, appena scoppia la notizia dei concorsi truccati, Puoti non esita a esprimere pubblicamente la sua stima nei confronti di Massimo Galli «come professionista, medico e docente». Mentre finiscono nel registro degli indagati, oltre al professore star televisiva e a Riva, anche la segretaria dello stesso prof e altri due componenti della commissione giudicatrice: il professore dell'Università La Sapienza di Roma, Claudio Maria Mastroianni, e la professoressa dell'Università di Palermo, Claudia Colomba. Avrebbero attestato che il «prospetto contenente i punteggi attribuiti fosse il risultato del lavoro collegiale della commissione e che fosse stato predisposto nel corso della riunione telematica» del 14 febbraio 2020, ma stando all'indagine «in realtà, tale documento veniva concordato solo successivamente da Riva e Galli». Era il giugno del 2019 quando fu bandita la procedura per il posto da docente incriminato. In quanto presidente della commissione, Galli avrebbe condizionato l'intera gara per penalizzare Puoti e favorire Riva, falsificando anche il verbale della riunione della commissione visto che i punteggi sarebbero il risultato di quanto pattuito in separata sede. Per questo l'infettivologo è accusato pure di falso ideologico, oltre che di associazione a delinquere. Ma questo non è l'unico episodio sotto la lente d'ingrandimento degli inquirenti. 

ALTRI EPISODI. Aprile 2020, sul piatto c'è un posto di professore di ruolo in Igiene generale e applicata, scienze infermieristiche e statistica: lo vince Gianguglielmo Zehender. Ma ci sono ombre, si parla della predisposizione di «un medaglione che potesse favorirlo» e «allontanasse» gli altri aspiranti. Due mesi dopo spunta una procedura di selezione per l'assunzione per otto mesi di quattro biologi da assegnare all'Unità malattia infettive del Sacco. Ma salta: Maria Rita Gismondo, titolare del laboratorio di microbiologia e pure lei sentita ieri dai pm, minaccia di denunciare tutto. Galli è accusato anche di falso ideologico in relazione a un altro concorso del luglio 2020, per professore di seconda fascia all'Università di Torino. Settimana prossima toccherà a lui chiarire la propria posizione con i magistrati.

Vittorio Sgarbi, bomba su Massimo Galli indagato: "Perché la Rai continua a invitarlo", ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 07 ottobre 2021. Tra i casi della settimana, una menzione d'onore, per certo, se la guadagna quello di Massimo Galli, l'infettivologo dell'Ospedale Sacco di Milano che risulta indagato per una vicenda di presunti concorsi pilotati all'Università statale di Milano. Il diretto interessato ha subito respinto le accuse, difendendosi la sera stessa in cui è uscita la notizia dell'indagine direttamente dagli studi di CartaBianca, la trasmissione di Bianca Berlinguer in onda su Rai 3, dove ha addirittura affermato di essere diventato "un personaggio scomodo". Sarà... Oggi, giovedì 7 ottobre, sono usciti ulteriori dettagli sull'inchiesta. Delle intercettazioni in cui è proprio lui a parlare. E sembra avere un poco la coscienza sporca: "Spero che poi non succeda nessun casino", afferma parlando con il candidato del concorso. Ma, soprattutto, allo stesso candidato propone: "Scriviamo insieme i punteggi. Dobbiamo ragionare, magari in due è meglio che one. Sennò (i punteggi, ndr) li metto io alla ca***, sperando che non ci siano casini e menate". I punteggi in questione sono quelli del concorso universitario. Insomma, intercettazioni abbastanza compromettenti. E contro Massimo Galli, tra gli altri - rilanciando su Twitter il pezzo del Corriere della Sera che dà conto delle intercettazioni - si scaglia anche Vittorio Sgarbi, il celebre critico d'arte, che insiste sul passato da "sessantottino" del virologo, un passato di "militanza rossa" di cui lui stesso ha parlato in diverse occasioni. E Sgarbi attacca: "Il sessantottino Massimo Galli (sono sempre stato di sinistra) intercettato con il candidato del concorso: Scriviamo insieme i punteggi - premette Sgarbi -. La Rai continua a invitarlo. Si sai, ai sessantottini si perdona tutto...", conclude sornione Sgarbi. Insomma, un colpo a Galli e uno alla Rai.

L'infettivologo contro il circuito mediatico-giudiziario. Galli non si fa processare da Bianca Berlinguer: “Non devo discuterlo in tv, è un argomento in mano alla magistratura”. Angela Azzaro su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Forse sia aspettava una lettera di ringraziamento da parte del presidente della Repubblica o una telefonata del presidente del Consiglio. Comunque forse sperava in un gesto che lo ripagasse dell’impegno di divulgazione in tv fatto in questi mesi difficili di pandemia, morti, lockdown. Invece, come accade anche a diversi amministratori, non ultimo Mimmo Lucano, l’infettivologo Massimo Galli ha ricevuto un altro tipo di letterina: un avviso di garanzia da parte della procura di Milano, non prima di aver letto il suo nome sui giornali. Perché prima si informa la stampa e poi i diretti interessati, non sia mai che la gogna pubblica non sia anche una bella sorpresa. Di tutti gli esperti che hanno invaso la tv Galli è quello che, anche a detta dei suoi colleghi, è il più serio, quello che davvero ci capisce e non uno dei tanti improvvisati per amore di gloria e di riflettori. Ora è accusato insieme ad altre 33 persone di avere truccato le nomine all’Università. Un’accusa tutta da dimostrare. Non c’è neanche il rinvio a giudizio. Ma in questo Paese un avviso di garanzia vale come una condanna definitiva. Galli però, in piena sintonia con la Costituzione, non si è fatto spaventare e – come è suo diritto – è andato in tv a Cartabianca, dove ha gelato la presentatrice che forse si sentiva un po’ pubblico ministero. E così, parlando dell’inchiesta prima ha tirato una frecciata al circo mediatico-giudiziario. «Ne ho avuto notizia questa mattina con un avviso di garanzia che mi è stato consegnato quando già su tutti i giornali la notizia era presente. Pare debba funzionare così…». Poi ha continuato: «Sono tranquillo, da quello che leggo non ci vedo nulla di particolare nelle contestazioni. Ci ragionerò sopra. Francamente non mi sembra che ci sia consistenza. Ho messo tutto in mano al mio avvocato, faremo le nostre controdeduzioni quanto prima». E a Berlinguer che voleva interromperlo, ha risposto: «Non devo discuterlo in tv, è un argomento in mano alla magistratura». Roba da matti: un indagato che non accetta di farsi processare in televisione ma pretende che siano i giudici a farlo!

Ps: Indovinate chi ha protestato per la sua presenza in tv perché indagato? Il solito Codacons che, tra le altre cose, evidentemente non ricorda bene la Carta, quando all’articolo 27 recita: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva…”.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Da iltempo.it l'8 ottobre 2021. Massimo Galli si dice amareggiato per l’indagine che lo vede protagonista. L’infettivologo dell’università Statale di Milano è ospite nella puntata di giovedì 7 ottobre de “L’aria che tira”, per commentare gli sviluppi dell’andamento della pandemia. Ma visto le recenti notizie sul suo coinvolgimento nell'inchiesta su presunti concorsi pilotati per le assunzioni nel mondo universitario, la conduttrice, Myrta Merlino non può fare a meno di sincerarsi dello stato d’animo del suo ospite. Il professor Galli è indagato per falso ideologico e turbativa d'asta assieme ad altri eminenti professori dell’Università di Milano per aver, secondo l’indagine, riservato i posti disponibili a persone che godevano della loro fiducia.   “Le chiedo solo questo insomma è preoccupato cosa è successo?”, domanda la conduttrice. Galli sembrava attendere il quesito: “In questo momento non ho nessuna intenzione di sembrare neanche vagamente reticente ma non mi sembra né opportuno né corretto che io entri in merito”. Poi prosegue il suo discorso sottolineando l’amarezza provata nello scoprire della vicenda attraverso i media: “Posso soltanto dire che come sempre o come molto spesso accade in questo paese leggi gli eventuali capi d'accusa prima sui giornali e poi e ne hai finalmente contezza”. All’infettivologo sarebbe stato intercettato anche il telefono: “Scopro di essere intercettato da chissà quanto tempo. Va bene, si vede che è giusto così. Insomma, per quanto riguarda, per il merito delle accuse ci sarà tempo, modo e luogo per parlarne. Non voglio passare per vittima perché anche questo lo troverei come dire disdicevole. Preferisco cercare di tenere la schiena dritta per quanto uno possa essere amareggiato questa cosa credo che sia fondamentale”. La Merlino insiste: “Quindi apprende le cose dai giornali sono le stesse che leggo io”. “Ma sì poi con la questione dei trucchi veramente… Adesso verranno fuori le cose che dovranno venire fuori a tempo e modo”, ribadisce Galli. La conduttrice si arrende: “Va bene, la vedo amareggiato però andiamo avanti”. 

NON STUPITEVI: LE ACCUSE A GALLI SONO LA NORMALITÀ DEL MONDO ACCADEMICO. DAGONOTA il 6 ottobre 2021. Che l’infettivologo Galli, a “Cartabianca”, su Rai3 affermi di essere “tranquillo” per il concorso universitario definito “truccato” ha perfettamente ragione, perché così son fatti tutti i concorsi universitari. Che secondo il rettore della Statale, Elio Franzini, siano “fatti gravissimi”, invece, fa sorridere, visto che lui aveva dichiarato che “i baroni non esistono, sono una invenzione dei giornali” (il 6 aprile 2011 su: www.studentistatale.it, http://www.studentimilano.it/forum/viewtopic.php?f=83&t=119773 ).  Franzini, dopo l’esser stato braccio destro dell’ex rettore Decleva, la cui moglie fu condannata per un concorso, ha presieduto concorsi a cattedra alcuni finiti a carte bollate o stracci e altri sui giornali. Su “il Giornale”, ad esempio, che nel 2008 scrisse sui concorsi in Estetica di quell’anno, alcuni presieduti da Franzini in atenei citati nell’articolo e finiti al di sotto di ogni sospetto (“Ministro fermi i concorsi (di Estetica ndr) so già chi vince”). E anche dopo esser stato vicepresidente di una società filosofica che si ritrovava, come trapela da una dichiarazione dell’ex presidente Luigi Russo, per decidere i concorsi (affermazione disponibile in video sul sito della Università di Torino, anno 2011 (…): Ripetiamolo, ancora una volta per i genitori che iscrivono i figli nelle università italiane, specie quelle non scientifiche. I concorsi universitari si svolgono solo perché la Costituzione prevede che gli accessi alla Pubblica amministrazione avvengano tramite concorsi che, stabiliti i parametri premino i candidati in possesso di maggiori requisiti. Ma i concorsi universitari avvengono al contrario, sono un “raggiro”. Quando un barone ha deciso quale suo assistente tuttofare va “affrancato” dal servaggio con l’accesso al ruolo di ricercatore o associato – assistente scelto anni prima per familismo, amorevoli sentimenti, disponibilità, scambio di favori e al quale ha fatto fare il cursus dis-honorum con dottorati e pubblicazioni un po’ finte… – si bandisce un concorso. E, proprio come ha fatto Galli, si “ritaglia” nella declaratoria un bando su misura per il candidato che si vuole mettere (se questo ha studiato le zanzare il bando richiederà “studioso particolarmente attento agli insetti”, se questo, invece, ha studiato gli elefanti il bando richiederà “studioso particolarmente attento ai grandi mammiferi”). Taluni commissari come Galli, consigliano anche agli altri candidati di “non presentarsi” nemmeno per non disturbare, magari balenando loro la possibilità di un successivo bando ad hoc. Non stupisce l’operato di Galli; stupisce il finto sdegno del rettore, la noncuranza dei magistrati quando il concorso non coinvolge figure note e ancor più il menefreghismo dei Governi che, da trent’anni non scardinano questo sistema, bruciando generazioni di appassionati studiosi e lasciando che vadano in cattedra “galli d’allevamento” per cooptazione. Inutile, come richiama il neo-Nobel Parisi, stanziare più fondi per la ricerca finché non si cambiano completamente le modalità di accesso alla ricerca e alla docenza universitaria. I fondi andrebbero a finanziare gli interessi particolari di chi è già in cattedra (si chiama “autonomia della ricerca” o “autonomia universitaria” e anche i relativi sistemi di selezioni, le peer-review, index di citazioni sono tutti strumenti aggirati), la “sua” ricerca, il “suo” assistente, il “suo” circolo.

Alessandro Da Rold per "la Verità" il 12 ottobre 2021. Aveva ricevuto nei giorni scorsi un invito a comparire per questa mattina in tribunale. Ma il professore e virologo Massimo Galli, a quanto pare, a meno di sorprese dell'ultimo minuto, non si presenterà. «Dobbiamo ancora avere a disposizione tutti i documenti e una chiara documentazione sulle accuse» spiega il suo avvocato Ilaria Li Vigni. Del resto l'indagine dei pm Luigi Furno e Carlo Scalas - sulla presunta concorsopoli all'Università degli Studi di Milano dove il responsabile Malattie infettive del Sacco sarebbe stato uno dei protagonisti -, non è ancora stata chiusa. Mancano all'appello atti che potrebbero risultare decisivi a giudizio. Devono anche essere formulate le accuse che variano dall'associazione a delinquere al falso ideologico, fino alla turbativa d'asta. Tutto ruota intorno alla richiesta di interdittiva nei confronti di Galli spiccata da Furno e Scalas circa nove mesi fa, tra gennaio e febbraio 2021. Inviata al gip Stefania Pepe è decaduta e lì si è fermata. Eppure in quel documento di 500 pagine è contenuto il cuore dell'inchiesta, con le intercettazioni di tutti gli indagati, 33 tra dirigenti e professori, ma soprattutto quelle di Galli. Per questo il virologo vuole avere contezza delle accuse che gli sono mosse. «Ho scoperto di essere intercettato da chissà quanto tempo», aveva detto la scorsa settimana durante la trasmissione L'aria che tira. Secondo il decreto della scorsa settimana, Galli sarebbe coinvolto in almeno quattro casi di presunta manipolazione di concorsi pubblici. Il primo è quello relativo al bando per il concorso da professore di seconda fascia al dipartimento di Scienze biomediche e cliniche dell'ospedale Sacco di Milano. Qui a vincere è stato un assistente di Galli, l'infettologo Agostino Riva. A valutare i candidati per il posto fu appunto il celebre virologo insieme con il professor Claudio Mastroianni. Stando agli atti di indagine la riunione del 14 febbraio 2020 sarebbe servita a valutare i candidati. Mentre in realtà «il risultato del lavoro collegiale della commissione» era stato concordato da Galli e dallo stesso Riva. A essere danneggiato in quel caso fu Massimo Puoti, primario del reparto di Malattie Infettive dell'Ospedale Niguarda di Milano che, ascoltato la scorsa settimana dai magistrati, ha confermato il quadro delle accuse. Altro caso è quello per il posto da professore di prima fascia all'Università degli di Milano, un incarico che prenderà Gianguglielmo Zehender, storico collaboratore di Galli. Poi c'è il caso di Arianna Gabrieli, assunta con un contratto a tempo determinato al Sacco come biologa: vicenda su cui c'erano state le proteste dell'altra virologa dell'ospedale, Maria Rita Gismondo. L'ultimo caso sotto la lente dei pm è quello di un posto di professore di seconda fascia all'Università degli Studi di Torino. Anche qui Galli era nella commissione giudicatrice. Ma in questo caso avrebbe favorito Andrea Calcagno, il candidato del professore Giovanni Di Perri. Nel frattempo giovedì prossimo Furno, titolare dell'inchiesta, dovrebbe diventare giudice del Tar, dopo aver vinto un concorso lo scorso anno. Bisognerà trovare forse un altro titolare da affiancare a Scalas, con il rischio di perdere un po' di tempo.

Concorsopoli, Galli: "Ti mando i i temi Tu rispondi solo che vanno bene". Affari Italiani il 14/10/2021. Il caso dei concorsi truccati che vede coinvolto il professor Massimo Galli, indagato insieme ad altre 32 persone, si arricchisce di nuovi dettagli. Al cellulare e con il presidente della commissione accanto. Venti minuti, non di più. Così - si legge sul Fatto Quotidiano - si è svolta la prova orale che ha consegnato ad Agostino Riva la vittoria nel concorso pubblico per professore associato. A presiedere il tutto, l’infettivologo dell’ospedale Sacco, Galli. Riva vincerà a scapito del più quotato Massimo Puoti. Così, secondo la Procura di Milano, le manovre del prof. Galli, dopo il “falso verbale” sui punteggi scritti, proseguono anche durante lo svolgimento dell'orale. Riva - prosegue il Fatto - fa l’esame in metà del tempo via cellulare con i commissari collegati, mentre il presidente Galli è accanto lui. Di più: già prima dell’esame, la stesura dei quesiti è risultata sospetta agli inquirenti che hanno "riscontrato come la procedura di assegnazione degli argomenti (...) era stata gestita interamente da Galli, con la complicità di Maria Ghisi, sua segretaria”. Il 17 marzo 2020, Ghisi dice a Galli: “Mando ad Agostino (...) i tre temi, giusto?”.“No – risponde Galli – prima devi mandarli agli altri due”. Quindi chiama il docente della Sapienza di Roma, Claudio Mastroianni (indagato). Dice: “Ti sta arrivando la richies ta”. Il collega e commissario chiede: “Che devo fare?”. L’infettivologo: “Devi rispondere: vanno bene. Domani (...) a lezione però, ci siamo capiti”.

Dagospia il 2 settembre 2021. Da "Radio Cusano Campus". La Dott.ssa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi”, condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo la percezione pubblica dei virologi presenti in tv. "I virologi sono i nuovi sex symbol, nel momento in cui si diventa personaggi pubblici si è attenzionati da diversi aspetti. Non solo dal punto di vista negativo, con le minacce dei no vax, ma anche in un senso positivo perché si diventa un modello di riferimento non solo dal punto di vista del "medico" ma dal punto di vista dell'attrazione sessuale. Nuovi sex symbol che quasi sostituiscono le star del cinema o della musica. I modelli cambiano con il cambiare del tempo, se alcuni decenni fa potevano andare più di moda attori e cantanti oggi sono di moda medici e virologi che compaiono in tv e attirano molto dal punto di vista sessuale". "L'intelligenza è sexy e ha un certo ascendente sulle persone, il termine "sapiosexual" intende proprio questo, una attrazione fisica e sessuale da parte delle persone, la parte mentale che attira sessualmente il singolo. In questo caso i virologi ci stanno insegnando come questo modello di sapiosessualità sta effettivamente prendendo molto piede, non solo l'aspetto fisico ma soprattutto quello intellettivo". "Burioni per esempio, seppur non risulti molto simpatico a tante persone, è un altro di quelli che sicuramente dal punto di vista dell'attrazione sessuale ha un riscontro molto, molto forte proprio per questo suo distacco. Avere però quelle caratteristiche intellettive così forti ti rende carismatico e sessualmente attraente". "Tanti modelli sono decaduti, il bagnino non ha più quell'appeal di un tempo. Sono modelli tramontati sostituiti da questi nuovi. Non è più la fisicità, o non solo, ad avere una attrattiva sessuale ma come detto l'intelligenza".

Dagotraduzione dal New York Times l'1 agosto 2021. Chi sono i fornitori più pericolosi di disinformazione sul Covid? Questa primavera, il Center for Countering Digital Hate ha pubblicato “The Disinformation Dozen", un rapporto sui 12 influencer che secondo il Centro erano responsabili del 65% delle falsità anti-vaccino diffuse su Facebook e altre piattaforme di social media. In cima alla lista c'è l'osteopata della Florida Joseph Mercola, oggetto di un recente profilo su The Times della mia collega Sheera Frenkel. Altri disinformatori sono Robert F. Kennedy Jr., attivista ambientale, e Rizza Islam, un affiliato della Nation of Islam. La disinformazione che Mercola, Kennedy e gli altri hanno diffuso è una brutta cosa, un pericolo per la salute di chi ci crede oltre che un pericolo pubblico per coloro che sono esposti alle loro scelte irresponsabili. È anche un promemoria del fatto che gli anti-vaccinisti di oggi non sono solo un fenomeno di destra, come alcuni media hanno cercato di far passare. La maggior parte delle figure nell'elenco proviene dal mondo della medicina alternativa, solitamente non associato al repubblicanesimo a coste rock. Ma la storia dei ciarlatani che spacciano cure false e teorie del complotto politico non è l'unica parte della saga di disinformazione sul Covid. La sfiducia nei messaggi di salute pubblica viene anche seminata quando i messaggeri di salute pubblica si mostrano meno che completamente affidabili. L'ultimo esempio in questo dramma è stato un match urlante del 20 luglio tra il dottor Anthony Fauci e il senatore Rand Paul. Il repubblicano del Kentucky ha suggerito che Fauci avesse mentito al Congresso sostenendo che il National Institutes of Health non aveva mai finanziato la ricerca sul guadagno di funzione presso l'Istituto di virologia di Wuhan. Fauci ha fatto un'eccezione veemente, affermando che la ricerca che il NIH aveva finanziato indirettamente con una sovvenzione di 600.000 dollari non era collegata al virus Covid e non si qualificava come guadagno di funzione, una tecnica di ricerca in cui un agente patogeno è reso più trasmissibile. Fauci ha quasi certamente ragione sui meriti tecnici, e Paul non ha aiutato il suo caso con le sue buffonate da J'accuse. Ma la verità più grande – oscurata fino a poco tempo fa da fervidi sforzi (Fauci incluso) per respingere la teoria della perdita di laboratorio per le origini della pandemia – è che l'establishment scientifico del governo degli Stati Uniti ha sostenuto la ricerca sul guadagno di funzione e la questione meritava molto più dibattito pubblico di quello che ha ottenuto. È anche incontrovertibilmente vero che i beneficiari di quel finanziamento si sono impegnati in tattiche ingannevoli e in menzogne totali per proteggere la loro ricerca dal controllo pubblico mentre denunciavano i loro critici come complottisti. «In una riunione del Dipartimento di Stato, i funzionari che cercano di chiedere trasparenza al governo cinese affermano di essere stati esplicitamente invitati dai colleghi a non esplorare la ricerca sul guadagno di funzione dell'Istituto di virologia di Wuhan, perché porterebbe un'attenzione sgradita al finanziamento del governo degli Stati Uniti», ha riferito il mese scorso Katherine Eban di Vanity Fair raccontando i dibattiti interni al governo sull'origine della pandemia. C’è una buona ragione se milioni di persone pensano che alcuni esperti di salute pubblica non siano così eroici o onesti come li fanno sembrare i loro stenografi dei media. Ciò che vale per le domande sulle origini della pandemia vale anche per le domande sulla sua gestione. Il CDC ha ampiamente sopravvalutato i rischi di diffusione all'aperto del virus, che (almeno fino all'emergere della variante Delta) sembrava essere più vicino allo 0,1% che al 10% sbandierato. Fauci ha mentito - non c'è altra parola per questo - su quella che vedeva come la soglia per raggiungere l'immunità di gregge, basata, come ha riportato Donald McNeil sul Times a dicembre, sulla «sua sensazione istintiva che il paese è finalmente pronto ad ascoltare ciò che ha pensa davvero». Un allarmante studio del CDC ha scoperto che i bambini ispanici e neri erano a maggior rischio di essere ricoverati in ospedale per Covid, il che ha contribuito alla pressione per mantenere le scuole pubbliche chiuse all'insegnamento in presenza nonostante le crescenti prove che le scuole non fossero zone calde virali. L'impatto di questa disinformazione sulla vita quotidiana è stato immenso. E sebbene possa avere il pregio di essere offerto con le migliori intenzioni o con molta cautela, questo atteggiamento probabilmente ha fatto più danni nel minare la fiducia del pubblico nella scienza dell'establishment di quelli ad opera di un ciarlatano della Florida. La credibilità degli esperti di salute pubblica dipende dalla loro comprensione del fatto che il compito di informare il pubblico significa dire tutta la verità, incluse le incertezze, invece di offrire Nobili Bugie al servizio di ciò che credono il pubblico abbia bisogno di sentirsi dire. Questi stessi esperti potrebbero rischiare di diminuire ulteriormente la loro credibilità se le loro assicurazioni sull'efficacia del vaccino si rivelassero eccessivamente ferventi. Uno studio preliminare condotto da Israele suggerisce che il vaccino Pfizer perde gran parte della sua capacità di proteggere dalle infezioni dopo pochi mesi, sebbene continui a proteggere da malattie gravi. Questo è ancora un argomento decisivo per il vaccino, ma un passo indietro rispetto alle precedenti promesse. Se finiamo per aver bisogno di un terzo, quarto o quinto colpo - e se condizioni gravi come la miocardite finiranno per essere legate ai vaccini - l'erosione della fiducia pubblica potrebbe trasformarsi in una frana. Quindi, con ogni mezzo, continuiamo a esporre e denunciare la disinformazione proveniente dalle paludi febbrili di Alternative America. Ma non sarà abbastanza bene finché i tutori della salute pubblica non si atterranno a uno standard più elevato di veridicità e responsabilità. Medico, guarisci te stesso.

Massimo Cacciari per "la Stampa" il 2 agosto 2021. Sotto la pressione della pandemia e l'ansia comprensibile per superarla al più presto viviamo un periodo di profonde trasformazioni giuridiche, istituzionali e politiche senza chiara consapevolezza, in modo informe e casuale. Qui sta il vero pericolo. Tendenze in atto da tempo, almeno dalla grande crisi che inaugurò il millennio con le Torri Gemelle, che sono andate via via "volatilizzando" i poteri delle assemblee elettive, trasformando da noi l'attività legislativa sostanzialmente in convalida della decretazione d'urgenza, e ciò sempre, si dice, per rispondere con tempestività ed efficacia a un bisogno di sicurezza e protezione invocato dall'opinione pubblica, vanno ormai stabilizzandosi: lo stato di emergenza sta diventando la norma, ormai con la benedizione anche di ex-garantisti e ex-giustizialisti. Che questo non interessi i virologi può starci. Che non interessi politici e giuristi forse meno. Una volta si parlava della "forma" delle leggi. Qual è la "forma" del Decreto Legge che proroga lo stato di emergenza, per la quinta volta (se non conto male) dal 31 gennaio 2020? Esiste nel nostro ordinamento qualche norma che consenta in via generale di proclamare lo stato di emergenza? L'art.7 del Codice di Protezione Civile? Non sembra - poiché lì è fatto esplicito riferimento soltanto a calamità naturali, quali sismi, eventi metereologici eccezionali, ecc. Esiste comunque la possibilità di incardinare nella nostra Costituzione l'idea di "stato di emergenza"? Meno che meno. Come spiegava la professoressa Cartabia, nella sua veste "scientifica, i nostri Padri non vollero che si ripetessero le condizioni che portarono nella Repubblica di Weimar al continuo ricorso all'istituto (previsto in quella Costituzione) dello "stato di eccezione", con le ben note conseguenze. Il ricorso alla formula dello "stato di emergenza" sembra perciò, ben più che frutto di totale improvvisazione, l'autofondazione di una nuova norma, e cioè una, per quanto informe, innovazione di sistema. Anche per la fondamentale ragione che nulla si dice nel DL del 23 luglio sulla possibilità di ulteriori proroghe. L'art.24 del Codice di Protezione Civile recita che lo stato di emergenza nazionale non può superare i 12 mesi ed è prorogabile per non più di ulteriori 12. Questo art. non è richiamato nel Decreto, e pour cause, poiché in generale il Codice non poteva esserlo, non prevedendo, come si è detto, altro che calamità naturali (che è espressione tecnica, e non può venir manipolata ad libitum). Né vengono in alcun modo indicati i criteri in base ai quali lo stato di emergenza potrebbe finire. Tutti vaccinati dagli 0 ai 100 anni? Nessun contagio più? Su quali indici, su quali dati si intenderà procedere? Si pensa esista un termine ultimo decorso il quale ogni ulteriore proroga diviene impossibile? Semplici, socratiche domande È palese che nella nostra Costituzione non può trovare radicamento l'idea di "stato di emergenza". Forse però qualcosa di analogo. La mia modesta competenza in materia mi suggerisce che il "caso" può risolversi soltanto attraverso la lettura combinata degli artt. 13, 16 e 32. "La libertà personale è inviolabile"(art.13) e solo in casi «indicati tassativamente dalla legge» l'autorità di pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori da comunicarsi entro 48 ore all'autorità giudiziaria, ecc. È del tutto evidente che qui si tratta di reati che nulla hanno a che fare col nostro caso. L'art.16, invece, prevede la possibilità di limitazioni in via generale «per motivi di sanità e di sicurezza» al diritto di libera circolazione e soggiorno in qualsiasi parte del territorio nazionale, e l'art.32 stabilisce che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Ora è chiaro che qui dovrebbe intervenire una legge che stabilisca in modo formale quali siano questi motivi che consentono di derogare alla solenne dichiarazione d'apertura dell'art.13. E altrettanto chiaro, mi pare, che comunque tutte le restrizioni coattive dovrebbero seguire la via giurisdizionale che in esso si indica. In assenza di simili garanzie, un domani per «motivi di sicurezza» si potrà procedere a limitare la libertà della persona invocando la tutela di qualsiasi altro "valore". Difficile da immaginare? Niente affatto. Credo già viviamo all'interno di questa deriva: dal terrorismo alla immigrazione, oggi la pandemia, domani probabilmente sarà la "difesa dell'ambiente". Tutte emergenze realissime, nulla di inventato. Il problema è come le si affronta, occasionalmente, senza memoria storica, incapaci di dar forma di legge agli interventi magari necessari, privi di qualsiasi strategia di riforma del sistema democratico. Alcune Autorità sovra-nazionali hanno tuttavia ben compreso, e da anni, il formidabile pericolo che questa tendenza comporta. Ma la loro voce neppure è citata dal Governo. L'art.4 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici (New York 1966), il quale, in base all'art.10 della Costituzione, prevale sulla normativa ordinaria (come ha ritenuto la stessa Corte costituzionale) così detta: «In caso di pericolo pubblico eccezionale che minacci l'esistenza della Nazione e venga proclamato con atto ufficiale, gli Stati possono prendere misure le quali deroghino, ecc.ecc.». Sussistono forse oggi, luglio-agosto 2021, i presupposti minimi per dichiarare che l'esistenza della nostra Nazione è minacciata? Infine, lo ricordo per l'ennesima volta, la Risoluzione 2361 del Consiglio d'Europa dice: «I governi devono assicurare che i cittadini siano informati that vaccination is not mandatory e che nessuno sia politicamente, socialmente o con altri mezzi costretto ad assumere il vaccino if they do not wish to do so themselves». Aggiungiamo la disposizione del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 giugno: «È necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medicio perché non hanno ancora avuto la possibilità di farlo o perché hanno scelto di non essere vaccinate». Parole di qualche scemo no-vax? Parole che incitano al suicidio? No, parole al vento, così pare. Stiamo preparandoci a un regime, a una "intesa mondiale per la sicurezza"(diceva un grande filosofo, Deleuze, anni fa), per la gestione di una "pace" fondata sulle paure, le angosce, le frustrazioni di tutti noi, individui ansiosi di soffocare ogni dubbio, ogni interrogazione, ogni pensiero critico? 

Giorgio Agamben per "la Stampa" il 30 luglio 2021. Quello che più colpisce nelle discussioni sul green pass e sul vaccino è che, come avviene quando un paese scivola senza accorgersene nella paura e nell'intolleranza - e indubbiamente questo sta avvenendo oggi in Italia - è che le ragioni percepite come contrarie non solo non sono in alcun modo prese seriamente in esame, ma vengono rifiutate sbrigativamente, quando non diventano puramente e semplicemente oggetto di sarcasmi e di insulti. Si direbbe che il vaccino sia diventato un simbolo religioso, che, come ogni credo, funge da spartiacque fra gli amici e i nemici, i salvati e i dannati. Come può pretendersi scientifica e non religiosa una tesi che rinuncia allo scrutinio delle tesi divergenti? Per questo è importante innanzitutto chiarire che il problema per me non è il vaccino, così come nei miei precedenti interventi in questione non era la pandemia, ma l'uso politico che ne viene fatto, cioè il modo in cui fin dall'inizio essi sono stati governati. Ai timori che si affacciavano nel documento che ho firmato con Massimo Cacciari, qualcuno ha incautamente obiettato che non c'era da preoccuparsi, «perché siamo in una democrazia». Com' è possibile che non ci si renda conto che un paese che è ormai da quasi due anni in stato di eccezione e in cui decisioni che comprimono gravemente le libertà individuali vengono prese per decreto (è significativo che i media parlino addirittura di «decreto di Draghi», come se emanasse da un singolo uomo) non è più di fatto una democrazia? Com' è possibile che la concentrazione esclusiva sui contagi e sulla salute impedisca di percepire la Grande Trasformazione che si sta compiendo nella sfera politica, nella quale, com' è avvenuto col fascismo, un cambiamento radicale può prodursi di fatto senza bisogno di alterare il testo della Costituzione? E non dovrebbe dare da pensare il fatto che ai provvedimenti eccezionali e alle misure di volta in volta introdotte non viene assegnata una scadenza definitiva, ma che essi vengono incessantemente rinnovati, quasi a confermare che, come i governi non si stancano di ripetere, nulla sarà più come prima e che certe libertà e certe strutture basilari della vita sociale a cui eravamo abituati sono annullate sine die? Se è certamente vero che questa trasformazione - e la crescente depoliticizzazione della società che ne risulta - erano già in corso da tempo, non sarà per questo tanto più urgente soffermarsi a valutarne finché siamo in tempo gli esiti estremi? È stato osservato che il modello che ci governa non è più la società di disciplina, ma la società di controllo -ma fino a che punto possiamo accettare che questo controllo si spinga? È in questo contesto che si deve porre il problema politico del green pass, senza confonderlo col problema medico del vaccino, a cui non è necessariamente collegato (abbiamo fatto in passato vaccini di ogni tipo, senza che mai questo discriminasse due categorie di cittadini). Il problema non è, infatti, soltanto quello, pure gravissimo, della discriminazione di una classe di cittadini di serie B: è anche quello, che sta certamente più a cuore dell'altro ai governi, del controllo capillare e illimitato che esso permette sui titolari stoltamente fieri della loro "tessera verde". Com' è possibile -chiediamo ancora una volta- che essi non si rendano conto che, obbligati a mostrare il loro passaporto persino quando vanno al cinema o al ristorante, saranno controllati in ogni loro movimento? Nel nostro documento avevamo evocato l'analogia con la "propiska", cioè col passaporto che i cittadini dell'Unione sovietica dovevano esibire per spostarsi da una località all'altra. È questa l'occasione di precisare, visto che purtroppo sembra necessario, che cos' è un'analogia giuridico-politica. Ci è stato senza alcun motivo rimproverato di istituire un paragone fra la discriminazione risultante dal green pass e la persecuzione degli ebrei. È bene precisare una volta per tutte che solo uno stolto potrebbe equiparare i due fenomeni, che sono ovviamente diversissimi. Non meno stolto sarebbe però chi rifiutasse di esaminare l'analogia puramente giuridica - io sono giurista di formazione - fra due normative, quali sono quella fascista sugli ebrei e quella sull'istituzione del green pass. Forse non è inutile rilevare che entrambe le disposizioni sono state prese per decreto legge e che entrambe, per chi non abbia una concezione meramente positivistica del diritto, risultano inaccettabili, perché - indipendentemente dalle ragioni addotte - producono necessariamente quella discriminazione di una categoria di esseri umani, a cui proprio un ebreo dovrebbe essere particolarmente sensibile. Ancora una volta tutte queste misure per chi abbia un minimo di immaginazione politica vanno situate nel contesto della Grande Trasformazione che i governi delle società sembrano avere in mente - ammesso che non si tratti invece, come pure è possibile, del procedere cieco di una macchina tecnologica ormai sfuggita a ogni controllo. Molti anni fa una commissione del governo francese mi convocò per dare il mio parere sull'istituzione di un nuovo documento europeo di identità, che conteneva un chip con tutti i dati biologici della persona e ogni altra possibile informazione sul suo conto. Mi sembra evidente che la tessera verde è il primo passo verso questo documento la cui introduzione è stata per qualche ragione rimandata. Su un’ultima cosa vorrei richiamare l'attenzione di chi ha voglia di dialogare senza insultare. Gli esseri umani non possono vivere se non si danno per la loro vita delle ragioni e delle giustificazioni, che in ogni tempo hanno preso la forma di religioni, di miti, di fedi politiche, di filosofie e di ideali di ogni specie. Queste giustificazioni sembrano oggi - almeno nella parte dell'umanità più ricca e tecnologizzata - venute meno e gli uomini si trovano forse per la prima volta di fronte alla loro pura sopravvivenza biologica, che, a quanto pare, si rivelano incapaci di accettare. Solo questo può spiegare perché, invece di assumere il semplice, amabile fatto di vivere gli uni accanto agli altri, si sia sentito il bisogno di instaurare un implacabile terrore sanitario, in cui la vita senza più giustificazioni ideali è minacciata e punita a ogni istante da malattie e morte. Così come non ha senso sacrificare la libertà in nome della libertà, così non è possibile rinunciare, in nome della nuda vita, a ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

"Silete Theologi in munere alieno". Quei filosofi (un po’ provinciali) che vogliono insegnare medicina…Michele Prospero su Il Riformista il 30 Luglio 2021. Se proprio si vuole assaporare qualcosa di sovietico nella questione dei vaccini, non è certo nei foglietti verdi richiesti per circolare che essa si rintraccia. Dell’impero dell’est, quello che sta tornando in vita è semmai il vecchio, malandato Diamat, che oggi si propone a media unificati secondo una versione biopolitica coltivata nel cuore teorico del nord-est. Infatti solo a una qualche variante italica (e quindi con una venatura provinciale) della filosofia poteva venire in mente di ingaggiare con gli scienziati una disputa per indicare loro il Vero. E i medici, che rispondono punto per punto a degli spaesati scolari di un Hegel redivivo che si sono convinti di possedere una enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (insomma: la Krisis finalmente riassorbita dalla Totalità del pensiero positivo bio-teologico), avrebbero fatto molto meglio a risolvere la disputa limitandosi a riformulare il celebre monito di Alberico Gentili recuperato anche da Schmitt: “Silete Theologi in munere alieno”. (tacete, teologi, sugli argomenti che non vi riguardano, traduzione del redattore). In termini esortativi analoghi si espresse anche Copernico che intimava appunto il silenzio della metascienza della teologia in nome dell’autonomia della scienza che parla solo il linguaggio tecnico della matematica. I virologi avrebbero dovuto semplicemente invitare i bioteologi odierni a tacere attorno a questioni che non sono di loro competenza. La forma del talk dà di volta alle menti e, saltellando da un divano all’altro, è facile per chi diviene l’icona della legge televisiva arrivare a persuadersi di tenere in tasca l’intero scibile. Nessuno statuto scientifico speciale più esiste, Gruber o Berlinguer sono le post-moderne accademie delle scienze che autorizzano a svolazzare su tutti i misteri del creato. Questo è il vero nichilismo contemporaneo. E’ la dittatura del relativismo della chiacchiera, altro che biopotere che comprime le libertà in nome dello stato di eccezione. La questione del rapporto tra tecnica e politica l’affrontò in maniera del tutto trasparente già Marsilio da Padova e c’è poco da aggiungere alle sue parole. “Il medico offre un parere tecnico sulla salute fisica degli uomini senza detenere nei loro confronti alcun potere coattivo”. Il comitato scientifico consiglia, il potere politico decide con minore o maggiore efficacia. Nulla di nuovo è accaduto e nessun simbolo autoritario e repressivo si rintraccia nel governo democratico della situazione di emergenza sanitaria. Bene ha fatto il presidente Mattarella, con il suo implicito “No Max”, a impartire una vera e propria lezione di filosofia del diritto. Non esiste, entro una convivenza politicamente organizzata, la libertà di violare il corpo altrui. Rivendicare la (sia pure ipotetica) libertà di contagiare gli altri, e di determinare una infinita situazione di pandemia, non è propriamente un diritto. Sarebbe un diritto folle quello di minare la salute pubblica (e dunque l’economia, la scuola, il divertimento, lo sport), e già Rousseau spiegava che la follia non costituisce mai diritto. Dai tempi di Hobbes la modernità politica stabilisce un nesso ineludibile e fondativo tra il sovrano e la vita. Costituisce infatti la ragione istitutiva dell’artificio politico lo sforzo pattizio per costruire con il diritto sanzionabile il rimedio alla paura, alla minaccia che grava sul corpo e rende vulnerabile la sua sicurezza immediata. Il grande conservatore della vita, che è lo Stato legale-razionale, verrebbe meno alla sua stessa ragion d’essere primaria se consentisse, entro un territorio ricoperto con lo scudo del sovrano, di morire di morte procurata da un altro corpo che rifiuta la reciprocità dell’immunizzazione in nome di una aporetica sovranità privata di gestire il rischio che ricade non solo sull’Ego ma anche sull’Alter. Neanche l’Unico di Stirner rivendicherebbe mai sensatamente la assurda libertà di poter nuocere alla esistenza corporale altrui senza l’assunzione del dovere di limiti ragionevoli per cui le licenze individuali si arrestano nella sfera esterna quando possono distruggere le condizioni basilari del vivere in comune. Nemmeno può essere invocata la tolleranza di altri soggetti che consentono al portatore potenziale di minaccia virale di frequentare fabbriche, uffici, luoghi pubblici, studi televisivi. E’ infatti in gioco una questione pubblica, e nessun accordo tra privati può negoziare limitazioni e deroghe speciali. I cultori della “Italian Theory” rivendicano una originaria estraneità al problema della sovranità che li conduce pericolosamente verso la condivisione di argomenti che risuonano nelle piazze della ribellione selvaggia. Michele Prospero

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 agosto 2021. Caro Dago, due cose piccole piccole. La prima. Non ho mai avuto il piacere di conoscere Giorgio Agamben e me ne dolgo di avere letto soltanto due o tre dei suoi tanti libri, tutti marchiati da un’originalità stilistica e intellettuale. Gli invidio molto il libro che parte al suo tavolo da lavoro e da quel che ci sta intorno. Come tanti ero però rimasto stupito dalla supponenza con cui lui e un altro personaggio autorevole della nostra scena culturale, il veneziano Massimo Cacciari, avevano firmato un testo in cui proclamavano il loro timore che l’eventuale obbligatorietà del green pass potesse costituire una pericolosa limitazione delle libertà personali di ciascuno di noi. Al che in molti, da Renato Brunetta a Davide D’Alessandro sull’Huffington Post, hanno replicato con argomenti lapalissiani. Vedo adesso che Agamben firma un testo di controreplica a dire che non è affatto vero che la scienza abbia sempre ragione, quella scienza che oggi ci dice che il vaccino (e la conseguente disponibilità di un green pass) sia il muro migliore contro questo virus cangiante e diabolico. Agamben allega il caso dei dieci scienziati italiani (dieci sporcaccioni intellettuali) che nel 1938 firmarono un loro documento di sostegno alle leggi razziali col sostenere che c’era un fondamento scientifico alla classificazione degli uomini per razze. Ora la sola idea di trovare una qualche attinenza tra quella ignobile manifestazione di sudditanza del pensiero intellettuale alla dittatura politica e gli attuali inviti alla cautela di scienziati ed epidemiologi è da far accapponare la pelle. Che questa attinenza la scorga colui che passa come uno dei maggiori filosofi italiani contemporanei mi lascia a dir poco di stucco. Non ci sono parole. Seconda cosa piccola piccola. Mi telefona il mio commercialista e amico Andrea Mazzetti e mi dice che stando alle legge e siccome a seguito del lockdown e dei suoi annessi e connessi il mio reddito professionale da un anno all’altro è andato giù del 30 per cento, io sarei autorizzato a chiedere allo Stato italiano un sussidio di oltre 4000 euro. Di chiedere dunque ai miei concittadini un bel po’ di soldi, e mentre sono vicini ai 130mila gli italiani uccisi da questo dannato morbo, altro che un calo del reddito del 30 per cento. Ho detto ad Andrea di non fare alcuna richiesta. Me ne sarei vergognato a vita.

 Il dibattito dopo le parole di Cacciari. Liberare la scienza dalla politica, è questa l’urgenza. Astolfo Di Amato su Il Riformista l'1 Agosto 2021. Agamben e Cacciari. Due filosofi, che certamente non possono essere qualificati come pericolosi estremisti di sinistra o, meno ancora, di destra. Sul prestigioso sito dell’Istituto degli studi filosofici di Napoli hanno pubblicato un lungo articolo dal titolo “A proposito del decreto sul green pass”. L’articolo è estremamente critico in ordine alla possibile discriminazione tra i cittadini, derivante dalla introduzione del green pass. Ecco alcuni passaggi particolarmente significativi: «La discriminazione di una categoria di persone, che diventano automaticamente cittadini di serie B, è di per sé un fatto gravissimo, le cui conseguenze possono essere drammatiche per la vita democratica. Lo si sta affrontando, con il cosiddetto green pass, con inconsapevole leggerezza…Paradossalmente, quelli “abilitati” dal green pass più ancora dei non vaccinati (che una propaganda di regime vorrebbe far passare per “nemici della scienza” e magari fautori di pratiche magiche), dal momento che tutti i loro movimenti verrebbero controllati e mai si potrebbe venire a sapere come e da chi. Il bisogno di discriminare è antico come la società, e certamente era già presente anche nella nostra, ma il renderlo oggi legge è qualcosa che la coscienza democratica non può accettare e contro cui deve subito reagire». Per giustificare la loro posizione i due filosofi ricordano anche che «le stesse case farmaceutiche hanno ufficialmente dichiarato che non è possibile prevedere i danni a lungo periodo del vaccino, non avendo avuto il tempo di effettuare tutti i test di genotossicità e di cancerogenicità». Questa presa di posizione da parte di due pensatori, tra i più autorevoli del nostro tempo, i cui scritti danno conto di una militanza sinceramente democratica, che ha animato tutto il loro percorso di studiosi, non può non costringere ad una riflessione, che deve andare anche al di là del tema contingente della pandemia da Covid 19. La prima questione che viene in evidenza è se sia legittima ed utile la politicizzazione della scienza, che ha caratterizzato il dibattito su questo tema, con ricadute che hanno del grottesco. Basti pensare che l’ipotesi che il virus sia sfuggito dal laboratorio di Wuhan era una bestemmia quando la pronunciava Trump ed è diventata una questione meritevole di una seria indagine quando ha cominciato a formularla Biden. Al tempo stesso, se si guarda al dibattito nazionale, si deve constatare che il discrimine tra le tesi in campo non è affatto costituito dalla serietà o no degli argomenti scientifici, ma dall’adesione ai partiti di destra o di sinistra. È assolutamente prevedibile su un argomento quale quello della vaccinazione, che in quanto scientifico non dovrebbe essere condizionato dalla ideologia, la posizione di un qualsiasi esponente della Lega o del Partito Democratico. In questo, anche la posizione dei cd. scienziati non aiuta, in quanto si avverte fortissima l’incidenza sul loro pensiero della appartenenza. Del resto, non è priva di rilievo la circostanza che abbiano un ruolo di primo piano gli epidemiologi, per i quali è sempre forte la tentazione di far combaciare i numeri con le proprie ideologie. Chi non ricorda la statistica del pollo di Trilussa? La prima questione, allora, che il tempo presente porta alla attenzione di tutti è la necessità e l’urgenza di liberare la scienza dalla politica. La scienza, come ha insegnato Popper, trova nella falsificabilità il criterio che la distingue dalla stregoneria. La sostanza della falsificabilità sta nel dubbio e nella conseguente esigenza di una costante verifica sperimentale. Tutto il contrario, perciò, delle certezze dispensate dalla politica, pretesamente basate sulla scienza. La vaccinazione contro il Covid 19 pone, in questa prospettiva, un problema di fondo. Essa riguarda gli eventi avversi, per i quali occorre fare una distinzione. Da un lato vi sono gli eventi avversi che hanno fatto seguito pressoché immediato alla inoculazione del vaccino e dall’altro gli eventi avversi, che potrebbero manifestarsi dopo molto tempo. Il rischio dei primi è misurabile, alla stregua dei risultati delle campagne vaccinali svoltesi nei vari paesi, e dunque, rispetto ad essi vi sono tutti gli elementi di giudizio occorrenti per valutare l’opportunità di introdurre una differenza di trattamento tra chi è vaccinato e chi no o, addirittura, un obbligo di vaccinazione. Il rischio dei secondi è, viceversa, non calcolabile. La storia umana è piena di esempi di pratiche o di sostanze utilizzate ritenendo che fossero senza rischi e che si sono poi rivelate letali. Si pensi all’amianto, oggi bandito da qualsiasi uso, ma che a lungo è stato ritenuto un materiale miracoloso, di cui il progresso imponeva un uso sempre più diffuso. Nella prospettiva indicata da ultimo, e cioè quella delle conseguenze non immediate, il tema delle discriminazioni fondate sull’avvenuta vaccinazione o addirittura dell’introduzione di un obbligo vaccinale non può beneficiare di alcuna certezza. E sta proprio qui l’errore di quella politica che, viceversa, ritiene di poter dare messaggi semplificati invocando certezze scientifiche che non esistono. Con la conseguenza che non solo la politica, ma anche la scienza perde credibilità agli occhi dei cittadini, che si trovano a dover prendere posizione su pretese certezze che, siccome contrapposte, si smentiscono a vicenda. Molto più opportuno, e democratico, sarebbe partire dalle poche certezze effettivamente esistenti dando ai dubbi lo spazio, che hanno nella realtà. Una certezza, tristissima, sono certamente le molte migliaia di morti cagionati dalla pandemia. Da essa deriva l’ulteriore certezza che, senza strumenti di difesa, la mortalità continuerebbe a colpire inesorabilmente moltissime persone. Di fronte a questo rischio vale la pena affidarsi a vaccini, di cui sono ignoti gli effetti a lungo termine? Probabilmente si, attesa l’enormità del rischio attuale. Ma è con questa chiarezza e con questa assunzione di responsabilità che la soluzione deve essere prospettata ai cittadini, e non con la “leggerezza” che giustamente mettono in evidenza Agamben e Cacciari. Proprio perché cittadini e non sudditi. E solo se vi è questa chiarezza, la soluzione è accompagnata dagli anticorpi idonei a combattere quel bisogno di discriminare, che, come denunciano Cacciari e Agamben, è antico come la società. La consapevolezza della assoluta straordinarietà della situazione e della soluzione è indispensabile affinché non si generi assuefazione alla discriminazione. Astolfo Di Amato

Dagli economisti ai virologi: viaggio nella crisi dei “competenti”. Andrea Muratore su Inside Over il 19 giugno 2021. Su una scala ancora più ampia rispetto al recente passato, l’anno della pandemia di Covid-19 ha imposto una mediatizzazione e un’enorme concentrazione di attenzione su precise categorie tecnico-professionali, in questo caso quelle dell’ambito medico e in particolare delle discipline legate alla virologia. In ogni Paese virologi e medici di simile professionalizzazione sono diventati centrali nel dibattito pubblico, i loro volti un’abitudine per i lettori dei giornali e i telespettatori dei talk show e delle tribune, le loro dichiarazioni un tema di discussione politico. Tanto che in Italia non è mancata l’antica e a tratti stucchevole tendenza a dividerne il campo in termini di appartenenza partigiana tra virologi “di sinistra”, partigiani delle chiusure più dure e soprattutto della linea adottata dall’ex governo Conte II (per i loro critici, interpreti di un presunto metodo “comunista”) e virologi “di destra” che perorano una strategia di contenimento del Covid in grado di conciliare libertà individuali e prevenzione sanitaria (accusati di “antiscientismo” da un fallace dibattito mediatico). Non è la prima volta che succede negli anni della globalizzazione, che nell’ultimo trentennio si è caratterizzata come un continuo accumularsi di emergenze per i Paesi occidentali, i quali hanno avuto nella pandemia il loro definitivo big bang. L’emergenza economica, l’emergenza immigrazione, l’emergenza terrorismo e l’emergenza sociale hanno assunto, in diversi periodi, un ruolo chiave su scala nazionale o globale, portando di conseguenza gli esperti ad assumere visibilità e centralità nel dibattito pubblico. Prima del Covid-19, l’apoteosi di questo fenomeno si ebbe in occasione degli anni della Grande Recessione e della crisi economica globale che, a più riprese, dal 2007-2008 allo scoppio del terremoto europeo sui debiti sovrani (2010-2012) perturbò le economie avanzate provocando smottamenti sistemici che in diversi Paesi, come ad esempio l’Italia, mai tornata ai livelli di Pil pre-crisi, si sono fatti sentire duramente. Allora furono chiamati in causa gli economisti, che si moltiplicarono nei salotti televisivi, sui giornali, in libreria, arrivando a ricoprire cariche apicali in diversi esecutivi e, in Italia, addirittura la carica di premier con Mario Monti. L’accentuazione della visibilità degli economisti, come quella dei virologi di oggi, portò con se sul medio-lungo periodo un fenomeno tipico dei nostri tempi che è quello della crisi della competenza. Se oggi il dibattito tra medici non fa altro che aumentare, troppo spesso, la confusione sul tema Covid, le opinioni contrastanti tra loro si rincorrono in un tourbillon confuso e si giunge a conclusioni affrettate con troppa superficialità, presentando come oggettive prove non peer-reviewed. Negli scorsi anni, gli economisti che non erano riusciti a prevedere i palesi venti di crisi che soffiavano sull’Occidente, non mancavano di presentare come soluzione quelle ricette (tagli alla spesa pubblica, austerità, disciplina di bilancio) che la crisi l’avevano favorita, ma la cui difesa aveva garantito loro un’ascesa sociale, professionale, politica. Dimostrandosi tanto impreparati nel leggere i segni dei tempi in passato quanto spiazzati dall’accelerare delle tempeste economiche durante il loro sdoganamento.

La crisi della competenza. La crisi della competenza, intendiamoci, non va associata nella stragrande maggioranza dei casi a un’impreparazione o a un’esplicita malafede da parte degli esperti chiamati in causa. O, nei casi limite, non solo. Ad andare in crisi è il costrutto sociale che vede le emergenze affidate, volta per volta, al consiglio e all’ausilio di categorie professionali “tecniche” ritenute oggettivamente in grado di padroneggiare le discipline. Nella speranza che questo procuri, a cascata, un rafforzamento delle capacità del sistema sociale e politico di affrontare le emergenze. Questo processo si è tuttavia più volte dimostrato fallace per un’ampia serie di motivi. In primo luogo, ai “competenti” viene affidata un’aura salvifica che pare deresponsabilizzare completamente il peso dei decisori esterni al loro ambito senza una corrispondenza tra visibilità e autorità effettiva. Spesso i tecnici sono accademici o ex professori universitari, editorialisti o professionisti, ma non ricoprono cariche formali e il loro ruolo può e in certi casi deve fermarsi a quello del consigliere. In secondo luogo, la società contemporanea è abituata a chiedere risposte, ma non a porsi le domande giuste. E in questo ha giocato un ruolo anche l’èlite culturale e accademica che ha voluto isolarsi in una torre d’avorio pretendendo, in larga misura, di distanziarsi dalla società reale, dalle comunità di riferimento creando un meccanismo entro cui  si pretende che il sapere tecnico, scientifico o professionale sia patrimonio di pochi eletti, che solo l’aver stabilizzato una determinata competenza in un preciso ambito consenta di dichiararsi chiamato in causa per parlare di tale tema. Livellando così nel dibattito pubblico la capacità di analisti, studiosi e opinione socialmente attiva di interrogarsi per poter vedere i propri dubbi risolti e, soprattutto, scrutinare effettivamente il ruolo dei tecnici. Terzo punto, somma degli altri due e causa principale, è il fatto che ad aver incentivato questi meccanismi sia stata la politica in una fase in cui i partiti hanno abdicato, in Italia e nel resto d’Europa, alla loro volontà di costruire classi dirigenti all’altezza delle sfide del presente e in grado di coniugare sapere pratico e visione politica. Da un lato questo ha portato i politici e i governanti a cercare nei tecnici dapprima i salvatori e in seguito i responsabili di possibili fallimenti; dall’altro, nella politica stessa e nel dibattito pubblico si è creato un mito che vorrebbe come necessario il possesso di determinati requisiti o competenze per l’assunzione di cariche politiche. Richiesta tanto vaga quanto fallace: siamo certi che affidando, ex lege, il ministero degli Esteri a un diplomatico di carriera, la Sanità a un medico e la Giustizia a un magistrato la capacità di produzione di azioni e iniziative e la tenuta politica di questi dicasteri, del resto già stracolmi di tecnici nelle loro burocrazie strategiche, si valorizzerebbero? Evidentemente no. Un leader non deve essere “competente”: deve avere una solida cultura, idee precise e certamente padronanza delle dinamiche oggetto dei suoi campi d’interesse, ma è la capacità politica la prima necessità, non una data “expertise”, per usare un gergo comune nel campo dei “competenti”.

Il dialogo tra politica e competenza. Giulio Andreotti fu sette anni ministro della Difesa (1959-1966) senza venire dai ranghi militari e, anzi, fu scartato alla visita di leva per allievi ufficiali; ricoprì la carica di ministeri economici di peso, l’Industria e le Finanze, senza aver avuto un pesante background accademico in materia. Anzi, come amava ironizzare, all’università odiava studiare “la scienza delle finanze dove ho preso il mio l’unico 18. Un voto che però non mi ha impedito di diventare proprio ministro delle finanze. Per questo, forse, non sono portato al pessimismo”. Dulcis in fundo, il sette volte presidente del Consiglio ebbe anche un incarico di sei anni alla Farnesina (1983-1989). In tutte queste esperienze nessuno mise mai in dubbio il fatto che Andreotti avrebbe potuto costruire il giusto mix tra conoscenze politiche ed esperienza personale e sostegno di apparati e ministeri. In Regno Unito nientemeno che Winston Churchill seppe capire l’importanza di questa alchimia dopo che alcuni errori personali legati a intuizioni sbagliate (l’attacco di Gallipoli nel 1915 e il fallimento della difesa del gold standard dopo la Grande Guerra) avevano rischiato di troncarne la carriera politica. Churchill seppe guidare con tenacia lo sforzo bellico di Londra dal 1940 al 1945 costruendo una squadra che avrebbe saputo coniugare alla perfezione sapere politico e competenze tecniche. La scelta del dinamico Lord Beaverbook, ex giornalista dalla mente poliedrica e uomo di grande ingegno, come ministro della produzione aeronautica nel 1940 contribuì a accelerare la difesa dalla Luftwaffe nella Battaglia d’Inghilterra; sul finire della guerra, la consulenza data a Churchill e al suo governo da John Maynard Keynes, che del premier fu forte avversario negli anni precedenti la crisi del 1929, seppe contribuire a costruire l’agenda economica che il Regno Unito, assieme agli Usa, avrebbe proposto per l’ordine post-bellico. La tecnica, in un certo senso, è sempre politica. Ed è sbagliato ritenere le due sfere separate o illudersi che in uno dei due campi possa nascondersi una supposta oggettività. Le grandi innovazioni e progressi della storia e le grandi fasi della vita dei popoli e delle nazioni non sono mai state dovute solo all’una o all’altra fattispecie. La competenza come fattore di governo della vita pubblica è pia illusione senza un progetto politico alle spalle; la politica senza l’ausilio di un mix di conoscenze e esperienze è di fatto cieca. L’era della globalizzazione culminata nella pandemia ha portato governi e opinioni pubbliche a pensare che separare i due campi potesse essere la soluzione per risolvere le varie crisi settoriali mano a mano che esse si presentavano. La pandemia, crisi al tempo stesso sanitaria, economica, sociale, politica, ci ha insegnato che così non è. E che forse la vera emergenza è la stessa globalizzazione per come è stata strutturata: competitiva, anarchica, atomizzante. E la risposta a dilemmi del genere non può che passare per la riscoperta della politica.

Nella mente di un No-Vax. Luc Ferry su La Repubblica il 28 agosto 2021. Ecco perché conta di più capire la struttura che sorregge il suo pensiero piuttosto che coprirlo d’insulti o di grandi discorsi. Nel fronteggiare il complottismo che aleggia sulla pandemia, chi si sforza di argomentare, di esporre fatti, viene preso per agente segreto del complotto stesso. A buon diritto Emmanuel Macron, anzi lui e tutti i democratici, sono impensieriti dall'escalation di movimenti complottisti che invitano alla disobbedienza civile. Detto questo, se si ha intenzione di convincere qualcuno, conta di più capire la struttura psicologica che sorregge il suo pensiero, anziché coprirlo d'insulti o di grandi discorsi. 

Nella mente di un no vax. Intervista all'esperto. De Agostini l'11/01/2021. Qual è il confine tra la libertà di espressione e la libertà di insulto, di spinta e fiera asineria, di mistificazione aggressiva? Perché davanti a un'idea o convinzione, giusta o sbagliata che sia, molte persone non riescono - complice lo schermo dei social - a rinunciare alla cieca e sorda invettiva? E soprattutto qual è il segreto di chi, nel chiasso e nella complessità dei nostri giorni, riesce ad avere e ad esprimere tutte queste granitiche certezze? Me lo sono chiesta con insistenza, di recente, leggendo decine e decine di infuriati commenti sul vaccino di tanti utenti del web. Tantissime persone apparentemente molto diverse tra loro eppure, pare, tutte accomunate da uno stesso denominatore: una laurea all’Università della Vita, curriculum Social Network, con esame bonus in “Laboratorio di ricerca video ke nessuno ti farà vedere”. La sicurezza delle loro affermazioni sul 5G infettivo, sui microchip infilati nelle vene, sul tentativo di farci morire tutti e/o trasformarci in automi, servi di un grande dittatore che ci osserva seduto su un trono d’oro posizionato al centro della terra (piatta), mi ha inquietata e destabilizzata al punto di dovermi rivolgere a un esperto. Dove nasce tutto questo livore? A chi credere e perché? Come resistere all'incertezza, alla solitudine, alla nostra stessa sfibrante ignoranza, quindi alla paranoia?  A chiarirmi le idee è Il Dott. Armando De Vincentiis, psicologo e direttore scientifico della collana Scientia et Causa di C1V Edizioni, che riunisce i contributi di autori esperti del mondo accademico, professionisti specializzati in medicina e ricerca, professionisti della comunicazione; curatore e tra gli autori del libro Vaccini, complotti e pseudoscienza.

Dottore, mi spieghi per cortesia il motivo per cui dovrei fidarmi di lei e dei suoi colleghi, e non di altri esperti, anche medici, che invece dicono esattamente il contrario di ciò che lei sostiene, e lo fanno con la sua stessa convinzione.

Perché davanti a un dibattito scientifico il concetto di opinione o di autorità non ha senso. Dietro alle affermazioni di uno scienziato c'è un lungo e articolato lavoro di ricerca: se per esempio io dico che i vaccini sono utili e necessari mi sto basando sulla letteratura scientifica sull'argomento, ovvero su lavori che sono stati pubblicati su riviste scientifiche sottoposte a revisione paritaria. 

Cioè?

Le ricerche di uno scienziato o di un team di scienziati vengono valutate da altri colleghi che hanno le stesse competenze, se c'è qualcosa che non va il lavoro viene rispedito al mittente, che lo rivede e lo rinvia; se c'è altro che non va viene ulteriormente revisionato e così via: ciò che viene pubblicato è controllato e ricontrollato e si basa dunque su dati di fatto. In più, una volta avvenuta la pubblicazione, altri ricercatori indipendenti lavoreranno su quella "ricetta": se giungono a risultati diversi evidentemente c'è un problema, una contraddizione, c'è bisogno di un'ulteriore revisione. Se invece altri ricercatori indipendenti ottengono gli stessi risultati è evidente che, fino a prova contraria, quel lavoro è corretto.

Ma se io le porto una ricerca firmata da scienziati che sostengono di aver riscontrato in alcuni vaccini la presenza di "contaminanti inorganici tossici", lei che mi risponde?

Rispondo che voglio vedere le fonti. Che voglio vedere su quali basi queste ricerche sono state effettuate. Possono avere anche la firma di cento medici, ma questo non è garanzia di correttezza scientifica. Chiedo: mi fa vedere le pubblicazioni a revisione paritaria sulle quali sono state pubblicate queste cose? E quali sono le pubblicazioni che dimostrano che queste cose fanno male alla salute? 

E se a parlare è un premio Nobel?

Se sono un premio Nobel e dico che il coronavirus è stato fatto in laboratorio, chi mi ascolta riceve le mie parole basandosi su quello che viene chiamato principio di autorità. Ma anche il Premio Nobel deve dimostrare attraverso fonti, ricerche e prove quello che dice. Se le fonti sono scorrette e le prove non ci sono anche il Premio Nobel ha detto una sciocchezza. In ambito scientifico il principio di autorità non esiste. Qualsiasi scienziato può essere paragonato a un uomo di strada quando esprime qualcosa che non è suffragato da prove. 

Che motivo avrebbe un medico - ce ne sono tanti - di veicolare messaggi non corretti?

Ci sono due elementi e valgono sia per le persone comuni che per i medici. Essere complottista ti dà una sorta di status, che fa risuonare il tuo nome. Io posso essere un medico qualsiasi, tra tanti. A un certo punto in un contesto caotico emergo dicendo che ci stanno prendendo in giro: chi è confuso, impaurito, non competente, è pronto ad ascoltarmi, quasi a divinizzarmi. Chi non ha strumenti culturali e tecnici per difendersi, crede e diffonde le mie notizie trasformandomi in un punto di riferimento "alternativo". Altre volte anche il medico può avere un'ideologia, può essere condizionato da un orientamento mentale più filosofico che scientifico, può essere spinto da principi ideologici che nulla hanno a che fare con la scienza.

In alcune circostanze, come per il vaccino antinfluenzale del 1976, pare ci sia stata una correlazione con gravi problemi di salute. 

Bisogna capire la differenza tra correlazione e rapporto causa effetto, perché c'è una correlazione anche tra alcune malattie e il consumo di pasta asciutta: se cerchi qualcosa che possa accomunare la malattia e la pasta asciutta la trovi. Esiste uno studio che dimostra la correlazione tra l'osservazione di film di Nicholas Cage e l'aumento di morti annegati in piscina. Questo è un esempio di correlazione, nella quale però non c'è rapporto causa-effetto. A meno che non pensiamo che guardare Cage ci faccia morire annegati in piscina. Pur essendo a volte una correlazione suggestiva di un fatto, spesso è soltanto un andamento di tendenze che tra loro non hanno alcun legame effettivo.

Così per vaccino e autismo? Mi spiega quella storia, oggi ancora molto citata dagli antivaccinisti?

Un medico britannico, Wakefield, a un certo punto fece una pubblicazione "dimostrando" che un numero molto ristretto di bambini vaccinati aveva avuto reazioni di tipo autistico. Attraverso un'indagine successiva venne fuori che si trattò di una frode. In seguito anche la rivista che aveva pubblicato lo studio dovette ritrattare incondizionatamente l'articolo. 

Perché allora si continua a sostenere questo legame?

Perché, come spesso accade, la smentita ebbe meno risonanza del polverone alzato da quella pubblicazione, e molti continuano a sostenerla, pur essendoci moltissimi studi che ne confermano e riconfermano l'infondatezza. Se fai un giro su internet trovi un sacco di grafici che mostrano una correlazione tra la somministrazione del vaccino sui bambini e un aumento di casi di autismo. Correlazione, come già detto, fuorviante: tra milioni di vaccinati è normale che ci siano anche casi di autismo, di bambini che si sarebbero ammalati anche senza vaccino. Esattamente come milioni di persone mangiano la pasta asciutta e poi si ammalano di cuore. Fino a prova contraria, la pasta asciutta non è causa di infarto.

Fatto sta che molti genitori sostengono che i loro bambini si siano ammalati dopo il vaccino. Trovare un colpevole davanti alle cose che non possiamo o riusciamo a controllare ci fa sentire meglio?

Sì. Trovare un colpevole mi dà l'illusione di poter fare qualcosa. Se un problema è dato - ad esempio - da questioni genetiche, io non posso fare nulla, devo accettarlo così come è. Se  invece ho la convinzione che sia colpa di qualcuno, innanzitutto so con chi prendermela, e poi mi sento in grado di aiutare gli altri, di fare qualcosa, di agire su qualcosa. Una sorta di deresponsabilizzazione. Pensare che l'autismo possa avere a che fare con la genetica può essere erroneamente percepito da alcuni genitori come una "colpa". Se si trova il capro espiatorio si fugge anche da questo tipo di sofferenza.

Cosa avviene nella mente di chi, sul web, infervorato, urla al complotto senza sentire altre ragioni?

Scattano una serie di meccanismi psicologici, tra questi, il principio di negazione. Una difesa contro la paura. Negando il problema allontano il timore. Se qualcuno mi dice che ci sono morti, ricoveri, infezioni e io insisto nel dire che è un imbroglio, mi sto difedendo dalla paura che non mi consentirà di essere libero, di uscire, di incontrare gente.

Quali sono le fonti dei novax?

I negazionisti trovano le informazioni nella loro bolla, non oltre, tra altri complottisti e negazionisti. È circolo chiuso, si informano tra loro. Se qualcuno cerca di entrare in quella bolla, viene etichettato come colui che sta mettendo in atto un complotto, perché avrebbe degli interessi. Interessi spesso fantascientifici, come quello del controllo: facendo impoverire le persone, uccidendole, non è certo il controllo che si ottiene. Aumenta semmai il disagio, aumentano le rappresaglie, le proteste.

Ci sono novax anche tra, ad esempio, docenti universitari. 

Su certi temi l'opinione del plurilaureato non ha né più né meno valore di quella di una persona poco o per nulla formata. In entrambi i casi non si hanno gli elementi culturali e tecnici per comprendere e quindi esprimere pareri scientifici. Al di là dei complottisti e delle degenerazioni di cui sopra, esiste una larga fetta di popolazione che teme il vaccino. Molti genitori attenti e tutt'altro che irrazionali, ad esempio, hanno paura di vaccinare i propri bambini. Che sia condivisibile o meno, sembra una scelta comprensibile, vista la confusione sul tema.  Sì, e in questo caso non è colpa loro ma dell'informazione: sono bombardati da informazioni conflittuali, e la reazione tipica alle informazioni contradditorie è la paranoia. Avviene anche in famiglia. Se a un adolescente il padre dice una cosa e la madre ne dice un'altra la reazione è paranoica: "Qui qualcuno sta mentendo". Quindi reagisce con sospetto e il sospetto congela, non fa compiere azioni. Si preferisce restar fermi piuttosto che agire, senza pensare, nel caso del vaccino, che magari restar fermi può esporre il proprio bambino a rischi importanti.

In conclusione, come parlare con un novax "estremista"?

Nel momento in cui una persona aderisce completamente a un'ideologia complottista è davvero difficile farle cambiare idea, perché diventa una sorta di processo delirante e ogni cosa che tu dici a un delirante viene inquadrata all'interno del suo delirio. Se io dico a un complottista che deve fare riferimento alle persone competenti e alle fonti, il complottista dice che i medici sono pagati dalle case farmaceutiche e che le fonti sono manipolate per poterti prendere in giro. Una logica, seppur delirante, schiacciante. Bisogna accettare l'idea che in certe occasioni non c'è molto da fare. Alcune persone non cambieranno mai opinione perché sono entrate all'interno di una determinata logica da cui non si può uscire. 

Dagotraduzione dal Wall Street Journal il 26 luglio 2021. «Scienza» è diventata un termine politico. «Credo nella scienza», ha twittato Joe Biden sei giorni prima di essere eletto presidente. «Donald Trump no. È così semplice, gente». Ma cosa significa credere nella scienza? Lo scrittore scientifico britannico Matt Ridley traccia una netta distinzione tra «scienza come filosofia» e «scienza come istituzione». La prima nasce dall'Illuminismo, che Ridley definisce come «il primato del ragionamento razionale e oggettivo». Quest'ultimo, come tutte le istituzioni umane, è erratico, incline a non rispettare i suoi principi dichiarati. Ridley afferma che la pandemia di Covid ha «messo in netto rilievo la disconnessione tra la scienza come filosofia e la scienza come istituzione». Ridley, 63 anni, si descrive come un «critico scientifico, che è una professione che in realtà non esiste». Paragona la sua vocazione a quella di un critico d'arte e liquida la maggior parte degli altri scrittori scientifici come «cheerleader». Un atteggiamento sofisticato adatto a un pari inglese ereditario. Come quinto visconte Ridley, è un membro della Camera dei Lord britannica e zooma con me dalla sua sede ancestrale nel Northumberland, appena a sud della Scozia, tra una sessione e l’altra del Parlamento (a cui partecipa sempre tramite Zoom). Con la biologa molecolare canadese Alina Chan, sta finendo un libro intitolato «Viral: The Search for the Origin of Covid-19», che sarà pubblicato a novembre. Probabilmente, dopo l’uscita del volume, i suoi autori non saranno graditi in Cina. Mentre lavorava al libro, dice, gli è diventato «orribilmente chiaro» che gli scienziati cinesi «non sono liberi di spiegare e rivelare tutto ciò che hanno fatto con i virus dei pipistrelli». Queste informazioni devono essere «rimosse» per gli estranei come lui e la signora Chan. Le autorità cinesi, dice, hanno ordinato a tutti gli scienziati di inviare i risultati relativi al virus al governo perché li approvi prima che altri scienziati o agenzie internazionali possano esaminarli: «Questo è scioccante all'indomani di una pandemia letale che ha ucciso milioni di persone e devastato il mondo». Ridley osserva che la questione dell'origine di Covid è stata «affrontata principalmente da persone al di fuori dell'establishment scientifico tradizionale». Chi è stato coinvolto ha cercato di chiudere l'inchiesta «per proteggere la reputazione della scienza come istituzione». La ragione più ovvia di questa resistenza? Se il Covid è trapelato da un laboratorio, e soprattutto se si è sviluppato lì, «la scienza si trova sul banco degli imputati». Sono entrati in gioco anche altri fattori. Gli scienziati sono sensibili quanto le altre élite alle accuse di razzismo, che il Partito comunista ha usato per eludere domande su pratiche specificamente cinesi «come il commercio di animali selvatici per cibo o esperimenti di laboratorio sui coronavirus dei pipistrelli nella città di Wuhan». Gli scienziati sono una gilda globale e la comunità scientifica occidentale è «arrivata ad avere uno stretto rapporto e persino una dipendenza dalla Cina». Le riviste scientifiche traggono notevoli «entrate e input» dalla Cina e le università occidentali si affidano a studenti e ricercatori cinesi per le tasse scolastiche e la manodopera. Tutto ciò, secondo Ridley, «potrebbe dover cambiare sulla scia della pandemia». Ridley ha anche constato come tra gli scienziati inglesi ci sia «una tendenza ad ammirare la Cina autoritaria che ha sorpreso alcune persone». Non ha sorpreso Ridley. «Ho notato da anni», dice, «che gli scienziati hanno una visione un po' dall'alto del mondo politico, il che è strano se si pensa a quanto meravigliosa sia la visione evolutiva del mondo naturale dal basso». E chiede: «Se pensi che la complessità biologica possa derivare da un'emergenza non pianificata e non abbia bisogno di un progettista intelligente, allora perché pensi che la società umana abbia bisogno di un 'governo intelligente'?». La scienza come istituzione ha «un'ingenua convinzione che se solo gli scienziati fossero al comando, gestirebbero bene il mondo». Forse è questo che intendono i politici quando dichiarano di «credere nella scienza». Come abbiamo visto durante la pandemia, la scienza può essere una fonte di potere. Ma c'è una «tensione tra gli scienziati che vogliono presentare una voce unificata e autorevole», da un lato, e la scienza come filosofia, che è obbligata a «rimanere di mentalità aperta ed essere pronta a cambiare idea». Ridley teme «che la pandemia abbia, per la prima volta, un'epidemiologia seriamente politicizzata». È in parte «colpa di commentatori esterni» che spingono gli scienziati in direzioni politiche. «Penso che sia anche colpa degli stessi epidemiologi, che pubblicano deliberatamente cose che si adattano ai loro pregiudizi politici o ignorano cose che non lo fanno». Gli epidemiologi sono divisi tra coloro che vogliono più blocchi e coloro che pensano che l'approccio non sia stato efficace e potrebbe essere controproducente. Ridley si schiera con quest'ultimo approccio, ed è sprezzante nei confronti della modellazione allarmistica che ha portato alle restrizioni. «Il modello di dove potrebbe andare la pandemia», dice, «si presenta come un progetto del tutto apolitico. Ma ci sono stati troppi casi di epidemiologi che hanno presentato modelli basati su presupposti piuttosto estremi». Una motivazione: il pessimismo vende. «Non vieni accusato di essere troppo pessimista, ma ricevi attenzione. È come la scienza del clima. È molto più probabile che le previsioni modellate di un futuro spaventoso ti portino in televisione». Ridley invoca Michael Crichton, il defunto romanziere di fantascienza, che odiava la tendenza a descrivere i risultati dei modelli con parole che li definiscano come "risultati" di un esperimento, perché inquadra la speculazione come fosse una prova. La scienza del clima è già molto avanti sulla strada della politicizzazione. «Venti o 30 anni fa», dice Ridley, «potevi studiare come avvenivano le ere glaciali e discutere teorie in competizione senza essere affatto politico al riguardo». Ora è molto difficile avere una conversazione sull'argomento «senza che le persone cerchino di interpretarlo attraverso una lente politica». Ridley si descrive come "tiepido" sui cambiamenti climatici. Conviene che gli esseri umani abbiano reso il clima più caldo, ma non aderisce a nessuna delle visioni catastrofiche che richiedono cambiamenti radicali nel comportamento e nei consumi umani. La sua posizione sfumata non lo ha protetto dagli attacchi, ovviamente, e la sinistra britannica è incline a diffamarlo come un «negazionista». Anche la scienza del clima è stata «infettata dal relativismo culturale e dal postmodernismo», afferma Ridley. Cita un articolo che era critico nei confronti della glaciologia, lo studio dei ghiacciai, «perché non era sufficientemente femminista». Mi chiedo se stia scherzando, ma Google conferma che non lo è. Nel 2016 Progress in Human Geography ha pubblicato "Ghiacciai, genere e scienza: un quadro glaciologico femminista per la ricerca sul cambiamento ambientale globale". La politicizzazione della scienza porta a una perdita di fiducia nella scienza come istituzione. La sfiducia può essere giustificata, ma lascia un vuoto, spesso riempito da un «approccio alla conoscenza molto più superstizioso». A tale superstizione Ridley attribuisce la resistenza del pubblico a tecnologie come il cibo geneticamente modificato, l'energia nucleare e i vaccini. Davanti al rifiuto della vaccinazione, Ridley dice che «sosterrebbe con fervore» che è «il minore di due rischi, almeno per gli adulti». Abbiamo «ampi dati per dimostrarlo, per questo vaccino e per altri, risalenti a secoli fa». Definisce la vaccinazione «probabilmente il beneficio più massiccio e incredibile della conoscenza scientifica». Eppure è «controintuitivo e difficile da capire», il che potrebbe spiegare perché i suoi sostenitori sono stati messi alla gogna nel corso dei secoli. Cita l'esempio di Mary Wortley Montagu, un'aristocratica britannica, che spinse per l'inoculazione del vaiolo in Gran Bretagna dopo aver assistito alla sua gestione nella Turchia ottomana all'inizio del XVIII secolo. È stata brutalmente svergognata, dice, così come Zabdiel Boylston, un famoso medico di Boston che ha vaccinato i residenti contro il vaiolo durante un'epidemia nel 1721. I vaccini sono stati al centro della questione della «disinformazione» e della campagna di pressione della Casa Bianca contro i social media per censurarla. Ridley è preoccupato per il problema opposto: che i social media «sono complici nel far rispettare il conformismo». Lo fanno «attraverso il "controllo dei fatti", i picchi di audience e la censura diretta, ora esplicitamente per volere dell'amministrazione Biden». Sottolinea che Facebook e Wikipedia hanno da tempo vietato qualsiasi menzione della possibilità che il virus sia trapelato da un laboratorio di Wuhan. «La conformità», afferma Ridley, «è nemica del progresso scientifico, che dipende dal disaccordo e dalla sfida. La scienza è la fede nell'ignoranza degli esperti, come ha detto il fisico Richard Feynman». Ridley rivolge le sue critiche più schiette alla «scienza come professione», che secondo lui è diventata «piuttosto scoraggiante, arrogante e politica, permeata da ragionamenti motivati e pregiudizi di conferma». Un numero crescente di scienziati «sembra essere preda del pensiero di gruppo, e il processo di peer-review e pubblicazione consente al custode dogmatico di intralciare nuove idee e sfide di mentalità aperta». L'Organizzazione Mondiale della Sanità è un trasgressore particolare: «Abbiamo avuto una dozzina di scienziati occidentali che sono andati in Cina a febbraio e hanno collaborato con una dozzina di scienziati cinesi sotto gli auspici dell'OMS». In una successiva conferenza stampa hanno dichiarato la teoria della perdita di laboratorio «estremamente improbabile». L'organizzazione ha anche ignorato le richieste di aiuto di Taiwan per il Covid-19 nel gennaio 2020. «I taiwanesi hanno affermato: “Stiamo rilevando segnali che si tratta di una trasmissione da uomo a uomo che minaccia una grave epidemia. Per favore, indagherai?” E l'OMS ha sostanzialmente detto: “Sei di Taiwan. Non ci è permesso parlare con te”». Nota che il compito principale dell'OMS è prevenire le pandemie. Eppure nel 2015 «ha rilasciato una dichiarazione in cui affermava che la più grande minaccia per la salute umana nel 21° secolo è il cambiamento climatico. Ora questo, per me, suggerisce un'organizzazione non focalizzata sul lavoro quotidiano». Secondo Ridley, l'establishment scientifico ha sempre avuto la tendenza a «trasformarsi in una chiesa, imponendo l'obbedienza all'ultimo dogma ed espellendo eretici e bestemmiatori». Questa tendenza era precedentemente tenuta a freno dalla natura frammentata dell'impresa scientifica: il Prof. A in un'università ha costruito la sua carriera dicendo che le idee del Prof. B altrove erano sbagliate. Nell'era dei social media, tuttavia, «lo spazio per l'eterodossia sta evaporando». Quindi coloro che credono nella scienza come filosofia sono sempre più estraniati dalla scienza come istituzione. Sarà sicuramente un divorzio costoso.

"Il sapere è indispensabile ma non onnipotente". Guido Tonelli è uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern, dove lavora ed è portavoce dell'esperimento Cms. Vive fra Ginevra e l'Italia, dove insegna Fisica a Pisa, anche se da ottobre è "bloccato" in Svizzera. Eleonora Barbieri, Domenica 17/01/2021 su Il Giornale. Guido Tonelli è uno dei protagonisti della scoperta del bosone di Higgs al Cern, dove lavora ed è portavoce dell'esperimento Cms. Vive fra Ginevra e l'Italia, dove insegna Fisica a Pisa, anche se da ottobre è «bloccato» in Svizzera. Autore di due saggi bellissimi, La nascita imperfetta delle cose (Bur) e Genesi (Feltrinelli), Tonelli parla di «Scienza» per il ciclo «Le parole del Vieusseux», organizzato per i 200 anni del Gabinetto (conferenza sul sito di «Più Compagnia» fino al 23 gennaio; poi sulla pagina YouTube del Vieusseux). E ne parla anche con noi.

Professor Tonelli, di fronte alla pandemia molti si chiedono: la scienza ha fallito?

«Questo è l'indicatore di un senso di onnipotenza che l'umanità ha ricavato dall'esperienza degli ultimi decenni. La vita dei nostri nonni era completamente diversa, si poteva morire per cause sconosciute e a qualunque età; negli ultimi settant'anni abbiamo sempre più avuto la sensazione che niente potesse minacciare la nostra salute e il nostro benessere e che, per qualsiasi malattia, ci fosse una medicina».

E invece...

«Invece è un pregiudizio, una specie di illusione. La scienza non ha mai promesso miracoli, anzi, la scienza ci dice di fare attenzione e ci ha ammonito che, se non teniamo conto degli equilibri naturali, i pericoli possono aumentare. È grazie alla scienza che, in pochi mesi, abbiamo capito che cosa sia questa malattia e da dove venga; grazie ai microscopi elettronici abbiamo individuato il patogeno e abbiamo visto come è fatto; infine, con computer potentissimi ne abbiamo simulato la composizione e scovato i punti deboli e così, in poco tempo, sono stati sviluppati dei vaccini».

La scienza non ci ha tradito?

«È vero che il fatto che sia scoppiata la pandemia può essere visto come una crisi di questa concezione di una scienza onnipotente, ma la scienza è una produzione umana con i suoi limiti, guai a considerarla onnipotente. E, quando c'è stata la crisi, è dagli scienziati che è arrivata la risposta, e questa è la prova di quanto la scienza sia importante per l'umanità. Nessuno avrebbe potuto tirarci fuori da questa situazione, se non gli scienziati, che hanno lavorato giorno e notte».

Si è vista anche un'arroganza della scienza?

«Questo è sicuramente avvenuto, ed è un discorso importante, al di là dei casi singoli. Nel momento in cui la pandemia ha mostrato questa importanza del ruolo della scienza per tutti, tanto che milioni di persone pendono dalle labbra degli scienziati e ogni loro dichiarazione viene soppesata, sorge una responsabilità nuova, enormemente superiore. Però emergono anche le debolezze umane...».

Un po' di voglia di protagonismo?

«Se viene a un nostro congresso, nota che le discussioni sono accanite, questo fa parte del carattere della scienza; ma, quando si parla in pubblico mentre milioni di persone soffrono e muoiono, serve un senso di responsabilità più elevato».

E come si fa?

«Le racconto un caso accaduto qui al Cern, quando, alla partenza di Lhc nel 2008-2009, molte persone si chiedevano se l'acceleratore avrebbe creato un buco nero e provocato la fine del mondo: ogni giorno c'erano la Bbc, la Cnn, la Reuters che ci interpellavano. Normalmente avremmo riso di quelle accuse, ma milioni di persone erano preoccupate, quindi non potevamo fare battute o essere superficiali. Abbiamo preso sul serio le argomentazioni, cercando di non irritarci».

C'è anche chi dubita della scienza a prescindere.

«La prima tentazione sarebbe di essere aggressivo: muoiono diecimila persone al giorno e dici che è una finta. Ma anche questo sarebbe un errore: l'unica soluzione è la pazienza, raccontare, aprire gli armadi della scienza e far vedere quello che c'è dentro».

Il dubbio però serve?

«Il dubbio rimane, ed è un elemento di salute: la scienza procede attraverso i dubbi. Il dubbio non è paralizzante, è prudenza, ma è la prudenza che ha fatto fare alla scienza i progressi che ha fatto».

La scienza è indispensabile?

«La scienza e la conoscenza sono la nostra visione del mondo. Tutto il nostro mondo, dai cellulari ai treni, dal web alla medicina, è basato sulla relatività generale e sulla meccanica quantistica. La scienza è indispensabile e lo sarà sempre di più in futuro, ed è per questo che le nazioni emergenti, in particolare la Cina, investono così tanto nell'innovazione: nel XXI secolo chi guida l'umanità nella caccia alle nuove conoscenze guida l'umanità tout court, è il padrone del mondo».

E l'Italia?

«Per giocare un ruolo, il nostro Paese deve spingere su innovazione e conoscenza, e ci sono le condizioni per farlo: un sistema educativo eccellente, nonostante le difficoltà, e dei giovani che hanno una marcia in più; ma serve un sistema politico che spinga in questa direzione, per i prossimi 25 anni».

La scienza porta al progresso in cui viviamo, ma il progresso porta allo spillover e alla pandemia. Come si trova un equilibrio?

«La scienza non può risolvere da sola tutti i problemi, questo è un punto fondamentale. Da un lato c'è la potenza del metodo scientifico, di una disciplina che cerca continuamente una prova degli errori delle proprie teorie, ed è questo che la rende forte: cerchi le grane, gli angoli sporchi nella casa pulita, perché negli angoli sporchi, forse, puoi trovare una verità più avanzata».

Però?

«Però noi scienziati siamo bravi con sistemi semplici e riproducibili, come i pianeti, le stelle e la materia. Gli individui non sono tutti uguali, e le società ancora meno. Gli strumenti con cui si organizza una società non possono essere decisi da scienziati: la scienza potrà essere una colonna della società, ma non può stabilire quali siano il sistema sociale migliore, le leggi del diritto, l'etica, l'estetica... Ci sono enormi campi in cui la scienza non ha niente da dire, per principio».

Lei si occupa di una scienza grandiosa.

«Gli americani la chiamano Big Science, perché ha dimensioni grandi: qui ci sono 3000 scienziati e infrastrutture gigantesche. Ma sono ancora più grandi le visioni e le teorie che essa sviluppa, come dopo la scoperta del bosone: vedere nel mondo il reticolo che lo sostiene è qualcosa che fa venire i brividi».

Nel suo libro, Genesi, questa scienza ci porta addirittura alle origini del mondo.

«Nei momenti di difficoltà, conoscere le proprie origini e il lungo racconto delle ere lontane di cui siamo eredi ci dà la forza per affrontare il presente con lucidità e serenità. Oggi che l'umanità vacilla e si chiede se sopravvivrà, vedere il nostro essere eredi di una storia lunghissima, anche materiale, che arriva fino al Big Bang, ci fa sentire meno soli e ci sorregge, è come un lungo filo di cui siamo l'estremità, e che passeremo ai nostri figli».

Non possiamo stare senza la scienza?

«Negli ultimi 30 anni tutti i governi hanno tagliato gli investimenti nella ricerca, negli ospedali e nella salute, ma credo che questa lezione terribile insegni alla politica che non bisogna considerare la ricerca come un lusso, e investire».

Per esempio?

«Si potrebbero costruire grandi centri di ricerca mondiali, tipo Cern, per la produzione di farmaci, per i vaccini e per la prevenzione da pandemie future: non sarebbe un investimento conveniente, anziché pagare il prezzo, e i danni, di una pandemia?». 

Nell'attesa della risposta alla mia interrogazione se ci fossero dei giornalisti potrebbero cominciare loro a fare qualche inchiesta con qualche dato pubblico. Che so, qui c'è GIMBE che premia RICCIARDI e poi RICCIARDI per ISS firma un contratto con CARTABELLOTTA da 40mila euro pic.twitter.com/J30pPbX7uX — Claudio Borghi A. (@borghi_claudio) March 10, 2021

Dagospia il 18 giugno 2021. Da "Un Giorno da Pecora". Il mio compagno Fabrizio Pregliasco? “Sono assolutamente contraria al fatto che vada in tv, specie in certi programmi. Se mi arrabbio? No, gli dico che è un pirla. Ma tanto lui mi risponde 'tanto sai che faccio quello che voglio'...”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Carolina Pellegrini, che da 18 anni è fidanzata con uno dei più noti virologi italiani. Ai nostri microfoni, il presidente dell'Anpas spesso racconta di andare a dormire presto e di svegliarsi ancora prima. Conferma? “E' molto complicato passare una notte con Fabrizio, si sveglia alle 5, è vero, ma poi durante la notte controlla spesso l'orologio, e io ho anche il sonno leggero....”. Almeno cenate insieme? “Sì, si mette a tavola e mangia qualcosina. Una volta si è addormentato anche a tavola, oppure si assopisce due minuti dopo, se va a mettersi sul divano”. Il professor Pregliasco a un soprannome 'di coppia'? “Lo chiamo Fabri, Pregli oppure... Gatto, perché quando dorme si rannicchia tutto e si mette in posizioni particolari”, ha raccontato Carolina a Un Giorno da Pecora Rai Radio1.

Fabrizio Pregliasco, "è un pirla": lo sfogo della compagna e quelle rivelazioni sulle notti passate con lui. Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. I virologi sono ormai star della tv. Oltre agli italiani, anche le loro mogli non ne possono più. Tra queste c'è anche Carolina Pellegrini, compagna di Fabrizio Pregliasco: "Sono assolutamente contraria al fatto che vada in tv, specie in certi programmi. Se mi arrabbio? No, gli dico che è un pirla. Ma tanto lui mi risponde 'tanto sai che faccio quello che voglio'", svela ai microfoni di Un Giorno da Pecora su Rai Radio1. Proprio qui lo stesso direttore dell'Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano aveva ammesso che è solito andare a dormire prestissimo. "È molto complicato passare una notte con Fabrizio, si sveglia alle 5, è vero, ma poi durante la notte controlla spesso l'orologio, e io ho anche il sonno leggero". Una volta, è il racconto di Carolina, Pregliasco si sarebbe addirittura "addormentato a tavola, oppure si assopisce due minuti dopo, se va a mettersi sul divano". Anche sui soprannomi il suo modo insolito di dormire ha influito: "Lo chiamo Fabri, Pregli oppure... Gatto, perché quando dorme si rannicchia tutto e si mette in posizioni particolari". Anche la moglie di Matteo Bassetti ha raccontato in pubblica piazza, da Barbara d'Urso, dettagli finora sconosciuti sulla loro relazione. "Era un trentenne rampante figlio di un importante professore appena tornato da Yale. Si sentiva molto in auge, a suo modo di vedere", ha detto Maria Chiara Milano Vieusseux per poi raccontare di essere "molto gelosa, ma di cose concrete, se le persone si lanciano in grandi elogi social mi fa piacere, lui è un piacione. Sì, a lui fa proprio piacere, piacere appunto". Tra i tanti pregi che la moglie ha svelato di lui, si scopre che Bassetti "è un padre eccezionale, molto presente nonostante la pandemia non ha mai mancato una volta a pranzo a casa per essere sempre con noi". 

Mix, mascherine e stato d'emergenza: la zuffa dei virologi. Alessandro Ferro il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. C'è chi vorrebbe toglierle subito e chi invece predica prudenza e pazienza per il mantenimento delle mascherine anche all'aperto. "Non capisco la fretta di toglierle..." Caos virologico anche sui vaccini. Mascherine si, mascherine no? Sta diventando il nuovo tormentone (anche politico) di questi ultimi giorni. Complice l'estate che avanza, lo stare all'aria aperta e la bassa circolazione del virus la tendenza sarebbe quella di toglierle, almeno nei luoghi non chiusi. Dall'altro lato c'è lo spettro della variante Delta, la più pericolose tra le mutazioni che il Covid ha fatto finora. Cosa fare, quindi?

"Toglierle? Non lo capisco..."

"Io sinceramente non capisco bene il razionale, non capisco la fretta di togliere le mascherine. Siamo stati per 16 mesi con queste protezioni sul viso, in fondo". Mario Clerici, docente di immunologia dell'università degli Studi di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, aspetterebbe ancora. "Non vorrei che ufficializzando lo stop alle mascherine passasse il messaggio del 'liberi tutti'. Magari non siamo ancora pronti - afferma ad AdnKronos - se si va al mare già tutti girano senza". Se è vero che la percentuale dei vaccinati comincia ad essere molto alta ed i raggi solari, in questo periodo dell'anno, riescono ad inattivare il virus in pochi secondi (qui il nostro approfondimento), sarebbe logico pensare ad una sospensione all'aperto dell'uso delle mascherine, come lo stesso Prof. Clerici ammette. Però, per l'immunologo, è bene mantenere ancora una linea cautelativa. "Ma, come al solito, visto che ci muoviamo su un crinale di massima cautela, perché non aspettare ormai fino a settembre-ottobre per decretare lo stop? Sarebbe per avere più vaccinati con due dosi".

"Il virus è in letargo"

In realtà, il Prof. Clerici si "smentisce" da solo: il suo timore è legato principalmente all'idea che togliere le mascherine possa significare che la pandemia è finita ma non che, in questo periodo storico, non sia giusto toglierle. In Gran Bretagna, dove la variante Delta sta diventando sempre più diffusa, "essenzialmente le infezioni si stanno concentrando in un'area dove la percentuale di vaccinati è più bassa e la verità è che se hai fatto due dosi di vaccino hai una protezione pressoché perfetta - ha dichiarato - Io mi sentirei sicuro anche oggi a uscire senza mascherina, però non vorrei che scattasse un liberi tutti". Più sereno il Prof. Zangrillo, che ospite ad "Un giorno da pecora" su Radio Rai, ha fatto il punto sulla situazione epidemiologica come abbiamo riportato con questo articolo. "Oggi il virus è in letargo", affrontando poi l'argomento mascherine che "all'aperto non hanno alcun senso". Un comportamento che Alberto Zangrillo stigmatizza perché "non ci porta a quella consapevolezza, a quell’equilibrio mentale e psicologico dell’evidenza, dell’obiettività, dell’informazione corretta. Senza questa informazione corretta saremo tutti un popolo di beoti che segue chi la spara più grossa".

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"Toglierle subito", "Usate la mascherina"

La pensa diversamente Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, che come abbiamo scritto sul giornale.it, ritiene che "andrebbero tolte subito, non ha più senso tenerle". Parafrasando un famoso detto, si potrebbe dire "virologo che vai, risposta che trovi": per Massimo Galli, direttore del dipartimento Malattie Infettive dell'ospedale Sacco di Milano, eliminare l'obbligo di mascherina all'aperto "mi sembra stia diventando un altro di quei tormentoni di contenuto più che altro politico, per accattivarsi un pò di simpatie di qua o di là", afferma a SkyTg24, sottolineando come fin quando la situazione epidemiologica non si sarà stabilizzata, "usate la mascherina, soprattutto in ambiti di affollamento. È un sacrificio minimo che comunque aiuta a ridurre la circolazione del virus. Non dico in spiaggia piuttosto che al ristorante, ma in situazioni affollate, anche all'aperto, vale la pena di ricordare che è sicuro che ci aiuti".

Prevale, però, la linea del buon senso. "La mascherina all'aperto si può togliere, con saggezza, quando siamo distanti dagli altri, rimettendola quando ci sono persone vicine. È uno strumento utile e non va demonizzata, perché ci serve ancora". A dirlo all'Adnkronos Salute il virologo Giovanni Maga, direttore dell'l'Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia favorevole, con prudenza, ad un'eventuale abolizione dell"obbligo all'aperto, come ha fatto la Francia dove da oggi è possibile girare per strada senza. "La mascherina all'aperto - continua Maga - serve soltanto quando si è a stretto contatto con altre persone. Sappiamo che il rischio di contagio all'aperto è molto basso, sappiamo che quando si è fuori si tende ad essere più dispersi. Però, in tutti quei casi in cui ci sia un'aggregazione significativa, anche all'aperto in questo momento la mascherina la terrei. Fino a quando avremo una circolazione di virus abbastanza significativa, seppure in calo, resterei prudente".

Nessuna linea comune anche sui vaccini

Ma quella delle mascherine non è che la punta dell'iceberg del disaccordo tra virologi, epidemiologi ed immunologi: come abbiamo descritto in questo articolo di Francesca Galici, il mix vaccinale ha mandato in tilt gli esperti. Va fatto o no? Cos'è meglio? Tra i più dubbiosi sull'effettiva validità della vaccinazione eterologa c'è Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali. "Si potevano aspettare più dati dagli studi in corso. Capisco che siamo in 'guerra' contro il Covid, ma certe scelte hanno poi delle conseguenze. Mi sembra un parere tirato per i capelli", ha affermato. Ha un punto di vista diverso, ma non opposto, Andrea Crisanti. Il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'Università di Padova, intervistato ai microfoni di "Un giorno da pecora", dice che "non ci sono dal punto di vista teorico, immunologico e biochimico elementi che fanno ritenere che il mix sia dannoso". Ancora diverso è il punto di vista di Pierluigi Lopalco, epidemiologo e assessore alla Sanità della Regione Puglia: "In emergenza purtroppo bisogna anche prendere decisioni di politica sanitarie basate su evidenze deboli (non assenti). Non possono essere applicate in pandemia le stesse regole della gestione ordinaria della sanità". Secondo l'assessore è fondamentae la corretta comunicazione a ogni livello per "spiegare bene al cittadino il perché di certe scelte" sui vaccini. Super favorevole Bassetti, per il quale "è corretto cambiare se si modificano le evidenze scientifiche", più "politico" Pregliasco che afferma come gli "elementi scientifici ci sono. Altre nazioni lo hanno fatto, ci sono i dati".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care.

Alessandro Rico per “la Verità” l'11 giugno 2021. I verbali della task force anti Covid ci permettono di risalire alle origini di uno dei fenomeni caratteristici dell'era pandemica: le previsioni sgangherate del presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta. È il 20 febbraio 2020. Alla riunione del gruppo, apre le danze proprio il gastroenterologo, che presenta un «modello predittivo di natura statistica», elaborato a partire da due variabili: l'incremento percentuale dei nuovi casi di Covid e il «tempo espresso in giorni». Analizzando i numeri riferiti al 19 febbraio, Cartabellotta intravede «una riduzione dell'incremento percentuale assoluto giornaliero». Il dottore sottolinea l'importanza del «coefficiente R al quadrato, «che indica la proporzione tra variabilità dei dati e attendibilità del modello considerato», ma poi si lancia in un paio di proiezioni. Anzitutto, sulla Cina: il numero uno di Gimbe stima «un'assenza di nuovi casi» a 46-47 giorni dal t0, cioè il punto in cui iniziano le rilevazioni. Nel verbale, viene indicata la data del 28 febbraio, ma presumibilmente il riferimento è al 28 gennaio. Il pronostico è che si arrivi a zero casi «a partire dal 19 marzo» (che però sarebbe il cinquantunesimo giorno). Per quanto riguarda invece la provincia dell'Hubei, cioè la regione di Wuhan, da cui è partito il focolaio, il t0 è rappresentato dal primo febbraio e, per la cessazione dell'incremento dei casi, si dovrebbero attendere 42-43 giorni, fino al 16 marzo. Attenzione: il Nostradamus del virus aggiunge anche che il «coefficiente R al quadrato indica che il modello è affidabile». In Cina, tuttavia, ci si avvicinerà stabilmente agli zero casi giornalieri solamente a maggio: due mesi più tardi rispetto alla stima. Molto più fortunato il vaticinio sull' Hubei, dove il 16 marzo i casi registrati saranno, in effetti, solo quattro. Il sistema predittivo, però, prende cantonate pazzesche quando viene applicato all' Europa e agli altri Paesi, anche se lo stesso Cartabellotta ammette che, «essendo pochi i dati registrati», «il modello è debole, quindi poco affidabile». Lui, tuttavia, si avventura lo stesso in un'ipotesi, cioè «un'assenza di nuovi casi a partire dal quarantacinquesimo-cinquantesimo giorno dal t0», che coincide sempre con il 2 febbraio. Al più tardi, il 23 marzo 2020. Peccato che, 24 ore dopo, venga individuato il paziente 1 di Codogno e incominci l'incubo per l'Italia e tutto il Vecchio continente. Cartabellotta, in fondo, riconosce che «altre variabili», come nuovi focolai o nuovi modelli diagnostici, potrebbero avere un «coefficiente di variazione pari a circa il 30%». In buona sostanza, il sistema per le previsioni serve a malapena a descrivere quel che avviene in Cina (per la quale tra l'altro, ci si deve fidare delle rilevazioni comunicate dal regime). Tant' è che Gianni Rezza, dirigente dell'Iss, «esprime perplessità sul modello predittivo», sulla base delle esperienze coreana ed egiziana e conclude: «È troppo presto per fare previsioni». Come premio per il brillante contributo, comunque, Cartabellotta spopolerà per oltre un anno su giornali e tv. Un pulpito dal quale continuerà a diffondere le sue previsioni. Sbagliate.

Il caso AstraZeneca e la fiducia cieca in una scienza che non è esatta. La scienza ha compiuto un miracolo, ma è stato un miracolo troppo veloce. La scienza ha bisogno di dati e statistiche – ma gli uni e le altre significano tempo. E noi tempo non ne avevamo. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 giugno 2021. Camilla Canepa, diciott’anni, aveva ricevuto il vaccino il 25 maggio nel corso di un Open Day a Genova. Il 3 giugno era andata una prima volta in pronto soccorso con cefalea e fotofobia: era stata sottoposta a Tac e esame neurologico, entrambi negativi, ed era stata dimessa con raccomandazione di ripetere gli esami del sangue dopo 15 giorni. Il 5 giugno, però, è tornata in pronto soccorso con deficit motori. Sottoposta a Tac cerebrale “con esito emorragico” era stata trasferita nel reparto di Neurochirurgia. Il 6 giugno Camilla era stata operata dapprima per la rimozione del trombo e poi per ridurre la pressione intracranica. Nei giorni successivi la situazione in rianimazione era però rimasta tragicamente stabile. Ieri è morta. Alle 19.18 le agenzie di stampa battevano la notizia della morte di Camilla. Alle 20.21, sempre sulle agenzie, giungeva la notizia della circolare dell’Assessorato regionale alla Salute della Regione siciliana con cui si disponeva l’immediata sospensione in via cautelativa del vaccino Astrazeneca per i pazienti sotto i 60 anni. Le Regioni che avevano puntato su Astrazeneca per organizzare gli open day aperti ai giovani vanno nel caos: un previsto open day con AZ viene revocato a Napoli; sospensione “precauzionale” anche in Umbria; l’Usl della Valle d’Aosta decide allo stesso modo; anche il Lazio sospende l’open week agli over 18 con AZ; in Emilia-Romagna gli Open Day già programmati si faranno solo con la somministrazione di Pfizer e Moderna. Il ministro della Salute Roberto Speranza, rispondendo al question time al Senato, ricordava come oltre due mesi fa, lo scorso 7 aprile il ministero, con una circolare, avesse «già raccomandato l’uso preferenziale del vaccino AZ agli over-60 e Aifa (l’Agenzia del farmaco) ha ribadito che il profilo beneficio-rischio è più favorevole all’aumento dell’età». Il presidente della Liguria Giovanni Toti dichiara: «La possibilità di utilizzare AstraZeneca per tutti su base volontaria non è un’invenzione delle Regioni o di qualche dottor Stranamore; è suggerimento che arriva dai massimi organi tecnico-scientifici per aumentare le vaccinazioni, e quindi evitare più morti». E pubblica sulla pagina istituzionale Facebook la lettera inviata il 12 maggio dal Comitato tecnico-scientifico alle Regioni: «Il Cts non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate dalle differenti realtà regionali iniziative, quali i vaccination day, mirate a offrire, in seguito ad adesione/richiesta volontaria, i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni». Oggi sappiamo che Camilla soffriva di piastrinopenia autoimmune familiare e assumeva una doppia terapia ormonale. Ma l’8 giugno a Genova era emerso il caso di un’altra giovane, una donna di 34 anni di Alassio vaccinata lo scorso 27 maggio con la prima dose di AstraZeneca e ricoverata presso l’Ospedale Policlinico San Martino di Genova con un livello basso di piastrine nel sangue: si era recata all’ospedale per il forte mal di testa. E il 4 aprile scorso era morta, sempre a Genova, una giovane insegnante genovese di 32 anni, che era stata vaccinata con AstraZeneca il 22 marzo nel corso della campagna vaccinale per i docenti e l’autopsia aveva confermato un quadro “trombotico ed emorragico cerebrale” come causa del decesso. In Liguria, viene sospeso in via cautelativa il lotto ABX1506 di AstraZeneca. Il Comitato tecnico-scientifico opta per una raccomandazione «rafforzata» di utilizzare il vaccino di Astrazeneca per i soggetti con più di 60 anni. Gli esperti pensano a una riorganizzazione complessiva della campagna vaccinale, quindi anche della somministrazione delle diverse tipologie di vaccino a seconda delle età, alla luce del mutato quadro epidemiologico. Improvvisamente, siamo gettati di nuovo nello smarrimento, e ritorna la diffidenza. L’accelerazione che si era imposta nella vaccinazione di massa che “saltava” ormai la progressione dell’età (a Torino, un Open night hub con tanto di dj set e mille giovani in fila tra musica disco e fiale di vaccino) improvvisamente si blocca. Dobbiamo tornare a ripensare tutto. La scienza ha compiuto un miracolo, ma è stato un miracolo troppo veloce. La ricerca ha bisogno di tempo, ha bisogno di sperimentazione, ha bisogno di ripetere più e più volte nelle stesse condizioni un esperimento e verificare che i risultati siano sempre i medesimi, ha bisogno di cogliere gli effetti collaterali, provare a ridurli, e solo allora può fare un calcolo rischi-benefici. La scienza ha bisogno di dati e statistiche – ma gli uni e le altre significano tempo. E noi tempo non ne avevamo. Noi avevamo capito presto quello che sapevamo da sempre: nell’irrompere del contagio, l’unica cosa che può fermarlo è il confinamento. Chiudere tutto. Era successo nella Grande peste, nelle ricorrenti infezioni da colera, nella Spagnola: sprangare, limitare ogni movimento. Se non c’è mobilità, se non c’è socialità, i focolai rimangono isolati e il contagio non si diffonde. Dal Medio evo a oggi – questa era l’unica consapevolezza “scientifica”. Una misura politica cioè. Qualcosa che rispondeva istintivamente al nostro terrore. Sapevamo però pure che sarebbe stato impossibile “chiudere il mondo” per un tempo indefinito e l’unica risposta scientifica che avevamo era il vaccino. Il vaccino ci avrebbe permesso di tornare alla normalità, alle fabbriche, agli uffici, agli amici, al ristorante, alla vita quotidiana. Il vaccino avrebbe fatto il miracolo. Così, appena si è scoperto un vaccino ci abbiamo dato dentro – il “modello cinese” che tutti guardavamo con ammirazione, cioè la capacità di “confinare” intere aree geografiche senza che neanche uno spillo ne uscisse, lasciava il posto al “modello inglese” e al “modello israeliano”: quelli sì, che vaccinavano come treni. Progressivamente, anche i più riottosi se ne andavano convincendo, magari con qualche incentivo: negli Stati uniti si festeggiava la prima vincita di un milione di dollari alla “lotteria dei vaccinati”, Vax-a-Million, con un’impennata di vaccinazioni del 94 percento tra i 16 e 17 anni, del 46 percento tra i 18 e 19 anni; in Israele ti davano una pizza gratis se ti facevi vaccinare; sempre negli Stati uniti addirittura si davano spinelli: “Joints for jabs”, la campagna di successo, Ohio, New York, Maryland, Oregon e Colorado. Alla fine, anche le diffidenze più ostili, le diffidenze più ideologiche, sembravano vacillare sotto i colpi degli “incentivi”, dei premi. Tornava l’obbedienza: vuoi andare all’estero, hai prenotato per la Spagna, le Seychelles? Vaccinati. Un’intera ultima classe di un Istituto superiore di Treviso si vaccinava tutta insieme perché aveva deciso di trascorrere tutta insieme le vacanze dopo l’esame di stato a Mykonos. Improvvisamente, la vaccinazione tra i giovani diventa compulsiva. Qualcuno si fa prendere la mano: vacciniamo i bambini dagli otto ai dodici anni, così torneranno a scuola tranquilli. Gli “esperti” ovviamente, si dividono subito, tra chi è largamente favorevole, tra chi è ostinatamente contrario, tra chi cambia idea a seconda del talk-show in cui si presenta e viene consultato. Se ci sono ancora fasce di over 60 e addirittura 0ver 80 che non sono stati raggiunti dalla campagna di vaccinazione – e i numeri dei decessi benché tendano a diminuire sono ancora lì – perché correre a inseguire i più piccoli con la siringa in mano? A tutt’oggi, del vaccino non sappiamo propriamente tutto: “l’elastico” dei giorni di copertura e di attesa tra una dose e l’altra e se un vaccino vale l’altro è una di queste cose. Siamo in piena “rolling review”, una revisione continua – cioè facciamo la valutazione scientifica del funzionamento del vaccino proprio mentre pratichiamo la vaccinazione di massa. Forse non avevamo altra strada. Ma saperlo dovrebbe farci sempre prudenti.

AstraZeneca, adesso fuori i colpevoli. Andrea Indini l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Le sparate dei virologi, le giravolte dell'Aifa e il caos Open Day. Anche Palù ammette: "Non c'è mai stato un divieto". Ora però il Cts corre ai ripari: perché non lo si è fatto prima? Quando lo scorso aprile è arrivata la circolare dell'Aifa che raccomandava l'uso dei vaccini a vettore virale (cioè AstraZeneca e Johnson&Johnson) per le persone con più di 60 anni, il governatore Luca Zaia ha preso una decisione: "Quel vaccino si sarà fatto solo a chi ha più di 60 anni, salvo diversa anamnesi del medico". E così gli Open Day vennero banditi dalla Regione Veneto. Una scelta anche condivisa con il generale Francesco Paolo Figliuolo. "Se resta questa l'indicazione - gli spiegò quando lo incontrò lo scorso 13 maggio - finiti gli over 60, i vaccini a vettore virale rischiano di finire su un binario morto". Al tempo la notizia era passata quasi sotto traccia ma ora che una 18enne è morta e un’altra donna di 34 anni è in rianimazione dopo essere stata operata al cervello per una trombosi, il tema torna fuori con prepotenza e le domande che sorgono spontanee sono: perché nonostante le raccomandazioni si è continuato a somministrare AstraZeneca alle donne sotto i sessanta? Chi ha preso questa decisione? E soprattutto: qualcuno pagherà per questo errore? Si è sempre parlato di trombosi rare. "Pochissimi casi", lo hanno ripetuto in tutte le salse. A inizio aprile Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, lo considerava "tra i più sicuri al mondo". Non solo. Spiegando che "i casi di trombofilia sono infinitesimali" e che comunque "non esiste un vaccino sicuro per tutti al 100 per cento", in una intervista a SkyTg24, non si faceva alcun problema a dire che lo avrebbe consigliato "alle donne giovani, senza dubbio". Ovviamente era in buona compagnia. In quegli stessi giorni Massimo Galli, primario del reparto Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, la pensava esattamente allo stesso modo. "Queste situazioni possiamo chiamarle rumore di fondo - spiegava a L'aria che tira - quello che purtroppo è riservato all’umanità ogni santo giorno, perché ogni santo giorno c'è chi muore di infarto o di trombosi cerebrale o di tumore o in seguito a un incidente d'auto". Qualche settimana dopo, nonostante la decisione dell'Aifa, confermava la propria posizione: "Quel vaccino è meno pericoloso di una Tac". Il punto vero è che su AstraZeneca si è detto tutto e il contrario di tutto. Anche l'Aifa non è stata così chiara limitandosi a fare una raccomandazione "in via preferenziale" mentre le agenzie del farmaco degli altri Paesi europei prendevano decisioni più nette. Oggi a piangere Camilla è tutto il Paese ma i fari sono puntati sulla Liguria una delle tante regioni in cui sono stati organizzati gli Open Day per le vaccinazioni di massa. "La possibilità di usare AstraZeneca per tutti su base volontaria non è un'invenzione delle Regioni o di qualche dottor Stranamore - ha denunciato il governatore Giovanni Toti su Facebook - è un suggerimento che arriva dai massimi organi tecnico-scientifici per aumentare il volume di vaccinazioni, e quindi evitare più morti". E infatti, in una intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 3 maggio, Giorgio Palù, presidente dell'agenzia del farmaco italiana nonché membro del Comitato tecnico scientifico, diceva chiaramente che chi ha meno di 60 anni può ricevere AstraZeneca: "Non c'è mai stato un divieto. L'agenzia europea Ema non ha posto restrizioni per età mentre Aifa ha solo dato un'indicazione per uso preferenziale agli over 60. Il suggerimento è stato interpretato come regola, ma non è così". "AstraZeneca ha cambiato almeno cinque volte in tre mesi la sua destinazione - ha commentato Toti - solo sotto i 50 anni, poi sospeso, poi solo sopra i 60, poi per tutti". Adesso, come anticipato dall'agenzia LaPresse, il Cts sta elaborando un nuovo parere tecnico sulla somministrazione del siero fermo restando che la competenza sui vaccini rimane alla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Probabilmente ci sarà l'ennesimo cambio di rotta. Resta, però, da capire per quale motivo, per quanto le trombosi siano un evento raro, si sia comunque deciso di far correre dei rischi agli under 60. Non mancavano certo vaccini alternativi con cui sostituire le dosi di AstraZeneca. Zaia, per esempio, ha spiegato al Corriere della Sera, di aver accantonato 140mila fiale per le seconde dosi perché comunque è "un vaccino che funziona e dà un'ottima risposta anticorpale". Le soluzioni per non correre rischi, dunque, c'erano. Perché non sono state seguite? C'era davvero bisogno di correre così, soprattutto sulla fascia più giovane che ha meno possibilità di contrarre il Covid-19 o comunque di morirci, quando ormai i casi erano in netta diminuzione? Ora che le "rare trombosi" hanno un nome e cognome chiaro, servono risposte chiare perché non si ripetano in futuro questi errori. E male non farebbe, almeno una volta ogni tanto, sapere chi sono i colpevoli di questa gestione azzardata.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 

Pietro Senaldi contro Roberto Speranza: "Camilla Canepa? Ammazzata dalla sua gestione delirante".  Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Camilla non è stata uccisa dal Covid, che sui diciottenni sani non è letale, e in fondo neppure dal vaccino, benché il suo decesso sia dovuto a un'iniezione di Astrazeneca. La giovane di Sestri Levante è stata ammazzata dalla gestione delirante che il governo, e in particolare il ministro della Salute Speranza e il Comitato Tecnico Scientifico, ha avuto della comunicazione in merito agli effetti del siero anglo-svedese. È opportuno ricordare che Libero è da sempre a favore della profilassi di massa. La riteniamo un dovere civico. Fatichiamo a comprendere chi, dopo aver maledetto la sorte chiuso in casa per un anno e mezzo, essersi terrorizzato, aver visto i camion con le bare e le aziende chiudere, ora, che stiamo faticosamente mettendo la testa fuori dal tunnel, si ritrae davanti all'iniezione, aspettando di beneficiare di un'immunità di gregge in arrivo solo dalla generosità e dal coraggio del prossimo. E però bisogna anche dire che, a fronte delle informazioni, contraddittorie, sempre vaghe e mai scientifiche che Speranza e i suoi esperti danno sulla profilassi, oggi vaccinarsi può essere considerato un gesto eroico. Sono tempi in cui si spreca la parola eroe per descrivere chi lascia il posto a un anziano sull'autobus o chiama il pronto soccorso se assiste a un incidente. Se proprio bisogna esagerare, ci pare più giusto dire che per noi è un gesto di eroismo civico offrire il braccio al vaccino, per proteggere se stessi ma anche gli altri, perché il governo ha fatto di tutto per spaventare i cittadini in merito alla profilassi. Il caso Astrazeneca fa scuola. Prima ci hanno detto che non poteva essere somministrato sopra i 55 anni, e così abbiamo ritardato a immunizzare gli anziani, categoria a rischio a cui il vaccino di Oxford non fa male. Poi ci hanno spiegato che si erano sbagliati e che sotto i quaranta era sconsigliata l'iniezione, però hanno consentito alle Regioni di continuare a farla. Quindi c'è stata la discriminazione di genere: Astrazeneca è pericolosa, ma solo in casi rarissimi e per le donne, comunque meno di quanto lo sia la pillola anticoncezionale. E nel mentre che lo sconsigliava, il governo ha lasciato che le Regioni organizzassero delle giornate aperte, addirittura delle nottate della profilassi, con i ragazzi liberi di farsi inoculare senza prenotazione e senza che nessuno gli chiedesse alcunché. Camilla è vittima di questa superficialità istituzionale, sulla quale soffia forte il sospetto che le saghe della somministrazione libera siano organizzate per far fuori le scorte di Astrazeneca prima che scadano, alla spera in Dio, senza guardare in faccia ai ragazzi a cui si buca il braccio, e ovviamente senza curarsi della loro cartella clinica. Ancora ieri, a cadavere caldo, Speranza spiegava alla nazione che tutti i vaccini sono sicuri. Lo sciagurato parlatore, incapace di rendersi conto che le parole rassicuranti per descrivere una tragedia hanno il solo effetto di seminare il panico. È atteso, come un vaticinio, il parere del Comitato Scientifico su Astrazeneca. Qualunque sia, è destinato a contraddirne almeno tre precedenti. Per fortuna gli italiani, per la maggioranza, sembrano più saggi del ministro della Salute e dei suoi cervelloni. Hanno capito che i vaccini salvano le vite e che, in rarissimi casi, su donne fertili che, magari senza saperlo, hanno fatto il Covid o assumono anticoncezionali, Astrazeneca può fare male. Non si può pretendere però che Camilla e i suoi coetanei, ai quali le istituzioni organizzano feste per offrire i vaccini come mele proibite, e per taluni avvelenate, arrivino da soli a queste conclusioni. Le autorità regolatorie dei farmaci e il governo non devono raccomandare alle Regioni e alla popolazione di non assumere un farmaco di cui consentono la diffusione. Sconsigliare non può consentire allo Stato di lavarsi la coscienza della sorte dei cittadini, come fa con le scritte e le foto terrorizzanti sui pacchetti di sigarette. Ci vogliono linee guida e divieti, e guai se stavolta il ministero prova a rimpallare le proprie responsabilità sulle Regioni, come faceva ai tempi in cui andavano di moda i giallorossi. Lo Stato deve avere il coraggio di vietare Astrazeneca a certe fasce d'età e di finire di farsi pubblicità con le giornate del vaccino libero. Non può sempre pretendere che siano solo i cittadini -sudditi ad avere coraggio.

Camilla Canepa, Franco Bechis contro i virologi: "Pallonari, ecco cosa dicevano su AstraZeneca". Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Franco Bechis attacca i virologi "pallonari" sulla prima pagina de Il Tempo dopo la morte di Camilla Canepa, la ragazza di 18 anni morta per una trombosi dopo essere stata vaccinata con AstraZeneca. Si rivolge ai vari Crisanti, Galli, Pregliasco, il direttore: "Sono andato a vedere l'archivio delle loro dichiarazioni e senza ricordarvele qui una per una e giorno per giorno posso garantire che hanno espresso la qualunque", scrive Bechis. "Dipendeva dal periodo: cauti quando bisognava esserlo, ottimisti quando bisognava spargere sicurezza magari perché non c'era più dose di quel vaccino e gioco forza bisognava farne un altro. Allora AstraZeneca che quasi si pensava di vietare sotto una certa età diventava all'improvviso sicurissimo, perché le reazioni letali si contavano sulla punta delle dita di una mano e poco più". E pure il gruppo di esperti istituzionali "che aveva la responsabilità se non di prendere almeno di suggerire e quasi imporre al governo decisioni e scelte nette: quel Comitato tecnico scientifico (Cts) guidato dal professore Franco Locatelli", "da loro nulla è arrivato chiaro e netto. Qualche mese fa avevano copiato la scelta dell'Ema (l'agenzia europea del farmaco) che «consigliava» di non fare AstraZeneca al di sotto dei 60 anni. Quando invece è stato fatto nessuno di loro ha aperto bocca vedendo l'autorevole consiglio gettato nel cestino". I nostri scienziati, prosegue Bechis, "sono fatti così: tutti pallonari, specialisti nel lanciare la palla in tribuna. Utili allo show, assai meno alle scelte di salute pubblica. E continuano a farlo: il nostro Cts ieri si è riunito con grande urgenza sull'onda della emozione per Camilla (e con la preoccupazione di altri casi non ancora letali verificatisi in questa corsa al vaccino per tutti), pare dalle prime indiscrezioni sia prontissimo a rilanciarla per l'ennesima volta in tribuna: il consiglio di fare quel vaccino solo sopra i 60 anni sarà rafforzato (così pare a loro) diventando una «raccomandazione rafforzata» per limitarne l'uso al di sotto di quella età". Ma insomma, si chiede Bechis, "possibile che in questo Paese nessuno si assuma responsabilità? Abbiamo affidato la vita di tutti nelle mani degli esperti da più di un anno con l'emergenza sanitaria e non c'è nessuno capace di dire «Sì» o «No» con nettezza, vietando o meno se si ritiene giusto farlo? E magari se poi si vieta trovando una soluzione per centinaia di migliaia di giovani vaccinati così senza nemmeno starci a pensare, che però avranno bisogno di una seconda dose". Conclude il direttore: "Ora il virus sta andando in letargo, come era accaduto anche l'altra estate con le temperature che si alzavano. Il rischio contagio si sta abbassando molto, e il governo ha a disposizione molte dosi di Pfizer e Moderna. Non fosse che per buon senso, si vieti al di sotto dei 60 anni ogni vaccino a vettore virale e si mettano a disposizione quelli a mRna".

Se #AstraZeneca manda in tilt i virologi casinisti. Roberto Vivaldelli l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Mentre si accende il dibattito su AstraZeneca dopo la tragica morte della giovane Camilla Canepa, ricordiamo le contraddittorie dichiarazioni dei virologi superstar sul vaccino anglo-svedese. La tragica morte della giovane Camilla Canepa, 18 anni, deceduta dopo che lo scorso 25 maggio aveva ricevuto la prima dose del vaccino AstraZeneca, ha riacceso il dibattito sui vaccini anti-Covid e in particolare su quello anglo-svedese somministrato alla giovanissima ligure. Anche in questo caso i virologi superstar che ogni giorno pontificano a reti unificate in televisione hanno detto tutto il contrario di tutto. Esempio lampante le dichiarazioni rilasciate all'Adnkronos da Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova. "Mi chiedo: come è possibile che sia stata presa l'iniziativa di dare questo vaccino in questa fascia d'età, al di là delle raccomandazioni esistenti? Il Cts era stato informato? Doveva essere consultato prima, non dopo", afferma. "Io sono stupito dal fatto che l'iniziativa di organizzare Astraday per i 18enni sia stata presa senza il consiglio di una competenza scientifica", riflette ancora il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'Università di Padova. Benissimo, ma per caso è lo stesso Crisanti che, a inizio aprile, intervistato da SkyTg24, spiegava che AstraZeneca è tra i vaccini "più sicuri al mondo"? Non solo. È un omonimo quello che sosteneva che "i casi di trombofilia" registrati dopo le vaccinazioni con AstraZeneca "sono infinitesimali" e che comunque "non esiste un vaccino sicuro per tutti al 100%", anche perché si tratta di una vaccinazione di massa che coinvolge tutta la popolazione, con tantissime differenze che possono esserci da persona a persona. Crisanti concludeva la stessa intervista dicendo che "alle donne giovani consiglierei AstraZeneca, senza dubbio". Come direbbe in questo caso il grande Totò, Ma mi faccia il piacere! Un altro virologo superstar che sul vaccino anglo-svedese si è contradetto, seppur in maniera forse meno plateale di Crisanti, è Massimo Galli, direttore di Malattie infettive presso l'ospedale Sacco di Milano. Ospite del programma "il mio medico" su Tv2000, Galli ha spiegato che il vaccino AstraZeneca, al di sotto di una fascia d'età, "non andava usato". Peccato che, a metà aprile, oltre a dar ragione a Crisanti sulle trombosi, Galli spiegava in un'intervista rilasciata a Il Mattino, che AstraZeneca è "pericoloso come una Tac" dichiarando inoltre di temere che la presunta pericolosità del vaccino anglo-svedese era una "clamorosa bufala". Del resto la stessa Ema, l'agenzia europea per il farmaco, aveva assicurato non più tardi della fine di marzo che "non c'è nessun rischio specifico legato all'età per il vaccino AstraZeneca" salvo poi mostrare con una tabella, dati alla mano, come per i giovani vi siano più rischi che benefici. Contraddizioni a non finire e dietrofront continui: ecco il fantastico mondo dei virologi superstar.

Roberto Vivaldelli. Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali, è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali

Da adnkronos.com il 14 maggio 2021. Walter Ricciardi, già presidente dell'Istituto superiore di sanità (Iss) e ora consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, è stato nominato membro del Comitato scientifico del Santé Publique France, l'Iss francese. A fargli le congratulazioni su Twitter è stato il fisico Giorgio Parisi, presidente dell'Accademia dei Lincei: "Un riconoscimento internazionale alle sue competenze e alla sanità pubblica italiana e anche inizio di un maggior coordinamento europeo".

Alessandro Rico per "la Verità" il 27 maggio 2021. «Sostanzialmente stiamo andando bene, quello che è stato fatto nelle ultime due-tre settimane in Italia, con il rischio ragionato, ha funzionato e ha portato a buoni risultati». Parola di Walter Ricciardi, consulente del ministero della Salute (e dell'Iss francese da pochi giorni). Colui che, da novembre a marzo, ha chiesto una volta al mese il lockdown. Salvo accorgersi, come molti altri chiusuristi, che il ritorno di ristoranti, bar, palestre e gite, non ha provocato la strage che loro paventavano. Eccola, la carrellata di appelli accorati di Ricciardi.

Giorno 9 novembre 2020: «Serve il lockdown delle città, ultimo tentativo prima di chiudere tutto il Paese». Giorno 21 dicembre 2020: «Serve subito un lockdown di due mesi». Giorno 15 gennaio 2021: «Serve un lockdown per tre o quattro settimane». Giorno 14 febbraio 2021, San Valentino col Covid, ma con qualche sprazzo di ragionevolezza in più: dalla serrata totale si passa all' esortazione a «lockdown brevi e mirati» e a «testare e tracciare in modo efficace». Misura che lo stesso Ricciardi, esattamente un anno prima, sconsigliava, puntando il dito sui test a tappeto del Veneto e spiegando che bisognava tamponare soltanto i sintomatici. Come nel romanzo di Robert Louis Stevenson, di «ultimi guappi» ce ne sono due: il dottor Ricciardi e mister Walter. E non è finita.

Giorno 9 marzo 2021. Famiglia Cristiana domanda all' esperto: serve il lockdown? Lui risponde: ci vuole «una chiusura dura e concentrata nel tempo», di «poche settimane». Poi, in lockdown c' è finito proprio Ricciardi, che con l'avvento del governo Draghi ha diradato le uscite pubbliche. Fino all' illuminazione: con le aperture, nessuna ecatombe. Se n' è accorto anche Massimo Galli, uscito da un breve embargo televisivo per tornare nel salotto di Bianca Berlinguer. Alla quale, civettuolo, ha giurato: «La tv non mi è mancata». Il prof del Sacco di Milano era quello che salutava così il decreto 26 aprile: «Rischio calcolato? Calcolato male». Galli si è concesso, sì, un «sospiro di sollievo», ma non ha rinunciato a qualche puntarella tragica: «Si infettano in modo asintomatico molte persone e questo è un problema». Be', meglio di quando finiscono in ospedale. Virus sparito nel 2022? «Mi sembra un'ipotesi campata in aria». Immunità di gregge? «Rimango perplesso». I vaccini? «Sono arrivati molti elementi di variazione» nel virus. E poi «non si è ragionato sulle strategie alternative per coloro che non hanno una risposta immunitaria dopo il vaccino». Più che Galli, gufi. Con etereo candore, il luminare ha avuto persino il coraggio di dire: «Non ho previsto catastrofi». Toh: all' improvviso, i profeti di sventura del Covid si sono volatilizzati.

Persino Nino Cartabellotta, che vaticinava una «inevitabile» risalita dei contagi dal 15 maggio, dopo l' articolo con cui La Verità l' ha inchiodato al suo ennesimo pronostico sgangherato, ha provato a twittare: «Le stime sull' evoluzione della pandemia devono sempre considerare il worst case. Non è pessimismo o catastrofismo, ma principio di precauzione». Chiaro? Per andare in tv, le sparano grosse: morirete tutti. Se sopravvivete, era «principio di precauzione». Chi di voi, quando prende la macchina, non pensa: è «inevitabile» crepare in un incidente? Avrà ragionato così, Fabrizio Pregliasco: «Un rialzo» delle infezioni «ce lo aspettiamo, un colpo di coda di virus dovuto a tutte queste riaperture ci potrebbe essere». I telepredicatori in camice bianco vanno capiti: se sparisce l' epidemia, sparisce la fama. E allora, s' attaccano a tutto: calano i contagi? Ci sono i morti. Calano i morti? Ci sono gli asintomatici. Non si trovano gli asintomatici? Spuntano le varianti. Andy Warhol, lui sì, aveva azzeccato una previsione: un quarto d' ora in più di Covid è un quarto d' ora in più di celebrità.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 15 giugno 2021. Vorrei avere la sicurezza di Andrea Crisanti, la sua incrollabile sicurezza. Anche se espressa in toni che tendono al cupo, con un'aria che incute più paura che riguardo. Ospite fisso dei talk, come tanti altri virologi (lui è un microbiologo, ma ormai «virologo» è categoria tv, quasi un format vivente a reti unificate), viene invitato nei panni del catastrofista. Prima del Covid-19 la virologia era scienza per addetti ai lavori, adesso sta diventando per addetti ai livori. Come scienziato non ho mezzi per giudicare, come vago conoscitore di psicologie direi che Crisanti è un mezzo disastro. Per carità, è suo dovere metterci in guardia, suggerire precauzioni, invitare alla prudenza. Ma, come notava ieri Alessandro Trocino, che lo ha intervistato per il Corriere, a dispetto di una iniziale riservatezza (proclamata a «Un giorno da pecora» non proprio una trasmissione radiofonica di carattere scientifico), ha tracimato: quasi tutti i giorni è in tv. E noi, ingenui, a chiederci, dove i «virologi» trovino il tempo per approfondire le loro osservazioni e come facciano a dedicare così tanto tempo all' esposizione mediatica. Adesso, però, in tanta confusione, li viviamo come maschere della commedia dell'arte: il vanesio, il litigioso, il profeta di sventure, la presenzialista, la star e così via. Ma è la sicurezza di Crisanti che inquieta: «Se mi avessero ascoltato avremmo avuto meno morti». Ci vuole un bel coraggio per pronunciare una simile frase e poi, come tutti quelli che frequentano i talk, le contraddizioni sono all'ordine del giorno. Nel senso che un giorno si dice una cosa e il giorno dopo il suo contrario. È normale. Crisanti, a suo dire, non sbaglia mai, non si è mai contraddetto, non ha mai commesso errori. Beato lui. Tuttavia, il suo ritratto perfetto è quello regalatoci da Maurizio Crozza: il remake pandemico del Settimo sigillo di Ingmar Bergman. Così, per scaramanzia. 

Crisanti: “Aprire tutto è stato un rischio inutile, le Regioni non cercano più il virus”. Debora Faravelli il 31/05/2021 su Notizie.it. Un rischio inutile e non ragionato o calcolato: così Andrea Crisanti ha definito l'apertura di tutte le attività e il via libera alle zone bianche. Secondo Crisanti riaprendo tutto l’Italia ha corso un rischio inutile: se infatti da un lato le vaccinazioni stanno funzionando, dall’altro non sapremo mai quanti morti in meno ci sarebbero stati in queste settimane. Intervistato da La Stampa, l’esperto ha affermato che dopo 126 mila morti legati all’infezione non esiste il rischio calcolato o ragionato, come lo definì Draghi nell’annunciare le riaperture del 26 aprile, ma un rischio inutile. Di qui il suo esempio: “Se vado in ospedale per un problema vitale e il medico mi propone due strade, un trattamento sicuro per cui bisogna aspettare qualche settimana e uno mai sperimentato ma vantaggioso per motivi economici, scelgo il primo”. Il microbiologo dell’Università di Padova ha aggiunto che la campagna di vaccinazione sta procedendo grazie all’accelerazione delle ultime settimane, ma riaprendo subito tutte le attività e dando il via libera alle zone bianche non potremo mai sapere il numero di morti in meno che ci sono stati grazie agli antidoti: “E per me, come scienziato, è ciò che conta”. Quanto al calo del numero di morti, che secondo Sileri sarà ancora più sensibile nel giro di due o tre settimane, Crisanti lo ha definito “una grande vittoria della campagna vaccinale e la ripetizione di quello che è accaduto in altri paesi, dall’Inghilterra a Israele”. E’ però ancora necessario a sua detta continuare a procedere con cautela e prudenza per evitare un nuovo aumento della curva. Secondo l’esperto c’è inoltre un’evidente sottostima dei contagi. Nell’ultima settimana di maggio abbiamo avuto una media di 150 morti al giorno per poco meno di 5 mila casi: a sua detta, se anche i decessi si riferissero a contagiati di venti giorni prima, i conti non tornerebbero. Questo perché, secondo la sua opinione, le regioni non cercano più il virus come prima per sperare di entrare nella zona con meno restrizioni: “Nel momento in cui si rimuovono le misure di sicurezza bisognerebbe aumentare tamponi e tracciamento, e invece succede il contrario”. Fortunatamente, ha concluso, la vaccinazione sta facendo da scudo. Ma se finisse l’immunità o arrivasse la variante sbagliata, a sua detta torneremmo nei guai anche perché metà degli italiani deve ancora ricevere la prima dose.

Da open.online il 31 maggio 2021. Una situazione «al di là delle più rosee aspettative». Massimo Galli, direttore del dipartimento di Malattie Infettive al Sacco di Milano, è sorpreso dai numeri registrati in Italia in merito all’epidemia di Coronavirus. Quando ad aprile il governo Draghi aveva deciso di allentare le misure di contenimento, il medico era stato tra coloro che avevano messo in guardia dai rischi. «Alla luce della situazione di allora, c’era il 10% di probabilità che le cose andassero bene», dice al Corriere della Sera. «È andata così e ne sono felice». A contribuire è stata soprattutto la campagna vaccinale, che nelle ultime settimane è riuscita a ingranare «comportando una svolta che non sarà temporanea». L’immunizzazione, inoltre, sembrerebbe aver funzionato meglio da noi che in altri Paesi: «Merito anche degli anziani che hanno fatto in modo di esporsi il meno possibile al virus. Ma anche – sottolinea – dei nostri inviti alla prudenza». Consigli che qualcuno aveva letto come catastrofisti, ma che secondo Galli, anche alla luce del presente, non lo erano: «Quell’etichetta mi è stata attaccata per motivi politici e molto poco nobili». Alla luce della situazione, dunque, per il medico non c’è possibilità che in autunno andremo incontro a un’ondata simile a quella dello scorso anno. Ma l’importante è non perdere in ritmo: «Vanno vaccinati il più possibile i giovani per poter riaprire le scuole in sicurezza a settembre». E non bisogna solo guardare alle fasce scoperte di casa nostra, ma cercare di superare le difficoltà a livello mondiale: «Esistono interi Paesi in Africa e in Sudamerica che non hanno mai visto nemmeno un vaccino».

Stefano Landi per il "Corriere della Sera" il 16 settembre 2021. L'annuncio arriva in tv. Per chi non lo ama, la cosa più naturale del mondo. «Il primo novembre vado in pensione», dice il professor Massimo Galli, ormai quasi ex primario di Malattie infettive al Sacco di Milano. Settant' anni compiuti (a luglio): tocca appendere il camice al chiodo. La chiamano in tanti? 

«Il telefono suona in continuazione, ma a 70 anni i professori universitari devono lasciare». Sarebbe andato avanti?

«Non abbandono la trincea. Noi medici, assieme ai magistrati, siamo quel genere di persone che non vorrebbero mai andare. Però a Milano si dice: "Zucche e meloni alla loro stagione". E dietro di me c'è chi merita di prendere questo posto».

Nell'era Covid pure i medici hanno i tifosi: lascia con più sostenitori o detrattori?

«Ho avuto un'infinità di dimostrazioni di affetto commoventi». 

Non dà l'idea di uno dalla lacrima facile...

«Il mio mestiere impone di indossare la corazza. Ma questa pandemia lascia cicatrici. Ci sono lutti difficili da dimenticare». 

È stato il momento più complicato della sua vita lavorativa?

«Sicuramente difficile, ma se rivivo la galleria dei ritratti dei lutti, mi tornano in mente tanti amici che ho visto morire di Aids. Gran parte della mia vita professionale l'ho passata a cercare una cura che frenasse quella malattia». 

Il Covid avrà una data di scadenza?

«Penso che verrà derubricato. Anthony Fauci parla della prossima primavera. Ma serve non perdere il ritmo della campagna vaccinale. E da sotto questo aspetto devo dire che in Italia abbiamo fatto meglio di tanti altri». 

Se lo aspettava?

«Non sono mai stato pessimista da questo punto di vista. Ero preoccupato dalle dosi a nostra disposizione». 

Qual è una persona che l'ha colpita in questi mesi?

«Guido Bertolaso per quello che ha fatto in Lombardia: è difficile per un tecnico prestarsi alla politica».

Dal 2 novembre un primario pensionato come lei sarà ancora invitato in tv?

«La moda dei virologi mi fa arrabbiare. Sono, come molti colleghi, invitato in continuazione in tv. Ma il committente è la gente. Per quell'enorme necessità di informazione e di dibattito in materia. Non siamo noi a reclamare spazi. E comunque per il mio futuro spero di no, ma temo di sì». 

Ma è vero che è sempre in tv?

«Guardate le mie pubblicazioni: sono più di 60 da inizio 2000. Agli ignoranti della politica che dicono più microscopi e meno tv, dico di avere più attenzioni al destino degli italiani e meno ricerca del consenso elettorale. Vado in tv, come sto in ospedale. Per fortuna dormo poco». 

Chi sarà Massimo Galli da (ancora) più grande?

«Non smetterò di studiare. La mia passione per la storia delle epidemie mi porterà ad approfondire un grande libro. Quel faldone che raccoglie tutti i morti di Milano dal 1452.

Un territorio inesplorato da digitalizzare. E poi voglio scrivere libri: ho anche un romanzo nel cassetto». 

In 20 mesi di pandemia quale considera il suo più grande errore?

«Il 20 febbraio del 2020 ero speranzoso che l'avremmo scampata, che il virus avrebbe girato largo: ragionavo sui parametri della Sars. Mi guardavo allo specchio e mi chiedevo come avrei potuto chiedere alla politica di fermare tutto e adottare misure restrittive». 

C'è altro che avrebbe fatto in modo diverso?

«A maggio gridavo che stavamo togliendo le restrizioni troppo presto. Penso che abbiamo aperto in una finestra fortunata. Ci è andata di lusso, se la variante Delta fosse arrivata un pelo prima sarebbe stato un altro disastro». 

Con Alberto Zangrillo avete fatto pace?

«A luglio 2020 ero tra i pochi a parlare di un autunno difficile. Purtroppo i morti della seconda ondata mi hanno dato ragione. Quindi con lui non può finire a tarallucci e vino. Ma dividere tecnici e medici tra destra e sinistra è stata un'operazione ridicola». 

Che eredità lascerà il Covid?

«Un'epidemia così mancava da un secolo: ha sottolineato la precarietà della vita umana. È come se la gente pensasse che con la tecnologia la medicina avrebbe potuto salvarci da tutto, che avremmo vissuto sempre a lungo felici e contenti. Invece i giovani d'oggi la racconteranno ai loro nipoti. Sperando che la memoria li aiuti a costruire un sistema sanitario con le spalle abbastanza larghe ad evitare che una cosa del genere si ripeta troppo presto».  

Massimo Galli, Pietro Senaldi picchia durissimo: "Me lo sono trovato davanti in tv, ecco come si è arreso". Il crollo del professore. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 29 maggio 2021. Chicchirichì, si è svegliato anche il professor Massimo Galli. Dopo due settimane di letargo mediatico, che si è autoimposto per disintossicarsi dalle polemiche televisive con colleghi imprudenti, politici demagoghi e giornalisti incompetenti, l'esimio camice bianco del Sacco di Milano è riapparso in tv, serafico e ottimista. Me lo sono ritrovato di buon mattino all'Agorà, su Raitre, rilassato e sorridente, praticamente trasfigurato. Con burbera e paternalistica magnanimità, ha sotterrato l'ascia di guerra che talvolta aveva brandito verso Libero e ha annunciato che il virus ha abbassato la guardia. Lo ha fatto un po' a denti stretti, perché ammettere che il peggio è passato è una mezza sconfessione dei suoi vaticini catastrofisti, anche recenti, ma gli vanno riconosciute onestà intellettuale, sportività e un sorprendente buon carattere.

L'AMMISSIONE. «Avevamo il 10 per cento delle probabilità che, aprendo come abbiamo fatto, le cose migliorassero tanto rapidamente», ha sentenziato Galli, «non ci credevo, ma bisogna constatare che ci è andata bene». E se lo dice lui, che è il Massimo della prudenza e della permalosità scientifica, forse è il caso di crederci. Ci scherziamo su, perché la notizia è buona e perché le quotidiane, vibranti e inconfondibili, apparizioni catodiche hanno fatto del professore una star televisiva, relegando conseguentemente in secondo piano la sua indubbia autorità scientifica. Perciò, sbagliando, lo ascoltiamo con superficiale famigliarità piuttosto che con il sacro rispetto che incute un luminare. Tuttavia, quel che dice è una notizia. Udite udite, anche per l'idolo di Roberto Speranza, Giuseppe Conte, Marco Travaglio e di tutti i tifosi del più rigido lockdown, il peggio è passato. Quasi non vien da credere alle proprie orecchie. Sarà stato Mario Draghi a far cambiare idea al professore, che per ventura si trova sempre d'accordo con chi mena il torrone della politica, o viceversa? Né l'una né l'altra. Sono i vaccini che hanno immunizzato Galli dal pessimismo cosmico che lo infettava, e li hanno dipinto in volto uno sconosciuto, spiazzante sorriso. E da che ha dismesso i panni del pennuto del malaugurio, le parole dell'infettivologo ci arrivano più chiare e nette. «Attenti», ammonisce gli italiani dal suo studio che ormai è un set, «la battaglia non è vinta, il virus circola ancora, soprattuto tra i giovani, che sono asintomatici, e per questo non ce ne accorgiamo, perché non fanno i tamponi. Non abbassiamo la guardia e neppure la mascherina».

DOPO L'ESTATE. Ha ragione il professore, che questa volta non dice che se molliamo e ci rilassiamo rischiamo di tornare a cinquecento morti al giorno, come ebbe a profetizzare solo un mese fa. L'estate è tempo delle cicale, ma non dobbiamo fare come l'anno scorso, anche se siamo sulla cattiva strada. Non va sprecata la bella stagione, ricorda lo scienziato milanese. È giusto accelerare con le riaperture, se i dati lo consentono, ma a patto di prepararsi per non farsi trovare ancora una volta impreparati in autunno, quando il cambio di stagione favorisce il virus. «Perché l'immunità di gregge è lontana e dietro l'angolo ci sono le varianti, che il vaccino può non schermare». No, non è sadismo, tantomeno nostalgia di quando tutta Italia, tremando, pendeva dalle sue labbra, talmente fuori di sé da restare in piedi la notte per ascoltare le conferenze stampa di Rocco Casalino e Conte. Quella del professore è sincera e razionale preoccupazione. E ora che abbiamo finalmente un Galli dal volto umano, forse conviene ascoltarlo.

Massimo Galli sbotta in tv: “Non dovevo venire”. Giampiero Casoni il 27/07/2021 su Notizie.it. Il professor Massimo Galli sbotta in tv: “Non dovevo venire. Io non vengo in tv per gloria o per denaro e respingo 9 richieste su 10 che ricevo”. Il professor Massimo Galli non regge una sorta di hit delle dichiarazioni assortite con cui i virologi hanno contrappuntato la lunga stagione pandemica italiana, prende d’aceto e sbotta in tv: “Non dovevo venire”. Prima o poi doveva succedere insomma, e quando a Controcorrente su Rete 4 è successo, il primario di Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano non ci è stato a vedersi inserito in una sorta di “dream team” scientificamente ineccepibile ma decisamente chiacchierone, a volte tanto chiacchierone da creare cortocircuiti informativi amplificati dalla sede mediatica in cui gli stessi si determinavano. Ma Galli ha eccepito quella incasellatura ed ha sbottato: “Non vengo in tv per gloria o per denaro, respingo 9 richieste su 10 che ricevo. Se avessi saputo, non sarei venuto”. Insomma, un po’ di irritazione c’è stata di fronte a quella rassegna di dichiarazioni a trazione virologica e un po’ “sacerdotale” che la trasmissione ha messo assieme. Una specie di ‘Nazionale dei medici’ insomma: da Zangrillo, non proprio sodale e in linea con Galli, a Bassetti, da Crisanti a Capua, passando per lo stesso infettivologo milanese. Un florilegio di parole, dichiarazioni, pareri, cassandrismi tecnici e testate fra teste molto pensanti che ha fatto prendere un po’ d’aceto l’ospite. Ospite che lo ha detto: “Premetto che da zero a 100 questa cosa mi piace -2. Avessi ben capito che c’era questo, non sarei venuto. La comunicazione generale ha contribuito molto alla confusione, mettendo sullo stesso piano posizioni scientifiche che hanno contenuti diverse”. E ancora: “Avete mostrato colleghi che ne hanno dette di tutti i colori: io credo di essere rimasto coerente rispetto ai dati”. Ma la conduttrice Veronica Gentili ha replicato: “Secondo me il suo atteggiamento è sbagliato. Cerchiamo di spiegare che si è creata un’immagine di questo ‘derby’ tra scienza e comunicazione. Non miriamo a ghettizzare gli scienziati, dopo un anno e mezzo in cui ha partecipato alle nostre trasmissione credo che lei lo sappia meglio di chiunque altro”. E Galli ha glissato buttandola sul velenoso blando e mettendo in tacca di mira un suo “nemico storico”: “Domani (oggi, 27 luglio – ndr) c’è l’anniversario di un non fausto evento. L’anno scorso al Senato ci fu una riunione con alcuni illustri politici e diverse figure di ambito sanitario e scientifico: vennero affermate cose relative alla terza ondata e alla morte clinica della malattia. Ci sono stati 92mila morti da settembre a oggi, facciamola finita con i paragoni tra gli scienziati. Ci sono quelli che hanno detto cose che si sono avverate e ci sono quelli che hanno detto altro”.

Ilaria Dalle Palle per "la Verità" il 14 luglio 2021.

Domenica scorsa ha compiuto 70 anni, una tappa importante.

«È uno spartiacque importante, il primo di novembre infatti cesserò anche la mia attività di primario e di professore universitario di ruolo perché andrò in pensione». 

Massimo Galli, direttore Malattie infettive dell'Ospedale Sacco di Milano, volto tra i più noti (e presenti) in tv da un anno e mezzo a questa parte, ha festeggiato ovviamente a casa con la moglie Tiziana, la figlia che a novembre lo renderà nonno e un paio di amici.

«Pochi intimi. Mi ci vede fare il trasgressivo? Proprio io Poi abbiamo visto la finale degli Europei». 

Lei ha dedicato gran parte della sua carriera alla lotta contro l'Aids. Come mai per il Covid-19 in un anno è stato trovato un vaccino, mentre in tutti questi anni non si è riusciti a creare un vaccino per l'Hiv?

«Perché è un virus completamente diverso. L'Hiv muta in continuazione. Le faccio un esempio: se oggi una persona viene infettata da un ceppo, troverà a distanza di poche settimane o pochi mesi in quel corpo una quantità di ceppi diversi che hanno origini dal capostipite principale ma che hanno già delle importanti differenze. Sono infezioni definite opportuniste».

Da ragazzo era un sessantottino, è vero che era nelle file del movimento studentesco all'università Statale di Milano?

«Assolutamente sì. Consideri però che io nel '68 avevo 17 anni frequentavo ancora il liceo classico Beccaria. Sono andato in piazza pure io a manifestare ma non ho niente da rimproverarmi, non ho sulla coscienza atti di violenza. Nel periodo dell'università ero molto attivo, sono stati anni di formazione, eravamo più in riunioni e in assemblee di quanto si pensasse di andare a ballare o divertirsi la sera. È stata una generazione, la mia, piuttosto spartana che ha imparato a confrontarsi anche con un'idealità che poi non ha avuto grandi risultati dal punto di vista pratico. Abbiamo imparato però a confrontarci a sostenere le nostre idee e le nostre posizioni. Per quanto mi riguarda, a occuparmi soprattutto di problemi e fenomeni sociali. Ho iniziato a interessarmi del mondo in via di sviluppo dopo di che questa cosa è stata una delle molle che poi mi ha motivato a interessarmi di malattie infettive. Erano gli anni in cui ci dicevano che le malattie infettive con gli antibiotici e i vaccini sarebbero state superate e che il grosso problema era dato dalle malattie degenerative legato allo sviluppo industriale». 

Come ha deciso di fare medicina?

«Mio padre era un medico di base, gli sarebbe piaciuto fare una carriera universitaria, si laureò con lode nel 1944 e non era un momento facile per trovarsi una reale possibilità di sviluppo della carriera. La mia professione è un po' un imprinting anche se mio padre non perdeva occasione di dirmi che questo è un brutto mestiere, un mestiere non riconosciuto, mi diceva fanne un altro. Sono stato a un passo così da iscrivermi a filosofia ma fu proprio lì che l'atteggiamento di mio padre cambiò. Se avessi deciso di farlo di sicuro non mi avrebbe ostacolato, anzi. Ma ho realizzato quello che lui avrebbe voluto fare. Nessuno della generazione successiva ha fatto poi questa scelta e le devo dire che non mi dispiace assolutamente perché non amo nessuna forma di familismo. Mio padre non mi ha mai indirizzato a nessun collega». 

È ancora di sinistra?

«Assolutamente sì». 

Cosa vuol dire essere di sinistra per lei oggi?

«Vuol dire aver una visione dei problemi con un taglio sociale che deriva da un'impostazione ideologica ma anche da studi, per quanto mi riguarda. Credo di avere buone relazioni con molte persone che di sinistra non sono, anzi, sia tra i colleghi che tra le persone. Detesto la politica politicante sia di destra che di sinistra. I politici che scelgono gli obiettivi solo per il tornaconto immediato sul versante della popolarità e del vantaggio elettorale, beh questi non hanno nemmeno un briciolo della mia stima». 

Ma quindi a chi si sente più vicino politicamente?

«A nessuno in particolare. Io ho sempre tenuto alla mia indipendenza. Se ho da dire, nel mio ambito tecnico, che qualcosa non mi convince o che certe scelte sono sbagliate non ho esitazioni a dirlo nei confronti di nessuno. Avrei avuto molto vantaggio ad apparentarmi con qualcuno o da una parte o dall'altra, ma sono riuscito nonostante tutto e qualche volta con importanti problemi a portare avanti le mie cose e la mia carriera senza dover ricorrere ad apparentamenti con partiti o politici». 

Ma tra Renzi, Letta, la Boldrini, Zan.

«Non vedo in nessuno della sinistra una particolare leadership. Parlare di Renzi come un uomo di sinistra è una parola abbastanza grossa anche se c'è un'indubbia capacità di movimento, però non lo considererei un paladino della componente di sinistra. Letta è una minestra riscaldata. La Boldrini la conosco poco. Zan sta facendo una battaglia importantissima, temo però che la politica tutta, in questo momento, sta perdendo l'occasione di occuparsi anche di altre contingenze molto importanti. Se insomma da una parte vedo una rilevante incapacità, dall'altra c'è un'importantissima malafede. Tutto condito dall'eclissi del Movimento 5 stelle». 

 Il movimento all'inizio sembrava un faro.

«A mio avviso non è mai stato più di una lampadina».

Come vive questa nuova popolarità?

«Spesso ora mi chiedono un selfie, le devo dire che mi imbarazza un po'. Le premetto che io non sono mai andato in televisione per denaro, per candidarmi, per scrivere libri Tutta questa disponibilità che do è una gran fatica e mi espone anche ad attacchi beceri, ma d'altronde le persone molto visibili diventano anche molto fastidiose. Poi ho molti attestati di stima ma anche qualche lettera anonima di minacce varie. La visibilità, come nel mio caso, comporta pochi vantaggi se non vuoi sfruttarla. Per esempio, penso di essere stato uno dei pochissimi che nell'ambito di questo periodo si è sempre rifiutato di scrivere un libro. Sa quanti instant book mi hanno chiesto? Un'infinità. In tv ci sono andato e ci vado per una prosecuzione di una battaglia ideale. Volta a cercar di dare il più possibile informazioni attendibili su quello che sta succedendo. Spesso con proiezioni culturalmente oneste sapendo bene che stimo affrontando una malattia che ogni giorno ha una novità e le informazioni cambiano di continuo con nuove scoperte». 

Qualche suo collega però si è fatto pagare per andare in tv, Cosa ne pensa?

«È professionalmente lecito però io non l'apprezzo e non l'approvo. Dal mio punto di vista è deontologicamente discutibile». 

Ormai lei e i suoi colleghi virologi siete diventati un punto di riferimento per gli italiani. Ma alcune volte con idee completamente diverse.

«Questa non è una partita tra due squadre di calcio, qui si parla di dati, problemi e rischi. Alcuni miei colleghi a luglio dell'anno scorso sostenevano che il virus era morto e che la malattia non esisteva più. 

Le dico allora che nel periodo fino al 5 di maggio avevamo avuto ufficialmente 29.000 morti, nel periodo successivo fino a settembre altri 6.000 circa. Dal 1° settembre a oggi, dopo che ci furono delle dichiarazioni sulla morte del virus, abbiamo avuto oltre 92.000 morti in Italia. Forse qualche responsabilità morale chi ha scritto e detto determinate cose a quell'epoca, beh ce l'ha. Detto questo nessuno nega l'importanza di cercare una ripresa per tutte le attività». 

La tv si dice sia una droga, quando sarà finita questa emergenza non ha paura di non essere più chiamato?

«Non aspetto altro, se la tv è finalizzata al solo narcisismo di sé, le dico che ero già soddisfatto della carriera che ho avuto». 

Prof, ma quando andrà in pensione, cosa farà?

«Mi dedicherò ai miei hobby che ho un po' messo da parte in questi anni. Per esempio, sono un appassionato raccoglitore di conchiglie dall'età di 4 anni. In particolare mi sono dedicato a una famiglia delle cipree, nel rispetto del contesto ambientale. Determinate specie a rischio preferisco vederle in fotografia. Poi ritornerò a dipingere soldatini e implementerò la mia collezione di carte geografiche da Gerardo Mercatore in poi. So che sono buffe ma fanno parte del mio modo di essere. Sto anche scrivendo un libro, che non so se pubblicherò mai, perché non è nel mio ambito. È un libro di fantascienza avventurosa. L'ho iniziato a scrivere sul treno di ritorno da una riunione al ministero a Roma. Internet non funzionava quindi non avevo modo di lavorare e così mi sono messo a scrivere. C'è però una cosa che veramente desidero fare in pensione quando avrò più tempo. Mi sono imbattuto qualche anno fa in una grande risorsa ancora poco sfruttata. Il libro dei morti di Milano, uno dice che allegria! Sì, l'argomento non è allegro ma è importantissimo ai fini della ricerca. Nel 1452 Francesco Sforza ha imposto, per avere un'informazione immediata sulla peste, che tutti i decessi della città venissero registrati. Età, nome, dove abitavano e il medico che registrava il decesso. Più di un milione e mezzo di dati sulle persone che vanno fino al 1801. Dal punto di vista della storia sanitaria in Milano è un patrimonio di dati incredibile. Questi dati ci daranno importanti informazioni sul futuro. Sapere infatti come sono andate le epidemie in passato ci aiuterà a spiegare e a non commettere gli stessi errori».

Dagospia il 5 giugno 2021. FOTO FLASH - GALLI NEL POLLAIO! - L'INFETTIVOLOGO DEL "SACCO" DI MILANO, SEMPRE INFLESSIBILE NEL CHIEDERE RIGORE E CHIUSURE ANTI-COVID, FOTOGRAFATO IN UN'ALLEGRA TAVOLATA AL MARE (ALL'APERTO), CON DIECI PERSONE - E' UNO SCATTO PRE-PANDEMIA? QUALCHE "ADDETTO AI LIVORI" SOSTIENE CHE L'IMMAGINE SIA PIUTTOSTO RECENTE VISTO CHE UNA COMMENSALE HA LA MASCHERINA "PARCHEGGIATA" SUL BRACCIO...

Massimo Galli, la foto di Dagospia: "Galli nel pollaio". Dove l'hanno beccato, come e con chi: il coronavirus esiste solo per gli altri? Libero Quotidiano il 06 giugno 2021. Tavolate a rischio, sì, ma per gli altri. Il virologo Massimo Galli è forse il più agguerrito dei "chiusuristi", censore dei cattivi comportamenti degli italiani e delle pessime politiche di governo sul coronavirus. Ma c'è stato un momento, evidentemente, che anche il responsabile dell'Infettivologia dell'ospedale Sacco di Milano ha abbassato la guardia, forse un po' più ottimista di quanto non ami mostrarsi in tv, dal pulpito di Otto e mezzo o da quello di Cartabianca e L'aria che tira. La foto di Dagospia è clamorosa, ancorché presenti qualche punto oscuro. Il sito di gossip politico fondato e diretto da Roberto D'Agostino la pubblica con didascalia iconica, "Galli nel pollaio". Il professore è seduto tranquillo beato a una tavolata all'aperto, a pranzo, in allegra compagnia. Ci sono adulti, donne, bambini, giovani e anziani. Sembrerebbe una situazione d'altri tempi, ma la mascherina "parcheggiata sul braccio" di una delle commensali fa intuire come sia stata scattata già in piena pandemia. Primo dubbio: quando? La scorsa estate? In questi ultimi giorni? In entrambi i casi, Galli non ha mai mancato di ammonire in diretta televisiva gli incauti che oggi, magari in attesa del vaccino, osino assaporare una fetta di normalità. La tavolata è al mare, all'aperto, ma certo gli invitati al pranzo sono 10 e di distanze di sicurezza, ovviamente, neanche a parlarne. Chissà, magari la foto sarà stata scattata un attimo prima che Galli lasciasse indignato la compagna, oppure no. Sta di fatto che a consegnarla a Dago è stato qualche "addetto ai livori" che evidentemente conosce bene Galli e le sue abitudini private. 

Bassetti: "Ecco perché non piaccio più alla destra". Francesca Galici il 13 Agosto 2021 su Il Giornale. Per mesi Bassetti è stato il riferimento di chi ha contestato la comunicazione di governo ma ora che anche spinge sui vaccini piovono le critiche. Matteo Bassetti non ha mai voluto etichette politiche e tutt'ora non gradisce di essere accostato alle correnti. Il direttore della clinica Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, in un'intervista rilasciata al Corriere della sera, ha commentato il cambio di atteggiamento nei suoi confronti da parte di chi, fino a poche settimane fa, lo considerava un punto di riferimento. Ma la scienza non è politica e il medico, questo, ci tiene a ribadirlo. "Sono diventato una specie di idolo della destra perché ho sempre ritenuto sbagliato il terrorismo mediatico sul Covid e i bollettini che, almeno in certi momenti della pandemia l’anno scorso, ci informavano, ossessivamente, ogni giorno, della situazione di morti e ricoverati. Questo mio modo di fare comunicazione è piaciuto a una certa area politica", ha detto Matteo Bassetto in riferimento alla prima fase della pandemia, ma ora è tutto diverso. La posizione provax del primario ha sparigliato le carte ma a lui non sembra interessare: "Se Bassetti non piace più non è un mio problema. Io porto avanti le ragioni della scienza. Io sogno il mio reparto vuoto da malati di Covid e vorrei tornare a occuparmi di altre malattie infettive, che pure ci sono. La scienza ci dice che la soluzione, per arginare la pandemia, sta nei vaccini". Fin dall'inizio, Matteo Bassetti non ha mostrato la minima esitazione davanti al vaccino contro il Covid e tutt'oggi difende la sua posizione e critica i politici che alimentano i dubbi nella popolazione: "È inaccettabile che un politico si metta contro di loro: è un atto gravissimo contro lo Stato. Voglio vedere questi politici, che fanno le cicale d’estate, cosa risponderanno in autunno quando ci sarà la ripresa di tante attività e soprattutto delle scuole. E le probabilità di contagio aumenteranno". Il primario ha ribadito, come altri suoi colleghi, che non ci sarà immunità di gregge con la variante Delta ed è necessario trovare una strada per la convivenza, sapendo che l'unico supporto valido per la nuova fase è il vaccino. Per questo motivo Bassetti è favorevole al Green pass come arma persuasiva e all'obbligo nel caso non dovesse bastare: "Se non si faranno convincere dalla possibilità di andare a mangiare una pizza o allo stadio grazie al Green pass, dovrebbero essere obbligati alla vaccinazione". Anche perché, come ha spiegato il primario, il vaccino non è solo uno scudo per la propria salute ma anche uno strumento per non gravare sulle casse pubbliche, perché "ogni malato di Covid costa moltissimo alla sanità". Un obbligo che andrebbe già esteso ai docenti per scongiurare un altro anno in dad.

Francesca Galici.  Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Otto e mezzo, Massimo Galli faccia a faccia con Sallusti: "Io, a differenza degli altri...". Veleno puro su Bassetti. Libero Quotidiano il 31 maggio 2021. "Alessandro Sallusti lo definirebbe il convegno dei catastrofisti". Lilli Gruber mette l'uno di fronte all'altro Massimo Galli e il direttore di Libero a Otto e mezzo su La7, e chiedendo conto al virologo dell'ospedale Sacco di Milano se non sia il caso di fare mea culpa per le fosche previsioni sulle riaperture (fortunatamente sbagliate) definisce con ironia il convegno che lo stesso Galli ha tenuto a Forte dei Marmi insieme al collega Andrea Crisanti. Un altro "terrorista" del Covid, per dirla col gergo ormai politicizzato della pandemia. Di fronte alla definizione della Gruber, Galli e Sallusti ridono. Poi però il professore rivendica le sue posizioni, senza chiedere scusa a nessuno: "Sono felicissimo per come è andata ma posso garantirvi che è andata così perché l'effetto dei vaccini è stato migliore rispetto a quello di altri Paesi. Ma quando si è parlato di aprire di tutto e di più a metà di aprile i dati e le proiezioni, mi perdoni, dicevano qualcosa di molto diverso. Benissimo così, però, lontano da me dall'essere rammaricato però uno che ha i miei compiti deve parlare per quelli per cui non parla quasi nessuno, cioè le persone maggiormente esposte, più fragili, e chi non ha nessuna lobby alle spalle". "Ma secondo lei perché l'hanno attacca i giornali di destra?", chiede maliziosa la Gruber. "Da molto tempo si sta cercando di avere una contrapposizione tra esperti molto aperturisti e altri esperti che aperturisti non lo sono mai stati, ma sulla base dei dati a differenza degli altri", è la risposta di Galli, polemica nei confronti degli "ottimisti" come Matteo Bassetti, accusato di fatto (senza mai citarlo) di aver premuto per un allentamento delle misure senza il necessario sostegno scientifico. Galli, Crisanti e compagni, insomma, sarebbero "un ostacolo sul percorso di determinati partiti", conclude convinto il professore.

L'aria che tira, lo sfogo definitivo di Matteo Bassetti: "Faziosi e ideologicamente schierati", Massimo Galli annientato? Libero Quotidiano il 27 maggio 2021. Matteo Bassetti ha riservato una (meritata) stoccata a tutti quegli “esperti e politici più faziosi e ideologicamente schierati” che avevano previsto un aumento esponenziale dei contagi e le terapie intensive piene a un mese di distanza dalle riaperture del 26 aprile. C’era chi, come Massimo Galli, faceva il giro dei programmi televisivi per dire che Mario Draghi aveva calcolato male il rischio: ma anche Andrea Crisanti era molto pessimista, nonché perfettamente allineato al ministro Roberto Speranza, il cui eccesso di chiusure e di prudenza è stato per fortuna fermato dal presidente del Consiglio. Ospite di Myrta Merlino a L’aria che tira, Bassetti ha innanzitutto parlato dei festeggiamenti scudetto dell’Inter: “Quello in piazza Duomo è stato un esperimento non voluto ma riuscito, nel senso che alla fine non ci sono stati i casi che qualcuno aveva pensato, quindi è verosimile ritenere che all’aperto questo virus trova un ostacolo naturale. È evidente che bisogna stare attenti a non assembrarsi all’aperto, però il rischio è molto minore”. Poi l’infettivologo dell’ospedale San Martino di Genova ha posto l’accento sul fatto che oggi, mercoledì 26 maggio, sono passati esattamente 30 giorni da quando sono avvenute le riaperture. “Nonostante le previsioni di esperti e politici più faziosi - ha dichiarato Bassetti - ieri sera siamo arrivati al punto più basso per percentuale di tamponi positivi degli ultimi sei mesi. E vedrai - ha aggiunto rivolgendosi alla Merlino - se mi sbaglio, i decessi la prossima settimana diminuiranno ancora. Questo è il frutto non delle chiusure ma dei vaccini, diciamolo forte e chiaro, anche per convincere chi ancora è restio a vaccinarsi”.  

Ecco perché i catastrofisti ci devono chiedere scusa. Andrea Indini il 31 Maggio 2021 su Il Giornale. Che fine hanno fatto gli ultrà delle chiusure? Solo Galli ha ammesso le proprie colpe. Alcuni ora si nascondono. Altri continuano a lanciare allarmi catastrofici in tv. Nemmeno davanti all'evidenza i catastrofisti, i gufi del Covid-19, faticano a rendersi conto che la loro narrazione pessimista fa acqua da tutte le parti. Lo ha sempre fatto, per carità, ma in queste ultime settimane è ancora più evidente che non regge. Eppure, nonostante il grande "capo" dei virologi che vedono nero, Massimo Galli, il direttore delle Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, abbia fatto mea culpa in una recente intervista al Corriere della Sera, la maggior parte di loro non sono disposti ad ammettere che hanno preso una cantonata, che è arrivata l'ora di ritirarsi in silenzio e lasciar fare al governo, che finalmente gli italiani possono tirare un sospiro di sollievo e guardare al futuro con ottimismo. Quando ad aprile si iniziò a studiare la road map per riaprire il Paese, tutti quanti saltarono alla gola del premier Mario Draghi. Rileggerle oggi quelle dichiarazioni fa capire quanto fossero fuori strada quegli scienziati che si opponevano con voracità a un graduale ritorno alla normalità. Dicevano: "Siamo preoccupati che la situazione sfugga di mano" (Filippo Anelli, presidente della Federazione degli Ordini dei Medici). E ancora: "Vorrei capire quanti morti siamo disposti a tollerare" (Sergio Abrignani, immunologo della Statale di Milano e componente del Cts). E che dire di Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell’Università di Padova, che parlava di "prezzo da pagare". "Da settimane viaggiamo tra i 15 e i 20mila casi al giorno - spiegava il 18 aprile alla Stampa - un plateau altissimo, che non consente di progettare riaperture". Fosse per loro saremmo ancora tutti quanti in lockdown. Fosse per loro i ristoranti e i negozi sarebbero ancora stutti sprangati. Fosse per loro nessuno dovrebbe prenotare le vacanze estive. E invece? Invece, la campagna vaccinale proceda spedita: negli ultimi giorni sono stati toccati picchi di 570mila dosi inoculate in sole 24 ore. E pensare che c'era chi gufava pure su questo paventando che "tra forniture, disorganizzazione e diffidenza verso AstraZeneca" non si sarebbe mai superata quota 370mila. Grazie al gran lavoro del generale Francesco Paolo Figliuolo, la cui divisa fa spavento soltanto a Michela Murgia, i bollettini del ministero della Salute segnano ogni giorno nuovi record che fanno ben sperare: decessi e contagi in calo e guariti in costante crescita. Tra i più agguerriti pasdaran delle chiusure c'era proprio Galli che accusava Palazzo Chigi di aver "calcolato male" i rischi. "Abbiamo messo il cavallo davanti ai buoi", diceva ancora qualche settimana fa. Poi, però, i numeri hanno dato ragione a Draghi e il virologo dell'ospedale Sacco aveva deciso chiudersi nel silenzio stampa. "Dirò la mia dopo il 25 maggio", aveva annunciato a metà mese. "Uno dei motivi per cui non voglio più venire a parlare è che non voglio più parlare di quella parola (coprifuoco, ndr) - aveva spiegato ai microfoni di La7 - se si è convinti che il segnale corretto sia quello di un ulteriori 'liberi tutti', diamolo pure. Non ho voglia di fare il custode della purezza...". Ora che è evidente che il "liberi tutti" non ha fatto andare in malora la campagna vaccinale, non gli sono rimaste che le scuse. Anche se, anziché ammettere i successi del governo, preferisce parlare di fortuna. "Il mio è un compiaciuto stupore, perché in Italia i numeri dell'epidemia sono in netto miglioramento, al di là delle più rosee aspettative", ha poi ammesso ieri al Corriere della Sera. "Con le riaperture c'era un 10% di probabilità che le cose seguissero questa via, ma alla fine è andata bene e ne sono davvero felice". Anche se tardive, il mea culpa di Galli va apprezzato. Vedremo quanto andrà avanti con questo (giusto) ottimismo. Gli altri gufi, per il momento, non si sono ancora ravveduti. Alcuni (è il caso di Walter Ricciardi) hanno battuto in ritirata preferendo non commentare affatto l'attuale situazione epidemilogica. Altri continuano a (s)parlare. Nei giorni scorsi Pregliasco paventava "un colpo di coda virus dovuto a tutte queste riaperture". Oggi, in una intervista alla Stampa, Crisanti ha ribadito che aprendo "abbiamo corso un rischio inutile". "La pandemia non è finita e dobbiamo saperlo tutti", ha detto spiegando che "ci sono ancora incognite da non sottovalutare, come la durata dell'immunità e le varianti". Prima o poi ci aspettiamo che anche questi illustri studiosi ammettano di aver sbagliato, che tutto questo allarmismo non ha fatto bene all'Italia e agli italiani, che certi toni andavano smussati prima. È anche colpa loro se a lungo si è creduto che bastava toccare un oggetto contaminato per contagiarsi o che bastava mettere il naso fuori di casa per prendere il Covid. Verità che sono state poi smontate da attenti studi scientifici. Gli ultrà delle chiusure (non solo i virologi, ma anche i politici e i giornalisti) abbiano ora l'onestà intellettuale di chiedere scusa a tutti. Affinché in futuro non si ripetano certi errori.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia. Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore). Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Prima o poi beccate il tapiro. I virologi e l’amore per le telecamere: il rischio di straparlare e cestinare il rigore scientifico. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 13 Maggio 2021. Esco dagli studi Rai di Saxa Rubra, a Roma. Essendo mezzanotte e mezza, il lasciapassare giornaliero è scaduto. Anche questo minimo contrattempo mi risulta un po’ fastidioso, perché il coprifuoco è scattato da quasi tre ore. Non incontrerò nessuno per strada e tra un quarto d’ora sarò a casa, a meno che… essendo quasi la sola macchina in giro, una pattuglia in ricognizione mi fermi per accertamenti. Speriamo di no. Inshallà. Sono quasi arrivato. Manca un’ultima inversione di marcia, quando vedo chiaramente una macchina e una moto che mi seguono. Ragiono rapidamente. Non hanno sirena, né lampeggiante. Non mi sembra di scorgere neanche la paletta sporta dal finestrino. Saranno agenti della Polizia Speciale che vogliono fare un controllo. Mi fermo. Qualcuno si accosta. Provo a guardare fuori, ma un fascio di luce intenso mi abbaglia. Cerco i documenti, tanto me li chiederanno subito. Risollevo lo sguardo e a quel punto, vedo una sagoma inconfondibile, che scintilla sotto la luce del fanale. È arrivato. Prima o poi doveva succedere. Dicono che, finché non lo ricevi, significa che quello che fai non è preso in considerazione. Infatti è quasi un effetto collaterale inevitabile: se parli in televisione, incorrerai fatalmente in qualche errore. Un lapsus, un vuoto di memoria, un’inquadratura o un gesto inopportuni o, semplicemente, uno sbaglio. Capita anche quello, prendere fischi per fiaschi. Quindi, se ti ascoltano e ti succede di fare un errore, allora ti consegnano il trofeo smagliante, il Tapiro d’Oro. Te lo porta Valerio Staffelli ed era proprio lui che lo brandiva fuori dal finestrino. Avevo già intuito il motivo della consegna. Non uno dei miei (senz’altro numerosi) errori, ma di essermi trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. In breve, la settimana precedente ero stato ospite di Cartabianca, su Rai3, in coda di trasmissione. Il programma, a causa del protrarsi della diretta da Palazzo Madama di una votazione sul Recovery Fund, era cominciato con 20 minuti di ritardo, recuperandone solo la metà. Il conduttore della trasmissione seguente era stato irritato da questo ritardo -a sua detta- ingiustificato e -secondo lui- dovuto alle mie amenità. In passato una tale critica sarebbe rimasta del tutto inosservata. Invece ora, sorprendentemente, la macchina di Antonio Ricci e di Striscia La Notizia si era subito mobilitata. Gerry Scotti ha fatto un’appassionata perorazione in difesa della divulgazione scientifica e della funzione sociale che svolge. Non paghi, la settimana successiva Staffelli mi ha conferito il dorato trofeo, come pretesto per tornare di nuovo sull’argomento e censurare scherzosamente le intemperanze di conduttori molto solleciti a tutelare i propri spazi televisivi, ma non altrettanto a sforzarsi di comprendere un tipo di comunicazione alternativo (e forse non del tutto irrilevante). Cosa può aver prodotto questa nuova sensibilità verso la comunicazione scientifica? Probabilmente il Covid. In periodo di pandemia, ha cominciato a godere di straordinaria notorietà una categoria professionale che fino ad allora era ritenuta poco adatta a intervenire in programmi generalisti, se non in rare occasioni. Sono naturalmente i virologi, i cui nomi e volti ci risultano ormai familiari. Per non far torto a quelli che dovessi trascurare, non li citerò. Tanto non hanno più bisogno di pubblicità. Il fenomeno della loro pervasiva presenza in televisione era imprevisto, quanto l’esplosione di una pandemia nel 21° secolo. Illustri clinici, fino ad allora conosciuti solo nei propri ospedali e dediti unicamente alla religione di Ippocrate, sono stati travolti da una fama improvvisa. Io, che non sono di gran lunga altrettanto famoso, ho impiegato parecchio tempo a imparare a gestire la partecipazione televisiva, a reprimere la smania di protagonismo e la sindrome da lampadina rossa. Molti di loro questo tempo non lo hanno avuto. La sindrome da lampadina rossa è la tensione e la smania che prende quando si accende la lucetta sopra la telecamera che ti sta di fronte. In quel momento sai che non stai più parlando agli amici al bar o tua sorella in macchina, ma a centinaia di migliaia o milioni di persone a te sconosciute. E, tra queste persone, anche al tempo della libera espressione in internet, ce ne sono tante che continuano a considerare la televisione un pulpito e le parole pronunciate, il Verbo. Pasolini, già cinquant’anni fa, rispondeva a Enzo Biagi che lo sollecitava ad esprimersi liberamente, che non è possibile prendersi troppe libertà in televisione, non per timore di censura, ma perché le parole sono pietre, a volte macigni. Faceva notare che la situazione è intrinsecamente asimmetrica, uno parla e milioni ascoltano, senza facoltà di replica immediata. In televisione si sviluppa spesso una tendenza a pontificare, a proclamare verità assolute. Io, per ovviare a un tale rischio, ho cercato di elaborare registri e moduli di comunicazione che attenuino questa propensione, corredando i miei spazi con esperienze pratiche che -per quanto possibile- dimostrino quanto sto affermando. Con questo espediente, lo spettatore, altrimenti passivo, è in un certo modo coinvolto e scopre l’esito della dimostrazione nel momento in cui lo sperimentatore la mostra. È l’epifania del risultato scientifico, per sua natura condivisibile ed ecumenico. Quando si comunica la scienza, bisogna immedesimarsi nello spettatore, che non è uno studente obbligato a seguire e può non avere l’interesse, la capacità, o la predisposizione ad accogliere verità insondabili. Andare verso il popolo, prescriveva Mao Tse Tung. Il comunicatore scientifico deve fare altrettanto. E qui si riannodano i fili del discorso. Il conduttore irritato, che non si è mai trovato a riflettere sull’importanza e sulla filosofia ispiratrice della comunicazione scientifica, ha confuso l’intrattenimento con la divulgazione e la semplicità con la banalità. La semplicità è il primo ingrediente della scienza, anzi è l’assunto fondamentale della scienza, noto come Rasoio di Occam. Tra tutte le possibili spiegazioni bisogna privilegiare quella più semplice… I virologi lo fanno? A volte, ma spesso no. Parlano di Rna messaggero, di tempesta citochinica, di anticorpi monoclonali con una disinvoltura discutibile. E ancora, i virologi si ricordano che le parole pronunciate in televisione possono essere macigni e che bisognerebbe astenersi dal voler esprimere a tutti i costi un’opinione personale (per quanto fondata su alcune evidenze sperimentali), come se fosse un teorema di geometria? Perché il rischio è che un collega, basandosi su altre evidenze, possa giungere a conclusioni diverse. Dal contrasto di autorità lo spettatore esce confuso e frastornato, dove invece vorrebbe essere confortato dal suono della voce sola di tutti gli esperti. Il risultato sono parole discordi che si accavallano e stridono ed esperti che si sconfessano e scomunicano a vicenda. Quindi, qualche regola aurea. In primo luogo, non dare l’ingannevole impressione di riferire un fatto certo, se ci sono margini di incertezza, o se le evidenze sperimentali su cui si basa non sono dirimenti. In secondo, non voler esprimere a tutti i costi un giudizio, temendo di perdere di autorevolezza, se si ammette di non saper rispondere. Quanti virologi a cui è stato chiesto: “Ma quale sarà l’evoluzione dei contagi” hanno risposto: “Non lo so, il virologo non si occupa di questo genere di previsioni e quindi la mia può essere al più una ragionevole congettura”? Eh sì, perché l’evoluzione del contagio richiede una solida conoscenza delle leggi statistiche e dei modelli matematici, competenza di fisici e matematici. Il bravo medico è come il bravo meccanico. Se gli porti la macchina guasta te la ripara, ma se gli chiedi quanto traffico ci sarà al casello autostradale nel weekend, risponde “e che ne so io? Mi hai preso per il Cciss?”. Terzo, contenersi. Meglio rinunciare a una battuta, che farla per il gusto dell’autoaffermazione. Quando il medico o lo scienziato lasciano corsie e laboratori ed entrano in uno studio televisivo, la loro deontologia professionale si esprime anche in questo modo. Al già evocato Ippocrate si attribuiscono due precetti fondativi della scienza medica così tramandati: primum non nocere, secundum dolorem sedare. Primo non far male, secondo alleviare il dolore. Se il grande vecchio avesse assistito alle attuali dispute tra i suoi discepoli, avrebbe sicuramente aggiunto Tertium, in televisione, noli sine diligentia loqui. In televisione , fai attenzione a quello che dici… Valerio Rossi Albertini

Matteo Bassetti a costo zero in tv, ma gli altri? "Duemila euro più Iva", nome per nome: quanto guadagnano. Libero Quotidiano il 13 maggio 2021. Massimo Galli, che ha avvisato di non volere andare in tv almeno per due settimane (annuncio che ha fatto più volte negli ultimi mesi) ha sempre sostenuto di non aver mai preso una lira per le ospitate in tv. E non chiede un euro nemmeno Matteo Bassetti. Ma non tutti i virologi sono così generosi nei confronti dei programmi e dei canali che li chiamano. Da quando sono diventati famosi per via della pandemia da coronavirus, infatti, molti di essi prendono un compenso. L'anno scorso il Codacons ha chiesto lumi sull'eventuale cachet del professore Roberto Burioni a Che tempo che fa, una presenza fissa che prevede un gettone di presenza, non quantificabile. Riporta ancora il Fatto quotidiano che a maggio dell'anno scorso, in piena emergenza il settimanale Panorama si era rivolto a Elastica, agenzia di eventi e comunicazione di Bologna che si occupa del virologo, fingendo interesse da una produzione privata: "Mi dica il budget, è limitato? Il professore farà le sue valutazioni. Potrebbe decidere di partecipare gratuitamente oppure di chiedere qualcosa in più perché è talmente impegnato che il compenso economico può essere una ragione per fare le cose", spiegò allora l'agente che però non fornì delle cifre esatte. Su Ilaria Capua non ci sono invece misteri: "Per un contributo di 10 minuti su Skype o dallo studio televisivo dell’università siamo attorno ai 2 mila euro più Iva. Non andiamo a minutaggio ma se si chiede una presenza di 10 minuti non può essere di un’ora, altrimenti la fee sale”, aveva specificato a Panorama l'impiegato dell'agenzia.

L’immunologa Antonella Viola invece ha "arruolato" una agenzia per gestire i suoi numerosi impegni. “Se la volete per un’intervista, una trasmissione, un parere al volo su contagi e vaccini occorre rivolgersi alla milanese Gabriella Nobile Agency dove l’omonima titolare ha in mano l’agenda della professoressa. Una gestione resa sempre più complicata dalla mole di richieste che si accalcano, perché la più rassicurante della folta pattuglia di epidemici discettatori (copyright Gramellini) è ambitissima”, si legge sul nuovo sito Tag43. La Nobile è nota come agente di fotografi e artisti ma "siccome si conoscono da anni, Nobile sembra evocare un favore fatto a una vecchia amica, cui ha messo a disposizione una dipendente che la segue a tempo pieno. Oltre alle comparsate in tivù, adesso c’è anche un libro da promuovere Danzare nella tempesta. Viaggio nella fragile perfezione del sistema immunitario appena pubblicato da Feltrinelli”, aggiunge il sito senza fare riferimento ad eventuali compensi. Bassetti, l'infettivologo dell'ospedale San Martino di Genova lo ha detto a chiare lettere in una intervista al settimanale DiPiù: "Non vado in tv per fare un reality ma per parlare di Covid, un argomento che è di mia competenza. Ricordo che ci vado gratis", Non solo. "Lo faccio quasi sempre di sabato, di domenica o di sera, cioè quando non sono in reparto: non sottraggo tempo ai miei pazienti, ma casomai alla mia famiglia".

Da corriere.it l'8 giugno 2021. Un anno fa disse: «Il virus è clinicamente morto». Dodici mesi dopo: «Non rinnego nulla, la traduzione che venne fatta di quella frase fu volutamente maliziosa». Però. Però oggi aggiusta il tiro: «Oggi il virus è in letargo». Questa mattina il Pronto soccorso del San Raffaele «era pieno di pazienti con altre malattie, non esistono fortunatamente pazienti con insufficienza respiratoria da Sars-CoV-2. Questo per me vuol dire che il virus è clinicamente... in letargo. Vogliamo dirla così? Può darsi che si risvegli? Speriamo di no». Così Alberto Zangrillo, direttore dell’Unità operativa di anestesia e rianimazione generale, ai microfoni di «Un giorno da pecora» su Rai Radio 1, torna sulla sua affermazione di un anno fa quando disse che il virus era «clinicamente morto». «Il virus esiste — sottolinea Zangrillo — come esistono centinaia di virus. Adesso stiamo cercando questo, quindi troviamo questo. Però se ne cercassimo altri ne troveremmo altri, e quello che è certo è che dobbiamo affrontarlo con attenzione, evitando di fare le cassandre, ma anche di fare degli indovini». Le mascherine all’aperto? «Alberto Zangrillo vi dice che non hanno alcun senso. Negli ultimi giorni ho scosso la testa quando mi è capitato di incontrare persone che in mezzo al bosco, in un sentiero lungo il corso di un fiume, avvicinandomi mettevano la mascherina terrorizzati perché arrivava l’untore. Questo — ammonisce il primario del San Raffaele — è un modo di vivere che non ci porta a quella consapevolezza, a quell’equilibrio mentale e psicologico dell’evidenza, dell’obiettività, dell’informazione corretta. Senza questa informazione corretta — avverte il medico personale di Silvio Berlusconi — saremo tutti un popolo di beoti che segue chi la spara più grossa». Come gesto di pace, andrebbe a cena con Massimo Galli o Andrea Crisanti? «Queste cose le riservo agli amici, quindi con gli amici che non ho potuto frequentare e sicuramente non con persone che mi è capitato di incrociare ma che non avrei mai frequentato nella mia vita per altri motivi». Tradotto: la polemica tra primari resta aperta. Di più. A domanda («Qual è stata la sciocchezza più grande fatta in questo ultimo anno?»), il primario del San Raffaele risponde: «È stata quella di creare dei personaggi veri e propri che ad un certo punto si sono autoalimentati e sono entrati in competizione, hanno disorientato, passando molto tempo sui media a creare disagio». Immediata la replica di Crisanti: «Nessun problema ad andare a cena con Alberto Zangrillo — ha detto il microbiologo di Padova all’AdnKronos — Sono dell’idea di ascoltare gli altri, non ho mai attaccato nessuno e non inizio certo ora». Replica anche Galli: «È un’affermazione che si commenta da sola. Non ho tempo per occuparmi di queste cose. E nemmeno di risentirmene, francamente». Un passo avanti. Secondo il medico, «viviamo nel continuo e perenne pregiudizio. La verità assoluta non esiste. La verità è verità in quanto tale perché la dice qualcuno che appartiene al politically correct. Noi — spiega con un esempio — ricordiamo quando Trump disse che forse c’era poca trasparenza da parte dei cinesi: fu preso come un cialtrone, un buffone, e attaccato soprattutto dai media locali e poi ovviamente da tutti gli altri. Adesso, a un anno di distanza, le stesse cose le dice Biden e quindi ora è giusto indagare. In Italia è la stessa cosa — sostiene Zangrillo — quindi il politically correct è alla fine quello che guida: la verità è in relazione a chi dice quella cosa». Infine, l’ipotesi di carriera politica. Salvini ha detto che per la candidatura a sindaco di Milano sta attendendo la risposta di un primario. Potrebbe esser quella di Alberto Zangrillo? «Credo che Salvini conosca un’infinità di primari, e io sono convinto che un buon medico debba morire medico. Non cambio idea e spero che morirò, il più tardi possibile, facendo il mio lavoro». Gliel’hanno mai chiesto? «Ci hanno provato in modo abbastanza ricorrente ma senza convinzione».

Lorenzo Mottola per “Libero Quotidiano” l'1 giugno 2021. Per mesi è rimasto in silenzio, appostato sulla riva del fiume ad affilare coltelli (o bisturi) in attesa che l'epidemia facesse il suo corso e arrivasse la stagione dei bilanci. Dopo questo lungo periodo di lavoro e meditazione lontano dalle telecamere, è esploso come il reattore 4 di Chernobyl. Alberto Zangrillo era stato crocifisso mediaticamente per aver pronunciato la scorsa estate l'ormai celebre frase «il virus è clinicamente morto». Ieri mattina è tornato L'Aria che tira e di fronte a Myrta Merlino ha rivendicato tutto: «Quelle parole sono state oggetto di miserabili speculazioni da parte di tristi personaggi in quotidiana e affannosa ricerca della ribalta mediatica. Ho dato da mangiare loro per un anno, ora siamo qua e le dico che accade esattamente quello che è accaduto dodici mesi fa». Nessun ripensamento sul Coronavirus. E nessun contrordine sulle sue pratiche preferite, per esempio bastonare il direttore dell'ospedale Sacco Massimo Galli: «Faccio un mestiere», ha spiegato il medico del Cavaliere, «in cui curo i malati, soprattutto quelli gravi e più difficili, anche quelli che vengono dal Sacco. Ne ho presi 5 che altrimenti sarebbero deceduti. Lo vada a chiedere ai miei colleghi del Sacco di cui ho grande stima». In effetti Zangrillo e Galli in questa pandemia hanno sviluppato un rapportino un po' turbolento, tipo israeliani e palestinesi. Il primo era arrivato a suggerire di risolvere i loro dissapori direttamente in tribunale («denunciami e la chiudiamo»). E dal dibattito scientifico i due erano passati alla politica («Sei un sessantottino e te ne vanti pure», disse sempre Zangrillo al collega). L'infettivologo aveva replicato provando a massacrare il nemico sul piano professionale: «Non sei neanche un virologo». Poi, come dicevamo, è arrivato il cessate il fuoco, terminato ieri con le uscite di Zangrillo contro i «frati indovini» che terrorizzano la popolazione con le loro premonizioni pessimiste: «Io voglio essere lasciato in pace», ha detto del collega onnipresente nei talk show, «e se dico che non vado in televisione, riesco a stare via per 6-7 mesi». Per lo scienziato del San Raffaele invece ora bisogna parlare alla gente e tranquillizzarla: «In questo momento ci sono decine di migliaia di anziani tramortiti e spaventati, che non escono di casa da quindici mesi», ha spiegato. E anche riguardo all'utilizzo delle protezioni contro il Covid è arrivato il tempo di ridiscutere alcune regole: «Chi indossa la mascherina da solo nei boschi è un potenziale paziente psichiatrico». Insomma, bisogna capire quando essere prudenti e quando si esagera: «È la differenza tra essere un popolo di beoti e di persone responsabili». L'uso delle mascherine non è l'unico argomento sul quale il professore ha idee anticonformiste. Il governo, spiega, avrebbe esagerato anche sulla portata di questa pandemia, fornendo dati esagerati. Il che spiegherebbe come mai l'Italia risulti come una delle nazioni più colpite del pianeta: «Ci siamo fatti del male da soli dipingendo un numero di morti che non è assolutamente superiore a quello di altri paesi europei, come Francia e Inghilterra. Semplicemente li hanno contati in modo diverso». Una tesi interessante, che circola dai primi mesi dell'epidemia. Sarebbe normale, quindi, che se ne discutesse con i toni di un normale dibattito scientifico. Un dibattito che in Italia è arrivato ormai a somigliare più a una partita di rugby tra carcerati.

Vittorio Feltri su Alberto Zangrillo: "Perché è odiato dai suoi colleghi medici", basta accendere la televisione. Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. “Il prof Zangrillo è odiato dai suoi colleghi medici perché lui, a differenza di loro, ha guarito tutti i suoi malati di Covid senza blaterare in televisione”. Così Vittorio Feltri ha riservato una stoccata a tutti i medici che criticano Alberto Zangrillo senza cognizione di causa. Proprio nelle scorse ore si è sviluppata l’ennesima polemica per un tweet del rianimatore dell’ospedale San Raffaele di Milano: “Cari signori giornalisti - ha scritto sul proprio profilo social - questa mattina il Pronto Soccorso Covid-19 è vuoto. Vaccini, ricerca e soprattutto cure corrette e tempestive fanno la differenza”.  A stretto giro di posta è arrivata la risposta del solito Massimo Galli, ormai onnipresente sul piccolo schermo, dove gira un po’ per tutte le trasmissioni e reti. Ospite di SkyTg24, il responsabile di malattie infettive del Sacco di Milano non si è sottratto di rispondere al collega: “Fa egregiamente il rianimatore, ma meno l’epidemiologo o il virologo, e ha un altro approccio. L’impressione è che questo tipo di messaggi non tenga conto di una serie di fenomeni che stiamo vedendo”. Fenomeni che Galli descrive come “sconcertanti”, citando ad esempio la crescita dei contagi in Germania. “Dobbiamo essere cauti - è il suo monito - anche se sta arrivando l’estate perché tantissimi dei non vaccinati sono in una fascia critica. Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno ed essere entusiasti e meno negativi direi che la macchina si è avviata e ha conseguito un risultato importante. Però siamo all’inizio, abbiamo una differenza di 30 milioni di dosi con la Gran Bretagna”.

Coronavirus, Sergio Abrignani del Cts contro i catastrofisti alla Massimo Galli: "Perché il governo ha riaperto". Libero Quotidiano l'1 maggio 2021. Le aperture non sono state un gioco d'azzardo. La pensa così l'immunologo Sergio Abrignani, da marzo membro del Cts su indicazione del governo Draghi. "Un conto è la scienza, un altro è la politica che deve tenere in considerazione anche l’aspetto socio-economico di un Paese in ginocchio. Posso sembrare brutale, ma è quel che penso. L’importante è essere onesti intellettualmente", ha detto con schiettezza in un'intervista al Corriere della Sera, di fatto mandando una stoccata a tutti gli esperti più catastrofisti. Il direttore dell'ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, per esempio, si è detto contrario alle riaperture fin da subito: "Il prezzo che si rischia di pagare è alto. Questa storia che i contagi calano durante la bella stagione è un mito da sfatare". Parlando di rischio calcolato, Abrignani ha dato questa definizione: "Oggi abbiamo un’incidenza di 146 casi a settimana per 100mila abitanti (contro i 157 della scorsa settimana) e l’Rt a 0,85 (contro lo 0,81 precedente). Rischio calcolato vuol dire capire fino a dove ci si può spingere per far ripartire il Paese senza rischiare di ritrovarsi in rosso per tutta l’estate o peggio ancora di fare morire la gente". Sulla distinzione tra politica e scienza, poi, ha aggiunto: "Noi come scienziati possiamo indicare la strada migliore per la mitigazione del rischio. Ma a decidere è sempre la politica". L'immunologo, poi, si è scagliato contro la scienza italiana, che "deve chiedere scusa perché incapace di parlare con una voce sola". E ancora: "Ognuno può dire la sua: fareste mai commentare un intervento a cuore aperto a un ortopedico? No. Eppure durante questi lunghi mesi ognuno si è sentito in diritto di dire la sua. E gli scienziati, me compreso, non sono migliori degli altri uomini".

Da ilgazzettino.it il 29 aprile 2021. Il microbiologo Andrea Crisanti è indagato dalla Procura di Padova dopo una segnalazione di Azienda Zero, il braccio operativo della Regione, secondo la quale le critiche dello scienziato al sistema di prevenzione Covid - in particolare l'uso generalizzato dei test rapidi - avrebbe gettato discredito sulla sanità veneta. Il fascicolo è stato aperto all'inizio di marzo, e vede i magistrati procedere per l'ipotesi di diffamazione. A presentare l'esposto è stato il direttore generale di Azienda Zero, Roberto Toniolo. Crisanti, direttore dell'istituto di microbiologia dell'Università di Padova, è un dipendente della sanità del Veneto.

Il servizio di Report. Le critiche ai test rapidi, giudicati «inattendibili» dal professor Andrea Crisanti, e il fuori onda del direttore generale Luciano Flor al giornalista Danilo Procaccianti, erano stati oggetto della trasmissione Rai Report nei giorni scorsi.

L'indagine sui test rapidi. La Procura di Padova ha aperto un'inchiesta per verificare se i test rapidi per il Covid siano affidabili, ovvero se siano in grado di rispettare le prestazioni diagnostiche promesse delle aziende farmaceutiche. L'ipotesi sulla quale si sta procedendo è di frode in pubbliche forniture. L'apertura del fascicolo, affidato al pm Benedetto Roberti, risalirebbe ad alcune settimane fa. Sarebbero già state sentite alcune persone informate sui fatti. L'inchiesta, in pratica, vuole verificare se la Regione sia stata truffata dalle aziende farmaceutiche con forniture di test poco efficaci.

PiazzaPulita, Andrea Crisanti detta legge: "Sugli autobus solo chi ha mascherine FFP2". Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. Questa volta Andrea Crisanti oltrepassa i limiti. Ospite a PiazzaPulita su La7 il professore ordinario di Microbiologia a Padova prende le difese di Matteo Salvini: "Effettivamente bisogna regolare le riaperture dei ristoranti anche all'interno", ammette davanti alle telecamere di Corrado Formigli. Fin qui nulla di strano se non fosse che poco dopo espone il problema dei mezzi pubblici sempre troppo affollati. Come fare? Verrebbe da chiedersi. Presto detto, Crisanti ha una soluzione tutta sua: "Bisogna far salire sugli autobus solo chi ha una mascherina FFP2 visto che i modi per controllare chi sale e chi no non ci sono". Per l'esperto quella della capienza al 50 per cento è stata una farsa e per questo bisogna evitare che chi indossa una semplice mascherina chirurgica salga a bordo: "Non basta la mascherina chirurgica, è un'occasione di contagio", ripete senza pensare agli italiani già abbastanza martoriati. Ma le posizioni di Crisanti, che sfiorano a dir poco l'estremismo, non sono nuove. Qualche giorno fa a La Stampa il professore aveva preso di mira il premier Mario Draghi e la decisione di riaprire: "Ma come? Di calcolato vedo ben poco e il vero rischio è giocarci l'estate. Allora diciamolo chiaramente: la scommessa è riaprire ora per vedere se a giugno dobbiamo richiudere tutto". E ancora: "Io che non ho vincoli lo dico chiaramente: riaprire ad aprile è una stupidaggine epocale". Dello stesso parere il collega Massimo Galli che a Otto e Mezzo si era pronunciato così: "In una situazione di questo genere anche se per molti avere ancora tutto chiuso è un disastro, e lo capisco benissimo, la curva dei contagi che ora vede una flessione appena accennata temo che l'avremo presto con un segno opposto. A meno che non riusciamo a vaccinare così tanta gente da metterci al sicuro in fretta, ma non mi sembra questo il caso. Rimango in allerta e con grande preoccupazione". 

Matteo Bassetti, sospetti sui report di Andrea Crisanti: "Molto simili a quelli dello scorso anno". Libero Quotidiano il 30 aprile 2021. Ancora controcorrente Matteo Bassetti che replica ad Andrea Crisanti in merito a una possibile quarta ondata a maggio. "Mi pare che questi report - esordisce in un lungo commento su Facebook - siano molto simili a quello dell’anno scorso sui 150mila ricoverati in terapia intensiva entro giugno, ce lo siamo dimenticato?". Da qui la chiara frecciatina al microbiologo dell'università di Padova: "Non so su cosa siano basate queste affermazioni, vedremo, io non faccio previsioni ma non scommetterei su una quarta ondata prima dell’estate, sul fatto che ci dovrà essere una convivenza con questo virus e che torneremo ad avere dei casi in autunno, mi sembra evidente". Per il direttore del reparto Malattie infettive del San Martino di Genova chiunque faccia "previsioni diverse se ne deve assumere le responsabilità se poi non si realizzano, quando Crisanti va a dire in giro che a maggio ci sarà la quarta ondata si assume la responsabilità di quello che dice? Sennò è procurato allarme. Di cui oggi non abbiamo bisogno". Crisanti qualche giorno fa in un'intervista a La Stampa si era detto certo che con le riaperture la quarta ondata sarebbe stata dietro l'angolo. "L'intensità di un'evitabile ulteriore ondata dipenderà dal ritmo della vaccinazione e dall'azione della variante inglese o di altre mutazioni, come quella indiana - diceva -. Proprio queste temibili novità avrebbero richiesto maggiore prudenza. Si sarebbe dovuto seguire l'esempio dell’Inghilterra, che solo dopo aver vaccinato il 70 per cento della popolazione si è permessa timide riaperture. Il contagio va diminuito molto di più prima di alleggerire le misure, altrimenti senza tamponi e tracciamento riparte in poche settimane". Dito puntato anche contro il governo che, presieduto da Mario Draghi, ha concesso il via libera a progressive aperture: "Si riapre senza aver messo in sicurezza il Paese e confidando nella bella stagione, dimenticando che l’anno scorso venivamo da forti chiusure e che la vita all'aria aperta può solo mitigare il contagio".

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 23 aprile 2021. Che siano le nuove star mediatiche lo sappiamo da tempo, dalle conferenze stampa del primo lockdown, con l' ipnotico Franco Locatelli, alle comparsate tv che lusingano ego e narcisismi di molti professionisti dell' anti Covid. E che siano più litigiosi delle correnti pd è ben noto. Ora lo scontro emerge in superficie con la contesa tra il rigorosissimo professore del Sacco Massimo Galli («Draghi sul Covid non ne ha azzeccata una») e Matteo Bassetti, idolo degli aperturisti, ritratto perfino sulla serranda di un bar genovese («paura e delirio a las Zenas»). Myrta Merlino annuncia in diretta a Galli un commento di Bassetti. La testa del professore comincia pericolosamente a basculare, segno di nervosismo crescente: «Sentirlo? Anche no ». Ma la Merlino prosegue imperterrita. Ed ecco Bassetti, un professore che in passato non si è sottratto alle dirette con Matteo Salvini: «Galli lavora più per sé che per la Regione». Risposta non diplomatica: «Sono un anziano professore, ho già fatto la mia carriera. Io non ho bisogno di inchinarmi a nessuno. E non sono il nano e ballerina di nessuno». Ogni riferimento a Craxi e ai suoi cortigiani è, naturalmente, voluto.

Dagospia il 24 maggio 2021. Matteo Bassetti: "Mia moglie all'inizio non mi voleva". A Domenica Live il "virologo star" parla di sé e della sua famiglia. Diventato una “star” durante la pandemia, come altri suoi colleghi virologi, Matteo Bassetti torna a Domenica Live per parlare di sé e della sua famiglia. Accompagnato dalla moglie Maria Chiara, l’infettivologo del San Martino di Genova si racconta a Barbara d’Urso: “Mi sento molto fortunato, perché non ho mai avuto dubbi su ciò che volevo fare da grande. Questo grazie a mio padre, che era un medico e mi portava con sé ai suoi convegni”. Per quanto riguarda il primo incontro con la moglie, invece, Bassetti parla di colpo di fulmine: “È stato abbastanza amore a prima vista, anche se lei all’inizio non mi voleva”. "Era troppo sicuro di sé" spiega la donna a Barbara d'Urso, ammettendo di essere ora molto gelosa del marito.

Da liberoquotidiano.it il 24 maggio 2021. Matteo Bassetti per la prima volta in tv con la moglie Maria Chiara, che ha già stregato tutti. Il noto infettivologo del San Martino di Genova ha scelto il salotto di Barbara D’Urso a Domenica Live per presentare la sua consorte al grande pubblico. Per la prima volta, inoltre, l’esperto non ha parlato di virus e vaccini ma della sua vita privata. La padrona di casa è andata subito a stuzzicare Lady Bassetti chiedendole: “Maria Chiara, sai che è considerato il più sexy dei virologi? Sei gelosa?”. Secca la replica: “Assolutamente, se me lo sono scelta! Sono molto gelosa, però di cose concrete. Finché fanno elogi via social fa piacere. Lui è piacione. Sì, a lui fa proprio piacere, piacere appunto”. Parlando del loro primo incontro, invece, Maria Chiara ha spiegato: “Al primo appuntamento non volevo saperne di Matteo. Lui stava tornando da Yale, era un giovane uomo in carriera, lo vedevo troppo sicuro di sé e troppo spavaldo“. La donna, però, poi ha ceduto. Dal loro rapporto sono nati due figli, Dante e Francesco. “Lui è un padre eccezionale, molto presente. Non è mai mancato a un pranzo a casa, nemmeno durante questo periodo di pandemia”, ha raccontato con orgoglio Maria Chiara. Infine qualche altro dettaglio sul marito: “Non è romantico, ma è molto carino come compagno. Lui è tanto pragmatico”.

Alessandro Trocino per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. «Controcorrente io? No, è che in Italia parlano soprattutto i catastrofisti. Il famoso rubinetto che portava malati nei Pronto soccorso si è quasi prosciugato. Il resto sono discorsi da bar». Matteo Bassetti è uno dei virologi più noti. Presentissimo in tv, in un'intervista a Chi non ha nascosto quasi nulla della sua vita privata.

Parole sue: «La telecamera è una droga». È malato di narcisismo?

«Tutti quelli che vanno in tv lo sono. Se dicono di non esserlo, mentono. Io non ci trovo nulla di male».

Prof e medici non dovrebbero stare in ospedale e università?

«Io sto in ospedale dalle 7.40 alle 20.30. Faccio qualche collegamento con skype. È parte del nostro lavoro comunicare. I docenti hanno un terzo del tempo per parlare alla gente».

A volte si sfiora l'esibizionismo.

«Siamo libri aperti, ormai siamo personaggi pubblici. Il nostro ruolo è aiutare la gente a capire».

A volte finisce in lite. Con Massimo Galli sono volate parole grosse.

«Ha parlato di nani e ballerine, lo trovo gravissimo, rasenta la querela. Ormai non lo ascolto più, lo trovo poco interessante. Anche quando dice qualcosa di giusto, lo dice male».

Però è vero che lei è vicino a Salvini.

«Io sono poco ideologico, sono un liberale. Ho posizioni da medico, non da politico.

Certo, Salvini lo conosco e lo sento, come altri: e lo trovo una persona di buon senso».

Il ministro Speranza fa parte dei catastrofisti di cui parlava prima?

«Sì. Forse ci vorrebbe un ministro medico».

Sta pensando a Pierpaolo Sileri?

«Sarebbe una bellissima figura, dal grande spessore culturale e scientifico. Sono di sicuro più vicino a Sileri che a Speranza».

Forse nell'andare in tv c'è stato un eccesso di agonismo che ha portato a qualche errore.

«Tutti abbiamo sbagliato. Io ho detto che non sarebbe arrivata la seconda ondata. Ma poi ho avvertito che la terza sarebbe arrivata a febbraio, dolorosa come la seconda. Oggi è finita».

Come finita? E le varianti?

«Siamo lontani dal picco. E non è che chiudendoci in casa le varianti di colpo spariranno. Io penso che il modo migliore per uscirne in fretta siano le vaccinazioni. Ecco, cerchiamo di dire alle persone di non avere paura delle varianti. Altrimenti, in un Paese già vaccinoscettico, la gente farà a meno di immunizzarsi».

Da "Un Giorno da Pecora" il 13 maggio 2021. “Ho fatto l'arbitro di calcio per 20 anni, sono arrivato fino alla serie D. Una volta ho dato un calcio di rigore al 95esimo in un derby in Sardegna, Sant'Antioco contro Carloforte: mi dovettero portare all'aeroporto di Cagliari nascosto dentro una camionetta della polizia....” A rivelarlo è uno dei volti più conosciuti tra i medici che si stanno occupando della pandemia, Matteo Bassetti, direttore della Clinica Malattie Infettive dell'ospedale S. Martino di Genova, che oggi, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, ha 'svelato' quella che era la sua grande passione da ragazzo. Quel rigore che aveva incautamente dato almeno c'era? “Per me c'era, ma per tutti quelli che erano lì non era così...”. Ha avuto anche altre esperienze simili nella sua lunga carriera arbitrale? “Moltissimi. Ad esempio una volta mi hanno sfasciato completamente la macchina, a Sanremo”. Cosa aveva combinato per provocare quella reazione dei tifosi? “Ero andato lì con un amico, in macchina, e” dopo la partita “ad un certo punto arrivarono varie pattuglie della polizia che mi accompagnarono al casello autostradale. Io dissi: ora che è tutto finito voglio andarmene al Casinò”. E cosa le risposero le forze dell'ordine? “Il maresciallo di mi disse: se non se ne va da Sanremo le do il foglio di via....”. Il medico a Un Giorno da Pecora ha commentato una recente dichiarazione del collega Massimo Galli, che aveva spiegato di voler interrompere le sue presenza in tv. “Prima o poi spariremo anche noi virologi e infettivologi, speriamo presto, perché vorrà dire che sarà finita la pandemia. Finché ci sarà il virus, la gente preferisce ascoltare chi è competente. Noi andiamo in tv per parlare di pandemia – ha concluso Bassetti a Rai Radio1 - se bisogna parlare d'altro, meglio stare a casa”. La pandemia? “A settembre credo che la 'partita' sarà finita, me lo auguro, magari avremo ancora dei ricoveri ma non con i numeri del passato. Le mascherine? Quando arriveremo a 30 milioni di vaccinati, a 3 settimane dalla prima dose, si potranno togliere le mascherine all'aperto". Quando crede si raggiungeranno quei 30 milioni di vaccinati? “Credo a metà giugno, a quel punto si potranno già togliere le mascherine all’aperto”. Cosa ne pensa della possibilità di fare la seconda dose del vaccino Pfizer a 42 giorni invece che a 21, come previsto dalla casa farmaceutica? “Secondo me è giusto - ha detto Bassetti a Rai Radio1 - mi sembra una decisione di buonsenso”.

"Chi sono i colleghi che gettano fango. E la sera quando salgo in moto…" Martina Piumatti il 19 Giugno 2021 su Il Giornale. La vita sotto scorta, le invidie dei colleghi, la passione per il calcio e Mancini, la tentazione per la politica e le sue "droghe". Matteo Bassetti, l’uomo al di là dello scienziato. Ottimista per natura, pragmatico per professione. Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova, è il più amato, e odiato, tra le star della scienza. I giornali lo cercano, le tv lo invitano, la politica lo corteggia, molti lo citano come il più attendibile dei nuovi guru ai tempi del Covid. Oltre che il più sexy. Narciso, lo ammette, Bassetti piace e lo sa. Il successo e la notorietà, però, li ha pagati cari. Finito nel mirino dei leoni da tastiera, vive da mesi sotto scorta, ma l’infettivologo genovese è un combattente e, anche a ilGiornale.it, non arretra nella sua difesa senza sconti della scienza. E se scendesse in campo non ha dubbi, a parte l’arbitro, giocherebbe sulla fascia per piazzare dei cross in mezzo e far sì che qualcuno faccia goal. Decisivo, anche lì.

Lei è un uomo di scienza e si trova a ricevere migliaia di minacce di morte proprio per le sue prese di posizioni in nome della scienza. Non ha mai pensato: “Ma chi me lo fa fare”?

“Devo dire che l’ho pensato tante volte. Però, quando fai la scelta, che è una scelta di vita, di stare dalla parte della scienza, della medicina non bisogna arretrare, ma tenere la barra ancora più dritta, per usare un paragone con la vela che mi piace tanto. È un momento in cui c’è un vento forte ma non bisogna mollare, perché è proprio ora che gli uomini di scienza devono continuare ad affermare la forza della scienza e della medicina. Certo, a volte penso: ‘Ma chi me lo fa fare?’, poi però vorrebbe dire abdicare al mio ruolo”.

Però, vivere sotto scorta non deve essere semplice…

“Io sono sotto sorveglianza attiva, che è un livello precedente rispetto a quello della scorta vere propria. Certo, la sera quando esco dall’ospedale salire sulla moto e guardarmi intorno per vedere che non ci sia qualche brutta faccia intorno, come mi ha detto la polizia, beh…questo è una cosa che non mi piace e non mi fa star bene”.

Avrà paura qualche volta?

“Diciamo preoccupazione perché la paura è una pessima consigliera. Ma preoccupazione sicuramente ce n’è tanta”.

La cosa che la preoccupa di più?

“Sicuramente che questi delinquenti hanno tirato in ballo anche la mia famiglia e quando tocchi la famiglia vai a colpire la parte più debole. Poi, voglio dire, io sono io e loro sono loro, siamo due entità diverse. Perché devi prendertela con la mia famiglia? Se devi colpire colpisci me, altrimenti significa che sei solo un vigliacco”.

Non crede che il clima di contrapposizione un po’ da tifoserie da stadio tra scienziati abbia contribuito ad avvelenare il clima, fomentando i vari leoni da tastiera?

“Certo, c’è stata una contrapposizione pesante. Molti, tra cui qualche collega, che si sono schierati da una certa parte, l’hanno fatto più per ideologia politica che scientifica. E questi sono i risultati! Chi ha assunto delle posizioni scettiche, per esempio nei confronti dei vaccini, quando poi sono arrivati, ha fomentato la divisione della gente in una sorta di tifoseria da stadio. Ma la scienza non è ideologia”.

Perché tra tutti gli scienziati hanno preso di mira proprio lei?

“Intanto non hanno preso di mira solo me. Io sono il primo che uscito allo scoperto, ma hanno ricevuto delle minacce anche Vaia, Pregliasco. Credo che dietro questi movimenti no vax e antiscientifici ci sia molta politica e quindi potrebbe darsi che una certa politica, che si è sempre schierata anche contro altri scienziati, non abbia aiutato in questo momento storico. Perché finché si trattava di dire ‘sono per la mascherina non sono per la mascherina’ o ‘sono per il lockdown non sono per lockdown’ si poteva fare dell’ideologia. Quando si tratta di vaccini l’ideologia deve scomparire”.

Dirige la clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova, a livello internazionale per la sua età asfalta colleghi più anziani, tutte le trasmissioni la vogliono, è considerato anche il più sexy tra le star della scienza. Lei ha successo. Non è che sono invidiosi?

“Questo assolutamente! Credo che ci sia molta invidia. Perché se lei legge i messaggi che arrivano soprattutto via social è evidente. C’è gente che mi dice: ‘Sei sempre in televisione, vai in reparto’. Non sanno che io vado sia in televisione che in reparto e riesco a fare molto bene entrambe le cose. Da un anno e mezzo a questa parte non sono mai mancato la mattina nel mio reparto e la maggior parte dei collegamenti che faccio sono via Skype e durano 10 minuti. Porto via tempo quasi sempre alla mia famiglia, perché si tratta soprattutto di collegamenti serali. Quindi la gente riversa su di me i propri malumori perché vede che sono una persona di successo. Sono purtroppo gli stessi che prima del Covid inveivano contro gli attori, i calciatori, i conduttori televisivi, in generale contro la gente che ha successo. Perché in questo Paese, invece di apprezzare quando qualcuno ha successo arrivandoci con i propri mezzi, si insinua che se ci sei arrivato significa che devi per forza aver fatto qualcosa di sbagliato. C’è un tipo di politica ideologica che fomenta queste persone. Infatti ho avuto diversi attacchi da una certa parte politica perché io ero uno dei consulenti del presidente Toti. È chiaro poi che, quando crei delle contrapposizioni politiche, qualsiasi presa di posizione scientifica viene vista da quel punto di vista. E di certo questo non aiuta”.

Le sarà capitato anche in corsia di suscitare qualche invidia o no?

“Beh certo! Da parte dei colleghi tantissime”.

Con Galli di bordate a distanza ve ne siete tirate parecchie. Mi dica la verità: non vi potete proprio sopportare?

“Non solo con Galli. Anche tanti altri colleghi gettano fango. L’altra sera mio figlio è tornato a casa piangendo, perché un bambino ai giardinetti gli ha detto che suo padre è un ladro perché fa il medico e che, invece di lavorare, vive in televisione. Purtroppo, questi messaggi arrivano anche da parte dei colleghi. Con Galli, credo che ci sia proprio un’incompatibilità caratteriale. Pensi che era un grande amico di mio padre, mi ha visto crescere ed è una persona che ho sempre stimato dal punto di vista scientifico. Poi dopo, secondo me, ha assunto delle posizioni talebane e ideologiche. E ritengo sbagliato quando l’ideologia sia…”

Politicizzata?

“Sì, credo di sì. Io posso dire in quest’anno di avere criticato praticamente tutti. Alcuni dicono Bassetti è di destra, ma io, quando Salvini difendeva il plasma iperimmune, sulla base dei dati l’ho smentito come, dall’altra parte, ho detto più volte che Speranza sbagliava. La scienza non deve avere colore politico”.

Secondo lei le varie Cassandre, da Galli a Crisanti, che si compiacciono delle loro previsioni catastrofiche perché lo fanno? Ricerca di visibilità?

“Secondo me, qui c’è stato un po’ il gioco delle parti. Io ho scritto un libro che ha come sottotitolo: “Lettura del Covid senza allarmismo e catastrofismo”, su questo messaggio ci ho fatto proprio una battaglia personale. Invece, altri anche quando c’è il bicchiere mezzo pieno, l’atteggiamento è sempre quello di vedere comunque il bicchiere mezzo vuoto: questo è un modo diverso di fare comunicazione. Ognuno si prenderà la responsabilità di ciò che ha fatto. Non sono io che devo giudicare, sarà il tempo a dire chi aveva ragione”.

La celebrità piace a tutti, anche agli scienziati e anche a lei. Infatti ha dichiarato che “la telecamera è una 'droga'”. È così?

“Guardi, la differenza che c’è tra il sottoscritto e gli altri è che io lo riconosco e gli altri no. Chiunque va in televisione ci va perché gli piace andarci. Non c’è nessuno che lo costringe e non è un ordine che ti viene dato dall’alto. Dico, con un’espressione forse un po’ forte, che è una 'droga' perché la televisione è una cosa che quando la fai e ti rendi conto che i tuoi messaggi arrivano e piacciono…beh fa piacere e quindi vuoi continuare a farla. Ma credo che potrò tranquillamente farne a meno!”.

Lei si definirebbe un po’ narciso?

“Sicuramente. Infatti, credo che chi va in televisione ci vada anche per narcisismo personale”.

Da chi le piace andare di più?

“Mi sono trovato bene un po’ dappertutto, devo dire”.

Avrà qualche trasmissione che preferisce?

“Se devo proprio dirle, ho costruito dei bellissimi rapporti con Alberto Matano, Mara Venier, Bianca Berlinguer, Nicola Porro. Come vede si tratta di trasmissioni trasversali. Vado sia su Rai 3 che su Rete 4. Ho iniziato con Quarto grado, Gianluigi Nuzzi insieme a Siria Magri sono stati i miei scopritori con cui ho costruito un rapporto che va oltre il piccolo schermo”.

E, invece, quando Bassetti guarda la tv cosa guarda?

“Mi piace tanto guardare lo sport, il calcio. Devo dire che mi sono appassionato molto anche alle serie televisive Netflix è diventato un po’…”

Un’altra 'droga'?

“Sì esatto. Ho visto La casa di carta e Vis à vis che mi hanno veramente stregato. Infatti in questi mesi, le serate che non ero in televisione, guardavo le serie televisive con mia moglie e i miei figli: un momento bellissimo per me”.

La prima cosa che fa Bassetti nel tempo libero, se ne ha?

“La prima cosa che faccio è dedicarmi ai miei figli e anzi ho bisogno quest’estate di un po’ di tempo per riappropriarmi del rapporto con loro, perché a livello fisico non sono mai mancato e ho sempre cercato di tornare a casa, ma mi sono reso conto che sono molto mancato dal punto di vista mentale. Per cui, quando Bassetti ha del tempo libero cerca, avendo dei figli adolescenti, di riconquistarli, cosa forse più difficile che sconfiggere il Covid”.

Lei è appassionato di calcio e ha fatto l’arbitro per anni. La Nazionale come se la sta cavando agli Europei?

“Praticamente tutte le sere che gioca la Nazionale ho un collegamento televisivo. Ho visto la prima partita e mi sembra un’ottima squadra. Mi piace da morire Roberto Mancini, sono sempre stato un suo grande fan. Ho anche avuto modo di conoscerlo recentemente. È una persona eccezionale, è l’uomo giusto al posto giusto”.

Quindi abbiamo chances?

“Guardi, Mancini è un vincente e con i vincenti ci sono sempre chances. Poi è un ottimista e tutti gli ottimisti sono vincenti, i pessimisti invece sono perdenti”.

Se scendesse in campo, a parte l’arbitro, che ruolo giocherebbe?

“Giocherei sulla fascia per mettere dei cross in mezzo per far sì che qualcuno faccia goal. Sono suggeritore più che un finalizzatore”.

Lei è un tipo che non fa sconti. Idee chiare, spesso tranchant senza risparmiare bacchettate o suggerimenti a chi decide. Mai pensato di fare politica?

“No… ovviamente in questo anno e mezzo è capitato che qualcuno me l’abbia chiesto. Credo che per il momento ci sia molto bisogno di me all’ospedale, in Università, quindi è lì che voglio continuare ad esserci. Poi se ci saranno proposte le valuterò”.

La davano anche come tra i papabili come ministro della Salute nel governo Draghi. Avrebbe accettato?

“Per uno come Draghi ci sarei andato a piedi a Roma. Perché è la personalità che stimo e stimavo di più. Un uomo di grande carisma, di successo con grande pragmatismo e intelligenza. È un uomo che sa e fa e in Italia non è facile trovare personaggi del genere. Draghi è unico nel suo essere infatti è colui che, nel momento più difficile per l’Italia, ne ha preso in mano le redini e mi pare che le abbia prese anche bene”.

Lei almeno sarebbe stato un ministro vaccinato, dato che abbiamo scoperto che Speranza non lo ha ancora fatto (cosa che ha fatto mercoledì dopo le polemiche)?

“Oltre ad avere un ministro già vaccinato avremmo anche avuto un ministro medico e in questo momento non sarebbe male. Avere durante una pandemia al ministero della Salute un esperto di malattie infettive, non dico io, avrebbe potuto giovare anche a livello comunicativo. Punto dove il ministro attuale ha mancato moltissimo”.

Le piacerebbe in futuro?

“Non so, vediamo. Uno dei problemi che può avere un medico il ministro sa qual è?”

No, me lo dica lei…

“È che noi siamo molto bravi quando facciamo il nostro mestiere e finiamo per mettere al centro della nostra agenda la materia in cui ci siamo specializzati. Ma avere una visione tolemaica della sanità è sempre sbagliato. Per fare il ministro bisogna svestirsi della maglia del tuo club, che sarebbe quello della specializzazione scientifica , e vestire quella della nazionale per essere il ministro di tutti”.

Lei che è un ottimista pragmatico ci sarà una cosa che abbiamo guadagnato in oltre un anno di pandemia?

“Beh...qualcosa abbiamo imparato. Per esempio, eravamo un paese di zozzoni. Se prima guardava nel bagno di un aeroporto o di un autogrill mediamente gli uomini, dopo aver fatto pipì, non si lavavano le mani. In questo spero sia arrivato il messaggio, vecchio di anni, che lavarsi le mani salva la vita. Forse stiamo imparando ad essere anche un po’ più ordinati. Noi italiani siamo i più disordinati del mondo, ci ammassiamo uno sull’altro in coda alla posta, sui treni, sull’aereo. Il distanziamento imposto dal Covid magari ci insegna un po’ di educazione civica. L’altra cosa che abbiamo imparato è che ci può essere un nemico invisibile dietro l’angolo e che è giusto adottare tutte le misure adatte a prevenirlo. Poi, stiamo capendo finalmente che i vaccini sono la più grande scoperta degli ultimi 100 anni, insieme all’acqua potabile e agli antibiotici. Negare questo è negare l’esistenza stessa del mondo”.

Quest’estate andrà al mare?

“Sì, assolutamente!”.

Dove nella sua Liguria?

“Sì, andrò a Celle ligure dove abbiamo la casa di famiglia”.

In spiaggia però ci andrà senza mascherina?

“Ma certo, ci vado già adesso senza mascherina! Guardi la Francia ha appena tolto l’obbligo della mascherina all’aperto, lo hanno fatto gli Stati Uniti e Israele. Noi naturalmente siamo sempre gli ultimi. D’altronde, se posso dirle, da un ministro che non si è ancora vaccinato mi aspetto che la mascherina la tenga. E un ministro che per paura che gli si dica che si è vaccinato prima degli altri non si vaccina dimostra la pochezza della nostra politica. Il ministro della Salute avrebbe dovuto essere tra i primi a vaccinarsi. Oltre a dare un messaggio, sarebbe stato anche un modo per proteggere se stesso e le persone che incontra”. Martina Piumatti

Patrizia Groppelli per “Chi” il 27 aprile 2021. «Chi sono io? Sono quello che ho sempre voluto essere». Ama la sintesi Matteo Bassetti, uno dei medici-scienziati usciti dall’oscurità dei laboratori e approdati alle luci della ribalta televisiva per spiegare agli italiani - a volte tranquillizzandoli, altre spaventandoli - che diavolo fosse il virus che da un anno mezzo non ci dà tregua. Cinquant’anni, nato il 26 ottobre sotto il segno dello Scorpione, sposato con Maria Chiara (oggi poco più che quarantenne), due figli (Dante, stesso nome del nonno, 15 anni, e Francesco, di 12), Matteo Bassetti accetta per la prima volta di parlare di sé invece che del Covid.

Domanda. Professore, dicevamo che lei è...

Risposta. «Sono il sogno che avevo da bambino: un infettivologo».

D. Di solito un bambino sogna di fare l’astronauta oppure il calciatore.

R. «Io no. I miei amici non erano gli eroi dei fumetti, ma virus, batteri, funghi, protozoi. Quando poi mi sono iscritto all’università, io e lo stafilococco ci conoscevamo da parecchio tempo». 

D. Infanzia difficile?

R. «Tutt’altro. Famiglia meravigliosa e un padre importante».

D. Infettivologo anche lui.

R. «Casomai infettivologo anche io. Lui maestro, io allievo. Era una autorità, ancora oggi si studia sui suoi libri. Da bambino mi portava a congressi e conferenze. Non capivo nulla, come se parlassero in arabo o fenicio, ma tra me e me mi dicevo: un giorno capirò». 

D. Figlio d’arte, quindi. Più vantaggi o svantaggi?

R. «I vantaggi sono nei geni che mi ha tramandato. Per il resto ho dovuto sgobbare il doppio dei miei colleghi per essere all’altezza. Oggi siedo alla sua scrivania di direttore della clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova».

D. Se uno volesse malignare...

R. «Infatti hanno malignato. Peccato che mio padre sia morto nel 2005. Ho fatto tutto da solo e l’ho fatto anche per lui e per mamma Giuliana, professione capofamiglia, che purtroppo è morta di tumore pochi mesi fa».

D. Ma torniamo all’inizio. Nella sua cameretta c’era il poster di un virus?

R. «C’era un poster comune per l’epoca, gli Europe, quelli di The Final Countdown. Ma non solo».

D. Ci stupisca.

R. «Semplifico. Ero della generazione paninara con il mito della Milano da bere e divisa d’ordinanza, Timberland e Moncler».

D. I magnifici Anni 80.

R. «Quelli. Ma in segreto ascoltavo Gino Paoli».

D. Gino Paoli?

R. «Abitava a cinquanta metri da casa nostra, collina di Quinto, lo vedevo uscire dal cancello con superauto e superdonne. Un mito, ma soprattutto un poeta pazzesco che ha scritto la colonna sonora dell’amore tra i miei genitori, Sapore di sale, e poi del mio grande amore».

D. Si riferisce a Maria Chiara, sua moglie?

R. «E a chi sennò?».

D. Racconti.

R. «Primo incontro nel 2001, ma non accadde nulla. Non che non mi avesse colpito: ero appena tornato dagli Stati Uniti, iniziavo a lavorare, trentenne del genere “voglio tutto subito” e quindi poco incline ai legami. Fase breve. L’anno successivo io e Maria Chiara ci siamo fidanzati, sei mesi dopo le ho chiesto di sposarmi e dopo altri sei mesi, era l’1 giugno 2003, eravamo marito e moglie».

D. E Gino Paoli cosa c’entra?

R. «La mia canzone preferita era Grazie: “Grazie di avere due profondi occhi blu e due mani da accarezzare”. Una premonizione».

D. Blu come gli occhi di Maria Chiara.

R. «Tutto in quella canzone è come lei».

D. Ancora oggi?

R. «Certo, abbiamo avuto i nostri alti e bassi come tutti, ma ci amiamo ancora tanto».

D. Gelosa del fatto che lei è considerato un sex symbol?

R. «Si tratta di una leggenda messa in giro da voi giornalisti».

D. Il fisico c’è, lo sguardo anche. Fa il modesto?

R. «Non le nascondo che, come dice mia moglie, mi piace piacere. Che c’è di male? Ho 50 anni, professore e direttore, ora anche la notorietà. Perché dovrei vergognarmene?».

D. In famiglia che dicono?

R. «Papà, così non vale. Se con le donne il tuo avversario è il professor Galli, vuol dire che ti piace vincere facile».

D. Ecco, i figli. Che rapporto ha con loro?

R. «Sono la mia vita. Mi hanno già detto che da grandi vogliono fare i medici, Dante il chirurgo plastico, Francesco l’infettivologo come me e il nonno. E ancora torna Gino Paoli: “Eravamo quattro amici al bar...”».

D. Che volevano cambiare il mondo.

R. «Concerto dal vivo del 1989, io c’ero».

D. Come i suoi figli, anche lei voleva cambiarlo?

R. «Nel mio piccolo ci sto provando, anche loro hanno il diritto di sognarlo. Ma li ho avvisati: nella vita dovete studiare e sgobbare».

D. E loro?

R. «Dante, il più grande è uno quadrato, in casa lo chiamiamo “il governativo”, gioca in una importante squadra di calcio a 5 che milita in serie A. Francesco invece è genio e sregolatezza, fa acrobazie in monopattino e ha creato una linea di magliette con la scritta “Io mi vaccino”».

D. Riesce a stare un po’ in famiglia?

R. «Stare con la famiglia è il mio unico hobby. Anche in questi mesi difficili, da 16 ore al giorno in reparto, non ho mai saltato una notte a casa».

D. Nessuna precauzione, nessuna paura di contagiarli?

R. «Le precauzioni, e che precauzioni, io e i miei collaboratori le abbiamo prese fin da subito in ospedale. Se fai le cose giuste e bene non c’è nessun problema».

D. Diceva nessun hobby, possibile?

R. «Niente golf, niente tennis. Io mi diverto in ospedale e in famiglia. In realtà in passato...».

D. Confessi.

R. «Dai 16 ai 33 anni ho fatto l’arbitro di calcio, sono arrivato ad arbitrare in serie D. Poi il lavoro ha preso il sopravvento, sono rimasto in federazione come medico».

D. Quasi un passato sportivo.

R. «Ma no, la sportiva di famiglia è mia sorella Claudia. Un incubo: sciatrice eccellente piena di trofei, poi campionessa di tennis e io sempre ad arrancare con pessimi risultati sulle piste di Prato Nevoso».

D. Però ora lei è in tv tutti i giorni. Rivincita?

R. «Lei ha fatto il lavoro più interessante del mondo, quello di mamma che, a differenza di andare in tv, è per sempre».

D. A proposito, quando i riflettori si spegneranno?

R. «Guardi, non le nascondo che la telecamera è una droga. Ma quando non mi chiameranno più vorrà dire che l’emergenza è finita. Accetto volentieri lo scambio, ma non credo che sarà per forza oblio».

D. Lei crede in Dio?

R. «Credo fortemente nell’aldilà. Prego. E quando prego parlo con i miei genitori, dedico loro i miei pensieri e tutte le cose belle che mi capitano. Sono cattolico praticante, ma non bigotto, e non vado a fare passerella in cattedrale: ascolto la messa in una chiesetta vicino a casa nostra dove predica un prete eccezionale».

D. In questi mesi ha visto tanti pazienti morire.

R. «Vero, e ogni volta è una sconfitta. Ma mi consola il fatto che i miei collaboratori e io ne abbiamo salvati molti ma molti di più, davvero tanti. E ogni volta è una vittoria».

Da liberoquotidiano.it il 21 aprile 2021. La guerra tra esperti è ormai scoppiata. "Le faccio sentire un commento di Matteo Bassetti", esordisce Myrta Merlino nella puntata di oggi 21 aprile de L'aria che tira su La7. Ma Massimo Galli, che è in collegamento risponde durissimo: "Anche no, non voglio sentirlo". La conduttrice però lo manda in onda lo stesso. Quindi riassume: "Bassetti dice che lei lavora più per sé che per la propria regione". Dunque Galli ribatte: "Che interesse potrei avere di lavorare per me? Io sono un anziano professore che ha già fatto la carriera che voleva fare, che non ha altre aspirazioni e che è prossimo alla pensione". E ancora, affonda l'infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano: "Io non ho bisogno di inchinarmi a nessuno. Ove sia stato chiamato a collaborare l'ho fatto ma certamente mi disturba anche", questa affermazione di Bassetti, capo della Clinica Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova. Quindi conclude: "Io non faccio né il nano né la ballerina per nessuno, non voglio dire che altri colleghi lo facciano". E insiste nella sua critica al nuovo governo: "Che Mario Draghi non ne abbia azzeccata una lo hanno scritto i titolisti, sono quelli che sono, esagerano un po'. Ma con questo premier comunque, sul versante sanità, non ho visto una grande impennata di miglioramento", attacca Galli. Il professore aveva detto in una intervista a Il Fatto Quotidiano che sull'emergenza coronavirus il premier "non ne ha azzeccata ancora una. Ci saranno un milione di infezioni attive in Italia o pensate che tutti i positivi si fanno il tampone e vengono a saperlo? Il punto è che è stato dato un messaggio di 'liberi-tutti' che proprio non ci potremmo ancora permettere. Almeno fino a una migliore copertura dei settantenni con la prima dose e degli ottantenni con la seconda. Mi sembrano obiettivi ancora lontani".

Massimo Galli, indiscrezioni politiche sull'uomo che prevedeva una mattanza-Covid: da brividi, ora si capisce tutto? Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 18 maggio 2021. Massimo Galli è un fuoriclasse e un'autentica certezza per i cronisti: ieri ha rilasciato un'intervista per spiegare perché non sta rilasciando interviste. Tutti lo stuzzicano chiedendogli come pensa che evolverà l'epidemia in Italia, visto che aveva pronosticato per questo maggio una mattanza stile Peste Nera. «Arriverà una nuova ondata, i contagi esploderanno entro la fine del mese», aveva annunciato dopo le prime riaperture decise dal governo Draghi. E invece le cose progressivamente continuano a migliorare. Perfino il timoroso Roberto Speranza si è arreso all'idea di allentare i divieti, mentre l'infettivologo insiste a predicare prudenza. Ma non pensate che sia un semplice profeta di sventura. Il problema è che di questa malattia sappiamo poco, per questo quando Lilli Gruber in diretta aveva definito Galli un "cosiddetto esperto di Covid" lui non se l'era neanche presa. «Ha ragione a definirmi così», aveva replicato, «perché questo virus è ancora un mistero e dobbiamo procedere con cautela». Molto sportivo, a cresta bassa. Massimo Galli.

RESTATE NELLE VOSTRE CASE. Certo, il virologo milanese a volte pare predicarne fin troppa di cautela, tanto da sfociare in previsioni che denotano un pessimismo cupo e tetro, quasi da suicidio. Sui vaccini a settembre dello scorso anno diceva che non sarebbero arrivati prima della fine del 2021. E quando sono arrivati in anticipo di un anno rispetto alle sue previsioni ha comunque detto che funzionavano poco, perché erano ormai vecchi di un anno. E di conseguenza per raggiungere l'immunità di gregge ce ne vorranno altri (che immaginiamo arriveranno nel 2500). Per questo è scattata una guerra a distanza con altri esperti. E per questo ultimamente ha cercato di apparire meno in video. Una ritirata strategica, per sfuggire agli "aperturisti" che oggi - con le novità sul coprifuoco - lo additano come il grande sconfitto. Come se lui fosse un tifoso del Corona. 

SVENTURE A RAFFICA. Tutto questo succede perché in questo anno e mezzo di pandemia ha bollato come "errore" praticamente qualsiasi attività umana che non sia il rimanere a letto intubato: «è pericoloso l'andare al lavoro o a scuola, il tornare a casa e l'uscire la sera». Diceva che era sbagliato riaprire nella primavera 2020 e ha ripetuto le stesse cose con coerenza in quella del 2021. Ha consigliato a tutti gli anziani di non uscire mai all'aria aperta e ai giovani anche ieri ha ricordato che «vedo 40enni attaccati ai respiratori». L'apice del catastrofismo è stato raggiunto quando è sceso in guerra con il suo stesso ospedale, il Sacco di Milano, che lui vedeva "invaso" di ricoverati in terapia intensiva colpiti dalle nuove varianti "che avrebbero procurato problemi seri" mentre la dirigenza si affrettava a fornire dati molto meno gravi. Sempre sulle varianti, poi, il giudizio è stato repentino al loro comparire: «Bisogna tornare al lockdown». Una ricetta per tutte le stagioni. Gli scontri con i colleghi, tuttavia, sono solo una parte della storia di quest' anno di pandemia di Galli. L'apice della sua notorietà è stato raggiunto con gli scontri politici. Il medico ha riservato vari attacchi in questi mesi a Regione Lombardia, diventando (forse involontariamente) il beniamino della sinistra locale. Il Pd lo voleva come commissario al posto di Attilio Fontana e tanti ancora pensano che possa essere lui il candidato alle prossime regionali. Non è chiaro se il medico ci abbia davvero fatto un pensierino o se siano solo sparate giornalistiche. In ogni caso, è certo che i suoi obiettivi non siano solo negli ospedali. Ha accusato Draghi di «non averne azzeccata una sulla pandemia» perché le persone colpite dal Corona nel «Paese sono tra il mezzo milione e il milione. E queste sono stime conservative». Poi i contagi sono crollati. Del politico ha tutto: ha già iniziato a non mantenere le promesse. Per fortuna.

Pietro Senaldi per Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. Mannaggia ai virologi. Hanno un cuore di pietra, immune alle ragioni delle partite Iva e insensibile ai conti in zona rossa dei ristoratori sbancati. Draghi non ha ancora riaperto l' Italia e già questo esercito di camici bianchi, incoronati dal virus padroni delle nostre vite nonché star televisive, vuole richiuderla. Probabilmente, numeri alla mano, i dottoroni non hanno tutti i torti, ma le cassandre non sono mai troppo popolari; e poi talvolta anche la ragione ha dei torti. Questi scienziati, che negli anni della gioventù hanno deciso di dedicare la vita allo studio in laboratorio di mefitici organismi letali, fanno il tipico lavoro per cui si dice «qualcuno lo deve pur fare». È una professione che va all' incontrario. Quando il mondo è in ginocchio, piegato dalla pandemia, l' economia stramazza e la depressione diventa sentimento collettivo, loro toccano l' apogeo. Più il virus dilaga, più il virologo vive il suo momento di gloria, guadagna, diventa famoso. È umano che egli veda la ritirata della pandemia un po' come Francesco Totti viveva l' avvicinarsi del momento del ritiro, cioè come la fine di tutto. Anche perché, quando il Covid se ne andrà, i ristoranti apriranno e la gente scenderà in strada, a loro toccherà trasferirsi dallo studio tv al laboratorio, senza neppure la consolazione di raccontare la propria battaglia in un libro, perché a quel punto nessuno vorrà più saperne nulla del Corona. Più si apre, più gli studiosi strillano. Una vocina della coscienza ci dice che dovremmo starli ad ascoltare ancora per un po', perché in oltre un anno di pandemia il governo non ha fatto nulla per tornare alla vita di sempre in sicurezza. Abbiamo ancora trecento morti al giorno quando va bene ma le scuole riaprono peggio di settembre, quando i decessi quotidiani erano una dozzina. Forse in molti avevano scommesso sul mancato ritorno in classe, soprattutto tra gli amministratori che non hanno fatto nulla per adeguare i mezzi pubblici al maggior traffico di passeggeri. Questo dovrebbero dire i virologi, se volessero essere ascoltati, anziché fare la guerra ai ristoratori. Per il nostro bene, ed è giusto anche ringraziarli, questi scienziati hanno lavorato come matti ma, a differenza di chi vorrebbero tenere ancora chiuso a quattro mandate, hanno anche continuato a guadagnare. Senza riuscire, pur parlando in stereofonia tutti i giorni, a suggerire alla politica una sola strategia vincente per fermare il contagio. La medicina indurisce i cuori. È umano sviluppare distacco per la sorte altrui da parte di chi vede la morte tutti i giorni. L'alternativa sarebbe impazzire. Però non occorre uno scienziato per capire che la chiusura è una misura emergenziale che non può durare oltre un anno. L' economia è come un subacqueo, può inabissarsi in apnea a grandi profondità e risalire sana, purché resti poco senza fiato; viceversa, se vegeta anche un solo metro sotto l' acqua troppo a lungo, muore. Il governo non ha vaccinato abbastanza, non ha ristorato adeguatamente, non ha finalizzato le chiusure a un reale arretramento del virus, non è riuscito a tracciare il contagio. È costretto a riaprire dalla somma dei propri fallimenti, perché quando uno sbaglia tutto non è più credibile e non riesce a tenere la piazza. Questo dovrebbero dire i virologi, a completamento degli allarmi che lanciano. Ma c' è sempre un incarico al quale ambire, una poltrona su cui sedersi, una consulenza, una relazione da stringere, uno stanziamento per la ricerca. E perciò il medico si ritira nell' oggettività della scienza, senza calarla nel mondo reale. Più si chiude, meno si contagia, non serve una laurea, per capirlo basta Speranza. Il problema è vivere senza ammalarsi o provando a guarire, che è poi il fine ultimo di ogni cura, perché altrimenti basta ibernarsi e si ferma il male; però che gusto c' è? La pandemia governata dai giallorossi ha spaccato il Paese in tutelati e disperati. Che una discriminazione così violenta e drammatica sia accaduta mentre regnava la sinistra è nelle cose ed è alla base della caduta del precedente governo. L' esecutivo allargato non vuol dire solo che tiene dentro tutti i partiti, ma anche che rappresenta e tutela tutti i cittadini. Questo è il senso delle riaperture che vanno di traverso agli scienziati, soprattutto a quelli rossi.

Per Crisanti, Galli e Sileri «il rischio ragionato» di Draghi non è stato ragionato poi tanto bene. Da ilnapolista.it il 18 aprile 2021. E’ troppo presto, dicono, ci sono ancora troppi positivi e troppe persone ancora da vaccinare. Pensare alle riaperture ora vuol dire che «l’estate sarà a rischio e dovremmo richiudere». Draghi ieri ha parlato di «rischio ragionato», ha chiarito che è diverso da dire «calcolato», ma è tempo di riaprire, di riprendere a vivere, dal 26 aprile prossimi. Riapriranno i ristoranti, le scuole, le palestre e le piscine. L’andamento dei vaccini lascia ben sperare. C’è però chi non ritiene che i rischi siano stati ragionati a sufficienza.

Come il direttore del reparto di Malattie Infettive del Sacco di Milano, Massimo Galli, che ospite ieri a Otto e Mezzo, su La7, ha dichiarato: «Abbia pazienza: decidiamo di riaprire e abbiamo ancora più di 500 mila casi di attualmente positivi. Il rischio calcolato del governo è calcolato male».

Anche il sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri ci va piuttosto cauto. In un’intervista a Open, dichiara: «Dobbiamo essere realisti. I dati di oggi raccontano di un miglioramento e questo fa ben sperare. Ma riaprire così in anticipo può essere sbagliato. C’è un decreto che scade il 30 aprile. La soluzione poteva essere quella di arrivare alla scadenza e ragionare sul mese di maggio con le colorazioni delle regioni. Già dai primi del mese alcuni territori sarebbero tornati in giallo, forse qualcuna in arancione o rossa. Sarebbe potuto essere necessario un sacrificio per lasciar consolidare i numeri e quindi riaprire progressivamente cinema, teatri e ristoranti, considerando come periodo sicuro quello a partire dal 15 maggio. E poi ancora più libero e sicuro quello a partire dai primi di giugno». Ci sono ancora troppe persone da vaccinare, la popolazione non è ancora in sicurezza, dichiara Sileri.

Sulla stessa linea di pensiero è anche Andrea Crisanti, direttore di Microbiologia e virologia dell’Università di Padova, ex consigliere del governatore del Veneto, Luca Zaia. All’Adnkronos ha dichiarato: «Con una situazione di contagio elevato, pensare alle riaperture vuol dire che tra un mese avremo un aumento dei casi di Covid-19 e l’estate sarà a rischio e dovremmo richiudere».

Andrea Crisanti contro Mario Draghi: “Con le riaperture l’estate è a rischio”. Giampiero Casoni il 18/04/2021 su Notizie.it. Andrea Crisanti contro Mario Draghi: “Con le riaperture l’estate è a rischio”. L'esperto ritiene che il governo abbia fatto solo una scelta economica. Andrea Crisanti implacabile contro Mario Draghi: “Con le riaperture l’estate è a rischio”, e l’esperto punta il dito contro la decisione, fortemente voluta proprio dal premier, di riaprire definendola una “stupidaggine epocale”. A parere del professore ordinario di Microbiologia all’università di Padova infatti “il vero rischio è giocarci l’estate”. In che senso? Crisanti ritiene che consentire le riaperture di bar e ristoranti per fine mese e nelle regioni con numeri dei contagi in calo sarebbe controproducente. Perché? Qui l’esperto punta chiaramente il dito: perché quelle riaperture sarebbero non il frutto di una valutazione empirica dei dati epidemiologici, ma di soli parametri economici. Insomma, secondo Crisanti l’Esecutivo è sceso a patti con l’aggressività di covid per sostenere l’economia ma così facendo rischia di ottenere esattamente il risultato opposto. Non mancano le allusioni a poteri terzi e camarille occasionali. Crisanti le ha fatte a La Stampa: “Purtroppo l’Italia è ostaggio di interessi politici di breve termine, che pur di allentare le misure finiranno per rimandare la ripresa economica. Da settimane viaggiamo tra i 15 e i 20 mila casi al giorno: un plateau altissimo, che non consente di progettare riaperture”. E ancora: “La decisione è stata presa e il governo se ne assumerà la responsabilità. Non è una mia opinione, ma di chiunque si basi sui dati. Sento parlare di rischio calcolato, ma come? Di calcolato vedo ben poco e il vero rischio è giocarci l’estate. Allora diciamolo chiaramente: la scommessa è riaprire ora per vedere se a giugno dobbiamo richiudere tutto”. In scia con Crisanti anche Massimo Galli. Per lui il famoso rischio calcolato è “calcolato male”. La soluzione di Crisanti passa per i vaccini, ma ci sono i però atavici che conosciamo tutti. “L’unica sarebbe potenziare la vaccinazione, ma tra forniture, disorganizzazione e diffidenza verso AstraZeneca pare difficile superare quota 350 mila”. A replicare a Crisanti ci ha pensato Gianni Rezza del Cts: “Nel momento in cui si allenta, è normale che l’epidemia possa ripartire e un rischio riaperture c’è, ma abbiamo un sistema di allerta precoce per intervenire subito. Il rischio accettabile per un epidemiologo è zero, per un economista può essere 100. È legittimo che la politica trovi una sintesi”.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

Nicola Porro contro Massimo Galli: "Draghi riapre, sapete perché il professore rosica?". Pesantissima accusa. Libero Quotidiano il 17 aprile 2021. “Il solito Galli ne dice un’altra delle sue. Stavolta non gli sta bene il primo passo in avanti fatto da Draghi sulle riaperture”. Così Nicola Porro ha commentato l’intervento di Massimo Galli da Lilli Gruber a Otto e Mezzo, dove si è detto molto pessimista riguardo alle decisioni assunte da Mario Draghi. Il quale ha parlato di “rischio calcolato” in relazione alle riaperture, che saranno graduali e partiranno dal 26 aprile. Ma l’infettivologo del Sacco di Milano è assolutamente contrario: “Rischio calcolato male, abbiamo ancora più di 500mila attualmente positivi, il che vuol dire che sono almeno il doppio quelli che ci sono sfuggiti”.  “Insomma: il solito ritornello - ha commentato Porro sul suo sito - e poco importa se pure l’ad di Pfizer, Albert Bourla, ha assicurato che presto il coronavirus diventerà come una normale influenza. Poco importa se gran parte delle Regioni hanno ormai dati utili per allentare le maglie delle restrizioni. Per l’oracolo del lockdown dovremmo restare chiusi a oltranza, in barba alla crisi economica”. Poi il conduttore di Quarta Repubblica ha chiuso con un po’ di ironia: “È sicuro che gli italiani tra dieci giorni si riverseranno nei dehors per godersi un aperitivo. Tutti tranne uno: il rigorista Galli non ci sarà”. Dalla Gruber l’infettivologo era stato molto netto nel suo intervento contrario alle riaperture: “Abbiamo ancora una importantissima parte di 70enni, 80enni e 90enni non vaccinati. Rispetto a un Paese come la Gran Bretagna che ha chiuso per un periodo lungo e molto duramente e che ha circa 41 milioni di dosi somministrate, la situazione nostra è diversa. Il sistema dei colori è evidente che non ha funzionato, basta vedere soltanto l’esempio della Sardegna”. 

Riaperture, Pregliasco: “Avranno un prezzo, c’è un rischio oggettivo”. Riccardo Castrichini il 19/04/2021 su Notizie.it. Il virologo Pregliasco parla di rischio oggettivo in riferimento alle riaperture che riguarderanno l'Italia dal prossimo 26 aprile. Il virologo dell’università degli Studi di Milano, Fabrizio Pregliasco, ha parlato delle imminenti riapeture previste in Italia affermando che il rischio oggettivo che i contagi possano riprende c’è ed è molto elevato. “Questa decisione – ha detto Pregliasco nel corso del suo intervento ad Agorà su Rai3 – sicuramente potrà avere un prezzo da pagare e questo è oggettivo”. “Dal punto di vista della sanità pubblica, dal punto di vista scientifico – ha spiegeto il virologo – il rischio dovrebbe tendere a zero, quindi dovrebbe comprendere in questo momento un lockdown stretto, strettissimo e prolungato“. È lo stesso Pregliasco però a riconoscere che in questo momento non sia più possibile muoversi in tal senso e dunque si vada verso quel rischio calcolato di cui aveva parlato il Presidente del Consiglio Mario Draghi in conferenza stampa. “Il sistema dei colori – ha proseguito Pregliasco – ha mitigato la velocità con cui la malattia si è diffusa. Non si è riusciti a ottenere una riduzione dell’incidenza sotto livelli tali da permetterci un tracciamento, però ha reso meno pesante l’impatto sul Servizio sanitario nazionale. Io credo che un rischio c’è – ha aggiunto il direttore sanitario dell’Irccs Galeazzi di Milano – è oggettivo e dipenderà da tante cose: in primis dalla velocità con cui la vaccinazione potrà progredire e dalla responsabilità di ognuno di noi”.

Riccardo Castrichini. Nato a Latina nel 1991, è laureato in Economia e Marketing. Dopo un Master al Sole24Ore ha collaborato con TGcom24, IlGiornaleOff e Radio Rock.

 Riaperture, Lopalco: “Rischiamo ripresa circolazione del virus”. Debora Faravelli il 20/04/2021 su Notizie.it. Con le riaperture si rischia di far riprendere la circolazione del Covid prima della stagione estiva: lo ha affermato il virologo Lopalco. Secondo il virlogo Pier Luigi Lopalco le riaperture in programma dal 26 aprile rischiano di far riprendere la circolazione del virus. Il Meridione è ancora in bilico e con molti contagi giornalieri e il cosiddetto stop-and-go in questo momento potrebbe allungare il periodo di sofferenza prima dell’arrivo dell’estate. Intervistato dall’Adnkronos, l’esperto ha fornito un quadro della situazione epidemiologica in Italia spiegando che mentre il Nord è stato colpito in anticipo dalla cosiddetta terza ondata, il Sud sta ancora facendo i conti con molte positività. Per questo ritiene che un’apertura dell’attività ora potrebbe portare ad un aumento dei contagi tale da danneggiare la stagione estiva. Per quanto riguarda l’ipotesi di prevedere un tampone per i ragazzi che torneranno a scuola dal 26 aprile, ha affermato che uno screening una tantum prima del rientro non porterebbe ad un risultato significativo. “Il tampone ha senso solo se ripetuto sistematicamente, la qual cosa non è fattibile visti i numeri degli studenti“, ha aggiunto. Quanto invece all’utilità di strumenti come il passaporto vaccinale o il green pass, ha sottolineato che il combinato di tamponi, vaccinazione e avvenuta infezione potrebbe selezionare una larga platea di popolazione che permetterebbe una ripresa di numerose attività. Il rischio però deve sempre essere messo in relazione al livello di circolazione del virus nella popolazione. Se è basso, quelle misure azzererebbero il rischio in caso di aggregazioni come cinema o ristoranti. “Ma se la circolazione è ancora alta, da soli tamponi e vaccinazioni non offrono la garanzia necessaria per riaperture complete“, ha concluso.

Coprifuoco, Viola: “Spostarlo alle 23 non cambia nulla sui contagi”. Alberto Pastori il 20/04/2021 su Notizie.it. In attesa delle decisioni del Governo, l'immunologa Viola dice: "Coprifuoco alle 23 non cambierebbe nulla per i contagi ma aiuterebbe molte persone". Lunedì 26 Aprile 2021 è una data molto attesa. In quel giorno, dopo settimane di restrizioni, diverse Regioni potrebbero tornare in zona gialla. Questo significherebbe respirare un po’ di quella libertà che tanto ci manca. Nel pomeriggio di martedì 20 Aprile Governo e Regioni discuteranno proprio sulle riaperture. L’incontro sarà preceduto da una riunione del Comitato Tecnico Scientifico e seguito, mercoledì o giovedì, dal Consiglio dei Ministri sul Decreto. In tutto sono undici le Regioni (più Trento e Bolzano) che aspirano alla zona gialla mentre il tasso di positività è ancora al 6 per cento. L’immunologa dell’Università di Padova, Antonella Viola, ha pubblicato sui social la sua opinione circa il possibile allentamento delle restrizioni anti-Covid. “Sono piccoli passi che vanno incontro alle esigenze di tante persone” scrive la dott.ssa Viola “e che farebbero la differenza”. L’immunologa sostiene che spostare il coprifuoco in là di un’ora, alle 23.00, “permetterebbe ai ristoratori che stanno investendo nelle strutture all’aperto di affrontare con maggiore fiducia la ripartenza. Così come aiuterebbe il mondo dello spettacolo, duramente colpito dalle restrizioni. E non cambierebbe invece nulla dal punto di vista dei contagi, a patto che continuino i controlli”.  Sono giorni molto importanti in cui molte categorie sperano di poter tornare a lavorare con più continuità. La speranza è che questo possa accadere presto e irreversibilmente.

Alberto Pastori. Nato a Magenta (MI), classe 1984, è laureato in Teoria e Metodi per la Comunicazione presso l'Università Statale di Milano. Prima di collaborare con Notizie.it, ha scritto per ChiliTV, That's All Trends e Ultima Voce.

Enrico Mentana, affondo a Galli e compagni: "I nuovi esperti di diritto smettano di indignarsi sulle riaperture". Libero Quotidiano il 18 aprile 2021. Un chiaro messaggio in difesa di Matteo Salvini sembra quello di Enrico Mentana. Il direttore del tg di La7 ha voluto condividere su Facebook un lungo sfogo in cui difende la decisione presa dal governo sulle riaperture. Nel dettaglio il giornalista si scaglia contro quegli esperti che definiscono la decisione dell'esecutivo "politica". "Un anno di guerra alla pandemia fa male a tutti, certo. Anche alla democrazia. Torme di nuovi esperti di diritto costituzionale si indignano perché la decisione di riaprire gradualmente è stata presa dalla politica e non dagli esperti, alcuni dei quali erano più dubbiosi o ostili. Ora è giunto il momento che si sappia che l'esecutivo si chiama così non per ornamento, ma perché dotato del ruolo decisionale di cui è investito dal parlamento, che su ogni decreto è chiamato a dibattere e votare". Finita qui? Neanche per sogno. Mentana infatti fa leva sulla capacità "in tempi eccezionali" di fare "scelte dirimenti, e drastiche". Quella di questi giorni non è da meno, "perché presa da un governo di unità nazionale, "all'unanimità" come ha rimarcato il premier. Vuol dire M5s e Forza Italia, Speranza e Salvini, Pd e tutte le regioni". Il ragionamento del giornalista è chiarissimo: "La scelta l'ha imposta chi aveva tutta la legittimazione per farlo". Ossia "un esecutivo nato dall'indicazione diretta del Capo dello Stato, con la maggioranza più ampia degli ultimi 40 anni". Una chiara frecciatina a Massimo Galli che a Otto e Mezzo ha preso di mira "il rischio ragionato" annunciato da Draghi e Speranza. "La soluzione - ha tuonato da Lilli Gruber - è vaccinare e sapere che non puoi fare certe riaperture se non si vaccina abbastanza". 

Massimo Galli luminare contro il Covid? La classifica ufficiale di virologi e scienziati: sempre in tv, ma è indietro. Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. Non sempre i virologi che vanno in tv sono i migliori. Lo ha dimostrato la classifica stilata da Scopus, la più grande banca dati della ricerca scientifica nel mondo. Quest'ultima, considerata da molti come la bibbia della scienza, contiene un numero indefinito di citazioni, articoli e pubblicazioni, ma è famosa anche per il calcolo del cosiddetto H-Index, una sorta di indice di affidabilità e autorevolezza degli scienziati, basato sul numero di ricerche pubblicate e di citazioni collezionate. Tra questi, come fa notare il Giornale, ci sono anche virologi, infettivologi, immunologi ed epidemiologi. Nel ranking stilato da Scorpus si nota che molti degli scienziati spesso ospiti in tv hanno un H-Index molto basso. "Con tutti gli impegni catodici, difficile produrre materiale importante nel campo della ricerca scientifica", scrive il Giornale. Uno dei risultati più bassi è quello di Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, spesso ospite dei programmi tv di La7 ma anche della Rai: il suo indice è fermo al 7. Il punteggio più alto, al contrario, è quello di Alberto Mantovani, immunologo e direttore scientifico dell’Istituto Clinico Humanitas di Milano: con più di 135mila citazioni per 1222 documenti raggiunge un H-Index di 172. Nel mezzo alcuni tra i più accreditati esperti della televisione, come Massimo Galli. Galli, infettivologo del Sacco di Milano, è riuscito a raggiungere un punteggio medio, ma non eccellente, pari a 56. Sopra di lui Matteo Bassetti, infettivologo del San Martino di Genova, con 57; e Andrea Crisanti, virologo dell'università di Padova, con 60. Numeri molto bassi anche per altri grandi protagonisti dei talk televisivi. Roberto Burioni, per esempio, ha un H-Index di 27. Peggio di lui il presidente dell'Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro (24) e Fabrizio Pregliasco (16). Per quanto riguarda i membri del Cts, è molto buono il risultato raggiunto dal coordinatore Franco Locatelli, che ha un indice pari a 103.

Da leggo.it l'11 maggio 2021. L’infettivologo Massimo Galli non andrà più in televisione, almeno per un po’. Lo ha annunciato lui stesso stamattina a L’Aria che tira su La7, dove ha annunciato un periodo di pausa dalle ospitate televisive, dopo che nelle ultime settimane aveva avuto qualche battibecco con vari politici, soprattutto esponenti di centrodestra. «L’ultima volta che andrò in tv sarà stasera - ha detto Galli - quello che dovevo dire l’ho detto. Poi per almeno 15 giorni avrò da studiare, da lavorare, farò altro. Se non emergono fatti nuovi e straordinari farò a meno di andare in tv, e non rilascerò interviste». Poi spiega i motivi: «Alcuni signori, presenti inclusi (in collegamento c’erano il direttore di Libero Pietro Senaldi e Luciano Fontana del Corriere della Sera) riescono ad elaborare fake news mettendo insieme affermazioni fasulle. Non ho voglia di alimentare la balla quotidiana».

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" il 12 maggio 2021. Domanda: è più importante il ministro della Salute Roberto Speranza o il sottosegretario Pierpaolo Sileri? È una domanda in termini mediatici, non priva però di conseguenze pratiche. Premessa sull' importanza dell' apparire: dopo numerosi articoli, appelli e osservazioni documentate è stato riscontrato che la presenza mediatica e quotidiana in tv di esperti scientifici (epidemiologi, immunologi, virologi) è arrivata al punto di generare più confusione che chiarimento. Il disaccordo fra esperti è salutare in sede scientifica ma nei talk show si trasforma in un circo dove prevalgono i personalismi. L' impressione è che i virologi vivano in tv mossi solo dal desiderio di ostentazione. Chi dà l' impressione di vivere in tv (ma anche sui giornali o alla radio) è Sileri. Solo nell' ultimo fine settimana lo abbiamo visto in tv, letto sui giornali e sentito alla radio. Nel salotto della Venier ha dettato la linea del governo: «Resistiamo ancora qualche settimana e riapriremo anche i locali e i ristoranti la sera, anche al chiuso. Se continuiamo con questi numeri sui vaccinati, tra 15 giorni si potrà spostare il coprifuoco in avanti». Sileri piace ai conduttori, ai politici (si dice sia un «grillino per caso»), ai colleghi medici per i suoi toni moderati. È anche molto disponibile, caratteristica fondamentale per apparire: cliente fisso di alcune trasmissioni ( Domenica in, L' aria che tira, Non è l' Arena ), è il volto della Sanità italiana. Non sappiamo quali siano i suoi rapporti con il ministro in carica, forse non proprio sintonici. Sappiamo però che Speranza non è un brillante comunicatore (clamorosa la vicenda del libro Perché guariremo , ritirato in fretta e furia per l' avanzata della pandemia) e il vuoto che il ministro lascia, Sileri lo colma in abbondanza. Nell' Oracolo manuale (1647), il gesuita Baltasar Gracián sentenziava: «Ciò che non si vede non esiste». E non esistevano ancora i mass media.

Chi studia e chi parla. Tutti i voti ai virologi più produttivi e influenti. L'"H-Index" del sito Scopus incorona Mantovani E i più presenti in tv non sono ai primi posti. Domenico Di Sanzo - Sab, 10/04/2021 - su Il Giornale. Scopus forse non sarà la verità rivelata, ma è considerato da molti la bibbia della scienza. Si tratta della più grande banca dati della ricerca scientifica nel mondo. Contiene una sterminata quantità di articoli, citazioni e pubblicazioni. Il sito è famoso anche per il calcolo dell'H-Index. Una sorta di coefficiente di attendibilità e autorevolezza degli scienziati, basato sul numero di ricerche pubblicate e citazioni collezionate da ciascun luminare. Sono compresi, ovviamente, virologi, epidemiologi, infettivologi, immunologi. Alcuni di loro protagonisti dei salotti televisivi. Con tutti questi impegni catodici, difficile produrre materiale importante nel campo della ricerca scientifica, direbbero i soliti malpensanti. Peccato però che la circostanza sembri confermata dal ranking di Scopus. Infatti basta cercare qualche nome e comparare i punteggi dei vari scienziati, per scoprire che quelli più presenti sugli schermi televisivi non brillano per produttività scientifica. Smanettando all'interno del prestigioso database, si può provare a stilare senza difficoltà una classifica degli esperti italiani, partendo dal loro H-Index. In pochi tra i non addetti ai lavori avranno sentito parlare di Alberto Mantovani, immunologo e direttore scientifico dell'Istituto Clinico Humanitas di Milano. Eppure, pubblicazioni alla mano, è uno dei più importanti scienziati nel suo campo. Con 135mila e 27 citazioni per 1222 documenti raggiunge un H-Index di 172. Per intenderci, Anthony Fauci, il celebrato immunologo americano alla corte del presidente Usa Joe Biden, totalizza un punteggio di 178, soltanto di poco superiore allo schivo Mantovani. Numeri molto diversi da quelli di Roberto Burioni, famosissimo virologo del San Raffaele di Milano, che ha un H-Index di 27. Fa peggio di Burioni Silvio Brusaferro (24), presidente dell'Istituto Superiore di Sanità e portavoce del Comitato Tecnico Scientifico anti-Covid 19 del governo. Arranca con un H-Index di 35 Pier Luigi Lopalco, scelto dal governatore pugliese di centrosinistra Michele Emiliano come assessore regionale alla Sanità. Nonostante il presenzialismo televisivo, non accumula troppe citazioni e pubblicazioni nemmeno l'immunologa Antonella Viola, che non va oltre il 36. Ilaria Capua, professoressa dell'Università della Florida, spesso e volentieri ospite dei talk show, ha un H-Index pari a 51. Mentre il semisconosciuto al grande pubblico Luciano Gattinoni, professore emerito alla Statale di Milano, arriva a quota 89. Dietro di lui volti televisivi come Massimo Galli (56), Andrea Crisanti (60), Matteo Bassetti (57) e Fabrizio Pregliasco (16). Maria Rita Gismondo, microbiologa dell'Ospedale Sacco di Milano e commentatrice del Fatto Quotidiano, totalizza un punteggio di 25. Molto alto invece l'H-Index di Giuseppe Remuzzi. Il direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano si distingue con un indice di produttività scientifica di 166. Ottima la reputazione accademica del coordinatore del Cts Franco Locatelli, con un indice calcolato a 103. Tra gli altri componenti del Comitato, hanno un coefficiente inferiore Giorgio Palù a 60 e Giovanni Rezza a 61. A 45 è basso l'indice H del consulente di Roberto Speranza Walter Ricciardi. Bassissimo il risultato di Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, fermo a 7.

Paolo Madron per tag43.it il 12 maggio 2021. Ora che Massimo Galli temporaneamente si è autosospeso dal video (il primario del Sacco si dev’essere reso conto, meglio tardi che mai, che stava diventando prigioniero del suo personaggio) il campo resta tutto per Antonella Viola, la più amata dagli italiani. Tra i virologi, naturalmente, specie di cui, quando fu coniata la patriottica definizione per una nota ballerina bionda che pubblicizzava cucine, la stragrande maggioranza ignorava bellamente l’esistenza. Allora i virologi c’erano, solo che non si vedevano. Non come oggi che si vedono anche troppo e dunque, per la nota legge dell’apparire compulsivo che divora l’essere, finisce che non ci sono. O ci sono meno, nelle corsie e nei laboratori dove dovrebbero abitualmente albergare, non sottrarre tempo per quotidiane, pluricanali maratone televisive. Considerazione che la più amata, immunologa in quel di Padova, rifiuterebbe sdegnosamente, attribuendo la sua assidua presenza sugli schermi a puro amore per la scienza e incrollabile dedizione a diffonderne il verbo. Sta di fatto che, citando un verso del Lucio Battisti meno conosciuto, Viola è il colore della sera. (Viola il colore della sera/ L’ora nella quale tutto resta/ Non tanto com’era, ma come sarà). Ed è infatti la sera, dalla Gruber a Formigli, da Vespa a Floris alla Berlinguer, il suo palcoscenico più frequentato. Ma la tivù di oggi è ridondante, non si accontenta mai, tende alla sempiterna riproposizione dell’identico. Così Viola, come fanno tutti i teledivi, ha dovuto prendersi un’agente. Se la volete per un’intervista, una trasmissione, un parere al volo su contagi e vaccini occorre rivolgersi alla milanese Gabriella Nobile Agency dove l’omonima titolare ha in mano l’agenda della professoressa. Una gestione resa sempre più complicata dalla mole di richieste che si accalcano, perché la più rassicurante della folta pattuglia di epidemici discettatori (copyright Gramellini) è ambitissima. E tende ad accontentare tutti, dalla Gazzetta di Peretola al Corriere della sera, da TeleLazioInternational a La7, dove Gruber, Formigli e Merlino se la strappano di mano. Lei, la Nobile, è molto conosciuta come agente di fotografi e artisti, e altre attività cultural benefiche. Come “Mamme per la pelle”, l’associazione no profit che ha fondato e che raduna madri adottive, biologiche o affidatarie per tutelarne i figli discriminati per la loro origine. Se vai nel sito dell’agenzia trovi nomi di fotografi prestigiosi come l’americano Zach Gold, l’italiano Fulvio Bonavia, il keniano Osborne Macharia. Così la domanda sorge spontanea: ma che ci fa un’immunologa in mezzo ad artisti visuali, ritrattisti di moda, creativi avanguardisti? Siccome si conoscono da anni, Nobile sembra evocare un favore fatto a una vecchia amica, cui ha messo a disposizione una dipendente che la segue a tempo pieno. Oltre alle comparsate in tivù, adesso c’è anche un libro da promuovere "Danzare nella tempesta. Viaggio nella fragile perfezione del sistema immunitario" appena pubblicato da Feltrinelli e manco a dirlo schizzato in alto nelle classifiche spinto da virale consenso. Naturalmente guai a parlare di autocompiacimento, vanità, gusto dell’apparire. Anzi, Nobile giura che Antonella è una donna timida che vive la popolarità come tempo rubato alla ricerca, una devota alla professione che non si toglierebbe mai il camice di dosso e mal sopporta l’occhio intrusivo della telecamera. Mica come quel piacione di Matteo Bassetti, il primario del San Martino di Genova, l’unico forse a batterla nella classifica delle presenze. Lui ha fatto pubblica ammissione di narcisismo, apparire gli piace, e non c’è critica che possa indurlo a recedere. Ma mentre Bassetti, come recitava la vecchia pubblicità di un’auto, piace alla gente che piace, specie a quella che vota a destra, Viola piace a tutti, perché ecumenica, sempre sorridente, gentile e inclusiva. Una Viola del pensiero, insomma, non del retropensiero: quello di chi insinua ci sia del lucro dietro il suo presenzialismo. Viola non vìola i suoi principi. L’intento è solo maieutico, la scienza first, aggiungendoci al massimo l’ingenuità della provinciale che si trova a tavola con i famosi e non sta nella pelle. Come quando, dalla Gruber, ospite con Santoro e Lerner, miti della sua adolescenza (a questo servono le vecchie glorie in tivù) si è lasciata scappare un «non ci posso credere» che trasudava catartica felicità e stupore.

Estratto del libro di Antonella Viola, "Danzare nella tempesta", pubblicato da "La Stampa" l'8 maggio 2021. Nessuno ci ha avvertito, ma il mondo è già cambiato. Di fronte a una trasformazione epocale e definitiva come quella che stiamo vivendo, le reazioni possibili sono tante. Le abbiamo davanti agli occhi: la maggior parte delle risposte provenienti dalla politica e anche dai cittadini è dettata dallo sgomento e dalla paura, dalla difficoltà di rinunciare alle vecchie abitudini e alla forma che il mondo aveva prima. È così che si generano i mostri ed è così che, anche senza volerlo, partecipiamo al divenire delle cose danneggiando noi stessi. Il problema è che la realtà sfugge a ogni nostro tentativo di lettura e di comprensione: non riusciamo a mettere ordine, non abbiamo alcun controllo. Perché? Evidentemente non si tratta di un difetto o di una «colpa» della realtà, ma del nostro modo di porci nei confronti degli avvenimenti che ci circondano o, peggio, ci travolgono. Finora abbiamo affrontato il fenomeno enorme e ingovernabile del Covid-19 con un atteggiamento muscolare e scomposto. Se non saremo capaci di rinnovare la nostra postura nei confronti del mondo, la convivenza forzata col virus ci lascerà sfiniti e dilaniati. L'infezione da Sars-Cov-2 ha attirato l'attenzione dell' opinione pubblica non solo su virus e pandemie ma anche sui misteri e i delicati equilibri di questa parte così affascinante e complessa del nostro organismo. Da subito abbiamo tutti imparato a temere la «tempesta citochinica», che si manifesta nei pazienti più gravi ed è la causa di un'infiammazione sistemica. Abbiamo capito che in questi pazienti il danno ai polmoni viene amplificato dall' azione del nostro sistema immunitario, dalla sua attivazione deregolata che «ostruisce» i bronchi e causa i problemi a livello respiratorio che abbiamo tristemente imparato a conoscere. E sappiamo che l'infiammazione provoca alterazioni pericolose in diversi organi tra cui i reni, il sistema nervoso centrale, i vasi sanguigni e il cuore. All'improvviso siamo diventati esperti di anticorpi e di test sierologici, abbiamo sperato di ricevere un patentino d'immunità che ci consentisse di circolare tranquillamente per le città deserte e abbiamo ascoltato telegiornali e talk show ansiosi di sentirci dire: «Abbiamo il vaccino!». Che è arrivato. Il vaccino è lo strumento più potente a nostra disposizione per superare la fase critica della pandemia e raggiungere un nuovo equilibrio. La sua è una logica precisa: prevenire la malattia e favorire la costruzione delle difese e della memoria del nostro organismo. Se è vero che l'infiammazione, ovvero la rapida risposta messa in atto dal nostro corpo di fronte al virus, può degenerare e danneggiarci, la corretta attivazione del sistema immunitario ci permette anche di guarire e di diventare, almeno temporaneamente, immuni a una seconda infezione. L'infiammazione e l'immunità non sono però entità distinte: sono entrambe sfumature di un unico processo che ha lo scopo di mantenere il nostro equilibrio, quello che noi patologi chiamiamo «omeostasi». E, proprio come nella realtà macroscopica in cui ci muoviamo, a volte, per mantenere l'equilibrio bisogna saperlo perdere, lasciarsi andare e rinunciare ad affrontare le trasformazioni con una strategia frettolosa e aggressiva. L'equilibrio del nostro corpo è messo costantemente in discussione ed è questo continuo movimento a garantire la nostra protezione. Ogni risposta del nostro sistema immunitario, infatti, corrisponde a una perdita dell'equilibrio. Tutte le volte che il nostro organismo si trova a reagire a un agente potenzialmente dannoso, come un virus, si attivano cellule e molecole dell'immunità, che si spostano dove è necessario eliminare il danno e cominciare il processo di guarigione. Affinché questo accada, è necessario indurre dei cambiamenti importanti nei nostri tessuti: bisogna perdere l'equilibrio per poi ritrovarlo. Ma se è troppo violento, esteso e protratto nel tempo, il cambiamento può a sua volta trasformarsi in un trauma per il nostro corpo. L'azione del sistema immunitario di ogni individuo è segnata da un movimento perenne che, nonostante il conflitto con gli agenti patogeni provenienti dall'ambiente esterno, somiglia molto più alla coreografia di una danza che a una guerra. Allora, cosa significa cambiare la nostra postura? Significa allenare il pensiero e la vita all'equilibrio. Affrontare l'ignoto con metodo e senza paura. Forse scopriremo che correggere la nostra postura nei confronti del mondo significa in realtà rinunciare alla nostra rigidità verso i fenomeni che, manifestandosi nella loro complessità, ci appaiono mostruosi. Da qui nasce la paura, che spesso innesca risposte avventate e sbagliate. Per fortuna, da secoli la scienza si misura con la realtà con coraggio e cautela. Prima di diventare esatta, la scienza deve sempre negoziare con la realtà. Il suo è un tempo lento, non lineare ma disposto ad arretrare e poi rapidamente avanzare. Quella che oggi ci si presenta è un'occasione preziosa per ragionare sul ruolo che vogliamo attribuire alla scienza nella sfera pubblica, perché essa ci insegna ad affrontare la realtà, soprattutto quando è difficile da decifrare, con razionalità e passione, con rispetto e libertà. Abbiamo la responsabilità di imparare da quanto sta accadendo, per non ripetere gli stessi errori nel prossimo futuro. La crisi innescata dal virus deve rappresentare un cambio di paradigma, soprattutto nel nostro stile di vita: senza preavviso, ci siamo ritrovati immersi in una rivoluzione. E le rivoluzioni sono il mestiere della scienza.

Dagospia il 10 maggio 2021. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Dagospia, ho letto l’articolo sul libro che la virologa Antonella Viola (in realtà patologa: tra i cosiddetti virologi circolano anche veterinari ecc.), tra una comparsata televisiva e una intervista ha trovato il tempo di scrivere. Quando ho letto frasette come “Nella realtà macroscopica in cui ci muoviamo, a volte, per mantenere l'equilibrio bisogna saperlo perdere” oppure “Nessuno ci ha avvertito, ma il mondo è già cambiato” pensavo che si trattasse di Massimo Recalcati. Invece era proprio lei e allora mi è venuto da ridere, non per le frasette ma per una dura lettera che Antonella Viola aveva scritto il 20 giugno scorso contro un giornale e contro un collega universitario (non del suo raggruppamento) che iniziava così: “La carriera accademica non si fa con gli articoli sui quotidiani o con le apparizioni in televisione”. Poi si è diffusa la pandemia e sappiamo come gli accademici virologi, colpiti da improvvisa notorietà, hanno passato il tempo: sui giornali, in tv e persino pubblicando i pensierini filosofici raccolti in “Danzare nella tempesta” di Antonella Viola. Come diceva il filosofo Totò: “Ma mi faccia il piacere!”. Pierluigi Panza

Sara Manfuso per lanotiziagiornale.it il 7 aprile 2021.

Professor Bassetti, Lei che lavora e vive in Liguria e che è solito commentare le decisioni della politica, come ha valutato l’ordinanza regionale di Toti che ha vietato ai residenti di spostarsi nelle seconde case?

“Credo fosse un provvedimento a cui non si poteva non arrivare, su base regionale Rt buono ma ci sono aree della provincia di Savona e Imperia in cui è più alto. Importanti in questo caso le decisioni prese su scala locale, a prescindere dalla colorazione nazionale. Questa è la direzione verso cui si deve andare, perché una misura può essere molto utile in una provincia ma non nell’altra”.

Lo spirito dell’intervista è tanto serio quanto scherzoso, dia un voto su scala decimale alla gestione dell’emergenza Covid a due governatori quali Fontana e De Luca.

“Fontana non prende un buon voto su scala complessiva, ma lo stesso vale per De Luca: è inaccettabile sia andato contro le disposizioni del governo, specie in qualità di uomo che ricopre una funzione pubblica. È stato il primo grande furbetto vaccinale ricorrendovi in anticipo rispetto agli altri. Sulla gestione della campagna vaccinale De Luca però prende un bel 7, mentre Fontana non va oltre il 4”.

A livello nazionale abbiamo visto che quando il governo annunciava la seconda ondata lei sosteneva facesse del “terrorismo” (salvo avere ragione); quando le davano del “negazionista” lei rispondeva definendosi “ottimista” e oggi taccia di ottimismo le previsioni del ministro Speranza. Come se lo spiega?

“Io mi definisco sempre ottimista, Speranza ha fatto una fuga in avanti rispetto all’estate e io l’ho trovata “ottimista”, ma magari aveva delle informazioni che io e gli altri italiani non avevamo. Io sono inoltre molto ottimista per la presenza del generale Figliuolo – I’ho incontrato personalmente – che è una persona concreta, competente e molto pragmatica proprio come ci vuole adesso alla guida della struttura commissariale per i vaccini. Porta una ventata di nuovo in una struttura che ne aveva bisogno”.

Quando era all’opposizione del governo Conte bis ha definito Salvini un “politico di buonsenso”. Lo direbbe anche oggi che è in una maggioranza di governo che spesso adotta misure  restrittive che lei critica?

“È una persona di buonsenso innanzitutto, ma ce ne sono anche altri negli altri schieramenti. Io ero stato critico nei confronti di Zingaretti nella gestione della pandemia nella prima e seconda ondata invece sui vaccini si è rivelato essere molto più bravo di tanti altri. Complimenti davvero per il lavoro svolto nel Lazio! Apprezzo molto anche Bonaccini, è estremamente pragmatico. Giorgia Meloni. Così come stimo fortemente Debora Serracchiani, abbiamo lavorato accanto in Friuli Venezia Giulia, a Udine, e sono contento del ruolo che ricopre anche oggi. Ritengo che le donne siano fondamentali ma non per legge, il mio braccio destro e sinistro è una donna e sono circondato da donne anche al lavoro. Ma non devono esserci per legge, bensì per merito”.

Venendo al Cts, sembra che lei viva la sindrome morettiana del “mi si nota di più se non ci sono”. Ci è rimasto male per non essere stato chiamato?

“Io non sono mai stato chiamato e non ho libidine a starci. Non ci sono rimasto male per Matteo Bassetti, ma per la materia che rappresento. Non vedere un solo infettivologo mi è parso strano. Non mi sono mai arrivate offerte ufficiali, ma dei pour parler ufficiosi da parte della politica, quelli sì”.

Dichiara di non voler scendere in politica, ma lei ha un passato di attivismo politico?

“Quando ero ragazzo mi è sempre tanto piaciuta la politica, sono stato candidato al Consiglio di amministrazione universitario ed ero nel movimento di Mario Segni “Studenti per la riforma”, poi ho fondato un club Forza Italia nel 94, ma non ho mai avuto il piacere di conoscere il Presidente Berlusconi che stimo tanto”.

E il politico che le piace di più?

“Stimo molto Berlusconi ma ho anche apprezzato Renzi nel passato, oggi le direi Draghi anche se non è un politico. Ad esempio anche Letta a me è sempre piaciuto moltissimo”.

Letta ha aperto allo ius soli, segue dibattito pubblico? Cosa ne pensa?

“Credo sia giusto discuterne, il Paese si evolve e deve migliorare”.

Le piace fare tv? Se le chiedessero di tenere un programma televisivo in cui parla di salute?

“Credo che in questo periodo stia meglio in tv chi conosce direttamente il virus, anziché starlette o rockettari. La televisione oggi mette vicino la scienza e il trash e capita nella maggioranza delle trasmissioni televisive, tendo a non andare più in quelle dove si urla non mi piace. I medici dovrebbero essere usati non per l’audience che producono. Vado in tv per quello che è la materia, ma non cambierei mestiere. Potrei dare una mano per il coordinamento scientifico affiancando qualcuno alla nascita di un programma, questo sì”.

Aldo Grasso per il "Corriere della Sera" l'1 aprile 2021. È nata una stella. Già attiva sui social, quasi ogni giorno appare in tv, in Dad o in presenza, collabora con i giornali, non disdegna la radio, ci invita con grazia a conoscere quasi tutto di lei: vestiti, acconciatura, ogni angolo della sua bella casa padovana. Riceve ogni giorno decine di richieste galanti, ormai è più famosa di tutti partecipanti all'«Isola dei famosi» messi assieme. Raccomanda di stare in casa, ma poi gira l'Italia per le ospitate tv. Stiamo parlando di Antonella Viola, professoressa ordinaria di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell'Università di Padova e Direttrice Scientifica dell'Istituto di Ricerca Pediatrica (IRP - Città della Speranza). Colta, competente, rassicurante, è la regina della compagnia dei virologi televisivi. Se quando parlano Walter Ricciardi o Massimo Galli i gesti apotropaici si sprecano, le parole di Antonella Viola risuonano come un balsamo. Avere lei in trasmissione è come poter contare su una star, e lei ne è cosciente. Come ha scritto sul Forum Televisioni Luca Cardinalini, «abbandonata l'aria sperduta dei primi mesi, ora sorride dall'inizio nei mille collegamenti, quando può va ospite in studio, insomma prende iniziativa, sentendosi sempre più a suo agio. È uno dei misteri di questa pandemia: un sabba tragico ed entusiasmante, in teoria, che dovrebbe vederli in trincea 25 ore su 24, se non fossero molto impegnati come le trasmissioni più disparate delle reti più disperate». Antonella Viola è scettica sul vaccino AstraZeneca («Hanno avuto una comunicazione non corretta con annunci non supportati dai fatti»), motivo per cui ha fatto perdere la pazienza al prof. Matteo Bassetti, l'infettivologo dell'ospedale San Martino di Genova, nell'ormai aspra tenzone tra chi opera in laboratorio e chi in corsia. Nel dopo pandemia quanti virologi appariranno ancora in video? Antonella Viola sì.

Maria Sorbi per “il Giornale” il 23 maggio 2021. Un anno fa a quest' ora l' Italia contava 642 casi in un giorno. Pochissimi. Ne eravamo certi: il Covid era finito. Basta chiusure, basta sacrifici. Sono stati sufficienti pochi mesi per capire che quella era un' illusione. Parecchi virologi, tra cui l' immunologa dell' università di Padova, Antonella Viola, già all' epoca spronavano ad andarci piano.

Cosa cambia adesso rispetto al maggio scorso?

«L' anno scorso vivevamo appieno gli effetti di un lockdown molto duro, registravamo una minor trasmissione grazie alla bella stagione, al caldo al fatto che iniziavamo a trascorrere più tempo all' aperto. Ma il virus non era affatto morto. La differenza quest' anno la fa una cosa sola: i vaccini. Aver messo in sicurezza gli anziani e le persone fragili ed essere nel pieno della campagna vaccinale ci permetterà di arrivare più protetti in autunno».

Ma anche lei crede che la normalità sia vicina?

«Posso dire che il peggio è passato ma non è finita».

Si riferisce alle varianti?

«Non solo. Il virus non è clinicamente morto anche se i reparti si sono svuotati. È vivo e sta cercando la via per fregarci nuovamente, per nascondersi ai vaccini e mutare. C' è però da dire che, mentre l' anno scorso affrontavamo questa battaglia tutti nudi, almeno quest' anno indossiamo un' armatura».

Quando potremo essere davvero tranquilli sul fatto che non ci saranno più impennate di contagi e decessi?

«Io già lo sono. Gli anziani, cioè le potenziali vittime, sono vaccinati, gli obesi e i diabetici anche o lo saranno a breve. Anche se i ragazzini più giovani si infettano, i casi con complicanze saranno rari. Ricordiamoci che il primo fattore di rischio per il Covid è l' età».

Quindi riusciamo a fare una previsione sull' estate che ci aspetta?

«Di sicuro non possiamo andarcene al mare e non pensarci più. Non dobbiamo abbassare la guardia e rispettare ancora regole e distanziamenti. Poi serve un monitoraggio molto attento del virus».

Quindi la battaglia si gioca tutta in laboratorio?

«In questa fase diventa importantissimo sequenziare il virus per giocare d' anticipo sulle varianti e non lasciarsi cogliere di sorpresa da nuove impennate di contagi. Per di più è fondamentale seguire gli aggiornamenti scientifici per capire, ad esempio, se il pass vaccinale potrà durare nove mesi, come è stato stabilito ora, o di più. Strada facendo, dobbiamo anche capire quanto i vaccini proteggono dalle varianti. Per ora quel che sappiamo è che una protezione la garantiscono comunque. Ora va capito quanta».

In tanti sostengono sia ora di eliminare le mascherine, almeno all' aperto.

«Va bene se le eliminiamo per una passeggiata, non servono. Ma sono utili anche all' aperto se si sta in gruppo a chiacchierare o al bancone del bar».

E della terza dose cosa pensa? Se ne parla già.

«Mi sembra un po' prematuro. Non dobbiamo farci influenzare da chi i vaccini li vende ma dalle evidenze scientifiche. Cominciamo a capire per quanto tempo ci proteggono due dosi quanto durerà l' immunità. E poi dobbiamo verificare cosa significa infettarsi dopo mesi da vaccino: magari il Covid diventa solo un' influenza leggera».

Cosa potremo dire alla fine dell' estate? Tipo un 'ce l' abbiamo fatta'?

«Potremo dire che la scienza ha fatto miracoli. Così come li ha fatti il nostro sistema organizzativo dopo qualche intoppo iniziale. Purtroppo però non potremo dire che ci saremo liberati dal virus. Non sappiamo in che direzione sta andando, ma non ci lascerà facilmente».

Secondo lei la fobia da vaccino è passata?

«In parte si ma è nata dalla gran confusione fatta, da varie categorie: i divulgatori scientifici, la stampa, Astrazeneca stessa. Ora che le regole sono chiare la gente ha meno paura. Ed è giusto che scelga, come avviene nell' open day».

Andrea Malaguti per “Specchio - La Stampa” il 23 maggio 2021. Poi la scienza si è seduta in tv e ha cominciato a litigare, trasformando i rigidi custodi del pensiero in lottatori di sumo e costringendo noi, spettatori attoniti, a indossare la casacca del nostro guru-anti-Covid-di-riferimento. Ed è esattamente lì, in questa palude di logica aggressiva propalata da uomini con la sabbia nel cuore, tra l'autorevole cupezza di Galli e la temerarietà di Zangrillo, che sui teleschermi è apparso il volto rassicurante di Antonella Viola, professione immunologa. Chiara, lineare, affidabile. Persino troppo, dunque sospetta. Troppo bionda. Troppo mamma. Troppo sexy. Troppo esposta. Troppo brava. Troppo machisicredediessere. Così l'hanno attaccata - ferita dice lei - passandola ai raggi X, salvo scoprire che dietro il camice bianco non c'era niente di strano, a parte un concentrato di studi, di titoli e di competenza - succede, esiste gente che ce la fa - e a questo punto sono nati i fan club.

Siamo volubili, si sa, dunque tutti a dire: hai visto che meraviglia, la Viola? Sono comparse schiere di uomini e donne imploranti, come se un meteorite stesse per cadere sulle loro teste e solo lei fosse in grado di salvarci. Lei. Ma chi è, lei?

Professoressa Viola, vuole sapere come sembra in tv?

«Come sembro?».

Serena.

«L'apparenza inganna».

È travolta dalla malinconia?

«Figuriamoci. Adoro ridere e divertirmi, ma non ho un rapporto facile con l'esistenza e posso essere musona. A volte vedo nero. Ma ho un lato pubblico e uno privato».

In pubblico bara?

 «No. Ma credo che agli altri si debba cercare di dare il meglio di sé, non il peggio. I malumori me li tengo per me, anche se in verità mi sento come nella poesia di Ungaretti».

M' illumino d'immenso?

«Natale. Lasciatemi così/ come una cosa/ posata in un angolo/ e dimenticata».

Non succederà.

«Peccato, perché è uno dei primi pensieri che ho al mattino».

Come si spiega il successo?

«Ho il sorriso facile. In un momento come questo credo che serva. Nella fase iniziale i dibattiti erano affidati a colleghi che cercavano lo scontro. Una parte che ho sempre rifiutato. Davanti alla tv c'erano persone preoccupate, spaventate o depresse. E io volevo far passare un messaggio semplice: la scienza si sta occupando del problema e troverà la soluzione».

L'ha trovata?

«L'ha trovata».

Perdoni il dettaglio cretino: l'erre francese aiuta?

 «Non lo faccio apposta. In famiglia ce l'abbiamo tutti. E non mi sono mai chiesta se mi piaccia o no».

La bellezza è un vantaggio?

«Sì, non ha senso negarlo. Anche se poi non è che io sia una bellezza da televisione. Però ho un viso solare, simpatico, che riscuote successo tra le donne, forse perché non stimola la competizione. Ho un sacco di ammiratrici».

Ammiratori no?

«Ammiratori molti».

Le dicono cose sconvenienti?

«Anche. Ma sono abbastanza abituata. Vivo in un mondo prevalentemente maschile e conosco i complimenti e i corteggiamenti. Diciamo che non mi stupiscono».

La infastidiscono?

«Sul lavoro moltissimo. Li ritengo inaccettabili, voglio essere considerata asessuata e tratto i miei collaboratori allo stesso modo. Contano solo le competenze. In privato è diverso. I complimenti e il corteggiamento fanno piacere».

Suo marito è geloso?

«Ma no. È tranquillo. Se fosse stato geloso non avremmo retto. Abbiamo viaggiato molto entrambi».

Che cosa fa nella vita?

 «Il chimico. Si occupa di corrosione».

A tavola farete discorsi da mal di testa.

 «In effetti io non capisco molto quello che fa lui e lui non capisce molto quello che faccio io. Fortunatamente abbiamo altri argomenti di conversazione».

State insieme da tanto?

«Ventisette anni. Ci siamo conosciuti in un pub. Presentati da un collega. E ci siamo piaciuti subito».

Questione chimica, fisica o metafisica?

«Credo che la chimica sia importantissima nel rapporto, ma poi ci sono tante altre cose. Si deve essere pronti a costruire un progetto comune. Noi siamo rimasti uniti perché siamo liberi e complici. Avevamo il mondo da conquistare. E volevamo una famiglia e dei figli».

Perché una bambina decide di fare l'immunologa?

«Diciamo che da bambina ho avuto diverse fasi. Però a Natale mi facevo regalare microscopi e telescopi».

Tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo ha scelto l'infinitamente piccolo.

 «Capire come funziona il nostro corpo è affascinante. Sono molto curiosa, le risposte non mi bastano mai. Nel lavoro e nella vita. Come quando guardo i film con mio marito».

Che c'entrano i film?

 «C'entrano. Per noi ormai è una gag. Io stoppo il film e gli chiedo: ma tu hai capito perché si comportano così? Lui mi risponde cose che in realtà so già, eppure non mi basta lo stesso».

Che film guarda?

«Secondo mio marito film che in tutto il mondo interessano al massimo dieci persone. Io direi piuttosto film d'essai. Storie che mi portano dove non sono mai stata».

Tipo?

«Parasite».

L'ha visto un sacco di gente.

«Vero. Allora dico Taxi Teheran, di Jafar Panahi».

Mai un cinepanettone?

«Non amo il cinema pop-corn. Ma con i miei figli ho visto tutti gli Harry Potter».

Quanto ha condizionato la sua vita essere nata a Taranto?

«Mah, è una domanda complicata. Magari nascere in una città che ha sofferto tanto, ai confini dell'impero, ha alimentato la mia voglia di affermarmi, di fare di più e anche di restituire qualcosa al mondo. Perché, se ci rifletto, io dalla vita ho avuto moltissimo».

Che cosa, per esempio?

«Sono nata sana, carina, in una bella famiglia. Mio papà insegnava tedesco al liceo, mia mamma si occupava di ginnastica riabilitativa nello studio di mio zio medico. E io e mia sorella, che oggi insegna italiano in Francia, siamo cresciute bene».

L'Ilva cosa ha rappresentato per voi?

«È sempre stata il mostro. Ricordo da bambina questo odore fastidioso, continuo e pungente. E la polvere rossa sul terrazzo dei miei genitori».

Oggi lo chiuderebbe Il Mostro?

«Sì. Cercando di riconvertirlo».

Era una bambina prodigio?

«A scuola ero la più brava. Ho sempre amato studiare. Mi piace migliorare sempre e magari è una forma di egoismo. Anche se il mio obiettivo è restituire quello che prendo, come nella parabola dei talenti: più ricevi più restituisci».

Non era Darwin il suo eroe?

«Il più grande rivoluzionario di sempre. Perché me lo chiede?».

Per la parabola dei talenti. Lei è religiosa?

«Non sono cattolica, non vado a messa, però ho un rapporto personale con la divinità».

La divinità?

«Guido. Io lo chiamo così».

Un rapporto alla Battiato?

«Alla Battiato. La divinità c'è».

 Professoressa, che cos' è il Basel Institute of Immunology?

«Cos'era. Purtroppo non esiste più. L'hanno chiuso nel 1999. Ci ho studiato per cinque anni. Era la Mecca dell'immunologia, tutti i migliori dovevano passare da lì. Contava il merito. E grazie ai finanziamenti di Hoffmann La Roche gli scienziati dovevano preoccuparsi solo di pensare. Ora invece lavoriamo su progetti legati ai finanziamenti e spesso siamo costretti a fare la ricerca che viene pagata».

La tv dà alla testa?

 «No. A me no. Anzi, è una gran fatica perché ti espone alla critica e al giudizio degli altri che commentano non solo quello che dici, ma anche come lo fai e come ti vesti».

Qualcuno l'ha ferita?

«Briatore. Ero ospite di Formigli e si parlava della possibilità di aprire o meno le discoteche. Formigli mi stava facendo passare per la strega cattiva e io gli feci un sorrisino per dire: ehi, io non sono la strega cattiva. Briatore fece un video in cui mi attaccava sostenendo che prendevo in giro gli operatori del suo settore e che non me lo potevo permettere visto che non avevo mai lavorato e dato lavoro a nessuno. Invece io lavoro da sempre e sono almeno trent' anni che do lavoro a decine e decine di persone. Mi fece male. Ma ero all'inizio e in qualche modo mi vaccinò».

Quante scemenze avete detto voi scienziati quest' anno?

«Scemenze non so. Forse stupidaggini. Eravamo di fronte a una cosa totalmente nuova e qualche volta ci siamo lasciati andare alle interpretazioni invece di basarci sui fatti. Abbiamo sentito alcune cose pericolose. Ricordo quando c'era chi parlava di semplice influenza e quando questa estate c'era chi giurava che il virus fosse morto».

La scienza ne è uscita con le ossa rotte.

«Non direi. Parlare di vaccini è stato un bene, abbiamo attirato l'attenzione di tante persone sulla scienza e sulla ricerca. Ovvio che lo scontro non è mai piacevole. Diciamo che quello che può succedere nei nostri convegni stavolta si è visto in tv».

I suoi figli la prendono in giro?

 «No, credo che siano orgogliosi di me».

Lei è orgogliosa di loro?

«Non sono una mamma orgogliosa, ma qui ci sta bene una delle mie massime: sono convinta che nella vita noi facciano bene se per un certo periodo siamo indispensabili e poi diventiamo completamente inutili. Vale nel lavoro e vale con i figli».

Baglioni o Venditti?

«Baglioni».

Quale Baglioni?

«Mille giorni di me e di te».

Super-romantica.

«No, è che sulla musica sono un po' arrogante. Credo di avere gusto».

Quindi Venditti canta male?

«No. Però Baglioni ha una melodia più ricca».

Scelga con arroganza un nome solo.

«Bach».

Questa non è arroganza, è spocchia.

«D'accordo. Allora Billie Eilish».

A "Un giorno da pecora" ha detto: i Maneskin sono fluidi.

«È vero. Rappresentano molto bene la sessualità dei giovani. Che è appunto fluida. Rispetto a noi, i ragazzi sono meno rigidi nelle rispettive posture e atteggiamenti».

La stupisce la polemica sull'omotransfobia e la legge Zan?

«Mi stupisce sì. Mi sembra banale e scontata l'idea dell'approvazione. Non capisco che cosa si stia aspettando».

Che fa, attacca la famiglia tradizionale?

«Io ho una famiglia molto tradizionale e una cosa la so per certo: una famiglia è caratterizzata dall'armonia e dall'amore che ci sono in casa. Il resto sono solo posizioni rigide, in genere di persone di una certa età».

Le piace la politica?

 «L'adoro. Ma non è il mio mestiere, io faccio lo scienziato».

Se Draghi la chiamasse a fare il ministro della salute?

«Andrei di corsa. Come tecnico».

Draghi o Conte?

«Uuuuuh, no comment».

Non vale.

«A me Conte non dispiaceva. Si è impegnata tanto ed era forse più vicino alla gente di Draghi, che ha grande esperienza e curriculum, ma forse è un po' distante dalla vita reale».

Per chi ha votato?

«Non lo dico. Però in questi mesi sono stata considerata di sinistra da destra e di destra da sinistra».

Lo dico io: progressista.

«Lo sono, anche se in questo momento non è facile sentirsi rappresentati se si crede nella meritocrazia, nelle competenze, nella solidarietà e nell'Europa».

Sembra il manifesto di Letta.

«Sono curiosa di vedere che cosa farà, è una persona interessante, in effetti».

Perché il Covid risparmia i bambini?

«Non esiste una risposta definitiva. Forse hanno minori recettori di cui il virus ha bisogno per entrare all'interno delle nostre cellule. O forse hanno un sistema immunitario più allenato per via dei raffreddori e delle infezioni. In ogni caso è molto importante vaccinare anche loro, perché possono essere vettori del Covid».

Che cosa ci succederà tra dieci anni?

«A causa dei vaccini, dice? Assolutamente nulla. Entrano nel nostro corpo, ci proteggono e si degradano».

Professoressa Viola, le fa paura il tempo che passa?

«A me no. A farmi paura è solo il tempo sprecato».

Da liberoquotidiano.it il 10 marzo 2021. Claudio Borghi choc a L'aria che tira su La7. Il leghista ha smontato completamente il professor Nino Cartabellotta lasciando di sasso Myrta Merlino. "È uscito da pochi giorni uno studio di uno dei più grandi epidemiologi del mondo, il professor Ioannidis, che dice che il lockdown non serve. Non è un gastroenterologo come Cartabellotta che va in tutte le trasmissioni e fa delle previsioni sul futuro in certi casi molto tragiche, il che è molto grave". E ancora attacca il leghista: "Ma avete mai fatto un check delle cose che diceva? Quando diceva che a gennaio ci sarebbe stata una strage?". A quel punto interviene la conduttrice: "Borghi, mi perdoni, solo per precisare, Cartabellotta non è presente e non può rispondere. Qui ha solo presentato dati comunque ora mi informo". Insomma, Borghi alla luce degli studi scientifici sostiene che "stiamo cercando il più possibile di cambiare la traiettoria, nel nostro piccolo, perché in Parlamento la Lega conta ancora per il 17% e non per il primo partito che è, stando a quello che indicano tutti i sondaggi. Se ci fosse ancora Giuseppe Conte, saremmo in zona scarlatta, non rossa. Sarebbe tutto chiuso. Si sta cercando di resistere a questa situazione, non perché vogliamo far morire la gente ma perché c'è un errore di fondo nell'impostazione del lockdown", prosegue il leghista. "Sbagliamo quando pensiamo che se io chiudo un posto, la gente che lo frequenta svanisca", aggiunge Borghi. "Quindi lei pensa che sia una stupidaggine chiudere nei weekend come durante le feste di Natale?", chiede la Merlino. "Mi piacerebbe che i dati del Cts vengano portati in Parlamento e si decida in commissione, perché se una cosa impatta i destini dei cittadini dev'essere la politica a prendersi la responsabilità della decisione".

Galli troppo in tv, lockdown personale? “Declino quattro quinti delle richieste”. Giampiero Casoni su Notizie.it il 21/02/2021. Galli troppo in tv, sarà lockdown personale? Il primario del Sacco dice la sua in merito alle comparsate tv e auspica un suo personale lockdown. Galli troppo in tv, sarà lockdown personale? Il professore rivela che di solito lui declina “i quattro quinti delle richieste” delle tv. Richieste di esprimere il suo parere sull’emergenza Covid in Italia. Il responsabile del reparto malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano sostiene in pratica che è l’informazione che mette in moto la giostra dei virologi catodici: “Pare che tutti abbiate bisogno di riempire i palinsesti e insistiate per avere determinate voci, alcuni per fare corrida e altri per fare informazione seria. Sono stato tentato di fare il mio personalissimo lockdown e di rimanere in silenzio per 2-3 settimane”. Il professor Galli, dopo l’allarme sulle varianti smentito dal suo stesso ospedale, ha sostenuto questa tesi a Otto e mezzo.”Però il punto è che in questo momento siamo in una congiuntura particolarmente seria e preoccupante. Credo di essere sempre stato coerente nelle posizioni che ho portato, molte cose che ho preconizzato si sono avverate. Stiamo attenti in questo momento, questo vi posso dire”. In tema di vaccinazioni Galli non ha dubbi: “Se quello che è stato programmato con tutta l’Europa non si verifica, siamo in un grosso guaio. Bisogna pensare ad una exit strategy che ci garantisca alternativa. La produzione del vaccino non si allestisce in due minuti, gli impianti non sono semplici da mettere in piedi da un giorno all’altro, ma come Italia e come Europa bisogna cominciare a pensarci e anzi bisognava farlo prima. Una produzione rapida in Italia? Rapida, no. Sarebbe un piano B che non risolverebbe uno dei problemi fondamentali”. Poi aggiunge su un tema a lui caro e sui cui non ammette deroghe. “Se vaccini molto e rapidamente riesci a bloccare la trasmissione del virus. Se vaccini in maniera troppo diluita nel tempo non ottieni l’effetto di contenimento complessivo del virus e consenti la circolazione di varianti. Tra un anno potremmo vedere la prospettiva rosea ed esserne fuori. Dobbiamo tener duro”.

Giampiero Casoni. Giampiero Casoni è nato a San Vittore del Lazio nel 1968. Dopo gli studi classici, ha intrapreso la carriera giornalistica con le alterne vicende tipiche della stampa locale e di un carattere che lui stesso definisce "refrattario alla lima". Responsabile della cronaca giudiziaria di quotidiani come Ciociaria Oggi e La Provincia e dei primi free press del territorio per oltre 15 anni, appassionato di storia e dei fenomeni malavitosi. Nei primi anni del nuovo millennio ha esordito anche come scrittore e ha iniziato a collaborare con agenzie di stampa e testate online a carattere nazionale, sempre come corrispondente di cronaca nera e giudiziaria.

Virologi in tv: la Francia ha detto basta. Da noi parlano, come Galli, e poi l’ospedale li smentisce. Adele Sirocchi giovedì 18 Febbraio 2021 su Il Secolo d'Italia. Viro0logi in tv: sì o no? Prendiamo il professor Massimo Galli, uno scienziato che ha da sempre sposato la linea rigorista. E da sempre ha accusato per la diffusione del virus i comportamenti scorretti degli italiani. Sicuramente è un esperto, ma è anche sicuro che le sue parole sono sempre state molto ansiogene e allarmistiche. Negli ultimi giorni il professor Galli, primario di Infettivologia al Sacco di Milano, ha sposato la tesi di Walter Ricciardi sulla necessità di un lockdown generale. Il motivo? La preoccupazione per il diffondersi della variante inglese. «Io – ha detto Galli – mi ritrovo il mio reparto invaso da varianti, riguarda tutta l’Italia e ci fa facilmente prevedere che a breve avremo problemi più seri, questa è la realtà». E ancora: «Quello che posso dire è che dei 20 letti almeno uno su tre ormai è occupato da contagiati di una variante. Non ho ancora dati precisi, ma possiamo ipotizzare si tratti di quella inglese. Per ora non abbiamo evidenza di altri ceppi». Ma è lo stesso ospedale Sacco a smentire il professor Galli: «Tali affermazioni al momento attuale non rappresentano la reale situazione epidemiologica all’interno del Presidio». Su un totale di 314 positivi ricoverati al Sacco dal 31 dicembre al 4 febbraio, infatti, appena 6 campioni sequenziati su 50 sono risultati affetti dalla variante inglese. In realtà, precisa la direzione milanese, «le percentuali di varianti identificate (verificate secondo le indicazioni del ministero della Salute e dall’Iss o su controlli a campione) sono in linea con la media nazionale ed inferiori alla media regionale». Forse allora quell’invito risuonato nell’aula del Senato per bocca di Matteo Salvini (“Basta virologi in tv”) non è poi così assurdo, né ingiustificato.  Occorre guardare all’esempio francese, dove i virologi in tv non ci vanno più. A metà gennaio in Francia è avvenuto un episodio simile a quanto avvenuto da noi con l’auspicio di un lockdown rigido da parte di Ricciardi. “Un’intervista di uno dei virologi – racconta Today.it – che preannunciava le chiusure non sembrò opportuna a Macron, e lo scienziato fu costretto nei giorni scorsi a rivedere le sue affermazioni. Così è mutata la strategia: meno annunci, e solo a cose fatte, dopo aver adeguatamente e completamente informato di ogni cosa l’Eliseo”.

«I nostri reparti non sono invasi da mutazioni» Così il Sacco smentisce il (suo) virologo Galli. Secondo l'ospedale sarebbero solo 6 i casi: «In linea con la media nazionale». Redazione, Giovedì 18/02/2021 su Il Giornale.  Si potrebbe chiamare il giallo delle varianti. Dopo le dichiarazioni allarmistiche dell' infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano Massimo Galli che diceva: «mi ritrovo ad avere il reparto invaso da nuove varianti, e questo riguarda tutta quanta l'Italia e fa facilmente prevedere che a breve avremo problemi più seri», ieri sera lo stesso ospedale dove lui lavora smentiva in modo abbastanza secco attraverso un comunicato con tanto di numeri e dati aggiornati. All'ospedale Sacco di Milano, «nel periodo dal 23 dicembre 2020 al 4 febbraio 2021, sono stati ricoverati 314 pazienti positivi a Covid. I dati raccolti hanno rilevato la presenza di 6 pazienti positivi alla variante Uk su un totale di 50 casi che, in ragione delle loro caratteristiche, sono stati sottoposti a sequenziamento». A riferirlo è l'Asst Fatebenefratelli Sacco, intervenendo in merito ad alcune notizie apparse sulla stampa riguardanti «reparti pieni di varianti», riferite al reparto di degenza di Malattie infettive del Sacco. L'Asst precisa che «tali affermazioni al momento attuale non rappresentano la reale situazione epidemiologica all'interno del Presidio. In collaborazione e sintonia con l'Ats Città Metropolitana di Milano, l'Asst Fatebenefratelli Sacco con il suo Laboratorio di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze è già dalla fine di dicembre 2020 parte attiva del sistema di sorveglianza sulle varianti, coordinato dall'Istituto superiore di sanità - spiegano dall'ospedale - ed è stato individuato come uno dei 6 laboratori regionali accreditati a livello nazionale. Attualmente le percentuali di varianti identificate (verificate secondo le indicazioni del ministero della Salute e dall'Iss o su controlli a campione) sono in linea con la media nazionale ed inferiori alla media regionale». Insomma, è chiaro che c'è una insofferenza riguardo a fughe di notizie. E poi è lo stesso ospedale che ci tiene a rinforzare il concetto: «Nessun paziente positivo a brasiliana o sudafricana». «Si specifica, inoltre - spiega l'Asst nella nota - che fino ad oggi nel Laboratorio dell'Asst è stata identificata esclusivamente cosiddetta variante inglese. Al momento, nessun sequenziamento ha evidenziato la variante brasiliana o sudafricana».

A questo proposito il Laboratorio di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell'ospedale Sacco di Milano prevede di utilizzare «a breve un nuovo test diagnostico che permetterà di identificare in via preliminare l'eventuale positività a una delle 3 varianti» di Sars-CoV-2, inglese, brasiliana e sudafricana. «Sicuramente la presenza di varianti del virus - commentano dall'ospedale meneghino - rappresenta una preoccupazione per il mondo sanitario e questo deve indurre, da una parte, gli operatori sanitari a mantenere un'elevata attenzione per individuarne la presenza a scopo preventivo e, dall'altra, tutta la popolazione ad attenersi alle usuali misure di sicurezza per evitare il contagio da Covid-19».

Massimo Galli smentito dal suo ospedale: "Nessun reparto pieno di nuove varianti Covid". Il Sacco contro l'infettivologo, è un caso. Libero Quotidiano il 18 febbraio 2021. L'ospedale Sacco smentisce Massimo Galli, infettivologo di punta dell'istituto milanese in prima fila nella lotta contro il Covid. Il professore pochi giorni fa ha lanciato l'allarme che ha scosso e inquietato l'Italia: "Mi ritrovo ad avere il reparto invaso da nuove varianti, e questo riguarda tutta quanta l'Italia e fa facilmente prevedere che a breve avremo problemi più seri". Insomma, l'incubo inglese e la terza ondata dell'epidemia. Ma il Sacco, con un comunicato con numeri e dati aggiornati, sembra affermare il contrario: "Nel periodo dal 23 dicembre 2020 al 4 febbraio 2021, sono stati ricoverati 314 pazienti positivi a Covid. I dati raccolti hanno rilevato la presenza di 6 pazienti positivi alla variante Uk su un totale di 50 casi che, in ragione delle loro caratteristiche, sono stati sottoposti a sequenziamento". E se è la stessa Asst Fatebenefratelli Sacco a gettare l'acqua sul fuoco dopo le dichiarazioni del suo illustre (e molto attivo mediaticamente) esponente allora forse è il caso di fermarsi a rifletere, perché qualcosa proprio non torna. Di più, le affermazioni di Galli "al momento attuale non rappresentano la reale situazione epidemiologica all'interno del Presidio. In collaborazione e sintonia con l'Ats Città Metropolitana di Milano, l'Asst Fatebenefratelli Sacco con il suo Laboratorio di Microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze è già dalla fine di dicembre 2020 parte attiva del sistema di sorveglianza sulle varianti, coordinato dall'Istituto superiore di sanità - spiegano dall'ospedale milanese, geograficamente molto vicino alla zona rossa di Bollate - ed è stato individuato come uno dei 6 laboratori regionali accreditati a livello nazionale. Attualmente le percentuali di varianti identificate (verificate secondo le indicazioni del ministero della Salute e dall'Iss o su controlli a campione) sono in linea con la media nazionale ed inferiori alla media regionale". La fuga di notizie a cui Galli ha dato la stura non è stata gradita dai vertici dell'istituto. E le "varianti", alla fine, si ridurrebbero a una, quella inglese, visto che "nessun paziente è risultato positivo a brasiliana o sudafricana". "Fino ad oggi - conclude la nota - nel Laboratorio dell'Asst è stata identificata esclusivamente cosiddetta variante inglese. Al momento, nessun sequenziamento ha evidenziato la variante brasiliana o sudafricana". "Sicuramente la presenza di varianti del virus rappresenta una preoccupazione per il mondo sanitario e questo deve indurre, da una parte, gli operatori sanitari a mantenere un'elevata attenzione per individuarne la presenza a scopo preventivo e, dall'altra, tutta la popolazione ad attenersi alle usuali misure di sicurezza per evitare il contagio da Covid-19".

Federico Garau per ilgiornale.it il 18 febbraio 2021. Covid, variante inglese e spettro di un nuovo lockdown, è di nuovo scontro tra Massimo Galli e Matteo Bassetti, che anche oggi su Facebook ha lasciato un post evidentemente diretto al direttore del reparto Malattie infettive 3 dell'ospedale Sacco di Milano. "È inutile fare il discorso del disastro che sta provocando questo virus, siamo tutti d’accordo che vorremmo riaprire tutto", aveva dichiarato infatti Massimo Galli nelle scorse ore. "Ma io mi ritrovo il reparto invaso dalle nuove varianti, questo riguarda tutta Italia e mi induce a dire che presto avremo problemi più seri. Chi, compreso il sottoscritto, vi dice ‘bisogna chiudere di più’ può incorrere nel rischio di esagerare, ma il rischio di esagerare è inferiore alla probabilità di avere ragione". Quindi una nuova chiusura sarebbe d'obbligo, come auspicato anche da Walter Ricciardi, consigliere scientifico del ministro della Salute Roberto Speranza. "Ricciardi è uno di quelli che ha tenuto la barra dritta. Qualcuno dovrebbe vergognarsi di quello che ha combinato quest’estate". Una tesi smontata dallo stesso ospedale Sacco, che ha diramato dei dati contrastanti rispetto al presunto allarme: "Nel periodo dal 23 dicembre 2020 al 4 febbraio 2021, sono stati ricoverati 314 pazienti positivi a Covid. I dati raccolti hanno rilevato la presenza di 6 pazienti positivi alla variante Uk su un totale di 50 casi che, in ragione delle loro caratteristiche, sono stati sottoposti a sequenziamento". Contro Galli anche Bassetti, che non ha usato giri di parole nel corso di un'intervista concessa a iNews24."Un conto è dire di fare un lockdown, un altro è dire di fare attenzione nelle prossime settimane. Noi abbiamo 4-6 settimane molto importanti in cui gli ospedali devono riorganizzarsi, alzare gli argini, preparare posti letto se non li hanno, lavorare a stretto contatto con il pronto soccorso e capire quanti dei pazienti hanno le varianti", ha spiegato il direttore della Clinica malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova. "Se Galli ha un problema, proponga alla Regione di fare un'immediata zona rossa nella sua area". Sbagliato, quindi, pensare ad un lockdown generale di un mese, cosa che il nostro Paese non si può permettere vista la pesantissima crisi economica in atto. "Perfino il colore di una regione è sbagliato, le misure vanno prese a livello locale". Al massimo si può pensare ad un "lockdown locale e poi ad una riapertura. Sarà anche la soluzione che forse non risolve completamente la situazione, ma dobbiamo convivere con il virus". Se non bastassero i numeri diffusi dal Sacco, è oggi arrivata un'altra replica al collega da parte di Bassetti, che sulla propria pagina Facebook ha così commentato: "Ho appena finito di vedere tutti i pazienti ricoverati qui nel mio reparto al San Martino, come faccio ogni giorno da oltre un anno. Abbiamo anche qualche caso di varianti inglesi, che non rappresentano la maggioranza", precisa il virologo. "I pazienti con queste varianti hanno un andamento clinico come tutti gli altri senza particolari differenze. Trovo importante vigilare sul problema varianti, ma non terrorizzare la gente. Questa e la differenza tra chi fa il medico in corsia e chi si considera o è considerato esperto dalla stampa e dalla politica, ma pazienti non ne ha visti e non ne vede", affonda ancora Bassetti. "Per affrontare questa infezione, come peraltro per tutte le altre, ci vuole calma, organizzazione e conoscenza", conclude.

Matteo Bassetti durissimo contro Massimo Galli: "La differenza tra un medico in corsia e chi si considera esperto". Libero Quotidiano il 18 febbraio 2021. Rissa tra virologi. Volano gli stracci tra due degli esperti più visibili. Due esperti che da tempo hanno posizioni piuttosto divergenti: Matteo Bassetti e Massimo Galli. Ad aprire il fuoco è stato il primo, il direttore della Clinica malattie infettive del San Martino di Genova, che su Facebook si è prodotto in un post evidentemente rivolto al secondo, l'infettivologo del Sacco di Milano. Galli infatti ieri, mercoledì 17 febbraio, aveva parlato di "reparto invaso da pazienti contagiati dalle nuove varianti". Tesi clamorosamente smentita dallo stesso Sacco, che ha diramato i seguenti dati: "Nel periodo dal 23 dicembre 2020 al 4 febbraio 2021, sono stati ricoverati 314 pazienti positivi a Covid. I dati raccolti hanno rilevato la presenza di 6 pazienti positivi alla variante Uk su un totale di 50 casi che, in ragione delle loro caratteristiche, sono stati sottoposti a sequenziamento". Insomma, le cifre parlano chiaro. Dunque, Bassetti apre il fuoco: "Ho appena finito di vedere tutti i pazienti ricoverati qui nel mio reparto al San Martino, come faccio ogni giorno da oltre un anno. Abbiamo anche qualche caso di varianti inglesi, che non rappresentano la maggioranza", sottolinea il virologo. E ancora: "I pazienti con queste varianti hanno un andamento clinico come tutti gli altri senza particolari differenze. Trovo importante vigilare sul problema varianti, ma non terrorizzare la gente - rimarca Bassetti -. Questa è la differenza tra chi fa il medico in corsia e chi si considera o è considerato esperto dalla stampa e dalla politica, ma pazienti non ne ha visti e non ne vede", picchia durissimo. "Per affrontare questa infezione, come peraltro per tutte le altre, ci vuole calma, organizzazione e conoscenza", conclude Bassetti. Per inciso, il direttore del San Martino, aveva già usato toni molto decisi in un'intervista a iNews24: "Un conto è dire di fare un lockdown, un altro è dire di fare attenzione nelle prossime settimane. Noi abbiamo 4-6 settimane molto importanti in cui gli ospedali devono riorganizzarsi, alzare gli argini, preparare posti letto se non li hanno, lavorare a stretto contatto con il pronto soccorso e capire quanti dei pazienti hanno le varianti". E ancora, riferendosi direttamente al collega: "Se Galli ha un problema, proponga alla Regione di fare un'immediata zona rossa nella sua area", aveva tagliato corto Bassetti.

Dagospia il 19 febbraio 2021. Da Un Giorno da Pecora. Salvini ha chiesto una moratoria sui virologi? “Immagino si riferisca ai consulenti del governo. Io credo che i medici dovrebbero dare informazioni su quel che sanno, e quando poi esprimono pareri che si interfacciano con la politica dovrebbero concordarli prima”. Così a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, il dottor Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova. Sono molti i suoi colleghi che invocano un lockdown nazionale. Lei cosa ne pensa? “Ieri è comparso un articolo sulla più prestigiosa rivista del mondo, che è Lancet, che mette in dubbio il lockdown”. Cosa si dice nel pezzo? “Che il lockdown ha avuto un senso un anno fa, forse. Ma la scienza non è dalla parte del lockdown generalizzato, puntando piuttosto su cose molto settoriali, rapide, chirurgiche dove ci sono situazioni che destano preoccupazione”. Paesi come Israele e la Germania stanno andando nella direzione del lockdown. “Io posso citare altri dieci paesi che invece non stanno facendo così, a partire dagli Usa. E i sanitari israeliani, con cui sono in contatto – ha spiegato Bassetti a Rai Radio1 - mi dicono che il lockdown non ha funzionato, quel che è servito è stata la vaccinazione”.

Bassetti, pietra tombale sul lockdown: "Vi dico perché non ha senso". Secondo il professore e la prestigiosa rivista scientifica Lancet, sarebbero meglio azioni settoriali, rapide, chirurgiche. Valentina Dardari Sabato 20/02/2021 su Il Giornale. Intervenuto su Rai Radio1 a “Un giorno da pecora”, il professor Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, ha espresso il suo parere sulla possibilità di un eventuale lockdown. Secondo Bassetti, un lockdown nazionale, richiesto a gran voce da alcuni suoi colleghi sarebbe a questo punto inutile. Meglio allora azioni mirate dove si presentano delle situazioni preoccupanti. Il professore ha anche nominato la rivista scientifica Lancet, la più prestigiosa a livello mondiale, sulla quale è stato pubblicato un articolo che metteva in dubbio l’utilità di un lockdown generalizzato, il quale “ha avuto un senso un anno fa, forse. Ma la scienza non è dalla parte del lockdown generalizzato, puntando piuttosto su cose molto settoriali, rapide, chirurgiche dove ci sono situazioni che destano preoccupazione”. Come ha riassunto Bassetti. Ci sono però paesi come Israele e la Germania che stanno prendendo in considerazione l’idea di richiudere tutto, indistintamente. Per contro, Bassetti ha asserito di poter citare una decina di altri paesi che invece non stanno facendo così, primo fra tutti gli Stati Uniti. Ha inoltre aggiunto che secondo i sanitari israeliani, con cui il professore si è detto in contatto, il lockdown non ha funzionato. L’unico servizio che fino a questo momento è realmente servito è stato quello della vaccinazione. Durante la trasmissione radio è stata fatta una domanda al professore anche riguardo le parole del leader leghista Matteo Salvini che avrebbe detto di aver chiesto al presidente Mario Draghi silenzio stampa e una moratoria in tv per virologi e contro virologi, perché non se ne può più. “Vorrà dire che non potremo più parlare” ha risposto Bassetti, ma il professore subito dopo ha immaginato che le sue parole fossero riferite ai consulenti del ministero o a quelli che hanno ruoli importanti. Dopo aver detto di non sentire spesso Salvini, ha però fatto sapere che magari gli chiederà se il suo intervento fosse rivolto anche alla sua persona. “Io credo che i medici dovrebbero dare delle informazioni relative a quello che sanno e a quello che fanno, e quando poi esprimono alcuni pareri che si interfacciano con la politica dovrebbero concordarli prima”. Insomma, risposte dirette ai cittadini che fanno domande sui vaccini e sulle varianti, ma interventi concordati con i politici quando toccano argomenti che si collegano alla politica. Magari anche per non creare inutili allarmismi.

In Italia i rigoristi spingono per il modello australiano “zero Covid”. Federico Giuliani su Inside Over il 19 febbraio 2021. L’agenda del governo Draghi è già densa di impegni. Le due sfide principali che dovrà affrontare il suo governo, in realtà tra loro strettamente connesse, riguardano la situazione economica dell’Italia e la pandemia di Covid-19. Inutile nascondersi dietro a un dito: finché la diffusione del coronavirus immaginare di riaccendere il motore economico italiano a pieno regime. C’è da dire che il lascito dell’esecutivo giallorosso, zone colorate a parte, non è stato generoso. Le misure restrittive, alternate a lockdown più o meno locali – rigorosamente chiamati con altri termini per non incorrere nell’ira funesta dei cittadini –, e comunicate con tempistiche a dir poco rivedibili, hanno creato più mal di pancia che benefici. Bar e ristoranti brancolano nel buio, tra aperture e riaperture legate ad algoritmi e parametri opinabili perfino da una parte della comunità scientifica. Alberghi, impianti sciistici e tutte le attività legate al settore turistico devono ancora vedere la luce in fondo al tunnel. Sì, certo. In mezzo a uno scenario del genere c’è pur sempre la preziosissima arma del vaccino, che tuttavia ha bisogno dei suoi tempi per produrre effetti desiderati. Se, poi, la campagna di vaccinazione deve mettersi a fare i conti anche con i ritardi di consegne delle dosi e con un’organizzazione rivedibile, soprattutto in alcune regioni, il bonus vaccino rischia di evaporare come neve al sole.

Il fronte rigorista. Adesso il governo italiano è cambiato. In cabina di regia non c’è più Giuseppe Conte, ma molti esponenti della stagione giallorossa sono rimasti al loro posto. Tra questi, il ministro della Salute, Roberto Speranza. In generale, il premier Draghi sarà chiamato a trovare una valida mediazione tra le posizioni estreme presenti nel suo esecutivo. Da una parte il “riaprire tutto”, dall’altra il “chiudere tutto” finché la situazione non sarà sotto controllo. Se il primo dei due approcci è ancora impraticabile – almeno, non in tutta Italia – il secondo non è da meno. I fautori di quest’approccio sono riuniti sotto la bandiera del fronte rigorista, lo stesso che include, oltre al ministro Speranza, anche i consulenti tecnici del governo. Preoccupati per la diffusione delle nuove varianti del Covid, gli esperti hanno suggerito il rinvio dell’apertura degli impianti sciistici al prossimo 5 marzo (anche se molti di loro hanno rivelato che la notizia era nota da mesi). Ma quali sono i prossimi passi che farà l’Italia? Come ha sintetizzato il quotidiano Domani, due sono le piste possibili. La prima: continuare con l’attuale strategia, alternando aperture e chiusure in base alle oscillazioni della curva epidemiologica, regione su regione. Stiamo parlando di una strategia adottata anche in gran parte d’Europa, ad esempio in Francia, nel Regno Unito e in Germania. Arriviamo poi alla seconda opzione, quella sussurrata da alcuni esperti: chiudere tutto subito, prima che il sistema sanitario possa surriscaldarsi. Una strategia preventiva, certo, ma dannosissima tanto dal punto di vista economico quanto da quello psicologico.

Il modello australiano. Possiamo etichettare l’approccio appena descritto con la definizione di “modello australiano“. Funziona così: non appena vengono rilevati nuovi focolai, le zone interessate entrano in lockdown. Non appena i casi scendono, toccando quasi lo zero, allora le misure di contenimento vengono sospese e le aree tornano alla normalità. Una strategia del genere – definita anche “zero Covid” – è stata adottata dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. Il governo australiano, adottando questo metodo, dall’inizio dell’emergenza conta 900 morti, ovvero quanti ne ha totalizzati l’Italia negli ultimi tre giorni circa. Verissimo. Però le situazioni dei due Paesi, Italia e Australia, sono pressoché imparagonabili. Intanto per il numero di abitanti delle rispettive nazioni: oltre 60 milioni contro circa 25 milioni (questi ultimi, tra l’altro, distribuiti in un’area immensa). Poi perché Roma ha una situazione economica ed esigenze ben diverse di quelle cui deve tener conto Canberra. In ogni caso, il modello australiano si basa su tre capisaldi: ridurre quasi allo zero i nuovi casi di coronavirus, scongiurare la diffusione del Covid in aree no Covid – limitando gli spostamenti locali – e chiudere, localmente, non appena emergono focolai. Se fossimo in un laboratorio, impegnati a fare un esperimento, questa strategia sarebbe sicuramente la migliore (per dirlo non servirebbero neppure troppi studi specifici). Ma la realtà è ben diversa. Ci sono tante variabili da considerare, e limitare socialità, vita quotidiana e lavorativa fino a quando non si arriverà a “zero casi”, appare un pericoloso miraggio. 

"Vaccini poco efficaci", "Non è vero": rissa tra Galli e Burioni. Valentina Dardari il 9 Maggio 2021 su Il Giornale.  Ancora uno scontro a distanza tra virologi. Da una parte il rigorista che predice una quarta ondata, dall’altra il prof che vuole dati scientifici. Massimo Galli, responsabile di malattie infettive all’ospedale Sacco di Milano, proprio non ce la fa a essere ottimista. Adesso addirittura è arrivato a dire che i vaccini che abbiamo e stiamo utilizzando non servono ormai a nulla perché sono superati. Altro che terrorismo, qui siamo oltre.

Galli: "Difficile l'immunità di gregge con questi vaccini". Ospite della trasmissione Otto e mezzo in onda su La7, ha spiegato alla Gruber che “quel che abbiamo ora è un ottimo vaccino per un virus che girava un anno fa in Cina. Il panorama attualmente si è molto variegato e questo rende difficile poter pensare con l’attuale vaccino di raggiungere l'immunità di gregge. Il lavoro pubblicato sul NEJM del 5 maggio dice che il vaccino Pfizer ha il 97% di efficacia per evitare cimitero, rianimazione e ospedale per qualsiasi variante". Ma ecco che arriva la batosta, infatti Galli è subito pronto ad affermare che "se consideriamo l’infezione con la variante sudafricana la percentuale di efficacia è molto inferiore. La domanda è: con questo vaccino otteniamo l’immunità di gregge, riusciamo a non far circolare il virus? La risposta è probabilmente no". Lasciate ogni speranza o voi che vi vaccinate. Secondo l’infettivologo si devono prendere in considerazione le varianti e ancor più la necessità di aggiornare in tempi brevi il tipo di vaccino ora in uso. Senza considerare che Galli, rigorista convinto, è sempre stato contrario fin dall’inizio alle riaperture e crede che il governo Draghi stia rischiando grosso. E con lui, sempre secondo il professore, tutti gli italiani. Quale può essere il rischio? La quarta ondata ovviamente, che a questo punto, secondo le sue previsioni sempre più ottimistiche, interesserà tutti, anche coloro che tra mille dubbi e ansie alla fine si sono vaccinati. In poche parole, abbiamo ancora pochi sieri e quelli che ci sono servono a poco, perché già considerati vecchi rispetto alla corsa delle varianti.

La risposta di Burioni

Il primo a rispondere a Galli è stato Roberto Burioni dell’Università Vita-Salute del San Raffaele, ma siamo certi che presto arriveranno altri virologi a discutere sull’argomento. Il professore ha twittato: “Pfizer ha un’efficacia del 100% nel prevenire la malattia grave da variante inglese o sudafricana (la più temuta). Efficacia altissima anche nella protezione dell’infezione (90% variante inglese, 75% variante sudafricana). Cautela sì, senza basi scientifiche no. Proprio no”. E ha poi rincarato la dose con un altro tweet: “E non dite “voi scienziati della confusione, ognuno dice quello che vuole” perché io ho citato il lavoro di NEJM che supporta le mie affermazioni. Non mettete sullo stesso piano chi dice che 2+2 fa 5 e poi fa notare che fa 4”. Aspettiamo adesso la risposta dell'interessato, sempre che non preferisca soprassedere alle accuse del collega. Tanto Galli è convinto di quello che afferma.

Il rischio estivo. Che i vaccini prodotti da Pfizer, Moderna e AstraZeneca siano stati studiati sul ceppo originale del Covid è vero, e che adesso in circolazione ci siano diverse varianti, anche. Come più volte spiegato dalla scienza, però, i vaccini possono magari avere una efficacia minore, ma difficilmente chi ha ricevuto il siero rischia di finire in terapia intensiva o di morire. Potrebbe però venire contagiato e trasmettere il virus. All’Eco di Bergamo, Galli ha anche parlato del rischio estivo di una risalita dei contagi proprio nei mesi estivi, tra giugno e luglio, quando ormai tutti staremo pensando di sdraiarci al sole. Come ha spiegato, “le riaperture sono avvenute in una situazione in cui molte infezioni erano in giro, non c'era un calo tale da stare tranquilli. Bisogna vedere se l'incremento dei vaccini, di certo non ai livelli di quelli britannici, sarà in grado di compensare le riaperture troppo precoci, almeno ai fini epidemiologici”. A chi credere quindi? Alla Cassandra dei virologi, come dice lui stesso che qualcuno lo ha ribattezzato, o al professor Burioni che con la matematica ha dimostrato di sapercela fare:“Non mettete sullo stesso piano chi dice che 2+2 fa 5 e chi gli fa notare che invece fa 4” ?

Covid, Burioni: “La nuova moda è terrorizzare con le varianti”. Notizie.it il 18/02/2021. Burioni: "Basta terrorizzare con le varianti, ormai è diventata un moda. Pensiamo ai vaccini". Il virologo Roberto Burioni è intervenuto nel nuovo dibattito tra esperti riferito alle diverse varianti del virus presenti in Italia. Il professore di Virologia all’Università San Raffaele di Milano invita tutti, cittadini e colleghi, a mantenere la calma ed ad evitare di considerare la creazione di varianti come un evento innaturale e particolarmente strano. “La nuova moda è terrorizzare con la variante. Vorrei farvi notare che varianti virali emergono continuamente e, fino a prova contraria, non rappresentano un pericolo. Vale per le varianti quello che vale per i cittadini: innocenti fino a prova contraria.”. Poi sulla possibile resistenza di queste mutazione del virus al vaccino Burioni taglia corto e afferma che nulla, al momento, possa far pensare che sia così, anzi. “Dati preliminari sembrano suggerire il contrario, anche se poi naturalmente dovremo vedere cosa succede in concreto. Per esempio, in concreto in Israele la variante inglese è contrastata impeccabilmente dal vaccino”. “Il futuro non possiamo predirlo – scrive l’esperto – ma non è detto che una variante resistente al vaccino possa comparire, pensate solo al morbillo che ha un meccanismo di replicazione del suo genoma a RNA molto più impreciso del coronavirus e questo introduce più mutazioni del coronavirus. Il vaccino contro il morbillo è stato messo a punto negli anni ’60 ed è ancora efficace come il primo giorno”. La nuova moda è “terrorizzare con la variante”. Vorrei farvi notare che varianti virali emergono continuamente e, fino a prova contraria, non rappresentano un pericolo. In particolare non c’è nessun elemento che ci faccia pensare che quelle già individuate.  La strada da seguire è dunque quella della vaccinazione, non dell’allarmismo. Occorre velocizzare e farsi trovare pronti quanto le dosi arriveranno in Italia. “Se ci sono – dice Burioni – somministriamoli, se non ci sono produciamoli, se siamo in ritardo non perdiamo altro tempo. Vacciniamo!”

COVID-19: di nuove varianti e procurato allarme. Piccole Note il 23 febbraio 2021 su Il Giornale. La nuova moda è “terrorizzare con la variante“, scrive il celebre professor Burioni sulla sua pagina Facebook (ripresa poi anche dal Corriere della Sera) lo scorso 17 febbraio. “Vorrei farvi notare – continua il post – che varianti virali emergono continuamente e, fino a prova contraria, non rappresentano un pericolo”. Vale per le varianti quello che vale per i cittadini: innocenti fino a prova contraria. In particolare non c’è nessun elemento che ci faccia pensare che quelle già individuate sfuggano all’azione dei vaccini più potenti. Anzi, dati preliminari sembrano suggerire il contrario, anche se poi naturalmente dovremo vedere cosa succede in concreto. Per esempio, in concreto in Israele la variante "inglese" è contrastata impeccabilmente dal vaccino…”

Lo spauracchio delle varianti e la letteratura scientifica. Non ci siamo sentiti spesso in sintonia con Burioni, ma questa volta riteniamo che abbia messo il dito su una piaga particolare. Ovviamente non possiamo sapere come evolverà il virus in futuro. Ci ricorda, però, il professore che il vaccino contro il morbillo, per ricordarne uno, è stato messo a punto 60 anni fa e ancora funziona, nonostante tale virus sia molto più “mutevole” del Covid-19. Fino a prova contraria le varianti non rappresentano un pericolo nuovo rispetto al precedente, ma un’evoluzione usuale di tutti i virus (basti pensare all’influenza, sempre diversa ogni anno e sempre uguale a sé stessa). È la stessa cosa che l’Antidiplomatico ci racconta nel suo articolo del 16 febbraio scorso, a firma di Rosemary Frei: “Si scopre che il caso della contagiosità e della pericolosità delle varianti si incentra in gran parte sugli effetti teorici di un solo cambiamento che si dice derivi da una mutazione nei geni del virus. E, come mostrerò in questo articolo, quel caso è molto traballante…”. Vale la pena leggere con attenzione l’attenta disamina che l’autore fa delle pubblicazioni scientifiche che si sono occupate finora delle varianti. Questi  “Non-Peer-Reviewed Theoretical-Modeling Papers” sono alla base del diluvio di articoli allarmistici che ci ha sommerso negli ultimi tempi. La conclusione dell’Antidiplomatico è simile a quella del professor Burioni, non si può escludere nulla, ma non ci sono basi scientifiche per terrorizzare ulteriormente tutti noi: “Le dichiarazioni sul grave pericolo rappresentato dalle nuove varianti non sono basate su un solido fondamento scientifico”. “Sembrano mirare più a spaventare il pubblico a sottomettersi a restrizioni più dure e più lunghe che a contribuire a creare politiche realmente basate sull’evidenza… Non lasciate che il vostro ragionamento venga spazzato via dal ciclo di notizie 24 ore su 24, 7 giorni su 7, colmo di paura e allarmismo.”

Procurato allarme. In effetti, in questo tempo pandemico è dilagata la paura. Alla paura reale si è aggiunta quella “percepita”, creata da un’informazione troppo spesso declinata in modalità catastrofista. Non è una novità, dato che il sensazionalismo/catastrofismo è parte integrante del sistema informativo (le notizia tragiche si vendono meglio). Ma l’applicazione di tale registro alle notizie sulla pandemia ha avuto effetti devastanti. A questo proposito crediamo meriti un cenno l’infortunio capitato al professor Galli, virologo di grande fama che si pone ai vertici delle classifiche per numero di interviste e apparizioni in tv. In un’intervista della scorsa settimana, il primario dell’ospedale Sacco di Milano ha dichiarato: “Io mi ritrovo ad avere il reparto invaso da nuove varianti, e questo riguarda tutta quanta l’Italia e fa facilmente prevedere che a breve avremo problemi più seri…”. Tempo 24 ore e un comunicato ufficiale del suo ospedale precisa, per non dire smentisce, quanto riferito: “Nel periodo dal 23 dicembre 2020 al 4 febbraio 2021, sono stati ricoverati 314 pazienti positivi al Covid. I dati raccolti hanno rilevato la presenza di 6 pazienti positivi alla variante UK su un totale di 50 casi che, in ragione delle loro caratteristiche, sono stati sottoposti a sequenziamento”. E ancora: “Si specifica, inoltre che fino ad oggi nel Laboratorio dell’Asst è stata identificata esclusivamente la cosiddetta variante inglese. Al momento, nessun sequenziamento ha evidenziato la variante brasiliana o sudafricana”. Una cosa è il dibattito sul Covid-19 andato in scena in questo lungo anno, con ipotesi catastrofiste opposte che potrebbero avere un qualche fondamento scientifico o meno. Un’altra è dare un’informazione del tutto infondata, che produce inutile panico. Citiamo l’art. 658 del codice penale che definisce i termini del reato di procurato allarme: “Chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti e persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da euro 10 a euro 516″. Non sappiamo se le parole del professor Galli ricadano in questa specie di reato, né entriamo nel dibattito sull’obbligatorietà dell’azione penale (che, per esempio, nel caso di un allarme bomba infondato trova applicazione). Però ci permettiamo di porre domande in proposito. Detto questo, e a prescindere dall’infortunio capitato al professor Galli, e ai tanti ascoltatori del programma televisivo, non possiamo non sperare in una comunicazione più sobria sul tema. Inoltre riteniamo sia ineludibile una seria riflessione sul corto circuito creato dall’eccessivo protagonismo di certi esperti, o sedicenti tali, e dalla deriva sensazionalista di certa informazione, che ha incrementato in maniera indebita il Terrore di questo tempo pandemico.

Lockdown e ossessione: i sani si ribellino contro lo stato di deficienza. Emanuele Ricucci il 16 febbraio 2021 su Il Giornale. Come i ristoratori di Genova che, nel mutismo generale, ieri hanno manifestato in un lunghissimo corteo cittadino di protesta contro il dilettantesco, l’indefinito, l’inesatto o come i proprietari di quegli impianti sciistici che, nonostante i divieti, hanno deciso di rimanere aperti, come in Val Vigezzo. A un certo punto, non si può più fare altro: chi è sveglio si salvi, chi è sano si ribelli – dove per sano non si intende chi non ha contratto o non ha il coronavirus, ma chi ancora vive sulla base di un pensiero critico, chi ancora possiede un barlume di integrità e di reattiva lucidità -. Suvvia, non possiamo essere figli di Balilla e Masaniello, di Cola di Rienzo e trovarci nipoti di Speranza e di Ricciardi. Qualcuno ancora attende Batman, figurarsi…Ricciardi. Ricciardi. Ricciardi non è un modello filosofico, ma un esempio pratico. Poteva essere Speranza, Crisanti o altri, in tal senso, uomini secondo cui noi disturbiamo il virus, non viceversa. Contro (le affermazioni di) Ricciardi perché non si imponga un modello che faccia tremare le fragili gambette italiane, nel Bel Paese con la sindrome di Stoccolma, in cui ci si innamora dei propri rapitori. Dunque, bisogna camminare oltre Ricciardi perché non si generi il Ricciardismo (o il Crisantesimo – forzando un po’ – ancor meglio, effettivamente, come fiori sulla tomba della dignità di un Paese defunto). Contro l’ossessione, l’esasperazione, la colpevolizzazione, l’eccezione, la diminuzione, il terrore mediatico come metodo di governo che non prevede un patto nazionale tra cittadini e Stato fondato sulla fiducia, ma sulla imposizione, spesso acritica. Contro lo Stato di deficienza. Lo Stato di deficienza ha superato quello di eccezione: non ci potete chiedere di comprendere e accettare un lockdown totale in questa condizione, non più. È questione di modalità, non di ristori. Contro la pericolosa abitudine a essere ridotti in vacche stupide, in cittadini de iure e sudditi de facto. In onore di quella libertà verghiana, poco adatta a noi italiani, che si rende vana nell’individuazione e nella personificazione di un odio momentaneo da eliminare con ogni forza, al quale ne segue un altro, e poi un altro e un altro ancora, in un eterno loop, eterno riposo, ma che si mostra, contrariamente, nell’abbattimento del patimento e delle sue radici, nel non permettere a una tendenza umiliante di manifestarsi nel tempo e con forza. I popoli proseguono la storia e devono riconfermare la propria maturità. Le grandi battaglie non bastano. Potevano non ammazzare i notabili a colpi d’ascia, i popolani del verista, ma dovevano impedire eccessi d’ingiustizia a tempo debito. Senza il giusto impiego, anche la libertà può essere insidiosa. Il pericolo, di per sé, non è Walter Ricciardi ma la pigrizia, il vizio antico, il tappeto di buonismo e ingegneria sociale, gli uomini folla che venderebbero anche la madre pur di veder garantita la propria gratificazione istantanea, acefala, continuativa, gente che ha rinunciato a un pensiero critico, segnaposto virtuali, replicanti incapaci di reagire o di generare un dubbio, e sono i dubbi che costruiscono le certezze più durature. Tutto ciò che ha contribuito a impastare, nel tempo e da diverse direzioni, il ruolo di Ricciardi o, quantomeno, gli ha permesso di utilizzare quei modi e a generare i prodromi di un pericoloso Ricciardismo. Di carciofini sott’odio, direbbe Longanesi, che frignano libertà dall’imposto, altrimenti, non ce ne facciamo nulla. Il Ricciardismo. No, tutto non è ora, nonostante si viva compressi in compromessi, tra le pareti tonde e finissime del puntillistico, ricorderebbe Bauman, nella dittatura dell’attimo in cui prosperano i tecnici e i dilettanti senza visione, nel regime dell’immagine-verità, a cui non occorre mediazione, né ragionamento, poiché è visibile e manifesta, quindi assolutamente vera, nel regime del “titolo senza articolo”, in quella dimensione in cui l’identità, la necessità, la rabbia vengono plasmate dall’alba al tramonto, poi si spengono e ripartono. Estrema velocità di fuga e decomposizione. No, tutto non è nel punto. Tutto non è ora. La storia non non è un punto. Dunque, oltre Ricciardi, contro il Ricciardismo. Perché non prosperi la modalità attuale, perché non sia abitudine, perché non sia rassicurante sogno bagnato di chi ha mandato il cerebro in pensione. Contro lo Stato di deficienza, appunto. Di mancanza, di stupidità. Sono qui a scriverlo perché mi sento deficiente, ma forse lo sono di mio credendo che questi pensieri servano a qualcosa. Azzoppato, impossibilitato, annientato. Noi, atomizzati. Isolati, con estrema pace di John Donne, la cui grazia poetica suona come le urla di una violenza in un vicolo: “ Nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. Rinchiusi nel puntino concesso e arredato di miseria, caduta in disgrazia di chiunque: qui non si salva più nessuno, le tasche e la mente. Puntillistico, nell’identità d’emergenza, limitatissima, che si crea all’alba e muore al tramonto, in un punto del tempo e tanti piccoli punti che ogni giorno i media, i virologi e il governo apre e chiude. Ed entro cui siamo stati infilati a forza, grassi, magri, ambiziosi, appassionati, espansi o ristretti, in estasi e sulla cresta di una vita che, finalmente, cresceva, finalmente ti dava quello per cui avevi studiato o lottato per anni e che, ora, ti ritrovi tra le mani come un pène secco al momento di portarlo a urinare. Non sappiamo cosa farcene di una vita così. In tempo di guerra prospera la poesia, si genera l’arte, che è riflessione sulla vita accesa e sulla vita spenta, non solo le risposte tecniche a dubbi tecnici. In tempo di guerra strillano i soldati che poi eseguono il loro compito, certamente, ma in quanto uomini, ancora, seppur certe volte più simili alle foglie ungarettiane, si disperano. E invece voglio lasciare solo due riflessioni: chi è sveglio si salvi, chi è lucido reagisca, chi è sano si ribelli, affinché si blocchi il processo di Ricciardismo (nel tempo) e non tanto, o non solo Ricciardi (punto momentaneo). Non c’è altro da fare. Si comincia a sentire il peso specifico dell’impotenza, ora per davvero. Dell’insulto, dell’offesa, si comincia a sentire cadere le ultime, appena accennate, certezze. Si sentono esaurire le riserve. E monta la paura dell’ignoto, non quello sociale. Quello interiore, quel buio privato che diventa abisso e che più lo fissi, più esso fisserà te, disse qualcuno. Contro lo stato di deficienza. Stanchezza. Stanchezza di essere trattato come una stupida vacca da spostare a destra o a sinistra quando minaccia il temporale. Dentro la stalla, fuori dalla stalla. Cagano anche, Ricciardi o Crisanti o chi per loro, le vacche cagano. Defecano. Defecano vita quel che ormai viene considerata merda. Al nuovo governo dico, dopo un anno di rispetto delle regole, mai acritico, ma lucido e ossequioso di chiunque altro intorno a me: se chiuderete tutto, mi troverete per strada. In mezzo alla strada. A fare l’inutile vivo impazzito, meglio di un utilissimo replicante coglione. Nessuno si salva da solo. È ora, forse, di cominciare a concepire che dopo il reddito di cittadinanza dovrebbe esistere la dignità di cittadinanza e quella, ahimé, non è garantita dallo Stato. E quindi, occorre rendere carne l’immagine secondo cui anche la nostra generazione, come per ogni altra, deve assumersi il peso delle proprie responsabilità agli occhi della storia, almeno la propria porzione. Intanto, dopo qualche fugace riflessione, qualche breve domanda. Esattamente dov’è il piano vaccinale? Da mesi non si può uscire di casa dopo le 22.00. Dove sono le statistiche, i numeri, che attestano che tutto questo sia servito a qualche cazzo di qualcosa? Chiudete la finestra di Overton. Si crepa. Dal freddo.

Un anno di lockdown, un anno di insopportabile umiliazione. Ora basta! La vita non è un crimine. Emanuele Ricucci  il 4 marzo 2021 su Il Giornale. Un anno come una botta in testa. Confusione, smarrimento. Vi vengono richiesti solo cinque minuti del vostro tempo agli arresti domiciliari. Un anno fa, abbiamo imparato a misurare il peso della libertà in un tempo che si crede libero perché può permettersi pressoché qualsiasi cosa: che fiacca minchiata. Libertà è partecipazione. Come, di grazia, stiamo partecipando a quanto accade, a quanto ci sradica da ogni diritto? Qual è la partecipazione in un anno di editti del faraone, Dpcm, di decisioni politiche che, ormai, esulano da un sostegno scientifico, piste da sci chiuse in mezz’ora, senza preavviso? Qual è la partecipazione in Dpcm che, fino a l’altro ieri, venivano emanati senza consultare il Parlamento, luogo ridotto a nonluogo, da tempio a scempio della democrazia? Abbiamo mai constatato se la nostra sofferenza, se qualche nostro grido di allarme, di paura, di sfinimento costituzionale sia mai realmente preso in considerazione da chi ci governa per orientare il giorno? Questa è partecipazione? Questa è libertà, forse? Chi crede lo sia, vive la sua percezione dovuta alla realizzazione nell’egoismo individualista. Banalmente, vivere murati in casa con l’abbonamento di Sky rinnovato NON è libertà. E sì, ognuno di noi, da un anno o da una vita, per un virus o per altro, conosce il sacrificio. Non è vizio, né capriccio. Un anno fa, abbiamo imparato a concepire che la vita non solo può essere un’eccezione ma che può persino trasformarsi persino in un crimine. La vita. Un anno fa, abbiamo imparato il senso della colpa e della vergogna, nudi di fronte alla nuova divinità, nel nuovo peccato originale della religione dell’umanità, come direbbe Jean Louis Harouel, che deve redimersi solamente da sé stessa e dai propri peccati, senza più alcuna mediazione divina. Culto sostitutivo che dichiarava l’avvento del Dio Vaccino e della Scienza Vergine – diffusa dagli apostoli del Cts e dai virologi suoi profeti -, sempre intonsa e maestra di vita, dea delle coscienze, ispiratrice unica degli atti degli uomini. C’ha trovato nudi e colpevoli, intenti a credere in un Dio, a chiedere la Pasqua, a fare frizione con un pensiero critico, a possedere una volontà e uno spirito, a rompere i coglioni con la voglia di vivere. Nulla di più sbagliato: la scienza ti salva, pupazzo. Stai zitto e lasciati salvare, sempre. Non la scienza dei chirurghi, benevola, ma l’Altissima scienza che diventa politica e governa la polis, la plasma, ne indirizza le abitudini, il credo privato, i sentimenti; non la giusta prevenzione, ma la soffocante precauzione, il principio di precauzione, dalla culla, alla tomba. La Scienza che ci ha rivelato quali finestrini aprire in auto per non contagiarci, come fare l’amore, come masturbarci, come mangiare, cosa, quando e con chi al pranzo di Natale. La priorità del corpo sullo spirito e sui suoi prodotti. Il corpo è sacro, lo spirito, ora, è un ammennicolo inutile. Un anno fa, abbiamo ricordato a noi stessi il valore dei nostri medici e del nostro talento. Un anno fa, abbiamo imparato cosa significa fare a cazzotti col proprio daimonion: acquisizione di un senso di responsabilità che giunge in quel tempo in cui basta frignare diritti e correre sotto il manto progressista della Madonna della Pietà per essere protetti e rassicurati; abbiamo scoperto la sismicità antropologica, uomini vibranti nell’incertezza costante, incapaci di essere sovrani di sé stessi; abbiamo fatto macerare la paura così tanto da trasformarla in angoscia, che corre all’infinito, e ora siamo pronti a essere perfettamente grigliati nella fragilità. Ansia, depressione, panico, giovani generazioni accoltellate mentre correvano. Emergenza psicologica, oltreché economica, costantemente ignorata. E poi ci lamentiamo se il loro canto è la Trap, graffiato e graffiante, gronda sangue rabbioso di isolamento in un sogno di potenza che non si realizza, come una richiesta indiretta di aiuto. TRAPpola. Un anno fa, il rapporto Stato-cittadini è mutato: dalla fiducia, alla paura. Stato liberamente illiberale. Lo Stato è stato. Un anno fa, abbiamo misurato esattamente il peso della mediocrazia, ovvero del governo dei mediocri – che giunge nuovo per la postdemocrazia -, in una interminabile favola che parla di un Conte e di Draghi, di giullari e buffoni di corte. Dagli scranni moriremo scannati. Scannati senza un soldo, scannati senza più sangue. Un anno fa, abbiamo imparato quanto la più grande battaglia del nostro tempo non sia più ideologica, ma antropologica: la grande battaglia, per chi vorrà concepirla e combatterla, contro l’autoannullamento degli uomini, della loro integrità. Abbiamo imparato a conoscere gli aborti umani, i mai nati come uomini, figuriamoci come politici. Un anno fa, o meglio, nel corso di un anno orribile, abbiamo sentito un ex commissario all’eterna emergenza pandemica affermare che con il vaccino sarebbe terminata la pandemia. Ad oggi, i vaccini spopolano, ma non in Italia, dove tentenna ancora un piano vaccinale degno di essere chiamato tale. Un anno fa, avremmo dovuto attrezzarci, capendolo subito, per una reazione a ciò che accade un anno dopo (METTETE VOI IL PENSIERO). Un anno fa, abbiamo lucidamente compreso che non esistiamo come nazione, men che meno come popolo, ma che ne manifestiamo gli stereotipi – credendo possa bastare per essere tale -, i baffineripizamandolino dai balconi festanti. Abbiamo acquistato di gran furia il tricolore al negozietto cinese sotto casa a un euro e venti, per incarnare l’atto dimostrativo di un canto dalla loggia, abituati a non essere grati, evocando Ortega Y Gasset, a chi l’ha costruita la Civiltà – e lì c’è un popolo -, che però ci godiamo pienamente. Cento anni fa, potevamo pure dire ai ragazzi del ‘99 di tornare al paese in Calabria a fare l’amore con le fidanzate, a questo punto. Anche loro cantavano e avevano un tricolore. “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”, ci dirà Armando Diaz. Un popolo per dirsi tale ha bisogno di un rito che ne rigenera l’essenza nel tempo, specie nell’epoca della negazione degli Stati come nazione. Quel rito, quasi sempre, ricorre nel dramma e nell’oppressione, nel tempo di guerra. Nel tempo di pace non esistono popoli, ma solo persone indaffarate o felici; nel tempo di guerra, ogni virtù nazionale, se esiste, viene richiamata ad esistere e a confermarsi. Momenti fondativi della Patria vanno rigenerati per riconoscersi ancora come tale. Da cittadini a coinquilini. Nessun destino che taglia il tempo pare più unire questa gente, non vi è più interesse, quindi, in una communitas, che richiama il dovere, il debito, il dare, ma in un individualismo di sopravvivenza, che ci rende spietati, delatori, colpevolizzatori: faremmo qualsiasi cosa per garantire le nostre necessità di sopravvivenza. Aprite i porti ma sparate al mio vicino. Losco presente agambeniano di una massa fatta di unità abitative distanti ma unite nei nonluoghi della protesta inconcludente, dei social network, nella illusione della partecipazione e del potere globale. Sottolineatura orwelliana: piuttosto che finire ancora nella Stanza 101, prendete i miei tre figli, ammazzatemeli davanti. Farei, io, ego, qualsiasi cosa pur di non tornare la dentro. Un anno fa, abbiamo visto la materializzazione della nuova forma umana, gli uomini folla. Uomini folla che occupano solo spazio e si spostano l’uno sull’altro, come brulicare di vermi in busta, per riempire i vuoti creati dall’ingegneria politica, come zone pasturate in cui fare gran cattura di consenso. Vuoti e pieni, vuoti pieni solo del loro vuoto, come le dichiarazioni dei virologi, l’eterno lockdown ricciardiano, l’eterno terrore galliano, crisanteniano. Uomini folla che vivono di gratificazione istantanea, nella dittatura dell’immagine-verità, nella negazione del processo complesso e profondo che genera la ricerca della verità, tutto si materializza come vero quando si vede, e poco importa cosa c’è dietro. Ciò che si vede è l’esistente, e basta. Dittatura dell’immagine, quella sì, che passa per gli occhi per fottere le anime. Uomini folla replicanti, sterilizzati, incapaci di reagire, che si accontentano della vita puntillistica – memorie di Bauman -, in cui ogni giorno è in un punto, in un punto stretto che genera nuove voglie, necessità, stimoli, paure, emozioni, dall’alba al tramonto, identità portatili, volatili, virologiche, politiche, terroristiche. Dall’alba al tramonto. Uomini folla che non riescono a nutrire dubbi, a mettere in discussione, neanche di fronte a contraddizioni o stronzate così spesse che chiunque ci sbatterebbe la testa: “mai col Pd, mai con Forza Italia al governo. Mai quello con cui sto governando”, suona il cielo rimasto con sole Cinque Stelle; “avremo 150mila persone in terapie intensiva se vi permettete di vivere”. 150Mila. Un anno fa, abbiamo imparato a capire che siamo noi a disturbare il virus e non viceversa. Un anno fa, abbiamo imparato a comprendere che nessuno si salva da solo. Che si salverà da questo infinito pandemico, solo chi rimarrà lucido. Abbiamo imparato, forse, quanto un pensiero critico, la generazione di dubbi, il ragionamento sopra le cose, che distinguono il reale dal surreale, il luogo dal nonluogo, la libertà dalla schiavitù, la dignità dall’indegno vivere come runner nazisti colpevoli di ogni cosa, siano fondamentali per campare. Ossigeno. Non basta l’assenso. Non basta indossare una salvifica mascherina. Un anno fa, abbiamo imparato a capire che, un anno dopo, siamo al punto di partenza: zone rosse, aria di lockdown, infinito pandemico che si materializza nelle due parole sante: varianti e ondate. Ondate di varianti, varianti di ondante, terza, quarta, quinta. Parcheggiati nel coprifuoco – della cui utilità ancora qualcuno dovrà spiegarci qualcosa – per l’incapacità della politica di farci vaccinare in fretta e in gran numero. Non si può chiedere alla psicologia sfinita, devastata degli italiani di resistere ancora, ancora e ancora, chiedere ulteriori e dannosi sacrifici, quando i vaccini non arrivano. Un anno fa, ci hanno fatto caricare sulle spalle l’intero peso del dramma, intero. E ce lo hanno anche fatto pesare, più del previsto. Runner, movida, giovani, voglia di vivere una vita appena decente che loro ci concedono per poi punirci dello sfruttamento della concessione concessa, mentre in molti si sono iniziati a chiedere: lo Stato ha condiviso con noi questo peso? Ha potenziato i protocolli per le cure da casa, ha sostenuto il meccanismo dei medici di base, ha seriamente rafforzato il sistema sanitario con nuovi macchinari, operatori e strutture? Ha creato un efficiente piano vaccinale, veloce, organizzato, efficace? Ma soprattutto, su tutto, lo ha fatto nei tempi giusti – penso all’estate del 2020, mentre Di Maio consumava rapporti vaginali nell’acqua di mare -? Un anno fa, abbiamo imparato a capire che una partita Iva, per questo Stato, un lavoratore autonomo, un negoziante, un imprenditore privato, e tante altre figure di questo nostro variegato teatro, vale quanto il fango sotto le scarpe. Un anno fa, abbiamo imparato che cinema, teatri, palestre, musei, sono l’inferno, luoghi di inutile frequentazione, disastro e perdizione, vero? Giusto? Un anno fa, e sempre più in questo anno maledetto, abbiamo imparato la sfiducia verso l’altro, la distruzione della coesione sociale, la normalizzazione dell’istituzione e la realizzazione del sogno bagnato sessantottino, la distruzione dei modelli di autorità, diventati pop, gossip e voyeurismo, selfismo militante, quella life politics che si abbassa verso le emozioni e gli istinti popolari per mangiare consenso, ogni giorni di più; abbiamo imparato che, questo, è un mondo già morto, che ha terrore di bambini e ragazzi, oggi, pare, sempre più appestati portatori del contagio. Un anno fa, abbiamo imparato a capire che va rifondata, anzitutto, una classe di uomini, non solo di politici. In un anno non abbiamo ancora imparato a capire che come per tutte le altre generazioni ora tocca alla nostra portare il peso della propria porzione di responsabilità sulle spalle, se vogliamo essere degni della storia e non di un racconto di fugace imbarazzo. Responsabilità che significa certamente prevenzione, tutela della salute propria e altrui ma che di fronte, ad esempio, al terrorismo virologico e mediatico, si incarna anche in una reazione che non sia accettazione aprioristica della nuova normalità, felici in mascherina, danzando con la morte, nella tana del coniglio dalle 22.00, ai soprusi, al modo di essere trattati, alle decisioni esclusive della politica, talvolta ingiustificate o scellerate. Un anno fa, abbiamo imparato cosa significa essere trattati da figli stupidi. Un anno fa, nel corso di un intero anno ad oggi, abbiamo imparato molte cose. Ma un anno dopo esatto mi chiedo, cosa abbiamo imparato davvero? Come siamo cresciuti? Cosa potevamo fare? Cosa possiamo fare? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione a questa umiliante degradazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? Perché non c’è reazione? L’assurdo, l’irrazionale, i banchi a rotelle. Primule rosse. Un grido di dolore. Se volete, ancora, ingozzarvi di dati da rivomitare nella illusione che serva a qualcosa, andate a leggere altrove. Non di soli dati muore la nostra dignità. Cretino io che ancora credo sia possibile smuovere la benché minima riflessione scrivendo, coinvolgendo in un dramma che non è privato, né isolato. Ci nutrono a spazzatura, come i gabbiani. Non c’è neanche più il buon gusto dell’asservimento. Manifesto di un anno di vita criminale.

Roberto D’Agostino per VanityFair.it il 28 febbraio 2021. "La notte è la cosa migliore che possa accadere al giorno. La notte è più colorata”, scrive Vincent van Gogh. Massì: nella notte passiamo la metà della vita. Ed è la metà più bella davvero. Perché la notte è come la gomma, è di un’infinita elasticità e morbidezza, mentre il mattino è affilato come una ghigliottina. E’ di notte che si percepisce meglio il brusio dell’anima, il frastuono del mondo. E’ di notte che il cambiamento dei costumi sociali s’impone. E’ la notte che racconta al meglio quello che sta succedendo alla nostra vita, più di qualsiasi saggio sociologico. La notte è la notte, è la pandemia l’ha cancellata trasformandoci tutti in babbei di Netflix e Amazon Prime mentre il mondo diurno fa venire i lucciconi. Se possibile, è orribile. Quando va bene, rema contro. Una valle di divieti che il governo colora un giorno di rosso, se va bene di arancione, magari si trascolora in giallo. Invece la notte può tutto, anche trasformare la Coca in Pepsi, Barbara D’Urso in una attrice, Giuseppe Conte in un premier. Il segnale più diretto del cambiamento degli stili di vita, la propria smania di godere la vita, la voglia di piacere e di nuovi piaceri, dalla tavola al viaggio, imponendo nuove regole dello stare insieme, è sempre arrivata al calar delle tenebre. Ora alle 22 cala la mannaia sulla vita. Senza la notte non abbiamo nulla da raccontare, da un anno la nostra vita si è interrotta e di colpo tutto ciò che, appena un anno fa ci appariva così orribile, così sfatto, così volgare, così ultracafonal, oggi pagheremmo per riaverlo davanti agli occhi. Il Covid ci ha disumanizzati, intartarughiti, sformati, rincitrulliti, resi spietati e disperati, in vendita sul mercato, tagliati fuori dalla vita che vorremmo riavere tutto, di più: il puttanesimo di sottosegretari escort principi vegliarde marchette capipartito capimafia gran signore notai petrolieri stripteaseuse mogli eccellenti cardinali cani sarti modelle! Tutti insieme, milionari e indigenti imbucatissimi, famosi e ignoti che si sentono noti, di Destra, di Sinistra, di Centro, di tutto, tutti apolitici, tutti fratelli! Il peggio del peggio di disperati e inguardabili che non si sono mai vergognati di portare miniabiti a ottant’anni, di farsi mettere un paraurti al posto della bocca, di ficcarsi le tartine in gola al pari di una pillola, di aprire la giacca su tette smodate, sempre a divertirci, vip tra vip! Vi ricordate il manifesto dell'Edonismo berlusconiano? "Gli sfigati non esistono. Esistono solo dei diseducati al benessere".  Torna Bunga Bunga, tutto è perdonato! Il ricordo di quel mondo cafonal implacabile e disperato, mentre guardiamo rimbambiti serie e talk, ci ritorna adesso in mente da incubo a sogno, come una Festa Mobile da battito animale, un bordellone a cielo aperto, e non spingete, c'è una discoteca per tutti. Perché la notte porta con sé non solo trash & flash, ciarle e ciarlatani, cloni e coglioni, ma sa mescolare anche la tecnologia con il gioco, il potere politico con la seduzione, il sesso con il piacere, il divertimento con la vita. Sedotta da una ideologia zero che preferisce l'immagine alla cosa, la rappresentazione alla realtà, anche se in forme mascherate da Kitsch sfrenato. Come alpini reduci e combattenti, quelle notti che ci apparivano come il degrado dell’occidente, oggi, impiombati dal virus, si trasfigurano in una Belle Epoque immaginaria.

Filippo Facci contro Massimo Galli e Walter Ricciardi: "Troppo allarmismo. Risultato? Gli italiani se ne fregano e vanno in giro".  Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 febbraio 2021. Siamo al punto che annunciare una neo zona gialla la candida subito a ridiventare arancione, perché la gente non ne può più, anticipa i tempi e va in strada perché era caricata a molla da mesi. È così: ormai tanti italiani tendono a fottersene perché l'eccezionale è diventato ordinario, in tv straparlano e dicono ogni cosa, il periodo eccezionale sta rubando anni di esistenza. L'ego dei virologi televisivi crea contraddizioni, annunci di apocalisse o di bonaccia virale, sdrammatizzazioni spicciole o ipoteche sul futuro dell'umanità. Nel dubbio, in tanti sono stanchi e si fanno interpreti di quella parola imparata l'anno scorso: assembramento, ex struscio, ex casino in centro.

Come ci siamo arrivati? In principio fu l'ignoranza, fu il non capire che quelli là non erano impazziti, non stavano scherzando: stavano davvero serrando tutta l'Italia, chiudendo quasi tutti i negozi, stavano dicendo che occorreva mettersi delle mascherine come i chirurghi, e possibilmente non uscire. In tv scorrevano dati sui morti e parlavano degli scienziati dai nomi complicati, però è anche vero che questo «covid» era una cosa che colpiva soprattutto al settentrione, soprattutto nel milanese e nel bergamasco e nel lodigiano, i dati confermavano, ma c'erano pure quelli che «Milano non si ferma» e Bergamo neppure, ergo, nel meridione e nel centro Italia, sì insomma, si usciva lo stesso anche perché dài, morivano solo quelli di 120 anni. Poi crebbe una relativa consapevolezza, anche perché i notiziari mostravano un'Europa contaminata a sua volta in cui erano scattati gli stessi riflessi di chiusura e asocialità, anche avvolta da una confusione totale in cui ciascuno faceva a modo suo e diceva cose diverse. Però, da noi, prese anche piede un riflesso quasi ludico e stare in casa a non fare un cazzo, e in fondo parve quasi divertente, perché lo facevano tutti e perché c'erano i deficienti che cantavano dal balcone, quindi i concerti dai terrazzi, canzoni rigorosamente terrone cantate da interi quartieri, disegni con l'arcobaleno, e torce, le lampadine, le candele, i telefonini accesi, gli applausi collettivi, campane che suonavano, tutto quello che fa della mancanza di sobrietà un segno distintivo del made in Italy. Sui media circolavano scandalizzate fotografie di assembramenti irresponsabili e mezzi pubblici stipati, come se alcuni, compreso lo Stato, predicassero bene e razzolassero male. Era anche vero. Cominciarono persino i complottismi sui diritti civili violati, sull'importanza dell'istruzione, c'erano bambini che dicevano di voler andare a scuola (gli unici seriamente malati) e il famoso bollettino delle 18, coi dati sui morti e i contagiati, cominciò a stancare anche perché era la stessa ora delle sceneggiate dai balconi, suvvia, dovevano piantarla di spaventare la gente.

Cinici e stanchi - Ma bastarono un paio di settimane per ammosciare le pagliacciate, per evidenziare che la lettura dei dati era divenuta disorientante, il criterio-arlecchino per calcolare i contagiati cambiava da regione a regione e ancor più da nazione a nazione, si comprese lentamente che i contagiati erano sicuramente molti di più, e anche i medici di base dicevano che tanta gente moriva anche fuori dagli ospedali, a casa, in attesa di ricovero o fuori dal pronto soccorso. Gli italiani si fecero più stanchi, più cinici, più intolleranti, incattiviti ma pure spaventati perché qualche conoscente malato o col genitore morto cominciarono ad averlo in tanti. Nessuno aveva più voglia di rassicurare dicendo che «finirà bene», anzi, c'era chi invocava la pena di morte per chi metteva a rischio la vita degli altri e i famosi assembramenti scandalizzavano ancora. Fortuna che venne l'estate e la grande rimozione, la grande irresponsabilità e incompetenza di ministri che scrivevano libri sulla guarigione del Paese (ministri che incredibilmente sono ancora lì) ma che sfociò, dall'autunno, nel colpo di grazia finale sull'umore degli italiani e sulla credibilità di politici, delle task-force, dei comitati scientifici, dei virologi portasfiga e, soprattutto, sull'autodisciplina di chi, in mesi di asocialità, si era abbruttito dentro e fuori. Il Censis fotografò la più brutta Italia del Dopoguerra con lo sfondo del Coronavirus e con l'impennata dei favorevoli alla pena capitale (quasi uno su due) e uno slogan che riassumeva una psicologia collettiva: «Meglio sudditi che morti». Il 2020 era stato l'anno del terrore che aveva innescato una malcelata paura del futuro, ma anche una stanchezza e una noncuranza (ci si abitua a tutto) che dopo l'infelice invenzione del semaforo governativo (zone rosse e arancioni e gialle) non fece più cogliere una netta distinzione tra zone e periodi diversi: c'era sempre l'impressione che in giro ci fosse comunque gente - neanche più travestita da runner o con l'immancabile cane - e c'erano sempre più auto e biciclette e maledetti monopattini in circolazione, tutti andavano a lavorare non si sa dove e come.

Punto di non ritorno - Gli italiani si tenevano il governo Conte come ci si tiene un herpes, la socialità era ai minimi storici e la tensione «securizzatrice» non aveva prodotto solo un crollo verticale del Pil, ma aveva imbolsito un già scarso orgoglio civico e democratico. L'individualismo era divenuto un buon alleato del virus, unitamente ai problemi sociali di antica data, alla rissosità della politica e ai conflitti istituzionali. C'era gente impoverita e rovinata per davvero, la frattura tra i garantiti e i non garantiti era peggiorata, i commercianti non capirono più la logica di chiusura e apertura degli esercizi, le eccezioni e le regole, per quale ragione si poteva cenar fuori a mezzogiorno ma non la sera. Ormai la pelle dell'italiano si era inspessita e resisteva anche ai più strenui tentativi di terrorizzare gli italiani. All'inizio del 2021, dopo infiniti annunci di «fasi» e varianti e lockdown a gravare come spade di Damocle, l'insicurezza e l'allarmismo e il panico sono diventati indolenza e, facendo spallucce, gli italiani sono tornati definitivamente indisciplinati o forse più fatalisti. Il consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi, coi suoi preannunci di tregenda, ha fatto incazzare un po' tutti. Gli immancabili virologi mediatici (da Roberto Burioni a Massimo Galli ad Andrea Crisanti a Giorgio Palù a Ilaria Capua ad Alessandro Vespignani ad Alberto Zangrillo, per dirne alcuni) hanno cominciato a sembrare solo delle vanesie sibille, gente che magari non vede nemmeno più i pazienti - che è parzialmente falso - ma che hanno il tempo di curare pagine social seguitissime e di scrivere libri. Assembramenti e risse, complici i weekend di bel tempo, non hanno più fatto troppa distinzione tra settentrione e meridione. Ad accomunare tutti solo una cosa: si infrange la legge, ma rigorosamente con la mascherina. Solo i bambini e gli scolari la odiano ancora: perché sono i più sani anche di mente.

"Ospedale vuoto", "Non sei un virologo": rissa Zangrillo-Galli. Francesca Galici il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. Alberto Zangrillo ha condiviso con un tweet la soddisfazione del pronto soccorso vuoto da pazienti Covid ma è scontro con Massimo Galli. È scontro tra Alberto Zangrillo e Massimo Galli. Il primario dell'unità operativa di Anestesia e rianimazione generale e cardio-toraco-vascolare ha condiviso sui social la notizia del pronto soccorso dell'ospedale San Raffaele senza malati Covid. Contro di lui si è schierato Massimo Galli, primario dell'ospedale Sacco di Milano. Non è la prima volta che Alberto Zangrillo viene contestato per le iniezioni di fiducia al Paese supportate dai dati di fatto e dalle evidenze in presa diretta del suo ospedale. Nel mirino di Zangrillo sono finiti i giornalisti o, meglio, quei giornalisti che fin dall'inizio dell'epidemia hanno criticato il suo operato e hanno calcato la mano sulle notizie tragiche del nostro Paese, spesso per ragioni politiche. "Cari Signori Giornalisti, questa mattina il Pronto Soccorso #COVID19 del San Raffaele è vuoto. Vaccini, ricerca e soprattutto cure corrette e tempestive fanno la differenza", ha scritto Alberto Zangrillo in un tweet che ha raccolto oltre 3.7 mila like e tantissimi commenti, la maggior parte dei quali positivi.

La critica di Galli. "Non mi piace contrappormi ai colleghi, sono stanco. Il professor Zangrillo fa egregiamente il rianimatore, ma meno l'epidemiologo o il virologo, e ha un altro approccio. L' impressione è che questo tipo di messaggi non tenga conto di una serie di fenomeni che stiamo vedendo e sono sconcertanti, come ad esempio la crescita delle infezioni in Germania. Dobbiamo essere cauti anche se sta arrivando l'estate", perché "tantissimi dei non vaccinati sono in una fascia critica", ha tuonato Massimo Galli ospite di Sky Tg24. Massimo Galli e Alberto Zangrillo nell'ultimo anno sono spesso arrivati allo scontro dialettico.

"Messaggio di grande ottimismo". Alberto Zangrillo negli ultimi mesi ha ridotto le sue apparizioni sui media rispetto alle prime settimane di epidemia. Sono poche le interviste rilasciate dal primario dell'ospedale San Raffaele, che dopo il tweet di questa mattina ha spiegato le sue posizioni all'Adnkronos. "La terapia più efficace contro il coronavirus Sars-CoV-2? Si chiama medico di medicina generale. E spero che a questa figura sia riservato un ruolo di grande responsabilità e prestigio nelle sfide che in futuro la medicina ci proporrà", ha spiegato Alberto Zangrillo, sottolineando l'importanza della medicina di territorio. Per il professore, questo aspetto è talmente importante da richiedere studi specialistici: "La Medicina generale dovrebbe essere una vera e propria specializzazione dopo la laurea magistrale". Il primario, quindi, spiega: "Il mio vuole essere un messaggio di grande ottimismo. Chi vive in ospedale ha dei parametri monitor che consentono di capire prima se il tempo volge al bello. E questi sono per esempio la tipologia di pazienti che giungono in Pronto soccorso: quando vedi che le forme gravi sono drasticamente diminuite, inizi a sperare che le cose vadano meglio". Guardando al futuro, prendendo spunto dalle lezioni imparate dall'epidemia di coronavirus, Alberto Zangrillo ha concluso: "Fondamentale è proprio la collaborazione strettissima, il colloquio quotidiano fra medico di medicina generale e struttura ospedaliera. È impensabile che nell'era moderna, nella medicina moderna, la digitalizzazione e la telemedicina non favoriscano questo rapporto. È prioritario farlo".

Liti, allarmi e visioni opposte. Quei virologi sempre in tv. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 17/2/2021. Il professor Massimo Galli, per dire (non uno qualsiasi: ma il responsabile Malattie infettive del Sacco di Milano). È ormai un anno che si collega da un luogo imprecisato, avvolto da una penombra cimiteriale, una stanza stretta piena di libri forse polverosi, sembra quasi di sentirne il tanfo e comunque lui da quella stanza davvero non esce, si cambia la cravatta ogni giorno, questo sì, ma non esce, nel nostro immaginario covidoso ormai vive segregato lì: e da lì prevede, esamina, annuncia, talvolta intervenendo addirittura in due programmi tivù contemporaneamente (pur di averlo come ospite, pensate, gli autori di un talk si sono umiliati al punto d’accontentarsi di qualche dichiarazione registrata). È una frase enorme, drammatica. Ma quanti sono i suoi ricoverati? Di quali varianti parla? Perché poi c’è invece Fabrizio Pregliasco, un altro virologo dell’università Statale, anche lui autorevole, credibile, che condivide l’allarme di Galli ma suggerisce di non chiudere, teme che i nostri animi siano minati: «Socialmente — spiega — sarebbe un colpo troppo forte». Siamo chiusi in un frullatore. Tivù, giornali, web, radio. Epidemiologi, virologi, anestesisti, entomologi esperti di zanzare, tutti diventati famosi con questa pandemia, tutti docenti, professoroni, quasi tutti luminari dei rispettivi campi, non si rassegnano all’idea di tornare nell’anonimato dei laboratori e delle corsie e ogni santo giorno ci fanno conoscere la loro opinione. Domenica sera Gualtiero Ricciardi detto Walter, il consulente del ministero della Salute, invece di chiedere un incontro riservato a Roberto Speranza, il suo ministro — come prevede la grammatica elementare di certi rapporti — è andato da Fabio Fazio a dire che lui chiuderebbe il Paese per altre due, tre, quattro settimane o anche di più, inutile essere precisi, poi si vedrà. La sua ospitata rotola pericolosa nelle case, tutti hanno alzato il volume: scossi noi, ma scossone anche per il nuovo governo, che si prepara a chiedere la fiducia in Parlamento. Va bene quello che fa e dice Andrea Crisanti? Il 20 novembre scorso se ne esce così, sempre con la sua aria un po’ rassegnata e un po’ pedagogica, tipo: io vi avverto, sono cose che capirebbe anche un bambino, poi fate come vi pare. «Normalmente ci vogliono dai 5 agli 8 anni per produrre un vaccino. Per questo, senza dati a disposizione, io non farei il primo vaccino che dovesse arrivare a gennaio». Inevitabile, si scatena il panico. Se lo dice Crisanti (perché lui è un altro fisso sul teleschermo). Crisanti mio, m’hai convinto. Poi però — il 2 gennaio — ecco Crisanti, ovviamente in diretta tivù dall’ospedale di Padova, la manica della camicia arrotolata e una dottoressa con la siringa china sul suo braccio: e certo, perché poi lui alla fine se lo fa il vaccino, noi no, ma lui sì, mica è scemo, lui che può mica ci rinuncia. Che poi, Crisanti. Un giorno Giorgio Palù — professor ordinario di Microbiologia e Virologia, preside della facoltà di Medicina all’università di Padova, presidente Aifa — racconta: «Crisanti è un mio allievo. Accademicamente l’ho chiamato io, ma non è un virologo. È un esperto di zanzare». Perché succede anche questo: tra loro, si dicono robe tremende. Matteo Bassetti — direttore del reparto Malattie infettive al San Martino di Genova e amico personale di Matteo Salvini ai tempi in cui Salvini era sovranista: quindi, adesso, boh, magari hanno rotto — una mattina Bassetti va da Myrta Merlino a L’aria che tira, e dice: «Ilaria Capua è una veterinaria, non può parlare di vaccini». Allora alla professoressa Capua tocca spiegare che la laurea in veterinaria è del 1989 e che è stata solo l’inizio del suo percorso, da tempo è protagonista della scena internazionale e via così a difendersi. Però noi intanto lì ad ascoltare: e — lentamente — a non capirci più niente. Quasi niente. Chiaro a tutti che Roberto Burioni è tifoso della Lazio, e ogni tanto gli scappa una battuta. E che Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione del San Raffaele di Milano, e soprattutto medico dello Zio Silvio, non si sopporta con Galli (molto anche per ragioni politiche). Così Zangrillo va giù duro: «Che figata salvare vite umane, mentre gli sciacalli che non hanno mai tenuto la mano a un malato, sparano cazzate in tivù». Galli: «Io veramente sono in ospedale da 44 anni». No, davvero: basta. State zitti.

Covid, "certi medici, per stare sotto i riflettori...". Tweet contro Massimo Galli, clamoroso imbarazzo a sinistra. Libero Quotidiano il 17 febbraio 2021. "Pur di avere il favore dei riflettori certi medici si inventerebbero le varianti del virus in laboratorio". A scriverlo non è un no vax dichiarato, ma Alessandro Barbera, giornalista della Stampa. E nel quotidiano torinese si apre un caso clamoroso, con il direttore Massimo Giannini che si trova costretto a ordinare alla sua redazione di "contenersi" sui social, limitando commenti e opinioni personali (soprattutto, immaginiamo, se "scomode" come quelle di Barbera). La battuta del giornalista su Twitter (non lo cita mai, ma sembra un clamoroso siluro controMassimo Galli, che nelle ultime ore ha anticipato con ansia l'avvento dellaterza ondata di Covidper effetto della nuova e super-contagiosa "variante inglese") è stata stigmatizzata da molti sui social. "Ciao La Stampa. Ma non avverti vergogna se un tuo giornalista scrive queste cose? Ma poi Massimo Giannini ci lamentiamo dei no vax?", chiede Luca Di Bartolomei. ÈMichele Arnese, direttore diStart, a rendere nota la lettera spedita dall'ex firma di Repubblica ai giornalisti della Stampa, per richiamarli all'ordine. Eccola qui di seguito, in versione integrale. "Care amiche e cari amici, dopo le ultime performance di diversi nostri colleghi sui social, mi vedo costretto a intervenire, e a richiamarvi all’ordine. Nessuno può vietare a un privato cittadino di esprimersi come vuole nell’agorà digitale, ormai purtroppo infestata di haters e spesso trasformata in tavola calda per antropofagi. Dunque non sarò io a vietare alcunché, né a conculcare diritti di libertà di espressione del proprio pensiero garantiti persino dalla Costituzione. Non sarebbe giusto e non avrebbe alcun senso. Ma c’è un limite. Vi ricordo che il profilo di ciascuno di voi in rete nasce prima di tutto dalla vostra “appartenenza” a “La Stampa”, grazie alla quale ciò che scrivete assume un rilievo ben diverso da quello che avrebbe un tweet o un post di un internauta qualsiasi. Di recente, come gruppo Gedi, abbiamo diffuso un apposito Codice Aziendale, etico e pratico, ad uso dei giornalisti del gruppo. Tra i tanti altri punti che tratta, ce n’è uno che riguarda proprio l’utilizzo dei social. Avete l’obbligo di rispettarne i dettami. Quando scrivete su quelle piattaforme dovete rammentare comunque che siete giornalisti di questo giornale. E che i giudizi che date, di qualunque “segno” essi siano, finiscono sempre per riguardare l’intera nostra comunità. Quindi vi rinnovo l’invito a mantenere un profilo alto e rispettoso del ruolo e della funzione che abbiamo. Ad essere equilibrati e a non tranciare giudizi un tanto al chilo, specialmente se quei giudizi non riflettono quello che voi scrivete sul giornale o quello che il giornale adotta come 'linea'. Ad evitare soprattutto di ingaggiare indecorosi “corpo a corpo” con gli interlocutori e/o gli odiatori occasionali e/o istituzionali, che quasi sempre finiscono per sconfinare nella triviale deriva politico-culturale di certi tipici anfratti del Web. Un dibattito serio, anche in Rete, fa ricchezza. Dunque siate seri. E ricordatevi ciò che dovete a La Stampa: se quello che twittate o postate ottiene risposte e riscontri, in definitiva, questo dipende molto dal brand che avete alle spalle. E che per questo dal vostro attivismo digitale può subire conseguenze dirette e indirette. Tenetene conto". Si prospettano giornate un po' tese tra quelle scrivanie.

Pietro Senaldi per “Libero Quotidiano” il 31 gennaio 2021. Se ogni crisi è anche un'opportunità, c'è un solo modo per ricavare qualcosa di buono dalla pantomima in corso nei palazzi della politica: far gestire la crisi sanitaria da chi ci capisce qualcosa. Senza nulla togliere all'accoppiata Conte-Speranza, che stanno al virus quanto ci potrebbero stare Stanlio e Ollio, la situazione pandemica in Italia è talmente grave che a questo punto occorre almeno un po' di serietà. Si vocifera da tempo della necessità di un governo di competenti, sia esso retto da Draghi, dalla Cartabia, da Cottarelli o da chicchessia. La credibilità in Europa è persa, il sistema istituzionale è al collasso e i conti sono in rosso profondo, pertanto ciascuna di queste tre scelte avrebbe un senso. L'emergenza numero uno però è quella sanitaria e la "trimorti" Ricciardi-Brusaferro-Arcuri a cui il premier ha delegato la gestione dell'epidemia è stata colpita dal contagiosissimo morbo dell'inettitudine, che fa respirare chi ne è colto ma toglie il fiato al resto del Paese. Poiché in Italia i geni non mancano, almeno la cura contro il virus dell'incapacità ci sarebbe. Sarebbe sufficiente mettere al ministero della Salute uno che ci capisce più perfino del competente viceministro Pierpaolo Sileri, con il quale formerebbe una coppia degna dell'ospedale John Hopkins di Baltimora, probabilmente il migliore al mondo. Il nome del mago che ci può salvare è Giuseppe Remuzzi, settantadue anni il prossimo aprile, direttore dell'Istituto Farmacologico Mario Negri nonché medico ospedaliero per decenni al Papa Giovanni XIII di Bergamo e ricercatore con un indice scientifico internazionale tra i più alti in Italia. Egli somma l'esperienza sul campo, in corsia con i malati, con l'attività di studioso e di manager. In più vanta relazioni internazionali che fanno impallidire la nostra sedicente classe dirigente. L'uomo è umile, capace, pratico, laborioso, onesto, alieno alla politica e schivo, pertanto non è affatto interessato all'incarico; anzi, sospetto che il fatto di averlo evocato a tradimento, senza preavvertirlo, mi procurerà il suo risentimento, se non la sua ira. Mi assumo il rischio per il bene del Paese, che ha più bisogno di Remuzzi che del Recovery Fund. Nel delirio di virologi, infettivologi, epidemiologi e anestesisti che da un anno dicono sui media tutto e il suo contrario, lo scienziato orobico si distingue per essere il solo che non ha mai dovuto correggersi, pur avendo il coraggio della non prudenza. Questo è dipeso soprattutto dal fatto che egli non si sente in dovere di dare una spiegazione a tutto: se dubita, ignora o non capisce, risponde "non lo so" con la leggerezza dei saggi. protocollo Non è comunque per le doti caratteriali che sarebbe opportuno vederlo al posto di Speranza, del quale, se si candidasse, prenderebbe almeno cento volte i voti, visto che l'attuale ministro governa le sorti del Paese e prende decisioni che riguardano tutti noi dall'alto di meno di quattromila preferenza personali. Le ragioni per le quali il terzo Conte o il primo Chissà-Chi dovrebbero chiamare Remuzzi al dicastero della Salute sono che egli ha una terapia per prevenire l'insorgenza del Covid, o quantomeno ridurne la portata devastante, nonché un piano per avviare la produzione dei vaccini in Italia. Non si tratta di particolari, visto che veleggiamo verso i 90mila morti e siamo la nazione con più decessi per numero di abitanti, secondi solo al Belgio, e poiché, preferendo destinarle a nazioni più strategiche o che pagano meglio, Pfizer e Moderna ci hanno tagliato le forniture di siero mentre Astrazeneca le ha quasi azzerate prima ancora di iniziare a distribuirle. Quanto alla cura, da mesi a Bergamo lo scienziato applica una sorta di protocollo Remuzzi che ha praticamente azzerato i decessi e ridotto a percentuali minime i ricoveri in terapia intensiva. Il governo conosce l'esistenza ed efficacia della cura da settimane ma è ancora titubante ad adottarlo. Troppo semplice. Prevede la somministrazione due volte al giorno di anti-infiammatori a base di nimesulide o di aspirina alla comparsa dei primi sintomi, senza aspettare il tampone, che fa perdere giorni preziosi e consente al virus di scendere ai polmoni e compromettere la situazione. La terapia non necessita ricovero e il più delle volte termina con la guarigione in una decina di giorni. Nei casi più complessi, se la polmonite esplode, si procede a fare una tac e quindi si somministrano eparina e cortisone, con il malato assistito sempre a domicilio. L'intervento prima dell'esito del tampone consente infatti di guadagnare tempo prezioso e fa sì che il virus raggiunga le vie respiratorie già depotenziato. Quando il governo, paragonando i positivi curati con il metodo Remuzzi a quelli trattati in maniera ordinaria, certificherà la maggiore efficacia del protocollo bergamasco è auspicabile che esso venga adottato in tutto il Paese. Per accelerare i tempi la nomina dello scienziato orobico alla Salute sarebbe un toccasana. Per quanto riguarda la fabbricazione dei vaccini direttamente nel nostro Paese, essa è più semplice di quanto si pensi. L'Italia, dopo Cina e India, è il più importante produttore di farmaci al mondo. Da Menarini a Dompè, da Chiesa ai laboratori senesi, abbiamo grandi gruppi industriali in grado di raccogliere la sfida. Il Mes, il piano sanitario europeo, prevede 37 miliardi per l'Italia. Ne basterebbero un paio per riconvertire gli impianti industriali. Se poi, data l'emergenza, si sensibilizza l'Agenzia del Farmaco ad accelerare le procedure di approvazione, si può iniziare a sfornare i vaccini già a luglio. Germania e Francia, che hanno molta meno esperienza nel settore, vista la malaparata con le case farmaceutiche americane e i trattati capestro firmati dall'Unione Europea, hanno già iniziato a dedicarsi alla produzione interna. L'esempio da seguire a livello organizzativo, e Remuzzi sarebbe perfettamente in grado di coordinare l'operazione, peraltro benedetta dal presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, è quello del piano Pepfar, il programma ideato da George Bush per mettere al sicuro le popolazioni dei Paesi poveri dal dilagare dell'Hiv. Un'iniziativa che ha salvato diciotto milioni di vite. La produzione dei vaccini altrui, in attesa dell'arrivo di Reitera, il siero italiano, la cui sperimentazione è ancora alla fase 1, consentirebbe al nostro Paese, per una volta, di non andare sempre a traino degli altri. Ovviamente, siccome è un fatto che porterebbe salute e posti di lavoro, al governo nessuno ne parla. Si blatera del Recovery Fund declassando principi sensati a slogan vuoti. Intelligenza artificiale, digitalizzazione, politica verde, clima: tutte chiacchiere. Poi c'è uno scienziato che trova la cura e saprebbe renderci indipendenti sui vaccini e nessuno se lo fila solo perché non si presta a fare il pappagallo del governo in televisione.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 7 gennaio 2021. Il 2020 del viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri alle prese con la pandemia è stato un anno di dispiaceri, culminato nella richiesta di dimissioni del segretario generale. Rabbia che arriva da lontano: «Quando ho avuto il Covid, mi ha fatto soffrire essere tagliato fuori», racconta al Corriere, «dal Cts non mi hanno mandato un verbale, un rapporto, niente. Eppure potevo lavorare, contribuire. Nei primi mesi la comunicazione è stata difficile. Provai a inserire una mia osservatrice e l'allontanarono, pare, addirittura, in quanto donna. Il segretario del ministero Giuseppe Ruocco, che doveva essere il trait d'union, era ed è spesso assente alle riunioni. È possibile non tenere aggiornato il viceministro? Ho dovuto scoprire dai Tg il primo caso di due cinesi positivi in Italia. Mi hanno costretto a leggere anche cento pagine in sede, vietandomi le fotocopie». La genesi dello scontro è tutta fra le righe del libro Covid Segreto, edito da PaperFirst e scritto con Alessandro Cecchi Paone. Fra l'altro, vi si svela l'origine della «guerra dei virologi», col divulgatore scientifico che accusa che «il Cts nasce come centro di potere romanocentrico e maschilista» e il viceministro che aggiunge: «Formazione e gestione del Cts sono all' origine della rissosità fra infettivologi, virologi, epidemiologi». È Cecchi Paone a chiarire quali segreti avrebbero carpito: «Uno mondiale e uno nazionale. Mi assumo io la responsabilità di rivelare quello nazionale: la costituzione del Cts. Avevamo già organismi di valore come l'Istituto superiore e il Consiglio superiore di sanità. Perché ne serviva un altro? La risposta è: per il potere di qualcuno». Racconta Sileri che lui provò ad avere un Cts «più snello e con sottotavoli on demand di esperti di diversi territori e specializzazioni»: «Proposi Massimo Galli, mi fu detto no; Maria Rita Gismondo e mi fu detto no. Ancora prima di Codogno, proposi Alberto Zangrillo perché aveva fatto la rete Ecmo e non fu coinvolto. Verso fine luglio, vedevo le liti in tv e chiesi di allargare anche ad Andrea Crisanti e altri. Dissi: così, se devono discutere lo fanno a un tavolo istituzionale. E mi sembrava essenziale introdurre clinici, specie del Nord dove avevano visto tanti pazienti. Da chirurgo spiegai che se devo operare qualcuno faccio un briefing con oncologo, radiologo, anestesista... e che se il paziente assistesse direbbe: grazie, non mi opero. Qualcuno si offese e pensò che volevo mandarlo via». Il «segreto mondiale» ha a che fare con l'Oms, «all'inizio clamorosamente impreparata», accusa Cecchi Paone, precisando «lo diciamo per auspicare una Oms più forte». Poi, c' è la storia del piano pandemico «vintage». Sileri svela che se n'era accorto subito: «Chiesi lumi ma, alla fine, mi arrivò direttamente la bozza del piano di maggio 2020». Nel libro, il viceministro dice di aver battuto spesso i pugni sul tavolo. Domanda: quando e perché? «Se rispondo, mi devo dimettere domani».

Sileri contro il Cts: «Proposi Galli, Crisanti e Zangrillo. Qualcuno si offese e mi fu detto di no». Mia Fenice venerdì 8 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. Pierpaolo Sileri va all’attacco. In un libro appena uscito dal titolo Covid segreto, edito da Paper- First e scritto con Alessandro Cecchi Paone, il viceministro racconta ciò che ha vissuto. E al Corriere che lo ha intervistato mostra tutta la sua amarezza. «Quando ho avuto il Covid – spiega – mi ha fatto soffrire essere tagliato fuori, dal 10 marzo a metà aprile, dal Cts non mi hanno mandato un verbale, un rapporto, niente. Eppure potevo lavorare, dare un contributo. Nei primi mesi la comunicazione è stata difficile. Provai a inserire una mia osservatrice e, alla prima riunione, l’allontanarono con ostilità. Stando a indiscrezioni, addirittura in quanto donna». Il viceministro  si chiede: «È possibile non tenere aggiornato il viceministro? Ho dovuto scoprire dai Tg il primo caso di due cinesi positivi al coronavirus in Italia. I primi tempi, mi costringevano a leggere anche cento pagine in sede, vietandomi le fotocopie». E poi spiega che tutti gli scontri tra esperti sono da ricondurre al Comitato tecnico scientifico. «Formazione e gestione del Cts – rincara la dose – sono all’origine della rissosità fra infettivologi, virologi, epidemiologi». E aggiunge al Corriere: «Proposi Massimo Galli al Cts, mi fu detto no; Maria Rita Gismondo e mi fu detto no. Ancora prima di Codogno, chiesi chi aveva fatto la rete Ecmo e scoprii che era Alberto Zangrillo. Dissi: coinvolgiamolo e non fu coinvolto. Verso fine luglio, vedevo le liti in tv e chiesi di ampliare il Cts con Andrea Crisanti e altri… Dissi: così, se devono discutere di scienza, lo fanno a un tavolo istituzionale». E poi ancora. «Essendo chirurgo, spiegai che, se devo operare qualcuno faccio un briefing con oncologo, radiologo, anestesista… e che se il paziente assistesse direbbe: grazie, ma non mi opero. Qualcuno si offese e pensò che volevo mandare via loro e prendere altri». Non solo. Al centro delle polemiche c’è un’altra questione: il piano pandemico mai aggiornato. Sileri afferma: «Abbiamo visto subito che il piano era vintage e risaliva al virus H1N1. Chiesi lumi ma, alla fine, mi arrivò direttamente la bozza del piano di maggio 2020». Nel libro gli chiede il Corriere lei dice di aver battuto spesso i pugni sul tavolo. Quando e perché? «Se rispondo mi devo dimettere domani».

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020. Nel 2020 virologi e politici nostrani hanno assunto il ruolo di nuove Cassandre e di veggenti dalle scarse abilità divinatorie. Vediamo tutte le false profezie. Francesco Curridori, Sabato 02/01/2021 su Il Giornale. Il 2020, tra coronavirus, Dpcm e mascherine, se n'è andato lasciandoci una certezza: i virologi e i politici nostrani hanno assunto il ruolo di nuove Cassandre e di veggenti dalle scarse abilità divinatorie. “Al momento, il virus in Italia non sta circolando, quindi ci si può preoccupare dei fulmini, delle alluvioni, ma di quel virus in questo momento no; però attenzione, non è che questo avviene per caso: avviene perché si stanno prendendo delle precauzioni”, aveva dichiarato con gran sicurezza il virologo Roberto Burioni il 2 febbraio dello scorso anno, mentre commentava dagli studi di Che tempo che fa il caso dei turisti cinesi ricoverati allo Spallanzani di Roma. Appena due settimane dopo, però, all'ospedale di Codogno veniva ricoverato Mattia, il cosiddetto "paziente zero", per una polmonite non ben identificata. Il coronavirus era sbarcato in Italia, ma studi successivi hanno dimostrato che molto probabilmente era presente nel nostro Paese già da settembre. Il 12 luglio, poi, Burioni, in un lungo post pubblicato su Facebook, ripercorre tutta la sequela di dichiarazioni che aveva rilasciato a inizio pandemia e conclude che “In quel momento le autorità ci dicevano che in Italia il virus non c'era. La mia colpa è - dunque - quella di non avere avuto la capacità di prevedere che il virus sarebbe stato trovato diciotto giorni dopo. Ma io sono un medico, non un veggente. E questa incapacità di predire il futuro effettivamente è un mio limite”. Ma quella di Burioni è solo una tra le più famose profezie che si sono dimostrate totalmente false. Ce ne sono altre che, invece, sono finite nel calderone delle miriadi di dichiarazioni della schiera dei virologi che, in questi mesi, hanno imperversato nel sistema mass-mediatico italiano. Un ancora poco noto Massimo Galli, direttore delle Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano, il 31 gennaio, interpellato dall'agenzia Dire, rassicurava così gli italiani:“Questa non è la grande pandemia che ucciderà ma questa è una malattia che da questo punto di vista ha una capacità di uccidere che non va oltre il 2%”. E, dopo aver chiarito che non aveva senso “andare in giro muniti di mascherine”, minimizzava spiegando che si trattava di un'epidemia che colpiva solo chi aveva avuto contatti con la Cina. A tal proposito precisava: “Solo nella settimana scorsa si sono registrati più di 600mila sindromi influenzali in Italia e si contano 3 milioni di soggetti affetti da influenza solo dallo scorso ottobre. È chiaro dunque che siamo nel pieno della stagione”. Gli esponenti del Pd, invece, si erano prontamente prodigati nello stigmatizzare l'odio verso la Cina e i cinesi. Dario Nardella, il primo febbraio, aveva lanciato la campagna social #abbracciauncinese, accompagnata da un video in cui il primo cittadino di Firenze era intento proprio nel compiere questo gesto dal forte valore antirazzista. “È giusto avere attenzione e precauzione e seguire le indicazioni dell’autorità sanitaria per il coronavirus. Ma quello che non è accettabile- aveva dichiarato Nardella- è il terrorismo psicologico, è lo sciacallaggio che alcuni fanno soltanto per trovare una scusa per l’odio e l’esclusione. Invece noi siamo vicini alla comunità cinese in questa battaglia comune”. L'11 febbraio Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, invece, era andato a pranzo insieme ai suoi assessori in un ristorante cinese del capoluogo lombardo. Il Pd era pronto a tutto pur di sconfiggere sul nascere un eventuale razzismo nei confronti dei cinesi e, nello stesso tempo, pur di difendere le città che amministra. Ed è per questo che il 27 febbraio Nicola Zingaretti decideva di partecipare all'iniziativa #Milanononsiferma organizzata dai democrat milanesi e trascorreva una piacevole serata sui Navigli. Trascorsi dieci giorni, il segretario del Pd annunciava di essere positivo al Covid. Almeno lui, però, aveva ed ha la scusante di non essere un virologo. Ben più gravi, infatti, risultano essere state le parole dell'esimia professoressa Ilaria Capua, direttrice dell’One Health Center of Excellence dell’Università della Florida, che il 25 febbraio assicurava: “Possiamo dire ad oggi che il Covid non si presenta come un virus aggressivo”. La virologa Maria Rita Gismondo, “la signora del Sacco” come la definì in maniera ironica il collega Burioni, inizialmente aveva dipinto il coronavirus come una banale influenza. Ma anche chi aveva ruoli di responsabilità ben più grandi è passato alle cronache per aver preso dei grandi abbagli. “Le mascherine di garza, quelle che stanno andando a ruba, alla persona sana non servono a niente", sanciva con grande sicumera Walter Ricciardi, consigliere del governo per le relazioni con l'Oms, lo scorso 25 febbraio. “I presidi medici vanno riservati a medici e infermieri, bisogna farne un uso intelligente: usare la mascherina non ha senso se si mantiene la distanza. Non la indosso se sto a un metro e mezzo di distanza” gli faceva eco Alberto Villani, presidente della società italiana di pediatria, il 19 marzo scorso. “Oggi non è necessario, per chi riesce a mantenere le distanze e a rispettare le indicazioni che sono state date, utilizzare le mascherine”, ribadiva il 3 aprile Angelo Borrelli, capo della Protezione Civile nel corso di una conferenza stampa sui contagi. D'altronde l'Organizzazione mondiale della Sanità, fino agli inizi di giugno, ha sempre sostenuto che le mascherine non fossero necessarie per combattere il virus. Proprio l'esatto contrario dell'obbligatorietà imposta attualmente dal governo italiano (e non solo). Dal punto di vista politico, invece, il 2020 è stato caratterizzato anche dalle promesse da marinaio del premier Giuseppe Conte. Il 7 aprile scorso, presentando il Dl Liquidità, il presidente del Consiglio, annunciava trionfante: “Con il decreto appena approvato diamo liquidità immediata per 400 miliardi di euro alle nostre imprese, 200 per il mercato interno, altri 200 per potenziare il mercato dell'export. È una potenza di fuoco". Qualcuno ha mai visto questi soldi? Per non parlare degli errori compiuti in quegli stessi mesi dal contestatissimo presidente dell'Inps, Pasquale Tridico, che ha avuto l'ingrato compito di erogare la cassa integrazione agli italiani, spesso arrivata con notevolissimi ritardi. E che dire delle sue gaffes? Si va dal sito dell'agenzia colpito da fantomatici hacker alle bordate contro gli imprenditori. "Molti negozi non riaprono per opportunismo, per pigrizia, tanto c'è lo Stato che paga”, dichiarò con sufficienza Tridico che, tra l'altro, è l'ideatore di quel fenomenale strumento assistenziale chiamato reddito di cittadinanza...Dopo quasi tre mesi di lockdown, ai primi di maggio, l'Italia riparte con un'inquietante profezia del Comitato tecnico-scientifico: con la riapertura ci sarebbero dovuti essere 150mila malati di Covid in terapia intensiva entro giugno. Una cifra che sarebbe aumentata oltre i 430mila entro la fine dell'anno. Nulla di più falso. Una profezia che, oltretutto, come ha dimostrato l'holding Carisma, nasce da un grossolano errore di calcolo. Ma non è finita qui. In autunno, quando arriva la seconda ondata di contagi il sistema mass-mediatico si avventa contro i pericolosissimi italiani che hanno osato andare in ferie (anche grazie al bonus vacanze dato dal governo) e contro il professor Alberto Zangrillo che aveva osato definire “clinicamente morto il virus”. Nessuno ricorda, però, che il viceministro alla Salute, Pier Paolo Sileri, il primo luglio tranquillizzava gli italiani con una profezia degna del miglior mago Otelma: “Si parla di una nuova violenta ondata del virus a settembre-ottobre, ma io non credo che così sarà” . E ancora: “Se continuiamo a creare terrore pensando a ciò che è successo in passato, l’Italia non riparte”. Il virologo Galli, il 24 settembre, scacciava via l'ipotesi di una seconda ondata. "Non ce l'aspettiamo”, sentenziava prima di sbilanciarsi nel dire: “Ritengo che questa possa essere una situazione figlia del grande sacrificio rappresentato dal lockdown, applicato qui in maniera più drastica di quanto fatto altrove”. Come purtroppo sappiamo, invece, il premier Conte, che il 30 gennaio scorso ospite di Lilly Gruber aveva giurato: “Siamo prontissimi”, si è fatto trovare totalmente impreparato e spiazzato anche davanti alla seconda ondata. Il 25 ottobre, infatti, ha dovuto annunciare nuove misure restrittive che avrebbero dovuto consentirci di “salvare” il Natale. In realtà, così non è stato. Il 3 dicembre, Conte è costretto a inventarsi il modello dell'Italia a colori, con limitazioni differenziate tra le varie Regioni. E, infine, a pochi giorni dalle ferie, il governo, contrariamente da quanto annunciato, istituisce “le giornate a colori”, reintroducendo su tutto il territorio nazionale il lockdown proprio per Natale, Capodanno e l'Epifania. Una beffa dopo l'altra...

Capua: “Non tutti i virus diventano pandemia: ecco perché è esplosa”. Secondo l’esperta anche i social network hanno un peso nella diffusione del Covid-19. Valentina Dardari, Sabato 02/01/2021 su Il Giornale. Secondo la virologa Ilaria Capua, direttore dell'One Health Center of Excellence dell'Università della Florida, anche i social network hanno avuto un peso nella diffusione del virus. Non tutti diventano infatti pandemia, questo perché, se lasciati nei loro ecosistemi ed equilibri naturali, non scoppierebbero epidemie. Perché allora con la Sars-Cov-2 è successo questo? Come riportato dal Corriere, la Capua ha spiegato che esiste un fattore virus, ovvero un potenziale pandemico che risulta molto legato alla via di trasmissione e alla contagiosità dei virus. Questo fattore non è però l’unico responsabile della pandemia.

Capua: "Perché il virus è esploso". La virologa è infatti convinta che anche in passato vi siano state delle condizioni simili all’emergenza attuale, ma che si siano esaurite. A differenza di altre che però sono state tenute sotto controllo per qualche mese, come per esempio Sars, Mers, influenza Aviaria, influenza Suina, Ebola e Zika, e la cui diffusione è quindi stata contenuta. Con Covid-19 non è però avvenuto lo stesso ed è esplosa la pandemia. E ci sarebbe lo zampino dell’uomo. Abbiamo capito che questo virus si diffonde in particolare attraverso il comportamento tenuto dalle persone. La diffusione veloce in tutto il mondo è avvenuta infatti a causa della mobilità di soggetti infetti, sia a livello internazionale che nazionale, che locale e familiare. Nel fattore individuo non vi sono solo le caratteristiche dell’individuo stesso, ma anche la sua recettività e la sua mobilità. Secondo la virologa i principali determinanti dell’andamento della pandemia sarebbero stati l’informazione e i social media. Colpa quindi dell’informazione che ha messo il naso in argomenti solo per virologi ed esperti, spesso incomprensibili anche a loro, e che ha acceso i riflettori in modo forse esagerato sul fenomeno biologico in atto. Questo ha però portato anche a esperimenti su esperimenti che hanno consentito di avere in pochissimi mesi quantità enormi di vaccino. A livello mondiale sono anche state studiate e analizzate tutte le sequenze genetiche virali che prima non venivano analizzate per altri virus.

I social network disorientano gli esperti. La Capua ha poi assicurato che “si svolgono incontri virtuali praticamente continui fra virologi evoluzionisti di tutto il mondo per seguire i bandoli della matassa pandemica e discutere le implicazioni di quello che osservano. Lo voglio dire con forza: non è giusto né possibile incasellare una serie di fenomeni biologici come le mutazioni, le delezioni e le loro possibili conseguenze in caselle mentali a misura di clickbait o di telespettatore disattento. Perché non è giusto: si disorienta chi poi ha le chiavi per uscire da questa situazione cioè le persone che altro non sono che il fattore individuo”. Insomma, sembra che la colpa sia quindi di televisioni, giornali e social se il Covid-19 è diventato quello che è diventato. Altrimenti magari si sarebbe già esaurito da solo.

Lo ha definito “legato ad interessi economici”. Burioni lo denuncia ma Red Ronnie viene assolto. Le Iene News il 16 aprile 2021. Roberto Burioni aveva denunciato Red Ronnie per le sue critiche su Facebook nel 2016 dopo un acceso confronto in tv. È stato assolto perché il fatto non costituisce reato. Anche noi de Le Iene aspettiamo fiduciosi il responso dei giudici dopo la querela di Burioni per esserci posti una domanda su un suo possibile conflitto di interessi. Non ha diffamato Roberto Burioni. Gabriele Ansaloni, in arte Red Ronnie, è stato assolto dal tribunale di Bologna dall'accusa di aver diffamato il virologo, che l’aveva denunciato per alcune frasi pubblicate su Facebook. Dopo un acceso dibattito in tv durante la trasmissione Virus su RaiDue, il 15 maggio 2016 Red Ronnie lo accusava di "ricerca di protagonismo e di essere 'legato a interessi economici'". Aveva riportato anche l’email di una persona che, riferendosi al professore, diceva tra l'altro: "In questo suo ruolo di moralizzatore, nasconde un lapalissiano conflitto di interessi, ossia l'impegno, in campo vaccinale, di tanti suoi brevetti". In tv si era discusso animatamente di vaccini, Burioni aveva annunciato la denuncia già durante il programma. Per il giudice monocratico Stefano Levoni non c’è reato nelle accuse di Red Ronnie. Le motivazioni saranno note entro 90 giorni. Burioni ha fatto sapere all’ansa che aspetta di leggerle per valutare come procedere. "Sin da ora, al di là della notorietà dei protagonisti, è bene chiarire come il punto nodale della sentenza è facile da prevedere”, commenta l’avvocato di Red Ronnie, Guido Magnisi, “sarà il diritto-dovere di una stampa libera di informare il cittadino nel modo più completo e possibile, soprattutto se si fa riferimento ad argomenti così decisivi come quelli attuali. Questo principio affermato anche di recente dalla Cassazione, dà finalmente un senso pieno alla professione del giornalista-pubblicista: fugare i dubbi, regalare al lettore più chiavi di interpretazione cosciente e consapevole della realtà che così da vicino lo tocca”. Com’è noto anche noi de Le Iene siamo stati querelati da Burioni per esserci chiesti, nel parlare più ampiamente della situazione emergenziale e dei possibili strumenti di prevenzione e cura contro il covid 19, se il virologo si potesse trovare in un potenziale conflitto di interessi quando elevava critiche al ricorso al plasma iperimmune perorando la causa degli anticorpi monoclonali. Anche noi crediamo nella stampa libera, nel potere fare un’inchiesta approfondendo, per quanto ci è possibile, le fonti, ponendo delle domande e se del caso anche criticando. Non troviamo giusto che personaggi che sono divenuti pubblici per scelta si sottraggano al confronto quando ci sono temi spinosi che li riguardano trincerandosi dietro azioni giudiziarie. E non riteniamo giusto, anche se rispettiamo sempre le decisioni della magistratura, che vengano adottati provvedimenti a tacitare la libera espressione del pensiero: per questo siamo contenti che oggi a Red Ronnie e speriamo domani anche a noi, sia stato riconosciuto questo diritto.

 (Adnkronos il 13 gennaio 2021) – ''Proprio questa mattina è stato eseguito su richiesta della procura di Milano un sequestro preventivo dei servizi delle Iene che mi diffamavano. E' una cosa senza precedenti''. Lo sottolinea all'Adnkronos il virologo Roberto Burioni che aveva presentato querela dopo le accuse di conflitto di interessi che gli erano state rivolte dal programma Mediaset. ''Io naturalmente sono molto contento perché era una diffamazione grave e gratuita che disinformava sugli anticorpi monoclonali in un momento delicato - ha aggiunto -. Sono grato al mio avvocato, l'avvocato Anselmo, che ha preso molto a cuore questa vicenda perché l'ha ritenuta non una semplice diffamazione ma anche qualcosa di simbolico per l'importanza che ha l'informazione corretta su argomenti medici in un momento drammatico''. Lo stesso Burioni ha ricostruito il caso in un post su Facebook: "Nel giugno scorso 'Le Iene' hanno trasmesso due servizi tanto falsi quanto diffamatori nei miei confronti. Mi accusavano - mentendo - del comportamento più grave per un medico e per uno scienziato: farsi guidare dal proprio interesse e non dal bene pubblico e dei pazienti nelle proprie dichiarazioni. Per motivi a me incomprensibili, hanno tentato di demolire la mia immagine pubblica facendomi passare per un disonesto volto a perseguire solo il suo personale profitto con affermazioni tanto false quanto diffamanti nei miei confronti", ha spiegato Burioni. "Non potete immaginare quanto questo mi abbia ferito, visto che io ho sempre fatto del mio meglio (anche in quei mesi terribili) per informare il pubblico nel modo più obiettivo e corretto. Sono stati momenti per me molto dolorosi, perché vivevo non solo l'infamia della diffamazione e la distruzione della mia credibilità personale, ma anche i danni che una disinformazione strumentale e gravissima avrebbe prodotto nell'opinione pubblica sui temi da me trattati momento in cui la credibilità della scienza era (ed è) fondamentale", ha scritto il virologo. "Le Iene", ha proseguito, "hanno raccontato su di me grottesche bugie su miei inesistenti interessi nel campo di anticorpi monoclonali anti-Covid, generando nei miei confronti un clima di intenso odio pubblico. Il loro metodo è stato quello di diffamarmi prima, senza neanche ascoltare la mia versione; e poi insistere pubblicamente pretendendo un confronto (a diffamazione avvenuta), e accusandomi velatamente di essere un vigliacco e di fuggire da loro. Io ho sempre risposto che un confronto l'avremmo avuto, ma davanti a un giudice. Quel confronto è incominciato, e il giudice ha disposto il sequestro delle due puntate di quel programma nelle quali venivo diffamato".

Servizi sequestrati, la risposta de Le Iene al prof. Burioni. Le Iene News il 13 gennaio 2021. Il tribunale di Milano ha disposto il sequestro preventivo per oscurare dal nostro sito alcuni servizi, nei quali ci chiedevamo se a parlare in Rai di anticorpi monoclonali come una nuova speranza fosse il Professore Ordinario super partes, oppure il consulente della casa farmaceutica Pomona. In attesa di un approfondito riesame della questione, proponiamo di nuovo pubblicamente le nostre domande al Professor Burioni. Il 28 dicembre il Tribunale di Milano ha emesso un Decreto di Sequestro Preventivo per oscurare dal sito “iene.it” alcuni servizi a firma di Alessandro Politi. Nel Decreto si dice che “Le iene” hanno veicolato "il falso messaggio per cui le opinioni scientifiche di Burioni in tema Covid19 fossero orientate da interessi economici occulti". Nei lunghi mesi della pandemia il Professore ha partecipato con regolarità e in qualità di esperto alla trasmissione Rai "Che tempo che fa". Queste alcune delle sue affermazioni: “avremo gli anticopri monoclonali da somministrare, quindi una speranza nuova che si apre”; e, a proposito del plasma iperimmune come cura per il Covid: “questi plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”, “bisogna sincerarsi che il plasma non trasmetta altre malattie infettive, tutto quello che viene dal sangue è rischioso”, “il plasma delle persone guarite è disponibile in piccole quantità, non è che possiamo svenare i guariti”. Tutti sanno che Burioni è Ordinario di Virologia presso l'Università Vita e Salute del San Raffaele, qualifica con cui si è sempre presentato in televisione. Pochi sanno che è anche consulente della casa farmaceutica Pomona (e Fides Pharma), che produce e/o commercializza prodotti biotecnologici e/o farmaceutici (come risulta dal loro oggetto sociale), tra cui diversi brevetti di anticorpi monoclonali. Nei servizi oscurati ci chiedevamo se a parlare in Rai di anticorpi monoclonali come una nuova speranza fosse il Professore Ordinario super partes, oppure il consulente della casa farmaceutica Pomona. Nel secondo caso ci sarebbe stato un possibile conflitto di interessi. Non stiamo certo parlando di un reato, ma di un fatto deontologicamente sconveniente. Nei convegni medici ogni relazione è preceduta da una presentazione di chi parla, perché sia possibile mettere nella corretta prospettiva ciò che viene detto. In fondo, il medium non è il messaggio? La domanda ci ha portato a voler appurare la natura del rapporto tra il Professor Burioni e la Pomona srl. L’impresa è di proprietà di Gualtiero Cochis. Cochis possiede svariate aziende che si occupano delle cose più disparate: imballaggi, lavorazione del cartone, autofficine, holding finanziarie, edilizia, editoria. Abbiamo chiesto a Burioni che tipo di rapporto lo legasse a Pomona (e a Fides Pharma), ma il Professore non ha risposto. Dopo la messa in onda dei servizi, lo abbiamo ripetutamente invitato a una replica nel nostro programma, nonostante il provvedimento del Giudice parli di “una tecnica finalizzata a svilire un soggetto non presente, si badi bene, nel programma e quindi privo della possibilità di replicare”. Dato che non siamo riusciti a raggiungere Burioni che si è negato e continua a negarsi ad un confronto, abbiamo cercato Cochis, proponendogli dei progetti per Pomona. Cochis ci ha fatto rispondere che avremmo dovuto parlare con il Professor Burioni. Questi erano i contenuti principali dei servizi che siamo stati obbligati a rimuovere e che, nel rispetto giuridico del provvedimento emesso, non sono più visibili sul nostro sito. Ci siamo genuinamente stupiti di un provvedimento così invasivo, che si limita a recepire acriticamente la versione di Burioni senza approfondire le nostre argomentazioni, e che per questo ci appare come una sanzione censoria. Scrive oggi sul suo Facebook Burioni: "il tempo è galantuomo e le bugie hanno le gambe corte". Ovviamente le bugie vanno dimostrate in tribunale, e noi saremo felici di essere ascoltati e di poter esibire gli argomenti che ci hanno portato a mandare in onda i nostri servizi, cosa che al momento ancora non è successa. In attesa di un approfondito riesame della questione, che siamo certi ci darà ragione, proponiamo di nuovo, pubblicamente, le nostre domande al Professor Burioni:

1) Che tipo di rapporto ha con la società Pomona srl? E con Fides Pharma?

2) Perché durante i suoi interventi in Rai non ha mai detto che lei è consulente scientifico di due case farmaceutiche e che brevetta da anni anticorpi monoclonali?

3) Perché ha definito il plasma iperimmune una cura costosa e rischiosa, quando pubblicazioni scientifiche e ospedali di eccellenza la avallano e la praticano con ottimi risultati?

4) Per partecipare a “Che tempo che fa” è stato pagato? Se così fosse, questo non alimenterebbe un ulteriore conflitto di interessi?

Il prof. Burioni ci risponde sui social, ma non alle nostre domande. Le Iene News il 13 gennaio 2021. Preso atto che il professor Burioni risponde a Le Iene solo attraverso i social, non possiamo esimerci dal notare che però continua a non rispondere alle domande che gli abbiamo posto invitandolo più volte a rilasciarci un’intervista per il programma, e che gli riproporremo anche in tribunale. Preso atto che il Prof.Burioni risponde a Le Iene solo attraverso i social, non possiamo esimerci dal notare che però continua a non rispondere alle domande che gli abbiamo posto invitandolo più volte a rilasciarci un’intervista per il programma, e che gli riproporremo anche in tribunale. E cioè:

1) Che tipo di rapporto ha con la società Pomona srl? E con Fides Pharma?

2) Perché durante i suoi interventi in Rai non ha mai detto che lei è consulente scientifico di due case farmaceutiche e che brevetta da anni anticorpi monoclonali?

3) Perché ha definito il plasma iperimmune una cura costosa e rischiosa, quando pubblicazioni scientifiche e ospedali di eccellenza la avallano e la praticano con ottimi risultati?

4) Per partecipare a “Che tempo che fa” è stato pagato? Se così fosse, questo non alimenterebbe un ulteriore conflitto di interessi?

E a proposito di quel che scrive sul suo profilo Facebook: “Pomona Ricerche srl non è una casa farmaceutica, come vi ho detto più volte. Per cui ai 10.000 passi falsi già commessi Le Iene ne aggiungono uno ulteriore che gli costerà una querela supplementare” lo invitiamo a leggere l’oggetto sociale di Pomona srl, nel quale è scritto tra le altre cose “produrre e/o commercializzare biotecnologie e/o farmaceutici”.

Professore, non vediamo l’ora di incontrarci con lei, seppur in tribunale.

Le Iene rispondono al prof. Roberto Burioni. Le Iene News il 29 maggio 2021. Nel giugno 2020 Le Iene si sono interrogate, con due servizi a firma del giornalista Alessandro Politi, su un possibile conflitto di interessi del Prof. Burioni che nel corso della lunga pandemia ha partecipato con regolarità alla trasmissione Rai “Che tempo che fa”. Il 19 dicembre 2020 i due servizi sono stati oscurati dal sito Iene.it per ordine di un Gip del Tribunale di Milano su querela dello stesso Burioni. Nel Decreto si dice che Le Iene hanno veicolato “il falso messaggio per cui le opinioni scientifiche di Burioni in tema Covid 19 fossero orientate da interessi economici occulti”. Burioni è Ordinario di Virologia presso l’Università Vita Salute del San Raffaele, qualifica con cui si è sempre presentato in televisione. Ma è anche consulente della casa farmaceutica Pomona, che ha depositato brevetti di anticorpi monoclonali (non per il Covid) e anche un test di validazione per vaccini antiinfluenzali. Sulla Tv pubblica ha affermato: “Avremo gli anticorpi monoclonali da somministrare, quindi una speranza nuova che si apre” e “Tutti dovremmo farci il vaccino antiinfluenzale”; e ancora, a proposito del plasma iperimmune come cura per il Covid: “Questi plasmi non sono un farmaco ideale, sono difficili e costosissimi da preparare”; “bisogna sincerarsi che il plasma non trasmetta altre malattie infettive, tutto quello che viene dal sangue è rischioso”; “il plasma delle persone guarite è disponibile in piccole quantità, non è che possiamo svenare i guariti”. Le Iene si sono chieste: caldeggiare le monoclonali ed enfatizzare criticità della cura col plasma non può tradire un conflitto di interessi, se a farlo è chi tratta di monoclonali? Non abbiano veicolato informazioni false: ci siamo limitati, legittimamente, a porre domande ragionevoli. Queste domande ci hanno portato a voler appurare la natura del rapporto tra il Prof. Burioni e la casa farmaceutica Pomona srl. La società è di proprietà di Gualtiero Cochis, a cui fanno capo diverse altre aziende che si occupano delle cose più disparate: dagli imballaggi alla lavorazione del cartone, autofficine, holding finanziarie, imprese di costruzioni, editoria. Abbiamo chiesto a Burioni che tipo di rapporto lo legasse a Pomona, ma il Professore si è sempre sottratto al confronto. Abbiamo allora cercato Cochis e gli abbiamo proposto dei progetti per la sua azienda farmaceutica. Tramite la sorella, Cochis ci ha fatto sapere che di quelle faccende si occupa il Professor Burioni, pertanto avremmo dovuto chiedere a lui. Questi erano i contenuti dei servizi che siamo stati obbligati a rimuovere e che ora non sono più visibili. Il sito e il nostro programma non sono registrati come testata giornalistica, ma da 24 anni esistiamo in una dimensione che opera nell’informazione e come tale viene riconosciuta dalla collettività, anche in ragione del rigoroso controllo che viene svolto nella redazione de Le Iene sui fatti oggetti dei servizi trasmessi. Ci chiediamo quindi se questo oscuramento sia proporzionato: da una parte c’è un autorevole querelante che indica una serie di passaggi diffamatori e offre una sua personale interpretazione dei servizi; dall’altra c’è un programma che fa informazione e che approfondisce argomenti d’interesse sociale ponendosi delle domande, in posizione, di terzietà su temi di pubblico interesse. Il sequestro preventivo che abbiamo subito ha avuto senz’altro un effetto censorio. Non sarebbe bastato rimuovere provvisoriamente solo le parti contestate da Burioni? Si sarebbe evitato di pregiudicare tutto il resto dell’inchiesta. Non può esser considerato un bavaglio alla libertà dell’informazione, tutelata dall’art.21 della Costituzione? Se nel processo (che ricordiamo ancora non c’è stato, ndr.) le ragioni del prof. Burioni non dovessero essere accolte dal Tribunale, non sarebbe stata censura inibire interi servizi con uno strumento invasivo come il sequestro? In attesa di un approfondito riesame della questione, che confidiamo alla fine ci darà ragione, proponiamo di nuovo, pubblicamente, le nostre domande al Professor Burioni:

1) Che tipo di rapporto ha con la società Pomona srl?

2) Parlando di cure e rimedi, si può sottacere a milioni di cittadini di essere consulente di una società farmaceutica? Nel caso di un rapporto evidente e continuativo con tale società, si può parlare di conflitto d’interessi?

3) Perché ha definito il plasma iperimmune una cura costosa e rischiosa, quando pubblicazioni scientifiche e ospedali di eccellenza la avallano e la praticano con ottimi risultati? 

4) Per partecipare a “Che tempo che fa” è stato pagato e quanto ha percepito? Se così fosse, il conflitto d’interessi non sarebbe ancora più grave?

·        CTS: gli Esperti o presunti tali.

Mauro Evangelisti per "il Messaggero" il 22 ottobre 2021. A quasi due anni dall'istituzione, il Comitato tecnico scientifico si avvia a terminare il suo compito. Insediato il 5 febbraio del 2020, il Cts nella prima parte della pandemia era l'unico punto di riferimento. Erano i giorni più bui e drammatici. «Oggi - dice Fabio Ciciliano, medico, uomo della Protezione civile e della Polizia di Stato, nel Cts dal primo giorno - dobbiamo accompagnare il Paese verso la normalità». Ciciliano non dice apertamente che il ruolo del Comitato tecnico scientifico sta avviandosi alla conclusione («Non spetta a me dirlo»), ma il senso è quello. Non è un caso che una delle ultime indicazioni degli scienziati sulle capienze massime delle discoteche o degli impianti sportivi, non abbia trovato applicazione nelle decisioni del governo. Quando vi riunirete nei prossimi giorni? Vi sono stati formulati altri quesiti?

«Non mi risultano convocazioni per i prossimi giorni».

Sulle capienze non vi hanno seguito. 

«Giusto che sia così. Il Cts esprime un parere tecnico, le valutazioni del governo sono complessive, la decisione finale è di ambito politico».

Sembra quasi che il vostro compito stia finendo. Fino a qualche mese fa il Paese aspettava le vostre decisioni come una sorta di sentenza. Oggi il governo si muove con maggiore autonomia.

«Personalmente ritengo che nelle prossime settimane, che saranno le ultime, anche tenendo conto del continuo miglioramento degli indici epidemiologici, il Comitato tecnico scientifico dovrebbe avere un ultimo importante compito: accompagnare verso la normalità la gestione dell'epidemia da Sars-CoV-2».

Eppure il Paese è ancora in una situazione di guardia alta nella gestione della pandemia. Ce lo dicono anche i dati che vediamo nel Regno Unito, dove i casi hanno superato quota 50 mila al giorno. E spaventa ciò che sta succedendo in alcune nazioni dell'Est dell'Unione europea, al palo con le vaccinazioni, e ora in drammatica difficoltà per numero di infezioni, ricoveri e decessi.

«In Italia abbiamo gestito l'emergenza con una struttura che, appunto, affrontava l'emergenza, ma che non può essere infinita. Bisogna riportare nell'alveo istituzionale originario delle istituzioni deputate alla gestione ordinaria questo tipo di decisioni. In altri termini: dobbiamo passare dalla gestione emergenziale alla gestione ordinaria e, secondo me, il Cts deve appunto svolgere un ruolo di accompagnamento in questa fase così importante».

Lei sembra dire: l'emergenza non può durare per sempre.

«Teniamo conto di un altro fatto che non può essere dimenticato. Il 31 dicembre scadrà lo stato di emergenza». 

Non possono esserci delle proroghe?

«In base alle leggi vigenti al massimo di un altro mese, visto che a quel punto verrebbe raggiunta la durata massima di 24 mesi prevista dalla normativa». 

Questo significa che presto anche voi del Cts vedrete la fine del vostro lavoro?

«Guardi, dal Comitato tecnico scientifico è stato svolto un ruolo molto importante, in una fase drammatica. Saranno altri a giudicare se lo abbiamo fatto bene o male, non spetta a me dare un giudizio sull'operato di un organo di cui faccio parte. Però nei momenti più bui è stato giusto affidarsi alle indicazioni di un comitato scientifico. Ora però lo scenario è mutato. Non dico che il nostro ruolo sia già finito, dico che ci avviciniamo al termine perché dobbiamo anche noi del Cts accompagnare le istituzioni verso una gestione ordinaria dell'epidemia». 

È preoccupato dall'incremento dei nuovi casi positivi? Ieri sono stati il 40 per cento in più del giovedì precedente.

«Non vedo elementi di particolare preoccupazione. Venerdì scorso gli uffici pubblici sono tornati all'85 per cento di presenze, molte attività sono ricominciate. Si stanno eseguendo molti più tamponi, il numero più alto di sempre, come effetto dell'obbligo del Green pass. 

Così troviamo più positivi asintomatici che non avremmo intercettato. Ma il numero dei ricoveri non aumenta, anzi diminuisce. Intercettando tanti positivi facciamo una sorta di contact tracing preventivo che tiene sotto controllo l'epidemia. Sappiamo che nei mesi invernali i virus respiratori si diffondono più facilmente. Ma se continuiamo a vaccinare, dopo l'inverno potremo anche rinunciare a uno strumento emergenziale come il Green pass».

Agorà, Andrea Crisanti durissimo contro il Cts: "Manica di lottizzati e incompetenti, hanno fatto un disastro". Libero Quotidiano il 27 settembre 2021. Durissimo attacco in diretta ad Agorà, su Rai tre di Andrea Crisanti al Comitato tecnico scientifico: "Il problema è semplice, nel Cts siedono due persone lottizzate che sono responsabili di disastri e di confusione perché hanno detto che il virus era morto". Il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'università di Padova, in collegamento con Luisella Costamagna, ha detto: "L'istituzione non è una religione". Il fatto che i componenti del Cts rappresentino "le istituzioni non significa che siano depositari della verità. E' questo il problema". Come politici, ha aggiunto il professore replicando a Matteo Ricci (sindaco Pd) presente in studio, "avete la responsabilità di aver nominato due persone che hanno detto che il virus è morto". L'esperto ha precisato di non avercela con le persone, "ma con il sistema: il primo Cts conteneva una manica...  un gruppo persone incompetenti che non erano assolutamente indipendenti. Questo è stato il problema dell'Italia", ha concluso. "Io credo che la verità venga dal confronto. Poi il Cts è quello che è, non mi importa chi ci sia. Ma è giusto anche che, se il Cts dice una cosa, ci sia un’altra persona che possa o approvare o metterne in risalto le contraddizioni". 

Francesco Malfetano per "il Messaggero" il 17 giugno 2021. I toni sono più o meno gli stessi già da qualche settimana. «Che senso ha continuare in questo modo?». E ancora: «Il nostro ruolo non può essere quello di fare da foglia di fico della politica. Noi così non possiamo più starci». Ancora poco più che riflessioni, domande e note polemiche che però ormai di giorno in giorno, di riunione in riunione, di parere in parere, prendono forza all' interno del Comitato tecnico scientifico. O meglio del nuovo Cts, quello meno incisivo voluto al suo arrivo dal premier Mario Draghi dopo il passo indietro - per dirla elegantemente - dell'ex coordinatore Agostino Miozzo.

IL RUOLO Fiaccati dagli attacchi e da un'ultima settimana decisamente difficile, alcuni dei volti più noti del Comitato stanno iniziando a ragionare su una exit strategy. «Restare così è inutile - spiega uno dei membri della prima ora -. Stiamo pattinando sul ghiaccio. L' attività del Comitato non può limitarsi a definire le strategie sui vaccini perché la politica e soprattutto il ministero non vogliono farsene carico». L' idea, ormai largamente diffusa, è che gli esperti siano stati relegati allo svolgere un ruolo di sintesi tecnico-politica che poco avrebbe a che vedere con l'apporto scientifico che invece gli dovrebbe competere. Al punto che, quando nei giorni scorsi dalle colonne del Messaggero la ministra per gli Affari Regionali Mariastella Gelmini ha in qualche modo rigettato l'idea di prolungare lo stato d' emergenza dopo il 31 luglio, tra i tecnici qualcuno abbozzava un'esultanza. Senza i pieni poteri infatti, a meno che come prospettato dal ministro della Salute Roberto Speranza non si opti per un percorso legislativo ad hoc, il Cts semplicemente verrebbe sciolto. Un' ipotesi che al Comitato non dispiacerebbe affatto. «Lo stato d' emergenza non è più detto serva - spiega un altro dei tecnici che ha appena appreso l'idea del premier, riportata sempre da questo giornale, di prolungare lo status fino alla fine dell'anno - la gestione del piano vaccinale ora penso possa anche essere ricondotta all' ordinarietà», portando tutto nell' alveo del ministero della Salute o magari della sanità militare. «Sarebbe anche un ulteriore segnale per il Paese - aggiunge - adeguato al fatto che la campagna di Figliuolo nonostante le difficoltà procede, i casi sono sempre in calo e le riaperture sono ormai realtà. Il Cts oggi non è strategico». Se poi le cose dovessero peggiorare di nuovo in autunno, è questa la tesi, «con responsabilità» lo si potrebbe facilmente rimettere in piedi. «Un po' come accade per la commissione grandi rischi».

LA POLITICA La corrente di coloro che vorrebbero rinunciare, per così dire, è folta ma in contrasto con alcuni componenti «che hanno evidente bisogno di visibilità». Se però non lo fanno di loro spontanea volontà, ovvero non si dimettono, è per evitare che la narrazione successiva li ponga dalla parte di coloro che rinunciano in un momento delicato. «Non dopo tutti questi mesi». Ed è lo stesso motivo per cui confidano e raccontano, ma ancora non sono pronti ad attaccare frontalmente. «Noi vogliamo solo che la politica decida» dice infatti un altro dei membri critici nei confronti del ruolo destinato al Cts. «Siamo tecnici, medici, disposti ad investire le proprie competenze per affrontare un'emergenza». Non per far fronte a dei «giochi di palazzo».

AstraZeneca, adesso fuori i colpevoli. Andrea Indini l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Le sparate dei virologi, le giravolte dell'Aifa e il caos Open Day. Anche Palù ammette: "Non c'è mai stato un divieto". Ora però il Cts corre ai ripari: perché non lo si è fatto prima? Quando lo scorso aprile è arrivata la circolare dell'Aifa che raccomandava l'uso dei vaccini a vettore virale (cioè AstraZeneca e Johnson&Johnson) per le persone con più di 60 anni, il governatore Luca Zaia ha preso una decisione: "Quel vaccino si sarà fatto solo a chi ha più di 60 anni, salvo diversa anamnesi del medico". E così gli Open Day vennero banditi dalla Regione Veneto. Una scelta anche condivisa con il generale Francesco Paolo Figliuolo. "Se resta questa l'indicazione - gli spiegò quando lo incontrò lo scorso 13 maggio - finiti gli over 60, i vaccini a vettore virale rischiano di finire su un binario morto". Al tempo la notizia era passata quasi sotto traccia ma ora che una 18enne è morta e un’altra donna di 34 anni è in rianimazione dopo essere stata operata al cervello per una trombosi, il tema torna fuori con prepotenza e le domande che sorgono spontanee sono: perché nonostante le raccomandazioni si è continuato a somministrare AstraZeneca alle donne sotto i sessanta? Chi ha preso questa decisione? E soprattutto: qualcuno pagherà per questo errore? Si è sempre parlato di trombosi rare. "Pochissimi casi", lo hanno ripetuto in tutte le salse. A inizio aprile Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, lo considerava "tra i più sicuri al mondo". Non solo. Spiegando che "i casi di trombofilia sono infinitesimali" e che comunque "non esiste un vaccino sicuro per tutti al 100 per cento", in una intervista a SkyTg24, non si faceva alcun problema a dire che lo avrebbe consigliato "alle donne giovani, senza dubbio". Ovviamente era in buona compagnia. In quegli stessi giorni Massimo Galli, primario del reparto Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, la pensava esattamente allo stesso modo. "Queste situazioni possiamo chiamarle rumore di fondo - spiegava a L'aria che tira - quello che purtroppo è riservato all’umanità ogni santo giorno, perché ogni santo giorno c'è chi muore di infarto o di trombosi cerebrale o di tumore o in seguito a un incidente d'auto". Qualche settimana dopo, nonostante la decisione dell'Aifa, confermava la propria posizione: "Quel vaccino è meno pericoloso di una Tac". Il punto vero è che su AstraZeneca si è detto tutto e il contrario di tutto. Anche l'Aifa non è stata così chiara limitandosi a fare una raccomandazione "in via preferenziale" mentre le agenzie del farmaco degli altri Paesi europei prendevano decisioni più nette. Oggi a piangere Camilla è tutto il Paese ma i fari sono puntati sulla Liguria una delle tante regioni in cui sono stati organizzati gli Open Day per le vaccinazioni di massa. "La possibilità di usare AstraZeneca per tutti su base volontaria non è un'invenzione delle Regioni o di qualche dottor Stranamore - ha denunciato il governatore Giovanni Toti su Facebook - è un suggerimento che arriva dai massimi organi tecnico-scientifici per aumentare il volume di vaccinazioni, e quindi evitare più morti". E infatti, in una intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 3 maggio, Giorgio Palù, presidente dell'agenzia del farmaco italiana nonché membro del Comitato tecnico scientifico, diceva chiaramente che chi ha meno di 60 anni può ricevere AstraZeneca: "Non c'è mai stato un divieto. L'agenzia europea Ema non ha posto restrizioni per età mentre Aifa ha solo dato un'indicazione per uso preferenziale agli over 60. Il suggerimento è stato interpretato come regola, ma non è così". "AstraZeneca ha cambiato almeno cinque volte in tre mesi la sua destinazione - ha commentato Toti - solo sotto i 50 anni, poi sospeso, poi solo sopra i 60, poi per tutti". Adesso, come anticipato dall'agenzia LaPresse, il Cts sta elaborando un nuovo parere tecnico sulla somministrazione del siero fermo restando che la competenza sui vaccini rimane alla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Probabilmente ci sarà l'ennesimo cambio di rotta. Resta, però, da capire per quale motivo, per quanto le trombosi siano un evento raro, si sia comunque deciso di far correre dei rischi agli under 60. Non mancavano certo vaccini alternativi con cui sostituire le dosi di AstraZeneca. Zaia, per esempio, ha spiegato al Corriere della Sera, di aver accantonato 140mila fiale per le seconde dosi perché comunque è "un vaccino che funziona e dà un'ottima risposta anticorpale". Le soluzioni per non correre rischi, dunque, c'erano. Perché non sono state seguite? C'era davvero bisogno di correre così, soprattutto sulla fascia più giovane che ha meno possibilità di contrarre il Covid-19 o comunque di morirci, quando ormai i casi erano in netta diminuzione? Ora che le "rare trombosi" hanno un nome e cognome chiaro, servono risposte chiare perché non si ripetano in futuro questi errori. E male non farebbe, almeno una volta ogni tanto, sapere chi sono i colpevoli di questa gestione azzardata.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 13 giugno 2021. Che Roberto Speranza non fosse il ministro adatto a portare fuori l'Italia dalla pandemia lo avevamo capito più di un anno fa. Non soltanto per la clamorosa sottovalutazione del coronavirus nei mesi di gennaio e febbraio, quando ancora l'emergenza non aveva mietuto decine di migliaia di vittime (di lui rimarranno scolpite nella storia le frasi con cui definiva l'Italia prontissima ad affrontare il Covid), ma anche per la gaffe con cui in un libro celebrò la fine dell'epidemia sebbene il peggio dovesse ancora venire. Tralasciamo poi le incertezze dei mesi scorsi, la poca chiarezza sulle cure da applicare in via preventiva, l'errore che ha portato a ritenere Astrazeneca il vaccino più promettente e perfino il tragico abbaglio che ha indotto a delegare gli acquisti del farmaco salvavita alla Ue, con tutti i ritardi che ne sono seguiti. Tuttavia, se dall'anno scorso ci erano note sia la sua impreparazione che la testardaggine nel perseguire scelte sbagliate, mai avremmo pensato che il segretario del piccolo partito di nostalgici del comunismo potesse fare peggio, riuscendo a combinare guai anche ora che, grazie alla rimozione di Domenico Arcuri, la vaccinazione di massa sembrava procedere al meglio. Ci riferiamo al caos provocato prima dalla scelta di inoculare con Astrazeneca tutti, anche gli adolescenti, poi alla decisione di bloccare ogni cosa a seguito della morte di una ragazza di 18 anni. Una retromarcia che rischia di lasciare scoperte oltre un milione di persone che hanno ricevuto la prima dose anche se non hanno sessant' anni, e alle quali ora non si sa più che seconda dose somministrare. Così facendo, Speranza ha precipitato nella confusione diverse regioni, tra le quali Piemonte, Lombardia e Toscana, che sono state costrette a sospendere i richiami in attesa di capire con quali farmaci vaccinare coloro che ora non possono più fare Astrazeneca. Anche i bambini ormai sanno che tocca al governo, cioè al ministro, emanare le direttive per difendere la salute dei cittadini, mentre alle Regioni spetta il compito di applicare le disposizioni. Ma se le indicazioni sono confuse, e anzi contraddittorie, il rischio è un caos colossale, perché un milione di persone con meno di sessant' anni si trova nella condizione di non sapere che ne sarà di loro, come, quando e con quale farmaco saranno vaccinate. E dire che i dubbi sugli effetti di Astrazeneca, ma ancor più sulle giovani donne, non sono di ieri. Da mesi si discute proprio di questo, e fior di scienziati avevano messo in guardia dall'uso del farmaco su persone di sesso femminile sottoposte ad alcune terapie. Da subito si era detto che al di sotto di una certa età la somministrazione del vaccino era sconsigliata e quello inglese addirittura quasi vietato, prova ne sia che in alcuni Paesi le autorità sanitarie avevano emanato precise disposizioni. Da noi, no. Troppo occupato a scrivere libri che non pubblica o a pensare alle alleanze di una coalizione di sinistra che va in pezzi, Speranza non ha detto una parola per impedire le vaccinazioni di massa agli adolescenti. Né ha proferito verbo circa i limiti da imporre per l'uso di Astrazeneca. Così, in alcune regioni si sono inoculati a manetta anche i ragazzi e il risultato è una frenata generale dopo il decesso di Camilla Canepa, la diciottenne di Genova morta in seguito alla somministrazione del vaccino inglese. A questo punto Speranza si è ricordato di essere il ministro della Salute e finalmente ha aperto bocca per bloccare tutto e invitare le Regioni a usare, per le seconde dosi, altri vaccini. Operazione che lascia perplessi perfino alcuni virologi, perché nessuno conosce gli effetti del cocktail di farmaci, dato che al momento studi clinici completi sono stati eseguiti su persone che hanno ricevuto un solo vaccino, anche se diviso in due dosi. Insomma, la confusione regna sovrana e purtroppo anche Speranza. Ma proprio il fatto che qualunque guaio combini, il ministro della Salute rimanga al suo posto, ci induce a una domanda: chi è il suo santo protettore? Già, perché dobbiamo tenere a tutti i costi questo oscuro burocrate alla guida del ministero più importante? Mario Draghi ha cacciato in pochi giorni Arcuri e pure Angelo Borrelli, mentre altri manager li ha messi alla porta con poche cautele e perfino un protetto dell'ex premier come il capo dei servizi segreti, il generale Gennaro Vecchione, è stato liquidato senza complimenti. Dunque, qual è il motivo per cui Speranza resta incollato alla sedia? Molti, al suo posto, avrebbero già dovuto fare le valigie. E non è pensabile che il micro partito di cui fanno parte Massimo D'Alema e Pier Luigi Bersani possa imporre la permanenza di Speranza. Perciò, torniamo a chiedere: perché la salute degli italiani deve rimanere nelle sue mani? C'è forse un segreto inconfessabile?

Pietro Senaldi contro Roberto Speranza: "Camilla Canepa? Ammazzata dalla sua gestione delirante".  Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Camilla non è stata uccisa dal Covid, che sui diciottenni sani non è letale, e in fondo neppure dal vaccino, benché il suo decesso sia dovuto a un'iniezione di Astrazeneca. La giovane di Sestri Levante è stata ammazzata dalla gestione delirante che il governo, e in particolare il ministro della Salute Speranza e il Comitato Tecnico Scientifico, ha avuto della comunicazione in merito agli effetti del siero anglo-svedese. È opportuno ricordare che Libero è da sempre a favore della profilassi di massa. La riteniamo un dovere civico. Fatichiamo a comprendere chi, dopo aver maledetto la sorte chiuso in casa per un anno e mezzo, essersi terrorizzato, aver visto i camion con le bare e le aziende chiudere, ora, che stiamo faticosamente mettendo la testa fuori dal tunnel, si ritrae davanti all'iniezione, aspettando di beneficiare di un'immunità di gregge in arrivo solo dalla generosità e dal coraggio del prossimo. E però bisogna anche dire che, a fronte delle informazioni, contraddittorie, sempre vaghe e mai scientifiche che Speranza e i suoi esperti danno sulla profilassi, oggi vaccinarsi può essere considerato un gesto eroico. Sono tempi in cui si spreca la parola eroe per descrivere chi lascia il posto a un anziano sull'autobus o chiama il pronto soccorso se assiste a un incidente. Se proprio bisogna esagerare, ci pare più giusto dire che per noi è un gesto di eroismo civico offrire il braccio al vaccino, per proteggere se stessi ma anche gli altri, perché il governo ha fatto di tutto per spaventare i cittadini in merito alla profilassi. Il caso Astrazeneca fa scuola. Prima ci hanno detto che non poteva essere somministrato sopra i 55 anni, e così abbiamo ritardato a immunizzare gli anziani, categoria a rischio a cui il vaccino di Oxford non fa male. Poi ci hanno spiegato che si erano sbagliati e che sotto i quaranta era sconsigliata l'iniezione, però hanno consentito alle Regioni di continuare a farla. Quindi c'è stata la discriminazione di genere: Astrazeneca è pericolosa, ma solo in casi rarissimi e per le donne, comunque meno di quanto lo sia la pillola anticoncezionale. E nel mentre che lo sconsigliava, il governo ha lasciato che le Regioni organizzassero delle giornate aperte, addirittura delle nottate della profilassi, con i ragazzi liberi di farsi inoculare senza prenotazione e senza che nessuno gli chiedesse alcunché. Camilla è vittima di questa superficialità istituzionale, sulla quale soffia forte il sospetto che le saghe della somministrazione libera siano organizzate per far fuori le scorte di Astrazeneca prima che scadano, alla spera in Dio, senza guardare in faccia ai ragazzi a cui si buca il braccio, e ovviamente senza curarsi della loro cartella clinica. Ancora ieri, a cadavere caldo, Speranza spiegava alla nazione che tutti i vaccini sono sicuri. Lo sciagurato parlatore, incapace di rendersi conto che le parole rassicuranti per descrivere una tragedia hanno il solo effetto di seminare il panico. È atteso, come un vaticinio, il parere del Comitato Scientifico su Astrazeneca. Qualunque sia, è destinato a contraddirne almeno tre precedenti. Per fortuna gli italiani, per la maggioranza, sembrano più saggi del ministro della Salute e dei suoi cervelloni. Hanno capito che i vaccini salvano le vite e che, in rarissimi casi, su donne fertili che, magari senza saperlo, hanno fatto il Covid o assumono anticoncezionali, Astrazeneca può fare male. Non si può pretendere però che Camilla e i suoi coetanei, ai quali le istituzioni organizzano feste per offrire i vaccini come mele proibite, e per taluni avvelenate, arrivino da soli a queste conclusioni. Le autorità regolatorie dei farmaci e il governo non devono raccomandare alle Regioni e alla popolazione di non assumere un farmaco di cui consentono la diffusione. Sconsigliare non può consentire allo Stato di lavarsi la coscienza della sorte dei cittadini, come fa con le scritte e le foto terrorizzanti sui pacchetti di sigarette. Ci vogliono linee guida e divieti, e guai se stavolta il ministero prova a rimpallare le proprie responsabilità sulle Regioni, come faceva ai tempi in cui andavano di moda i giallorossi. Lo Stato deve avere il coraggio di vietare Astrazeneca a certe fasce d'età e di finire di farsi pubblicità con le giornate del vaccino libero. Non può sempre pretendere che siano solo i cittadini -sudditi ad avere coraggio.

AstraZeneca, adesso fuori i colpevoli. Andrea Indini l'11 Giugno 2021 su Il Giornale. Le sparate dei virologi, le giravolte dell'Aifa e il caos Open Day. Anche Palù ammette: "Non c'è mai stato un divieto". Ora però il Cts corre ai ripari: perché non lo si è fatto prima? Quando lo scorso aprile è arrivata la circolare dell'Aifa che raccomandava l'uso dei vaccini a vettore virale (cioè AstraZeneca e Johnson&Johnson) per le persone con più di 60 anni, il governatore Luca Zaia ha preso una decisione: "Quel vaccino si sarà fatto solo a chi ha più di 60 anni, salvo diversa anamnesi del medico". E così gli Open Day vennero banditi dalla Regione Veneto. Una scelta anche condivisa con il generale Francesco Paolo Figliuolo. "Se resta questa l'indicazione - gli spiegò quando lo incontrò lo scorso 13 maggio - finiti gli over 60, i vaccini a vettore virale rischiano di finire su un binario morto". Al tempo la notizia era passata quasi sotto traccia ma ora che una 18enne è morta e un’altra donna di 34 anni è in rianimazione dopo essere stata operata al cervello per una trombosi, il tema torna fuori con prepotenza e le domande che sorgono spontanee sono: perché nonostante le raccomandazioni si è continuato a somministrare AstraZeneca alle donne sotto i sessanta? Chi ha preso questa decisione? E soprattutto: qualcuno pagherà per questo errore? Si è sempre parlato di trombosi rare. "Pochissimi casi", lo hanno ripetuto in tutte le salse. A inizio aprile Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di Microbiologia dell’Università di Padova, lo considerava "tra i più sicuri al mondo". Non solo. Spiegando che "i casi di trombofilia sono infinitesimali" e che comunque "non esiste un vaccino sicuro per tutti al 100 per cento", in una intervista a SkyTg24, non si faceva alcun problema a dire che lo avrebbe consigliato "alle donne giovani, senza dubbio". Ovviamente era in buona compagnia. In quegli stessi giorni Massimo Galli, primario del reparto Malattie Infettive dell’ospedale Sacco di Milano, la pensava esattamente allo stesso modo. "Queste situazioni possiamo chiamarle rumore di fondo - spiegava a L'aria che tira - quello che purtroppo è riservato all’umanità ogni santo giorno, perché ogni santo giorno c'è chi muore di infarto o di trombosi cerebrale o di tumore o in seguito a un incidente d'auto". Qualche settimana dopo, nonostante la decisione dell'Aifa, confermava la propria posizione: "Quel vaccino è meno pericoloso di una Tac". Il punto vero è che su AstraZeneca si è detto tutto e il contrario di tutto. Anche l'Aifa non è stata così chiara limitandosi a fare una raccomandazione "in via preferenziale" mentre le agenzie del farmaco degli altri Paesi europei prendevano decisioni più nette. Oggi a piangere Camilla è tutto il Paese ma i fari sono puntati sulla Liguria una delle tante regioni in cui sono stati organizzati gli Open Day per le vaccinazioni di massa. "La possibilità di usare AstraZeneca per tutti su base volontaria non è un'invenzione delle Regioni o di qualche dottor Stranamore - ha denunciato il governatore Giovanni Toti su Facebook - è un suggerimento che arriva dai massimi organi tecnico-scientifici per aumentare il volume di vaccinazioni, e quindi evitare più morti". E infatti, in una intervista rilasciata al Corriere della Sera lo scorso 3 maggio, Giorgio Palù, presidente dell'agenzia del farmaco italiana nonché membro del Comitato tecnico scientifico, diceva chiaramente che chi ha meno di 60 anni può ricevere AstraZeneca: "Non c'è mai stato un divieto. L'agenzia europea Ema non ha posto restrizioni per età mentre Aifa ha solo dato un'indicazione per uso preferenziale agli over 60. Il suggerimento è stato interpretato come regola, ma non è così". "AstraZeneca ha cambiato almeno cinque volte in tre mesi la sua destinazione - ha commentato Toti - solo sotto i 50 anni, poi sospeso, poi solo sopra i 60, poi per tutti". Adesso, come anticipato dall'agenzia LaPresse, il Cts sta elaborando un nuovo parere tecnico sulla somministrazione del siero fermo restando che la competenza sui vaccini rimane alla Direzione generale della prevenzione sanitaria del ministero della Salute. Probabilmente ci sarà l'ennesimo cambio di rotta. Resta, però, da capire per quale motivo, per quanto le trombosi siano un evento raro, si sia comunque deciso di far correre dei rischi agli under 60. Non mancavano certo vaccini alternativi con cui sostituire le dosi di AstraZeneca. Zaia, per esempio, ha spiegato al Corriere della Sera, di aver accantonato 140mila fiale per le seconde dosi perché comunque è "un vaccino che funziona e dà un'ottima risposta anticorpale". Le soluzioni per non correre rischi, dunque, c'erano. Perché non sono state seguite? C'era davvero bisogno di correre così, soprattutto sulla fascia più giovane che ha meno possibilità di contrarre il Covid-19 o comunque di morirci, quando ormai i casi erano in netta diminuzione? Ora che le "rare trombosi" hanno un nome e cognome chiaro, servono risposte chiare perché non si ripetano in futuro questi errori. E male non farebbe, almeno una volta ogni tanto, sapere chi sono i colpevoli di questa gestione azzardata.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 

Bruno Vespa sul caso di Camilla Canepa, da chi è stata uccisa: "Ora una soluzione radicale, comandare e non raccomandare". Libero Quotidiano il 12 giugno 2021. Diktat di Bruno Vespa che arriva direttamente dalle colonne del Giorno nel consueto editoriale del sabato. La questione ormai è arcinota: la somministrazione di AstraZeneca sui più giovani. Il caso è diventato ancora più controverso dopo la scomparsa di Camilla Canepa, diciottenne genovese sottoposta al vaccino anglo-svedese  e deceduta per trombosi. Anche lei secondo l'editorialista del Giorno "è vittima della confusione scientifica in atto da mesi e del federalismo sanitario, spesso virtuoso, talvolta irragionevole". Impossibile non notare le continue giravolte: "Dapprima AstraZeneca consigliata ai giovani, poi alle persone anziane". Nel mirino del conduttore di Porta a Porta ci finisce Roberto Speranza che, "facendo proprie le indicazioni del Comitato tecnico scientifico" e "pur ricordando che il vaccino Astrazeneca era raccomandato ai maggiori di 60 anni", lo approvava per tutte le persone sopra i 18. E così il pensiero di Piercamillo Davigo "che sostiene giustamente che in Italia non basta dire che una cosa è vietata: bisogna aggiungere 'severamente vietata' per avere un minimo di credibilità", secondo Vespa andrebbe rivisto anche per i vaccini. In particolare "'l'uso preferenziale' nella nostra lingua e nelle nostre abitudini ha autorizzato le regioni a fare quello che hanno voluto con i risultati che abbiamo visto". Da qui la necessità di avere quella che il giornalista definisce "una soluzione radicale". Insomma, "basta raccomandazioni. Agli italiani servono ordini". Un concetto che va di pari passo con quello espresso da Alessandro Sallusti. Il direttore di Libero si appellava alla comunità scientifica affinché eliminasse la dicitura "è consigliato". "No - tuonava a Stasera Italia - uno scienziato non mi deve consigliare, mi deve dire sì o no. Perché se no ci si trova in una zona grigia". E non è niente di più di quanto accaduto a Camilla che, nonostante assumesse cure ormonali, si è recata all'Open Day per fare quello che le hanno chiesto: vaccinarsi.

Bruno Vespa, fango e vergogna del Fatto Quotidiano: un pensionato guardone. Ma tacciono su Roberto Speranza. Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Daniela Ranieri è entrata a gamba tesa su Bruno Vespa e Matteo Bassetti, che lo scorso mercoledì hanno disquisito a Porta a Porta di quanto sta accadendo con la campagna di vaccinazione e in particolare con AstraZeneca, che qualche problema in relazione ai giovani lo sta dando. In particolare lo storico giornalista e conduttore di Rai 1 è stato definito l’umarell della virologia, ovvero il classico pensionato che si aggira con le mani dietro la schiena facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che si svolgono.  “Infatti non ne azzecca una”, è la puntura dell’opinionista del Fatto Quotidiano, che poi se l’è presa anche con Bassetti. Ma il punto è soprattutto AstraZeneca. Cosa fare? “Qui si tifa molto per AZ - è il commento della Ranieri su Porta a Porta - il vaccino dapprima indicato solo sotto i 55 anni, quindi bloccato, poi autorizzato fino ai 65 anni, poi indicato da Aifa solo per gli ultra-sessantenni, quindi autorizzato dall’Ema senza limiti di età, indi iniettato nelle vene di parecchi giovani nei baccanali vaccinali detti Open Day, infine bloccato sotto i 50 anni nelle ultime ore”. Ricostruzione giusta, che testimonia la confusione istituzionale sul vaccino di AstraZeneca: ma perché prendersela con Vespa e Bassetti? Guarda caso la Ranieri ‘dimentica’ il ministro Speranza e il Cts, ma ricorda benissimo di nominare il generale Figliuolo, nemico pubblico numero uno per il giornale diretto da Marco Travaglio. 

Stasera Italia, l'attacco di Alessandro Sallusti alla classe dirigente scientifica su AstraZeneca: "Penso ci sia qualcosa di più". Libero Quotidiano l'11 giugno 2021. Si parla di AstraZeneca a Stasera Italia e in particolare della morte di Camilla Canepa, 18enne colpita da trombosi dopo essersi vaccinata in un Open Day. A parlarne in collegamento con Barbara Palombelli su Rete Quattro c'è Alessandro Sallusti. Il direttore di Libero ammette che "si esce da una situazione confusa che ha stupito l'opinione pubblica. Ma - è questo il suo affondo - io penso ci sia qualcosa di più". Per Sallusti la politica "avrà anche la sua responsabilità, ma qui è un problema della classe dirigente scientifica". Il direttore chiede di abolire dal vocabolario la frase "è consigliato": "No, uno scienziato non mi deve consigliare, mi deve dire sì o no. Perché se no ci si trova in una zona grigia". E così è stato: Camilla Canepa si era vaccinata volontariamente, così come consigliato. Eppure la trombosi non le ha lasciato scampo. Un avvenimento che ha scosso l'Italia intera e su cui il ministro della Salute è ora costretto a intervenire: "A fine aprile l’Ema ha concluso un’ulteriore valutazione il cui esito ha dimostrato che i benefici della vaccinazione aumentano con l’aumento dell’età e del livello di circolazione del virus - ha spiegato Roberto Speranza -. Tale dato è stato valutato dall’Aifa ed è stato ribadito che il profilo beneficio-rischio risulta più favorevole con l’aumentare dell’età". E infatti AstraZeneca era stato "consigliato", appunto, solo per chi avesse più di 60 anni salvo poi fare una piccola retromarcia costata però carissimo alla 18enne di Sestri Levante, deceduta nonostante i due interventi chirurgici subiti per salvarle la vita. Ora dunque si pensa a un altro stop del vaccino anglo-svedese sui giovani.

Da "liberoquotidiano.it" il 12 giugno 2021. Si parla del caso AstraZeneca e della morte di Camilla Canepa, di diciotto anni. E Alessandro Sallusti, in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7, nella puntata dell'11 giugno, si scontra con Marco Travaglio: "Dire che qualcuno ha sbagliato è ovvio. Ci sta che Travaglio trovi subito il colpevole. E che sia il generale Figliuolo che è il suo nemico del momento", attacca il direttore di Libero. Che spiega: "Direi che probabilmente hanno sbagliato più persone, hanno sbagliato i sanitari sul posto a non accertarsi di patologie in corso e pregresse, ha sbagliato il governo e il ministro della Salute in particolare a non fare prima l'ordinanza che ha fatto oggi, quindi non a sconsigliare AstraZeneca sotto i 60 anni ma a ordinarlo". E sicuramente, prosegue Sallusti, "ha sbagliato anche il generale Figliuolo ad organizzare gli open day che già nel nome ricorda qualcosa di divertente mentre vaccinarsi è una cosa seria". Quindi il direttore di Libero affonda il direttore del Fatto quotidiano, da sempre nostalgico del duo Conte-Arcuri: "Ricordo a Travaglio che il primo morto per AstraZeneca è avvenuto con Domenico Arcuri e non mi sembra che Travaglio abbia chiesto le sue dimissioni". "Non è un derby, che senso ha vaccinare i ragazzini?", ribatte Travaglio. "Perché in Germania non vaccinano i ragazzi ma solo pochi giovani a rischio?". Prosegue: "Sappiamo che gli effetti collaterali ci sono e vengono messi in conto se hai migliaia di morti per la pandemia e quindi è come essere in guerra. Ma quando hai zero morti per Covid perché esporre i giovani al rischio". Quindi Sallusti lo gela: "Il generale Figliuolo non ha deciso di vaccinare i giovani. Ma il governo. Lui si occupa della logistica non di vaccini. Sui vaccini decide il ministro Speranza". 

Quella catena (in)decisionale causa del pasticcio su AstraZeneca. Francesca Angeli il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Prima l'ok tra i 20 e i 55 anni. Poi innalzato fino ai 65. A fine marzo emergono i casi di trombosi, la Germania lo vieta agli under 60. Ma Ema, Aifa e Cts escludono correlazioni. E l'Italia continua. Un thriller con molti colpi di scena e purtroppo anche delle vittime. La scoperta, la sperimentazione e la successiva distribuzione di un vaccino non dovrebbe ricalcare la trama di un giallo di Agatha Christie o di una novella di Pirandello dove non c'è mai una sola verità. Purtroppo il percorso accidentato del vaccino di Oxford è costellato di accelerazioni, retromarce e inversioni ad U giocate sulla pelle dei cittadini. Nell'incertezza, assolutamente comprensibile visti i tempi straordinariamente ridotti per la produzione in emergenza, le istituzioni responsabili avrebbero dovuto però attenersi al principio di massima precauzione e dare da subito indicazioni inequivocabili e non raccomandazioni. Anche a rischio di frenare la campagna vaccinale come hanno fatto altri Paesi. Soprattutto per i giovani che hanno un rischio bassissimo di contrarre forme gravi di Covid. Ma ripercorriamo le diverse tappe poi culminate ieri nel divieto di utilizzo di AstraZeneca al di sotto della soglia dei 60 anni. Il vaccino AstraZeneca poi ribattezzato Vaxzevria è stato messo a punto nei laboratori dello Jenner Institute dell'Università di Oxford. Il via libera dall'Agenzia europea del Farmaco, Ema, arriva il 29 gennaio 2021 con un'indicazione alla somministrazione per tutti dai 18 anni in poi. Subito dopo arriva l'ok dell'Agenzia italiana del farmaco, Aifa, però con una diversa raccomandazione: preferibile somministrarlo tra i 18 e i 55 anni. Non perché ci siano dati sull'efficacia in quella particolare fascia d'età, ma perché invece non ce ne sono abbastanza relativamente alla popolazione più anziana. Si procede per difetto insomma. E dunque via libera alle inoculazioni per categorie: forze armate e di polizia, personale scolastico, personale carcerario e detenuti. Dunque una popolazione attiva, giovane dai 20 ai 50 anni. Il 22 febbraio parte una circolare dal ministero della Salute che alza da 55 a 65 anni l'età di chi poteva sottoporsi al vaccino AstraZeneca in seguito a «nuove evidenze scientifiche». L'età viene ulteriormente innalzata l'8 marzo: ok per gli over 65, escludendo i soggetti estremamente vulnerabili. L'11 marzo è lo stesso premier Mario Draghi ad annunciare il blocco di un lotto «in via precauzionale». Ma poi il 15 dopo il verificarsi di diversi casi sospetti di trombosi correlati al vaccino, prevalentemente in donne di età compresa tra i 25 e i 65 anni, anche l'Italia decide si sospendere «in via precauzionale» le somministrazioni del farmaco. Nel nostro Paese le morti sospette sono almeno sei. L'Ema avvia un'indagine che però si conclude con la conferma che il vaccino è «sicuro ed efficace». E così il 19 marzo il direttore generale dell'Aifa, Nicola Magrini affiancato dal presidente del Comitato Tecnico Scientifico Franco Locatelli, dichiara che: «I benefici del vaccino AstraZeneca superano ampiamente i rischi. Pertanto il prodotto è sicuro, senza limiti d'età e senza sostanziali controindicazioni per l'uso». Nessuna controindicazione. Alla fine di marzo però la Germania sospende AstraZeneca per gli under 60, preoccupata da 31 casi sospetti di trombosi, di cui 29 tra donne di età compresa tra i 20 e i 63 anni. Non solo, le autorità sanitarie consigliano alle persone sotto i 60 anni che hanno ricevuto la prima dose di AstraZeneca una seconda dose «eterologa». Da noi si procede anche perché l'Ema ribadisce che non è dimostrata la correlazione fra il siero e i rari casi di trombosi. Ma altri Paesi la seguono su questa strada sospendendo i vaccini Francia, Paesi Bassi, Svezia, Finlandia, Islanda e Canada. La Danimarca annuncia il blocco definitivo il 14 aprile. L'Italia procede con gli open day per i giovani fino allo stop «perentorio» di ieri. Francesca Angeli

Morte Camilla, trema il Cts: chi ha autorizzato gli Open day? Valentina Dardari il 12 Giugno 2021 su Il Giornale.  La Procura acquisisce anche la lettera del Comitato tecnico scientifico alle Regioni contenente il parere sugli open day. Il Cts adesso trema. Per la morte di Camilla Canepa, la 18enne pallavolista morta a Genova in seguito a una trombosi dopo circa una decina di giorni dall’aver ricevuto la prima dose di vaccino AstraZeneca, la Procura vuole vederci chiaro. Ha deciso infatti di acquisire anche la lettera inviata dal Cts, il Comitato tecnico scientifico, alle Regioni, con al suo interno il parere riguardante gli open day.

Il documento che inchioda il Cts. Il documento verrà quindi acquisito dai magistrati per capire chi ha autorizzato gli open day e fare luce sulla morte della giovane che si stava preparando a sostenere l’esame di maturità. Nella giornata di ieri la Procura di Genova ha dato incarico ai Nas di venire in possesso di tutta la documentazione utile al fine di poter arrivare a una valutazione complessiva di quanto avvenuto. Sulla vicenda è stato aperto un fascicolo e sono al momento in corso accertamenti. Il documento del Cts è stato pubblicato sulla sua pagina Facebook anche dal governatore della Liguria, Giovanni Toti. Nell’atto si legge che il Comitato tecnico scientifico, tra le raccomandazioni inserite nel proprio parere, "non rileva motivi ostativi a che vengano organizzate, dalle differenti realtà regionali o legate alle province autonome, iniziative quali vaccination day mirate ad offrire in seguito ad adesione e richiesta volontaria i vaccini a vettore adenovirale a tutti i soggetti di età superiore ai 18 anni". In contemporanea i Nas hanno sequestrato anche l'anamnesi precedente al vaccino che era stata compilata lo scorso 25 maggio quando la ragazza si era volontariamente sottoposta alla vaccinazione. Oltre naturalmente ai documenti medici compilati all'hub. Da capire anche come mai la ragazza, affetta da piastrinopenia, una patologia autoimmune, sia stata vaccinata con il siero prodotto dall’azienda anglo-svedese.

Un'altra morte sospetta. Notizia di oggi quella relativa al decesso di un uomo di 54 anni, morto lo scorso giovedì a Brescia in seguito a diversi eventi trombotici, secondo cui la procura ha aperto un fascicolo per capire se la sua morte possa essere conseguenza della prima inoculazione di vaccino AstraZeneca, avvenuta lo scorso 29 maggio. Secondo i familiari di Gianluca Masserdotti, l’uomo non soffriva di malattie pregresse ed era in buona salute. Sembra che i virilogi abbiano pareri contrastanti riguardo la decisione del ministero della Salute di riservare il siero AstraZeneca agli over 60, effettuando la seconda dose per coloro che sono sotto quella soglia di età con sieri a mRna.

Valentina Dardari. Sono nata a Milano il 6 marzo del 1979. Sono cresciuta nel capoluogo lombardo dove vivo tuttora. A maggio del 2018 ho realizzato il mio sogno e ho iniziato a scrivere per Il Giornale.it occupandomi di Cronaca. Amo tutti gli animali, tanto che sono vegetariana, e ho una gatta, Minou, di 19 anni.  

Vaccini, è caos. E il Cts finisce sotto accusa. Ignazio Riccio il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Virologi divisi e polemiche nelle Regioni italiane dopo la decisione del ministero della Salute di riservare AstraZeneca agli over 60, effettuando i richiami per chi è sotto quella soglia di età con sieri a mRna. Divide gli scienziati l'annuncio del Comitato tecnico scientifico (Cts) con la conseguente decisione del ministero della Salute di riservare il vaccino AstraZeneca agli over 60, effettuando i richiami per chi è sotto quella soglia di età con sieri a mRna. “Al momento non ci sono sufficienti studi sul mix di due vaccini anti Covid diversi – afferma il microbiologo dell'Università di Padova Andrea Crisanti – dal punto di vista teorico e immunologico non dovrebbero esserci problemi, però c'è un aspetto formale da non sottovalutare, nel senso che questa è una combinazione di cui non si sa efficacia e durata”. Imporre agli under 60 di cambiare con la seconda dose “è una procedura che non è stata validata. Magari funziona pure, però abbiamo degli organi regolatori a cui è demandata la regolazione di queste procedure, non è che uno si alza la mattina e le cambia. Nessuno può dire se il mix sia sicuro”, continua Crisanti. Il microbiologo sottolinea che le ricerche sui possibili effetti della seconda dose di AstraZeneca ci sono, mentre sulla vaccinazione eterologa sono inadeguate: “Magari funziona – sentenzia – magari ha dei problemi. Dovrebbero pronunciarsi gli enti regolatori e tutti gli altri dovrebbero fare un passo indietro. Senza i dati non ci si vaccina”. Diverse Regioni hanno finora somministrato AstraZeneca agli under 60, nonostante ci fossero state raccomandazioni del Cts in senso contrario, organizzando anche open day per i più giovani. Come quello a cui ha partecipato la 18enne di Sestri Levante Camilla Canepa, morta una decina di giorni dopo la prima dose. “La scelta del governo sul vaccino AstraZeneca, con l'esclusione della somministrazione alle persone sotto i 60 anni spero venga interpretata nel modo giusto. Ovvero come un'indicazione per permettere di minimizzare minimi rischi e garantire la massima sicurezza. Non è una scelta di incertezza "La riorganizzazione del programma vaccinale e paura ma di prudenza”. A dirlo è Fabrizio Pregliasco, virologo dell'Università Statale di Milano e presidente Anpas. “Vediamo che la vaccinazione sta funzionando – spiega – e serve. Ed è fondamentale arrivare in fondo a questa campagna coinvolgendo tutti. Dunque è importante che anche la comunicazione e le decisioni siano viste nella giusta prospettiva”. Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova ha una sua idea. “Tutta la vicenda AstraZeneca – dice – alla fine ci conferma che si è decretata la morte dei vaccini a vettore virale, visto che la decisione di limitarli solo per gli over 60 riguarda anche il vaccino J&J. Credo sia stata una decisione di buonsenso ma assolutamente politica. La scienza dice alcune cose, ma la politica sanitaria, il ministero in questo caso, deve mediare tra la scienza e la politica, di fronte a un'opinione pubblica che ha paura e dubbi”. Per Bassetti “a questo punto si pone un'ombra pesante su tutti gli altri vaccini a vettore virale, dallo Sputnik al nostro italiano Reithera, sul quale bisogna chiedersi se ha senso continuarne lo sviluppo, visto che quando arriverà sarà vecchio e nessuno lo vorrà fare”. Intanto, la regione Lombardia, dopo il pronunciamento del Cts, ha deciso di provvedere alla somministrazione eterologa della seconda dose di vaccino ai cittadini under 60 vaccinati con AstraZeneca in prima dose, ossia con vaccino Pfizer o Moderna. Lo comunica in una nota la direzione welfare dell'ente regionale. "La riorganizzazione del programma vaccinale - è scritto - avverrà negli stretti tempi necessari sulla base delle dosi di vaccino disponibili". In un primo momento in Lombardia erano stati sospesi i richiami vaccinali eterologhi in attesa di una circolare dell'Aifa. Poi una telefonata tra Roberto Speranza e Letizia Moratti avrebbe - racconta il Corriere - sbloccato lo stallo: il ministro ha infatti chiarito che la "nota ufficiale" è quella firmata nelle scorse ore dal direttore della Prevenzione Giovanni Rezza. Stop in Liguria, invece, alla somministrazione del vaccino Johnson&Johnson agli under 60. Tutte le persone al di sotto di quell’età che avevano in programma la somministrazione del vaccino Johnson, manterranno l'appuntamento ma saranno vaccinate con un prodotto mRna. Anche la Regione Piemonte ha deciso in via precauzionale di sospendere la somministrazione alla popolazione under 60 del vaccino Johnson&Johnson. In Sicilia, infine, a coloro che hanno un'età fino ai 59 anni e hanno già ricevuto la prima dose del vaccino AstraZeneca, secondo le disposizioni nazionali previgenti e le ultime indicazioni del Cts, saranno garantite le seconde dosi con sieri Pfizer o Moderna, a partire da domani, domenica 13 giugno. Lo comunica l'assessorato alla Salute della Regione siciliana.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere sull’anima. Gianluca Di Gennaro si racconta, edito da Caracò editore. Un secondo libro: L’attualità in classe-Il giornale tra i banchi di scuola (testo di narrativa per gli istituti secondari di primo grado), edito da Libriotheca Editore, è stato pubblicato a marzo 2019. Amo in particolare la lettura, il cinema e il teatro; sono appassionato di calcio e tifo

Paolo Russo per “la Stampa” il 23 aprile 2021. «Suvvia professore, non vorremo mica metterci a fare distinzioni tra il golf e il calcetto». La partita dei rigoristi di quello che fu il comitato degli scienziati che "dettava la linea" è finita lì, quando Draghi ha risposto così al professor Silvio Brusaferro, presidente dell' Iss e sempre più silente portavoce del Cts. Che poco prima aveva provato a dire che «sì, lo sport all' aperto poteva anche riprendere, ma non quello di contatto, visti i focolai che si sono contati in serie A». Dove poi giocatori e seguito finiscono in una bolla, mentre nella vita normale dopo la partita a calcio si torna in famiglia e tra i colleghi di lavoro. Ma il no di Draghi è solo l' ultimo atto di una perdita di ruolo del Cts iniziata già negli ultimi mesi del governo Conte. Perché se nella primavera terribile dell' anno 2020 era in quel conclave di esperti e scienziati che si scrivevano di fatto i Dpcm dell' emergenza pandemica, già nell' estate del liberi tutti la musica era cambiata. Un po' per l' illusione di essersi lasciati il peggio alle spalle, in parte perché la litigiosità di quel parlamentino di 30 e più super esperti aveva iniziato a creare più di un malumore nel governo giallorosso. Non a caso tra i primi atti di Draghi c' è stato il taglio con l' accetta del vecchio Cts, che oramai si consulta a decisioni già prese dopo averlo ridotto a un cenacolo di 12 esperti, poi diventati 11 con le dimissioni del "matematico che le sbaglia tutte", Giovanni Gerli. Una delle tante presenze gradite a Salvini, pronto a salutare come una svolta il nuovo comitato composto con il manuale Cencelli alla mano. Con Brusaferro, il direttore della prevenzione alla Salute Gianni Rezza, il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito e l' immunologo dell' Iss Sergio Abrignani rimasti da soli a reggere la bandiera del rigore. Con tutti gli altri, o quasi, sensibili alle ragioni di chi dice che con contagi in calo e vaccinati in crescita è ora di far ripartire il Paese. Due schieramenti e un grande mediatore, il professor Franco Locatelli, Coordinatore del Cts e presidente del Consiglio superiore di sanità. I ben informati al ministero della Salute dicono che il premier oramai si consulti più spesso con lui che con Speranza prima di prendere delle decisioni. Come quelle del decreto sulle riaperture seguite dal silenzio assordante degli scienziati di punta del Cts della prima ora. Che tutte queste aperture le avrebbero spostate avanti di almeno un mese. Non perché ne facciano una questione personale con baristi e ristoratori. Ma perché i numeri che fanno da faro alla scienza epidemiologica dicono che con questi tassi di copertura vaccinale non solo possono riprendere a galoppare i contagi ma anche ricoveri e morti. Il ragionamento che i rigoristi hanno provato a fare nelle stanze dei bottoni è questo: ancora per un bel po' le fasce giovani della popolazione resteranno senza vaccino. E se è un dato di fatto che dai 50 in giù il Covid fa meno danni, è altrettanto vero che proprio i meno anziani hanno un più alto tasso di contagiosità. Per cui lasciando il virus libero di circolare con le riaperture quelle minori percentuali di decessi e ricoveri finiranno per moltiplicare però un denominatore sempre più grande. Con il risultato di tornare punto e a capo. «Basta andare a guardare quello che è successo negli Usa. Con un 30% di vaccinati negli Stati repubblicani che hanno riaperto tutto o quasi sono aumentati morti e intubati, che negli Stati democratici dove si è tenuto sulle chiusure si contano invece sulle dita delle mani», spiega una voce autorevole del Cts che fu. Ragionamenti ai quali l' ala aperturista replica con i numeri che danno in calo tutti gli indicatori dell' epidemia e ricordando che, con i sempre più numerosi vaccinati e le temperature miti oramai alle porte, sarà più facile mettere la museruola al virus e permettere a tante categorie di uscire dalla depressione da bancarotta. Solo che la "teoria dei climi" non convince tutti gli esperti. «Ho amato Montesquieu ma l' epidemiologia è una scienza un po' più complessa», spiega con una punta di ironia Gianni Rezza. «Pochi giorni fa negli Usa a un party all' aperto si sono infettati in 40, perché se parli da vicino con la mascherina abbassata mentre sorseggi un drink le probabilità di contagio non sono inferiori che in un bar al chiuso». Ed è proprio l' incubo di un ritorno della movida serale ad aver spinto i rigoristi del Comitato a chiedere a Speranza di non cedere sulla proroga dell' orario del coprifuoco alle 23. Anche se poi è toccato al portavoce Brusaferro dare un colpo al cerchio e uno alla botte con un laconico comunicato, dove si afferma che il Cts «ritiene opportuno che venga privilegiata una gradualità e progressività di allentamento delle misure di contenimento, ivi compreso l' orario d' inizio delle restrizioni del movimento». "Gradualità e progressività", che per Salvini e i suoi governatori può anche essere accelerata. Ma che già così com' è scandita dal decreto preoccupa Speranza. «Lunedì l' Italia sarà quasi tutta gialla ma a fine mese tornerà purtroppo arancione e rossa», dicono sconsolati quelli del suo staff. Che sul tavolo hanno due grafici. Uno mostra l' effetto scuola sui contagi a settembre, dal più 343% della prima settimana al 176% di incremento solo tra il 22 e il 24 del mese. L' altro fa vedere l' effetto delle chiusure sul calo dei contagi: meno 9% con le misure da fascia arancione, -63,9% con il lockdown temperato delle zone rosse di quest' anno, meno 94,9% con quello duro della primavera scorsa. Giallo non rilevabile. «Il rischio è calcolato, il Paese deve ripartire», sostengono gli aperturisti. «Meglio riaprire un po' più tardi che farlo prima per richiudere dopo», replicano i grilli parlanti. Che nessuno ascolta più.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 25 marzo 2021. Prima di muoversi, o per muoversi meglio, la magistratura può rivolgersi alla scienza. E per le indagini su eventuali reati connessi alla somministrazione dei vaccini anti-Covid - dalle morti sospette in giù - è pronta una task force composta da esponenti dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, e del Comitato tecnico scientifico, per fornire ai pubblici ministeri tutte le informazioni necessarie a orientare le loro attività. L'indicazione arriva dal procuratore generale della Corte di cassazione Giovanni Salvi, massimo rappresentante della magistratura inquirente, ed è rivolta ai ventisei procuratori generali presso le Corti d'appello, affinché avvisino le Procure che operano sul territorio. La lettera è partita il 18 marzo, e informa che l'Aifa è pronta a supportare «gli organi inquirenti interessati, su loro richiesta», offrendo ogni sostegno «tecnico, professionale e scientifico necessario ad acquisire in via diretta e riservata le informazioni utili sulle caratteristiche e il funzionamento dei diversi vaccini». Nella missiva sono indicati i nomi di tre dirigenti dell'Aifa, con tanto di indirizzo e-mail e numero di cellulare, che possono essere contattati in qualsiasi momento. E si specifica che l'Agenzia potrà a sua volta contare sulla disponibilità di altri esperti del Comitato tecnico scientifico, tra cui nomi e volti divenuti noti agli italiani in questo anno di pandemia, come i professori Franco Locatelli, Silvio Brusaferro e Giuseppe Ippolito. In sostanza, i pm che abbiano la necessità di approfondire situazioni legate alle vaccinazioni - come è già capitato in diverse città, da Nord a Sud - possono rivolgersi a questa struttura per acquisire notizie senza ricorrere subito a iniziative come il sequestro di un intero lotto di dosi dopo un decesso sospetto, o l'immediata iscrizione sul registro degli indagati di un intero gruppo di persone potenzialmente coinvolte. È già successo, potrebbe succedere ancora e incidere negativamente sulla campagna vaccinale o sul lavoro negli ospedali. Perciò viene offerta agli inquirenti la possibilità di accertamenti generici e preventivi alla fonte, per così dire, in modo che l'eventuale attività giudiziaria possa essere sempre puntuale ed efficace, ma anche proporzionata rispetto al caso concreto. Non si tratta di «attività di consulenza», chiarisce Salvi, che restano di esclusiva competenza e scelta del singolo pm, al pari della «piena autonomia delle scelte investigative dell'autorità giudiziaria». È uno strumento di lavoro in più, di cui i magistrati possono avvalersi o meno, ma che secondo il procuratore generale può risultare utile a tutti: al ministero della Salute e alla stessa Aifa, poiché sulla base delle richieste degli inquirenti potranno avere in tempi rapidi «informazioni utili per affrontare meglio la campagna vaccinale e adottare tempestivamente le opportune determinazioni per la tutela della salute pubblica»; e alle Procure, le quali potranno immediatamente disporre di dati e notizie «sulle caratteristiche di ogni tipologia di vaccino, anche con riferimento alle specifiche emergenze che di volta in volta potrebbero prospettarsi». Per il vertice della magistratura inquirente un contatto preventivo con l'Aifa potrà consentire «di indirizzare le iniziative investigative, con indubbi benefici in termini di efficacia e proporzionalità». Ma la messa a disposizione di una struttura di supporto nazionale ha pure l'obiettivo di rendere le attività giudiziarie distribuite sul territorio il più possibile omogenee di fronte a situazioni analoghe. All'Aifa e al ministero della Salute Salvi ha già chiesto le informazioni di carattere generale su vaccini e somministrazioni, che saranno condivise in una prossima riunione (per via telematica) con i tutti i procuratori generali, seguendo un modello già sperimentato lo scorso anno, dopo la prima ondata della pandemia. Non siamo ancora alle «linee guida» redatte all'epoca per fornire un quadro di riferimento per le indagini sulle responsabilità mediche e sanitarie al tempo del Covid-19, ma è un primo passo in quella direzione. Nel 2020 la Procura generale della Cassazione raccomandò di stabilire preventivamente, sulla base delle conoscenze scientifiche sul nuovo virus e dei tempi della loro acquisizione, un «comportamento alternativo lecito ed esigibile» in un determinato momento. Ora si tenta di riproporre lo stesso schema in modo da evitare, per quanto possibile, che la giusta esigenza di fare chiarezza su episodi sospetti non freni il contrasto alla diffusione del coronavirus.

Alessandro Trocino per il "Corriere della Sera" il 24 marzo 2021. Sulla carta i ruoli in campo sono chiari: scienziati e professori forniscono cifre e previsioni, i politici valutano, bilanciano gli interessi, e prendono decisioni. Peccato non sia così semplice, come si evince dal caso dell' Aifa, l' Agenzia italiana del farmaco, che dovrebbe muoversi sulla base di «verità» scientifiche ma nella quale c' è da mesi uno scontro che somiglia da vicino a un conflitto politico. Sarà perché il presidente Giorgio Palù è considerato vicino alla Lega, mentre il direttore generale Nicola Magrini è dato in quota Roberto Speranza (Leu). Sarà perché l' Aifa è un ente che fa capo al ministero della Salute. Fatto sta che ogni decisione è oggetto di polemiche durissime. Anche nell' audizione alla Camera del 18 marzo il conflitto tra i due era evidente. Per esempio, sugli anticorpi monoclonali. Palù, a «Piazza Pulita», ha detto in una sorta di fuori onda che la responsabilità di aver frenato sulla sperimentazione dei monoclonali dell' azienda americana Lilly era da attribuirsi a Magrini. «Forse perché abbiamo messo 380 milioni in un altro progetto toscano?» chiede la giornalista. Palù non smentisce. Da Aifa si fa sapere che si frenava per non rompere il fronte europeo. E che il via libera alla sperimentazione, dopo quattro mesi persi, è stato dato dalla politica. Lo stop ad AstraZeneca, ha spiegato Mario Draghi, non è stata una decisione politica. Al contrario, hanno detto dall' Aifa. Insomma, politica e scienza ballano insieme e a ogni giro si scambiano di posto, fino a confondere i ruoli. «Non fa bene all' italia - dice la dem Alessandra Carnevali - pensare che scelte di carattere tecnico-scientifico siano subordinate alla politica. Io non credo che sia così». Spiega Nino Cartabellotta, di Gimbe: «Aifa, come Iss e Agenas, sono enti istituiti, vigilati e finanziati dal ministero della Salute. Ovvero sono tre costole del ministero, che lavorano in modo autonomo, ma non possono essere definiti indipendenti». Il viceministro Pier Paolo Sileri - già protagonista a «Non è l' Arena» di una puntata molto critica verso Magrini - descrive così i due vertici: «Palù è uomo di scienza, ha un curriculum di tutto rispetto. Magrini è un amministratore, non ha curriculum di peso». Sileri non è tenero con Magrini: «Gli ho scritto più volte, senza ottenere risposte. Quando in Inghilterra fu approvato Pfizer per via emergenziale, gli chiesi: perché non facciamo lo stesso? Mi disse che non si poteva. Però, poi, con le monoclonali si è fatto». Troppe nomine, aggiunge Sileri, «sono politiche». Magrini è stato riconfermato da Speranza. Ma è sotto attacco, non solo da destra. Domani i governatori daranno il loro parere. Consultivo, certo, ma un «no» non è affatto escluso.

Sulla lotta al virus il premier cambia i "comandanti". Ribaltone al Cts. Il governo atteso da 500 nomine tra agenzie e partecipate. Ma le prime sostituzioni sono tutte dedicate al Covid. Dopo Arcuri e Borrelli, Draghi congeda Miozzo. In arrivo Ciciliano. Massimiliano Scafi - Mar, 16/03/2021 - su Il Giornale. E siamo a tre. Prima Angelo Borrelli, capo della Protezione civile, al quale non è stato rinnovato il contratto. Poi il commissario «a tutto» Domenico Arcuri, messo gentilmente alla porta e sostituito con un generale. Adesso tocca ad Agostino Miozzo salutare la compagnia e fare i bagagli. Dopo più di un anno «al fronte», il coordinatore del comitato tecnico scientifico scrive infatti a Draghi e lascia l'incarico: da domani si occuperà «di emergenza scuola», nella squadra del ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi. Sparisce un'altra faccia della lotta al virus: chi prenderà il suo posto alla guida del Cts? Tra le tante ipotesi quella di Fabio Ciciliano, anche lui medico e dirigente della Protezione civile. Previsti pure altri ingressi e «modifiche all'organizzazione». Nuovo il governo, nuova la rete degli scienziati di supporto. La rivoluzione morbida di Mario Draghi, energica e senza scossoni polemici, prosegue. A un mese quasi dalla fiducia, il premier ha cambiato tutti i vertici delle strutture tecniche che contrastano la pandemia, oltre al sottosegretario con delega ai servizi segreti e al capo della polizia. La catena di comando anti-Covid è completa, ora «bisogna accelerare». Draghi è un tipo che delega ma che vuole vedere risultati. Stesso schema anche per l'altra grande missione del governo, il Recovery Fund. Il nocciolo duro, il pacchetto di mischia dei ministri tecnici, è già a un buon punto nella preparazione del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza necessario per ottenere i quasi duecento miliardi di sussidi stanziati da Bruxelles. Ma perché quei soldi arrivino e vengano poi spesi bene, all'Italia serve rimettere un po' in ordine le società di Stato e partecipate. Dalla Cassa depositi e prestiti all'Anas, da Fs alla Consap, si tratta di un pacchetto di nomine pesanti e delicate, che riguarda cinquecento nomi e che verrà affrontata da Palazzo Chigi a stretto giro di posta. Dai rinnovi dei consigli di amministrazione delle società pubbliche dipenderà il successo del Recovery italiano. Lavori, concorsi infrastrutture. La Cdp ha in mano dossier cruciali come le autostrade e la rete internet. Le ferrovie sono la più grande stazione di appalti del Paese. L'Anas è un altro asso. E l'elenco potrebbe continuare. Poi c'è il giorno per giorno, al di là delle due grandi sfide, Covid ed economia. Ebbene, concluso il mese di rodaggio, il premier è soddisfatto della sua compagine. Se sui tecnici ovviamente non c'erano dubbi, a stupirlo positivamente sono i politici. Tutti hanno appreso velocemente il «metodo Mario», lavoro di squadra e niente polemiche, tutti cercano di dare il meglio, dai democratici ai leghisti. I buoni rapporti con Giancarlo Giorgetti sono noti ma pure con Massimo Garavaglia si registra sintonia. Con la delegazione di Forza Italia poi l'intesa è ottima. Draghi ha un'antica consuetudine con Renato Brunetta, infatti gli affidato una riforma che considera fondamentale, quella della pubblica amministrazione, e sta apprezzando Mariastella Gelmini per come gestisce i rapporti con i turbolenti governatori regionali. E piace Mara Carfagna, che si è buttata a pesce sui problemi del Sud, sfornando idee nuove. Sull'altro versante cresce a sorpresa la stima nei confronti di Luigi Di Maio. Palazzo Chigi lo riempie di consigli, lui ascolta, si applica e fa «progressi». Elena Bonetti, Iv, trova spazio. Roberto Speranza invece è ormai una sicurezza. Draghi, che a Fiumicino lo ha citato più volte, trova che stia lavorando bene in tandem con la Gelmini nel difficile dialogo con le Regioni sulle misure e sui vaccini. Un ministro di Articolo 1 e uno di Fi: li ha voluti insieme per stabilizzare la coalizione, adesso la coppia funziona.

Gli esperti passano da 26 a 12. Chi sono i membri del nuovo Comitato Tecnico Scientifico: coordinatore del Cts è Franco Locatelli. Vito Califano su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Il Comitato Tecnico Scientifico cambia volto. A farlo sapere con un ordinanza la Protezione Civile. Il Comitato istituito formalmente il 3 febbraio del 2020 – che ha competenza “di consulenza e supporto alle attività di coordinamento per il superamento dell’emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del Coronavirus” e composto “da esperti e qualificati rappresentati degli Enti e Amministrazioni dello Stato” – passa da 26 a 12 membri. Il Capo Dipartimento della Protezione civile Fabrizio Curcio ha “preso atto delle recenti dimissioni del Coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico, dottor Agostino Miozzo, e in relazione alla nuova fase dell’emergenza coronavirus, con l’accelerazione delle attività inerenti al nuovo piano vaccinale”, ha ritenuto opportuno razionalizzare le attività del Cts, al fine di ottimizzarne il funzionamento anche mediante la riduzione del numero dei componenti. Il nuovo coordinatore sarà il Presidente del Consiglio Superiore di Sanità Franco Locatelli.

Prof. Silvio Brusaferro (portavoce)

Prof. Franco Locatelli (coordinatore)

Dott. Sergio Fiorentino (segretario)

Dott. Giuseppe Ippolito

Dott.ssa Cinzia Caporale

Dott. Giorgio Palù

Prof. Giovanni Rezza

Dott. Fabio Ciciliano

Prof. Sergio Abrignani

Prof.ssa Alessia Melegaro

Ing. Alberto Giovanni Gerli

Dott. Donato Greco

Questi profili potranno essere ulteriormente integrati con un esperto in materie giuridico-amministrative, cui affidare le funzioni di segretario verbalizzante del Comitato, e da altri tre esperti nelle materie sanitarie e in quelle statistico-matematiche.

Nominato il nuovo Comitato Tecnico Scientifico composto da 12 membri. Il Corriere del Giorno il 17 Marzo 2021. Nel nuovo Comitato saranno dunque presenti non solo appartenenti al campo scientifico-sanitario ma anche esperti del mondo statistico, matematico-previsionale o ad altri campi utili a definire il quadro della situazione epidemiologica e ad effettuare l’analisi dei dati raccolti necessaria ad approntare le misure di contrasto alla pandemia. Il nuovo Comitato tecnico scientifico sarà composto da 12 membri e il nuovo coordinatore sarà il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli. E’ quanto stabilirà un’ordinanza del capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio, d’intesa con la Presidenza del Consiglio. La decisione è stata presa “in relazione alla nuova fase dell’emergenza” e considerata “l’accelerazione delle attività inerenti al nuovo piano vaccinale”, che hanno reso necessario “razionalizzare le attività del Cts, al fine di ottimizzarne il funzionamento anche mediante la riduzione del numero dei componenti”. Nel nuovo Comitato saranno dunque presenti non solo “appartenenti al campo scientifico-sanitario” ma anche esperti del “mondo statistico, matematico-previsionale o ad altri campi utili a definire il quadro della situazione epidemiologica e ad effettuare l’analisi dei dati raccolti necessaria ad approntare le misure di contrasto alla pandemia”. I nuovi membri del Cts sono Franco Locatelli, Silvio Brusaferro, che avrà il ruolo di portavoce, Sergio Fiorentino, cui spetta il compito di segretario, Giuseppe Ippolito, Cinzia Caporale, Giorgio Palù, Giovanni Rezza, Fabio Ciciliano, Sergio Abrignani, Alessia Melegaro, Alberto Giovanni Gerli, Donato Greco. L’ordinanza che sarà firmata da Curcio prevede infatti che che nel Comitato siedano il Presidente del Consiglio Superiore di Sanità, che sarà il coordinatore, il Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (in qualità di portavoce del Comitato), il Direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, un componente designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome, il Presidente del Comitato Etico dell’Istituto Nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, il Direttore Generale della prevenzione sanitaria del Ministero della Salute, il Presidente dell’AIFA oltre che di un componente indicato dal Dipartimento della protezione civile. A questi si aggiungeranno un esperto in materie giuridico-amministrative, cui affidare le funzioni di segretario verbalizzante del Comitato, e altri tre esperti sia nelle materie attinenti alla sanità, sia in quelle statistico-matematiche. “Ai precedenti componenti del Comitato – conclude la nota del Dipartimento – va il ringraziamento del Capo Dipartimento per l’importante lavoro fin qui svolto”. Anche il ministro della Salute, Roberto Speranza ha rivolto  “un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno servito il Paese nel Comitato tecnico scientifico in questi mesi così difficili”. augurando “Buon lavoro a tutti i componenti appena nominati e in modo particolare a Silvio Brusaferro e Franco Locatelli che hanno dimostrato straordinarie qualità alla testa dell’Istituto Superiore di Sanità e del Consiglio Superiore di Sanità e che guideranno il Cts in questa nuova stagione“.

Lorenzo Ruffino per pagellapolitica.it il 18 marzo 2021. Il 16 marzo la Protezione civile ha annunciato la nuova organizzazione del Comitato tecnico scientifico (Cts), l’organismo che da inizio epidemia consiglia il governo sulla gestione dell’emergenza coronavirus. «Saranno coinvolti esperti appartenenti non solo al campo scientifico-sanitario ma anche ad altri settori, come ad esempio al mondo statistico, matematico-previsionale o ad altri campi utili a definire il quadro della situazione epidemiologica e ad effettuare l’analisi dei dati raccolti necessaria ad approntare le misure di contrasto alla pandemia», si legge in un comunicato della Protezione civile. Tra i 12 membri del nuovo Cts, c’è anche il nome dell’ingegnere Alberto Giovanni Gerli, che da mesi pubblica previsioni e video sul suo canale YouTube Data & Tonic, e rilascia interviste sull’andamento dell’epidemia di coronavirus in Italia (cercando di attirare l’attenzione di personaggi famosi come Fedez e Chiara Ferragni e di politici come il leghista Luca Zaia e l’ex presidente Giuseppe Conte). Le stime di Gerli – che su LinkedIn si definisce data analyst, fondatore e Ceo della Tourbillon Tech Srl – sono però state quasi tutte smentite dai numeri. Non solo, ma le sue teorie per analizzare l’epidemia spesso si basano su assunti difficili da giustificare in base alla scienza. Ci sono diversi elementi insomma per mettere in discussione le sue competenze e, di conseguenza, l’opportunità del suo nuovo ruolo all’interno del Cts. Vediamo perché, partendo dalle previsioni più recenti.

Il calo in Lombardia non c’è stato. Il 28 gennaio 2021 Gerli ha sostenuto che, in base a un proprio “modello”, in Lombardia i contagi si sarebbero ridotti velocemente nelle settimane seguenti, passando da circa 1.700 al giorno a 350 per metà marzo a “parità di condizioni”, cioè senza varianti. In realtà sappiamo che non è andata così: a metà marzo i casi sono stati 4.700. La colpa dell’aumento non può essere solo attribuita alle varianti, perché i casi non hanno mai seguito l’andamento previsto da Gerli. Hanno avuto infatti solo una leggera oscillazione a inizio febbraio, ma in generale hanno avuto un trend di crescita.

Il Veneto non è andato in zona bianca, ma rossa. Il primo febbraio Gerli disse che in Veneto «si potrà magari verificare qualche ritardo ma per la fine di febbraio la regione quasi certamente entrerà nella zona bianca». In realtà il Veneto non è entrato in zona bianca, ma il 28 febbraio era in giallo, l’8 marzo in arancione e il 15 marzo in rossa. Va tenuto inoltre conto che un ruolo fondamentale nel sistema di monitoraggio dell’Istituto superiore di sanità (Iss) e dal Ministero della Salute è giocato dall’indice di riproduzione effettiva Rt e che quello usato nel monitoraggio che ha decretato la zona rossa era basato sui dati al 24 febbraio (dunque i prossimi dati potrebbero essere ancora peggiori). L’ingegnere ha anche mostrato di avere una scarsa comprensione del funzionamento del monitoraggio settimanale con cui sono stabiliti i colori delle regioni. La sua previsione del Veneto in zona bianca era basata sul fatto che la regione avrebbe registrato per 21 giorni meno di 100 casi ogni 100 mila abitanti. In realtà, come prevede il decreto-legge con le regole per i colori, per poter entrare in zona bianca serve avere per tre settimane consecutive un’incidenza minore di 50 casi ogni 100 mila, un livello di rischio basso e l’indice Rt inferiore a 1. Il rischio è determinato attraverso 21 indicatori e basato su dati non pubblici, così come l’indice Rt. Prevedere quindi l’entrata delle regioni in determinati colori è quasi impossibile.

Altre imprecisioni su Milano e Brescia...Il 12 febbraio Gerli ha invece previsto che per la fine di quel mese a Milano i nuovi casi sarebbero arrivati a 1.300 al giorno e a Brescia a 1.200. Due giorni prima aveva fatto altre previsioni con andamenti ben diversi. Ad ogni modo, il 28 febbraio i casi a Milano sono risultati essere 882 – in media mobile a sette giorni – e a Brescia 814.

… e sulle varianti. Gerli ha affrontano anche il tema varianti sostenendo, il 22 febbraio, di poter identificare sulla base dell’andamento dei contagi a livello provinciale dove erano presenti le varianti maggiormente trasmissibili. I punti in cui, a suo parere, c’erano i focolai di varianti erano tre province in Lombardia, quattro in Emilia-Romagna, cinque in Toscana, una nelle Marche, una in Abruzzo, una nel Lazio, una in Calabria e due in Basilicata. In realtà non era così. Il 2 marzo l’Istituto superiore di sanità (Iss) ha pubblicato i risultati della seconda indagine di prevalenza delle varianti (condotta su campioni prelevati il 18 febbraio) identificando, seppur con ampia incertezza, delle aree diverse. La cosiddetta “variante inglese”, quella più trasmissibile, era pari a oltre il 60 per cento dei casi in Molise, Sardegna, Liguria, Lombardia e Campania. Secondo Gerli, in quattro di queste cinque regioni non c’erano le varianti. Va inoltre osservato che qualsiasi analisi provinciale è problematica a causa dei ritardi di notifica che riguardano questo tipo di dati. Spesso ci sono degli andamenti bizzarri dovuti a revisione di dati o a casi caricati tutti insieme. Non si tratta di dati affidabili, dunque, da cui partire per fare analisi predittive.

Le previsioni su Bergamo e Como. Il 2 marzo Gerli ha sostenuto che a Bergamo «le proiezioni indicano il picco a metà marzo, con uno scenario migliore di 350 nuovi casi quotidiani e uno peggiore con 500 nuovi contagi giornalieri». In realtà a metà marzo a Bergamo la media mobile a sette giorni dei casi è stata pari a 320, anche meno dello scenario migliore ipotizzato da Gerli. Non è andata molto diversamente a Como. Il 3 marzo l’ingegnere ha sostenuto che la provincia «si sta dirigendo tra i 400 e gli 800 casi giornalieri entro i prossimi quindici giorni». Queste due settimane non sono ancora del tutto passate, ma al momento a Como in media mobile hanno 314 casi ed è improbabile che in due giorni arriveranno a 400 vista la stabilità degli ultimi giorni (302-314).

Che cos’è l’“indice Gerli”. Alberto Gerli ha anche ideato un indice con cui sostiene di poter prevedere l’andamento dell’epidemia (fino a qui abbiamo visto che non gli è andata sempre bene). I quotidiani hanno presentato questo “indice Gerli” come un indice la cui forza è «la tempestività, cioè mostrare quale sia l’Rt oggi, mentre le elaborazioni “ufficiali” scontano sempre un ritardo, perché riferite a dati di oltre 10 giorni prima». Si tratta di un’informazione quantomeno fuorviante. I dati alla base dell’analisi di Gerli sono quelli diffusi dalla Protezione civile. Come abbiamo spiegato numerose volte, si tratta di dati per notifica, mentre l’indice Rt è basato sui casi sintomatici per data di inizio sintomi. Il problema di utilizzare i dati per data di notifica è che sono affetti da diversi ritardi e non riflettono la precisa evoluzione dell’indice Rt. Che cosa succede se si confronta l’indice di Gerli con il sistema di calcolo dell’indice Rt adottato dalla Fondazione Bruno Kessler (Fbk), un ente di ricerca di interesse pubblico di supporto all’Iss? Dall’analisi dei due indici emerge come l’“indice Gerli” in realtà non assomigli all’indice Rt per data di inizio sintomi, né se lo si prende così come viene dato né se lo si anticipa di dieci giorni. Sostenere che quindi sia «tempestivo» è quantomeno azzardato. Anche volendo, non potrebbe essere tempestivo. Se calcoliamo oggi l’indice Rt a partire dai dati della Protezione civile, avremo un’indicazione di com’era l’epidemia svariati giorni fa. Infatti tra contagio e sintomi passano cinque giorni, tra sintomi e tampone due o tre giorni e poi ne servono almeno altri due o tre perché la positività venga riportata nei dati nazionali. Qualsiasi indice basato sui dati per data di notifica sarà vecchio a priori.

La teoria dei 40 giorni. Una delle prime volte che si è sentito parlare di Alberto Gerli è stato nell’aprile 2020. In quell’occasione infatti uscì sul Corriere della Sera un articolo su un “modello predittivo” a cui aveva lavorato l’ingegnere, in base al quale si sosteneva che il lockdown era inutile. La base di questo modello era l’ipotesi che un’ondata di coronavirus duri 40 giorni e che il suo andamento sia influenzato solo dai primi 17 giorni. A quel punto – sempre secondo Gerli – indipendentemente dalle misure messe in campo, l’epidemia ha il destino segnato. Lo studio però aveva parecchi limiti. Il problema principale, come ha osservato il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, è che in quel momento l’Italia era già in lockdown ed era facile prevedere l’andamento calante delle infezioni. Inoltre, come emergeva dai grafici pubblicati, il modello di Gerli non aderiva neanche particolarmente alla realtà. Il professore di economia dell’Università Sapienza di Roma Fabio Sabatini aveva concluso allora che si trattava di un modello «intriso di fallacie logiche che giunge a conclusioni inaffidabili e fuorvianti». Come avevamo spiegato già a novembre scorso, il lockdown di marzo e aprile in realtà ha sicuramente funzionato. I principali indicatori sull’andamento dell’epidemia hanno toccato il picco nel momento in cui era atteso sulla base dei dati a disposizione e della data di inizio del lockdown. In generale non si capisce la logica secondo cui, a decidere l’andamento dell’epidemia, possano bastare solo i primi 17 giorni. Inoltre, quando si è di fronte a una crescita esponenziale, agire nei primissimi giorni o dopo diverse settimane può fare un’incredibile differenza. Proprio l’esponenzialità dovrebbe spingere a prendere rapide decisioni. Nonostante questo, Gerli ha continuano a rilanciare questa teoria nelle numerose interviste rilasciate nei mesi successivi. Nel ribadire questa ipotesi, il 14 marzo 2021 Gerli ha sostenuto che le restrizioni adottate in questi giorni dal governo non faranno differenza perché la curva scenderà lo stesso, visto che secondo lui l’onda dei contagi dura 40 giorni. In realtà, un’analisi svolta dall’Associazione italiana di epidemiologia ha rilevato come le zone rosse si sono dimostrate efficaci nell’avere un «declino significativo e omogeneo dell’incidenza di Covid-19 nelle quattro settimane successive al provvedimento». A conclusioni simili è arrivata anche una ricerca – per ora non ancora sottoposta a peer review – pubblicata lo scorso 24 febbraio e dedicata ad analizzare gli effetti del sistema a colori durante la seconda ondata di novembre.

In conclusione. Non è chiaro i criteri in base ai quali Alberto Giovanni Gerli sia stato nominato membro del nuovo Cts. Di certo, nonostante la visibilità mediatica negli ultimi mesi, le sue previsioni sull’andamento dell’epidemia sono state quasi sempre smentite dai fatti. Non solo, le loro basi di metodo sembrano avere diversi limiti.

Primo passo falso del nuovo Cts: si dimette Gerli. «Polemiche inattese e sorprendenti». Fortunata Cerri giovedì 18 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia. Si dimette Alberto Giovanni Gerli: primo passo falso del nuovo Cts. Ingegnere ed esperto di modelli statistici di previsione sull’epidemia, lascia due giorni dopo essere stato nominato membro del Comitato tecnico scientifico, massimo organismo scientifico di consulenza del governo sull’emergenza Covid-19. Rinuncia all’incarico dopo essere finito al centro di polemiche sui giornali e sui social. L’accusa? Previsioni e dati sull’evoluzione dell’epidemia che si sono rivelate sbagliate. Il Corriere riporta la nota in cui Gerli spiega i motivi delle dimissioni. «A seguito delle inattese e sorprendenti polemiche esplose all’indomani della mia nomina a componente del Comitato tecnico scientifico, ho ritenuto opportuno rinunciare all’incarico così da evitare al Cts e alle Istituzioni in generale ulteriori, inutili ostacoli e distrazioni rispetto alle importanti e difficili decisioni che sono chiamati a prendere in un momento tanto delicato per il Paese». E poi si legge ancora sul Corriere. «Ringrazio la Presidenza del Consiglio per la nomina, di cui mi ritengo onorato», spiega Gerli.  «Rimango convinto della bontà dei dati che ho contribuito a sviluppare e del fatto che possano costituire un utile elemento di analisi nella gestione della pandemia. Per tale ragione, continuerò con ancora più energia a lavorare e ad aggiornare i modelli, con l’aiuto degli scienziati con cui ho collaborato sin dai primissimi giorni della pandemia in Italia». Gerli poi ha scritto un post anche su Facebook. «Questa pandemia è stata la più grande tragedia che ha colpito l’Italia. E chi sarà chiamato a gestirla lo dovrà fare con la massima serietà e concentrazione, lontano dalle polemiche per il bene delle nostre vite. Sono state ore molto intense, mi è dispiaciuto leggere e sentire tanti attacchi a me e alla mia credibilità. Ho una certezza: velocemente come è cresciuta, anche la curva di queste polemiche si appiattirà. Lasciando solo il ricordo della più grande emozione della mia vita. La sensazione di poter essere con i miei studi al servizio, in prima linea, per il mio Paese».

Dagospia il 19 marzo 2021. Da “Radio Capital”. “Il Cts ha un compito importante che è quello di gestire il paese in un momento di grave emergenza, le polemiche scatenate contro di me non avrebbero aiutato il Cts a lavorare in modo tranquillo, per questo mi sono dimesso. Mi chiedo se sia mai successo che per una nomina tecnica abbia scatenato tutta questa polemica” così l’ingegnere Alberto Gerli, che si è dimesso dopo la nomina a componente del Cts, ospite a “The Breakfast Club” su Radio Capital. “Non è vero che le mie previsioni erano errate, sono state male interpretate. Contro di me campagna di fake news. I miei modelli sviluppati a gennaio sui contagi in Lombardia sono stati elaborati quando il trend era in discesa. Non erano prevedibili le varianti inglesi. Quando ci siamo accorti dei primi focolai nel bresciano abbiamo aggiornato il trend e cambiato le previsioni. Senza variante inglese le nostre previsioni sarebbero state corrette. I miei modelli hanno funzionato.  Non ho mai sostenuto che il lockdown è inutile, questa è stata una rielaborazione giornalistica. Io nominato dalla Lega? Smentisco categoricamente legami con la Lega”.

Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 19 marzo 2021. «Io vicino alla Lega? Se fosse così starei ancora nel Cts. Non ho collegamenti politici, accademici o d'altro genere. Ed è questo, oltre alla giovane età, che ho pagato». L'ingegner Alberto Giovanni Gerli, 40 anni, risponde al telefono da Padova un minuto dopo aver rinunciato alla nomina nel Cts (incarico durato 48 ore). A spingerlo fuori sono state le polemiche sulle sue previsioni sbagliate e sulle sue dichiarazioni aperturiste dei mesi scorsi. «Così non proverò neanche il brivido della prima riunione con gli ambiti professori», racconta lui, che dell'accademia ormai si sentiva un membro invitato, pur non avendone i titoli.

Com' è nata la sua nomina?

«Penso sia stata suggerita da uno dei professori con cui ho collaborato. È stata la più bella notizia della mia vita e mi è dispiaciuto lasciare, ma la situazione era diventata invivibile».

Effettivamente lei ha contribuito ai lavori di alcuni noti scienziati, da La Vecchia a Remuzzi, come mai?

«Sono un ingegnere esperto di dati e nell'ultimo anno ho messo le mie conoscenze al servizio dell'accademia lavorando gratis. Lo avrei fatto volentieri anche per l'Italia».

Ma non ha sbagliato tutte le previsioni sulla pandemia?

«A chi non è successo nell'ultimo anno? La mia bestia nera è un ricercatore dell'Ispi, Matteo Villa, che mi fa le pulci mentre io provo a dare una mano».

Lei passa per essere un aperturista.

«I miei modelli matematici possono funzionare o meno, ma non ho mai negato l'utilità delle chiusure. Il mio interesse è capire quando farle».

A fine gennaio non ha detto che il contagio era in diminuzione e si poteva riaprire?

«Mi pareva vero e ho sottolineato che a meno di varianti il trend sarebbe stato quello».

Eppure Crisanti, Galli e Ricciardi allertavano sulle varianti da fine dicembre.

«Sono stato ottimista, ma la variante inglese qui è arrivata dopo. Anche a febbraio ho elaborato dei dati incerti sulla crescita del contagio: sono troppo problematico per piacere ai massimalisti».

Se da un anno fa analisi sbagliate gratis come vive?

«Ho ceduto la mia ditta di luci stradali a led e ho aperto una società di consulenza per aiutare le aziende a individuare trend di mercato e tecnologici. Ho anche investito in due startup, una di videogiochi e una legata ai veicoli autonomi».

Sembra un creativo. Ora dica la verità: com' è finito nel Cts?

«Non ci crede nessuno, ma mi ha chiamato la Presidenza del Consiglio e mi ha chiesto il curriculum. La racconto proprio tutta: martedì ero a Firenze per lavoro e sono andato a cena in hotel da solo. Ero stato ospite da Porro a Quarta Repubblica su Rete 4 e da vanitoso guardavo su Google cosa ne rimaneva. Così ho trovato per caso un articolo che dava la notizia della mia nomina e mi sono messo a piangere. Dopo un anno di calcoli finalmente potevo dare il mio contributo direttamente ai grandi del Cts».

Lei è di Padova come il presidente dell'Aifa Palù, un caso?

«Purtroppo sì, è un luminare e finalmente avrei potuto conoscerlo».

Sicuro di non esser stato segnalato dalla Lega?

«No. Mai iscritto e mai avvicinato a nessun partito».

Mai pensato di candidarsi?

«Solo alla guida della Federazione bridge e ho perso».

Politicamente come si definisce?

«Preferisco non rispondere: sono stato attaccato perfino per i video su YouTube in cui parlo del divario di genere».

Qual è la sua visione politica?

«Credo nella libertà e nell'uguaglianza delle persone: uomini, donne, gay, lesbiche...».

Non ce l'ha con gli immigrati?

«No, ce lo insegnano anche i bambini. Ho un figlio di 4 anni e anche un nipotino, che l'altro giorno giocava coi bambolotti e non li distingueva per colore, ma per dimensione».

Chi la sostituirà nel Cts?

«Nessuno ed è l'unica consolazione».

Ecco le prove che il Cts ha sbagliato tutto. Franco Battaglia il 12 Marzo 2021 su Nicolaporro.it. Diciamo la verità: questi del Cts anti-covid sono ignoranti. Ignoranti come capre, direbbe Vittorio Sgarbi. Ma noi non vogliamo offendere nessuno, né uomini né capre. L’ignoranza di cui tratto non è la competenza nel singolo specialissimo settore di cui costoro, non dubito, saranno pure esperti. No, parlo dell’ignoranza di comprensione del metodo scientifico (il quale metodo impone che se i fatti contraddicono i pareri, questi vanno cambiati). Forse mista ad una dose di disonestà intellettuale, vista l’incapacità di ammettere gli errori fatti e la tendenza ad innamorarsi delle proprie idee e – senza forse – mista a capacità matematiche nulle, cosa comune tra medici e biologi. Vengo al punto.

1° prova d’incapacità del Cts: le loro misure non hanno salvato nessuno. Costoro del Cts – almeno così leggo dalle notizie diffuse dalla informazione unica del virus – dicono che ci vuole un nuovo lockdown, e che le misure prese non sono sufficienti, perché bisognerebbe chiudere di più. E se risultati non si vedono dalle misure adottate, la colpa è di chi non li avrebbe ascoltati a sufficienza. La verità è che non bisognava fare nulla di quel che il Cts ha detto di fare. Abbiamo la prova provata che le misure prese non hanno salvato neanche uno dei 100 mila morti che il Paese ha pianto in un anno. Di quel che dico ne abbiamo la prova provata sicuramente a posteriori. Ma potevamo dedurlo facilmente anche a priori, visto che persino io, che sono nessuno, scrivo queste cose dal marzo dello scorso anno: carta canta. Ci vien detto che se non ci fossero stati i due mesi di ferreo lockdown dello scorso anno (marzo-aprile), oggi i morti sarebbero molti di più di 100 mila. Senonché, se riportiamo in grafico i decessi da covid per milione d’abitanti dell’Italia e della Svezia otteniamo la figura che segue. A volerla ottenere apposta, questa curva, non ci saremmo riusciti! Morti da covid per milione d’abitanti in Italia e in Svezia. Ma la Svezia non ha preso alcuna delle misure che abbiamo preso noi. Più precisamente, la Svezia non ha preso alcuna misura degna di questo nome per prevenire la diffusione del virus. Gli svedesi hanno continuato a vivere quasi come se nulla fosse (per esempio, da marzo a novembre sono stati vietati assembramenti con più di 50 persone e i cinema e teatri sono rimasti aperti), col seguente quasi unico consiglio dalle loro autorità sanitarie: «ognuno sia poliziotto di sé stesso». E se si confronta la Svezia con gli altri Paesi che hanno preso misure simili alle nostre, ecco il risultato: Sembra, questo grafico, un gioco del tipo «trova l’intruso». L’evoluzione delle fatalità è stata essenzialmente uguale in tutti i paesi del grafico – che sono omogenei tra loro per qualità del servizio sanitario – ma tra essi c’è, appunto, l’intruso: la Svezia che, a differenza di tutti gli altri, ha continuato a vivere come se non ci fosse alcun virus. Non che la Svezia abbia fatto bene, come dirò fra poco. Ma sicuramente non hanno fatto bene né noi né gli altri Paesi: le misure prese sono state semplicemente sbagliate. Come se ci avessero detto che per contrastare la pandemia avremmo dovuto recitare la Vispa Teresa una volta al dì.

2° prova d’incapacità del Cts: non hanno saputo gestire la seconda ondata. Guardiamo ora alla variazione di mortalità del 2020 rispetto alla mortalità media degli ultimi 5 anni. Otteniamo, per Italia e Svezia, il grafico che segue. Esso ci insegna alcune cose: 1. conferma che la pandemia ha fatto meno danni in Svezia che in Italia; 2. l’andamento osservato è l’evoluzione del virus e della pandemia, senza alcuna relazione con le misure prese, visto che la Svezia non ne ha preso alcuna e ha subìto la stessa evoluzione; 3) in particolare, la quiescenza italiana del virus nei mesi successivi a maggio 2020, non ha avuto alcuna relazione col lockdown adottato in marzo-aprile 2020. Dal grafico si vede che, effettivamente, c’è stata una seconda ondata. Non me l’attendevo perché avevo sottovalutato l’incompetenza faraonica di chi ci ha governato. Mi ero detto: è dal mese di maggio che paventano la seconda ondata in autunno, sapranno pure cosa fare. Invece no: l’ottusa ignoranza diffusa all’interno del Cts e nei competenti ministeri ha superato ogni immaginazione. Non so chi siano i signori del Cts, ma ho il sospetto che nessuno abbia conoscenze di statistica o capacità di analisi di dati. Costoro, avevano tre informazioni cruciali a loro disposizione: a. la possibilità della seconda ondata; b. la certezza che le misure suggerite non avevano dato alcun risultato; c. un Paese, la Sud Corea, aveva preso misure – ben diverse da quelle prese da noi – che avevano saputo contenere gli effetti della pandemia.

Roberto Speranza, l'affondo di Pietro Senaldi: "Non è nemmeno un infermiere. Perché abbiamo un dilettante alla Sanità?" Pietro Senaldi su Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. L'Italia è travolta da due crisi, quella sanitaria, dovuta al Covid, e quella economica, che ne è la diretta conseguenza, visto che è generata dalle chiusure e dal rallentamento della vita sociale decisi per frenare l'epidemia. La prima ha fatto oltre centomila morti e, a oltre un anno dalla sua esplosione, siamo ripiombati per la quarta volta davanti al tunnel di nuove serrate selvagge. La seconda ha prodotto una contrazione del prodotto interno lordo nel 2020 del 9,5%, ha aumentato di due punti la percentuale di poveri assoluti e, malgrado il blocco dei licenziamenti, ha bruciato quasi 700mila posti di lavoro e fatto perdere ai dipendenti messi forzatamente in cassa integrazione 8,7 miliardi. Il collasso sanitario ed economico, oltre al disastro nell'approvvigionamento e nella somministrazione dei vaccini, sono la ragione principale, se non l'unica, della caduta del governo Conte, una poco simpatica combriccola di improvvisati.

Persone di fiducia. Per rimediare ai danni dei giallorossi sono stati chiamati in servizio i cosiddetti tecnici. La loro massima espressione è Mario Draghi, imposto da Mattarella come premier ai partiti inconcludenti e litigiosi. Draghi è un banchiere, nonché l'unico italiano che in Europa comanda anziché prendere ordini. Il suo compito istituzionale è condurci fuori dalla pandemia a colpi di vaccino e scrivere un programma economico che direzioni gli aiuti europei verso investimenti produttivi e non in sussidi senza ritorno, come sarebbe stato lasciando al suo posto il nuovo capo dei grillini, l'avvocato di Volturara Appula. Sul fronte economico SuperMario ha preso subito due decisioni drastiche. La prima è stata scegliere personalmente tutti i ministri economici, scegliendo al di fuori della politica, con l'eccezione del leghista Giancarlo Giorgetti, piazzato allo Sviluppo Economico, dove non può far peggio dei predecessori, Di Maio e Patuanelli. Fedelissimo del premier è il ministro dell'Economia, Daniele Franco, che lavorò con lui in Bankitalia e ha avuto carta bianca nel scegliere i propri collaboratori. Ad aiutarlo a redigere il piano sul Recovery Fund è stata ingaggiata McKinsey, società internazionale di consulenza di primissimo livello. Collaboreranno anche Ernest&Young, Accenture, Pwc e altri trecento tecnici, assunti allo scopo dopo che il nuovo governo ha decretato che tra i tre milioni e mezzo di dipendenti della Pubblica Amministrazione non ci sono professionalità all'altezza. Ben vengano gli economisti, se ci servono. E ben venga anche l'esercito in sostituzione del commissario alla pandemia, Domenico Arcuri, degradato sul campo in favore del generale degli Alpini, Francesco Paolo Figliuolo, reclutato per la profilassi in quanto numero uno nazionale in materia di logistica. Sempre in nome della competenza è stato richiamato alla Protezione Civile Fabrizio Curcio, in sostituzione di Angelo Borrelli, il precedente pacioso responsabile, a suo tempo accusato da certa stampa di essere un no-mask. Giusto così, la partita dei vaccini è vitale e Draghi ha strutturato una squadra di primo livello. L'unica cosa che non torna, in questo tripudio di competenti, è la conferma al dicastero della Salute di Roberto Speranza, il ministro ossimoro, dal nome beneaugurante ma che, al solo sentirlo, semina terrore e lutti. L'uomo è un politico di seconda fila. Quando si candidò alle Primarie del Pd arrivò terzo, malgrado la segreteria dei dem sia una seggiola in svendita, che produce in chi vi si accomoda immediate allergie e desiderio incontrollabile di levarsi di torno. Il comunista lucano, ritenendo gli ex comunisti troppo poco a sinistra, ha fondato Liberi e Uguali, grazie alla mano sulla testa che da sempre gli pone Pierluigi Bersani, talent scout di provincia al quale dobbiamo anche Alessandra Moretti e il fu Tommaso Giuntella. Alle ultime Politiche, nella sua Basilicata, ha preso meno di quattromila preferenze, fedele al detto che nessuno è profeta in patria. Pochissime, sufficienti però, per gli incomprensibili giochi della politica, per insediarlo al ministero, dal quale decide delle nostre vite da oltre un anno.

Fuori dal tempo. Speranza è laureato in Scienze Politiche, se così si può dire, e nella sua vita ha fatto un solo lavoro, il politico, sempre se così si può dire. Non è neppure infermiere ma comanda sui medici, che di virus hanno letto qualche centinaio di libri più di lui e sui governatori delle Regioni, che hanno preso centinaia di migliaia di voti più di lui. Comanda pure sul suo vice, Pierpaolo Sileri, che siccome è medico chirurgo con tanto di master negli Stati Uniti e ne sa più di lui, non viene neppure convocato dal ministro alle riunioni che contano. Nell'era dei competenti, il bersaniano è un uomo fuori dal tempo. Nel nostro Paese i geni della medicina sono perfino più numerosi di quelli dell'economia. Abbiamo una sfilata di scienziati di livello internazionale ma nessuno li chiama in servizio. Se per l'emergenza economica abbiamo avuto l'intelligenza di rivolgerci a esperti in numeri, per quella sanitaria ci difetta l'acume di convocare al governo i medici. Si preferisce relegare chi capisce di Covid nei salotti tv e lasciare a menare il torrone gli esperti in chiacchiere. Intorno al deprimente Speranza, portatore di lutti nel fisico e nel messaggio, si stringe infatti il Comitato Tecnico Scientifico, una congregazione di medici il cui h-index, la misura con cui si pesa il valore di un dottore, è degno di un ospedale metropolitano e non di una struttura chiamata a governare la salute nazionale. Il valore medio dell'indice infatti si attesta a 31,5, ma solo perché la capa, Elisabetta Dejana, ha una quotazione personale di 109 e quello di Franco Locatelli è a 101. Al netto di questa coppia, l'indice scientifico del membro del Cts medio si fermerebbe a 25. Un nulla se si pensa ai 171 punti del professor Alberto Mantovani o ai 164 di Giuseppe Remuzzi, geni ignorati da Speranza. Curiamo il Covid con i politici e mandiamo in tv i medici, ecco il modello Italia contro la pandemia, e poi ci stupiamo se all'estero non ci copiano.

Da liberoquotidiano.it l'8 marzo 2021. Per Nature la gestione italiana del coronavirus non è stata esente da colpe anche "grazie a un Cts che agisce in campi in cui non ha competenza: non hanno neanche un virologo". La rivista inglese forse più prestigiosa nella comunità scientifica mondiale, ha letteralmente fatto a pezzi il nostro Cts, i 24 esperti che consigliano il governo sulla pandemia di coronavirus. L'elenco degli errori non è di poco conto. "L'aumento della capacità diagnostica sfruttando il potenziale dei loro centri di ricerca accademica, ai documenti secretati per lungo tempo, la mancanza di tamponi nel Paese, fino alla confusione su cosa dovessero fare le persone asintomatiche", sottolinea Nature. La non considerazione dei centri di ricerca è stata “la prima di numerose decisioni prese dal Cts che, nell'ultimo anno, hanno lasciato perplessi gli esperti italiani che considerano il test e il tracciamento come chiave”, scrive la rivista inglese.  “D'altra parte, il Cts a volte ha fornito indicazioni su argomenti in cui i suoi membri hanno poca o nessuna esperienza. A gennaio hanno affermato che mantenere gli studenti sull'apprendimento a distanza avrebbe causato "un grave impatto sul (loro) apprendimento, sul lato psicologico e personalità". La dichiarazione ha avuto conseguenze sulle politiche nazionali, ma nessun membro del Cts ha esperienza nel campo dell'istruzione, della psicologia infantile o della neuropsichiatria”, spiega Nature.  D’altronde spiega la rivista, “meno della metà dei suoi attuali membri sono nominati a titolo personale, mentre gli altri sono responsabili di istituzioni sanitarie nominati d’ufficio al Cts. Solo due membri hanno una chiara esperienza nel campo della biotecnologia, ma in campi estranei alle malattie infettive. Una ristretta gamma di competenze nel Cts può essere una delle ragioni alla base di tali decisioni. Il pannello ha figure di livello mondiale in pneumologia, malattie infettive, gerontologia ed epidemiologia, ma manca di aree critiche di competenza nella diagnostica molecolare, virologia molecolare e screening ad alto rendimento”, conclude Nature.

La rivista "Nature" boccia il Cts di Conte: «Zero competenza. Non c’è nemmeno un virologo». Alessandra Danieli lunedì 8 Marzo 2021 su Il Secolo d'Italia.  “Non hanno nemmeno un virologo. Agiscono dove non hanno competenze. Gli esperti  hanno poca esperienza“. La rivista inglese Nature boccia senza appello l’operato del Comitato tecnico scientifico italiano. Del resto – aggiunge – la voce più autorevole della comunità scientifica mondiale- metà dei suoi membri sono nominati a titolo personale”. Una bocciatura clamorosa. I 24 maxi esperti del Cts messo in piedi da Conte all’inizio della pandemia non raggiungono la sufficienza. L’elenco degli errori gravi  è impressionante. “I documenti secretati per lungo tempo. La mancanza di tamponi nel Paese fino alla confusione su cosa dovessero fare le persone asintomatiche”, sottolinea la rivista. E ancora la mancata considerazione dei centri di ricerca. Che è stata “la prima di numerose decisioni prese dal Cts. Che, nell’ultimo anno, hanno lasciato perplessi gli esperti italiani che considerano il test e il tracciamento come chiave”. La rivista riconosce che il comitato scientifico che guida il governo sulla scelte anti-covid  ha esperti di alto livello in molti campi. Ma è privo di figure che, in questa fase, sarebbero cruciali.  Tra gli errori più clamoroso la mancanza di attinenza ai problemi da risolvere. Il Cts – secondo l’inchiesta della rivista scientifica britannica – ha fornito indicazioni su tematiche “su cui ha poca o nessuna competenza”. “A gennaio, ha affermato che proseguire con l’insegnamento a distanza avrebbe causato negli studenti ‘un grave impatto sull’apprendimento. La loro psicologia e la loro personalità’. L’affermazione ha avuto conseguenze sulle politiche nazionali, ma nessun membro del Cts ha esperienza in campo pedagogico. In psicologia dell’infanzia o in neuropsichiatria”. Solo due membri del Cts “hanno una chiara esperienza nel campo della biotecnologia – scrive Nature – ma in campi estranei alle malattie infettive. Il pannello ha figure di livello mondiale in pneumologia, malattie infettive, gerontologia ed epidemiologia. Ma manca di aree critiche di competenza nella diagnostica molecolare, virologia molecolare e screening ad alto rendimento”.  Per non parlare degli scivoloni sulle  varianti del virus. “L’Italia – scrive Nature – sequenzia attualmente 1,3 campioni di virus ogni 1000. E impiega un tempo medio di circa due mesi per caricare i dati in archivi pubblici come Gisaid. È una delle prestazioni peggiori al mondo. Al confronto, il Regno Unito sequenzia quasi 40 volte più campioni.  Con un tempo medio di caricamento pari a 21 giorni”.

Sci e teatri: il Cts ci dice come dobbiamo vivere. Redazione su Nicola Porro il 4 marzo 2021. Intervistato dal Corriere della Sera, Luca Richeldi del Cts si lascia andare a un commento rivelatore. Un commento che spiega molte cose sul rapporto insano che si è stabilito tra tecnici e politici e che offre una chiave di lettura sulla politicizzazione dell’epidemia, oltre che sullo strapotere che i televirologi si sono autoattribuiti in questo anno. Dice Richeldi: “Avremmo pagato cara la riapertura di molte attività, come ad esempio lo sci. Altra questione sono i teatri, simbolo di cultura, luoghi di alto valore sociale”. Prima considerazione: non suona un po’ strano che questi signori considerino sempre sporche e cattive le attività degli imprenditori del tempo libero? Ma qual è il problema? Li considerano evasori a prescindere? O li associano al popolaccio che, anziché starsene sulle mega terrazze del centro, vuol prendere un po’ d’aria in montagna? Alla “destra sudata”, per citare Gianrico Carofiglio? Per carità eh: viva la riapertura dei teatri. Ma il sospetto che il giochino sia “riapriamo i luoghi che piacciono al Pd, teniamo sbarrati quelli che indica la Lega”, comunque ti viene. Ma c’è un altro elemento ancora più inquietante: quando Richeldi ci spiega che i teatri sono un altro paio di maniche, perché hanno un elevatissimo “valore sociale”. Toc toc, professore! Ma voi tecnici siete nel Cts per farci la morale? Per dirci cosa è essenziale e cosa non lo è? Per spiegarci che possiamo andare a teatro, perché quello ha un alto “valore”, ma non a sciare o al ristorante, perché quella è robaccia da Briatore? Viene in mente una canzone di Franco Battiato, Alexanderplatz, quando l’autore descrive le disposizioni pedagogiche del regime comunista a Berlino est, che rieduca il popolo spedendolo al teatro. E intanto, “lungo i viali” si sentono solo pochi passi, perché c’è il coprifuoco. Ecco: non è che dal Cts stiamo passando alla Ddr?

Il Comitato tecnico scientifico. Cos’è il Cts e quali poteri ha: il ruolo del Comitato tecnico scientifico al centro delle polemiche. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Ormai da mesi sta affiancando il governo, in particolare il Ministero della Salute guidato da Roberto Speranza, nella quotidiana battaglia contro il Coronavirus. il suo parere ha riguardato tutti (o quasi) gli ambiti in cui il Covid-19 è entrato con prepotenza, dossier che hanno riguardato da vicino la vita quotidiana degli italiani. Parliamo de Cts, acronimo di Comitato tecnico scientifico, tornato al centro delle polemiche per la questione degli impianti sciistici stoppati in extremis dal ministro Roberto Salute, a poche ora dalla riapertura, facendo seguito proprio ad una consulenza del Cts. Ma vediamo meglio come è nato il Comitato e quali sono effettivamente i suoi compiti e i suoi poteri. Istituito formalmente il 3 febbraio dello scorso anno con una ordinanza della Protezione Civile, il Comitato tecnico scientifico ha competenza “di consulenza e supporto alle attività di coordinamento per il superamento dell’emergenza epidemiologica dovuta alla diffusione del Coronavirus” ed è composto “da esperti e qualificati rappresentati degli Enti e Amministrazioni dello Stato”, si legge sul sito del Ministero della Salute. A far parte del Comitato tecnico scientifico vi sono 26 esperti, a titolo gratuito: sono infatti tutti già dipendenti dello Stato in vari ruoli, dal medico al dirigente ministeriale. Tra questi i nomi più noti al ‘grande pubblico’ sono sicuramente quelli di Agostino Miozzo, che coordina il Cts, così come il presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli e il direttore dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, protagonisti di decine di conferenze sull’andamento dell’epidemia. Non ne fa parte invece l’altro nome che sta infiammando la politica, quel Walter Ricciardi, consulente del Ministero della Salute, che con le sue dichiarazioni sul lockdown generale ha provocato enormi polemiche. Quanto ai poteri del Cts, questi sono stati integrati col passare dei mesi, ma restano circoscritti all’emergenza Coronavirus. Lo stesso coordinatore Miozzo aveva ricordato lo scorso novembre come il parere tecnico del Comitato tecnico scientifico “non ha né può avere alcuna valenza politica o amministrativa essendo come detto espressione di una consulenza scientifica atta a supportare una decisione politica”. Un esempio utile a chiarire i rapporti tra Cts e politica riguarda la “cabina di regia” che prende le decisioni più sentite dai cittadini, come quella sulle zone/colori delle regioni: il Cts non vi partecipa.

DAGOREPORT l'8 aprile 2020. Scontro tra Giuseppe Conte e il comitato scientifico che lo affianca a Palazzo Chigi. “Non posso fare quello che voi dite, l’economia deve ripartire o il paese rischia il fallimento. Dobbiamo essere competitivi con i mercati internazionali”. Ancora: “Non possiamo obbligare troppo a lungo la gente in casa. Ci sono problemi psicologici di cui bisogna tener conto. Non siamo in Cina. Quello è un regime. Un altro modo di pensare. In base al declino dell’emergenza sanitaria, dal 18 aprile ci sarà una ripresa graduale. ” Dal Pd, però, arrivano alcune critiche. Ma sulla comunicazione. “Non possono esserci troppe voci: Arcuri, Borrelli, Ricciardi. Occorre che sia una sola persona che parli alla popolazione”.

Alberto Gentili per “il Messaggero” il 5 marzo 2020. E' un comitato di otto uomini a dettare lo stile di vita degli italiani ai tempi del coronavirus. Si riunisce ogni giorno nella sede della Protezione civile in via Vitorchiano, al Flaminio. E ogni giorno elabora indicazioni per il premier Giuseppe Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza e per il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Oltre a collaborare con Walter Ricciardi, consulente di Speranza e delegato dell'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms). E' da questo comitato tecnico scientifico - diventato operativo con l'ordinanza del 3 febbraio, varata due giorni dopo la dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria nazionale - che è arrivata l'indicazione di istituire le zone rosse in Lombardia e Veneto e poi sono partiti i comandamenti anti-virus per l'Italia intera: il metro di distanza, il divieto di baci, strette di mano e abbracci, le partite a porte chiuse, oltre all'invito agli over 65 di restare a casa, esattamente come a chi ha appena due linee di febbre. E, per tutti, il suggerimento a evitare luoghi affollati. Ma proprio ieri c'è stata la prima frattura tra governo e comitato, con il parere contrario degli esperti alla chiusura delle scuole. Il confronto, a volte, inevitabilmente diventa aspro. L'incarico di coordinatore è affidato ad Agostino Miozzo, della Protezione civile. Il braccio destro di Borrelli ha 67, è veneto, e ha una lunga esperienza cominciata con una laurea in Medicina all'Università di Milano, cui è seguito un corso di perfezionamento in chirurgia ostetricia presso l'università di Harare. Miozzo è soprattutto un uomo macchina, un regista delle misure per fronteggiare le emergenze: da quella dei migranti, alla siccità, ora l'epidemia da Covid-19. Non a caso è stato direttore della Protezione civile europea.

La vera mente scientifica, il membro del Comitato che dice l'ultima parola su contagi e profilassi, è Giuseppe Ippolito, dal 1998 direttore dell'Istituto nazionale delle malattie infettive Spallanzani. Il pane di Ippolito, salernitano, 65 anni, sono da sempre i virus. A cominciare da quello dell'Aids. Con una lunga esperienza nelle istituzioni internazionali, inclusa la lotta contro Ebola. «Quando Ippolito parla, premier e ministro pendono dalle sue labbra», raccontano alla Protezione civile.

Lo stesso vale per Ricciardi, 61 anni, napoletano, rappresentante per l'Italia nell'executive board dell'Oms, consulente personale di Speranza. E per Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore della Sanità, friulano, 59 anni, specializzato in igiene e medicina della sanità pubblica. E co-fondatore e coordinatore dal 2011 del network europeo per la prevenzione delle infezioni.

C'è però chi dice che il più ascoltato, assieme a Ippolito, sia Claudio D'Amario, direttore generale della prevenzione sanitaria presso il ministero della Salute. Nato a Francavilla (Chieti) 61 anni fa, D'Amario è un internista con specializzazione in medicina preventiva. Aveva già accettato l'incarico di capo dipartimento della Salute della Regione Abruzzo, ed era atteso a L'Aquila, quando è stato chiamato a far parte del Comitato. E Marco Marsilio, il governatore abruzzese, ha fatto buon viso a cattivo gioco: «Il ministro Speranza e Borrelli ci hanno pregato di lasciarlo con loro per altri due mesi. Per noi è un sacrificio, ma siamo orgogliosi di lui».

Altro pezzo da novanta della task force anti-virus è Giuseppe Ruocco, segretario generale del ministero della Salute. Di lui, nato ad Amalfi 62 anni fa, dicono che ha una grande esperienza nella «gestione delle emergenze» e che «è uno che sa farsi rispettare».

C'è poi Mauro Dionisio, direttore dell'ufficio di coordinamento della sanità marittima, aerea e di frontiera. Napoletano, 58 anni, medico specializzato in igiene e medicina preventiva, è l'esperto da cui sono arrivate nei primi giorni dell'emergenza le indicazioni per il contenimento dell'epidemia proveniente dall'estero con i presidi in porti e aeroporti.

Settori per i quali il Comitato si avvalso anche dell'esperienza e dei suggerimenti di Francesco Maraglino, direttore della Direzione generale del ministero della Salute per la prevenzione sanitaria delle malattie trasmissibili e la profilassi internazionale. Pugliese, 57 anni, Maraglino sovrintende anche al potenziamento dell'organizzazione ospedaliera.

Nel comitato tecnico scientifico di Conte e Speranza è presente infine Alberto Zoli, direttore generale dell'Azienda regionale lombarda per l'emergenza e l'urgenza, pure lui specializzato in medicina preventiva. E' stato designato dalla Conferenza delle Regioni per svolgere il ruolo di cinghia di trasmissione tra governo e presidenti regionali. Ruolo non proprio semplicissimo, visti i rapporti tesi tra palazzo Chigi e i governatori leghisti.

Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2021. Restano pure Domenico Arcuri, Walter Ricciardi e gli altri "tecnici del Covid" responsabili del fallimento? L'aria è quella. Eppure la storia era iniziata nel migliore dei modi, con Mario Draghi che alle delegazioni del centrodestra prometteva un governo capace di «tirare fuori l'Italia dalla depressione», rilanciando consumi e vaccinazioni. Tanto che i suoi interlocutori uscivano da quella stanza conquistati e convinti: «Finalmente si cambia». La prima doccia fredda è stata la permanenza, tra gli altri, dei ministri Roberto Speranza e Dario Franceschini: due icone della depressione. Manca la seconda botta, quella dell'accasciamento definitivo: la conferma in blocco del commissario straordinario Arcuri, del Comitato tecnico-scientifico guidato da Agostino Miozzo, di Ricciardi e di tutti gli altri "esperti" la cui faccia campeggia sui disastri del governo precedente. L'attesa non dovrebbe essere lunga. Loro, almeno, hanno ricominciato a parlare come chi ha la certezza di restare lì ancora a lungo, premiato per preclari meriti. Il mandato di Arcuri scade il 31 marzo e non è affatto detto che gli sia rinnovato. Lui, però, sta già inviando messaggi da vincitore ai giornali amici. Su Repubblica, ieri, si leggeva che «al momento non c'è alcun segnale che faccia pensare a una non riconferma del commissario». Con tanto di fonti anonime, a lui vicine, intente a spiegare che «l'Italia è la prima nazione europea per numero di pazienti vaccinati con entrambe le dosi. Che senso avrebbe cambiare?». Il senso, magari, è nel fatto che l'Italia, quanto a dosi somministrate in rapporto alla popolazione (l'unico parametro che conta), è dietro a Regno Unito, Danimarca, Islanda, Slovenia, Lituania, Svizzera, Polonia, Norvegia, Romania, Irlanda, Spagna, Slovacchia, Estonia, Grecia, Portogallo e Finlandia. Che è quinta al mondo per numero di morti ogni milione di abitanti e che la strategia dei tamponi coordinata da Arcuri è stata un disastro. Dettagli che sfuggono pure al Fatto, lieto di annunciare che nei «palazzi della politica» si dà per scontata la conferma della «intera catena anti-Covid rappresentata da Arcuri». E siccome la nomina di quest'ultimo è di diretta competenza del premier, o il prediletto di Giuseppe Conte ha avuto rassicurazioni da Draghi, oppure si sta vendendo qualcosa che non ha: in tal caso, si spera che chi di dovere glielo faccia notare. Ma è evidente che, dopo lo sgomento iniziale causato dalla defenestrazione di Conte, la conferma di Speranza e i segnali arrivati da palazzo Chigi hanno messo le ali alla «intera catena», convinta che in fondo nulla sia cambiato rispetto al governo precedente. Ricciardi ieri ha fatto sapere di aver chiesto al ministro di cui è consulente «un immediato lockdown totale in tutta Italia». E il Cts, che il 4 febbraio aveva dato il via libera all'apertura degli impianti da sci nelle regioni gialle a partire da oggi, ha sconsigliato «ogni nuova apertura di qualsiasi struttura sciistica», dopo che tutte le imprese del settore, fidandosi, avevano raccolto prenotazioni e reclutato personale. La sintesi migliore, come spesso accade, la fa Vittorio Sgarbi: «Per dare il segno della discontinuità, Draghi deve rinnovare il Comitato tecnico-scientifico e cacciare, con Speranza, Walter Ricciardi». Matteo Salvini si era appena impegnato a non voler tagliare la testa di Arcuri, ma è durata poco. In serata, d'intesa con lui, i capigruppo della Lega sono ripartiti all'attacco contro «il trio Ricciardi-Arcuri-Speranza», chiedendo, vista l'impossibilità di rimuovere il ministro appena confermato, almeno «un cambio di squadra a livello tecnico». È la prima, vera rogna per Draghi e il suo governo. Capita, quando prometti delle cose e dai subito l'impressione di essertele rimangiate.

Viola Giannoli per repubblica.it il 15 febbraio 2021. C'è il fronte del sì, quello del no e anche quello del forse. La proposta di un lockdown totale lanciata dal consigliere dell'ancora ministro Roberto Speranza, Walter Ricciardi, ha scatenato un fiume di reazioni. Non solo quelle politiche, in attese delle mosse del nuovo governo Draghi, ma pure quelle degli esperti, di nuovo divisi tra l'urgenza di chiusure generalizzate e immediate e la necessità invece di rafforzare le misure in campo oggi e di rivedere, in senso restrittivo, i parametri per il declassamento delle Regioni nelle zone rosse o arancioni. E intanto arriva una nuova durissima richiesta dell'Iss: considerata la circolazione nelle diverse aree del paese "si raccomanda di intervenire al fine di contenere e rallentare la diffusione della variante VOC 202012/0 (la variante inglese, ndr), rafforzando o innalzando le misure in tutto il paese e modulandole ulteriormente laddove più elevata è la circolazione, inibendo in ogni caso ulteriori rilasci delle attuali misure in atto". L'Istituto superiore di sanità indica questa strada nello studio di prevalenza della variante inglese in Italia relativo alla indagine svolta lo scorso 4-5 febbraio. Non solo. Perché anche l'Europa è preoccupata: l'Ecdc ha aggiornato il livello di rischio attualmente valutato "alto-molto alto". E la direttrice Andrea Ammon scrive in una nota:  "A meno che le misure non farmaceutiche non vengano continuate o addirittura rafforzate, nei prossimi mesi dovrebbe essere previsto un aumento significativo dei casi e dei decessi correlati al Covid-19". Intanto in Italia sulla linea Ricciardi - "un lockdown breve e mirato, di 2, 3 o 4 settimane", ossia il tempo necessario a riportare l'incidenza di Covid-19 al di sotto dei 50 casi per 100mila abitanti - s'è schierato subito il virologo Andrea Crisanti, "l'uomo dei tamponi del Veneto", come veniva chiamato per la sua insistenza sull'importanza e l'efficacia del sistema di tracciamento: piuttosto che pensare a sciare e mangiare fuori - è la sintesi del suo pensiero - anche in Italia dovremmo decidere un lockdown come è stato un anno fa a Codogno, ormai le zone , giudicate "troppo morbide", non bastano più. Anzi, "il lockdown andava fatto già a dicembre, ora - spiega - è fondamentale una chiusura dura per evitare che la variante inglese diventi prevalente e abbia effetti devastanti. D'altronde così è in Germania, Francia e Inghilterra". Sono proprio le nuove varianti a far convergere sulla tesi di Ricciardi pure Massimo Galli, direttore di Malattie infettive dell'ospedale Sacco di Milano: "Le nuove varianti portano sicuramente più infezioni e più problemi - sottolinea - E purtroppo la conclusione non può che essere la soluzione paventata dal professor Ricciardi. Il sistema della divisione dell'Italia a colori - aggiunge Galli- non sta funzionando. E la prova è nei fatti". Possibilista anche Claudio Mastroianni, direttore del Dipartimento di Malattie infettive del Policlinico Umberto I di Roma: "Non voglio entrare nella polemica - dice - ma siamo in una situazione preoccupante. Ora più che mai serve la massima attenzione e bisogna stare molto accorti e valutare misure più stringenti e anche l'idea di un lockdown. Siamo di fronte a una settimana decisiva". Di lockdown generale non vuole sentir parlare invece Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, l'ospedale italiano in cui ormai un anno fa venne sequenziato per la prima volta il coronavirus: "Un lockdown totale secondo me non serve - spiega - ma bastano lockdown chirurgici laddove se ne verifichi la necessità. Non si tratta, dunque, di aggravare le misure, ma applicare con severità quelle che abbiamo: non ci fate vedere più assembramenti - è il suo appello - così riguadagneremo in futuro spazi di libertà". E così pure Pierluigi Lopalco, epidemiologo ma anche assessore alla Sanità in Puglia, secondo il quale la parola "lockdown" ormai dice tutto e non dice niente: "Semmai in questo momento penserei a delle misure selettive, rafforzate, per evitare tutte quelle situazioni in cui virus circola di più e che conosciamo ormai bene". E se c'è chi si è stupito dell'appello alla chiusura totale di Ricciardi in un momento in cui non c'è la percezione di un picco dell'epidemia, il virologo dell'università degli Studi di Milano Fabrizio Pregliasco dà ragione dal punto di vista scientifico al consigliere di Speranza, ma dice, "credo che un lockdown totale sia difficile da proporre dal punto di vista dell'opportunità politica e del disagio e della ribellione sociale che si rischierebbe". Per l'esperto, meglio tentare prima una via "più accettabile", provare a "rivedere i parametri di aperture e chiusure, essere più flessibili. Perché, si sa, quando una regione va nella fascia gialla, il rischio di perdere i progressi ottenuti c'è". Un'opzione sono ad esempio, gli "interventi chirurgici, zone rosse come l'Umbria, da far scattare in base a valutazioni più stringenti". Senza bocciare del tutto il "metodo dell'Italia a colori che ci ha permesso ad oggi tutto sommato di mitigare la diffusione di Covid-19 anche se non a controllarla". Anche per Massimo Andreoni, direttore scientifico della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) e primario di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma, "minacciare continuamente il lockdown non serve a nulla. L'Itaia ha fatto una scelta ed è quella di convivere con il virus. Abbiamo una situazione epidemiologica di stallo, in cui i numeri si stanno mantenendo costanti. Questo può essere letto in modo positivo da una parte e negativo dall'altro, perché è partita anche la campagna vaccinale e fare le immunizzazioni mentre il virus circola aumenta la capacità delle varianti di resistere. È quindi obbligatoria una cautela, ma ridiscutere oggi di fare o meno un lockdown nazionale non serve a nulla". Per Matteo Bassetti, direttore della clinica malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, parlare di lockdown è addirittura come sentire un disco rotto: "Servirebbe un modo di comunicare più univoco, una voce unica. Invece parlano tutti: Cts, Ricciardi, Crisanti. Poi l'Iss. Chiaramente così c'è disorientamento nella popolazione. Se c'è bisogno di mettere un'area in zona rossa va fatto rapidamente, ma evitiamo di continuare a parlare di lockdown nazionale perché c'è qualcuno che è diventato un disco rotto". "Non siamo alla soglia di un nuovo lockdown - afferma poi Bassetti spiegando la sua posizione - Dobbiamo avere un po' di pazienza e di ordine, e le boutade non aiutano. I numeri dicono che abbiamo il 5% dei positivi, le ospedalizzazioni sono calate e la situazione non è di emergenza. Se c'è aumento dei casi e dei ricoveri, si dovrà intervenire a livello locale con le chiusure"". Parte dai numeri, e non potrebbe essere diversamente, anche il fisico e comunicatore Giorgio Sestili che lavora da inizio pandemia al progetto Coronavirus - Dati e analisi scientifiche: "I numeri ci dicono che da quattro settimane in Italia la situazione è stabile, come numero di casi, di tamponi, di ingressi in terapia intensiva e di decessi. Stabilità non significa però che vada tutto bene. Ci stiamo abituando ad avere 2-300 vittime al giorno, che sono moltissime, prima di poter vedere l'effetto della vaccinazione. Inoltre, dai dati nazionali non è visibile la ripresa della curva che invece si osserva dai dati locali: la provincia autonoma di Bolzano, quella di Trento, l'Umbria".

Che fare? "Io credo ci sia una misura intermedia tra lockdown generalizzato e 14 Regioni in giallo, come la chiusura di tutte le attività più a rischio, scuole comprese. Sarei favorevole al lockdown solo se in paralello ci fosse una campagna vaccinale di massa: allora ne usciremmo con una curva al minimo e immuni. Ma così non è perché mancano i vaccini e allora penso che vadano inaspriti i parametri di rischio delle Regioni e le misure".

Da liberoquotidiano.it il 19 febbraio 2021. Lo abbiamo ribattezzato "mister lockdown". Si parla ovviamente di Walter Ricciardi, il consulente del ministro della Salute, Roberto Speranza, il quale è ossessionato dalle serrate per contenere il coronavirus. La sua soluzione è sempre la stessa: chiudere tutto. Lo ha proposto anche lo scorso weekend, "lockdown severo e per tutta Italia", scatenando le ire di politici, commercianti e chi più ne ha più ne metta (il consigliere, poi, ha anche fatto l'offeso, minacciando le dimissioni). Insomma, Ricciardi suo e nostro malgrado è l'uomo del momento. E in virtù di questa sua centralità, ecco che finisce anche nel mirino di Striscia la Notizia, il tg satirico di Canale 5, che gli dedica un servizio, piuttosto tagliente, nel corso della puntata trasmessa giovedì 18 febbraio. "Secondo Walter Ricciardi, consigliere di Speranza, è necessario un nuovo lockdown. E noi abbiamo il trailer", premette la voce fuori campo di Ezio Greggio. Il trailer di che cosa? Presto detto, della nuova fiction che verrà trasmessa dal fantomatico canale Rai Scoglio 24, dal titolo: Il commissario Ricciardi e il lockdown maledetto. "Dalla finestra, controlla che tutti rispettino il lockdown. Dunque, quando le persone si rendono conto di essere spiate, scappano uno a uno", viene anticipato nel trailer. Le immagini proseguono con il montaggio dei finti interrogatori in cui Ricciardi mette sotto torchio chi si "permette" di uscire di casa. Roba da Stasi, insomma: ironia, quella di Striscia la Notizia, che la dice lunghissima sui metodi del fedelissimo di Speranza. Ma non solo. Lo sfottò poi si fa brutale: "Per dimostrare che il lockdown è necessario, Riccardi si è fatto venire dei sintomi", ed eccolo all'interno di un cinema mentre finge di tossire. Troppo, tanto che nella "fiction" ideata da Striscia lo stesso Speranza inizia ad avere dei dubbi sul suo conto. Ma non solo: il trailer si conclude con "i commercianti che ce l'hanno a morte con lui". E così eccoli, i commercianti, che si fanno sotto a Ricciardi e lo minacciano in modo piuttosto esplicito...

Quando Walter Ricciardi faceva l’attore e recitava con Mario Merola. Il Corriere della Sera il 20 aprile 2020. Negli anni ‘70 il consulente del ministero della Salute muoveva i suoi primi passi nel cinema | CorriereTv. L’oggi consulente del ministero della Salute Walter Ricciardi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta aveva intrapreso la carriera di attore: Ricciardi ha infatti recitato con Stefania Sandrelli, Alida Valli, Giuliana De Sio, Michele Placido, Maria Schneider e soprattutto con Mario Merola, con il quale ha girato anche il film «L’ultimo guappo», da cui è tratta questa scena.

Gianmarco Aimi  per rollingstone.it il 15 febbraio 2021. Lo stop agli impianti sciistici di risalita che ne ha bloccato la ripartenza ha mandato su tutte le furie i presidenti di regione interessati e i gestori, oltre che tutto l’indotto. Il divieto del ministro della Salute Roberto Speranza a poche ore dalla riapertura è arrivato per il timore che il ceppo inglese del virus possa diffondersi in modo incontrollato rendendo vani gli sforzi sulla somministrazione dei vaccini. E così, nonostante le proteste, niente scarponi e racchette fino al 5 marzo. Ma c’è anche chi è d’accordo con questa decisione e da sempre rappresenta la montagna più di chiunque altro. Parliamo del leggendario alpinista Reinhold Messner, che non solo ha lanciato un appello affinché tutti rispettino le regole, ma si è poi augurato che quando sarà possibile tornare in montagna si scelga di favorire un turismo più consapevole.

Walter Ricciardi, che voleva essere ministro: la sua storia, tra Covid, attacchi, dietrofront e gaffe. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 16/2/2021. Chi è, chi non è, chi si crede d’essere questo Gualtiero Ricciardi meglio noto con il nome di Walter, consigliere del ministero della Salute sempre molto rumoroso, ingombrante, molto incauto, molto tutto: ieri a lungo trending topic su Twitter per aver detto a Fabio Fazio e al Messaggero che servirebbe un nuovo lockdown totale per due, tre, quattro settimane o anche di più, inutile essere troppo precisi, poi si vedrà. Che tipo. Un pomeriggio a lavorarci su (del giudizio di Stefania Sandrelli, che con lui recitò ai bei tempi andati del cinema, parleremo dopo). Tanto per cominciare: gira voce che la cannonata mediatica delle ultime ore sia frutto di puro nervosismo. Ricciardi pensava infatti di diventare ministro. Non si capisce bene chi gli abbia messo in testa una simile possibilità. Magari s’è fomentato da solo: sono bravo, me lo merito, sarebbe giusto. Oppure è stato un amico mitomane: guarda che ho parlato con, tieniti pronto, è fatta, Draghi ti vuole con sé. Comunque: deluso o no, quando le agenzie battono qualche sua dichiarazione, nessuno di noi, nei giornali, si stupisce ormai più di tanto. Ha 61 anni, medico, docente dell’Università Cattolica, ex presidente dell’Istituto superiore di sanità: «Ma, per favore, fatelo tacere — dice Giovanni Toti, il governatore della Liguria —. Ogni santa domenica Ricciardi ci ricorda che dobbiamo morire».

«L’epidemia? Meno pericolosa di un’influenza stagionale». Anche se all’inizio l’aveva presa un po’ alla leggera. Il 6 febbraio del 2020, circa un anno fa, intervistato dal Sole 24 Ore, detta la sua previsione: «Questa epidemia si rivelerà meno pericolosa di un’influenza stagionale». Il 25 febbraio, nella prima uscita pubblica da consigliere del ministero, afferma: «Le mascherine? Alle persone sane non servono a niente». Poi, il 19 aprile, scatena un mezzo disastro diplomatico. In una botta di anti-sovranismo militante, retwitta un video postato dal regista americano Michael Moore in cui un gruppo di persone prende a pugni un manichino che ha tutte le sembianze dell’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

Ricciardi pubblica, poi si pente, cancella. Ma è tardi. Matteo Salvini, che era pazzo di Trump, andava in giro a dire di essere trumpiano, e insomma all’epoca tutto pensava tranne che di finire in un governo con Pd, 5 Stelle e quei veri sinistroidi di Leu, ne chiede le dimissioni immediate. Ma pure l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, interviene dura e spiega che «Ricciardi non parla a nome nostro» — perché — insomma — dico e non dico, com’è e come non è, Ricciardi ci aveva fatto un po’ capire il contrario.

Un personaggione. Litigio facile. L’Ansa, una mattina, batte una sua riflessione: «Il coronavirus va posto nei giusti termini. Su 100 persone malate, 80 guariscono spontaneamente, 15 hanno problemi seri ma gestibili, muore solo il 5%». Certo: intanto siamo arrivati a 93.835 morti e Ricciardi ha litigato, praticamente, con tutti. Attilio Fontana, governatore lombardo: «Ricciardi si informi bene, prima di parlare». Vincenzo De Luca, governatore campano: «La mia regione procederà legalmente contro Ricciardi». Stefano Bonaccini, governatore dell’Emilia-Romagna: «Ricciardi non ha competenze istituzionali, molte sue parole sono fuori luogo».

Ma Ricciardi se ne frega. Rilascia interviste. Polemizza. Proclama. E annusa l’aria (quanto gli piace la politica: nel 2013 cercò invano di arrivare in Parlamento candidandosi con i montiani di Scelta civica in quota Italia Futura, la fondazione di Luca Cordero di Montezemolo).

E cosa sente nell’aria? Odore di nuovo. Così, a sorpresa - e si suppone senza concordare la richiesta con nessuno - invoca l’arrivo di Guido Bertolaso al comando della campagna vaccinale.

Con Mario Merola. Va detto che al ministero lo lasciano parlare e non gli vanno quasi mai dietro. Ieri, ad un certo punto, un mezzo sospetto dev’essergli venuto. Perché — nel pieno della bufera provocata dalla sua proposta di nuovo lockdown — ha detto a Rainews 24: «Dimissioni? O sono utile, o mi faccio da parte». Dovrebbe sapere come si esce di scena. È stato un attore promettente. «Da bambino, nel ‘68, finii per caso in una serie tv della Rai, I ragazzi di padre Tobia, che si registrava a Napoli, dove vivevo. Così, poi, ho continuato per un po’». Recitò accanto a Mario Merola nel film L’ultimo guappo, in cui interpretava Roberto Aliprandi, figlio di Don Francesco Aliprandi (Merola). Aveva molti capelli, che poi — come capita — ha perso.

Stefania Sandrelli, che lo incrociò sul set di Io sono mia, se lo ricorda bene. «Era bellino, era divertente». Ricciardi tende a infilare queste parole nell’oblio. E preferisce ricordare che, pochi giorni fa, il Santo Padre lo ha nominato membro ordinario della Pontificia Accademia per la Vita (certo però diventare ministro sarebbe stato un brivido diverso, sia detto con il massimo rispetto).

Paolo Becchi, dopo Burioni c'è Ricciardi: "Ci terrete chiusi in casa anche ad agosto con 30 gradi?" Libero Quotidiano il 02 maggio 2020. "Ci terrete chiusi in casa anche ad agosto con 30 gradi?". Paolo Becchi, su Twitter, prosegue la sua crociata contro i virologi "terroristi", che dispensano verità incontestabili salvo poi tornare sui propri passi dopo qualche tempo. Dopo i titoli accademici di Roberto Burioni, l'editorialista di Libero prende di mira Walter Ricciardi, consigliere del Ministero della Salute. Il professore assicura: "Il coronavirus al sole a 24° e con alta umidità scompare in 2 minuti". "Un altro che come Burioni scopre quello che il professor Tarro dice da mesi", conclude Becchi caustico.

Walter Ricciardi si dimette da presidente dell’Istituto Superiore di Sanità : decisiva l’inchiesta sui conflitti d’interesse. Il Corriere del Giorno il 30 Aprile 2020. Secondo la redazione del programma Le Iene (Italia Uno) la decisione sarebbe scaturita proprio dalla loro inchiesta sui presunti conflitti d’interesse. Il quotidiano Libero ha reso noto ieri sera che Walter Ricciardi ha rassegnato le dimissioni da presidente dell’Istituto superiore di sanità. Dal primo gennaio non occuperà più questo ruolo e, secondo la redazione del programma  Le Iene (Italia Uno) la decisione sarebbe scaturita proprio dalla loro inchiesta sui presunti conflitti d’interesse. Nel corso dell’ultima puntata, infatti, è emerso che Ricciardi ha dei “buchi” nel proprio curriculum e ha dei rapporti quantomeno sospetti con alcune case farmaceutiche e con una società di lobbying, tanto che un’associazione di consumatori ha presentato una diffida urgente all’ANAC, l’Autorità Nazionale AntiCorruzione in cui chiede di pronunciarsi con urgenza sulla “possibile incompatibilità” di Walter Ricciardi con il suo incarico pubblico. Secondo Le Iene, l’inchiesta potrebbe aver spinto Ricciardi alle dimissioni, dato che la questione dei conflitti di interesse è diventata di dominio internazionale dopo che è stata ripresa anche dal British Medical Journal. 

Libero: “Ricciardi si dimette dall'Iss per Le Iene”. Ma è successo nel dicembre 2018! Le Iene News il 30 aprile 2020. Libero Quotidiano fa una gran confusione pubblicando come se fosse successa ieri una notizia del 19 dicembre 2018. Quando l’attuale consulente del governo e rappresentante italiano all’Oms, Walter Ricciardi, si dimise da presidente dell’Istituto superiore di sanità 10 giorni dopo il servizio di Roberta Rei sui suoi presunti conflitti di interesse. Walter Ricciardi, attuale consulente del governo per l’emergenza Covd e rappresentante italiano all’Oms, si trova di nuovo al centro delle polemiche e nel mezzo ci finiscono anche Le Iene. Ma questa volta noi non c’entriamo nulla. A creare parecchia confusione è Libero Quotidiano che pubblica la notizia, datata 29 aprile 2020: “Le Iene, Walter Ricciardi si dimette da presidente dell'Iss: decisiva l'inchiesta sui conflitti d'interesse” (cliccate qui per l’articolo, in linea ma non in homepage) in cui dà come successi oggi fatti accaduti a fine 2018 e mettendoci pure in bocca una sua interpretazione. Walter Ricciardi si è effettivamente dimesso dalla presidenza dall’Iss, l’Istituto superiore di Sanità, ma il 19 dicembre 2018 (comunicando che dal 1° gennaio 2019 non sarebbe stato più presidente). Non ieri, come scrive Libero Quotidiano. Ve lo avevamo raccontato il giorno stesso in questo articolo, ricordando come la decisione arrivasse dopo il servizio di Roberta Rei che vedete qui sopra della puntata del 9 dicembre 2018 in cui parlavamo dei presunti conflitti di interesse di Ricciardi. La nostra inchiesta era stata ripresa anche dal prestigioso British Medical Journal. “Tutto questo potrebbe aver spinto Walter Ricciardi a rassegnare le dimissioni?”, ci chiedevamo. Libero quotidiano racconta ieri questa storia come se fosse successa lo steggo giorno con questo articolo e attribuendoci la sua interpretazione così: “Walter Ricciardi ha rassegnato le dimissioni da presidente dell’Istituto superiore di sanità. Dal primo gennaio non occuperà più questo ruolo e, secondo Le Iene, la decisione sarebbe scaturita proprio dalla loro inchiesta sui presunti conflitti d’interesse. Nel corso dell’ultima puntata, infatti, è emerso che Ricciardi ha dei “buchi” nel proprio curriculum e ha dei rapporti quantomeno sospetti con alcune case farmaceutiche e con una società di lobbying, tanto che il Codacons ha presentato una diffida urgente all’Autorità nazionale anticorruzione in cui chiede di pronunciarsi con urgenza sulla “possibile incompatibilità” di Walter Ricciardi con il suo incarico pubblico. Secondo Le Iene, l’inchiesta potrebbe aver spinto Ricciardi alle dimissioni, dato che la questione dei conflitti di interesse è diventata di dominio internazionale dopo che è stata ripresa anche dal British Medical Journal”. L’errore sarà dovuto magari al clima di forti attacchi arrivati a Ricciardi dal centrodestra. L’account Facebook della Lega ha presentato sempre ieri il servizio di Roberta Rei così: “Ecco il servizio che fece dimettere per conflitto d’interessi Walter Ricciardi”. Anche Vittorio Sgarbi l’aveva duramente attaccato il 22 aprile durante Stasera Italia su Rete 4, dicendo addirittura: “Sia maledetto Walter Ricciardi, lui e il coronavirus”. Ricciardi era finito nel mirino dal leader leghista Matteo Salvini e non solo già il 19 aprile perché aveva ritwittato un video di Michael Moore in cui si vedevano pupazzi del presidente americano Donald Trump usati come pungiball. Il giorno dopo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva invitato con una nota a “evitare espressioni che suggeriscano che il professor Ricciardi lavori per l’Oms o che la rappresenti”. “Walter Ricciardi è il rappresentante italiano presso il board dell’Oms”, aveva detto anche il videcepresidente aggiunto dell’Oms, Ranieri Guerra. “Non ha niente a che fare con l’organizzazione. È un supercampione della sanità pubblica nazionale, ma non parla a nome dell’Agenzia delle Nazioni Unite per la Sanità”. E anche all’Oms Ricciardi ha omesso le doverose informazioni sulla sua dichiarazione di interessi. Per il suo ruolo di membro dell'European Advisory Committee on Health Research (EACHR) presso l'Organizzazione mondiale della sanità dal luglio 2012 al luglio 2014, Walter Ricciardi ha dovuto depositare la sua Dichiarazione di Interessi, in cui alla domanda "Negli ultimi 4 anni ha ricevuto una remunerazione da un'entità commerciale o altra organizzazione correlata con un argomento relativo all'oggetto di discussione dell'incontro o del lavoro?", sia nella barra "lavoro" che "consulenza" Ricciardi mette la croce su "no". E qual era uno degli argomenti di discussione del quinto incontro dell'EACHR tenutosi a Copenhagen dal 7 all'8 luglio 2014? Proprio i vaccini. E anche dal report dell'incontro, infatti, risulta che "Nessun conflitto di interessi è stato dichiarato”. Walter Ricciardi, anche in quel caso, non ritenne di dover comunicare le sue numerose consulenze con le case farmaceutiche dei quattro anni precedenti, soprattutto quelle relative ai vaccini, visto che l'ultima che aveva fatto risaliva a due anni prima per il meningococco B. Dichiarò quindi il falso?

Coronavirus, la destra all'attacco di Ricciardi: "Insulta Trump e non è dell'Oms. Deve dimettersi". Salvini, ma anche esponenti di Forza Italia e Fratelli d'Italia, chiedono le dimissioni del consulente del governo . Perché ha criticato il presidente americano e perché non è un dipendente dell'Organizzazione mondiale della Sanità ma solo il rappresentante italiano nel comitato esecutivo. Intanto l'Oms prende le distanze: "Le sue opinioni non rappresentano necessariamente il nostro punto di vista". La Repubblica il 19 aprile 2020. La destra italiana all'attacco di uno dei volti più familiari dell'emergenza coronavirus: Walter Ricciardi, medico, consulente del ministero della Salute, rappresentante italiano nel comitato esecutivo dell'Oms. Un'offensiva che si basa su due elementi: le critiche di Ricciardi a Trump e il reale ruolo del professore nell'Organizzazione mondiale della Sanità. A sferrare il primo colpo è Matteo Salvini, che attacca Ricciardi per aver ritwittato un post di Michael Moore in cui si vede un uomo far cadere a terra e prendere a bastonate un pupazzo con le fattezze di Donald Trump. D'altronde Ricciardi ha espresso più volte, sui social, la sua valutazione critica sulla linea scelta dal presidente americano per affrontare l'emergenza coronavirus. Ha messo nel mirino i manifestanti che chiedevano le dimissioni di Anthony Fauci -  capo della task force della Casa Bianca contro il coronavirus, spesso in polemica con Trump - mentre ha rilanciato il celebre video in cui la cancelliera Merkel spiega ai cittadini tedeschi - con precisione scientifica - l'evoluzione dell'epidemia. Ma per Salvini questo è intollerabile. "Uno dei consulenti del governo mette i tweet insultando Trump... c'è un paese come gli Usa che dona decina di milioni di euro di aiuti all'Italia" e "un signore che lavora per il governo mette un tweet dove c'è gente che prende a pugni un pupazzo con la faccia di Trump". E, nel suo consueto intervento nel programma Non è l'arena di Massimo Giletti, conclude: "Dimissioni? Mi sembra evidente". Ma Salvini non è certo il solo, nell'opposizione, a lanciare l'attacco. E c'è anche un altro argomento utilizzato per l'offensiva. La precisazione fatta oggi in tv, su Rainews24, da Ranieri Guerra, direttore vicario dell'Oms. Che, rispondendo al giornalista Gerardo D'Amico che gli chiedeva cosa pensasse di una dichiarazione del "suo collega dell'Oms Walter Ricciardi" ha tenuto a precisare: "Il mio collega Walter Ricciardi non è dell'Oms". Ricciardi ha puntualizzato: "Sono il rappresentante italiano nel comitato esecutivo, non un dipendente". Ma questo non è bastato a frenare la valanga di accuse. Per Francesco Lollobrigida, di Fratelli d'Italia, "In una nazione normale uno come Ricciardi avrebbe dovuto fare le valigie e il ministro che lo ha nominato scusarsi. Lo pagano per fare dichiarazioni che imbarazzano l'Italia e pubblicare video violenti contro un capo di Stato straniero". Per Maurizio Gasparri, di Forza Italia, "questo Walter Ricciardi non si capisce bene chi sia e che cosa voglia. Il suo ruolo nell'ambito dell'Oms non è chiaro. Diffonde peraltro sui social dei video offensivi nei confronti di Trump. Ricciardi venga cacciato stasera stessa dai ruoli istituzionali che indegnamente ricopre. È un personaggio davvero inqualificabile". Insomma, la campagna contro Ricciardi è partita e non sembra destinata ad esaurirsi nel breve periodo. E intanto anche l'Oms prende le distanze dal professore: "Le opinioni di Ricciardi non rappresentano necessariamente il punto di vista dell'Oms e non dovrebbero essere attribuite né all'Oms né ai suoi organi".

Dagospia il 21 aprile 2020. Da “un Giorno da Pecora – Radio1”. Stefania Sandrelli, tra le più note attrici italiane, oggi è stata ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, dove ha risposto alle domande dei conduttori su un film nel quale aveva recitato con un attore molto particolare: Walter Ricciardi, l'attuale consulente per il ministro della Salute Roberto Speranza. Il film, del 1978, si intitolava 'Io sono mia'. Si ricorda di Ricciardi sul set? "Si, come no, sua madre si occupava della parte amministrativa del film. E poi una mia amica recentemente mi ha mandato due foto in cui eravamo su una spiaggia, Walter Ricciardi ed io”. Si ricorda che tipo di attore era Ricciardi? “Era molto carino, bellino, era divertente, la sua era una partecipazione. Ho un bel ricordo di quel film”, ha raccontato a Un Giorno da Pecora la Sandrelli. La Sandrelli ha poi spiegato che tra i modi in cui sta cercando di occupare il tempo durante questo lockdown c'è il ballo. “E' l'unica cosa che riesco a fare bene, per un'oretta”. Con quale musica? “Io sono una musicomane, non amo la musica retrò ma adoro Paul Anka, è talmente gioioso che mi dà sostegno, forza”. Quale canzone ama di più? “Ho una compilation che durerà 45 minuti, con tutte le sue hit. Pensavo di stufarmi dopo un po' di tempo, invece no, e ormai conosco tutti i suoi pezzi a memoria. In realtà però quei pezzi li conoscevo già bene, perché le ballavo con una gonnellina che mi aveva atto mia madre, corta a pieghe, e quasi la 'pattinavo' ”. Quando balla fa dei passi specifici o segue il suo istinto? “Seguo totalmente il mio istinto, ho un discreto ritmo”, ha spiegato l'attrice a Un Giorno da Pecora.

Chi è davvero Walter Ricciardi. L'uomo che imbarazza Conte. Gualtiero Ricciardi, noto col nome di Walter, l'esperto del governo con posizioni anti-sovraniste di cui non si conosce ancora l'entità del suo compenso. FdI: "Si dimetta". Francesco Curridori, Mercoledì 22/04/2020 su Il Giornale. Attore, medico di fama mondiale e aspirante politico. Gualtiero Ricciardi, noto col nome di Walter, è una figura poliedrica finita al centro delle polemiche per un tweet a dir poco offensivo nei confronti del presidente Usa, Donald Trump. Finora nessun consulente del governo, sia di quello attuale sia dei precedenti, si era mai permesso di ingaggiare uno scontro politico con i leader dell’opposizione. “C’è un paese come gli Usa, che dona decina di milioni di euro di aiuti all’Italia" e "un signore che lavora per il governo mette un tweet dove c’è gente che prende a pugni un pupazzo con la faccia di Trump", aveva detto a Non è l’arena Matteo Salvini che invocava le sue dimissioni. Dopo quel tweet, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha preso le distanze da Ricciardi. Nel corso di un’intervista rilasciata a Rainews24 Ranieri Guerra, direttore aggiunto dell’Oms, ha precisato che Ricciardi “è un supercampione della sanità pubblica nazionale, ma non parla a nome dell’Agenzia”. Il consulente del governo Conte ha dovuto, quindi, specificare meglio il suo ruolo: “Io sono il rappresentante italiano nel Comitato esecutivo dell’Oms, designato dal governo per il periodo 2017-2020. Non sono cioè un dipendente dell’Oms”. Una precisazione doverosa che ha posto fine a un fraintendimento durato mesi. “Credo che la confusione l’abbia fatta la stampa, non lui”, ha chiosato il collega Guerra. Ricciardi, però, ieri, sentito dall'Adnkronos Salute, si è difeso ulteriormente dagli attacchi arrivati dal centrodestra e ha detto: “È una fase in cui, se ci sono polemiche da fare, le faccio solo nell’interesse della salute dei cittadini”, ricordando inoltre che lo scorso 26 febbraio, pochi giorni dopo la nomina, aveva scritto un tweet per “evitare equivoci”. “Per ragioni di precisione chiedo a tutti i media italiani di definire la mia qualifica membro italiano del comitato esecutivo dell’Oms e consigliere del ministro Speranza per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali", aveva twittato.

I contrasti di Ricciardi con i "gialloverdi". Ricciardi non è nuovo a scontri politici. Il medico napoletano, che da bambino ha recitato nella serie I ragazzi di padre Tobia e da ragazzo in alcuni film accanto a Mario Merola, nel 2018 si è dimesso da presidente dell’Istituto Superiore di Sanità per contrasti con i membri del primo governo Conte e, in particolare, proprio con Salvini. “Quando un vicepremier dice che per lui, da padre, i vaccini sono troppi, inutili e dannosi, questo non è solo un approccio ascientifico. È anti-scientifico”, aveva detto nel corso di un’intervista al Corriere della Sera. Quelle dimissioni, in realtà, erano state presentate anche a seguito di un’interrogazione presentata dalla grillina Paola Taverna sulla base di un’inchiesta svolta da Le Iene su presunti conflitti di interesse con alcune case farmaceutiche. Che le idee politiche di Ricciardi fossero diametralmente opposte a quelle sovraniste della Lega o a quelle populiste del M5S era noto da tempo. Nel 2013, infatti, tentò di entrare in politica candidandosi con i montiani di Scelta Civica in quota Italia Futura, la fondazione di Luca Cordero di Montezemolo. La stessa fondazione da cui proviene anche Carlo Calenda, attuale leader di Azione, partito al quale Ricciardi si è avvicinato sin dalla sua nascita. Nel novembre dell’anno scorso, in occasione del lancio della nuova formazione politica, il medico napoletano intervenne per chiedere che si tolgano 13 miliardi da Quota 100 e Reddito di Cittadinanza per investire nella sanità. Insomma, Ricciardi, già professore ordinario della facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università Cattolica, si è sempre contraddistinto per essere un liberal di sinistra. Lasciato l’Istituto Superiore di Sanità, nell’ottobre 2019 si è consolato con la nomina a Presidente del “Mission Board for Cancer”, un programma di ricerca e innovazione istituito dalla Commissione Europea per valutare i progetti di ricerca da finanziare in ambito oncologico. Ebbene, un luminare con un tale curriculum, stavolta, nel momento più cruciale della sua carriera sembra aver toppato non solo dal punto di vista comunicativo ma anche nel merito dell’emergenza coronavirus. Un’epidemia che il 6 febbraio scorso, intervistato dal Sole24ore, definì “meno pericolosa” dell’influenza stagionale e criticò, inoltre, la decisione del governo di bloccare i voli dalla Cina.

FdI all'attacco: "Qual è il suo compenso?". Lo stesso governo per il quale lavora attualmente, sebbene non sia ancora stato reso noto il suo compenso per l’incarico di consulente di Speranza. Nella sezione amministrazione trasparente del sito del ministero della Salute non compare ancora tale dato e da Fratelli d’Italia arriva la notizia dell’imminente presentazione di un’interrogazione parlamentare per far luce sulla faccenda. Il deputato Giovanni Donzelli, uno dei firmatari, sentito da ilGiornale.it, dice: “È ormai chiaro che il governo pensa solo alle poltrone e poco alla salute dei cittadini e al destino delle imprese e del lavoro. Hanno nominato così tanti esperti come consulenti per l'emergenza coronavirus - ad ora ci sono 15 task force composte da ben 450 collaboratori - e, guarda caso, si fa fatica a trovare sul sito del governo i loro curriculum e i loro compensi”. E maliziosamente aggiunge: “Chissà in quale cunicolo li avranno nascosti”. Secondo Donzelli “nonostante il momento di emergenza sarebbe opportuno non rinunciare alla trasparenza degli atti” e, pertanto, intende vederci chiaro sulla nomina del professor Walter Ricciardi “che ha millantato in tutte queste settimane di emergenza l'appartenenza diretta all'Oms, quando invece è solo il membro nominato dal governo italiano nel Consiglio esecutivo”. “Dopo una vicenda del genere avrebbe dovuto semplicemente dimettersi”, conclude il meloniano Donzelli.

Da corriere.it il 4 maggio 2020. «Consideriamola una sperimentazione. Va intesa così la fase 2. La riapertura graduale era improrogabile. Ci prendiamo dei rischi. Ora vediamo se funziona», ammette l’incertezza sui risultati, Giovanni Rezza, Istituto superiore di Sanità.

Qual è la maggiore preoccupazione?

«Si è cercato di regolamentare tutti gli ambiti della ripresa delle attività ma il fatto che si creino maggiori occasioni di contatto fra le persone è un elemento che favorisce la trasmissione del virus. Pensiamo ai trasporti dove per quanto si usino tutte le cautele possibili si creano inevitabilmente delle interazioni tra uomini».

L’anello debole?

«Lo scopriremo. Aver puntato sulla riapertura per gradi renderà più facile l’identificazione delle criticità. Ci sarà un monitoraggio costante, giornaliero, di che cosa succede. Capiremo se la gente ha compreso il senso di questo allentamento»

Qual è il senso?

«Non siamo assolutamente fuori dall’epidemia. Ci siamo ancora dentro. Non vorrei che venisse a mancare la percezione del rischio e che riprenda il naturale corso delle aggregazioni».

Che cosa vi aspettate?

«Siamo in trepida attesa. Dopo la Cina, l’Italia ha attuato il lockdown più intransigente del mondo occidentale, non paragonabile a quelli più soft di Francia e Spagna. Ci troviamo a sperimentare una nuova situazione. Avremmo preferito muoverci sulla base di altre esperienze».

Quali sono i segnali espliciti della ripresa del virus?

«L’aumento dei casi è immediatamente rilevabile. Crescono gli accessi al pronto soccorso, i ricoveri, i morti nelle residenze per anziani. A quel punto bisogna essere non pronti, di più. Il lavoro di intercettare il pericolo spetta a medici di famiglia e servizi di prevenzione sul territorio».

E se gli indicatori salissero?

«Tornare a un secondo lockdown nazionale sarebbe disastroso da tutti i punti di vista».

Tutti i bollettini della Protezione Civile Quale strategia di contenimento, allora?

«Fare chiusure frammentate, creare tante zone rosse anche di minima ampiezza. Blindare subito le aree regionali colpite da focolai in modo da soffocarli sul nascere. Nella fase 1 hanno funzionato. I blocchi a termine sono efficaci e più digeribili dalla popolazione».

Come mai le riaperture hanno una cadenza bisettimanale?

«È il tempo impiegato dal virus a uscire allo scoperto. Dal contagio ai sintomi passano 4-5 giorni massimo, quindi nell’arco di due settimane si dovrebbe capire se ha ripreso a circolare e se è necessario prendere delle contromisure. Non contiamo sull’aiuto dell’estate come stagione meno propizia alla circolazione virale».

Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 7 maggio 2020. È dall'inizio della pandemia che gran parte delle nostre speranze sono state riposte nell'arrivo della stagione estiva. Non solo per la controversa ipotesi di un «indebolimento» del virus per il caldo, ma anche per la diminuzione delle occasioni di assembramenti in luoghi chiusi. Tuttavia, rimane il grande timore dell'eventuale ruolo che potrebbe giocare l'utilizzo dell'aria condizionata in uffici, mezzi pubblici, ristoranti, bar, ecc. Timori a cui la scienza non sembra dare risposte univoche. «E' stato ipotizzato che l'aria condizionata possa aerosolizzare il virus e trasmetterlo a distanza ma questo non è assolutamente provato», dice Giovanni Rezza, direttore dipartimento malattie infettive dell'Istituto Superiore di Sanità (Iss). I primi studi a ipotizzare un possibile rischio contagio a causa dell'aria condizionata sono stati condotti in Cina e in Corea del Sud. Il primo è l'analisi di una serie di contagi che si pensa siano avvenuti in un ristorante di Guangzhou, ex Canton. Sarebbe successo lo scorso gennaio quando una donna di 63 anni, andata al ristorante con la sua famiglia, è risultata positiva al Covid-19. Nelle due settimane successive, altri nove clienti di quello stesso ristorante sarebbero risultate positive. Non solo i restanti membri della famiglia della donna, ma anche altri 5 commensali. C'erano altri 73 commensali quel giorno sullo stesso piano del ristorante e loro non si sono ammalati. Nemmeno gli otto camerieri in turno in quel momento. Tutte le persone che sono state contagiate erano allo stesso tavolo della persona infetta o in uno dei due tavoli vicini sulla linea del condizionatore in una stanza senza finestre. Lo studio, tuttavia, presenta grossi limiti. I ricercatori, ad esempio, non hanno eseguito esperimenti per simulare la trasmissione aerea. Inoltre, i 6 campioni prelevati dal condizionatore d'aria sono risultati negativi. Lo studio in Corea del Sud, invece, è stato condotto in un call center situato in un palazzo di 19 piani. L'allarme è scattato alla diagnosi di un caso di Covid-19 in una persona che lavorava nell'edificio l'8 marzo scorso. Sono stati così testate 1.143 persone e identificati 97 casi positivi al Covid-19. Tra i positivi 94 lavoravano al call center dell'11esimo piano, che aveva un totale di 216 dipendenti e quindi un tasso di prevalenza del 43,5%. Non solo: tutti tranne cinque erano sullo stesso lato dell'edificio nella stessa porzione di open space. Da questi studi sono partiti i timori che l'aria condizionata possa aerosolizzare il virus. Secondo Rezza, però, al massimo può fare da «effetto vento e spingere goccioline di saliva all'interno di un ambiente chiuso», come dimostrerebbe uno studio pubblicato di recente sulla rivista Emerging Infectious Diseases. Dai risultati è emerso che, all'interno di un ambiente chiuso dove due famiglie erano sedute a circa un metro di distanza, l'aria condizionata ha fatto da vento, spostando le goccioline di saliva di poco più di un metro. «Ma si tratta di un caso eccezionale, non è stata l'aria condizionata in sé a trasmettere il virus», spiega Rezza. Concorda con questa analisi anche Pier Luigi Lopalco, epidemiologo, responsabile Coordinamento Regionale Emergenze Epidemiologiche Puglia. «I problemi potrebbero essere i flussi d'aria che vengono creati dai condizionatori perché potrebbero spostare le famose goccioline che contengono il virus molto più lontano dal famoso metro di distanziamento», dice. «Dipende dunque se l'aria condizionata crea dei flussi», aggiunge. Gli studi condotti finora, secondo il virologo Roberto Burioni, in vista dell'apertura di bar e ristoranti, dovrebbero spingerci a una «particolare cautela nella disposizione dei tavoli e nel loro distanziamento, specie in presenza di forti correnti d'aria dovute a condizionatori».

Messner, per lei la montagna non ha segreti. Con che spirito ha preso la decisione del governo di tornare a chiudere gli impianti?

«Per uscire da questa pandemia, e avere la possibilità di tornare in montagna, bisogna frenare. Da noi in Sud Tirolo è tutto chiuso come nel resto d’Italia e sono d’accordo. Anche a me piacerebbe andare a sciare e finire un film che ho in lavorazione, però accetto quello che dicono gli scienziati. Solo così abbiamo la possibilità di uscirne, se stiamo a casa per un certo periodo. Meglio così, che aprire e chiudere continuamente, perché non è possibile riorganizzare in questo modo un turismo invernale».

In queste ore c’è anche chi sfida le restrizioni e riapre. A queste persone esasperate, cosa si sente di dire?

«Il problema è che in questa pandemia siamo tutti corresponsabili. La politica ha la grande responsabilità e deve ascoltare i virologi, che però a loro volta sanno molto ma non tutto. Scienza non vuol dire sapere tutto, avere il 100% di sicurezza su cosa fare, ma è il tentativo di dare risposta a certe domande. Sul Covid mi pare che siamo ancora nella fase di ricerca delle risposte. Il vaccino va troppo a rilento, non ne abbiamo ancora abbastanza per tutti, e anche se riusciremo a farlo sicuramente si riaprirà dopo Pasqua».

Lei ha sofferto queste restrizioni?

«Io sono fortunato, abito a mille metri, fuori c’è la neve, sono su una collina di roccia che è un nido d’aquile e posso fare delle piccole escursioni, ma non vado dove c’è altra gente. Mi tengo lontano da tutti, perché non voglio prendere il virus e mi sento corresponsabile per gli altri. Spero che un dopo ci sarà in questa pandemia, però si si riesca a tornare in montagna con un altro atteggiamento. Più lento, nel silenzio, a scoprire la natura selvaggia ma non tutti nello stesso posto».

La prossima sfida è il turismo di massa?

«Gli influencer sui social sono dannosi, perché fanno pubblicità per concentrare il turismo solo in alcuni posti, che per loro sono i più belli, ma fanno perdere di vista il vero valore della montagna. Bisogna e tutto invece apprezzare tutto l’arco alpino, avendo la possibilità di godere di tutti gli aspetti della montagna. L’industria turistica deve riuscire a dare la possibilità a tutte le vallate di lavorare».

Anche le sue attività hanno risentito delle restrizioni?

«Negli ultimi 30 anni ho portato a termine una struttura museale raccontando la montagna, che non è solo l’attività, ma anche la cultura che ci sta dietro. La narrativa che ne facciamo serve per capire la relazione gente-montagna. E anche noi siamo chiusi da un anno e senza sovvenzioni, per cui sarà difficile tornare e speriamo che in estate si possa lavorare o saremo costretti a chiudere per sempre».

Esperti divisi: Galli, Crisanti e Pregliasco con il consigliere di Speranza. Lockdown, Cts attacca: “Ricciardi uditore, vive in una dimensione a parte”. Lui: “Pronto a lasciare”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Non si placano le polemiche dopo le dichiarazioni di Walter Ricciardi sull’imminente richiesta al ministro della Salute Roberto Speranza di un lockdown. Il consulente del Dicastero nonché ordinario di igiene all’Università Cattolica del Sacro Cuore è finito nel mirino del mondo della politica e non solo. Se da una parte la sua linea è stata spostata da altri esperti (Pregliasco, Galli e Crisanti), dall’altra ci sono le parole di Vaia dello Spallanzani di Roma, Di Mauro del Cotugno di Napoli e Bassetti del San Martino di Genoa contrario a un lockdown generalizzato. Sull’allarme lanciato da Ricciardi è intervenuto anche il Comitato Tecnico Scientifico che ha preso le distanze dalle sue parole. “Non parla a nome del comitato sul lockdown perché non ne ha mai fatto parte” precisa una fonte autorevole all’agenzia Dire. “Matteo Salvini ha fatto confusione su competenze e ruoli all’interno del Cts: Ricciardi ha partecipato a qualche riunione in qualità di uditore ma non è la posizione del Cts quella di richiudere tutto”. Duro poi l’attacco del Cts a Ricciardi: “Quello che chiede il professore, che sembra vivere in un’altra dimensione, richiederebbe un provvedimento calato dall’alto che contrasta con l’impianto che è stato messo in campo finora: l’Italia a colori. O si dice che questo impianto di misure non funziona o vuol dire che si sta parlando a titolo personale”. Poi la stoccata finale: “La posizione di Ricciardi fa male al governo, è imbarazzante: se si parla a titolo personale perché contraddice quanto deciso dal Ministro, sarebbe opportuno per Ricciardi anche abbandonare il ruolo di consigliere di Speranza”. Il diretto interessato, intervenuto ai microfoni di RaiNews24, dice pronto a farsi da parte: “Dimissioni? Queste sono considerazioni che lascio alla politica. Se posso essere utile al Paese con i miei consigli, lo faccio a livello internazionale e lo faccio anche in Italia. Altrimenti, mi faccio da parte”.

GALLI E PREGLIASCO CON RICCIARDI – “Le nuove varianti portano sicuramente più infezioni e più problemi. E purtroppo la conclusione non può che essere la soluzione paventata dal prof. Ricciardi” ha sottolineato il direttore di Malattie infettive dell’ospedale Sacco di Milano, Massimo Galli, ospite del programma ‘Il mio medico’ su Tv2000. “Mi preoccupano molto le nuove varianti, che sono già arrivate in Italia e hanno una capacita’ di diffusione maggiore della variante principale che imperversava fino adesso nel nostro Paese”, ha spiegato Galli, aggiungendo che “il sistema della divisione dell’Italia a colori non sta funzionando. E la prova è nei fatti”. Chiede un lockdown come quello avviato all’inizio della pandemia a Codogno, in Lombardia, Fabrizio Preglisco, virologo dell’ospedale Galeazzi di Milano. Intervenuto a Un Giorno da Pecora su Rai Radio 1, l’esperto appoggia Ricciardi: “Ha ragione ma mi rendo conto che c’è una rabbia sociale di chi è in sofferenza da mesi. D’altra parte i dati sono in peggioramento, in Lombardia con la variante inglese pare siamo al 30% dei casi, la situazione va affrontata con attenzione”.

SPALLANZANI E COTUGNO CONTRO LOCKDOWN – Per Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, un “lockdown totale non serve. Non si tratta di aggravare le misure, ma applicare con severità le misure che abbiamo. Bastano – prosegue nel suo intervento a RaiNews24, lockdown chirurgici laddove se ne verifichi la necessità”. Poi l’appello ai cittadini: “Applichiamo con severità ancora le regole così guadagniamo spazi di libertà. Non ci fate più vedere scene di assembramenti”. Vaia rivolge poi un invito alla politica a non strumentalizzare le varianti. “Sono un problema che deve destare molta attenzione ma non deve destare panico. Siamo contrari a che si creino delle psicosi di massa” ha sottolineato Vaia ribadendo il concetto espresso nelle scorse ore sui social: “Voglio dire un no netto e chiaro all’utilizzo delle varianti come ‘clava politica‘. La scienza sia sempre libera da interessi economici e politici”. Lockdown bocciato anche da Maurizio Di Mauro, direttore dell’Azienda ospedaliera dei Colli. “Un lockdown significa fermare di nuovo tutte le attività e questa parziale ripresa economica, dall’altra parte c’è un incremento dei contagi con una recrudescenza della patologia” ha dichiarato nel corso della trasmissione “Barba e capelli” condotta da Corrado Gabriele su Radio Crc Targato Italia. “Sono un po’ stanco di andare dietro a questi diktat – prosegue – perché ci deve essere senso di responsabilità dei cittadini. Purtroppo c’è uno scarsissimo controllo e nonostante ordinanza del presidente De Luca, le strade sono piene di persone. Speriamo di evitare la chiusura, gli ospedali non sono in una situazione critica ma siamo pronti a fronteggiare questa eventualità”.

Respinta la chiusura totale richiesta da Ricciardi e Crisanti. Lockdown bocciato, Spallanzani e Cotugno: “Serve responsabilità, basta psicosi su varianti”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 15 Febbraio 2021. Da una parte gli accademici, dall’altra i direttori delle strutture ospedaliere di riferimento per l’emergenza coronavirus: lo Spallanzani a Roma e il Cotugno a Napoli. Sulla polemica relativa al “lockdown immediato” chiesto da Walter Ricciardi, consulente ministro della Salute, e da Andrea Crisanti, ordinario di microbiologia all’Università di Padova e fautore di quello che era stato definito il “modello Veneto” nella prima ondata del marzo 2020, intervengono con idee diverse Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani, e Maurizio Di Mauro, direttore dell’Azienda ospedaliera dei Colli che comprende Cotugno (centro di riferimento regionale per l’emergenza covid-19), il Monaldi e il Cto. Per Vaia un “lockdown totale non serve. Non si tratta di aggravare le misure, ma applicare con severità le misure che abbiamo. Bastano – prosegue nel suo intervento a RaiNews24, lockdown chirurgici laddove se ne verifichi la necessità”. Poi l’appello ai cittadini: “Applichiamo con severità ancora le regole così guadagniamo spazi di libertà. Non ci fate più vedere scene di assembramenti”. Il direttore sanitario dello Spallanzani rivolge poi un invito alla politica a non strumentalizzare le varianti. “Sono un problema che deve destare molta attenzione ma non deve destare panico. Siamo contrari a che si creino delle psicosi di massa” ha sottolineato Vaia ribadendo il concetto espresso nelle scorse ore sui social: “Voglio dire un no netto e chiaro all’utilizzo delle varianti come "clava politica". La scienza sia sempre libera da interessi economici e politici”. La raccomandazione di Vaia è rivolta a “non creare una psicosi di massa” perché “la variante inglese può crescere e probabilmente soprattutto nelle fasce ancora più giovani” ma “allo stato degli atti queste varianti possono essere coperte dai vaccini a nostra disposizione. Io mi preoccuperei molto di più della campagna vaccinale“. Lockdown bocciato anche da Maurizio Di Mauro, direttore dell’Azienda ospedaliera dei Colli. “Un lockdown significa fermare di nuovo tutte le attività e questa parziale ripresa economica, dall’altra parte c’è un incremento dei contagi con una recrudescenza della patologia” ha dichiarato nel corso della trasmissione “Barba e capelli” condotta da Corrado Gabriele su Radio Crc Targato Italia. “Sono un po’ stanco di andare dietro a questi diktat – prosegue – perché ci deve essere senso di responsabilità dei cittadini. Purtroppo c’è uno scarsissimo controllo e nonostante ordinanza del presidente De Luca, le strade sono piene di persone. Speriamo di evitare la chiusura, gli ospedali non sono in una situazione critica ma siamo pronti a fronteggiare questa eventualità”. Sulla pressione ospedaliera Di Mauro chiarisce: “Gli ospedali reggono all’impatto e ai numeri nonostante la pressione del pronto soccorso: abbiamo posti in terapia intensiva e nonostante la subintensiva piena di casi complessi. Con la Protezione Civile abbiamo dovuto proteggere operatori e degenti, reggiamo bene e siamo pronti a continuare questa battaglia”.

·        Il Commissario Arcuri…

Alessandro Mondo per “La Stampa” il 10 novembre 2021. Passaggi di fase troppo lenti, eccessivo ritardo di apertura della valvola inspiratoria. Risultato: «I ventilatori presentano caratteristiche hardware e software che di fatto ne rendono improponibile l'utilizzo in pazienti con insufficienza respiratoria». Questa è la storia - meglio: l'ennesima puntata - di 484 ventilatori polmonari inviati in Piemonte nelle prime, devastanti fasi della pandemia, e che da oltre un anno prendono polvere nei magazzini delle Asl perché giudicati inaffidabili dai responsabili delle rianimazioni. Apparecchi da impiegare nelle terapie intensive e subintensive, per la ventilazione invasiva e non invasiva, acquistati dalla struttura commissariale che all'epoca faceva capo a Domenico Arcuri. Il costo stimato è di circa 10 mila euro ciascuno. Da allora sono accadute molte cose: la pandemia ha fatto il suo corso, poi è rifluita, ora sta riaccelerando. Nel frattempo la Regione ha sopperito comprando altri ventilatori, fondamentali per supportare i pazienti colpiti da insufficienza respiratoria a causa della polmonite mono o bilaterale da Covid, di tasca propria. Ma quelli in questione sono sempre al loro posto, inamovibili. Per la verità nei mesi scorsi il produttore ha fatto qualche tentativo, su richiesta, per rimediare ai limiti funzionali. Nulla che abbia spinto il Dirmei, il braccio operativo della Regione nel contrasto all'emergenza Covid, a cambiare posizione. Di più. L'ultimo report - richiesto dall'attuale struttura commissariale per fugare ogni dubbio e consegnato direttamente al generale Francesco Figliuolo, lunedì scorso in visita a Torino -, contiene la bocciatura definitiva. Uno studio comparativo - che ha misurato le performance dei ventilatori polmonari in questione con altri sei, di diverso tipo e comunemente impiegati nelle terapie intensive del Nord Italia per fronteggiare la pandemia in varie condizioni di ventilazione controllata ed assistita - ha tagliato al testa al toro. Tutti gli apparecchi sono stati collegati ad un simulatore polmonare impostato sia per riprodurre condizioni cliniche, sia per effettuare dei test in condizioni particolarmente gravose. A seguito delle analisi, in volume controllato e in pressione di supporto, i ventilatori finora inutilizzati, di cui gli stessi rianimatori diffidano, hanno confermato la loro inadeguatezza. In particolare, «risultano statisticamente meno performanti ed erogano un volume corrente espiratorio inferiore alle altre macchine e ai parametri impostati». Non certo un dettaglio, considerato che «un volume minuto basso può condurre ad una mancata eliminazione della CO2 con conseguente affaticamento del paziente, incremento di sforzo e frequenza espiratoria fino all'esaurimento muscolare». Ancora: il dispositivo che consente al ventilatore di iniziare la propria fase inspiratoria, in sincronia con l'inizio dell'inspirazione del paziente, mostra tempi superiori rispetto alle altre macchine. Tra l'altro, nella relazione conclusiva si fa notare che questi risultati sono stati ottenuti da prove con un simulatore che mimava un paziente intubato: nei pazienti assistiti in ventilazione non invasiva queste differenze non possono che aumentare e le macchine devono essere ancora più performanti. In conclusione, alla luce dei test «risulta evidente e statisticamente significativa una differenza di performance tra questi ventilatori e gli altri, testati in tutte le modalità analizzate. Tali differenze possono avere gravi ripercussioni cliniche nell'impiego di tali macchine su malati critici». Difficile stabilire se in altre Regioni sono arrivate partite dei medesimi apparecchi: più che plausibile. Una cosa sembra certa: quelli in Piemonte, prima o poi, torneranno dove sono arrivati. O verranno buttati.

(ANSA il 18 ottobre 2021) - "Dopo mesi e mesi di denunce, e curiosamente appena finisce la campagna elettorale, apprendiamo che Domenico Arcuri, l'ex commissario straordinario per l'emergenza Covid, è indagato per abuso d'ufficio e peculato nell'ambito dell'inchiesta riguardante l'acquisto di mascherine. Eppure un corposo dossier con le troppe anomalie della gestione commissariale era stato presentato da Fratelli d'Italia già molti mesi fa". Lo afferma il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. "Si facciano presto luce e chiarezza sulle tante zone d'ombra che hanno caratterizzato la gestione della pandemia ad opera dell'uomo voluto da PD e M5s. Gli Italiani meritano di sapere la verità", conclude.

Da liberoquotidiano.it il 18 ottobre 2021. Matteo Salvini non riesce a trattenersi e in un post pubblicato sul suo profilo Twitter commenta la notizia di Domenico Arcuri indagato per peculato e per abuso d'ufficio nell'inchiesta sulle mascherine: "Ovviamente dopo i ballottaggi…". Il sospetto del leader della Lega è che i giudici abbiano aspettato appositamente a indagarlo per non "rovinare" il secondo turno elettorale a Letta e Conte. Mentre sappiamo bene che la vicenda di Luca Morisi e il caso di Fanpage sono usciti qualche giorno prima del voto. Tant'è. L'ex Commissario per l'emergenza Covid risulta indagato a Roma per corruzione, peculato e abuso d'ufficio. Per la corruzione la procura ha chiesto l'archiviazione del fascicolo. Sulla richiesta si deve esprimere il gip. Per le altre due accuse l'inchiesta va avanti. La Guardia di Finanza, su disposizione della Procura di Roma, ha notificato alla struttura commissariale nazionale e alle strutture regionali un decreto di sequestro in relazione alle mascherine provenienti dalla Cina, risultate non regolari, e finite al centro dell'inchiesta in cui sono indagati tra gli altri il giornalista Rai in aspettativa, Mario Benotti, Andrea Vincenzo Tommasi ed Edisson Jorge San Andres Solis. Il reato contestato dai pm Gennaro Varone e Fabrizio Tucci è frode nelle pubbliche forniture. Le indagini riguardavano affidamenti per un valore di 1,25 miliardi di euro effettuati da Arcuri, a favore di tre consorzi cinesi, per l'acquisto di oltre 800 milioni di mascherine, con l'intermediazione di alcune imprese italiane che hanno percepito commissioni per decine milioni di euro.

SCANDALO MASCHERINE. INDAGATO DOMENICO ARCURI PER ABUSO D’UFFICIO, CORRUZIONE E PECULATO. Il Corriere del Giorno il 18 Ottobre 2021. “La parola emergenza, nella vicenda oggetto di indagine, è stata spesa molto, anche in modo non coerente”, scrivono i magistrati. Così “l’emergenza ha giustificato pagamenti di dispositivi di protezione della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili”, o peggio, di dannosi. Il responso dei laboratori incaricati di verificare la qualità delle mascherine era molto chiaro: “Attenzione, dispositivo molto pericoloso” e nonostante “alcune forniture sono state giudicate pericolose per la salute” sono state ugualmente importate in Italia e pagate dalla struttura commissariale diretta da Domenico Arcuri. Per questo motivo la Procura di Roma ha disposto il sequestro di oltre 800 milioni di mascherine.  L’ex commissario Arcuri è stato iscritto dai pm Fabrizio Tucci e dall’aggiunto Paolo Ielo della Procura di Roma, sul registro degli indagati, per rispondere delle accuse di corruzione, peculato e abuso d’ufficio. Secondo la procura di piazzale Clodio, Domenico Arcuri non sarebbe stato corrotto (accusa sulla quale infatti pende una richiesta di archiviazione), ma si sarebbe reso responsabile di altri gravi reati. L’indagine della Procura capitolina ha ad oggetto le commissioni per oltre 77 milioni di euro intascate dai mediatori che trattarono le maxi-commesse a tre consorzi cinesi tra marzo e aprile 2020. Oltre ad Arcuri e al suo vice Antonio Fabbrocini – responsabile unico del procedimento d’acquisto – sono indagate a vario titolo per traffico di influenze illecite, ricettazione, riciclaggio, auto-riciclaggio e frode in pubbliche forniture altre sei persone. Sono il giornalista Rai in aspettativa Mario Benotti (presidente del consorzio Optel e dell’azienda Microproducts) già consulente presso la Presidenza del Consiglio e vari Ministeri con significative entrature e frequentazioni nel mondo della politica, la sua compagna Daniela Guarnieri (ad della stessa azienda), l’imprenditore Andrea Vincenzo Tommasi (patron della Sunsky srl) il banchiere sammarinese Daniele Guidi, il trader ecuadoriano Jorge Solis e Antonella Appulo, ex segretaria al ministero delle Infrastrutture, che per gli inquirenti costituivano un “comitato d’affari”, un “sodalizio” composto da “freelance improvvisati desiderosi di speculare sull’epidemia” e “capace di interloquire e di condizionare le scelte della Pubblica amministrazione”. In particolare Benotti, è stato retribuito per avere sfruttato il suo rapporto con Domenico Arcuri, con cui tra gennaio e 6 maggio 2020 (cioè nel periodo più “pesante” del Covid19) aveva avuto 1.780 contatti telefonici tra telefonate ed sms dal suo cellulare con Arcuri “allo scopo di proporgli così come poi avvenuto, l’acquisto delle partite di mascherine”, come spiegavano a suo tempo i giudici del Tribunale del riesame di Roma. Negli atti della Procura si legge: “L’esistenza di uno stretto rapporto tra Benotti e Arcuri, preesistente alla sua nomina a Commissario Straordinario, emerge inequivocabilmente da alcuni scambi di messaggi” ed infatti è proprio questo “stretto rapporto” a finire nel mirino degli inquirenti che sabato scorso hanno interrogato Domenico Arcuri. “La parola emergenza, nella vicenda oggetto di indagine, è stata spesa molto, anche in modo non coerente”, scrivono i magistrati. Così  “l’emergenza ha giustificato pagamenti di dispositivi di protezione della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili”, o peggio, di dannosi. Le indagini degli investigatori delle Fiamme Gialle “hanno dimostrato come una considerevole porzione dell’intera fornitura sia stata validata sulla base della sistemica sostituzione dei test report” si legge nel decreto di sequestro. “La validazione ha quasi sempre seguito, e non anticipato, i pagamenti delle forniture, cosicchè le strutture Inail e Iss a supporto del Cts si sono trovate nella scomoda condizione di dover sconfessare, in caso di giudizio negativo, pagati con denaro pubblico già erogati”. Le indagini successive hanno consentito di appurare che molti dispositivi di protezione individuale non solo non soddisfano “i requisiti di efficacia protettiva richiesti”, ma “addirittura alcune forniture sono state giudicate pericolose per la salute”. Il responso è contenuto nel lapidario report degli esami di laboratorio: “Attenzione, dispositivo molto pericoloso”. Destano agitazione e tensione gli atti che accompagnano il decreto di sequestro che questa mattina, 18 ottobre, notificato dagli uomini del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza alla struttura commissariale nazionale e di alcune sedi regionali. I finanzieri hanno sequestrato tutte le mascherine importate in Italia dagli indagati, anche se in nome dell’emergenza, molti dispositivi di protezione individuale sono stati distribuiti. Sulla base di documenti falsi sono stati immessi sul mercato dispositivi non conformi alle norme e, in certi casi, pericolosi. Giustificando l’operazione con “la situazione di emergenza in sé, che imponeva acquisizioni forzose, pur di non lasciare la popolazione sanitaria sprovvista di tutela”. Lapidario il commento del segretario della Lega, Matteo Salvini . “Ovviamente dopo i ballottaggi…”. postando su Twitter un articolo relativo alla notizia dell’ex commissario Domenico Arcuri indagato per peculato e abuso d’ufficio dalla Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sulle forniture di mascherine cinesi. Il terribile sospetto insinuato dal leader della Lega è che i magistrati possano aver aspettato la fine dei ballottaggi per non “rovinare” la seconda tornata elettorale a Letta e Conte. Missione compiuta.

Mascherine di Arcuri. Certificati di conformità inviati 5 mesi in ritardo. Lodovica Bulian il 20 Ottobre 2021 su Il Giornale. Interrogato anche Fabbrocini, braccio destro del commissario. Che adesso scarica Benotti. Anche il braccio destro di Arcuri, Antonio Fabbrocini, responsabile dell'ufficio acquisti dell'ex struttura commissariale è stato interrogato dai magistrati di Roma che indagano sulla maxi commessa di mascherine che ha fruttato provvigioni milionarie pagate dai fornitori cinesi al giornalista Mario Benotti e ad altri intermediari. Mediazioni considerate «illecite» e «occulte» dai pm, perché non giustificate da un incarico formale ma risultato di conoscenze dirette di Benotti con l'ex commissario. Fabbrocini è entrato a piazzale Clodio per fornire la sua versione pochi giorni prima di Arcuri. Entrambi sono indagati per peculato - in relazione ai 12 milioni di mediazione incassata da Benotti dalle aziende cinesi. Ad Arcuri viene contestato anche l'abuso d'ufficio. L'ex commissario si è difeso davanti ai pm: dal 21 marzo, quando è pervenuta l'offerta della fornitura, «Benotti e i suoi collaboratori interagiscono con le persone della struttura, e iniziano una trattativa del cui sviluppo io non so nulla». E sul prezzo più alto pagato dallo Stato per l'acquisto delle mascherine dai cinesi che di fatto avrebbe consentito la provvigione per Benotti, l'ex commissario ha precisato: «Per me erano dei promotori o procacciatori d'affari che operavano nell'interesse delle aziende esportatrici. Non avevo necessità di mediatori. Avevo fatto divieto di sottoscrivere contratti con soggetti diverse dalle aziende. E non si pagano acconti a nessuno, neppure sotto tortura». Benotti oltre che per traffico influenze è indagato per frode in pubbliche forniture. Le mascherine di quella commessa rimaste in circolazione sono state sequestrate nei giorni scorsi su richiesta della Procura perché «in gran parte non soddisfano i requisiti di efficacia protettiva richiesti dalle norme». Alcuni lotti poi sono stati giudicati «pericolosi per la salute». Potrebbero essere finite a medici e infermieri nel momento più difficile dell'emergenza Covid. Una circostanza possibile per i pm perché «una considerevole porzione dell'intera fornitura» sarebbe stata validata «sulla base della sistematica sostituzione dei test report». Non solo. «La validazione ha quasi sempre seguito (e non anticipato) i pagamenti delle forniture». In alcuni casi i certificati sarebbero stati forniti anche a distanza di mesi dopo l'arrivo e la consegna delle mascherine. Le perquisizioni della guardia di Finanza avevano già accertato come uno degli intermediari, Andrea Vincenzo Tommasi, il 2 dicembre aveva fatto arrivare agi uffici della struttura commissariale «due plichi contenenti la documentazione degli ordini delle mascherine spediti alla Luokai trade e alla Whenzou Light (due delle aziende ndr), con la documentazione Ce, i test record e i campioni delle mascherine ordinate». Quasi cinque mesi dopo l'arrivo delle mascherine in Italia. E solo dieci giorni dopo la notizia dell'esistenza di una segnalazione di operazione sospetta all'Uif sui flussi di denaro di Tommasi. Perché inviare quei documenti sulle mascherine a distanza di cinque mesi? Si tratta, scriveva il gip nell'ordinanza con cui disponeva misure interdittive nei confronti di Benotti e altri, di «documentazione che sarebbe stato necessario esaminare prima della stipula dei contratti di fornitura». Secondo l'ex struttura del commissario era stata fatta «pervenire unilateralmente e senza alcuna richiesta, ed era nella sua totalità già nella disponibilità degli uffici del commissario». La stessa documentazione che si è rivelata ora fallace, così come i dispositivi, secondo i pm. Quanto ai rapporti con Benotti, Arcuri ha chiarito che il giornalista era diventato «eccessivamente dilagante e importuno, percepivo che stesse esagerando e ho scelto di allontanarlo». Sul caso torna la leader di Fdi Giorgia Meloni, tirata in ballo su presunti contatti da parte di soggetti che volevano fornire mascherine al commissario: «Durante la pandemia alcune persone, in quanto rappresentante delle istituzioni, mi hanno cercato per le mascherine e a tutti ho dato la stessa risposta: di mandare una mail al braccio destro di Arcuri, altro io non posso fare. Non ho mai raccomandato nessuno». E annuncia querele. Lodovica Bulian

Giacomo Amadori François De Tonquédec per "la Verità" il 21 ottobre 2021. Per quanto riguarda la trasparenza delle informazioni tra la gestione di Domenico Arcuri e quella del generale Francesco Figliuolo non è cambiato nulla. La struttura commissariale continua a ignorare le domande dei giornalisti. In realtà una differenza c'è: Arcuri ci faceva rispondere picche direttamente dai suoi avvocati di fiducia, l'ufficio stampa del generale con la penna nera neanche si degna di replicare alle nostre domande. La mail che abbiamo inviato martedì deve essere finita direttamente nel cestino. Evidentemente in tempi di pandemia e libertà sospese nessuno ritiene di dover dare conto di quanto sia successo e stia continuando a succedere nel nostro Paese riguardo a una fornitura monstre di mascherine (800 milioni di pezzo al prezzo di 1,25 miliardi di euro) che ha portato all'iscrizione di numerosi indagati per vari reati compreso quello di frode in pubbliche forniture aggravato dal fatto che le commesse riguardavano «cose destinate a ovviare a un comune pericolo». Ma che cosa abbiamo domandato di così irricevibile? Abbiamo chiesto di sapere quante mascherine degli stessi lotti di quelle segnalate come «molto pericolose» dai consulenti di due Procure (Roma e Gorizia) siano arrivate in Italia e quante di queste siano state distribuite e dove. In modo da mettere in guardia chi magari ne ha ancora qualcuna nei cassetti di casa o nelle corsie degli ospedali. Ma queste informazioni permetterebbero anche di capire chi, pensando di essere tutelato, abbia utilizzato dispositivi che non proteggevano. Per questo traffico di mascherine difettose qualcuno ci ha rimesso la pelle? Ci sono decessi che potevano essere evitati? C'è qualcuno che, alla ricerca di affari opachi o di soluzioni frettolose, ha sulla coscienza la morte di nostri concittadini? Nessuno vuole rispondere ai nostri quesiti. In modo non ufficiale dalla struttura si sono giustificati dicendo che ci sono indagini in corso. Ribattiamo che non ci risulta ci siano investigazioni per possibile omicidio plurimo. Doloso o colposo non lo sappiamo. Infatti bisognerà capire se questi dispositivi non idonei siano stati distribuiti per negligenza (sulla base di certificazioni non verificate) o, e sarebbe agghiacciante, con la consapevolezza che fossero fallati. Dopo i primi sequestri effettuati dalla Guardia di finanza tra febbraio e marzo queste partite difettose hanno continuato a circolare? Nessuno ce lo vuole spiegare. Questo è un tema che solo noi della Verità abbiamo messo al centro dell'agenda. Inoltre, né dalla struttura, né dalla Protezione civile (guidata dal capo dipartimento Fabrizio Curcio) hanno voluto fare chiarezza sulla presunta offerta di sistemi di protezione da parte di Alibaba, gigante cinese della distribuzione, ricevuta il 13 marzo del 2020 e mai, a quanto pare, presa in considerazione. Come ha scritto il sito Dagospia: «Un colosso come Alibaba fa una proposta e nessuno se ne accorge?». Anche su questo punto gli uomini che dovrebbero proteggere la nostra salute sono stati colpiti da improvvisa afasia. Ma noi non ci arrendiamo e in attesa che gruppi di cittadini diano il via a sacrosante class action siamo riusciti faticosamente a ricostruire, destreggiandoci tra decine di tabelle e incrociando fonti diverse, i quantitativi di mascherine «most wanted», almeno secondo le analisi svolte (per conto della Procura di Gorizia e confluite nel decreto di sequestro emesso dai pm capitolini) dalla Fonderia Mestieri di Torino, giunte in Italia e la loro distribuzione sul territorio nazionale. Dalle nostre ricerche è emerso che tutte le mascherine «molto pericolose» secondo la perizia sono arrivate in Italia tramite il contratto sottoscritto il 6 aprile 2020 dalla struttura commissariale con la Wenzhou light industrial products co. limited per una fornitura di 100 milioni di mascherine Ffp2, al prezzo di 2,16 euro l'una. Di questi 100 milioni consegnati, ben 75,7, per un costo pari a 163,5 milioni di euro, appartengono ai lotti prodotti dalle ditte citate nel decreto di sequestro in relazione a quella drammatica valutazione. Esattamente 42.252.500 mascherine Fpp2 prodotte dalla Wenzhou xilian electrical technology sono state scaricate da voli cargo provenienti dalla Cina. Di quelle mascherine, al 12 aprile scorso, come comunicato dagli uffici del commissario alla Procura di Roma, restavano in magazzino 2.067.000 di pezzi. La maggior parte si trovavano in depositi della Lombardia: in provincia di Milano 595.500 a Vignate, 502.000 a Gorgonzola, 195.000 a Caleppio, 30.000 a Peschiera Borromeo e 201.000 a Cesano Maderno (Monza). Nel Lazio, all'interno del deposito di Pomezia (Roma), erano presenti 367.500 dispositivi. In Piemonte, erano rimaste in deposito 114.000 mascherine a Vercelli e 61.500 a San Pietro in Mosezzo (Novara). Al secondo posto per quantità di protezioni c'è la Wenzhou junyue bag making con 16.365.000 pezzi. Di cui ad aprile risultavano ancora in stock 554.740 Dpi: 225.000 a Pomezia, 222.000 a Vignate, 55.000 a San Pietro in Mosezzo, 18.000 a Peschiera Borromeo, 4. 240 a Landriano, in provincia di Pavia. Al terzo posto, con 14.212.000 Ffp2, costate 30,6 milioni di euro e suddivise in 36 lotti, la Anhui zhongnan air defence works. Ad aprile ne erano rimaste 190.000 in giro per l'Italia: 49.000 a Peschiera Borromeo, 45.000 a Cesano Maderno, 39.000 a Pomezia, 38.000 a San Pietro in Mosezzo, 19.200 a Landriano. Non si trova traccia nel decreto di dispositivi del più piccolo dei fornitori, Wenzhou huasai commodity, di cui sono state spedite in Italia 2.937.000 mascherine. Da aprile tutte queste mascherine sono state distribuite in toto o in parte? Ma, soprattutto, dove sono finiti gli altri 72 milioni di dispositivi ritenuti pericolosi? Urgono risposte rapide.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 19 ottobre 2021. «Eravamo disperati», c'era una «guerra commerciale devastante», bisognava trovare voli cargo senza scali «per non rischiare che le mascherine venissero bloccate in un altro Paese». In questo clima da «tragedia» descritto da lui stesso sabato scorso ai pubblici ministeri, l'ex commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri rivendica i risultati raggiunti. E in oltre tre ore di interrogatorio, seduto al fianco dell'avvocata Grazia Volo, ricorda che in quei mesi erano in tanti a proporsi come procacciatori di forniture milionarie. Quando gli chiedono perché ha accettato l'offerta arrivata da Mario Benotti, sponsor di una ditta cinese, Arcuri risponde: «Mi spiego con alcuni esempi. Il senatore Mallegni (di Forza Italia, ndr), mandò un'offerta per mascherine Kfn4, con consegna in Corea, escluso il costo di trasporto, al prezzo di 80 centesimi cadauna... Non essendo stato sottoscritto il contratto, è diventato ospite fisso di trasmissioni televisive». Quelle dove si contestava l'operato di Arcuri, lascia intendere l'ex commissario, che porta altri casi: «Il senatore Malan (oggi Fratelli d'Italia, ndr) tramite Enzo Saladino offre mascherine lavabili, ma il Cts risponde che non sono nemmeno valutabili»; di fronte ad altre proposte rifiutate «Malan inizia una schiera numerosa di interrogazioni parlamentari». L'elenco di Arcuri prosegue con il deputato Mattia Mor, di Italia viva, che «presenta offerta di due signori cinesi» da 55 centesimi per ogni mascherina escluso il trasporto dalla Cina, passa per le già note iniziative dell'ex presidente della Camera Irene Pivetti e arriva «all'onorevole Meloni (la leader di FdI, ndr ) che il 22 e il 27 marzo è in copia all'offerta di tale Pietrella», inviata per email con richiesta di mezzo pagamento anticipato e costo del trasporto a carico del governo; un ruolo di semplice presentatrice di un imprenditore che sosteneva di poter aiutare nell'emergenza, come Mor. «Tutte queste proposte - si difende Arcuri - sono risultate largamente meno vantaggiose di quella di Benotti». Prima consegna rapida, il 29 marzo 2020, con «prodotto sdoganato dalle Dogane, competenti al controllo, e progressivamente validato dal Comitato tecnico scientifico». Il quale, aggiunge Arcuri, ha approvato poco più della metà delle forniture sottoposte a verifica: 199 su 384, tra cui quelle di Benotti. Il problema è che il giornalista-imprenditore e i suoi soci hanno intascato una provvigione da 12 milioni di euro, e Arcuri dice ai pm: «L'importo noto mi lascia basito forse più di voi». Nell'ipotesi dell'accusa, l'ex commissario sarebbe stato consapevole della «cresta» che toccava a Benotti, accettando per questo di pagare un prezzo più alto ai cinesi. Di qui l'eventuale peculato. Mentre l'abuso d'ufficio deriverebbe dal non aver fatto un regolare contratto ai mediatori. «Per me erano dei promotori o procacciatori d'affari che operavano nell'interesse delle aziende esportatrici. Non avevo necessità di mediatori. Avevo fatto divieto di sottoscrivere contratti con soggetti diverse dalle aziende. E non si pagano acconti a nessuno, neppure sotto tortura». Quanto all'avvio dell'affare Arcuri precisa: «Non sono stato io a chiedere aiuto a Benotti ma lui a proporsi, come molti altri». L'ha conosciuto come «professore» quando collaborava con l'ex ministro delle Infrastrutture Delrio e indicato come «particolarmente vicino alla segreteria di Stato vaticana». Diceva di poter favorire persino il salvataggio dell'Alitalia: «Era uno dei tanti che popolano gli interstizi del potere politico-economico italiano, un po' ministero e un po' Vaticano». Il 21 marzo gli parla della fornitura e Arcuri risponde di inviare una proposta alla struttura: «Da quel momento Benotti e i suoi collaboratori interagiscono con le persone della struttura, e iniziano una trattativa del cui sviluppo io non so nulla». Ma, nella ricostruzione di Arcuri, l'imprenditore continua a cercarlo con insistenza; fra l'altro per portarlo alla segreteria di Stato vaticana. «Iniziò a essere eccessivamente dilagante e importuno, percepivo che stesse esagerando e ho scelto di allontanarlo». S' incontrarono il 5 maggio. Benotti ha raccontato che Arcuri gli svelò un'indagine dei servizi segreti sulla sua fornitura, ma Arcuri nega: «Ho cercato educate e gentili ragioni per fargli comprendere che non avevo tempo per quanto mi proponeva. Non ho mai pronunciato le parole "servizi" o "indagine"».

Estratto dell'articolo di Grazia Longo per "la Stampa" il 19 ottobre 2021. […] secondo la Procura di Roma, che ha indagato anche Mario Benotti - ex giornalista Rai, ex consulente della presidenza del Consiglio e ritenuto il mediatore nell'affare delle mascherine -, Arcuri avrebbe acquistato i dispositivi di sicurezza favorendo un ricarico di 12 milioni di euro a Benotti. Con il quale, inoltre, non avrebbe mai stipulato un regolare contratto. […] Quanto a Benotti, Arcuri replica di «non avergli mai dato alcun incarico. Inoltre per l'intera durata dell'emergenza non ho mai sottoscritto contratti con soggetti diversi dalle aziende fornitrici dei prodotti». Ma secondo gli inquirenti Benotti ha invece spiegato di «essere stato contattato da Arcuri», come peraltro dimostrano centinaia di contatti telefonici intercorsi tra i due. Secondo le diverse testimonianze raccolte - spiegano nel decreto di sequestro i pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone - «a giustificazione di un operato meno rigoroso c'era anche la situazione di emergenza in sé, che imponeva acquisizioni forzose, pur di non lasciare la popolazione sanitaria sprovvista di tutela». Ma i pubblici ministeri scrivono sul punto: «Una spiegazione che presta fianco ad evidente critica: dichiarare protettivo un dispositivo di dubitabile idoneità può indurre esposizioni sanitarie avventate».

Giacomo Amadori François De Tonquédec per "la Verità" il 19 ottobre 2021. Adesso è ufficiale. Anche la Procura di Roma, dopo quella di Gorizia, ha certificato che buona parte degli 800 milioni di mascherine acquistate nel 2020, tramite broker improvvisati, al «modico» prezzo di 1,25 miliardi dalla struttura del commissario per l'emergenza Covid erano fallate. Ieri i pm capitolini hanno disposto il sequestro di 161 milioni di dispositivi che nell'aprile scorso risultavano ancora giacenti nei magazzini della struttura sino a marzo guidata dall'ad di Invitalia Domenico Arcuri. Quest' ultimo è indagato per peculato e abuso d'ufficio («un'iscrizione aggiornata» la settimana scorsa, fanno sapere i pm) insieme con il suo braccio destro Antonio Fabbrocini. Un'informazione, quella della contestazione del peculato, che questo giornale aveva già dato ai suoi lettori l'11 aprile scorso. Parimenti avevamo pubblicato la notizia che Arcuri e Fabbrocini erano ancora indagati per corruzione, nonostante la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura nel novembre scorso e non ancora accolta dal gip. Ma ieri è diventato di dominio pubblico l'avviso di garanzia inviato ad Arcuri in vista dell'interrogatorio che lo stesso ha reso sabato davanti ai pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone. Un invito a presentarsi che sa già di avviso di chiusura delle indagini essendo ricostruite nei dettagli le accuse degli inquirenti. Per esempio si apprende che sono indagati per traffico di influenze illecite otto persone e non più solo sei. Oltre al giornalista Mario Benotti e alla compagna Daniela Guarnieri, al banchiere sammarinese Daniele Guidi, agli imprenditori Andrea Tommasi e Jorge Solis e al manager Fares Khouzam, alla lista occorre aggiungere un altro imprenditore, Nicolas Venanzi, e il cinese Cai Zhongkai, accusati tutti di aver messo in contatto tre consorzi cinesi con i mediatori italiani e, in particolare Zhongkai, di aver pattuito e promosso la «corresponsione dei compensi per le mediazioni illecite». Il reato è aggravato dal numero dei partecipanti e dalla transnazionalità dell'illecito visto che sarebbe stato commesso oltre che a Roma anche a Hong Kong, dove, come ha rivelato La Verità, sarebbero stati siglati accordi economici e sarebbe stato aperto un conto corrente ad hoc. Le accuse nei confronti di Arcuri e Fabbrocini sono piuttosto pesanti. Per quanto riguarda il peculato, nella convocazione si legge che i due «si appropriavano, disponendone» da padroni «a vantaggio di Benotti» di circa 12 milioni di euro «traendoli dal Fondo costituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri (soggetto ad obbligo di rendicontazione)». Un «compenso privato» che sarebbe stato compreso «nella stipulazione del prezzo dei contratti di fornitura» e che il produttore cinese avrebbe poi girato a Benotti. Con il quale, il commissario avrebbe intrattenuto, «in violazione» di legge «un rapporto di mediazione commerciale non contrattualizzato, sottraendo la determinazione della provvigione al controllo» della struttura. C'è poi la contestazione dell'abuso d'ufficio. In questo caso Arcuri e Fabbrocini sono accusati di aver «omesso intenzionalmente di formalizzare e palesare il rapporto, qualificabile quale mediazione, che la struttura commissariale costituiva e intratteneva» con gli indagati Benotti e Tommasi, a cui avrebbero assicurato «una illecita posizione di vantaggio patrimoniale», garantendogli «l'opportunità di monetizzare il credito illecito» derivante dal traffico di influenze e «la facoltà di avere rapporto commerciale con la pubblica amministrazione senza assumere alcuna responsabilità sul risultato della loro azione e sulla validità delle forniture che procuravano». Una doglianza che è la conseguenza di una nuova ipotesi di reato, la frode nelle pubbliche forniture, in questo caso aggravata dal fatto che le commesse riguardavano «cose destinate ad ovviare a un comune pericolo». Un filone investigativo che era stato anticipato dal nostro quotidiano a gennaio, ma non era ancora stato formalizzato in atti depositati. A chi viene contestato il nuovo reato? Probabilmente sia ai produttori che ai venditori che agli intermediari. Ieri la Guardia di finanza ha consegnato alla struttura commissariale un decreto di sequestro che rende ufficiale la contestazione. Un decreto probatorio (volto a dimostrare i difetti dei dispositivi) che riguarda non solo le mascherine già «giudicate inidonee», ma anche quelle «appartenenti a partite non esaminate-potenzialmente inidonee o pericolose». Non ci voleva molto a scoprire che qualcosa nei dispositivi procacciati da Benotti & C. non andasse. Per esempio dalle carte risultava già che per ottenerle erano state pagate provvigioni salatissime (ufficialmente del valore di 72 milioni, ma nelle mail degli indagati superavano i 200 milioni), commissioni che rivelavano in partenza un rapporto qualità/prezzo sfavorevolissimo. Una sòla confermata dai test sui dispositivi di protezione effettuati, a inizio febbraio, dalla trasmissione Fuori dal Coro e poi dalla Procura di Gorizia. Esami che avevano rivelato la totale inidoneità di diversi lotti di mascherine a proteggere dal Covid. Per questo gli inquirenti friulani avevano ordinato sequestri a partire dal mese di febbraio, mentre i colleghi romani si erano limitati a chiedere alla struttura quanti Dpi sub judice fossero ancora nei magazzini. E il 15 aprile, gli uffici del commissario, «preso atto» delle risultanze dei test avevano comunicato ai magistrati capitolini la «giacenza aggiornata» al 12 aprile 2021 di 161.587.990 di «Dpi e mascherine "non conformi"» riferibili ai 16 produttori cinesi fuorilegge, sui 36 che hanno realizzato gli 800 milioni di mascherine. Ma se sappiamo quante ne fossero rimaste in magazzino ad aprile, non è chiaro il numero complessivo di quelle sospettate di essere difettose atterrate in Italia. A distanza di sei mesi da quella comunicazione i pm Tucci e Varone hanno ordinato i sequestri, chiedendo contestualmente al commissario di «fornire i dati afferenti la giacenza - aggiornata alla data di esecuzione del provvedimento - dei Dpi e delle mascherine prodotte da tutte le aziende rientranti nei consorzi oggetto di indagine» e di «comunicare ai magazzini Sda di riferimento il blocco della merce». Significa che quando i pm hanno domandato, la scorsa primavera, informazioni su quelle mascherine non ne avevano chiesto il fermo e che, anzi, queste potrebbero essere state distribuite? Ci auguriamo non sia così. Sta di fatto che, adesso, le strutture regionali della Protezione civile avranno trenta giorni per «richiamare presso i propri depositi» i dispositivi sotto inchiesta. I risultati dei test, in particolare quelli disposti dalla Procura di Gorizia erano senza appello. Un lotto di Ffp2 fornite dalla Wenzhou light è stato definito nei risultati delle analisi svolte dalla Fonderia Mestieri di Torino, su incarico degli inquirenti, «insufficiente alla protezione dal Covid-19». I consulenti hanno anche aggiunto: «Sconsigliamo assolutamente di utilizzare la maschera come dispositivo di protezione Individuale». Mentre un'altra partita della stessa fornitura è stata bollata, in maiuscolo, così: «Attenzione! Dispositivo molto pericoloso!». Chissà quante di quelle mascherine sono finite sul viso degli italiani, in primis medici e infermieri. Addirittura, dal decreto di sequestro firmato da Tucci e Varone, abbiamo la conferma (come già denunciato dalla Verità) che i pagamenti del materiale farlocco sarebbero stati eseguiti prima che le mascherine ottenessero la certificazione dell'Inail e del Comitato tecnico scientifico. Sul punto, l'atto della Procura di Roma è netto: la validazione dei dispositivi «ha quasi sempre seguito (e non anticipato) i pagamenti delle forniture; cosicché le strutture Inail e Istituto superiore di sanità a supporto del Cts (organo, quest' ultimo, che si è limitato ad assentire le valutazioni dei primi due istituti) si sono trovate nella scomoda condizione di dover sconfessare, in caso di giudizio negativo, pagamenti con denaro pubblico già erogati». Non viene specificato se qualcuno abbia avuto il coraggio di denunciare il clamoroso errore. I magistrati, in compenso, evidenziano come le procedure di validazione siano state tutt' altro che lineari: per l'accusa, le mascherine erano certificate da test report incomprensibili (per lo più scritti in cinese), emessi a volte da enti non meglio identificati. Ma anche i test sostitutivi non sono risultati più attendibili «riportando», per esempio, «una data [] antecedente la fornitura». In certi casi avevano «addirittura, la medesima data dell'atto sostituito». In pratica, secondo i pm, ci troveremmo di fronte a una «pura e semplice sostituzione modulare di un atto inidoneo, con uno omologo, privo di alcuna garanzia di veridicità». Eppure in alcuni dei contratti riguardanti le mascherine sotto inchiesta era posta come condizione per il pagamento il «certificato Ce dei prodotti consegnati». Presupposto che non è evidentemente stato rispettato. Ieri a dare notizia dell'interrogatorio di Arcuri è stato l'ufficio stampa di Invitalia: «È stato così possibile un confronto e un chiarimento che si auspicava da molto tempo con l'autorità giudiziaria» si legge nella nota, «rispetto alla quale sin dall'origine dell'indagine il dottor Arcuri ha sempre avuto un atteggiamento collaborativo, al fine di far definitivamente luce su quanto accaduto». Un interrogatorio a cui si era detto disponibile già nel novembre di un anno fa, quando inviò una lettera in Procura dopo lo scoop della Verità che svelava l'inchiesta sull'affaire delle mascherine.

Maria Antonietta Calabrò per huffingtonpost.it il 19 ottobre 2021. Da sabato 16 ottobre, nel maxi-scandalo delle mascherine comprate dallo Stato italiano nella primavera del 2020 è entrato ufficiosamente anche il Vaticano. È il giorno in cui l’ex commissario all’emergenza Covid-19 Domenico Arcuri è stato interrogato dai pubblici ministeri Fabrizio Tucci e Gennaro Varone, nell’ambito dell’istruttoria della Procura di Roma coordinata dal Procuratore aggiunto Paolo Ielo. Parlando dell’intermediario, ex giornalista Rai, Mario Benotti,nel suo interrogatorio riportato oggi dal Corriere della Sera, Arcuri ha detto ai pm di averlo conosciuto come “professore” quando collaborava con l’ex ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, che gli era stato indicato come “particolarmente vicino alla Segreteria di Stato vaticana”. Diceva di poter favorire persino il salvataggio dell’Alitalia: “Era uno dei tanti che popolano gli interstizi del potere politico-economico italiano, un po’ Ministero e un po’ Vaticano”. Il 21 marzo 2020 Benotti parla ad Arcuri della fornitura all’Italia e Arcuri risponde di inviare una proposta alla struttura: “Da quel momento Benotti e i suoi collaboratori interagiscono con le persone della struttura, e iniziano una trattativa del cui sviluppo io non so nulla”. Ma, nella ricostruzione fatta da Arcuri nel suo interrogatorio, Benotti avrebbe continuato a cercarlo con insistenza anche dopo; fra l’altro per portarlo in Vaticano, più precisamente alla cosiddetta Terza Loggia, la Segreteria di Stato vaticana, guidata dal cardinale Pietro Parolin. “Iniziò a essere eccessivamente dilagante e importuno, percepivo che stesse esagerando e ho scelto di allontanarlo”, sostiene Arcuri. Ma non si sa poi cosa sia effettivamente accaduto. Benotti potrebbe anche aver intermediato una fornitura di mascherine (che secondo quanto accertato dalla magistratura italiana che ne ha disposto il sequestro, non solo sono inefficaci per proteggere dal Covid19 , ma addirittura “pericolose per la salute”) per il Vaticano, stipulando un contratto con il Governatorato, guidato all’epoca dal cardinale a Giuseppe Bertello di recente andato in pensione. Il portavoce vaticano Matteo Bruni non ha risposto a una specifica domanda di Huffpost al riguardo e cioè se effettivamente questo contratto esista, se le mascherine eventualmente fornite siano ancora nella disponibilità del Vaticano e, se sì, se saranno sequestrate per impedire danni alla salute, come ha fatto la Procura di Roma. Benotti aveva affidato le pubbliche relazioni per il suo libro “Un democristiano in borghese“ alla pr Francesca Immacolata Chaouqui (condannata in Vaticano per il cosiddetto Vatileaks 2) che all inizio di dicembre del 2020 aveva subito una perquisizione da parte della Gdf italiana nell’ambito dell’inchiesta sulle mascherine per cui è stato interrogato Arcuri, perché pagata da Benotti, ma dichiarò allora la donna, “per un’attività professionale del tutto lecita“. Nel corso della perquisizione sarebbe stata sequestrata documentazione riguardante l’attività precedente della Chaouqui, come commissario della Cosea vaticana, la Commissione d’ inchiesta sulle finanze di Oltretevere.

(Adnkronos il 19 ottobre 2021) - ''Da sempre abbiamo chiesto massima trasparenza e attenzione'' sulla vicenda delle mascherine e il caso Arcuri. ''Abbiamo fatto un dossier consegnato al presidente Draghi al secondo colloquio di consultazioni che avemmo con lui a febbraio. Per questo riteniamo di aver avuto un ruolo nella sostituzione del commissario Arcuri, che fu uno dei primissimi atti del presidente Draghi. Per diversi mesi siamo stati insultati e derisi per aver chiesto chiarezza e trasparenza sui miliardi di euro degli italiani utilizzati in maniera opaca. Oggi mi aspetto le scuse di tutti quanti perché evidentemente non avevamo torto. Questa miopia oggi la trovo in alcuni quotidiani dove nel titolo ritrovo il mio nome...''. Lo ha detto Giorgia Meloni in una conferenza stampa in via della Scrofa, smentendo ricostruzioni stampa che la riguardano a proposito dell'interrogatorio di ieri di Domenico Arcuri per lo scandalo delle mascherine. "Ieri Arcuri viene ascoltato dalla Procura e oggi ritrovo il mio nome in almeno due titoli e in tre articoli di giornale che riguardano questo interrogatorio'', ha sottolineato la presidente di Fdi, citando 'Domani' e 'la Repubblica', che si è sfogata così: ''Mi sono stufata di questo modo di fare giornalismo. Il famoso amico della Meloni con cui titola 'Repubblica' è il presidente di Confartigianato-Moda che mi ha contattato a marzo 2020 per dire: 'noi ci vogliamo mettere a disposizione, come facciamo per dare una mano?'. Io chiamo Arcuri e gli dico che c'è questa richiesta, che cosa devo rispondere? Arcuri mi fornisce una mail. E rispondo con un sms - ha detto Meloni mostrando il suo cellulare alle telecamere - al presidente di Confartigianato Fabio Pietrella: 'manda una mail al collaboratore di Arcuri, dove scrivo che loro sono gli unici che se ne occupano, altro io non posso fare'. Vale la pena sapere che durante la pandemia altre persone mi hanno cercato e io gli ho dato la stessa identica risposta, che potete tranquillamente trovare sul mio cellulare, che io posso mettere a vostra disposizione. Bastava che 'Domani' e 'Repubblica' mi facessero una chiamata... Ma evidentemente nell'informazione di regime questo non è previsto. Vi faccio leggere le mie chat quando volete. Da questo ad arrivare a dire che io ho raccomandato terzi o degli amici ce ne passa... Intanto, io domani - ha annunciato la presidente di Fdi - deposito una querela per diffamazione ai danni del 'Domani'. Non mi pare che sia quello che ha detto Arcuri, perché altrimenti anche lui avrà una querela per diffamazione, in questo caso per calunnia. Io sono stanca di questo modo bizzarre di fare giornalismo e di ritrovarmi sui titoli dei giornali così'', ha sbottato Meloni. 

Giacomo Amadori François De Tonquédec per "la Verità" il 20 ottobre 2021. Emergono nuovi interessanti filoni investigativi dal verbale di interrogatorio che Domenico Arcuri, ex commissario della struttura anti Covid e ad di Invitalia, ha reso sabato scorso davanti ai pm della Procura di Roma. Arcuri è indagato per peculato e abuso d'ufficio a causa della maxi fornitura di mascherine da 1,25 miliardi di euro intermediata da Mario Benotti e altri broker improvvisati, oggi tutti indagati per traffico di influenze illecite. Secondo gli inquirenti i reati contestati ad Arcuri e ai suoi coindagati sarebbero stati commessi tra Roma e Hong Kong.A un certo punto i pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone chiedono all'ad di Invitalia se abbia avuto rapporti «per forniture di mascherine» con l'avvocato Stefano Beghi o con lo studio Gianni-Origoni che ha un ufficio proprio a Hong Kong. Arcuri cincischia: «Conosco Stefano Beghi in quanto partner della Deloitte, di cui ero ad fino al 2007; in occasione della pandemia ha proposto una fornitura di ventilatori. So che era partner dello studio Gianni-Origoni. Non mi risulta abbia proposto un acquisto di mascherine. Se l'affare dei ventilatori fosse andato in porto avrei stipulato come sempre il contratto con il fornitore». Beghi è il responsabile dell'ufficio di Hong Kong dello studio Gianni-Origoni. Che, scopriamo, da un'ulteriore risposta dell'ex commissario, essere uno dei consulenti di fiducia proprio di Arcuri e di Invitalia: «Ho avuto rapporti con lo studio Gianni-Origoni & partners, perché è uno dei principali studi legali italiani ed è tra i fornitori di consulenze legali di Invitalia, da sempre. Aggiungo che Invitalia e io abbiamo a che fare con gli avvocati che lavorano in Italia dello studio Gianni». Beghi, a quanto risulta alla Verità, sarebbe anche uno dei consulenti di fiducia di Daniele Guidi, un altro dei broker indagati. E proprio Guidi è compagno di Stefania Lazzari, sul cui conto la Procura di Roma sta indagando. Il motivo? C'è traccia di un accordo tra la donna e il presidente della camera di commercio italiana a Hong Kong per una consulenza a favore dei consorzi cinesi che hanno spedito le mascherine in Italia. Ma Arcuri ha assicurato ai magistrati di non conoscere Guidi, né di sapere di suoi rapporti con Beghi. Tra i collaboratori dello studio Gianni-Origoni compare anche Giampiero Castano, ex responsabile del Mise per la gestione delle crisi aziendali, come ha riferito lo stesso Arcuri. Che ha spiegato ai pm: «Non ho ricordo di avere rapporti con Castano durante la gestione dell'emergenza. Non ho memoria di rapporti con Beghi o con appartenenti allo studio Gianni-Origoni per la fornitura di mascherine». Arcuri ha evidenziato vuoti mnemonici anche di fronte ad altre domande. Per esempio, i magistrati gli hanno chiesto di un'offerta di Alibaba, l'equivalente cinese di Amazon, un colosso da oltre 90 miliardi di euro di fatturato, proposta arrivata alla Protezione civile il 13 marzo 2020, una settimana prima che si insediasse la struttura commissariale, ma due giorni dopo l'annuncio dell'incarico ad Arcuri da parte di Giuseppe Conte: «Se so dell'offerta? No, perché al 13 marzo 2020 la struttura commissariale non esisteva. Forse la Protezione civile ci ha trasferito la proposta, ma non ne ho ricordo» ha risposto l'indagato. Il quale ha assicurato anche di essere rimasto all'oscuro dei particolari dell'accordo con i fornitori cinesi proposti da Benotti & C.: «Dello sviluppo di questa trattativa io non ne so nulla. Non era previsto che il commissario entrasse nel dettaglio delle trattative per le forniture». Sui rapporti con il giornalista, Arcuri fa confusione con le date: «Il 21 marzo, come sapete, Benotti afferma di avere possibilità di dare una mano al governo italiano per acquisire i Dpi» dichiara a verbale. E da lì sarebbe iniziata la trattativa con la sua struttura. In questo caso, a smentire l'ex commissario sono gli sms scambiati con Benotti da cui risulta che i due discutessero di mascherine e respiratori già tra l'11 marzo e il 15 marzo. Il manager svicola anche di fronte a questa domanda: «Benotti diviene promotore di una società cinese. Perché gli ha riconosciuto tale qualità, a preferenza dì altri soggetti?». Anziché rispondere l'ex commissario fa un elenco di aspiranti fornitori sponsorizzati direttamente o indirettamente da esponenti del centro-destra. Quello di Arcuri sembra un pizzino (subito ripreso con entusiasmo da qualche quotidiano) per i partiti e i politici che in questi mesi lo hanno criticato. Ma la più clamorosa scivolata riguarda le certificazioni che avrebbero dovuto essere presentate prima del saldo da parte della struttura. Arcuri assicura ai pm: «È vero che, in alcuni casi, le mascherine sono state pagate prima della validazione del Cts e tale circostanza è figlia della tragedia nella quale vivevamo; in ogni caso, i Dpi sono stati pagati dopo la certificazione delle Dogane». A questo punto gli inquirenti gli fanno una domanda che smentisce la risposta: «Le risulta che il pagamento avvenisse a ricezione del documento che attestava che la merce era sull'aereo in Cina?». Arcuri barcolla, ma non crolla: «A me risulta che il pagamento poteva avvenire a partire dalla ricezione del detto documento. Mi riservo di fornire dettagliato elenco dei documenti di riferimento». L'ex commissario palesa ricordi sbiaditi anche quando dice di aver «rarefatto» il rapporto con Benotti ben prima dell'ultimo incontro avvenuto il 5 maggio 2020. Anche in questo caso i magistrati gli rinfrescano la memoria e allora lui ribatte: «Dico meglio, ora che mi viene contestato che dalla messaggistica risultano ancora comunicazioni tra me e Benotti il 3 maggio: avevo maturato intenzione di prendere le distanze da lui, per le ragioni che ho spiegato prima». Infine i pm gli chiedono perché lui e i suoi collaboratori non abbiano ritirato dal commercio le mascherine difettose di Benotti e, invece, abbiano rispedito al mittente quelle fornite dell'imprenditore Giovanni Buini, coinvolto nel caso del presunto traffico di influenze illecite messe in atto alle sue spalle dagli avvocati Luca Di Donna e Gianluca Esposito. Ecco la versione di Arcuri: «Noi abbiamo invitato Buini a riprendere le mascherine, quando abbiamo avuto ragione di sospettare, sulla base di indagini giudiziarie, che esse non rispondessero ai requisiti di legge. [] Noi abbiamo fermato la distribuzione dei Dpi in presenza di fatti certi». Evidentemente non ritiene tali i risultati delle indagini della procura di Gorizia che, già a febbraio, aveva fatto sequestrare diversi lotti di mascherine giunte in Italia con l'intermediazione di Benotti & C.. La memoria di ferro del commissario, che snocciola inchieste giudiziarie, nomina politici «nemici» e sfodera davanti ai pm persino una mascherina farlocca che si è portato appresso messa in commercio da una profumeria, tentenna quando il discorso va su Esposito, l'avvocato indagato: «A vostra richiesta dico che non mi risulta che il rappresentante di Federfarma mi sia stato presentato dall'avvocato Esposito».

François de Tonquédec per "la Verità" il 20 ottobre 2021. Grazie al decreto di sequestro recapitato al commissario lunedì (che sarà notificato anche alle strutture di Protezione civile di tutte le regioni) siamo riusciti, seppur in modo incompleto, a verificare dove siano andate alcune delle mascherine considerate dalle Procure di Roma e Gorizia «molto pericolose» che facevano parte delle commesse cinesi per il tramite del giornalista Mario Benotti . Nel decreto, infatti, si trova un elenco (in parte illeggibile) dei dispositivi ancora nei depositi usati dalla struttura commissariale, aggiornato al 12 aprile. A quella data, diversi esemplari di tre dei quattro modelli, definiti «molto pericolosi» dalla Fonderia Mestieri (che ha effettuato i test per conto della Procura di Gorizia), giacevano in magazzino. Non sappiamo, e dalla struttura del commissario non ci hanno voluto rispondere, se da aprile siano stati distribuiti. Ben 2.067.000 di Ffp2 erano marchiate Wenzhou xilian electrical technology. La maggior parte si trovava in depositi della Lombardia: 595.500 a Vignate (Milano), 502.000 a Gorgonzola (Milano), 201.000 a Cesano Maderno (Monza), 195.000 a Caleppio di Settalla (Milano) 30.000 a Peschiera Borromeo. Nel Lazio, all'interno del deposito di Pomezia (Roma), erano presenti 367.500 pezzi. In Piemonte, due depositi, uno a Vercelli con 114.000 mascherine e il secondo a San Pietro in Mosezzo (Novara), con 61.500 Dpi. Delle Ffp2 della Wenzhou junyue bag making, risultavano presenti 554.740 pezzi: 225.000 a Pomezia, 222.000 a Vignate, in provincia di Milano, 18.000 a Peschiera Borromeo, 55.000 a San Pietro in Mosezzo, 4. 240 a Landriano, in provincia di Pavia. Erano 190.000 invece le Ffp2 della Anhui zhongnan air defence works che erano ancora in giro per l'Italia: 45.000 a Cesano Maderno, 49.000 a Peschiera Borromeo, 39.000 a Pomezia, 19.200 a Landriano, 38.000 a San Pietro in Mosezzo. Mancano all'appello le Ffp-Kn95 della Wenzhou huasai commodity, anch' esse stroncate dal test, ma non presenti nella parte leggibile della tabella. In totale quindi siamo riusciti a ricostruire la presenza di 2,8 milioni di mascherine che i test disposti dalla Procura di Gorizia hanno definito «molto pericolose», tanto da spingere la Procura di Roma, anche alla luce dei test su lotti di altri fabbricanti risultati «non conformi», al sequestro del residuo dell'intera fornitura da 801 milioni di pezzi, anche per poter effettuare ulteriori test. Al netto della pericolosità di alcuni lotti rimane un interrogativo: come mai a distanza di un anno dalla maxi commessa il 20 per cento delle mascherine acquistate era ancora nei depositi? Eppure dal sito della struttura commissariale nel 2020 risultano acquisti (stavolta con i fornitori diversificati) successivi: 119,4 milioni di Ffp2, 5,4 milioni di Ffp3, e la impressionante cifra di 870,7 milioni di mascherine chirurgiche. In totale quasi un miliardo di pezzi. Qualcuno aveva già intuito la pericolosità delle mascherine cinesi procurate da Benotti & C.? Prima o poi qualcuno ci darà una risposta.

Inchiesta su Arcuri: Meloni chiede la commissione d’inchiesta, annuncia un dossier e querela il “Domani”. Guido Liberati martedì 19 Ottobre 2021 su Il Secolo d'Italia. Alla luce degli sviluppi dell’inchiesta sul commissario Arcuri, Giorgia Meloni in una conferenza stampa in via della Scrofa, fa il punto. E ricorda che si toglie qualche sassolino dalla scarpa. «Per mesi siamo stati insultati e derisi per aver chiesto trasparenza. Oggi mi aspetto delle scuse. Abbiamo sempre chiesto su questo tema della mascherine la massima attenzione e trasparenza». «Chiedo a tutti i partiti di politici di approvare la proposta di Fratelli d’Italia che giace in Parlamento da febbraio, per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla gestione commissariale durante l’epoca Covid. Mi aspetto una risposta ufficiale da tutti i partiti: voglio capire chi vuole andare avanti fino in fondi e chi, invece, vuole girarsi dall’altra parte e gettare fango e basta». Lo ha detto Giorgia Meloni in una conferenza stampa in via della Scrofa. La leader di FdI annuncia anche «un nuovo dossier sul sito del partito, che rimette insieme tutte le vicende sulle quali mi piacerebbe che ci fosse un’attenzione maggiore da parte della grande stampa. L’11 settembre – ha sottolineato – vengono acquistate 100 milioni di mascherine al costo di 1,05 euro ciascuna, per il tramite di una società olandese che ha un unico dipendente. Negli stessi giorni, la Regione Marche guidata da un esponente di Fratelli d’Italia (Francesco Acquaroli, ndr) comprava le mascherine a 0,37 euro ciascuna. Quindi, il prezzo di 1,05 è un po’ alto. Negli stessi giorni, la gestione commissariale rifiuta un’offerta da 0,70 euro a mascherina». «Per i banchi monoposto – ha aggiunto Meloni – il Governo ha pagato almeno 18 euro in più per ognuno rispetto a quanto calcolato dall’Anac e 110mila banchi a rotelle sono stati ritirati perché non a norma. Poi c’è questo signor Di Donna indagato, ex collega di studio dell’ex premier Giuseppe Conte, però non vedo grandi notizie». Per quanto riguarda gli enti locali, “la Regione Lazio di Zingarettinella migliore delle ipotesi ha buttato 11 milioni di euro degli italiani” a proposito dell’acquisto di mascherine. «Da sempre abbiamo chiesto massima trasparenza e attenzione» sulla vicenda delle mascherine e il caso Arcuri. «Abbiamo fatto un dossier consegnato al presidente Draghi al secondo colloquio di consultazioni che avemmo con lui a febbraio. Per questo riteniamo di aver avuto un ruolo nella sostituzione del commissario Arcuri, che fu uno dei primissimi atti del presidente Draghi. Per diversi mesi siamo stati insultati e derisi per aver chiesto chiarezza e trasparenza sui miliardi di euro degli italiani utilizzati in maniera opaca. Oggi mi aspetto le scuse di tutti quanti perchè evidentemente non avevamo torto. Questa miopia oggi la trovo in alcuni quotidiani dove nel titolo ritrovo il mio nome…». Lo ha detto Giorgia Meloni in una conferenza stampa in via della Scrofa, smentendo ricostruzioni di alcuni quotidiani che la tirano in ballo a sproposito. «Ieri Arcuri viene ascoltato dalla Procura e oggi ritrovo il mio nome in almeno due titoli e in tre articoli di giornale che riguardano questo interrogatorio», ha sottolineato la presidente di Fdi, citando Il Domani e Repubblica. «’Mi sono stufata di questo modo di fare giornalismo. Il famoso amico della Meloni con cui titola Repubblica è il presidente di Confartigianato-Moda che mi ha contattato a marzo 2020 per dire: “Noi ci vogliamo mettere a disposizione, come facciamo per dare una mano?». Io chiamo Arcuri e gli dico che c’è questa richiesta, che cosa devo rispondere? Arcuri mi fornisce una mail. E rispondo con un sms – ha detto Meloni mostrando il suo cellulare alle telecamere – al presidente di Confartigianato Fabio Pietrella: «Manda una mail al collaboratore di Arcuri, dove scrivo che loro sono gli unici che se ne occupano, altro io non posso fare. Vale la pena sapere che durante la pandemia altre persone mi hanno cercato e io gli ho dato la stessa identica risposta, che potete tranquillamente trovare sul mio cellulare, che io posso mettere a vostra disposizione. Bastava che Il Domani e Repubblica mi facessero una chiamata. Ma evidentemente nell’informazione di regime questo non è previsto. Vi faccio leggere le mie chat quando volete. Da questo ad arrivare a dire che io ho raccomandato terzi o degli amici ce ne passa. Intanto, io domani – ha annunciato la presidente di Fdi –  deposito una querela per diffamazione ai danni de Il Domani. Non mi pare che sia quello che ha detto Arcuri, perché altrimenti anche lui avrà una querela per diffamazione, in questo caso per calunnia. Io sono stanca di questo modo bizzarre di fare giornalismo e di ritrovarmi sui titoli dei giornali così», ha sbottato Meloni.

"Caso coperto durante il voto". Gli aiutini all'uomo di Conte. Chiara Giannini il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. Salvini e Meloni ironici: "Casualmente si scopre solo a ballottaggi decisi...". Quella strana rete di protezioni. La notizia esce alle 11 di ieri, quando i giochi ai ballottaggi sono ormai fatti e il voto di chi è andato alle urne non è più in alcun modo influenzabile. L'ex commissario Domenico Arcuri risulta indagato dalla Procura di Roma nell'ambito dell'inchiesta sulla fornitura di mascherine provenienti dalla Cina che vede coinvolti anche Mario Benotti, Andrea Vincenzo Tommasi ed Edisson Jorge San Andres Solis. Una notizia che in qualche modo si aspettava, ma che guarda caso esce dopo le consultazioni elettorali. Un'accusa pesante per l'uomo piazzato dall'ex premier Giuseppe Conte e sponsorizzato da Massimo D'Alema, che ora si vede sotto torchio per abuso d'ufficio e peculato. D'altronde era scontato che l'ex capo della struttura commissariale, più volte citato da Benotti per un fitto scambio di messaggi che sono finiti nel fascicolo, venisse indagato. Il tempismo con cui però la notizia è stata data in pasto alle cronache solo a fine ballottaggi non è passata sotto silenzio, soprattutto agli occhi dei leader politici del centrodestra. «Ovviamente dopo i ballottaggi», sono state le parole secche twittate dal segretario della Lega Matteo Salvini, preso di mira più volte prima per i casi legati alle Ong, poi per quello che ha visto coinvolto l'ex spin doctor Luca Morisi. Perché quando si tratta del centrodestra scandali e inchieste escono, guarda caso, poco prima del voto. Proprio come il servizio di Fanpage che ha sollevato un polverone su Carlo Fidanza e che avrebbe portato alla luce la «lobby nera» di cui tanto si parla. Colpi ben piazzati, pare ormai scontato, per far perdere voti agli avversari politici. Ma come è ormai da decenni, guai toccare la sinistra, almeno in tempo di elezioni. Ed ecco allora che neanche la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni è rimasta in silenzio. «Dopo mesi e mesi di denunce - ha scritto sui social -, e curiosamente appena finisce la campagna elettorale, apprendiamo che Domenico Arcuri, l'ex commissario straordinario per l'emergenza Covid, è indagato per abuso d'ufficio e peculato nell'ambito dell'inchiesta riguardante l'acquisto di mascherine. Eppure un corposo dossier con le troppe anomalie della gestione commissariale era stato presentato da Fratelli d'Italia già molti mesi fa». Quindi una richiesta: «Si facciano presto luce e chiarezza sulle tante zone d'ombra che hanno caratterizzato la gestione della pandemia ad opera dell'uomo voluto da PD e M5s. Gli Italiani meritano di sapere la verità». L'uomo voluto al comando dell'emergenza da Conte, in realtà alle spalle aveva quel D'Alema che da tempo ormai aveva perso potere politico, uscendo di scena rispetto all'epoca della sua presidenza del Consiglio, ma che aveva riacquistato potere proprio quando al vertice del governo stava l'avvocato pentastellato. Tanto che, si vocifera, lo stesso Conte spesso lo chiamasse per chiedergli consiglio. Non è un caso che «Baffino» a quei tempi si schierasse pubblicamente difendendo l'ormai amico premier dalle stoccate lanciate da Matteo Renzi, arrivando a dire che «non si sostituisce l'uomo più popolare d'Italia perché lo chiede il più impopolare». Caduto Giuseppi e andato a casa Arcuri, gioco forza la giustizia ha dovuto fare il suo corso e le Fiamme Gialle hanno dovuto muoversi come molti si auspicavano da tempo. Ma perché si scopre solo ora? La risposta sta, probabilmente, in quei giochi politici che ormai sono ben noti e che vedono ripetuti tentativi per affossare l'avversario di centrodestra creando scandali a tavolino e mettendo a tacere, almeno finché fa comodo, quei terremoti che scuotono la sinistra. Stavolta, ballottaggi o no, Arcuri dovrà rispondere sul suo operato. Tempo fino alle prossime elezioni ce n'è tanto. Chissà che un eventuale rinvio a giudizio non avvenga prima.

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull

Domenico Arcuri indagato, Giorgia Meloni: "Dopo mesi di denunce, ce lo dicono proprio oggi?" Libero Quotidiano il 18 ottobre 2021. La notizia riguardante l’ex commissario Domenico Arcuri - che risulta indagato dalla Procura di Roma nell’ambito della fornitura di mascherine provenienti dalla Cina - è arrivata con un tempismo quantomeno sospetto, secondo Giorgia Meloni e Matteo Salvini. “Ovviamente dopo i ballottaggi”, ha twittato lapidario il segretario della Lega. A mettere il carico alla polemica ci ha pensato allora la leader di Fratelli d’Italia. “Dopo mesi di denunce - ha scritto sui social - e curiosamente dopo la campagna elettorale, apprendiamo che l’ex commissario per l’emergenza Covid Arcuri è indagato nell’ambito dell’inchiesta sull’acquisto di mascherine. Si faccia luce sulla gestione della pandemia ad opera dell’uomo voluto da Pd e M5s”. Per Arcuri le accuse sono peculato e abuso d’ufficio: è indagato anche per corruzione, ma a riguardo la Procura ha chiesto l’archiviazione. Le indagini riguardavano affidamenti per un valore di 1,25 miliardi di euro effettuati dall’ex commissario a favore di tre consorzi cinesi per l’acquisto di oltre 800 milioni di mascherine, avvenuto con l’intermediazione di alcune imprese italiane che hanno percepito in commissioni decine di milioni di euro. Dal sequestro delle mascherine provenienti dalla Cina e dal conseguente esame fisico/chimico è emerso che quei dispositivi non soddisfano i requisiti di efficacia protettiva richiesti dalle norme. "Toh che caso, proprio oggi...". Arcuri indagato, la fucilata di Salvini contro i magistrati: sospetto-sinistro

Covid, i respiratori comprati dall'ex commissario Arcuri fermi in magazzino. Redazione Tgcom24 il 14 ottobre 2021. I respiratori polmonari acquistati dall'ex commissario straordinario per l'emergenza Covid, Domenico Arcuri, e costati diecimila euro ciascuno sono rimasti inutilizzati. I nuovi macchinari, circa due mila, comprati per far fronte alla fase più delicata dell'emergenza sanitaria, infatti, secondo gli anestesisti sarebbero "poco performanti per i pazienti Covid" e quindi non sono mai stati adoperati per i malati con grave insufficienza respiratoria. Emilpaolo Manno, Direttore del dipartimento di malattie infettive del Piemonte, spiega a a "Fuori dal Coro" che: "L'utilizzo di questi respiratori ha mostrato fin da subito dei problemi nell'assistenza ai malati in terapia intensiva con polmonite causata da Covid", per questo motivo i ventilatori sono rimasti fermi nei magazzini da oltre un anno e mezzo. Eppure, diverse Regioni hanno segnalato la "modesta qualità" dei macchinari alla struttura commissariale ma, aggiunge Manno: "Non ci è arrivata nessuna risposta"

Domenico Arcuri e le "mazzette", il terribile sospetto di Matteo Renzi sul Covid: "Giri di denaro pazzeschi". Libero Quotidiano il 27 luglio 2021. Domenico Arcuri è ancora al centro dei pensieri di Matteo Renzi. Il leader di Italia Viva vuole infatti vederci chiaro sugli appalti Covid dell'ex commissario per l'emergenza. "Un paese civile - esordisce l'ex premier durante la presentazione del libro Controcorrente - fa una commissione di inchiesta sulla più grande ecatombe italiana e sulla centrale di acquisti per l'emergenza Covid. Se non sono girate mazzette c'è quasi da chiedersi perché. Noi non dobbiamo parlare di Cina, ma capire se qualcuno ha mangiato in Italia sulla pandemia". Un appello a vuoto quello di Renzi, visto che ad ora la commissione parlamentare d'inchiesta si dovrebbe occupare solo dei fatti avvenuti prima del 30 gennaio 2020, giorno della dichiarazione dell'emergenza da parte dell'Oms. Fuori dunque la gestione degli appalti pubblici per il reperimento dei dispositivi di protezione individuale e delle attrezzature mediche. Sotto alla lente di ingrandimento del numero uno di Italia Viva ci finisce la maxi commessa da 1,2 miliardi di mascherine acquistate tra marzo e aprile 2020 dalla struttura all'emergenza di Arcuri da tre aziende cinesi per il tramite di alcuni intermediari. Mediatori, questi, che hanno ottenuto provvigioni milionarie dalla Cina per quell'affare, su cui c'è un'inchiesta aperta della Procura di Roma. E ancora, Renzi prosegue la propria accusa: "Ritengo che ci siano state delle provvigioni, dei giri di denaro pazzeschi. I numeri di Tangentopoli erano più bassi". Per il fu presidente del Consiglio "singoli individui avrebbero lucrato un enorme vantaggio economico da una situazione di disperazione del Paese. Chi sono queste persone? A che titolo hanno ricevuto questi denari?". Da qui la necessità di controllare quanto davvero accaduto durante la gestione del predecessore del generale Figliuolo. 

Giuseppe Liturri per “La Verità” il 27 luglio 2021. È durata solo qualche giorno l'eco della notizia dell'approvazione del bilancio 2020 di Invitalia su cui i revisori legali di Deloitte hanno espresso pesanti rilievi che non hanno comunque influito sulla decisione del socio unico, cioè il ministero dell'Economia, di concedere comunque il suo benestare. Non accade tutti i giorni che una società di revisione si schieri in modo così netto contro le valutazioni fatte dagli amministratori in sede di redazione del bilancio, sfiorando il parere negativo. Ancora più inusuale è che ciò accada con riferimento a società a partecipazione interamente pubblica, come Invitalia che vede dal 2007 Domenico Arcuri nel ruolo di amministratore delegato. Quella che è stata inizialmente derubricata come una disputa di lana caprina riservata agli addetti ai lavori nasconde invece rilevanti implicazioni anche di natura politica. In estrema sintesi, un piano di razionalizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare in portafoglio a Invitalia ha comportato la rilevazione di pesanti svalutazioni per adeguare i valori contabili a quelli di mercato. Si tratta di 20,4 milioni di svalutazioni, che potrebbero ulteriormente aumentare quando saranno effettivamente eseguite le cessioni. In un mondo normale ed in qualsiasi altra società italiana (e non solo), tali svalutazioni avrebbero dovuto abbattere l'utile di conto economico e quindi peggiorare la performance reddituale che Arcuri avrebbe potuto mostrare al suo azionista di via XX Settembre. Ma a maggio 2020, sotto il governo giallorosso guidato da Giuseppe Conte, di fronte a questa prospettiva, è risuonato l'urlo «Salvate il soldato Ryan», in questo caso impersonato non da Tom Hanks ma da Arcuri. E così una sapiente manina ha inserito all'articolo 47, tra i 266 articoli del decreto Rilancio, una disposizione che ha previsto che tali eventuali svalutazioni fossero rilevate «esclusivamente nelle scritture contabili patrimoniali». Come se il conto economico non esistesse. Come se, di fronte a un bicchiere che perde acqua, fosse sufficiente dichiarare che il nuovo livello dell'acqua sia più basso rispetto a quello dell'anno precedente, senza dare conto del deflusso e delle sue cause. La relazione tecnica dell'epoca giustifica tale norma come essenziale per ottenere una «mitigazione e neutralizzazione dell'impatto a conto economico» e quindi consentire l'operazione di razionalizzazione e dismissione pianificata che ottiene così il «requisito della sostenibilità». Viene inoltre citato un precedente risalente al 2005. Ma veniamo a luglio di quest' anno. Nella redazione del bilancio del 2020, gli amministratori si fanno scudo di quella norma e la invocano per derogare ai principi contabili internazionali che prevedono effettivamente tale possibilità «in presenza di casi eccezionali». Essi sostengono, con il conforto del collegio sindacale e di un «parere autorevole», che l'articolo 47 sia proprio un caso di tipizzazione legale di un caso eccezionale. Apparentemente una costruzione perfetta: i principi contabili, per essere derogati, richiedono un caso eccezionale, e cosa c'è di meglio che crearlo e cristallizzarlo in una legge, scritta ad hoc qualche mese prima? Ma il piano e le ampie giustificazioni di Arcuri e del suo consiglio non hanno retto al vaglio dei revisori che hanno scritto che «non ricorrono le circostanze» per la deroga ai principi contabili. Non regge l'esimente che tali perdite siano «sostanzialmente imposte per legge» in esecuzione di un atto dovuto, quale il piano di razionalizzazione e dismissione: se le perdite ci sono, vanno rilevate secondo corretti principi contabili, e la loro causa non è un'esimente. Non regge nemmeno il motivo delle particolari condizioni del mercato immobiliare che impattano negativamente sull'entità della svalutazione: che facciamo, pieghiamo i principi contabili all'andamento più o meno favorevole del mercato? E se domani i valori fossero ancora più bassi? La cosa che lascia davvero perplessi è che rilevare a conto economico, come si fa ordinariamente, delle svalutazioni di circa 20 milioni, avrebbe portato a «risultati fuorvianti e privi di senso» e avrebbe impedito di «rappresentare fedelmente la performance aziendale e la capacità del management di amministrare le risorse aziendali». Ma tali svalutazioni, foriere di effettive perdite future, non sono mica state paracadutate da Marte e fanno parte dei risultati complessivi del management, seppure (fortunatamente) non ricorrenti ogni anno. Se le controllate Italia turismo ed Invitalia partecipazioni hanno in bilancio beni iscritti a valori ben superiori a quelli di mercato, è normale che il processo di dismissione faccia emergere queste differenze. Anzi, è piuttosto strano che tali perdite di valore non siano emerse già nei bilanci precedenti. Nulla di eccezionale. Soprattutto perché, come riportato nel prospetto della redditività consolidata complessiva, rilevando quelle svalutazioni, il bilancio di Invitalia avrebbe chiuso con un utile di circa 20 milioni, in linea con quello del 2019. Invece così è salito a 37 milioni e il comunicato stampa di Invitalia ha potuto trionfalisticamente salutare la crescita del 159%. Ed è stato questo prospetto a salvare forse Arcuri ed il suo consiglio dalla clamorosa bocciatura totale da parte dei revisori. Quella tabellina, nelle pieghe del bilancio, ridimensionando il risultato da 37 a 20 milioni, ha consentito ai revisori, pur clamorosamente negando la deroga invocata dagli amministratori, di valutare l'errore non così pervasivo e formulare un giudizio appena un gradino al di sotto della bocciatura senza appello. Così Arcuri è riuscito a depotenziare un uragano a un temporale estivo, non senza perdita di credibilità.

Domenico Arcuri, "chi lo ha richiamato al governo": Franco Bechis, la pesante soffiata politica. Libero Quotidiano il 25 luglio 2021. L’uomo simbolo del governo giallorosso è stato richiamato in servizio: Domenico Arcuri, ex commissario straordinario per il Covid in Italia, è tornato alla corte di Mario Draghi. Lo stesso Draghi che – poco tempo dopo l’insediamento a Palazzo Chigi - lo ha rimpiazzato col generale Figliuolo. Arcuri, in particolare, è stato invitato negli ambienti del governo in veste di amministratore delegato di Invitalia per “il monitoraggio dell'avanzamento finanziario e procedurale degli investimenti pubblici, per la mappatura del portafoglio di progetti finanziati in ottica Programma-Progetti, per la ricognizione di aree e progetti in criticità realizzativa da sottoporre ad azioni di supporto”. In altre parole, Arcuri avrà il compito di analizzare secondo un algoritmo ad hoc l'andamento e le eventuali criticità dei piani di investimenti pubblici: una funzione molto delicata visto che siamo alla vigilia della partenza del  Pnrr. Ecco perché il nuovo ruolo dell’ex commissario sarebbe ben pagato da Chigi: 4 milioni di euro, stando a quanto riporta il Tempo. Ma chi è stato a richiamarlo al governo? Stando al retroscena di Franco Bechis, sarebbe stato il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Bruno Tabacci, politico centrista e presidente della Regione Lombardia decenni fa. Si è parlato di Tabacci soprattutto a inizio anno quando collaborò con i cosiddetti responsabili per evitare la caduta del Conte II.  “Tabacci non ha grande simpatia per i due Matteo: né per Renzi né per Salvini. E da quando è a palazzo Chigi una ne pensa per fare irritare i due Matteo, e cento ne fa –scrive Bechis -. Pensando a Salvini ha pensato bene di richiamare in servizio come consulente sulla previdenza a palazzo Chigi la professoressa Elsa Fornero. Pensando a Renzi e anche a Salvini ora ha tolto dalla temporanea naftalina pure Arcuri assegnandogli una missione così delicata e centrale nell'attività di governo”.

Domenico Arcuri, "consulenza milionaria". Indiscreto: l'ex commissario Covid torna al governo. Libero Quotidiano il 25 luglio 2021. Non bastava Elsa Fornero. Ora il governo chiama come consulente anche Domenico Arcuri, l'ex commissario straordinario all'emergenza Covid. Un cortocircuito politico, visto che era stato il premier Mario Draghi, praticamente come primo atto una volta insediatosi a Palazzo Chigi, a defenestrare il braccio destro del suo predecessore Giuseppe Conte nella gestione della pandemia, risultata disastrosa, e a volere al suo posto il generale Francesco Paolo Figliuolo. Ora, dopo 6 mesi, per Arcuri arriva una nuova prestigiosa poltrona, a peso d'oro. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Bruno Tabacci, lo stesso che ha chiamato la Fornero, ha stipulato una convenzione da 4.094.062,12 euro (lo scriviamo in lettere: quattro milioni di euro e rotti) con Invitalia, vale a dire la società di cui Arcuri è amministratore delegato. Secondo quanto risulta al Giornale, la firma dell'accordo risale all'11 marzo 2021, "undici giorni dopo la nomina di Tabacci a sottosegretario di Palazzo Chigi con delega alla programmazione e al coordinamento della politica economica", ed è firmato "dalla dottoressa Francesca Maria Macioce, dirigente di prima fascia del Dipartimento con validità dal 31 marzo". Coincidenze temporale che danno alla vicenda l'amaro sapore del "contentino" per il siluramento appena avvenuto. Al danno si aggiunge la beffa, perché come spiega sempre il Giornale Invitalia dovrà "rafforzare la capacità delle strutture di governo per il monitoraggio dell'avanzamento finanziario e procedurale degli investimenti pubblici, per la mappatura del portafoglio di progetti finanziati in ottica Programmi-Progetti, la ricognizione di aree e progetti in criticità realizzativa, da sottoporre ad azioni di supporto, e per l'attuazione della strategia di sviluppo sostenibile all'interno del Cipess", Insomma, dovrà aiutare il premier e i ministri a spendere bene ed evitare gli sprechi. Proprio quelli di cui è stato accusato Arcuri, tra mascherine, banchi a rotelle e primule per la vaccinazione di massa partita con drammatico ritardo, per non parlare del disastro sul vaccino Reithera, la risposta italiana al virus. Sembra una barzelletta, non lo è.

Felice Manti per “il Giornale” il 26 luglio 2021. «Il governo Draghi richiama in servizio Domenico Arcuri per aiutare Palazzo Chigi a spendere meglio alcuni fondi. Ma siamo su Scherzi a parte?». La leader Fdi Giorgia Meloni non l'ha presa proprio bene quando ha letto sul Giornale che l'ex commissario straordinario al Covid Domenico Arcuri è stato scelto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Bruno Tabacci per una consulenza da 4 milioni di euro come numero uno Invitalia l'11 marzo 2021, dieci giorni dopo la nomina a sottosegretario di Palazzo Chigi. «Non può essere vero che il governo abbia affidato un compito così delicato ad uno dei protagonisti nella disastrosa gestione della pandemia - ha aggiunto la Meloni - un signore che ha speso malissimo i soldi degli italiani destinati all'emergenza, che ha perso mesi nella progettazione delle inutili e costosissime primule invece di organizzare una efficiente campagna vaccinale e che ha lasciato dietro di sé una gestione a dir poco opaca». E invece è così. Le ultime scorie del contismo continuano ad avvelenare l'immagine dell'esecutivo guidato da Mario Draghi. D'altronde Tabacci, e non è un caso, è stato lo sherpa che fino all'ultimo secondo si è speso (invano) con il Colle per trattare il Conte ter, coagulando un'armata Brancaleone di sedicenti responsabili pur di scongiurare l'arrivo dell'ex governatore della Banca centrale europea. Ed è lo stesso Tabacci che ha ingaggiato l'ex ministro Elsa Fornero come consulente del governo sulle pensioni per fare un dispetto al temporaneo alleato di governo, Matteo Salvini. Si scrive Arcuri, si legge Massimo D'Alema, che di quinte colonne nell'esecutivo ne ha addirittura due. L'altra è Roberto Speranza, ministro della Salute sempre meno decisivo nella strategia di contenimento del contagio, adesso che il cerchio magico della prima fase è stato quasi azzerato e che sull'esponente di Sel si sta allungando sempre di più l'ombra di un avviso di garanzia per epidemia colposa in arrivo dalla Procura di Bergamo, data per certa dopo la pausa estiva. Speranza è anche un fedelissimo di Giuseppe Conte, che con l'ex premier e lo stesso Arcuri ha condiviso la tragica gestione della pandemia, costata oltre 130mila morti soprattutto per l'assenza di un piano pandemico, fatto gravissimo di cui saranno chiamati a rispondere anche i vertici del ministero della Sanità dal 2014 a oggi, e per qualche acquisto che oggi sembra incauto, come i respiratori difettosi comprati dalla società che orbita intorno alla fondazione cinese di cui Baffino è vicepresidente. Sul fronte delle indagini, secondo fondi della Procura bergamasca, ai pm guidati da Antonio Chiappani manca solo la perizia del superconsulente, il virologo Andrea Crisanti, per chiudere il cerchio. Poi per gli ultimi Mohicani di Conte, rinchiusi a Palazzo Chigi come fosse Fort Alamo, saranno dolori. Lentamente Draghi sta sterilizzando la componente più riottosa all'interno dell'esecutivo, più vivo che mai nonostante i proclami belligeranti dei Cinque Stelle. D'altronde lo stesso Conte sa benissimo che non può staccare la spina all'esecutivo Draghi, e che i pizzini dell'avvocato del popolo spediti via Fatto quotidiano arrivati ieri («O si cambia o leviamo la fiducia») sono scritti con l'inchiostro simpatico, tanto che persino il povero Andrea Scanzi è rimasto con la tastiera in mano: «Stavo per scrivere: Era l'ora. Poi però leggo che Casalino smentisce. Mah!». Infatti è toccato al suo portavoce, da sotto l'ombrellone di Cala di Rosa Marina di Ostuni (Brindisi), sbugiardare il pezzo di prima pagina del quotidiano diretto da Marco Travaglio e dire che no, Conte non ha mai detto «o si cambia o leviamo la fiducia» ma anzi «sta lavorando per trovare una mediazione sulla giustizia», quasi a confermare - e sarebbe la prima volta che Travaglio ci azzecca - la profezia del direttore manettaro: «I 5s non li voteranno più nemmeno i parenti stretti». E le vedove inconsolabili già piangono.

Salvatore Dama per “Libero quotidiano” il 26 luglio 2021. Se c’è una certezza, quando, a inizio legislatura, ti ritrovi spaesato in transatlantico in mezzo a centinaia di facce nuove da memorizzare rapidamente, questa è Bruno Tabacci. Non si sa come, ma la sfanga sempre. Gli invidiosi potrebbero dire che è culo, il suo. Tuttavia, chi ne sa di politica, può spiegarti che non è così. Della sua prima vita pubblica, quella democristiana, si potrebbe dire molto, ma il racconto è poco appassionante. In realtà è negli Anni Dieci che Tabacci conclude un paio di operazioni, suggerite dalla disperazione, che gli fanno guadagnare il galloni del Super Saiyan. Difende il suo seggio parlamentare contro ogni pronostico. Altri sono finiti ai giardinetti. Lui sta sempre lì. Anticongiunturale. È il settembre del 2012 e Tabacci è l'assessore al bilancio della giunta Pisapia a Milano. Decide di candidarsi alle primarie del centrosinistra, lui che, fino a qualche anno prima, con l'Udc di Pierferdinando Casini, aveva sostenuto (criticamente) i governi di Silvio Berlusconi. Fioccano gli sberleffi. Nascono i «marxisti per Tabacci». Bruno perde. Ma fiuta una pista all'interno del disfacimento dell'Italia dei valori, il partito di Tonino Di Pietro. Ne aggancia un pezzo, fonda il partito Centro democratico e si presenta alle elezioni politiche del 2013. Ottiene la bellezza dello 0,49 per cento. Ma, grazie al premio di maggioranza garantito dal Porcellum alla coalizione vincente (il centrosinistra), prende un seggio al Senato e sei alla Camera. Uno per lui, ovviamente. È un mezzo miracolo. E, nel gennaio 2018, Tabacci ne fa un altro. Mette a disposizione il suo simbolo a Emma Bonino, permettendo a +Europa di presentarsi alle elezioni senza l'obbligo di raccogliere le firme. In cambio Bruno si prende un collegio uninominale blindato (Lombardia 1-12) e viene rieletto. Di nuovo. Contro ogni previsione. Della vita precedente nella Democrazia cristiana si è detto. La sua carriera comincia presto, a metà degli anni Ottanta, quando dirige l'ufficio studi del ministero dell'Industria con Giovanni Marcora. In seguito è il capo della segreteria tecnica del ministro del tesoro Giovanni Goria. Quindi aderisce alla corrente di Ciriaco De Mita, ne diventa la colonna milanese. È prima consigliere comunale, poi consigliere regionale, infine presidente della Regione Lombardia. A 41 anni. L'esordio in Parlamento è nel 1992 con la Dc. Poi una pausa, in cui è consigliere d'amministrazione di Eni, Snam, Efibanca e presidente dell'Autostrada A15 Cisa. Quindi ritorna a Montecitorio con il Ccd. Esce pulito da Tangentopoli. E riesce a rimanere indenne anche dalla clamorosa inchiesta sulla sua bellissima ex fiancée Angiola Armellini, accusata di aver nascosto al fisco 1.243 appartamenti. E arriviamo ai giorni nostri. Con questo blasone finora descritto, è ovvio che, quando si presenta da Giuseppe Conte, rendendosi disponibile a trovargli i numeri per formare un governo ter, l'avvocato abbocca con tutto il ciuffo. E invece stavolta Tabacci fa flop. Deve rimediare 47 voti, tra Camera e Senato, per surrogare i seggi in uscita dei renziani. Bruno incontra, telefona, seduce, promette, ma non convince. L'operazione della "quarta gamba" rimane zoppa, nonostante il Quirinale conceda a Conte un surplus di tempo per cercare i "costruttori". Alla fine Giuseppi è costretto alle dimissioni, Sergio Mattarella incarica Mario Draghi. E sorpresa: Tabacci sale subito sulla nuova macchina presidenziale. «Draghi? È superman, lo conosco dai tempi della Prima Repubblica». Finisce come al solito: Tabacci casca in piedi. È campione olimpionico di questa disciplina. Draghi lo premia con un sottosegretariato alla Presidenza del Consiglio. Ha la delega alla programmazione economica. E, in questa posizione, Bruno non si scorda degli amici. L'8 luglio istituisce un consiglio d'indirizzo con il compito, a titolo gratuito, di «orientare, potenziare e rendere efficiente l'attività programmatica in materia di coordinamento della politica economica presso il Dipe». E ci ficca dentro Elsa Fornero. Nelle ultime ore, invece, è venuta fuori la notizia di un altro ripescaggio illustre: Domenico Arcuri. Avrà una convenzione per conferire assistenza sul «monitoraggio dell'avanzamento finanziario e procedurale degli investimenti pubblici, per la mappatura del portafoglio di progetti finanziati in ottica Programma-Progetti, per la ricognizione di aree e progetti in criticità realizzata da sottoporre ad azioni di supporto». Tabacci riciccia Arcuri e Fornero. Facendo infuriare la Lega. Non senza godimento (il suo). 

Il regalo di Tabacci ad Arcuri "Consulenza da 4 milioni". Felice Manti il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. La convenzione con Invitalia firmata a marzo "per aiutare Palazzo Chigi a spendere meglio alcuni fondi". A volte ritornano, a volte non se ne sono mai andati. Non bastava l'ingaggio di Elsa Fornero come consulente del governo sulle pensioni. Prendete Domenico Arcuri, per esempio. L'ex commissario straordinario al Covid e numero uno Invitalia, rimasto ormai uno degli ultimi Mohicani di Conte, è quello a cui ha pensato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Bruno Tabacci quando si è trattato di fare una convenzione da 4.094.062,12 euro con Invitalia. La firma, secondo un documento in mano al Giornale, porta la data dell'11 marzo 2021, undici giorni dopo la nomina di Tabacci a sottosegretario di Palazzo Chigi con delega alla programmazione e al coordinamento della politica economica, ed è firmato dalla dottoressa Francesca Maria Macioce, dirigente di prima fascia del Dipartimento con validità dal 31 marzo. Ma qual è esattamente il compito di Arcuri e della «sua» Invitalia? «Rafforzare la capacità delle strutture di governo per il monitoraggio dell'avanzamento finanziario e procedurale degli investimenti pubblici, per la mappatura del portafoglio di progetti finanziati in ottica Programmi-Progetti, la ricognizione di aree e progetti in criticità realizzativa, da sottoporre ad azioni di supporto, e per l'attuazione della strategia di sviluppo sostenibile all'interno del Cipess», pessimo acronimo che sta appunto per Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile. Quando in ballo ci sono poltrone e consulenze il cerchio magico della sinistra si stringe intorno agli amici e voilà. Arcuri passerà alla storia per la lentezza del piano vaccinale, i banchi a rotelle comprati per scongiurare la Dad e rimasti «chiusi» dentro le scuole deserte causa lockdown, lo strascico giudiziario legato all'acquisto, durante la pandemia, di mascherine e i dispositivi di sicurezza, strapagati anche se a volte inutilizzabili come nel caso dei respiratori acquistati dalla Fondazione cinese in cui c'è come vicepresidente Massimo D'Alema, che del supermanager calabrese è mentore e amico da una vita. Fino alla sonora bacchettata della Corte dei Conti per come Arcuri ha gestito con soldi pubblici il vaccino Reithera, (anche se i risultati della fase due sono molto promettenti) beffando persino i 900 volontari della sperimentazione, che hanno gli anticorpi ma non il green pass. Soltanto l'altro giorno è spuntata la storia del bilancio di Invitalia «macchiato» dell'alchimia contabile della svalutazione immobiliare fatta passare come utile: legittimamente, secondo la legge; in maniera inopportuna, secondo i revisori dei conti indipendenti di Deloitte. Ma tant'è. Ora, si può legittimamente pensare che Palazzo Chigi abbia bisogno della consulenza di Arcuri per sapere come spendere meglio i soldi, legittimo dare 4 milioni di euro a una società pubblica come Invitalia per fare un lavoro per conto del governo che sarà certamente prezioso ma la disastrosa gestione della pandemia da parte di Arcuri (sempre che i guai giudiziari che lo hanno sfiorato non investano in pieno la sua figura) non lascia ben sperare. Felice Manti

"Gonfiato il bilancio Invitalia". Ennesima tegola su Arcuri. Fabrizio Boschi il 22 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex commissario al Covid nel mirino di Deloitte che vigila sulla società del Tesoro: "ballano" 20 milioni. Doveva essere il supermanager scelto da Giuseppe Conte per salvare l'Italia. E invece Domenico Arcuri, da quando è passato agli onori delle cronache per essere stato nominato commissario straordinario per l'emergenza Covid-19, ha collezionato solo una figuraccia dietro l'altra. E dopo che ha terminato il suo incarico, rimpiazzato dal generale Figliuolo, ha continuato nella sua raccolta di grane. L'ultima riguarda Invitalia, che amministra dal 2007, ovvero l'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, partecipata al 100% dal ministero dell'Economia e delle finanze. Ebbene, come scrive la Stampa.it, la società di revisione dei conti Deloitte, alla quale sono affidati i giudizi sui bilanci di Invitalia e che, tra l'altro, ha gestito il riassetto dell'ex Ilva e il salvataggio della Pop di Bari, stanga il dirigente calabrese riscontrando alcune irregolarità. Per i revisori, nel bilancio 2020 mancano 20,5 milioni di perdite. Secondo la critica di Deloitte, gli utili della società pubblica sarebbero stati 16,4 milioni e non i 36,9 annunciati da Arcuri e approvati «senza rilievi» dall'assemblea degli azionisti. Cioè dal Mef, unico azionista, al 100%. Questi 20,5 milioni che ballano sarebbero legati alle svalutazioni degli immobili che rientrano nel piano di dismissioni di Invitalia. Secondo i revisori tali rettifiche sono state inserite dalla società, volontariamente ed erroneamente, «nel prospetto della redditività complessiva anziché nel conto economico» come previsto dai princìpi «Ifrs» adottati dall'Ue. E ciò, sempre secondo Deloitte, «costituisce una deviazione rispetto a tali princìpi, in quanto non ricorrono le circostanze previste per la deroga dalla loro applicazione». Insomma, Invitalia ha inserito le svalutazioni immobiliari in una riserva di patrimonio netto, quando per i revisori avrebbe dovuto riportarle nel conto economico, con un impatto negativo sul bilancio di 20,5 milioni. Deloitte è tra l'altro ben nota ad Arcuri, che dal 2002 è stato partner della Consulting e dal 2004 amministratore delegato. Strano che non ne condivida i princìpi. Eppure nella sua relazione Deloitte specifica che il bilancio 2020 di Invitalia «fornisce una rappresentazione veritiera e corretta della situazione patrimoniale e finanziaria del gruppo, ad eccezione degli effetti di quanto descritto nella sezione elementi alla base del giudizio con rilievi». L'azienda ha quindi scelto di contabilizzare la svalutazione degli immobili nel patrimonio netto anziché a conto economico. In disaccordo con i revisori il collegio sindacale di Invitalia si giustifica dicendo che «il bilancio è stato redatto in conformità ai principi contabili internazionali, salvo la deroga prevista dall'articolo 47 del decreto Rilancio del maggio 2020». Una considerazione che, come visto, non trova d'accordo i revisori dei conti della società pubblica e che, una volta in più, accende il faro sulle manovre, in questo caso contabili, di Arcuri, già noto nel governo Conte per i suoi disastri. Nel novembre 2020 si occupa della trattativa per verificare le condizioni per la sottoscrizione di un nuovo accordo sulla governance dell'ex Ilva, poi fallito, con l'ingresso del ministero dell'Economia, attraverso Invitalia, nel capitale sociale delle acciaierie tarantine. Un altro suo clamoroso fallimento quello dei famigerati banchi a rotelle voluti dalla ministra dell'Istruzione Lucia Azzolina, ma lo scandalo più eclatante che lo riguarda è quello sulla fornitura di mascherine cinesi che ha portato alla sua iscrizione nel registro degli indagati per peculato. Adesso un'altra medaglia al demerito si aggiunge alla sua sfavillante carriera. Fabrizio Boschi

Domenico Arcuri, rosso da 20 milioni di euro: nascosto le perdite di Invitalia? Stefano Re su Libero Quotidiano il 22 luglio 2021. Un imbellettamento dei conti, in sostanza. Il cui risultato è aver fatto risultare in capo a Invitalia, l'agenzia statale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, un utile di 36,9 milioni di euro (presentato ufficialmente come «il risultato di esercizio più positivo dell'ultimo decennio»), anziché di 16,4 milioni. Motivo per cui Deloitte, pregiata società di revisione dei conti con sede italiana a Milano e casa madre a Londra, ha espresso un «giudizio con rilievi» sui numeri del bilancio consolidato del 2020 di Invitalia, che appartiene al centro per cento al ministero dell'Economia e al cui capo c'è l'amministratore delegato Domenico Arcuri. La notizia l'ha pubblicata ieri il quotidiano La Stampa, e pare aggiungere un altro tassello alle recenti sventure dello stesso Arcuri. Il giudizio «con rilievi» è comunque positivo, ma tramite esso il revisore fa sapere di aver ravvisato una mancanza di conformità alle norme con cui il bilancio è stato redatto. Tutta la questione ruota attorno alla svalutazione degli immobili che il gruppo Invitalia ha in programma di dismettere. Il loro valore, anche in seguito agli effetti della pandemia e a tutto ciò che ne è seguito, è stato rettificato, cioè ridotto, per una cifra pari a 20,5 milioni di euro. Dove conteggiare quelle svalutazioni? La società di revisione non ha dubbi: le regole internazionali adottate dall'Unione europea prescrivono che esse siano inserite nel conto economico. Ossia nel documento che riporta tutti i ricavi e i costi dell'esercizio, dalla cui differenza si ricava l'utile (se le entrate superano le uscite) o le perdite (nel caso opposto). In altre parole, avrebbero dovuto essere considerate come vere e proprie uscite. Se Invitalia avesse fatto così, da quei 36,9 milioni di euro avrebbero dovuto essere sottratti i 20,5 milioni delle svalutazioni immobiliari. L'utile si sarebbe più che dimezzato scendendo, appunto, a 16,4 milioni. E addio all'esercizio «più positivo dell'ultimo decennio» e ai «risultati eccellenti anche in un anno così difficile», con cui Arcuri si è appuntato la medaglia al petto.

REDDITIVITÀ COMPLESSIVA. I contabili di Invitalia, ovviamente d'intesa con i vertici della società che hanno firmato i documenti, hanno invece inserito quelle svalutazioni nel prospetto della redditività complessiva, che è un documento diverso, usato per scattare una fotografia del patrimonio netto della società in un particolare momento. Secondo Deloitte, tale scelta è sbagliata e «costituisce una deviazione» rispetto ai principi da adottare, «in quanto non ricorrono le circostanze previste per la deroga dalla loro applicazione». E a dimostrazione che per Arcuri il momento non sia dei migliori, sono arrivate anche le scelte del generale Francesco Paolo Figliuolo, che ha preso proprio il posto di Arcuri come commissario straordinario all'emergenza Covid. Come notato dalla fondazione Openpolis in uno studio, il generale ha reso pubblici i pagamenti effettuati negli ultimi sei mesi dalla struttura che presiede. «Andando ad analizzare il rendiconto, tuttavia, scopriamo che non si tratta dei pagamenti per le forniture acquistate dal commissario nel primo semestre del 2021, ma solo a partire dal 1° marzo, ossia il giorno in cui Figliuolo ha ufficialmente sostituito il predecessore». Figliuolo ha voluto dare alla propria gestione una contabilità separata da quella di Arcuri, col chiaro scopo di evitare ogni commistione. Lo stesso Figliuolo, parlando dinanzi ai deputati un mese fa, aveva spiegato di aver avviato una ricognizione di 200 contratti siglati da Arcuri, per circa 2,2 miliardi di euro, e di avere «avviato diverse azioni volte a esplorare ogni margine di rinegoziazione degli impegni assunti, ovvero, ove possibile, a risolvere consensualmente i contratti già stipulati». La presa di distanza non potrebbe essere più netta. 

Ma l'azienda: "Dal Tesoro nessun rilievo". Arcuri, dopo mascherine e Reithera nuove accuse sui conti di Invitalia: nel bilancio mancano 20,5 milioni di perdite. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Luglio 2021. Non bastavano i flop su mascherine, banchi scolastici a rotelle e, ultimo in ordine di tempo, quello sulla bocciatura da parte della Corte dei Conti del finanziamento di Stato per il vaccino Reithera. Su Domenico Arcuri, amministratore delegato di Invitalia ed ex commissario all’emergenza Covid scelto da Giuseppe Conte, arriva anche la "scure" di Deloitte. La nota società di revisione dei conti, alla quale sono affidati i giudizi sui bilanci di Invitalia, società che ricordiamo è partecipata al 100% dal ministero dell’Economia e delle finanze, ha riscontrato alcune ‘irregolarità’ nei conti dell’azienda guidata dal manager calabrese. Nel bilancio 2020 secondo Deloitte, scrive La Stampa, mancano 20,5 milioni di perdite; altra anomalia registrata dai revisori dei conti riguarda gli utili della società, che sarebbero stati 16,4 milioni e non i 36,9 annunciati da Arcuri e approvato dall’assemblea degli azionisti del 20 luglio. Renzi alza i toni su Arcuri, chiesta commissione d’inchiesta: “Indagare sul miliardo e mezzo speso, qualcuno si è arricchito in modo illecito?” Gli oltre 20 milioni che mancano all’appello sarebbero legati a svalutazioni di immobili rientrati nel piano dismissioni di Invitalia. Deloitte critica la scelta della società di inserire tali rettifiche volontariamente ed erroneamente “nel prospetto della redditività complessiva anziché nel conto economico come previsto dai princìpi ‘Ifrs’ adottati dall’Unione Europea. Quelle svalutazioni inserite una riserva di patrimonio netto, secondo Deloitte, andavano invece riportate nel conto economico con un impatto negativo sul bilancio per oltre venti milioni di euro.

D’altra parte comunque Deloitte sottolinea che il bilancio 2020 approvato rappresenta in maniera “veritiera e corretta” la situazione patrimoniale e finanziaria del gruppo, ad eccezione appunto della questione immobili svalutati.

Le considerazioni critiche dei revisori sono rigettate però dal collegio sindacale di Invitalia, che Arcuri guida dal 2007, per cui il bilancio “è stato redatto in conformità ai principi contabili internazionali, salvo la deroga prevista dall’articolo 47 del decreto Rilancio del maggio 2020”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Camilla Conti per "La Verità" l'8 giugno 2021. «Arcuri ha fatto un lavoro straordinario nonostante critiche ingenerose e spesso strumentali, ha permesso all'Italia di partire con il piede giusto nella fase in cui dovevamo fare i conti con la mancanza dei vaccini e comunque anche allora eravamo tra i primi in Europa». Così ha detto l'ex premier Giuseppe Conte nell'intervista pubblicata ieri dal Corriere della Sera commentando la gestione dell'ex commissario per l'emergenza Covid, Domenico Arcuri, e precisando che «la situazione oggi è molto diversa». Solo che il successore, Francesco Paolo Figliuolo, nominato il primo marzo, ha dovuto non solo rimediare agli errori commessi dal suo predecessore ma anche gestire un'eredità complicata dal punto di vista finanziario. Tanto che ieri, nel corso dell'audizione tenuta davanti alla commissione Bilancio della Camera sul dl Sostegni bis, il generale ha fatto un passaggio sulla gestione precedente e ha illustrato la spending review portata avanti dalla struttura commissariale per ottimizzare le risorse a disposizione che garantirà un risparmio di 345 milioni. Tra questi tagli spicca l'annullamento della costruzione dei padiglioni per la vaccinazione, le cosiddette «primule», che avrebbe portato un risparmio di 189 milioni. Figliuolo ha infatti presentato l'attività finanziaria e amministrativa del commissariato per l'emergenza. E lì sono cominciate le stoccate: «Fin da subito, quale primo input all'atto dell'assunzione del mio incarico, ho dato impulso tramite il mio staff a tutte le azioni necessarie al pagamento delle spese insolute derivanti da attività negoziali perfezionate dalla precedente struttura, al fine di dare respiro al tessuto imprenditoriale del Paese già gravemente provato dagli effetti economici dell'emergenza in atto». In tale contesto, «si è provveduto al pagamento di oltre 1,6 miliardi di euro per lo più riferiti a impegni di spesa precedentemente assunti. L'intendimento è quello di recuperare il ritardo accumulato nelle tempistiche di pagamento e onorare gli impegni nei tempi previsti contrattualmente», ha sottolineato il generale. Che appena arrivato ha dovuto fare ordine sul fronte finanziario. Ha subito avviato una ricognizione dei contratti operanti, e degli impegni presi da Arcuri, dalla fornitura di dispositivi di protezione ai gel disinfettanti, dai kit diagnostici alle spese di logistica. Parliamo di «oltre 200 contratti operanti per cui risultano impegni assunti in termini sia di fatture già emesse, sia di fatture ancora da emettere, per oltre 2,2 miliardi», ha spiegato Figliuolo. Il nuovo commissario ha dovuto da un lato definire il fabbisogno puntale «per raggiungere gli obiettivi della campagna senza intervenire con ulteriori provvedimenti» e dall'altro «minimizzare gli impatti su finanza pubblica assicurando una migliore allocazione risorse». È così emersa un'esigenza complessiva di circa 1,65 miliardi di euro. E su questa base è partita un'analisi di merito delle attività contrattuali in un'ottica di razionalizzazione e di spending review. Arrivando a risparmiare i 345 milioni. In che modo? Quasi 190 milioni sono stati tagliati facendo «seccare» le primule, ovvero annullando la procedura di gara per i padiglioni. Sono poi stati rinegoziati i prezzi praticati per lo stoccaggio delle merci con un risparmio di 22 milioni al mese a decorrere da marzo, quelli per la fornitura di aghi e siringhe con un risparmio di 1,5 milioni complessivi, sono stati ridotti i contratti per le forniture delle tute monouso con un risparmio di 44,5 milioni complessivi. In aggiunta, «sono state intraprese azioni per ottimizzare le spedizioni aeree dai Paesi extra Ue usando il criterio del pieno carico degli aeromobili, pianificando i trasporti aerei in termini qualitativi dedicandoli quasi esclusivamente al materiale correlato alla campagna vaccinale e provvedendo al trasporto del restante materiale con un più economico trasporto su rotaia. E un'attenta analisi ha pressoché azzerato gli extra costi per le spedizioni urgenti», ha aggiunto Figliuolo. Che punta all'effetto combinato tra questa spending review e l'articolo 34 del dl Sostegni bis dedicato alle disposizioni urgenti in materia di salute che garantisce la massima flessibilità da parte del commissario straordinario circa l'utilizzo delle risorse disponibili (1,65 miliardi autorizzati per il 2021). Effetto che può appunto determinare un minor fabbisogno di nuovi soldi pubblici. Ma c'è un problema. Perché nel decreto si precisa che queste risorse pari a 1,65 miliardi sono trasferite previa presentazione del rendiconto amministrativo della struttura commissariale. Figliuolo si impegna a dare evidenza delle spese effettuate e degli impegni relativi al suo periodo di gestione, ma per i mesi precedenti lo deve fare l'ex commissario. «Credo ci voglia un intervento normativo in sede di conversione» del dl Sostegni bis «perché per il pregresso ognuno è responsabile di ciò che ha fatto. Ancorare l'utilizzo delle risorse al fatto che una struttura debba presentare un rendiconto di un'altra struttura non mi sembra coerente con i principi contabili generali», ha dunque sottolineato il generale. Precisando che per il pregresso, «la Ragioneria generale ha dato mandato alla ragioneria territoriale di Roma di acquisire il rendiconto amministrativo dal mio predecessore». Insomma, manca all'appello il consuntivo di quel «lavoro straordinario», Conte dixit, fatto da Domenico Arcuri.

François de Tonquédec per "La Verità" il 26 maggio 2021. Fino all'anno scorso, la carriera di Domenico Arcuri, dal 2007 ad di Invitalia, società controllata del Mef, era stata sostanzialmente lontana dai riflettori e dagli inciampi giudiziari. A eccezione di un'iscrizione sul registro degli indagati della Procura di Civitavecchia per abuso d'ufficio, relativo al mancato esercizio di un diritto di prelazione legato alla partecipazione, precedente alla nomina di Arcuri, di Italia navigando, una controllata Invitalia poi messa in liquidazione, nel porto di Fiumicino, i cui lavori dovevano essere svolti da una società del gruppo Acqua marcia, del finanziere Francesco Bellavista Caltagirone. Da quando l'ex premier Giuseppe Conte ha scelto di trasformarlo nel Signor Wolf del suo secondo governo, a cui affidare la risoluzione di gran parte dei problemi che esponevano mediaticamente Palazzo Chigi, dal Covid al salvataggio dell'Ilva di Taranto, passando per la Banca popolare di Bari, per Arcuri sono cominciati i guai. In primo luogo mediatici, complice anche una scarsa attitudine a rispondere alle domande sgradite, liquidate con frasi memorabili come «penso di avere, ma di non aver voglia di divulgarle, comunicazioni sufficienti a giustificare, ammesso che si debba giustificare che noi abbiamo comprato siringhe che sono molto più performanti di altre». Ma anche giudiziari, a partire dalla doppia iscrizione sul registro degli indagati nell'inchiesta delle Procura di Roma sulla maxi commessa da 800 milioni di mascherine cinesi ordinate dalla struttura commissariale per l'emergenza Covid allora retta da Arcuri e costate alle tasche dei cittadini 1,25 miliardi di euro. Dopo la segnalazione di operazione sospetta da parte della Banca d'Italia sui movimenti dei mediatori della fornitura, ripagati dalle aziende cinesi fornitrici con provvigioni milionarie, parte l'indagine da parte dei pm capitolini. Inizialmente, il 9 novembre scorso, iscrivono sul registro degli indagati Arcuri e Antonio Fabbrocini, dirigente di Invitalia «prestato» alla struttura commissariale, con l'ipotesi di reato di corruzione. Il primo dicembre in un'annotazione indirizzata ai pm, il Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza suggerisce la perquisizione dell'abitazione e dell'ufficio di Fabbrocini, oltre a quella dei mediatori e di altre persone coinvolte nell'inchiesta. Tre giorni dopo, gli uomini delle fiamme gialle si recano a casa dei mediatori, il giornalista in aspettativa Mario Benotti, l'imprenditore milanese Andrea Tommasi, il finanziere sammarinese Daniele Guidi e il trader ecuadoriano Jorge Solis e di altre persone, anche non indagate, coinvolte nella vicenda, per svolgere le perquisizioni richieste. Ma il giorno prima il reato è cambiato in traffico di influenze illecite e le posizioni di Arcuri e Fabbrocini sono state oggetto di uno «stralcio totale», con annessa richiesta di archiviazione, dagli esiti a oggi ancora ignoti. Ad aprile, come un fiume carsico, un pezzo dell'indagine che punta verso funzionari pubblici, riemerge dai contenuti di una richiesta di rogatoria internazionale inviata dai magistrati romani ai colleghi della Repubblica di San Marino, relativa ai conti correnti di Guidi e rivelata in esclusiva dalla Verità. Il reato stavolta è quello di peculato e gli indagati sono di nuovo Arcuri e Fabbrocini. Sulle mascherine della maxi fornitura sta indagando, contro ignoti, anche la Procura di Gorizia, che nei mesi scorsi ha sequestrato 115 milioni di mascherine, il residuo di una fornitura da 250 milioni di pezzi. Provvedimenti disposti dopo che esami di laboratorio disposti dalla Procura hanno stabilito che «la capacità filtrante è risultata essere addirittura dieci volte inferiore rispetto a quanto dichiarato, con conseguenti rischi per il personale sanitario che le aveva utilizzate». Tra i 12 produttori delle mascherine oggetto di sequestro, almeno sette corrispondono, secondo l'elenco dei dispositivi validati dal Cts, a fabbricanti riconducibili solo alle tre aziende fornitrici della maxicommessa. Arcuri però non si trova addosso solo gli occhi della giustizia penale, ma anche di quella contabile, che sta svolgendo verifiche sulle siringhe luer lock volute dall'ex commissario e difese a oltranza con dichiarazioni come quella sopra ricordata. Siringhe in larga misura cinesi, che in virtù del prezzo più alto rispetto ai modelli tradizionali sono state pagate circa 10 milioni di euro. La Corte dei conti vuole accertare se per somministrare il vaccino anti Covid prodotto da Pfizer non potessero bastare dispositivi standard, assai più economici e che il nostro Paese produce in abbondanza. Inizialmente l'allora commissario aveva sostenuto che si trattava di una richiesta del produttore del vaccino, che però ha negato la ricostruzione dell'ex commissario. L'ultima grana giudiziaria è arrivata ancora dalla Corte dei conti, che pochi giorni fa ha bocciato l'accordo sottoscritto a febbraio tra il Mise, Invitalia e Reithera, azienda di Castel Romano che doveva sviluppare un vaccino contro il Covid. Un accordo che le toghe contabili ritengono debole rispetto all'investimento sulla produzione del vaccino mentre veniva dato troppo spazio a un rafforzamento generale dell'azienda, compreso l'acquisto della sua sede. Mario Draghi ha affidato l'emergenza Covid in altre mani, ma ad Arcuri, al meno per ora, rimangono in mano gli altri dossier che erano affidati a Invitalia, a cominciare dall'Ilva.

L'ex commissario nel mirino dopo il “flop” Reithera. Renzi alza i toni su Arcuri, chiesta commissione d’inchiesta: “Indagare sul miliardo e mezzo speso, qualcuno si è arricchito in modo illecito?” Carmine Di Niro su Il Riformista il 24 Maggio 2021. Domenico Arcuri, incassata la bocciatura da parte della Corte dei Conti del finanziamento alla società Reithera per un vaccino ‘italiano’, con gli 81 milioni di euro (di cui 41 a fondo perduto) bloccati dai magistrati contabili sancendo la sconfessione del progetto dell’allora commissario all’emergenza Covid-19, è ora accerchiato. Contro l’uomo scelto dall’ex premier Giuseppe Conte per gestire le emergenze legate alla pandemia, poi ‘licenziato’ da Mario Draghi, è entrato a gamba tesa il leader di Italia Viva Matteo Renzi. Il senatore ha lanciato domenica, in una intervista a La Stampa, la proposta di una commissione d’inchiesta parlamentare su “quel miliardo e mezzo di euro spesi dal commissario Arcuri” nel pieno dell’emergenza Covid. L’amministratore delegato di Invitalia finisce nel mirino non solo di Renzi ma anche del centrodestra, che sposa l’idea di Renzi di istituire una commissione sul lavoro svolto da Arcuri e sull’uso dei soldi pubblici della struttura commissariale. Ma cosa aveva detto Renzi domenica? Sotto la lente d’ingrandimento di Renzi finiscono “quel miliardo e mezzo di euro spesi dal commissario Arcuri tra siringhe speciali, gel, ventilatori cinesi acquistati grazie ai buoni uffici dell’onorevole D’Alema ma non funzionanti, mascherine spesso non a norma, banchi a rotelle”. Insomma, si chiede l’ex premier, “mentre gli italiani morivano di Covid c’è stato qualcuno che si è arricchito in modo illecito?”, lanciando l’amo alle altre forze politiche che, secondo Renzi, sono state “in silenzio”. Appello raccolto dall’ala sovranista del centrodestra, con dei distinguo. Il deputato di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro spiega infatti che Renzi “arriva in ritardo. C’è già una proposta di legge, a mia prima firma e depositata da tempo alla Camera. Se aderisse, ne saremmo più che felici”. Non è contraria la Lega, che tramite il senatore Stefano Candiani spiega che quella del leader di Italia Viva “è una posizione di cui tenere assolutamente conto”, mentre si chiede “come mai non se ne siano ancora occupate le procure, che sono invece così zelanti nei confronti di Matteo Salvini”. Più morbida sul tema Forza Italia, che chiede la precedenza alla commissione d’inchiesta sulla giustizia. Ma è dagli ‘ex’ alleati del governo Conte II che arrivano le reazioni più dure contro la proposta di Renzi. “Desolante che a Renzi siano rimaste solo le commissioni d’inchiesta da fare con il centrodestra”, attacca Sandra Zampa, ex sottosegretario alla Salute in quota Pd e oggi consigliera del ministro Speranza, che contesta al leader di IV che all’epoca “era al governo con noi, farebbe bene a chiedere una testimonianza alle ex ministre Bellanova e Bonetti”. Dai Cinque Stelle il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri tenta di placare gli animi, “serve massima trasparenza, ma immagino che la struttura commissariale chiarirebbe ogni cosa senza problemi”, mentre il vice capogruppo in Senato Andrea Cioffi usa toni più duri e chiede a Renzi di far sapere “cosa pensa dei vitalizi o perché percepisca compensi da enti legati all’ Arabia Saudita”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il vero prezzo dell'incompetenza. Marco Zucchetti il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. Non esiste una formula matematica per creare il governo perfetto, ma di sicuro la prima operazione da fare è la sottrazione. Non esiste una formula matematica per creare il governo perfetto, ma di sicuro la prima operazione da fare è la sottrazione. In questi giorni di grande ottimismo, mentre i dati sul contagio in Italia finalmente crollano e quelli sugli immunizzati decollano e si parla di «ritorno alla normalità», il dibattito è su quanta parte di questo successo sia attribuibile direttamente a Mario Draghi. A fronte di una celebrazione bipartisan, interclassista e internazionale - ieri Bloomberg ricordava che il premier «ha dato all'Italia una statura in Europa senza precedenti negli ultimi anni» -, c'è chi dubita dell'effettiva portata della sua azione. Tutto più facile, dicono, quando dopo mesi di magra piovono milioni di dosi di vaccini, i partiti ti si accovacciano ai piedi come setter davanti al camino e l'Europa ti guarda con gli occhi dell'amore. Piuttosto vero, come ammesso dallo stesso Draghi. Ma il vero tema è: alle stesse condizioni, un altro conducator avrebbe ottenuto lo stesso risultato? Ed è qui che la tanto agognata uscita dal tunnel, il «riveder le stelle» dantesco che stiamo vivendo in questi giorni, si incrocia con il fantasma dei governi passati. Ieri la Corte dei Conti ha spiegato perché ha dovuto bloccare il finanziamento di 81 milioni a ReiThera, il vaccino italiano. I giudici lo hanno fatto perché la struttura commissariale (cioè Domenico Arcuri) aveva pasticciato sulla destinazione dei fondi. Un errore. Ma solo l'ultimo di una lunga serie che - fra banchi a rotelle, Primule, mascherine farlocche, app di tracciamento, ecc. - è costata all'Italia 1,4 miliardi di euro. Non il costo di un caffè alla buvette, né di un'auto blu, né tanto meno di un palazzo ministeriale, per rimanere nell'universo degli anti-casta. No, esattamente quanto perso dal settore turismo nelle vacanze di Pasqua, oppure quanto stanziato dal Conte bis per la ricerca nel decreto Rilancio 2020. La risposta, a questo punto, dovrebbe essere chiara. Con il mare contro, non c'è skipper che riesca a volare, ovvio. Ma in condizioni perfette, uno skipper decente veleggia bene; uno inesperto, che si circonda di sottufficiali mediocri ed è troppo concentrato sul decidere se in foto al timone viene meglio di fronte o di profilo, rimane comunque alla fonda. Draghi al momento non ha ancora dato prova di essere l'ammiraglio Nelson, dipingerlo come genio, eroe o messia non fa un buon servizio alla verità. Ma ha un merito innegabile: ha rilasciato la zavorra. Ha spazzato via la ridda di amichetti e clienti che il suo predecessore aveva dovuto piazzare nei gangli della gestione dello Stato. Struttura commissariale, Protezione civile, Anpal, Cts, servizi segreti: ad ogni posto di combattimento, un uomo (o donna) all'altezza, a dispetto di amicizie e pressioni partitiche. Una sottrazione, appunto, che ha liberato le energie organizzative e portato a un trionfo «logistico», come ricordato dal premier. Parola borghese e impiegatizia, ma che mai è suonata così entusiasmante. Perché finora l'unico vero merito di Draghi è questo: aver rimesso l'efficienza al centro di uno Stato minimo, sostituendo la piacioneria barocca di Conte e della sua corte con una managerialità gestionale e meritocratica poco emozionante, ma molto efficace. È riuscito a farlo perché - grazie all'ombrello del Quirinale - può permettersi di ignorare le grida a salve dei leader politici che lo sostengono obtorto collo, ma il risultato in soldoni è pesante: la cancellazione della «tassa dell'incompetenza», che - euro più, euro meno - vale 1,4 miliardi. Più che di rischio ragionato, forse bisognerebbe parlare di successo calcolato.

Dalle mascherine alle Primule. Il commissario degli sprechi ci è costato più di 1,4 miliardi. Lodovica Bulian il 22 Maggio 2021 su Il Giornale. L'investimento da 81 milioni di euro approvato dall'ex commissario all'emergenza Domenico Arcuri per finanziare il vaccino anti covid di ReiThera non era "valido" né "sufficiente" secondo la Corte dei Conti, che ha bloccato lo stanziamento. L'investimento da 81 milioni di euro approvato dall'ex commissario all'emergenza Domenico Arcuri per finanziare il vaccino anti covid di ReiThera non era «valido» né «sufficiente» secondo la Corte dei Conti, che ha bloccato lo stanziamento. Ma non è l'unica ombra sulle spese autorizzate da Arcuri - che aveva il potere di agire in deroga alle normali procedure - in piena emergenza Covid. Anche se il decreto Cura Italia aveva previsto che gli atti dei «contratti relativi all'acquisto di beni» per far fronte alla pandemia fossero «sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione. Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è comunque limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario», sono diversi i fascicoli che sono stati aperti, tra Corte dei Conti e la Procura di Roma. I dubbi riguardano circa un miliardo e mezzo di euro di spese dell'ex commissario (per l'esattezza, 1,42 miliardi). Sono ancora accese le polemiche sui banchi con le rotelle costati 95 milioni di euro (che si sommano alla spesa per i banchi tradizionali pari a 300 milioni), che erano stati richiesti dal ministro Lucia Azzolina per la ripartenza a settembre e che Arcuri aveva il compito di reperire sul mercato. Molti sono arrivati quando gli istituti erano già chiusi per le zone rosse, e secondo stime non ufficiali il 50 per cento non sarebbe mai stato utilizzato. Diversi esposti erano arrivati alla Corte dei Conti. Anche l'Anac aveva inviato una segnalazione ai magistrati contabili, ma per il prezzo di acquisto dei banchi tradizionali: «Per quanto riguarda i banchi e le sedute tradizionali il prezzo di affidamento si è rivelato in media superiore a quello stimato. Per le sedute innovative invece il prezzo di affidamento risulta in media inferiore a quello inizialmente stimato (219,75 euro a fronte di 307 euro)». La voce di spesa più elevata finita sotto la lente dei magistrati è però quella della maxi commessa di mascherine acquistate in Cina in piena emergenza: 1,2 miliardi di euro per 800 milioni di dispositivi acquistati tra marzo e aprile 2020 da tre aziende cinese per il tramite di diversi intermediari che su quell'affare hanno ottenuto provvigioni per 60 milioni di euro. La Procura di Roma indaga per traffico di influenze illecite i mediatori e ha indagato lo stesso Arcuri per peculato. Dubbia anche l'efficacia dei 36 milioni di euro di incentivi Invitalia stanziati in un bando per spingere le aziende italiane a riconvertire la loro produzione in mascherine. A macchinari acquistati e investimenti fatti, le imprese si sono ritrovate con gran parte delle produzioni nei magazzini perché la struttura commissariale non ha più acquistato i dispositivi da loro. E ora si ritrovano a dover restituire i soldi. Non hanno visto la luce per l'arrivo Draghi le famose primule che dovevano sorgere in 21 capoluoghi italiani come centri vaccinali. Il bando di Arcuri prevedeva un esborso di 400 mila euro per ogni padiglione, per un totale di oltre 8 milioni di euro. Sul tavolo dei magistrati contabili sono finiti anche i 10 milioni di euro spesi per acquistare le siringhe di precisione, più costose di quelle normali ma che consentirebbero di estrarre più dosi da una singola fiala, per iniettare i vaccini.

Patrizia Floder Reitter per "la Verità" il 22 aprile 2021. Non solo la Corte dei conti, anche la Procura di Roma sta indagando sulle luer lock volute dall' ex commissario straordinario all' emergenza, Domenico Arcuri. Le costose siringhe, oltre 157 milioni di pezzi, inserite nel bando dello scorso novembre, furono pagate circa 10 milioni di euro. Da gennaio i magistrati contabili stanno verificando se per somministrare il vaccino anti Covid non potevano bastare dispositivi standard, assai più economici e che il nostro Paese produce in abbondanza. Dopo un esposto depositato lo scorso febbraio, pure la Procura vuole vederci chiaro e ha aperto un fascicolo. Il procedimento è affidato al pm Antonio Clemente. L' esposto, del 9 dicembre scorso ma integrato a fine gennaio, è stato presentato da Crescenzio Rivellini, ex parlamentare europeo del Pdl oggi in Fratelli d' Italia, allo scopo di «evitare uno spreco di risorse pubbliche». Il politico di centrodestra scrive che «iI costo delle siringhe luer lock pagato dalla struttura commissariale è risultato decisamente più alto delle normali siringhe che in tutto il mondo stanno usando» e di aver appreso dai giornali e «dalle dichiarazioni degli addetti ai lavori che tali siringhe, costate anche sei volte in più», non sono state consigliate «dall' Aifa nel suo "bugiardino" sul vaccino anti Covid dell' azienda Pfizer, dall' Ema che non consiglia le siringhe luer lock e nemmeno dal Comitato tecnico scientifico». In realtà l' Agenzia italiana del farmaco era stata l' unica a indicare che la vaccinazione doveva essere effettuata «con una speciale siringa sterile monouso dotata di sistema di bloccaggio dell' ago, luer lock, per evitare distacchi accidentali», mentre la Food and drug administration (Fda), l'agenzia normativa degli Stati Uniti, non faceva cenno a quelle siringhe nel documento rivolto agli operatori sanitari, e nemmeno l' Ema, l'Agenzia europea del farmaco, aveva inserito la raccomandazione. La Pfizer, interpellata ai primi di dicembre dagli inviati di La7 e Mediaset, già aveva precisato che il loro vaccino «richiede l' utilizzo di siringhe e aghi comunemente utilizzati nelle vaccinazioni». È sempre rimasta, dunque, inspiegabile la scelta dell' ex commissario Arcuri di imporre la fornitura di siringhe costose, che si ostinava a definire «più precise e performanti» malgrado venisse puntualmente smentito da imprenditori del settore, che negavano una maggiore precisione rispetto alle «tubercoline» o siringhe standard. Gianluca Romagnoli, titolare di Pentaferte, colosso italiano anche sul mercato internazionale di prodotti medicali, spiegò che da settembre la sua azienda stava producendo siringhe per la vaccinazione: un paio di milioni al mese «per il ministero della Salute francese» e che si trattava di «siringhe standard». La Francia aveva ordinato per tempo prodotti di uso corrente, a costi contenuti, invece Arcuri si mosse con enorme ritardo per siringhe che non erano reperibili sul mercato europeo. Stefano de Vecchi, amministratore delegato della Dealfa, azienda italiana che produce dispositivi medici quali garze e cerotti ma non luer lock e che era tra le ditte che si sono aggiudicate l' appalto, a fine gennaio rivelò alla Verità di essere l' unico ad aver fornito a quel momento le siringhe «performanti» da 1 ml, fabbricate però in Cina. «Abbiamo chiesto alla magistratura di intervenire per fare chiarezza», spiega l' avvocato Luigi Ferrandino, legale dell' ex europarlamentare. «L' esposto ha una formula dubitativa proprio perché vogliamo che si verifichino le informazioni sulle luer lock in nostro possesso e che sono state fornite all' opinione pubblica in questi mesi». Ma c' è un' altra questione che preme a Rivellini, ovvero dimostrare che la norma che prevede lo scudo penale per l' ex commissario vale solo per l' emergenza. Come ricorderete, Arcuri non doveva rispondere di eventuali responsabilità in campo amministrativo e contabile. Le procedure per l' acquisto di mascherine, camici, banchi a rotelle, siringhe non potevano essere controllate dalla magistratura contabile perché il super commissario era protetto da un mega scudo. Fatta eccezione del dolo compiuto, era un intoccabile. «Ma quando gli scienziati annunciarono che stavano lavorando a un vaccino anti Covid, l' allora commissario doveva avviare trattative per acquistare siringhe a buon prezzo», fa notare l' avvocato Ferrandino. «Cosa che non fece, malgrado l' acquisto non fosse un evento straordinario ed emergenziale, ma programmabile. I presìdi sanitari furono acquistati all' ultimo momento, con un bando di fine novembre che si chiuse il 9 dicembre». Sempre nell' esposto si legge che «queste siringhe sono risultate, in alcuni casi, inadatte come dichiarato dal dottor Davide Zanoni dell' ospedale di Sesto San Giovanni, dal virologo Fabrizio Pregliasco e non sono state utilizzate in alcune strutture come la casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano per varie difficoltà». Inoltre, sempre nella denuncia, si ricorda che «in alcuni centri vaccinali (Lombardia, Sicilia ed Emilia Romagna) sono state riscontrate evidenti difficoltà perché queste siringhe non erano utilizzabili per estrarre dalle fiale la quantità esatta di vaccino per somministrare sei dosi per flacone». L' ex commissario continua a sostenere che è stata Pfizer a indicare in una email quali siringhe si dovevano usare, e che anche per Aifa le luer lock andavano bene. Saranno inquirenti contabili e un pm che esercita l'azione penale a dirci se Arcuri aveva ragione a farci spendere così tanto per delle siringhe fabbricate in Cina.

Un'altra grana per Arcuri: indagato pure per le siringhe. Luca Sablone il 21 Aprile 2021 su Il Giornale. L'ex commissario le aveva pagate circa 10 milioni di euro: "Costi troppo alti". Alcune siringhe erano inadatte: "Non sono state consigliate né dall'Aifa, né dall'Ema, né dal Cts ". Adesso si muove anche la procura di Roma per far luce sulle siringhe "luer lock" volute dall'ex commissario Domenico Arcuri. Stando a quanto appreso e riportato da La Repubblica, si starebbe parlando di oltre 157 milioni di siringhe pagate circa 10 milioni di euro. Della questione si era già interessata anche la Corte dei Conti. I magistrati contabili, che stanno lavorando al caso già da diverse settimane, vogliono cercare di capire "se i benefici dell'unica siringa in grado di estrarre 6 dosi, invece di 5, da ogni fiala del siero Pfizer siano proporzionati ai costi". L'indagine è nata dopo un esposto depositato il 9 dicembre del 2020 e integrato lo scorso 1 febbraio da Enzo Rivellini di Fratelli d'Italia. Secondo il parlamentare europeo di FdI si sarebbe potuto evitare "uno spreco di risorse pubbliche" relativamente all'acquisto di 157.100.000 siringhe per iniettare il vaccino anti-Covid. Per l'esponente del partito di Giorgia Meloni, l'acquisto per la somministrazione dell'antidoto contro il Coronavirus non è stato un evento straordinario ed emergenziale ma assolutamente programmabile: "Difatti è da molti mesi che la struttura commissariale, il ministero della Salute e il governo sono a conoscenza, e fanno fede gli ordini che la stessa struttura commissariale ha effettuato alle industrie farmaceutiche, che la consegna dei vaccini era per fine anno 2020", si legge nell'esposto. Il costo delle siringhe "luer lock" pagato dalla precedente struttura commissariale guidata da Arcuri "è risultato decisamente più alto delle normali siringhe che in tutto il mondo stanno usando". Come se non bastasse, in diversi casi sono risultate inadatte tanto che non sarebbero state utilizzate in alcune strutture come la casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano per varie difficoltà. "Inoltre in alcuni centri vaccinali (Lombardia, Sicilia ed Emilia-Romagna) sono state riscontrate evidenti difficoltà perché queste siringhe non erano utilizzabili per estrarre dalle fiale la quantità esatta di vaccino per somministrare sei dosi per flacone", si aggiunge. Rivelini infine afferma che, sulla base di quanto appreso da fonti giornalistiche, le siringhe in questione "non sono state consigliate dall'Aifa nel suo 'Bugiardino' sul vaccino anti-Covid dell'azienda Pfizer, dall'Ema che non consiglia le siringhe 'luer lock' e nemmeno dal Comitato tecnico-scientifico". Tutte faccende sulle quali adesso indagano due diverse procure. Nel frattempo l'ex commissario, come rivelato da La Repubblica, può contare su tre documenti che dimostrerebbero come si sia semplicemente attenuto alle indicazioni fornite dalla casa farmaceutica americana. Anche l'Aifa, in un documento interno, avrebbe certificato la validità di quelle siringhe. Ora luci della procura di Roma si sono accese proprio su queste motivazioni documentate.

Antonio Fraschilla per espresso.repubblica.it il 6 maggio 2021. Un altro sequestro di quel che rimane in circolazione della mega commessa da 1,2 miliardi di euro di mascherine cinesi fatta nell’aprile del 2020 dalla struttura commissariale per l’emergenza Covid allora guidata da Domenico Arcuri. I Finanzieri del comando provinciale di Gorizia hanno recuperato e posto sotto sequestro ulteriori 50 milioni di prodotti forniti dalla struttura commissariale e distribuite alle strutture sanitarie e alle amministrazioni pubbliche. Di quella mega commessa restano nei depositi di Regioni e ospedali 250 milioni di pezzi che adesso vengono sequestrati o ritirati perché, secondo le prime indagini della procura di Gorizia, sarebbero insicuri e pericolosi. Le analisi di laboratorio avrebbero evidenziarono, infatti, «che il coefficiente di penetrazione di questi dispositivi è decisamente superiore agli standard previsti. In alcuni casi, infatti, la capacità filtrante è risultata essere addirittura 10 volte inferiore rispetto a quanto dichiarato, con conseguenti rischi per il personale sanitario che le aveva utilizzate nella falsa convinzione che potessero garantire un’adeguata protezione». L’ultimo sequestro della Finanza si aggiunge a quello dello scorso febbraio, che aveva riguardato altri 60 milioni di pezzi. In totale il valore dei prodotti ritirati arriva a 300 milioni di euro. Quasi tutti fanno parte delle mega commesse da 1,2 miliardi di euro aggiudicate a due gruppi cinesi, Luokai e Wenzhou. Si è scoperto che a far da tramite per la fornitura era scesa in campo un’eterogenea compagnia guidata dal giornalista Mario Benotti ma anche da un venditore di bibite e da un altro imprenditore: in tre, attraverso società di intermediazione, si sarebbero spartiti 72 milioni di euro di provvigioni. La procura di Roma ha aperto un’inchiesta ipotizzando i reati di traffico di influenze, perché Benotti, sfruttando la sua personale conoscenza di Arcuri, si sarebbe fatto retribuire dalle controparti cinesi e senza che il commissario lo sapesse, in modo «occulto e non giustificato». Nel registro degli indagati è stato iscritto il mese scorso anche Arcuri.  Non è escluso che le due indagini confluiscano adesso in un unico procedimento. Intanto la procura di Gorizia e la Guardia di finanza proseguono con i sequestri. Ieri è stato concluso quello di 40 milioni di pezzi che ricomprende i seguenti codici di mascherine Ffp2 e Ffp3: Scyfkz Kn95; Unech Kn95; Anhui Zhongnan En149; Jy-Junyue Kn95 En149; Wenzhou Xilian Kn95 En149; Zhongkang Kn95 En149; Wenzhou Huasai Kn95 En149; Wenxin Kn95; Bi Wei Kang Ce1282; Simfo Kn95 - Zhyi - Surgika; Wenzhou Leikang En149: Xinnuozi En149.

Il fascicolo sulla maxi-fornitura di mascherine dalla Cina. Arcuri indagato per peculato, la replica: “L’ho letto sui giornali, non so niente”. Redazione su Il Riformista l'11 Aprile 2021. La Procura di Roma apre un fascicolo, i giornali, in questo caso “La Verità” scrivono i dettagli e i presunti indagati, al momento ignari, non possono far altro che aspettare l’avviso di garanzia. E’ quanto capitato in queste ore all’ex commissario straordinario per l’emergenza covid Domenico Arcuri dopo la notizia della presunta indagine per peculato sulle maxi-forniture di mascherine cinesi da 1,25 miliardi di euro. A diffonderla il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro, secondo cui Arcuri sarebbe stato iscritto sul registro degli indagati della Procura della Repubblica di Roma per peculato. L’accusa sarebbe contenuta nel fascicolo sulle maxi forniture di mascherine cinesi da 1,25 miliardi di euro. L’appropriazione indebita contestata ai pubblici ufficiali è un reato che prevede fino a 10 anni e mezzo di reclusione.

La replica. “In merito a quanto riportato questa mattina dal quotidiano “La Verità”, circa l’indagine sulle “mascherine”, l’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri comunica di non avere notizia di quanto riportato dal suddetto quotidiano”. E’ quanto si legge in una nota di Invitalia. “Il dott. Arcuri, nonché la struttura già preposta alla gestione dell’emergenza continueranno, come da inizio indagine, a collaborare con le autorità inquirenti nonché a fornire loro ogni informazione utile allo svolgimento delle indagini”, si aggiunge.

Giacomo Amadori per “la Verità” l'11 aprile 2021. L' ex commissario straordinario per l' emergenza Covid Domenico Arcuri è stato iscritto sul registro degli indagati della Procura di Roma per peculato, l' appropriazione indebita del pubblico ufficiale. Il 25 marzo questo giornale aveva rivelato che nell' inchiesta sulla maxi fornitura da 1,25 miliardi di euro di mascherine cinesi intermediata da Mario Benotti e da altri broker era entrato questo nuovo reato, così come emergeva da una richiesta di rogatoria internazionale inviata al tribunale di San Marino. A quanto risulta alla Verità il peculato è contestato oltre che ad Arcuri anche ad Antonio Fabbrocini, già stretto collaboratore del commissario e responsabile unico del procedimento per l' acquisto di 801 milioni di mascherine da tre diversi consorzi cinesi. Un affare per cui i mediatori hanno ricevuto almeno 72 milioni di provvigioni e sono adesso accusati di traffico illecito di influenze proprio per i rapporti con Arcuri, il quale, però, ha sempre negato di essere stato a conoscenza delle commissioni milionarie. Ma che cos' è esattamente il peculato e che cosa rischia chi lo commette? Apriamo il codice penale e cerchiamo l' articolo 314. Ecco che cosa dice: «Il pubblico ufficiale o l' incaricato di un pubblico servizio che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di denaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni e sei mesi». Dunque ci troviamo di fronte a un reato considerato più grave della corruzione, punita con pene da 3 a 8 anni. La condanna scende e oscilla da sei mesi a tre anni «quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l' uso momentaneo, è stata immediatamente restituita». L' appropriazione può anche essere riferita a indebiti pagamenti disposti dal pubblico ufficiale. Il 9 novembre la Procura di Roma aveva iscritto sul registro degli indagati Arcuri e Fabbrocini per corruzione, salvo chiederne l' archiviazione a tempo di record, dopo una ventina di giorni di investigazioni. Un' istanza di proscioglimento che non sarebbe ancora stata accolta dal gip Paolo Andrea Taviano. Nel frattempo, però, i pm, coordinati dal procuratore Michele Prestipino, hanno deciso di contestare il nuovo reato. Perché lo hanno fatto? Hanno trovato qualcosa nelle carte sequestrate che li ha indotti a cambiare rotta? Arcuri e Fabbrocini erano al corrente delle provvigioni? A febbraio, quando il giudice e i pm avevano ordinato il sequestro di circa 70 milioni di euro sui conti degli indagati e delle loro società, l' ufficio stampa di Arcuri aveva puntualizzato che risultava «evidente che la struttura commissariale e il commissario, estranei alle indagini, sono stati oggetto di illecite strumentalizzazioni da parte degli indagati», i quali avrebbero ottenuto «compensi non dovuti dalle aziende produttrici». I magistrati hanno specificato nei vari provvedimenti che le commissioni milionarie sono arrivate alla presunta cricca sotto inchiesta «grazie allo sfruttamento di rapporti preferenziali occulti, derivanti da conoscenza pregressa, di taluni indagati con [] Arcuri» e che tali «rapporti», a marzo, non erano «più utilizzabili», non tanto per l' esplosione del mascherinagate sui media nazionale, ma «per la rimozione di Arcuri dall' incarico». Il traffico illecito di influenze viene contestato a sei persone, tra cui il giornalista Benotti, l' ingegnere milanese Andrea Tommasi, il finanziere sammarinese Daniele Guidi e il trader ecuadoriano Jorge Solis (accusato anche di riciclaggio), mentre altre due donne sono accusate di ricettazione e impiego di denaro di provenienza illecita. La notizia dell' indagine per peculato emergeva già nella richiesta di rogatoria internazionale inviata a febbraio a San Marino, da cui risulta che i pm capitolini sono alla ricerca delle provvigioni destinate al cosiddetto «gruppo Daniele» e citate in uno scambio di mail tra Solis e Zhongkai Cai, cittadino cinese residente a Roma e in contatto con le tre società che hanno fatturato le mascherine alla struttura commissariale e pagato le ricche commissioni. Il «gruppo Daniele» sarebbe quello riconducibile a Guidi, l' ex amministratore delegato del Credito industriale sammarinese, oggi a processo per il crac dell' istituto. Per scoprire se davvero Guidi abbia ricevuto provvigioni diverse da quelle pagate in Italia, i pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone hanno chiesto ai colleghi sammarinesi di svolgere accertamenti bancari sui conti di Guidi e di una donna, Monica Aluigi, indicata negli atti come «coniuge di Mohamed Ali Ashraf» e soprattutto «ritenuta dalla Guardia di finanza italiana una prestanome di Guidi per ingenti movimentazioni di denaro». In sostanza, secondo gli inquirenti romani, ci sarebbero ulteriori commissioni rispetto ai quasi 72 milioni sino a oggi accertati e quasi interamente sequestrati. A quanto ammontano questi compensi extra? Nel decreto sammarinese si legge: «Il gruppo Solis, Guidi e Cai, a sua volta, pattuiva provvigioni per 12.500.000 cadauno. Quest' ultimo dato veniva tratto da una email sequestrata presso Jorge Solis». Quindi oltre ai milioni già congelati dagli inquirenti in Italia ce ne sarebbero almeno altri 37,5 all' estero su conti ancora non individuati. In un loro scambio epistolare, Solis e Cai avevano fatto riferimento a rimunerazioni ancora più consistenti. Il totale delle varie quote ammonterebbe alla cifra monstre di 203,8 milioni, di cui quasi 126 già «pagati con fattura»: 48 milioni sarebbero toccati a Tommasi, 44,7 a Guidi, 25 a Benotti, 8,2 a Cai. Nei messaggi si precisava che a tale somma occorreva aggiungere una cifra, «ancora da definire», che le tre aziende cinesi avrebbero dovuto corrispondere a Cai. Questa montagna di denaro, alla fine, non sarebbe altro che una percentuale sui pagamenti effettuati dalla struttura commissariale con i fondi per l' emergenza. Peccato che ora sulle modalità di fornitura e sulla qualità delle mascherine cinesi acquistate da Arcuri & co ci siano molti dubbi e anche qualche inchiesta. Compresa quella per peculato della Procura di Roma.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 12 aprile 2021. Sull'indagine per peculato nei confronti dell' ex commissario per l' emergenza Covid Domenico Arcuri, rivelata dal nostro giornale, ieri si è scatenato il pandemonio. E Invitalia, l' agenzia per lo sviluppo d'impresa guidata dal manager calabrese, ha immediatamente diramato questa nota: «In merito a quanto riportato questa mattina dal quotidiano La Verità circa l' indagine sulle mascherine, l'amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri comunica di non avere notizia di quanto riportato dal suddetto quotidiano». Che Arcuri non sappia di essere indagato non deve stupire essendo le investigazioni ancora in corso. La notizia dell'esistenza di un filone d'inchiesta per peculato era, però, stata anticipata dalla Verità già a marzo, infatti l' informazione era contenuta in una rogatoria internazionale inviata dai pm capitolini ai colleghi sammarinesi. In ogni caso il comunicato di Invitalia proseguiva così: «Il dottor Arcuri, nonché la struttura già preposta alla gestione dell' emergenza, continueranno, come da inizio indagine, a collaborare con le autorità inquirenti nonché a fornire loro ogni informazione utile allo svolgimento delle indagini». Un concetto, quello della cooperazione, che Arcuri aveva già espresso in una lettera riservata inviata lo scorso 24 novembre al procuratore di Roma Michele Prestipino, dopo che il manager era venuto a conoscenza, sempre grazie al nostro giornale, della segnalazione all'Antiriciclaggio della Banca d'Italia relativa alla fornitura da 801 milioni di mascherine pagate 1,25 miliardi di euro dalla stessa struttura commissariale. In quel momento Arcuri era indagato per corruzione, ma dopo una decina di giorni gli inquirenti capitolini stralciarono la sua posizione e quella del suo collaboratore Antonio Fabbrocini, responsabile unico del procedimento, chiedendone l'archiviazione. Anche se l'ipotesi della corruzione sembra tramontata (sebbene il gip non abbia ancora accolto l'istanza di proscioglimento), adesso i pm contestano ad Arcuri e Fabbrocini l'appropriazione indebita del pubblico ufficiale, punita con pene che vanno da 4 a 10 anni e sei mesi. Questo reato si può commettere anche disponendo pagamenti indebiti, come potrebbero essere considerati quelli per le mascherine. Sulla qualità dei dispositivi di protezione individuale arrivati dalla Cina ci sono infatti molti dubbi (per esempio mancavano le certificazioni Ce, pur essendo previste dai contratti) e la guardia di finanza ha sequestrato milioni di mascherine entrate nelle forniture sotto indagine. C'è poi la questione delle provvigioni pagate dai consorzi cinesi ai mediatori accusati di traffico illecito di influenze. Anche queste ricchissime commissioni (almeno 72 milioni di euro, ma i magistrati ne stanno cercando altri 37,5 all'estero) non sarebbero altro che una percentuale sui pagamenti effettuati dalla struttura commissariale con i fondi per l'emergenza. Nella missiva del 24 novembre indirizzata al procuratore Prestipino, l'ad di Invitalia si mostrava molto interessato ad approfondire le notizie riportate dalla Verità: «La ricostruzione giornalistica, pur non richiamando esplicitamente indagini di natura giudiziaria, mi induce a ritenere possibile che l'Ufficio da lei diretto possa aver avviato in proposito approfondimenti finalizzati ad accertare fatti e circostanze e a valutare la legittimità delle attività svolte». E infatti, in quel momento, un' inchiesta era in corso e lui era indagato. Dopo aver sottolineato «la drammaticità del momento» e «di svolgere il compito che il governo» gli «ha affidato», il commissario si era «immediatamente» messo a disposizione «per concorrere a individuare e fornire ogni elemento eventualmente utile a indagini o accertamenti che fossero in corso e ciò non solo per una doverosa collaborazione istituzionale, ma anche per dare un chiaro e inequivocabile segnale del rigore con cui la struttura commissariale opera e intende continuare a operare». Infine Arcuri aveva fatto sapere alla Procura che avrebbe potuto «contare sulla sua fattiva e concreta collaborazione personale e di tutti i suoi uffici, «nel comune intento di garantire, anche nell' emergenza, il rispetto della piena legalità». Da allora sono passati più di quattro mesi e chissà se ieri Arcuri avrà ripreso carta e penna per ribadire gli stessi concetti. Di certo da novembre le indagini si sono concentrate anche sull' operato dell' ex commissario come è emerso chiaramente nelle successive iniziative della Procura e del Tribunale. Infatti nelle scorse settimane sono stati disposti sequestri per 70 milioni di euro, un arresto e quattro misure interdittive. Dai testi di questi provvedimenti l' immagine di Arcuri è uscita piuttosto ammaccata. Non come possibile corrotto, ma nella sua veste di pubblico ufficiale avvicinabile in modo informale e illecito da un gruppetto di mediatori quantomeno pittoresco o di manager un po' troppo disinvolto nell' utilizzo di fondi destinati all' emergenza, come il miliardo e 250 milioni di euro spesi per acquistare una montagna di dispositivi di protezione cinesi sulla cui effettiva regolarità sembra ci sarà molto da scrivere.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 12 aprile 2021. La struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri avrebbe ignorato le offerte vantaggiose di alcuni imprenditori italiani, preferendo rivolgersi all'ex giornalista Mario Benotti per l'acquisto di mascherine e camici. È questa l'ipotesi della procura di Roma, che, come ha anticipato ieri il quotidiano La Verità, ha iscritto sul registro degli indagati con l'ipotesi di peculato i nomi dell'ex commissario e di Antonio Fabbrocini, all'epoca dei fatti, stretto collaboratore di Arcuri. Al centro dell'inchiesta l'acquisto di 801 milioni di mascherine avvenuto in pieno lockdown da tre diversi consorzi cinesi e mediato da Benotti, che con Arcuri aveva un rapporto diretto. Una commessa da 1,25 miliardi che ha garantito agli intermediari, indagati per traffico illecito di influenze, di incassare dai cinesi almeno 72 milioni di provvigioni, soldi sequestrati dai pm Fabrizio Tucci e Gennaro Varone. Non solo, le mascherine non sarebbero neppure state certificate. Una vicenda che lo scorso 24 febbraio ha portato a un arresto e quattro misure interdittive. Da qui l'ipotesi di peculato: Arcuri avrebbe avvantaggiato terzi, sprecando soldi pubblici. L'ad di Invitalia ha diffuso una nota per chiarire «di non avere alcuna notizia di indagini sul suo conto e che continua a collaborare con le autorità inquirenti e a fornire loro ogni informazione utile allo svolgimento delle indagini». Intanto le verifiche sulla qualità di quelle mascherine, mai controllate, non sono ancora concluse: un lotto potrebbe fare parte dei dispositivi sequestrati un mese fa dalla Guardia di Finanza di Gorizia, che ha anche acquisito documentazione a Invitalia. Filippo Moroni, che vive Cina, è uno degli imprenditori che, nel marzo 2020, quando l'Italia è alla ricerca disperata di dispositivi di sicurezza, contatta la struttura commissariale. La prima volta il 10 marzo: è pronto a fornire in 24 ore due milioni di mascherine e in cinque giorni dieci milioni, senza commissioni e al prezzo di fabbrica. Insiste, manda email, telefona: ha la fabbrica a Shnzhèn, dove vengono prodotte le mascherine. Parla personalmente con Arcuri. Le Iene hanno anche diffuso una violentissima telefonata tra Moroni e Arcuri, durante la quale l'imprenditore chiedeva urlando un intervento immediato, «perché la gente stava morendo». Non riceverà mai un ordine né una risposta. La sua offerta avrebbe consentito un risparmio medio della metà. Moroni è stato convocato in procura, ha prodotto una montagna di documenti e le registrazione delle conversazioni, che adesso sono agli atti dell'inchiesta. Ma non è il solo. C'è anche Pier Luigi Stefani, un altro imprenditore che ha proposto alla struttura di acquistare mascherine Ffp2 dalla Corea a 70 centesimi ciascuna. Ma anche la sua offerta è caduta nel vuoto. L'indagine del nucleo di polizia Valutaria Finanza ha ricostruito il percorso della commessa avvenuta con la mediazione - non contrattualizzata dal commissario - di alcune imprese italiane,: la Sunsky srl di Milano, la Partecipazioni spa, la Microproducts IT srl e la Guernica srl di Roma. È emerso che la somma di 1,25 miliardi è stata così impiegata: 590 milioni di euro alla Wenshou light per mascherine ffp2 e p3, alla Luokay, costituita cinque giorni prima di firmare il contratto, la cifra più cospicua: 633 milioni di euro, per mascherine chirurgiche e ffp3. Il sospetto è che la provvigione ricevuta dagli intermediari superi i 72 milioni. A incassare i soldi, oltre a Benotti, sono stati l'ingegnere milanese Andrea Tommasi, il finanziere sammarinese Daniele Guidi e il trader ecuadoriano Jorge Solis (accusato anche di riciclaggio). Ma i pm hanno avviato una rogatoria a San Marino alla ricerca di altri soldi: le provvigioni destinate al cosiddetto «gruppo Daniele» e citate in alcune email agli atti dell'inchiesta.

Covid, inchiesta mascherine cinesi e Arcuri indagato per peculato: ora è caccia ai soldi nascosti a San Marino. Andrea Ossino su La Repubblica il 13 aprile 2021. La procura di Roma indaga su due conti correnti di Daniele Guidi, l'imprenditore accusato anche di traffico di influenze. I magistrati devono accertare se l'ex commissario per l'emergenza Covid abbia avuto il ruolo di intermediario. L'inchiesta romana sulla maxi fornitura da 1,25 miliardi di euro di mascherine è approdata anche a San Marino. I magistrati di piazzale Clodio hanno infatti chiesto e ottenuto che i colleghi sammarinesi collaborino alla ricerca del bottino nascosto da uno degli indagati. Si tratta di Daniele Guidi, imprenditore classe 1966 accusato di traffico di influenze e peculato. I fari degli inquirenti si concentrano soprattutto su due conti correnti sfuggiti ai precedenti sequestri: il primo è collegato alla Cassa di Risparmio della Repubblica di San Marino. Il secondo alla Banca Agricola Commerciale di San Marino. La circostanza è rilevante. Perché tra i nomi iscritti sul registro degli indagati, oltre a quello di Guidi, del giornalista Mario Benotti, dell'ingegnere milanese Andrea Tommasi e del trader dell'Ecuador Jeorge Solis, ci sono anche quelli dell'ex commissario all'emergenza Domenico Arcuri e del suo collaboratore Antonio Fabbrocini. Entrambi erano già stati indagati, ma a differenza degli altri protagonisti della vicenda, ovvero dei mediatori che avrebbero intascato cifre a sei zeri, la stessa procura di Roma aveva chiesto al gip di archiviare l'accusa di corruzione inizialmente contestata ai due pubblici ufficiali. Adesso però c'è un nuovo reato ipotizzato: il peculato. Occorre dunque verificare anche se Arcuri e Fabbroncini possano aver favorito gli intermediari. Quindi bisogna capire se i due fossero a conoscenza delle provvigioni. Inizialmente la finanza sospettava che Arcuri sapesse del guadagno illecito dei mediatori. Ma lo stesso Benotti, interrogato a Roma, ha spiegato che l'ex commissario era all'oscuro della faccenda. Per risolvere il caso delle provvigioni ottenute grazie all'acquisto da parte della struttura commissariale di oltre 800 milioni di mascherine, gli inquirenti hanno già sequestrato circa 70 milioni di euro. E adesso la caccia ai soldi è arrivata fino a San Marino. Infatti 12,5 milioni di euro sarebbero finiti nelle disponibilità di Daniele Guidi. Per questo la procura di Roma ha chiesto di verificare i movimenti di denaro dell'indagato e di "aprire" due conti correnti, in particolare quello aperto presso la Cassa di Risparmio della Repubblica di San Marino e un altro presso la Banca Agricola Commerciale di San Marino. La rogatoria internazionale inviata ai piedi del monte Titano riassume la vicenda. "Mario Benotti, sfruttando le sue relazioni personali con Domenico Arcuri, Commissario Nazionale per l'emergenza Covid - si legge negli atti - si faceva prima promettere e quindi dare indebitamente da Andrea Vincenzo Tommasi, il quale agiva in concorso previo concerto con Daniele Guidi, Jorge Edisson Solis San Andres, la somma" di circa 12 milioni di euro. Circa 9 milioni sono confluiti in un conto corrente della Banca Sella intestato alla Microproducts It Srl e altri 3 milioni sono stati bonificati alla Partecipazione Spa. Secondo gli inquirenti si tratta del profitto della "remunerazione indebita della sua mediazione illecita, siccome occulta e fondata sulle relazioni personali con il predetto Commissario in ordine alle commesse di fornitura dispositivi di protezione individuali ordinate dal detto Commissario Straordinario alle società cinesi Whenzou Light, Whenzou Moon-Ray e Luokay". Le aziende sarebbero state individuate da Andrea Tommasi, da Daniele Guidi e da Jorge Solis. E per questo lavoro avrebbero ricevuto circa 65 milioni di provvigioni. Per capire se l'ex commissario fosse a conoscenza del lauto guadagno i pm hanno anche acquisito i tabulati telefonici. Tra Benotti e Arcuri ci sono stati oltre 1200 contatti. Risalgono al periodo caldo del Covid. Dopo, l'allora commissario avrebbe interrotto i rapporti. 

Mascherine, Arcuri indagato? A Le Iene le telefonate con Filippo Moroni. Le Iene News il 12 aprile 2021. L’ex commissario per l’emergenza Covid, Domenico Arcuri sarebbe indagato per peculato nell’inchiesta sull’acquisto di 800 milioni di mascherine dalla Cina. Avrebbe ignorato offerte più vantaggiose di alcuni imprenditori e avvantaggiato altri, sprecando soldi pubblici. Lui sostiene di non sapere di indagini sul suo conto. Noi vi abbiamo raccontato di come un imprenditore, Filippo Moroni, poi ascoltato in procura, avrebbe offerto dispositivi medici alla metà del prezzo a cui sono stati poi acquistati da altri (e molti di questi ultimi non avrebbero avuto nemmeno le certificazioni necessarie). Avrebbe ignorato offerte più vantaggiose di alcuni imprenditori per l’acquisto di mascherine e avvantaggiato altri, sprecando soldi pubblici. Per questo l’ex commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri risulterebbe indagato con l’ipotesi di reato di peculato, secondo quanto anticipato dal quotidiano La Verità e riportato oggi da altri organi di stampa. Noi de Le Iene vi abbiamo raccontato con Gaetano Pecoraro e Marco Occhipinti della proposta di dispositivi di protezione a prezzo più conveniente proprio da parte di uno di questi imprenditori, Filippo Moroni, facendovi sentire le telefonate tra Arcuri e Moroni. Moroni dopo il nostro servizio è stato convocato in procura e ha prodotto documentazione, email e registrazioni per supportare la sua versione. Sarebbe uno degli imprenditori che si reputa danneggiato dalle scelte nell’acquisto di dispositivi di protezione. L’ex commissario straordinario per il Covid, poi sostituito in questo ruolo dal 1° marzo 2021 dal generale Francesco Paolo Figliuolo, fa sapere con una nota “di non avere alcuna notizia di indagini sul suo conto” e che “continua a collaborare con le autorità inquirenti e a fornire loro ogni informazione utile allo svolgimento delle indagini”. L’inchiesta è quella della procura di Roma sull’acquisto nel marzo 2020 di 800 milioni di mascherine dalla Cina per 1,25 miliardi di euro, che sarebbero arrivate in parte senza la certificazione necessarie. Gli intermediari dell’operazione secondo gli inquirenti avrebbero intascato commissioni dalle aziende cinesi per circa 72 milioni di euro e sono indagati, dopo il blitz del 24 febbraio scorso, per una serie di reati tra i quali traffico d’influenze, riciclaggio e ricettazione. Tra questi ci sarebbe il giornalista Mario Benotti, che più volte ha ricoperto il ruolo di consigliere nei passati governi. Con il servizio di Gaetano Pecoraro e Marco Occhipinti vi abbiamo fatto ascoltare in onda il 9 marzo alcune telefonate mai sentite prima. A parlare con Arcuri è l’imprenditore Filippo Moroni che avrebbe cercato inutilmente di fornire dispositivi regolari, a quanto racconta, alla metà del prezzo di quelle finite sotto la lente dei magistrati. Nella situazione di emergenza del marzo 2020 ci si trova di fronte a una miriade di imprenditori che si propongono come fornitori con un alto rischio di truffa e una necessaria prudenza da parte di chi doveva vagliare e poi autorizzare tali proposte. In quel momento c’è anche chi come l’imprenditore Moroni si sarebbe messo a disposizione per fornirle a prezzo più basso e con la certificazione CE richiesta, “senza volerci guadagnare e per aiutare il paese”. Il prezzo: 1,11 euro per ogni Ffp2, per esempio, contro i 2,20 di quelle non certificate finite ora sotto inchiesta. Filippo Moroni ha da 4 anni un’azienda in Cina, a Shenzhen, e si occupa di forniture di apparecchi medicali. Arcuri, in particolare in una telefonata del 16 marzo 2020 di cui trovate qui sotto la trascrizione, prima sembrerebbe conoscere poco della possibilità che stava offrendo con preventivi, lettere e email, di una fornitura di due milioni di mascherine al giorno, poi richiedere un’autorizzazione dell'Iss che non sarebbe necessaria essendoci già la certificazione europea CE e in generale, secondo Moroni, “fare burocrazia” mentre centinaia di persone stanno morendo. Arcuri si negherà ai microfoni delle Iene, ma il suo ufficio stampa ha spiegato perché la proposta di Moroni fu scartata: qui potrete trovare la risposta. Ognuno può farsi la sua idea vedendo il servizio qui sopra o leggendo il testo della telefonata. MORONI: “Allora io ho appena ricevuto la comunicazione, ve l’ho anche girata, noi abbiamo trovato le maschere CE, 2 milioni al giorno, le posso bloccare, la stessa azienda che è, che oggi ha montato le macchine, ha ottenuto la CE 5 giorni fa, ce l’avete, c’ha dato la possibilità di avere un milione e da domani due milioni di maschere al giorno, mi hanno appena chiamato, vi ho mandato il messaggio hanno un ordine di 200 milioni di maschere per il Brasile”.

ARCURI: “Aspetti aspetti aspetti, piano piano, dove stanno queste mascherine?”.

M.: “A Shenzhen in Cina”.

A.: “Ok quindi noi potremmo ordinarle, questi quante ne fanno?”.

M.: “2 milioni al giorno”.

A.: “Benissimo e quindi noi tra 5 giorni potremmo averne 10 milioni?”.

M.: “Fra 5 giorni ne potete avere 10 milioni certo”.

A.: “Perfetto e… cosa serve perché questo accada?”.

M.: “Mi dovete firmare immediatamente l’ordine e io devo bloccare l’ordine da… da questi signori perché…”.

A.: “Certo, io voglio…”.

M.: “Mi faccia parlare la prego mi scusi se la interrompo e… 2 minuti fa mi è arrivato il messaggio e ve l’ho mandato, ce l’ha Silvia davanti a lei, il messaggio è: ‘Abbiamo 200 milioni di maschere, richiesta di maschere per gli Stati Uniti e 250 milioni di maschere per il Brasile’. Questo significa che loro di fatto saturano la capacità produttiva della…”.

A.: “Dottore, la devo fermare, allora le devo chiedere un minuto di ascolto. Noi gestiamo l’emergenza più grave degli ultimi 60 anni in Italia, compresa la guerra”.

M.: “Saltiamo la retorica, mi dica quello che mi deve dire”.

A.: “Aspetti un secondo, aspetti sennò”.

M.: “Mi dica quello che mi deve dire perché il suo tempo è più prezioso del mio”.

A.: “Ecco allora se lei ci chiama ogni minuto non risolviamo niente, se noi facciamo un ordine risolviamo tutto. Siccome dobbiamo fare l’ordine, se siamo lineari e precisi capiamo che dobbiamo fare. Io mi sto occupando di lei con il quale ho piacere di parlare adesso da stamattina perché non sa quante telefonate hanno avuto questo argomento. Allora se queste telefonate conducono alle mascherine io… lei è un angelo e io ho risolto un problema. Se ne parliamo tra di noi non risolviamo niente, lei ha mandato un ordine una lettera di offerta?”.

M.: “Sì ve l’ho mandata ieri sera è nelle vostre mani da 20 ore”.

A.: “Ok, seconda domanda. Perché bisogna aspettare l’Istituto superiore di sanità?”.

M.: “Perché l’istituto superiore di sanità non sa leggere cosa vi ho mandato, io vi ho mandato un’offerta”.

A.: “Se l’istituto superiore di sanità non sa leggere io non ci posso fare niente, perché se non dice… Se non mi bolla quello che lei ha mandato io vado in galera, punto. Se non sa leggere… se vuole le do il telefono del professor Brusaferro e lei gli insegna a leggere, possiamo andare avanti perché se no dice che io spreco il tempo e lo faccio sprecare a lei”.

M.: “Lei mi ha fatto una domanda io le ho risposto commissario”.

A.: “Eh non mi può rispondere che non sa leggere capisce?”.

M.: “No, io le rispondo”.

A.: “Perché… l’Istituto superiore di Sanità esiste per legge. Per me quello che dice l’Istituto superiore di Sanità vale, e non… non mi è sufficiente per risolvere il problema sapere che non sa leggere. Che cosa deve fare l’Istituto superiore di sanità chiedo ai miei che sono qui davanti”.

M.: “Non deve fare nulla perché ha già legge. Io come privato le posso importare domani mattina queste maschere e non me lo potete nemmeno fermare, è legge”.

A.: “E quindi?”.

M.: “E quindi io le porto in Italia, la domanda è: ‘Le volete portare voi in Italia con un aereo militare e fare prima di quanto faccia io?’. E le diamo al sistema pubblico invece che infilarle nel sistema privato e le mandiamo a 60 euro l’uno? Che gioco vogliamo fare?”. 

A.: “Queste mascherine sono pronte o ho capito che ne fanno 2 milioni al giorno?”.

M.: “Ascolti… no lei non ha nemmeno forse capito che le mascherine appena sono pronte vengono vendute, via, partono via, non arrivano nemmeno allo stock di 10 milioni”.

A.: “E quindi?”.

M.: “Lo volete questo stock? C’è una capacità produttiva di 2 milioni al giorno…”.

A.: “Se l’Istituto superiore di sanità che è del governo italiano, che ha nominato me, mi scrive che le posso prendere è chiaro che io le prendo se lei mi risponde che l’Istituto superiore di sanità non sa leggere”.

M.: “Non sa leggere perché c’è scritto che le mascherine sono CE e è tutto bloccato perché questi hanno pensato che le mascherine che vi vorremmo mandare non sono CE”.

A.: “Perfetto, c’abbiamo la possibilità di fargli vedere che sono CE?”.

M.: “Ve l'ho mandato! Ve l'ho mandato!”.

A.: “Ok va beh senta dottore, facciamo così, io adesso le ripa…”

M.: “1800 morti ma cosa stiamo aspettando? Basta!”.

A.: “Da me ha tutta la rassicurazione, mi dispiace averle parlato perché questo diciamo non è il modo di interloquire, adesso le…”.

M.: “Ma chissenefrega di come interloquiamo! Ma chissenefrega! C’è la gente che muore e qui stiamo facendo burocrazia!”.

A.: “Va bene, le passo i miei, grazie”.

M.: “Mi dia qualcuno che sappia fare un bonifico, mi basta questo, vi voglio aiutare, vi voglio aiutare c***o! Datemi qualcuno capace a fare un bonifico…”.

Luca Fazzo per “il Giornale” il 12 aprile 2021. Fino a quando non sarà accertato che Domenico Arcuri, già commissario straordinario per l' emergenza Covid, si è messo in tasca dei soldi (ipotesi per ora non solo non accertata ma anzi esplicitamente esclusa dagli inquirenti), sarebbe saggio guardare agli sviluppi delle indagini della Procura di Roma sulle mascherine cinesi con lo stesso distacco etico che meriterebbe l'intera categoria cui questo fascicolo giudiziario appartiene. Ovvero le inchieste del day after, le incursioni a bocce ferme in decisioni assunte mentre piovevano le bombe. Se reati sono stati commessi vanno perseguiti, e non v' è dubbio che lo saranno. Ma il giudizio morale e politico non potrà mai mettere sullo stesso piano il pasticcione e lo squalo, chi si affanna a fronteggiare l' emergenza e chi pensa a sfruttarla per arricchirsi. Dagli uffici tranquilli di una Procura della Repubblica è gioco facile misurare con l' unico metro del codice penale, a molti mesi di distanza dagli eventi, decisioni assunte con un Paese nel panico, attraversato da cortei di bare e con gli ospizi trasformati in lazzaretti. Di decisioni sbagliate ce ne sono state a bizzeffe, e Arcuri passerà alla storia - a braccetto con la ministra Azzolina - per la grottesca vicenda dei banchi a rotelle. Ma metterlo oggi al muro per avere comprato a caro prezzo mascherine che andavano letteralmente a ruba in tutto l' Occidente, e che erano indispensabili anche per consentire a medici e infermieri di scendere ogni mattina nella trincea dei reparti Covid, sarebbe ingeneroso e protervo. Non si può, fino a prova contraria, metterlo sullo stesso piano dei figuri che di fronte a una nazione in ginocchio hanno accumulato patrimoni immani. Non si tratta di dire che i mezzi usati sono giustificati dal fine. Si tratta di ricordare che in un Paese da sempre votato all' emergenza fasulla, con le decisioni rinviate all' infinito con lo scopo preciso di dribblare i controlli, il Covid è stato l' emergenza più autentica e imprevedibile del secolo. E che sarebbe ingeneroso non applicare a chi si trovò in prima fila le attenuanti morali. Già in passato, e di fronte a urgenze assai meno tragiche, le colpe sono state perdonate o attutite in nome dell' emergenza: si pensi all' onore delle armi reso al sindaco di Milano dai giudici che lo condannarono per le disinvolture commesse in Expo, anche lì in nome della corsa contro il tempo; e di esempi se ne potrebbero fare tanti altri. Né si può dimenticare che chi in questa tempesta ha avuto l' onere di decidere ha dovuto farlo sulla base di dati scientifici, di pareri di esperti, di analisi di luminari talmente contraddittori da risultare inservibili. Nessuno invoca per gli amministratori pubblici investiti dall' emergenza uno scudo penale come quello annunciato da Draghi per i medici che inietteranno i vaccini. Però non si può dimenticare che Mimmo Arcuri ci mise la faccia, ogni giorno, davanti agli italiani investiti dal ciclone. Decise e sbagliò. Ma nessuno, proprio nessuno, avrebbe voluto essere al suo posto.

Dagospia il 14 aprile 2021. IL VOLO DI LIGUORI - COME MAI PAOLO LIGUORI HA DIFESO, CON UN'ARTICOLESSA  SU "IL GIORNALE", L'EX COMMISSARIO ARCURI? SEMPLICE, SUA MOGLIE (GRAZIA VOLO) E' L'AVVOCATO DI "MIMMO" - E PENSARE CHE QUEL TORDO DI MINZOLINI HA CHIESTO UNA "NORIMBERGA POLITICA" PER I MEDIA CHE NON HANNO AVUTO IL CORAGGIO DI DEPURARSI DALLE NARRAZIONI DI ROCCO CASALINO. POVERO MINZO-MANZO, FORSE NON HA LETTO IL GIORNALE PER CUI SCRIVE…

Gustavo Bialetti per "la Verità" il 14 aprile 2021. È primavera, svegliatevi pennine. Alberto Rabagliati saprebbe come salutare il ritorno sul pianeta Terra di Augusto Minzolini, che sul Giornale di ieri chiede «non tanto una Norimberga giudiziaria, quanto una Norimberga politica», sulla gestione della prima ondata di Covid 19 da parte del governo Conte. L'ex senatore ridicolizza anche i media, accusandoli di «non aver avuto il coraggio di depurarsi dalle narrazioni di Rocco Casalino». Solo che non deve aver letto il giornale per cui scrive. Domenica scorsa, La Verità ha titolato in prima: «Arcuri sotto inchiesta per peculato». L' ennesimo scoop di Giacomo Amadori è stato ripreso da tutti. L' inchiesta è quella della Procura di Roma sulla maxi fornitura di mascherine cinesi. Ma al Giornale, l' altro ieri, è salito in cattedra il collega Luca Fazzo, per assolvere preventivamente Arcuri: «Di decisioni sbagliate ce ne sono state a bizzeffe [], ma metterlo oggi al muro per avere comprato a caro prezzo mascherine che andavano letteralmente a ruba in tutto l' Occidente, e che erano indispensabili anche per consentire a medici e infermieri di scendere nella trincea dei reparti Covid, sarebbe ingeneroso». Chi invece fu generoso è Paolo Liguori, che il 13 dicembre scrisse un elogio dal titolo: «Il governo Casalino-Arcuri, i giganti Covid». Arcuri venne definito «tempestivo, sovraesposto, coraggioso». L'altro «gigante», Casalino, descritto come colui che «comunica ai giornalisti il modo più corretto di informare e suggerisce a Conte tempi e modalità». Nel frattempo, La Verità faceva il suo dovere, un po' in solitudine. Poi, arrivarono i pm. E ora sbuca la Lepre minzolina, per la quale «che la storiella del Modello Italia fosse una mezza barzelletta è sempre stato chiaro a tutti». Beh, a tutti tutti magari no. Citofonare al Giornale.

François de Tonquédec per "la Verità" il 13 aprile 2021. Proseguono nel massimo riserbo le indagini per peculato nei confronti di Domenico Arcuri, iscritto dalla Procura di Roma per l'acquisto da parte della struttura commissariale per l'emergenza Covid di 801 milioni di mascherine cinesi al prezzo di 1,25 miliardi di euro. Ricordiamo che il peculato è il reato che punisce un funzionario, un incaricato di pubblico servizio o un'autorità pubblica che si appropri di denaro o di un altro bene mobile di cui dispone in ragione del proprio incarico. È in pratica la appropriazione indebita del pubblico ufficiale. Si parla di peculato d'uso se l'appropriazione è solo temporanea e la cosa, se possibile, sia stata restituita. Nel primo caso la pesa oscilla da quattro anni a dieci anni e sei mesi, nel secondo da tre a sei. La parola deriva dal latino peculatus, derivato del verbo peculari «truffare, amministrare in modo disonesto». Evidentemente gli investigatori, al contrario di alcuni cronisti, sospettano ci sia stato uno spreco di denaro pubblico per quella fornitura monstre. Infatti, come stanno dimostrando le inchieste in corso, la pandemia non viene considerata una scriminante per chi ha approfittato dell'emergenza per fare traffici loschi (diversi fornitori di commesse fantasma o di mascherine non a norma sono stati arrestati), ma potrebbe non esserlo nemmeno per chi era tenuto a utilizzare con avvedutezza le risorse pubbliche. E forse comprare mascherine con certificazioni non regolari a prezzi così alti da consentire il pagamento di decine di milioni di euro di commissioni potrebbe essere considerato dai magistrati un'azione poco oculata. Per qualcuno l'ipotesi accusatoria degli inquirenti capitolini potrebbe essere che, rifiutando offerte più vantaggiose l'ex commissario avrebbe avvantaggiato terzi, sprecando soldi pubblici. La pena prevista per il peculato consente sia l'utilizzo delle intercettazioni telefoniche, sia il ricorso a misure come la custodia cautelare. Un'ipotesi questa che, nel caso dell' ex commissario e del suo braccio destro Antonio Fabbrocini dovrebbe essere esclusa, sulla base di quanto già espresso dal gip Paolo Andrea Taviano, il quale aveva revocato le misure cautelari ad alcuni indagati essendo venuta meno la possibilità di reiterazione del reato, dopo che «il Governo ha sostituito il Commissario Arcuri e la compagine dell'organo commissariale con altri funzionari, circostanza che non rende più attuali e concrete le esigenze cautelari». Una prima indelebile traccia della contestazione del peculato ad Arcuri e Fabbrocini era già emersa nella richiesta di rogatoria internazionale inviata dalla Procura di Roma a San Marino il 2 febbraio scorso e integrata il 4 marzo con ulteriore documentazione. Il documento di incarico alla Polizia civile - gruppo interforze di San Marino, firmato dal commissario della legge Elisa Beccari, di cui La Verità ha raccontato in esclusiva i contenuti il 25 marzo, non lascia spazio a dubbi: «Rilevato che, la Procura della Repubblica presso il tribunale di Roma sta svolgendo indagini, nell'ambito del procedimento penale sopra indicato a carico, fra gli altri di Daniele Guidi [] per i reati di traffico illecito di influenze e peculato (articoli 314 e 346 bis del codice penale italiano) []». E ancora: «i fatti per i quali procede l'Autorità giudiziaria richiedente costituiscono reato anche secondo l'ordinamento sammarinese, in particolare la fattispecie italiana di peculato è altresì prevista dall' articolo 371 del codice penale sammarinese (malversazione del pubblico ufficiale)». Il documento del Commissario della legge non indica i nomi degli indagati, ma il peculato è di fatto l'appropriazione indebita propria dei pubblici ufficiali, qualifica che nessuno degli altri indagati per la maxi fornitura di 801 milioni di mascherine ha mai ricoperto durante l'affaire. Arcuri e Fabbrocini erano già stati indagati per corruzione. Un'ipotesi questa scartata dalla Procura nel dicembre scorso e per la quale è stata proposta istanza di archiviazione, che al momento non risulta ancora essere stata accolta.

François de Tonquédec per "la Verità" il 15 aprile 2021. «Chi trova un amico trova un tesoro», recita l' antico adagio. E soprattutto permette di saltare la fila. E non parliamo di quella per i vaccini. Per il giudici del tribunale del Riesame, Mario Benotti, il mediatore della maxi commessa di mascherine cinesi indagato dalla Procura di Roma per traffico illecito di influenze, avrebbe «sfruttato» la conoscenza con l' ex commissario per l' emergenza Covid, Domenico Arcuri, «per accreditarsi presso la struttura commissariale, in modo tale che le offerte presentate da lui e dai suoi "partner" venissero accuratamente e prontamente esaminate, così ricevendo una considerazione privilegiata rispetto alle altre trasmesse». Per i giudici Benotti e gli altri mediatori avrebbero bypassato un numero impressionante di offerte e ricordano come «la sola Fabrizi Silvia (funzionaria di Invitalia che ha seguito i primi contatti tra Benotti e gli uffici dell' ex commissario, ndr) aveva ricevuto tra il marzo e il maggio 2020 ben 541 email di offerte per la fornitura di dispositivi di protezione individuale». Una fotografia della realtà impietosa, che però «non vuol dire che l' offerta promossa [] per conto delle tre società cinesi sarebbe stata sicuramente scartata in assenza dell' intermediazione prestata dal Benotti, ma che [] l' intervento di Benotti era "garanzia" di più celere e probabile accoglimento, anche a discapito di eventuali concorrenti». E per questo motivo «il "Comitato d' affari" guidato dal Tommasi aveva promesso e poi effettivamente devoluto una remunerazione al Benotti confidando nella sua capacità di orientare in loro favore le decisioni del commissario». Remunerazione che era stata stabilita prima della nomina di Arcuri a commissario. Nonostante gli sforzi della difesa i giudici ritengono corretta la data del 15 marzo indicata sul fee agreement che ha garantito le prime provvigioni destinate proprio a Benotti. Mentre venivano definiti i contorni dell' affare, provvigioni comprese, secondo la sentenza che ha respinto il ricorso presentato dalla Guernica, società riconducibile a un altro indagato, l' ecuadoriano Jorge Solis, Benotti sarebbe stato perfino in grado di fornire suggerimenti sui contenuti del decreto di nomina di Domenico Arcuri a commissario per l' emergenza Covid. A vantarsene in una chat Whatsapp è lo stesso Benotti, che l' 11 marzo 2020, una settimana prima della formalizzazione della nomina di Arcuri e quattro giorni prima della sottoscrizione dell' accordo sulle sue provvigioni, parlando con l' imprenditore milanese Andrea Vincenzo Tommasi e con l' ex manager di Finmeccanica Daniele Romiti del commissario in pectore, scriveva: «Siamo stati insieme adesso un' ora per vedere il suo decreto e ho dato alcuni suggerimenti». Per i giudici, il contenuto della chat denominata «New Alitalia» è uno degli elementi di prova «chiaramente evocativo di un discorso già in essere» che «già prima del primo marzo 2020 (e dunque, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, ben prima della nomina di Arcuri a commissario per l' emergenza), Benotti aveva speso con Tommasi la sua conoscenza con Arcuri, sostenendo perfino di avere contribuito alla stesura del suo decreto di nomina a commissario "CON PIENI POTERI" (scritto, non a caso, in lettere maiuscole) ed evidenziando come nei mesi a venire proprio Arcuri sarebbe stata la persona "più importante del Paese per la buona riuscita di operazioni industriali"». E per rafforzare la loro posizione i giudici del Riesame fanno ancora riferimento alle chat di Whatsapp: «Ancora Tommasi già il giorno prima della chat appena citata, ovvero il 10 marzo 2020, quale rappresentante legale della Sunsky Srl, aveva ricevuto dalla società cinese Whenzou moon ray l' incarico di prestare in suo favore attività di consulenza ai fini della promozione e vendita in paesi diversi dalla Cina dei dispositivi medici prodotti e/o commercializzati dalla suddetta società, così come indicato nella lettera di incarico in atti che quest' ultima aveva sottoscritto il 10 marzo 2020 (e che indubitabilmente era stata preceduta nei giorni precedenti da trattative preliminari tra la Sunsky Srl e la Whenzou moon ray allo scopo di definirne il contenuto». La natura confidenziale del rapporto tra Benotti e l' ex commissario «emerge inequivocabilmente da alcuni scambi di messaggi []. I due si incontravano spesso ed erano in evidente confidenza, posto che utilizzavano un linguaggio "convenzionale" basato su metafore ecclesiastiche, in cui si chiamavano l' un l' altro "Monsignore" e il Benotti, se voleva chiedere un appuntamento ad Arcuri, lo invitava a "pregare insieme"». Tra le pagine della sentenza spuntano anche fatture emesse dalle società riconducibili a Benotti (la Microproducts Srl e la Partecipazioni Spa) a favore delle società cinesi fornitrici della maxi commessa da 801 milioni di mascherine costate 1,25 milioni di euro e di cui molte sono oggetto del sequestro disposto nelle scorse settimane dalla Procura di Gorizia per la mancanza dei requisiti di sicurezza. Fatture che per i giudici sono state «create allo scopo di attribuire una parvenza di legalità ai pagamenti ricevuti». Un' ipotesi che si evincerebbe «dal fatto che non fossero state comunicate all' esterometro, che il loro oggetto fosse estremamente generico [], che non contenessero alcun riferimento a lettere di incarico o contratti stipulati tra le società emittenti e le società destinatarie e che non sia stato rinvenuto nessun documento o comunicazione (anche informale) a supporto della loro effettività». Le fatture per Benotti erano un punto fermo imprescindibile: in una telefonata con un interlocutore non identificato ha detto «adesso non faccio più nulla senza che dopo l' esito porti ad una fatturina» e il 4 novembre parlando con Georges Khouzam, presidente del cda della Partecipazioni, il giornalista Rai in aspettativa aveva detto: «Io sto correndo perché sto stiamo per ripreparare un altro giro di fatture notevoli». Ma a rovinare i piani, arriveranno lo scoop della Verità sulla vicenda delle provvigioni sulle mascherine e le perquisizioni, mettendo fine alle «fatturine».

Antonio Rossitto per “la Verità” il 9 aprile 2021. Una commissioncina d'inchiesta non s'è mai negata a nessuno, davvero. Il Parlamento usa investigare alacremente su tutto: dai femminicidi all' anagrafe tributaria. La più grande sciagura sanitaria della storia repubblicana non sembra però meritevole di uguale attenzione. Lo scorso 24 febbraio il deputato di Fratelli d' Italia, Andrea Delmastro, deposita fiducioso, come primo firmatario, la proposta per istituire una commissione d' inchiesta sul fulgido operato dell' ex commissario all' emergenza, Domenico Arcuri. Ovvero, il superburocrate che ha gestito per un anno la lotta alla pandemia. Con gli sbalorditivi risultati che hanno convinto il premier, Mario Draghi, a liberarsene lestamente. Eppure il presidente della Camera, Roberto Fico, tergiversa. Un mese e mezzo più tardi, l' onorevole meloniano attende ancora risposta. Quando si discuterà della sua iniziativa? Chissà. Ce ne sarebbe però da investigare. Politicamente parlando, s' intente. La scoppiettante inchiesta della Procura di Roma sulle maxi commesse di mascherine comprate in Cina, rivelata dalla Verità, ha già lambito l' operato di Arcuri. Un affidamento di 1,25 miliardi per l' acquisto di 800 milioni di mascherine, avvenuto grazie alla ricca intermediazione di alcune aziende italiane. Arcuri però non è indagato. Anzi, furente, si professa «parte lesa». Ma erano soldi pubblici. Dunque, gli indispettiti dovremmo essere noi: suoi, incolpevoli, connazionali. Comunque, quale migliore occasione per far finalmente chiarezza? Deposto a favore del generalissimo Francesco Paolo Figliuolo, adesso Arcuri guida a tempo pieno Invitalia, agenzia governativa per lo sviluppo e gli investimenti strategici. Le sue indimenticabili imprese continuano a però a riecheggiare. Quindi, Delmastro torna alla carica: «Il commissario ha avuto pieni poteri, spendendo ingenti risorse dello Stato. E i suoi atti hanno goduto di uno scudo penale. L' indagine romana sulle mascherine meriterebbe, da sola, una commissione d' inchiesta».Nella sua proposta, l' onorevole di Fratelli d' Italia passa in disamina le gesta di Arcuri. A partire dal prezzo calmierato per l' acquisto delle chirurgiche, «che ha provocato una significativa scarsità di mascherine». Poi Immuni, la strombettata app per il tracciamento dei contagi: a sei mesi dal lancio, si contavano 1.200 segnalazioni su nove milioni di utenti. E i banchi a rotelle, fortissimamente voluti dall' ex ministro all' istruzione, Lucia Azzolina. «La procedura di gara europea per la fornitura» ricorda Delmastro «si è conclusa solo poco prima di settembre 2020, con un ritardo ingiustificato». E tra le aziende vincitrici, ricorda il deputato, c' è «la Nexus made Srl, specializzata nell' organizzazione di eventi, con un capitale sociale di appena 4.000 euro, di cui soltanto 100 versati, ma ritenuta affidabile per la fornitura di 180.000 arredi». E comunque: le mirabolanti sedute sono arrivate poco prima di Natale. Giusto in tempo per le feste. Infine, la campagna di vaccinazione. In particolare l' acquisto delle siringhe luer lock, «tra le meno reperibili e più costose». E la costruzione delle «Primule», destinate alle somministrazioni. Per progettarle viene chiamato nientemeno che l' archistar Stefano Boeri. Quattrocentomila euro a padiglione. Poi però arriva il rude generalissimo. E il romantico progetto floreal-sanitario di Mimmo appassisce. Già, ne avrebbe di lavoro una commissione d' inchiesta. Sarà mica per questo che Fico continua a prender tempo?

Chiara Giannini per “il Giornale” il 13 marzo 2021. Dove sono finiti gli ordinativi di spesa della precedente gestione della struttura commissariale? Su questo si starebbe interrogando la Guardia di Finanza. Secondo fonti del Giornale, mancherebbe parte della documentazione inerente l' amministrazione di Domenico Arcuri, legata all' acquisizione dei dispositivi di protezione personale nel periodo precedente all' arrivo del generale Francesco Paolo Figliuolo. Il passaggio di consegne tra i due commissari è attualmente nel vivo e gli attuali addetti stanno lavorando per far funzionare le cose al meglio nell' interesse del Paese. L'indagine riguarderebbe in particolare l' acquisto di mascherine, camici, ventilatori, che come a più riprese denunciato da diversi imprenditori italiani, sarebbero stati inspiegabilmente acquistati a prezzi superiori rispetto alle offerte che nel momento di maggiore emergenza, ovvero tra il marzo e il dicembre dello scorso anno, erano sul mercato. Diversi intermediari avevano proposto, ad esempio, la vendita di mascherine a 70 centesimi l' una, ma forse a causa del caos generato dal momento, si arrivò a piazzarne in varie realtà anche al costo di 6 euro l' una. Perché una tale decisione? Le Fiamme Gialle su questo, ne è la prova l' inchiesta che vede coinvolto il giornalista Rai in aspettativa Mario Benotti, stanno lavorando da tempo. Nel passaggio tra i due commissari qualcosa potrebbe essere andato perso. Ma Arcuri e i suoi collaboratori saranno sicuramente chiamati a rispondere sul perché di certe scelte, ma soprattutto sulle ragioni della sparizione di alcuni degli ordinativi di spesa. Insomma, che il sistema legato a Invitalia li abbia portati via per sbaglio o che si tratti di qualcosa di diverso? Il chiarimento sarà d' obbligo anche perché in un momento in cui la gente moriva, un' eventuale speculazione sui dpi costituirebbe uno scandalo non da poco. Cosa certa è che con l' arrivo del generale Figliuolo e del suo staff si è visto subito un cambio di passo. A partire dall' incremento delle dosi somministrate nei primi giorni della sua gestione. Peraltro, sono in arrivo milioni di vaccini che lasciano presagire che le cose miglioreranno. Per il nuovo commissario la collaborazione con le Regioni, con la Protezione civile, ma anche con le Forze armate è fondamentale. Come lo è l' importante lavoro che sta svolgendo il Coi (Comando operativo di vertice interforze). Ieri mattina all' hub di Pratica di Mare, grazie all' Aeronautica militare, sono arrivate 295.200 dosi che verranno distribuite, nell' ambito dell' operazione Eos, anche a 11 siti militari di stoccaggio. Inoltre, l'Esercito ha appena inaugurato la nuova struttura di Cosenza, dove ha convertito l' ospedale militare in sito vaccinale. Settimana prossima, invece, alla città militare della Cecchignola si comincerà a lavorare anche per i civili, con la somministrazione dei vaccini in collaborazione con la Asl 2 di Roma.

L'anno nero di Domenico. Lo statalista da divano non ne ha azzeccata una. Arcuri chiamato per risolvere problemi. Ma ha collezionato solo flop (e un'inchiesta). Giuseppe Marino - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale. Per due settimane ha tentato di resistere con le specialità che lo hanno tenuto a galla per dodici anni e sei governi: tempismo e invisibilità. Qualità che hanno reso Domenico Arcuri, a soli 57 anni, uno dei più longevi manager di Stato. Lo scorso 12 febbraio il plenipotenziario di Conte era tornato in immersione anticipando tutti: annullata senza preavviso, la sua conferenza stampa settimanale «per garbo istituzionale» ancor prima che fosse ufficiale la convocazione di Mario Draghi al Quirinale per l'incarico di governo. Da allora Arcuri non è più ricomparso in pubblico. Ma era troppo tardi per recuperare l'invisibilità dopo aver assommato su di sé un potere con pochi precedenti: budget di spesa per l'emergenza pressoché illimitato, decine di incarichi disparati, discrezionalità assoluta e perfino un discusso scudo legale anti-Corte dei conti. Un potere che lo ha fatto sentire così intoccabile da trascurare la regola dell'invisibilità. La conferenza stampa era diventato il palcoscenico personale delle sue risatine di scherno ai giornalisti dei suoi «non rispondo», dei suoi dati «creativi», e delle cosiddette «perle di Arcuri» sparse a favore di telecamera. Vedi l'invettiva contro i liberali da divano «con il cocktail ni mano» che lo contestavano per la gestione statalista delle mascherine, o la spiegazione senza ironia che «la mascherina lavabile è quella che si può usare un numero di volte superiore a uno». Così era arrivato anche il coronamento estetico del potere: l'imitazione di Crozza. E Arcuri era diventato troppo ingombrante per restare anche con Draghi, esondando dal ruolo di «Mr. Wolf» di Conte e Speranza, l'uomo che risolve problemi. Oltretutto, nell'arco dell'incarico durato poco meno di un anno (la nomina risale al 18 marzo 2020, con uno dei primi Dpcm) di problemi Arcuri ne aveva risolti ben pochi. I primi fallimenti con le mascherine: introvabili nei primi giorni dell'emergenza come dappertutto in Occidente poi, quando il mercato aveva iniziato a organizzarsi, lui aveva sfornato l'idea populista del prezzo massimo di Stato, i famosi 50 centesimi, e in un colpo solo aveva fatto sparire le mascherine dalle farmacie e messo nei guai la nascente azienda italiana del settore, incentivata a investire e poi tradita, importando dalla Cina tonnellate di dispositivi di protezione, nonostante avesse promesso l'autarchia della mascherina italica a partire da settembre. Proprio a bordo dei container dalla Cina sono arrivati i guai: l'inchiesta per traffico di influenze che, al momento, non vede Arcuri indagato, ma di sicuro l'aver negato di conoscere il mediatore d'oro della commessa da 1,2 miliardi, quel Mario Benotti dalle comuni frequentazioni prodiane con cui si era scambiato 1228 contatti telefonici, qualche imbarazzo l'ha creato. Ma il vero pasticcio è quello dei banchi a rotelle, diventati simbolo della confusione con cui il governo Conte ha affrontato la seconda ondata, quasi 500 milioni spesi per inutili arredi semoventi salvo poi chiudere le scuole. Non era andata granché meglio con la dimenticata app Immuni e peggio ancora con le dimenticabili «primule», i tendoni progettati dall'architetto Stefano Boeri da 400mila euro l'uno, passati da simbolo della rinascita vaccinale, a emblema della mancanza di un decente piano di immunizzazione. Il licenziamento di ieri era ormai atteso. Ma va detto che Arcuri resta ad di Invitalia, pur avendo collezionato insuccessi da Bagnoli a Termini Imerese, e tra i suoi incarichi c'è la sfida impossibile dell'Ilva. C'è da scommettere che del manager «scoperto» da Romano Prodi e lanciato da Giuseppe Conte sentiremo ancora parlare.

LA TELENOVELA MASCHERINE LE CHIAMATE ROVENTI DI UN FORNITORE AD ARCURI. TELEFONATA TRA FILIPPO MORONI E DOMENICO ARCURI. Estratto dell'articolo di Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" il 9 marzo 2021. (…) Restano però in sospeso, sottolineano Le Iene , alcune domande. Perché quelle offerte scritte rimasero inevase fino a evaporare nel nulla in quel momento di angoscia collettiva per la mancanza di protezioni? E come mai la stessa accortezza nel valutare quelle proposte non fu poi applicata in tanti altri casi dove la marcatura Ce fu del tutto ignorata? E c'è quel marchio su tutte le mascherine al centro dell'indagine giudiziaria sui contratti per un miliardo e 250 milioni con tre consorzi cinesi, contratti mediati per 72 milioni, dicono le accuse, da amici italiani tra cui il giornalista Mario Benotti? Come mai tre delle imprese produttrici benedette da quell'affare non figurano nella White List del governo cinese con le aziende affidabili? Mah...

Mascherine, le telefonate mai sentite prima dell'ex commissario Arcuri. Le Iene News il 09 marzo 2021. Con il servizio di Gaetano Pecoraro e Marco Occhipinti vi parliamo stasera a Le Iene dell’inchiesta sui milioni di mascherine che sarebbero arrivate dalla Cina senza certificazioni. Noi vi facciamo sentire l’audio di alcune telefonate mai sentite prima dell'ex commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri. In particolare di una del 16 marzo 2020 con l’imprenditore Filippo Moroni che avrebbe tentato inutilmente di fornire dispositivi certificati e a prezzo molto più conveniente, “senza volerci guadagnare e per aiutare il paese”. Tutto questo e molte altre clamorose rivelazioni nel servizio de Le Iene. “1800 morti ma cosa stiamo aspettando? basta!... Ma chissenefrega di come interloquiamo! Ma chissenefrega! C’è la gente che muore e qui stiamo facendo burocrazia!”. Con il servizio di Gaetano Pecoraro e Marco Occhipinti nella puntata di stasera a Le Iene vi facciamo sentire alcune telefonate mai sentite prima. Una in particolare, di cui sopra vi presentiamo un estratto e sotto la trascrizione integrale, è del 16 marzo 2020. A parlare con l’ex commissario per l’emergenza Covid Domenico Arcuri, è l’imprenditore Filippo Moroni che avrebbe cercato inutilmente di fornire dispositivi regolari alla metà del prezzo di altre appena finite sotto la lente dei magistrati, che sarebbero anche prive della certificazione necessaria. Oggi Arcuri è finito al centro delle polemiche e poco dopo l’insediamento del nuovo governo è stato sostituito come commissario straordinario con il generale Francesco Paolo Figliuolo. E c’è appunto anche un’inchiesta della procura di Roma sull’acquisto nel marzo 2020 di 800 milioni di mascherine dalla Cina per 1,25 miliardi di euro, che sarebbero arrivate in parte senza la certificazione necessarie. Arcuri non risulta indagato. Gli intermediari dell’operazione secondo gli inquirenti avrebbero intascato commissioni dalle aziende cinesi per circa 72 milioni di euro e sono indagati per una serie di reati tra i quali traffico d’influenze, riciclaggio e ricettazione. Tra questi c’è il giornalista Mario Benotti, che più volte ha ricoperto il ruolo di consigliere nei passati governi. Ma torniamo a quel marzo 2020: l’Italia si trova completamente in lockdown e in mezzo al momento più drammatico della pandemia cercando dispositivi sanitari in tutto il mondo. Servono soprattutto mascherine, che sembrano introvabili anche per chi lavora e rischia la vita in ospedale. In questa situazione di emergenza ci si trova di fronte a una miriade di imprenditori che si propongono come fornitori con un alto rischio di truffa e una necessaria prudenza da parte di chi doveva vagliare e poi autorizzare tali proposte. In quel momento c’è anche chi come l’imprenditore Moroni si sarebbe messo a disposizione per fornirle a prezzo più basso e con la certificazione CE richiesta, “senza volerci guadagnare e per aiutare il paese”. Il prezzo: 1,11 euro per ogni Ffp2, per esempio, contro i 2,20 di quelle non certificate finite ora sotto inchiesta (quelle mascherine Ffp2 da 2,20 euro, analizzate, lascerebbero passare oltre il 70% di particelle quando il limite di legge è al 6%). Filippo Moroni ha da 4 anni un’azienda in Cina, a Shenzhen, e si occupa di forniture di apparecchi medicali. Mette a disposizione gratuitamente la sua intermediazione, dice, contattando i collaboratori di Arcuri e registrando alcune telefonate. Parla con Roberto Rizzardo, responsabile degli acquisti, dei contratti e della gestione dei fornitori per la struttura commissariale. Ma poi non verrebbe più ricontattato. Parla anche con Silvia Fabrizi, project manager collaboratrice di Arcuri, che a un certo punto gli passa direttamente il commissario. “C’ho pensato molto”, ci dice Moroni, “però ritengo che questa è una telefonata che vada condivisa, ci dà la misura di quel periodo che non va dimenticato, del fatto che 100mila morti oggi sono una follia e in quel momento eravamo a 1.800 morti”. Secondo Moroni, come trovate sopra nell’estratto e sotto nella trascrizione integrale, Arcuri prima dimostrerebbe di sapere poco della possibilità che stava offrendo con preventivi, lettere e email, di una fornitura di due milioni di mascherine al giorno, richiedere un’autorizzazione dell'Iss che non sarebbe necessaria essendoci già la certificazione europea CE e in generale, secondo Moroni, “fare burocrazia” mentre centinaia di persone stanno morendo. Come potrete vedere dalle ulteriori telefonate e indagini nel servizio sembra che l’ok dell’Istituto superiore di sanità non ci volesse e non si comprenderebbe come poi possano essere arrivate quelle mascherine senza marchio CE su cui sta indagando la magistratura romana, se questa era la condizione posta dalla struttura commissariale. Le condizioni dei pagamenti inoltre non sarebbero mai state mandate per iscritto a Moroni. Ognuno si farà la sua idea. Arcuri si negherà ai microfoni delle Iene, ma il suo ufficio stampa prova a spiegare perché la proposta di Moroni fu scartata: cliccando qui potrete trovare la risposta. Alla fine per Moroni sarebbero andate a buon fine forniture di mascherine in Stati Uniti, Venezuela, Brasile e Messico, non in Italia.

Gaetano Pecoraro ha parlato poi con Mario Benotti, uno degli indagati dell’inchiesta romana, e ha incontrato di nuovo Moroni, che ora vende le sue mascherine privatamente anche in Italia. Tutto questo e molte altre clamorose rivelazioni li troverete nel servizio de Le Iene in onda stasera dalle 21.10. Qui sotto trovate intanto, il testo della registrazione della telefonata del 16 marzo 2020 tra Arcuri e Moroni.

MORONI: “Allora io ho appena ricevuto la comunicazione, ve l’ho anche girata, noi abbiamo trovato le maschere CE, 2 milioni al giorno, le posso bloccare, la stessa azienda che è, che oggi ha montato le macchine, ha ottenuto la CE 5 giorni fa, ce l’avete, c’ha dato la possibilità di avere un milione e da domani due milioni di maschere al giorno, mi hanno appena chiamato, vi ho mandato il messaggio hanno un ordine di 200 milioni di maschere per il Brasile”.

ARCURI: “Aspetti aspetti aspetti, piano piano, dove stanno queste mascherine?”.

M.: “A Shenzhen in Cina”.

A.: “Ok quindi noi potremmo ordinarle, questi quante ne fanno?”.

M.: “2 milioni al giorno”.

A.: “Benissimo e quindi noi tra 5 giorni potremmo averne 10 milioni?”.

M.: “Fra 5 giorni ne potete avere 10 milioni certo”.

A.: “Perfetto e… cosa serve perché questo accada?”.

M.: “Mi dovete firmare immediatamente l’ordine e io devo bloccare l’ordine da… da questi signori perché…”.

A.: “Certo, io voglio…”.

M.: “Mi faccia parlare la prego mi scusi se la interrompo e… 2 minuti fa mi è arrivato il messaggio e ve l’ho mandato, ce l’ha Silvia davanti a lei, il messaggio è: ‘Abbiamo 200 milioni di maschere, richiesta di maschere per gli stati uniti e 250 milioni di maschere per il Brasile’. Questo significa che loro di fatto saturano la capacità produttiva della…”.

A.: “Dottore, la devo fermare, allora le devo chiedere un minuto di ascolto. Noi gestiamo l’emergenza più grave degli ultimi 60 anni in Italia, compresa la guerra”.

M.: “Saltiamo la retorica, mi dica quello che mi deve dire”.

A.: “Aspetti un secondo, aspetti sennò”.

M.: “Mi dica quello che mi deve dire perché il suo tempo è più prezioso del mio”.

A.: “Ecco allora se lei ci chiama ogni minuto non risolviamo niente, se noi facciamo un ordine risolviamo tutto. Siccome dobbiamo fare l’ordine, se siamo lineari e precisi capiamo che dobbiamo fare. Io mi sto occupando di lei con il quale ho piacere di parlare adesso da stamattina perché non sa quante telefonate hanno avuto questo argomento. Allora se queste telefonate conducono alle mascherine io… lei è un angelo e io ho risolto un problema. Se ne parliamo tra di noi non risolviamo niente, lei ha mandato un ordine una lettera di offerta?”.

M.: “Sì ve l’ho mandata ieri sera è nelle vostre mani da 20 ore”.

A.: “Ok, seconda domanda. Perché bisogna aspettare l’Istituto superiore di sanità?”.

M.: “Perché l’istituto superiore di sanità non sa leggere cosa vi ho mandato, io vi ho mandato un’offerta”.

A.: “Se l’istituto superiore di sanità non sa leggere io non ci posso fare niente, perché se non dice… Se non mi bolla quello che lei ha mandato io vado in galera, punto. Se non sa leggere… se vuole le do il telefono del professor Brusaferro e lei gli insegna a leggere, possiamo andare avanti perché se no dice che io spreco il tempo e lo faccio sprecare a lei”.

M.: “Lei mi ha fatto una domanda io le ho risposto commissario”.

A.: “Eh non mi può rispondere che non sa leggere capisce?”.

M.: “No, io le rispondo”.

A.: “Perché… l’Istituto superiore di Sanità esiste per legge. Per me quello che dice l’Istituto superiore di Sanità vale, e non… non mi è sufficiente per risolvere il problema sapere che non sa leggere. Che cosa deve fare l’Istituto superiore di sanità chiedo ai miei che sono qui davanti”.

M.: “Non deve fare nulla perché ha già legge. Io come privato le posso importare domani mattina queste maschere e non me lo potete nemmeno fermare, è legge”.

A.: “E quindi?”.

M.: “E quindi io le porto in Italia, la domanda è: ‘Le volete portare voi in Italia con un aereo militare e fare prima di quanto faccia io?’. E le diamo al sistema pubblico invece che infilarle nel sistema privato e le mandiamo a 60 euro l’uno? Che gioco vogliamo fare?”. 

A.: “Queste mascherine sono pronte o ho capito che ne fanno 2 milioni al giorno?”.

M.: “Ascolti… no lei non ha nemmeno forse capito che le mascherine appena sono pronte vengono vendute, via, partono via, non arrivano nemmeno allo stock di 10 milioni”.

A.: “E quindi?”.

M.: “Lo volete questo stock? C’è una capacità produttiva di 2 milioni al giorno…”.

A.: “Se l’Istituto superiore di sanità che è del governo italiano, che ha nominato me, mi scrive che le posso prendere è chiaro che io le prendo se lei mi risponde che l’Istituto superiore di sanità non sa leggere”.

M.: “Non sa leggere perché c’è scritto che le mascherine sono CE e è tutto bloccato perché questi hanno pensato che le mascherine che vi vorremmo mandare non sono CE”.

A.: “Perfetto, c’abbiamo la possibilità di fargli vedere che sono CE?”.

M.: “Ve l'ho mandato! Ve l'ho mandato!”.

A.: “Ok va beh senta dottore, facciamo così, io adesso le ripa…”

M.: “1800 morti ma cosa stiamo aspettando? basta!”.

A.: “Da me ha tutta la rassicurazione, mi dispiace averle parlato perché questo diciamo non è il modo di interloquire, adesso le…”.

M.: “Ma chissenefrega di come interloquiamo! Ma chissenefrega! C’è la gente che muore e qui stiamo facendo burocrazia!”.

A.: “Va bene, le passo i miei, grazie”.

M.: “Mi dia qualcuno che sappia fare un bonifico, mi basta questo, vi voglio aiutare, vi voglio aiutare c***o! Datemi qualcuno capace a fare un bonifico…”

(la telefonata viene chiusa)

Caso mascherine e Arcuri, la risposta arrivata dall'ufficio stampa. Le Iene News il 09 marzo 2021. Ecco la risposta che ci è arrivata ieri, 8 marzo, via email dopo aver cercato di contattare l'ex commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri per il servizio di Gaetano Pecoraro e Marco Occhipinti che vedrete stasera a Le Iene sul caso mascherine. A marzo scorso, la Gsquare Asia Ltd per il tramite di Filippo Moroni, come già riportato in altre trasmissioni televisive e da alcune testate giornalistiche cartacee e on line, aveva proposto alla Struttura Commissariale di acquistare diversi milioni di mascherine chirurgiche, FFP2 e FFP3. Il sig. Moroni presentò in soli tre giorni, tra il 15 marzo e il 17 marzo 2020, ben sette offerte, con volumi e prezzi di mascherine ogni volta differenti. Si andava da un prezzo di 0,56 euro ad uno di 2,98. Ma una sola era la costante: il pagamento integrale anticipato, ovvero del 100% del prezzo all’ordine. Successivamente, il 25 marzo, presentò una ottava offerta, con la richiesta del 50% di anticipo. Tutte le proposte sono a Vostra disposizione. Lo Stato Italiano, per il tramite del Commissario, non ha mai accettato di effettuare pagamenti in anticipo, per evitare il rischio di mancate forniture o di ricevere dispositivi qualitativamente non in condizioni di poter essere distribuiti, come purtroppo accaduto a varie amministrazioni locali. A tutti i fornitori e gli intermediari, e quindi anche al sig Moroni, è stato subito posto in chiaro che:

- nessun anticipo sarebbe stato fornito per qualsivoglia rapporto commerciale;

- che i prodotti avrebbero dovuto tutti avere la marchiatura CE e, comunque, essere validati dal Comitato Tecnico Scientifico istituito presso il Dipartimento della Protezione Civile, e solo dopo avrebbe potuto essere distribuiti;

- che si sarebbe dovuta garantire l’affidabilità, la qualità dei prodotti attesi, la regolarità delle forniture necessarie a contrastare l’emergenza.

Apprese queste esigenze, il sig. Moroni non ha mai presentato altre offerte compatibili con i principi esposti. 

Tutta la documentazione relativa a quanto affermato è in nostro possesso e possiamo metterla a vostra disposizione qualora lo riteniate opportuno.

Daniele Capezzone per "la Verità" il 3 marzo 2021. Si dirà che non c'è da stupirsi. E tuttavia la spettacolare mobilitazione di quelli che potremmo definire i «partigiani del 26 aprile», i combattenti del giorno dopo, ha una forza tragicomica insuperabile. Per lunghissimi mesi, abbiamo assistito (con eccezioni che si possono contare su poche dita di una sola mano: questo giornale, che ha aperto la campagna e l'ha condotta quotidianamente, più le trasmissioni televisive di Nicola Porro e Mario Giordano, e rarissime altre voci isolate) a una celebrazione costante di Domenico Arcuri, a cui veniva ogni giorno lucidata la statua in bronzo. Restano indimenticabili le ospitate tv del supercommissario in maglioncino, in luoghi dove non ci fosse il rischio di domande urticanti; oppure le minacce, a volte orali e a volte scritte, di querele e azioni legali verso chi chiedeva conto del modo in cui venivano usati i denari dei contribuenti e gli immensi poteri conferiti alla struttura commissariale; o ancora i servizi celebrativi sui telegiornali, fino al memorabile viaggio del furgone con le prime dosi di vaccino, con l'infaticabile Arcuri pronto ad accogliere a Roma camion-flaconi-scaricatori. Solo le rigidità invernali hanno impedito che la sequenza prevedesse un Arcuri mussolinianamente a torso nudo, stile trebbiatura del grano, per un'operazione da Istituto Luce 2.0. Ma, miracolo dei cambi di regime, ieri quel gigantesco apparato mediatico si è improvvisamente rivoltato contro l'eroe caduto, trovando - a guerra finita - un'energia e uno zelo che forse sarebbero stati più apprezzabili nell'epoca in cui Arcuri era triumphans. Ancora un paio di settimane fa, sul Foglio del 16 febbraio, un fiammeggiante Giuliano Ferrara invocava «più poteri ad Arcuri». Incipit memorabile: «Il commissario Arcuri deve essere riconfermato tassativamente». E ancora: «Cambiare in corsa il responsabile del piano vaccinale sarebbe un atto criminale». Fino (non senza aver lasciato cadere l'interrogativo minaccioso: «è abbastanza chiaro per i dementi della polemica spicciola?») a definire «stucchevole» il «tiro all'Arcuri», «stronzi quelli all'attacco», e le critiche «semina di sfiducia e intolleranza preventiva». E ieri? Sullo stesso giornale il direttore Claudio Cerasa ha improvvisamente scelto il violino. Per un verso confermando le richieste di chiusura preventiva, ormai un marchio di fabbrica per Il Foglio, e attaccando Matteo Salvini che osa chiedere qualche riapertura (il leader leghista è addirittura definito «l'Infiltrato»: quindi sono i tifosi del BisConte e dell'ipotetico TrisConte a stabilire chi possa e chi non possa sostenere Mario Draghi), ma per altro verso sottolineando la scelta anti Arcuri del premier: «decisionismo», «nel giro di pochi giorni, Draghi ha marcato una discontinuità netta con il governo precedente e ha fatto saltare i due nomi che gestivano la macchina dell'emergenza pandemica». Notevole per chi evocava continuità tra il possibile Conte tre e il Draghi uno («Un TrisConte con Drago!», aveva esultato Cerasa il 13 febbraio). Non da meno la performance del Corriere della Sera. Fiorenza Sarzanini ha salutato «la nuova stagione» e ha messo in fila «le inefficienze del governo Conte». Ancora più duro, quasi implacabile, contro i «troppi incarichi» e gli «errori da ribalta» di Arcuri, Federico Fubini, che improvvisamente non ha risparmiato nulla al duo Conte-Arcuri: il rapporto fra loro «finirà nei manuali di politica come esempio di ciò a cui porta la scaltrezza e l'accecamento del potere sullo sfondo di istituzioni deboli». E ancora: Arcuri «accetta da Conte qualunque incarico e lo fa con un piglio che non denota mai umiltà». Non mancano nemmeno curiose sottolineature sulla provenienza geografica dei due personaggi: «un rapporto ambivalente», dice il fustigatore Fubini, «tra il capo (pugliese) nel suo bunker e il fedelissimo (calabrese) in battaglia». Seguono notazioni psicologiche (Arcuri «scopre che le luci della ribalta non gli sono sgradite») e critiche postume a Conte (che fa del commissario «uno scudo umano per Palazzo Chigi»). Gran finale: «È Arcuri che ha scelto di danzare al ritmo di Conte. E con Conte, alla fine, è inciampato». Dev' essere un altro quotidiano rispetto a quello che, per lunghissimi mesi, pubblicava paginoni celebrativi su Conte e la sua squadra.In battaglia anche La Stampa, che pure, sotto la direzione di Massimo Giannini, era stata a lungo ossequiosa e allineata verso Conte e i suoi. Eppure ieri è scattato il «contrordine, compagni». La sequenza dei titoli è martellante. Prima pagina: «Draghi chiude l'era Conte-Arcuri». Una liberazione, par di capire. Pagina 3: «Il premier smantella il metodo Conte», con tanto di accenni nel pezzo a un Draghi che «ha appreso preoccupato le rivelazioni in arrivo dalle inchieste sui raggiri delle mascherine». Pagina 4: «Dal flop di Immuni alle inchieste sulle spese». In versione combat anche il solitamente compassato Marcello Sorgi, che firma un editoriale significativamente intitolato «Il colpo d'ala che serviva». Povero Arcuri e povero Conte: improvvisamente scaricati da tanti in un repentino «26 aprile».

Estratto dell'articolo di Francesco Bei per "la Repubblica" il 2 marzo 2021. […] Infine una nota su Arcuri, oggetto di una aggressiva campagna di stampa sui quotidiani della destra e sui social. Nonostante gli errori, la sovraesposizione mediatica e un certo gusto per la scena, il commissario uscente ha gestito una crisi senza precedenti, senza un manuale di istruzioni. Di questo gli va dato atto. Ma la magistratura sta facendo luce su una serie di malversazioni intorno alle forniture di mascherine e, benché Arcuri non sia personalmente coinvolto, non è difficile immaginare che Draghi abbia accelerato sul ricambio anche per sottrarre una struttura così esposta a eventuali contraccolpi giudiziari.

DAGOREPORT il 2 marzo 2021. Con il siluramento di Domenico Arcuri, Draghi ha chiuso definitivamente l’era Conte. La decisione è stata presa la mattina di sabato 27 febbraio. Ne ha parlato con i suoi "dioscuri", Roberto Garofoli e Franco Gabrielli. Quest'ultimo ha poi affrontato la questione con il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini. La decisione è maturata nel fine settimana e il generale Francesco Paolo Figliuolo è stato avvisato lunedì 1 marzo. Quello dell’alpino Figliuolo non è un nome estratto a caso: era tra i papabili per diventare Capo di Stato maggiore dell'Esercito e prendere il posto di Salvatore Farina. La sua ascesa è stata stoppata dal ministro della Difesa, Guerini, che gli ha preferito Pietro Serino. Se Figliuolo non aveva sufficienti santi politici in paradiso per sperare nella nomina, ha avuto dalla sua la stima di Franco Gabrielli che ha avuto modo di apprezzarne le qualità soprattutto nel periodo in cui il neo Commissario all'emergenza era Comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell'ambito dell'operazione Isaf (ottobre 2004 - febbraio 2005). Infatti la nomina di Figliuolo è stata "concertata" tra Gabrielli, big sponsor del militare, e il ministro Guerini. Quando sul generale è stato trovato unanime consenso, il siluramento di Arcuri doveva solo essere apparecchiato. Ieri Roberto Garofoli ha chiamato Arcuri e lo ha convocato alle 13.45 a palazzo Chigi per quello che sarebbe stato il faccia a faccia di commiato con il presidente del Consiglio. Anche umiliante per l’uomo-simbolo del governo Conte. ‘’Tal che a un certo punto sembrava che l'ex-premier ora in corsa per la guida dei 5 stelle non potesse far nulla senza consultarlo. Al dunque, forse è proprio questo che ha nociuto all'ex-commissario: l'aver assunto, anche al di là delle sue intenzioni, un ruolo politico o semi-politico improprio che non gli spettava ed era apertamente contestato (Renzi, Salvini), insieme alle numerose e parallele responsabilità che gli avevano alienato il sostegno di chi pure lo aveva stimato in passato” (Marcello Sorgi). “Un incontro rapido, freddo, definitivo”, svela Tommaso Ciriaco su “Repubblica”. “Resta un problema, però. «Ci sarebbe da inviare la lettera di dimissioni». Nominato per decreto, il commissario straordinario può infatti essere sostituito solo con un altro decreto. Oppure, appunto, con un passo indietro "volontario". Arcuri torna in ufficio e spedisce la missiva”. Cosa ha spinto Draghi a procedere al cambio in corsa, nonostante avesse deciso in un primo momento di attendere la scadenza naturale del mandato di Arcuri, fissata il 31 marzo 2021? Le ragioni sono due.

1) Le varianti del Covid si stanno diffondendo rapidamente, il contagio aumenta in modo esponenziale e la terza ondata (o seconda-bis) presto raggiungerà nuovi picchi proprio mentre la campagna di vaccinazione arranca tra mille difficoltà. Con una nuova emergenza alle porte, Draghi si è convinto della necessità di replicare il modello di Joe Biden messa a punto con il segretario alla Difesa Lloyd Austin: affidarsi all'esercito. E visto che tra aprile e giugno dovrebbero arrivare in Italia 64 milioni di dosi, meglio dotarsi subito di una catena di rifornimenti strutturata ed efficiente (Figliuolo è Comandante Logistico dell'Esercito), contando sulla sinergia tra Figliuolo e Curcio, tra militari e Protezione civile. 

Ps: sul vaccino russo Sputnik, Draghi resta più che freddino (eufemismo), nonostante l'efficacia dimostrata e le richieste a usarlo di Berlusconi e Salvini. Non vuole tendere la mano a Putin per non irritare gli amici americani già fornitori di fiale attraverso Pfizer, Moderna e Johnson & Johnson…

2) L'inchiesta sulle forniture di mascherine, raccontata da Giacomo Amadori su "La Verità" e portata avanti da Paolo Ielo della Procura di Roma, finora non ha toccato direttamente Domenico Arcuri, che non è indagato. Anzi, si è dichiarato “parte lesa”. Ma il timore che l'inchiesta potesse allargarsi e coinvolgere (o travolgere?) l'ex commissario si è diffuso a palazzo Chigi. Le rivelazioni di Mario Benotti, le intercettazioni dell'imprenditore Jorge Solis che chiama Arcuri "Yoyito" ("Con lui ci sono soldi dappertutto") e le tele-randellate inferte sul caso da Massimo Giletti e Nicola Porro, hanno spinto Draghi a "tutelare" la struttura commissariale con un repentino avvicendamento. D'altronde nessuno si è stracciato le vesti per la decisione. L'ormai ex supercommissario è stato difeso, e in modo molto blando, solo da Pd e M5S. Segno che la sua reggenza da uomo solo al comando (e allo sbando) ha rotto l'anima anche ai suoi (ex?) sostenitori. Avviso ai navigati. Le strade di Draghi e Domenico Arcuri sono destinate a scontrarsi ancora. Palazzo Chigi ha messo nel mirino Invitalia, di cui l'ex commissario è Amministratore delegato, per il delicatissimo dossier Ilva. SuperMario vuole sciogliere il nodo del complesso industriale di Taranto prima che si sovrapponga ad altre emergenze. Sulla scrivania di Draghi ci sono altri due fascicoli: la riorganizzazione generale dei Servizi segreti e Cassa depositi e prestiti. Per le nomine nelle partecipate, aspetterà la sentenza di Milano sul caso Eni-Nigeria e vuole leggere le motivazioni della condanna a 6 anni di Alessandro Profumo, oggi Ad di Leonardo, per presunte irregolarità nella contabilizzazione dei bilanci di Mps tra il 2012 e il 2015. 

Umberto Rapetto per infosec.news l'1 marzo 2021. I più spiritosi si soffermeranno sul titolo. Chi invece non ci trova nulla da ridere è legittimato a domandarsi chi abbia visto Arcuri come panacea e, attribuitegli doti taumaturgiche, abbia affidato al supermanager dalla voce inconfondibile i ruoli più delicati nel fragile contesto di questi tempi. Dalla gestione dell’emergenza pandemica (che è difficile considerare un successo) alla distribuzione dei farmaci monoclonali, dalla ormai storica direzione plenipotenziaria del colosso finanziario pubblico Invitalia all’amministrazione straordinaria dell’ILVA: la vasta gamma di incarichi concentrati sul dottor Domenico Arcuri ha stimolato la curiosità degli invidiosi che hanno cominciato a chiedersi quanto duri la giornata di un tanto eroico grand commis (rallentato fra l’altro dalle partecipazioni a show televisivi e a conferenze stampa e – almeno in passato – letteralmente stalkerizzato da migliaia di messaggi e chiamate di improbabili mediatori) e soprattutto quanto siano grandi le pagine dell’agenda su cui l’interessato sicuramente annota tutte le cosette da fare quotidianamente. Vista e considerata la totale assenza di “competitor” ogni qualvolta si sia profilata la necessità di un dirigente di comprovata competenza e professionalità, si deve prendere atto che sicuramente il “Commissario Straordinario” ha doti superiori a chiunque. E allora il domandarsi “chi ce l’ha messo” diventa imperativo. È senza dubbio fondamentale conoscere chi sia il talent-scout che è stato tanto bravo da individuare un vero e proprio decatleta della Res Publica. Oltre a voler capire chi ha saputo selezionare un così fulgido esempio di interdisciplinarietà, tanti vorrebbero sapere come siano state identificate tutte quelle doti non presenti in nessun altro connazionale. Il “vagliatore” potrebbe svelare la metodologia con cui ha scovato Arcuri, perché straordinari criteri e sofisticate tecniche selettive potrebbero far comodo in un momento in cui solo un manipolo di “super eroi” avrebbe modo di risollevare le sorti del Paese. Allo stesso selezionatore (e a tutti quelli che – senza interferire nei processi decisionali, ça va sans dire – hanno caldeggiato le varie candidature o ne hanno plaudito l’incoronazione) viene da chiedere il più innocente “beh, com’è andata?” così da vedere se il feedback è rispondente alle aspettative sue e degli italiani. Forse ha voluto mettere in difficoltà il dottor Arcuri sovraccaricandolo di incombenze? Magari ha pensato di mettere alla prova il suo ineccepibile spirito di abnegazione e il suo prodigarsi oltre ogni limite? Chissà… ma se i risultati non hanno dato soddisfazione (e forse basta guardarsi attorno), “chi ce l’ha messo” è il caso che faccia almeno un esame di coscienza. La “culpa in eligendo”, a volte, è all’origine di danni cui a farne le spese è l’intera collettività.

Milena Gabanelli e Simona Ravizza per corriere.it l'1 marzo 2021. Fino all’emergenza Covid, tutto quello di cui ogni anno gli ospedali hanno bisogno (28 miliardi di bandi di gara aggiudicati) per il 30% lo comprano direttamente, per il 10% ci pensa Consip, per il resto fanno affidamento sulle 21 centrali d’acquisto regionali. Lo scoppio dell’epidemia rende necessaria la presenza di un commissario con funzione di coordinamento. Il decreto del 17 marzo 2020 gli conferisce il compito di acquistare ogni bene indispensabile al contenimento della diffusione del virus, anche in deroga alle norme: «Tutti gli atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione. Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che li ha posti in essere o che vi ha dato esecuzione».

Compiti e poteri del commissario per l’emergenza. Il governo guidato da Giuseppe Conte sceglie Domenico Arcuri, da 13 anni amministratore delegato di Invitalia. La società, posseduta dal ministero dell’Economia, si occupa di attrazione degli investimenti, sviluppo del Mezzogiorno, aziende in crisi, bonifiche, accoglienza migranti, digitalizzazione Pubblica amministrazione, ricostruzione terremoti, salvataggio Ilva e Banca Popolare di Bari. Il comma 6 dell’articolo 4 dello statuto apre di fatto a 360 gradi il raggio d’azione: «La società potrà esercitare tutte le attività e funzioni ulteriori eventualmente attribuitele in forza di leggi e di norme anche per il perseguimento di nuove attività». Arcuri, manager politico navigato, non ha competenze specifiche in Sanità, ma l’articolo 122 gli consente di attingere dove ci sono: «Il commissario può avvalersi di soggetti attuatori e di società in house, nonché delle centrali di acquisto». Decide di non farlo. Questo è il resoconto dopo dieci mesi.

Camici, tamponi, reagenti: le falle del commissario. Il commissario non ce la fa a soddisfare l’intero fabbisogno di guanti, camici, respiratori, gas medicali, reagenti, siringhe, letti: per più della metà devono pensarci le Regioni. Qualche esempio: Arcuri spende 65,4 milioni in guanti di vinile e nitrile, le centrali acquisti devono sopperire per 138 milioni; 1,4 miliardi per camici, calzari, cuffie e visiere, contro i 338 milioni di Arcuri. Per respiratori, monitor e letti il commissario copre il 57%, per tamponi e reagenti il 49%. Al 30 dicembre 2020 la spesa per le attrezzature e i materiali sanitari indispensabili nella lotta alla pandemia, ricostruita per Dataroom dall’Osservatorio MaSan (Management acquisti e contratti in Sanità) del Cergas-Bocconi, è di 5,5 miliardi così ripartiti: gli acquisti delle Regioni ammontano a 2 miliardi, quelli di Consip a 400 milioni, quelli della Protezione civile a 300, quelli del commissario Arcuri a 2,8 miliardi di cui 1,8 miliardi (il 65% del fabbisogno) riguardano mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3.

I prezzi a confronto delle mascherine Ffp2. Sulle mascherine non consideriamo la prima ondata, durante la quale si è consumato ogni sorta di sciacallaggio: non si trovavano e, pertanto, abbiamo dovuto accettare qualunque prezzo pur di averle. Dall’estate scorsa le cose sono cambiate: il mercato è inondato. Per quel che riguarda le Ffp2, il presidio numero uno per gli ospedali, sono pressoché tutte di produzione cinese. Visto che si tratta di quantità gigantesche non c’è dubbio che il commissario spunterà il miglior prezzo. L’11 settembre Arcuri firma un contratto da 100 milioni di pezzi con la YQT Health Care B.V. (la lettera di commessa), società olandese con un solo dipendente costituita il 16 marzo 2020. È una srl controllata dalla Bydcare Eu , filiale europea della cinese Byd, produttore di automobili di Shenzhen riconvertita, come dichiarato sul sito, nel più grosso produttore al mondo di mascherine. Al 20 dicembre l’unico destinatario di import sanitario della YQT è il commissario straordinario. Il prezzo pagato è di 105 milioni di euro, vale a dire 1,05 euro a mascherina. Le forniture sono mensili e, ad oggi, risultano consegnati oltre 45 milioni di pezzi. Val la pena sottolineare che la Byd cinese è la stessa azienda con cui il commissario aveva firmato le scorso aprile due contratti per una fornitura di 300 milioni di mascherine chirurgiche per 89,4 milioni di euro (30 centesimi l’una) con consegne avvenute fino ad ottobre. In quel caso però il pagamento era stato fatto direttamente alla società cinese senza passare dall’importatore olandese.

Dalla Cina all’Italia via Olanda il prezzo raddoppia. Il 25 settembre, dunque nello stesso periodo, l’azienda ospedaliera «Ospedali riuniti Marche Nord» di Pesaro aggiudica una procedura negoziata da 756 mila euro per l’acquisto di 2 milioni di Ffp2, prezzo: 37 centesimi l’una. La gara d’appalto è divisa in tre lotti. Uno degli aggiudicatari è la Polonord Adeste, importatore italiano di mascherine cinesi. La qualità è la stessa, la certificazione è equivalente (come mostrano i documenti esaminati da Dataroom), la differenza però non è banale: su 100 milioni di pezzi il commissario ha pagato 65 milioni in più. Anche la centrale acquisti della Regione Veneto, che per non rischiare di trovarsi scoperta ha acquistato un piccolo lotto, ha speso meno: 90 centesimi; mentre quella del Gruppo San Donato, il principale operatore della Sanità privata accreditata, ai primi di settembre se le aggiudica a 0,91 centesimi da un’azienda produttrice italiana. In sostanza si compra dalla Cina, si paga in Olanda, e si paga caro.

Terapie intensive: 5 mesi per l’elenco dei fornitori. Il decreto legge del 19 maggio 2020 prevede l’acquisto di attrezzature e ventilatori per potenziare di 3.500 posti letto le terapie intensive e di 4.225 le semi-intensive. Il 27 luglio Invitalia pubblica il bando in cui le aziende disponibili a vendere i macchinari devono segnalarsi per poi essere selezionate. Le Regioni comunicano le loro necessità entro il 31 agosto. Ma l’elenco dei fornitori, a cui le singole aziende sanitarie devono rivolgersi per negoziare, il commissario lo rende pubblico il 2 novembre, 5 mesi e mezzo dopo, nel pieno nella seconda ondata. Per quel che riguarda la fornitura da 10 milioni di euro per l’acquisto di 157 milioni di siringhe di precisione «luer lock», che estraggono 6 dosi invece di 5 da ogni fiala del vaccino Pfizer, vuole vederci chiaro la Corte dei Conti del Lazio per capire se sia fondato il sospetto che avrebbero potuto essere comprate siringhe decisamente meno costose. Ma anche se fosse, il commissario per decreto è immune da ogni responsabilità. Vale per le siringhe, le mascherine, le primule (i box per le vaccinazioni) e qualunque altro bene.

Che fine fanno le competenze? Sta di fatto che la presenza di più soggetti che acquistano gli stessi materiali crea un cortocircuito di concorrenza che rende ancora più difficile portare a casa la merce. «La gestione degli acquisti sanitari durante l’emergenza Covid evidenzia i problemi profondi della macchina amministrativa del Paese – spiegano Francesco Longo, Niccolò Cusumano e Veronica Vecchi dell’Osservatorio MaSan Cergas-Bocconi –. Quando si affidano compiti speciali a strutture commissariali raramente si tiene conto delle competenze specialistiche necessarie, soprattutto in Sanità. Le strutture ordinarie dovrebbero, ben coordinate, potersi occupare anche di emergenze: il Servizio sanitario, le Regioni, le loro centrali di acquisto, le aziende sanitarie avrebbero dovuto occuparsi anche di Covid. E, in ogni caso, lo hanno fatto, ma ognuno per conto proprio e cercando di mettere “pezze” alle falle del sistema commissariale». Sta di fatto che la presenza di più soggetti che acquistano gli stessi materiali crea un cortocircuito di concorrenza che rende ancora più difficile portare a casa la merce. Questo succede perché viene creata una struttura che dovrebbe avere una funzione organizzativa e di guida valorizzando quelle che già si occupano della materia, che invece si sostituisce ad esse senza però averne le competenze specifiche.

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 26 febbraio 2021. Quando ieri mattina il commissario Domenico Arcuri si è svegliato per prima cosa ha fatto due cose: controllare il telefono e leggere le notizie di giornata. Sul telefono non era arrivata alcuna telefonata di Mario Draghi, che mai ha sentito direttamente da quando l' ex presidente della Bce è diventato premier. Le notizie raccontavano, invece, di un vertice tra il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, e i vertici di Farmindustria a cui il Commissario non era stato invitato. Quando in tarda serata è rientrato a casa, due, tra le tante, erano le cose accadute. Il telefono era restato muto. E Arcuri aveva partecipato alla riunione con Giorgetti e Farmindustria. Che accadrà oggi quindi? Che fine farà il commissario Arcuri? È questa la domanda che da giorni si ripete nei corridoi del governo e del potere romano. «Due soli conoscono la risposta: il premier Draghi e il suo sottosegretario Roberto Garofoli. E sono silenziosissimi», sorride una fonte di governo. Per capire qualcosa di più è, quindi, necessario rimettere le cose in ordine e analizzare quanto accaduto in queste ultime settimane. Subito dopo l' entrata in carica del nuovo governo, ci sono stati contatti diretti tra il Commissario e Palazzo Chigi. Seppur mai direttamente con il premier. Nei colloqui sono state chieste informazioni sulla situazione, una relazione che poi è stata il centro del discorso di Draghi alla Camera sul piano vaccinale. E un messaggio sostanziale di fiducia. Sulla base di un ragionamento: «L' Italia nella prima parte ha avuto ottime performance, con i complimenti della Von Der Leyen. Continuiamo così». Quello che è accaduto nei giorni successivi non è stato però esaltante: i dati sono peggiorati per via delle basse consegne. E a causa dei piani di somministrazione delle Regioni che, dopo una prima fase felice (anche perché non complessa: si vaccinava in ospedale), hanno cominciato a fare acqua. Accanto a performance peggiori è successo anche altro: la Lega, direttamente con il segretario Matteo Salvini, ha chiesto discontinuità. Tradotto: la testa di Arcuri. Lo stesso ha fatto anche Fratelli d' Italia dall' opposizione, individuando nel Commissario il trait d' union tra l' esperienza Conte e quella di Arcuri. È successo però altro. In questa complessa situazione politica si è esplicitata anche una difficoltà di comunicazione tra la struttura commissariale e la Protezione civile, o per lo meno un pezzo di essa: quella che fa capo ancora a Guido Bertolaso, non a caso indicato dalla Lega come l' uomo perfetto per il piano vaccinale. E quella che in un certo senso si rifà ad Agostino Miozzo, il numero uno del Cts, che in queste ora ha rapporti tesi con la struttura commissariale. L' inchiesta sulle mascherine della procura di Roma ha posto infatti una questione: chi ha autorizzato le mascherine, di scarsa qualità, importate da Menotti? «Il Cts, come prevede la legge», ha spiegato ieri Arcuri. Dunque, Lega e pezzi di Protezione civile farebbero volentieri a meno del Commissario. Chi lo difende? La politica, dopo mesi di venerazione, è come nelle migliori tradizioni afona. Il ministro della Salute, Roberto Speranza, non ha mai nascosto la stima. Da Chigi guardano, come se "il caso Arcuri" non fosse in cima all' agenda di governo: dopo aver incassato l' addio alle primule e essersi assicurati di una gestione collegiale, con Esercito e Protezione civile, si aspettano risultati nel piano di somministrazioni, comunque in capo alle Regioni (non a caso ieri Bonaccini ha chiesto la convocazione dello Stato-Regioni). E un piano per la produzione. Sul futuro di Arcuri resta dunque scritta ancora una data: 30 aprile, scadenza del suo mandato. Domani, però, è un altro giorno.

Aghi sbagliati, fisiologica sfusa: Arcuri "penalizza" la Lombardia. Negli hub lombardi consegnati aghi sbagliati e fisiologica senza confezione e numero di lotto. Gli ennesimi flop del super commissario colpiscono ancora la Lombardia che deve fare da sola. Vaccinazione a rischio frenata. Martina Piumatti - Gio, 25/02/2021 - su Il Giornale. Dopo le siringhe anche gli aghi. E a farne le spese ancora la Lombardia. Dalla sede romana della struttura commissariale, secondo quanto riporta AdnKronos, non solo sarebbero arrivati aghi inadatti per la somministrazione del vaccino anti Covid di Pfizer, ma pure pacchi di soluzione fisiologica avvolta in pellicola trasparente. Tutto privo di un confezionamento e senza uno straccio di rintracciabilità identificabile. Un "pasticcio" che potrebbe compromettere la campagna vaccinale, già minata da tagli nelle forniture, lungaggini burocratiche e varianti varie. "L'ultima consegna di vaccini - si legge nella segnalazione alla Regione Lombardia da parte dei medici degli hub vaccinali - è stata accompagnata da consegna di dispositivi inadeguati alla somministrazione, nello specifico: aghi 22 G1 pollice descritti 'come per somministrazione Pfizer'; aghi 22 G 1.5 descritti come 'per somministrazione Pfizer'; aghi 25 G 1,5; soluzione fisiologica avvolta in pellicola trasparente senza confezionamento e senza rintracciabilità del lotto". E all'opportuna segnalazione del problema si accompagna la richiesta di informare la struttura commissariale delle pesanti anomalie e avere assicurazioni che la cosa non si ripeta con le prossime consegne. Anche perché gli aghi giusti ci sarebbero eccome. Almeno a giudicare dal decreto di aggiudicazione per la fornitura firmato dal commissario il 4 gennaio scorso ne sarebbero già stati consegnati al 31 gennaio oltre 170 milioni. Un quantitativo più che sufficiente per tutti. Intanto, in attesa che da Roma battano un colpo, i centri vaccinali lombardi devono arrangiarsi da soli, rimediando all'ennesimo pasticcio. Come a inizio gennaio con le siringhe, rimpiazzate intaccando le scorte stoccate nei magazzini degli ospedali. Gli hub della Regione stanno "provvedendo con approvvigionamenti propri a procurarsi il materiale" necessario per le vaccinazioni anti Covid-19.

Non solo. Per evitare nuovi "scherzi" alle prossime forniture, i sanitari lombardi chiedono alla Regione di premere per avere in via anticipata da ora le schede tecniche dei dispositivi contrattualizzati previsti. Insomma, nel mirino c'è sempre lui il commissario per l'emergenza Domenico Arcuri. Che dimezzato negli incarichi, uscito dai radar e dato più volte per finito, è ancora lì a gestire la partita che scotta: l'approvigionamento dei vaccini contro il Covid. Ma sulla campagna vaccinale la Lombardia si gioca tutto e non è più pronta a fare sconti alla malagestione commissariale. Arcuri è avvisato.

Da liberoquotidiano.it il 19 febbraio 2021. Altro bagno di umiltà per Vincenzo De Luca. Il governatore della Campania ora rivendica lo stop all'iniziativa più controversa di Domenico Arcuri. "Mi permetto - esordisce su Facebook - di rivendicare qualche merito nell’aver bloccato l’operazione Primula, 10 milioni di euro buttati a mare che potrebbero essere dati al personale sanitario e infermieristico come incentivo nella battaglia anti Covid". Per il presidente della Regione del Pd il super commissario ha sbagliato tutto, "non ha fatto l'unica cosa che andava fatta". Cosa? "Prendere le misure necessarie per fornire l’Italia delle tecnologie indispensabili per produrre in Italia, magari su licenza di Pfizer, Moderna o Astrazeneca, i vaccini per i nostri concittadini". In sostanza De Luca segue la scia di Luca Zaia. Il governatore del Veneto ha già risposto ai ritardi delle società farmaceutiche facendo da sè. "Con un lavoro di 6-7 mesi - condivide il dem -  avremmo dotato tante nostre aziende delle tecnologie necessarie a produrre i vaccini. Non lo abbiamo fatto, per la verità neanche l’Europa, ma avremmo dovuto fare questa come scelta principale. Così oggi noi siamo in attesa di quello che decidono le case produttrici. Abbiamo avuto meno della metà dei vaccini che erano stati programmati". Da qui la peggiore delle ipotesi: "Se andiamo avanti con questo ritmo a causa dei mancati arrivi dei vaccini - conclude - noi ci metteremo 2 o 3 anni per completare la vaccinazione dei nostri concittadini. Questo ci espone ad un pericolo grave: quello dell’emergere di nuove varianti, anche non coperte dai vaccini. Questo sarebbe un problema drammatico. Per questo i tempi di somministrazione del vaccino sono decisivi". L'Italia intera, senza distinzione di regione, è dunque appesa alle case produttrici, che già hanno rivisto al ribasso le dose destinate.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 15 febbraio 2021. È partito il conto alla rovescia. I ben informati raccontano che a breve ci sarà la prima vera svolta della complessa inchiesta sulle mascherine cinesi intermediate da una strana banda di imprenditori: il «prof. Dott.» senza laurea, l'ecuadoriano pluridenunciato e aspirante «canaparo», l'ingegnere aerospaziale sotto inchiesta a San Marino, il banchiere rinviato a giudizio per bancarotta, il cinese fantasma (è sparito da Roma subito dopo le perquisizioni di dicembre). A questi signori si è rivolto il commissario straordinario per l'emergenza Covid Domenico Arcuri. L'indagine, iniziata a fine estate, ha portato all'apertura di nuovi filoni. Tra le ipotesi di reato non ci sono più solo il traffico illecito di influenze e la ricettazione. Anche il numero degli indagati è cresciuto rispetto agli otto iniziali. Sul registro delle notizie di reato del fascicolo principale, il 36684 del 2020, sono finiti uno o più pubblici ufficiali. Una notizia che potrebbe far tremare i polsi a diversi dirigenti e funzionari della struttura commissariale, ma anche a chi ha rilasciato le certificazioni delle mascherine sulla base della documentazione cinese, senza effettuare ulteriori controlli. Con il risultato di far circolare per l'Italia dispositivi di protezione individuale che, in alcuni casi, non avrebbero la necessaria capacità di filtraggio o per dirla con Marco Zangirolami, direttore del laboratorio Fonderia Mestieri di Torino, mascherine che sono «una merda». Le fattispecie contestate non sono ancora definitive essendo l'indagine in costante evoluzione. Gli inquirenti, che sono partiti ipotizzando la corruzione, stanno battendo anche altre strade. Per esempio tra le piste seguite c'è quella della frode nelle pubbliche forniture. Questo reato si concretizzerebbe se si dimostrasse la scarsa qualità dei dispositivi cinesi e l'acquisto a prezzi diversi dal reale valore di mercato. In una mail sequestrata a uno degli indagati emergeva che per un lotto da 100 milioni di mascherine Ffp2 acquistate dal commissario a 2,16 euro l'una, 46 centesimi erano di commissione, il 21,3% del prezzo d'acquisto, una percentuale monstre. Per trovare riscontro a questa accusa occorrerà prelevare presso i magazzini del commissario e delle regioni campioni delle mascherine acquistate in Cina e farle esaminare in laboratorio per testarne la reale capacità di filtraggio. In questa fase istruttoria sono previste discovery graduali degli atti per consentire agli inquirenti di raccogliere nuovi elementi di prova, senza, però, dover scoprire tutte le proprie carte. Gli inquirenti, infatti, procedono con grande prudenza. Ricordiamo che a dicembre sono stati sequestrati documenti e apparati elettronici, ma non le provvigioni versate agli indagati, nonostante nei decreti di perquisizione venisse contestato il pagamento di «remunerazioni indebite» collegate alle «relazioni personali» dell'indagato Mario Benotti, capofila dei mediatori dell'affare, con Arcuri. I nostri lettori sanno a memoria che questo affare da 1,25 miliardi di euro per 801 milioni di mascherine ha portato nelle tasche dei broker in contatto con Arcuri almeno 72 milioni di euro (pari al 5,76% dell'importo complessivo ) di provvigioni, ma forse molti di più a voler credere ad alcune mail di maggio e giugno rinvenute dagli investigatori durante le perquisizioni del 4 dicembre in cui l'ecuadoriano Jorge Solis e il cinese Zhongkai Cai facevano riferimento a 203 milioni, ovvero il 16,24% del totale, escludendo un'ulteriore fetta che Cai avrebbe trattato direttamente con le società di import export di Pechino, soldi che non sarebbero mai giunti in Italia. Inizialmente la Procura di Roma, dopo aver ricevuto la segnalazione di operazione sospetta dall'unità antiriciclaggio della Banca d'Italia, ha contestato la corruzione. Con quell'accusa, il 9 novembre, ha iscritto anche Arcuri e Antonio Fabbrocini, dirigente di Invitalia e componente del team addetto ad «acquisti, contratti e gestione fornitori» della struttura commissariale. Il 4 dicembre nei decreti di perquisizione l'ipotesi di reato per sei indagati era diventata traffico illecito di influenze, mentre per Arcuri e Fabbrocini era stata chiesta l'archiviazione. Ma, se da una parte il proscioglimento per i due manager di Invitalia non è ancora arrivato, nel registro delle notizie di reato è finito, come detto, il nome di uno o più pubblici ufficiali. Per scrollarsi di dosso la contestazione di traffico illecito di influenze, Benotti, giornalista Rai in aspettativa, ha chiesto l'incidente probatorio per dimostrare che a coinvolgerlo nell'affare era stato direttamente Arcuri, da lui conosciuto ai tempi in cui lavorava come consigliere di sottosegretari e ministri Pd. Un personaggio poliedrico Benotti, ben introdotto presso la segreteria di Stato vaticana e nel mondo della politica. Entrò a Palazzo Chigi come segretario particolare di Sandro Gozi con un contratto da 40.000 euro annui, sventolando un curriculum con una laurea che pare non aver mai conseguito. Quindi si è dedicato, con alterne fortune, all'attività imprenditoriale sino a quando, nel marzo del 2020, Arcuri gli ha affidato la salute degli italiani. Nei giorni scorsi la trasmissione Fuori dal coro ha testato due mascherine importate grazie a Benotti & c. e tali protezioni hanno lasciato passare 30% o il 50% delle particelle anziché il 6. Di quello stesso lotto sono state distribuiti nel nostro Paese quasi 3 milioni di pezzi, anche se non è chiaro chi li stia usando. Purtroppo il commissario non accetta di dare chiarimenti ai giornalisti su questa e altre delicate questioni. Ci auguriamo che il premier Mario Draghi spieghi ad Arcuri che chi gestisce miliardi di euro di denaro pubblico deve trasformare i propri uffici in una casa di vetro e non paventare, come hanno fatto gli avvocati del commissario, il rischio di «un indebito e generalizzato controllo da parte della stampa sull'attività della Pubblica amministrazione».

Fuori dal coro, Mario Giordano contro Arcuri: "Non solo mascherine, anche le tute anti Covid poco sicure". Libero Quotidiano il 23 febbraio 2021. Continuano le polemiche sul commissario all’Emergenza Domenico Arcuri, criticato soprattutto per il modo in cui ha gestito la pandemia da Covid-19. Ne parlerà questa sera anche Mario Giordano a Fuori dal coro, la trasmissione in onda su Rete4. “Oltre alle mascherine di Arcuri (di cui vi diremo tutto, ma proprio tutto tutto), abbiamo scoperto che anche le tute anti Covid date agli infermieri non erano proprio così sicure”, ha scritto il conduttore su Twitter. A trattare l’argomento “Arcuri” e la relativa inchiesta sulle mascherine è stato, nei giorni scorsi, anche Nicola Porro a Quarta Repubblica. Nell’ultima puntata, andata in onda ieri 22 febbraio, il giornalista ha invitato in studio Mario Benotti, il giornalista Rai in aspettativa che ha raccontato la sua verità sul commissario. Arcuri, infatti, aveva detto di non conoscere Benotti. E invece tra i due ci sono stati addirittura dei messaggi, come mostrato dal giornalista. Benotti, in particolare, ha detto la sua sul caso che lo vede sotto inchiesta con altre sette persone per traffico di influenze in seguito alla provvigione milionaria ottenuta dai produttori cinesi di una maxi-commessa di mascherine, acquistate la scorsa primavera dalla struttura del commissariato per l’emergenza Covid. “Ma perché Arcuri ha chiamato lei?”,  gli ha chiesto Porro. “Sono uno che ha un po’ di rapporti internazionali, sono nel settore da un po' di tempo, ma non penso che il commissario abbia chiamato solo me, sarebbe veramente una follia”, ha risposto lui.

Chiara Giannini per ilgiornale.it l'8 febbraio 2021. La gestione dell'emergenza del commissario Domenico Arcuri fa acqua da tutte le parti. Dopo l'indagine della Corte dei Conti sulle siringhe inadatte per i vaccini, ora l'inchiesta sulle mascherine cinesi rischia di travolgere l'intera macchina di gestione della crisi pandemica. Lo scenario si apre a marzo dello scorso anno, quando molti imprenditori italiani si offrono di fare da mediatori con le aziende produttrici cinesi per portare le mascherine in Italia. Mentre tutti gli altri Paesi si rivolgono al governo cinese, che garantisce qualità e affidabilità dei prodotti, l'Italia gestisce tutte le richieste, su ordine del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, attraverso l'ambasciata di Pechino. I dispositivi di protezione arrivano tutti da quel «triangolo delle Bermuda» compreso tra Shenzhen e Hong Kong, da cui si riforniscono anche imprese italiane. Viene intanto creato un gruppo di gestione dei voli. In realtà il Kc-767 dell'Aeronautica militare per il primo volo imbarca pochissimi pezzi perché deve effettuare il rientro velocemente, con un unico scalo e rifornimento, proprio su ordine del ministro Di Maio. Un po' come la storia dei vaccini, arrivati in quantità ridicole su un furgoncino della Pfitzer solo per ragioni di palcoscenico mediatico. I voli militari sono pochi. Subito dopo il trasporto viene affidato alla società Neos, che fa 94 viaggi, secondo i dati da loro forniti, con i vettori 787, che hanno una capacità di 200 metri cubi e che vince la gara per il prezzo più competitivo, per poi passare ai 777 di Alitalia, che hanno una portata di 120 metri cubi, a un costo maggiore. Ma il punto chiave è il criterio di commercializzazione delle mascherine. Il 18 marzo, con il decreto Cura Italia, è l'Inail l'ente che si occupa di approvare o meno i vari tipi di mascherina. Senza la validazione nessuno può venderle. A raccontarlo è Giovanni Conforti, proprietario della Yakkyo srl, che da anni lavora con la Cina e che presenta sei tipi di mascherine. Inspiegabilmente, alcuni dei modelli sottoposti a Inail, identici a quelli portati da altre aziende, non vengono approvati. Viene dato l'ok a due modelli dopo il riesame e, chiarisce, «successivamente abbiamo presentato due ricorsi al Tar per il diniego e un ricorso per risarcimento danni». Confrontando i tipi di mascherina presentati da altre realtà e subito approvati con quelli poi piazzati attraverso Invitalia, si scopre che la maggior parte di essi ha usufruito di quel canale. E qualche dubbio sorge. Il viareggino Pier Luigi Stefani spiega di essersi speso per piazzare mascherine provenienti dalla Corea, Paese in cui ha lavorato per oltre 10 anni. «Ho scritto a numerosi soggetti - dice - compresi Estar Toscana, Assolombarda, Regione Campania. Ma ogni volta chiedevano un sacco di certificazioni. Impossibile piazzare le mascherine. Io lo facevo perché vedevo gente morire, medici e infermieri disperati, il mio scopo non era guadagnare. Il tipo di mascherina che proponevo era sicura e acquistabile a 70 centesimi a pezzo. Attraverso il sistema Arcuri ne sono state acquistate anche a 6 euro. Hanno buttato via oltre un miliardo di euro che sarebbe potuto servire ad aiutare le aziende». Anche il senatore Massimo Mallegni (Forza Italia), scrisse al governo per informare della disponibilità di mascherine. Ma mai nessuno rispose. Gli scambi di mail che ancora Stefani conserva parlano chiaro: qualcosa non tornava e continua a non tornare. Ma le Procure dovranno indagare, perché i morti per Covid sono stati moltissimi e sulla pelle della gente non si può scherzare.

Per trovare i vaccinatori, lo Stato paga mille euro a telefonata alle agenzie interinali. Cinque società del settore si sono assicurate un appalto da 25 milioni per contattare 26 mila sanitari iscritti alla campagna anti-Covid. Un lavoro strapagato che forse Regioni e Asl potevano fare gratis. Ecco chi ha vinto l'appalto, dal sindaco di Venezia Brugnaro a un ricchissimo imprenditore cresciuto fra i pupilli di don Giussani. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 6 febbraio 2021. Un medico riceve una telefonata da Catania da parte di un’agenzia interinale milanese per sapere se è disponibile a vaccinare i cittadini di un’azienda sanitaria calabrese. Sembra l’inizio di una barzelletta ma, se lo è, richiede forti anticorpi di umorismo nero. A partire dal 4 gennaio il commissario straordinario all’emergenza pandemica, Domenico Arcuri, ha incaricato le principali agenzie per il lavoro (Apl, in sigla) di selezionare il personale necessario alla campagna anti-Covid, quella dei 1500 gazebo a forma di primula progettati dall’archistar Stefano Boeri. Non è un vero e proprio reclutamento come le Apl sono abituate a fare. L’appalto da 534 milioni di euro, 25 milioni dei quali in diritti di agenzia, consiste nel raccogliere i nomi degli iscritti al portale (personalevaccini.invitalia.it), verificare identità e iscrizioni agli albi professionali e procedere ai colloqui telefonici con i candidati. In termini tecnici, le agenzie stanno facendo screening e non recruiting. Alla fine, dovrebbero essere ingaggiati tremila medici per 6.538 euro mensili e dodicimila fra infermieri e assistenti sanitari per 3.077 euro. Il periodo di impegno per le vaccinazioni, con contratto in deroga al Jobs act, è proiettato su nove mesi. È questo l’intervallo calcolato ottimisticamente dal piano governativo come necessario per arrivare a una copertura soddisfacente del territorio nazionale. Alcune sigle sindacali si sono chieste che motivo c’è di pagare le Apl per un lavoro che regioni e aziende sanitarie potrebbero svolgere gratis e in larga parte già stanno svolgendo in sostegno delle Apl. Fra i perplessi ci sarebbe anche la Ragioneria dello Stato che, però, gli uomini di Invitalia sostengono di non avere mai sentito. L’obiettivo dichiarato dalla struttura di Arcuri, che ha tassativamente vietato alle società vincitrici ogni relazione con la stampa avocando a sé ogni comunicazione ufficiale, è di saltare a pie’ pari le sabbie mobili della burocrazia per rendere più efficiente e rapido il sistema di vaccinazione, anche se in questo momento lo stesso personale sanitario che si è offerto per vaccinare non sa se potrà completare i suoi richiami di vaccino. Invitalia propone e Big Pharma dispone. Non è colpa di Arcuri se Pfizer o Astra Zeneca hanno annunciato ritardi nelle forniture come una qualunque filiale del catasto attirandosi le ire e le minacce di azioni legali da parte del supercommissario e spingendolo a investire 81 milioni nel vaccino autarchico ReIthera...Eppure sembra strano che, mentre si avvicina il primo anniversario ufficiale dell’invasione targata Cov-Sars-2, l’unica risposta allo sfascio della sanità pubblica sia, una volta di più, il ricorso alle società a capitale privato retribuite con fondi statali. Mentre ormai tutti dicono che bisogna tornare a investire nel pubblico con i fondi di NextGenerationEu, il messaggio è: sì, ma non adesso.

LA PREVALENZA DEL DOTTORE. Il fabbisogno di personale per la campagna di vaccinazione del mese di febbraio, stabilito da regioni e aziende sanitarie, è di 2.600 unità che stanno completando le visite mediche e saranno mandate ai presidi dai primi del mese. Al momento si sono iscritti al portale di Invitalia circa 26 mila professionisti sui 15 mila necessari e le domande si potranno presentare per tutti i nove mesi della campagna. I curricula, con la scelta delle regioni dove si vuole operare, vengono trasferiti automaticamente dal portale alle Apl e indicano una prevalenza massiccia di medici rispetto agli infermieri, più vicini alla piena occupazione. Questo richiederà una rimodulazione delle forze in campo in modo da non entrare in concorrenza con le strutture sanitarie, anche se l’inversione del rapporto numerico - per esempio, con dodicimila medici e tremila infermieri - porrebbe il problema di un esborso maggiore. I casi di professionisti disponibili a svolgere gratis la campagna vaccinale sono messi di fronte all’alternativa di ricevere il compenso e devolverlo o di essere segnalati dalle Apl alle strutture sanitarie per il lavoro volontario attraverso il sistema automatico governato dalla struttura commissariale. Oltre a questo, le Apl scambiano dati con la struttura commissariale, sempre in automatico. Non sembra un lavoro da 25 milioni di euro. Se li chiamano tutti e 26 mila sono quasi mille euro per colpo di telefono.

LE TESTE DI SERIE. Il bando di gara, 44 pagine con il timbro della presidenza del consiglio e del supercommissario, ha visto la partecipazione di undici aziende. Il numero massimo delle vincitrici era cinque, una per macrolotto territoriale. C’era però la possibilità di associarsi con altre imprese. Così le magnifiche cinque (Manpower, Randstad, Gi group, Etjca, Umana) sono in realtà magnifiche sette grazie al sistema del raggruppamento temporaneo d’impresa (Rti) che ha unito Etjca con la romana Orienta e Umana con la filiale italiana della francese Synergie. Non è tecnicamente un subappalto ma è servito a non lasciare per strada nessuna delle maggiori Apl attive in Italia. L’impostazione geografica del bando Invitalia non è basata sul principio della contiguità territoriale, se non per coincidenza casuale. Il caso più solare di questa bizzarria è il lotto toccato all’Umana, controllata dalla Lb holding del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. A Umana sono toccate Sicilia, Toscana, Abruzzo, provincia di Bolzano. Nessuno di questi territori confina con un altro anche se un medico di Marina di Massa potrebbe trovare semplice passare il confine nord per vaccinare a Lerici. Il sistema, che assomiglia a quello delle teste di serie nei tornei di calcio, è spiegato dal bando. «Le regioni/province autonome sono state graduate in ordine decrescente in base al numero stimato di persone da vaccinare nell’ambito di ciascuna regione/provincia autonoma. La regione/provincia autonoma con il numero più alto di persone da vaccinare è stata ricompresa nell’area territoriale 1, la regione/provincia autonoma che segue nella 2, la terza nella 3, la quarta nella 4, la quinta nella 5, la sesta nuovamente nell’area territoriale 1 e così avanti». In questo modo l’Apl prima classificata segue l’area nella quale presumibilmente dovrà essere somministrato il maggior numero di vaccini anti Sars-Cov-2. I macrolotti presentano una notevole differenza in termini di abitanti. La macroregione affidata a Manpower Italia conta 17 milioni di abitanti fra Lombardia, Emilia Romagna, Sardegna, Umbria e Valle d’Aosta. È esattamente il doppio della popolazione gestita dal Rti fra la milanese Etjca e la romana Orienta. Sul criterio di aggiudicazione si è seguito quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa in base del miglior rapporto qualità-prezzo. Ma nel calcolo finale del punteggio la qualità pesava per 95 su 100 e il prezzo, ossia il ribasso d’asta rispetto ai 25,4 milioni disponibili per i diritti d’agenzia, solo il 5. Stando così le cose, e con un ulteriore limite fissato nei ricavi annui non inferiori a 50 milioni di euro, era naturale che prevalessero i colossi del settore. Manpower Italia, che la multinazionale basata a Milwaukee controlla attraverso la danese Experis, ha avuto il lotto più grande con due regioni chiave come la Lombardia e l’Emilia Romagna, più Umbria, Sardegna e Valle d’Aosta. Al secondo posto c’è un’altra società a capitale estero, la Randstad, controllata da una holding omonima in Lussemburgo, che ha conquistato Lazio, Piemonte, Liguria e provincia di Trento (12,4 milioni di abitanti).

TERRA SANTA E NOBILTÀ. Il terzo lotto (Campania, Puglia, Marche, Basilicata per 11,9 milioni di residenti) è stato conquistato da Gi Group, controllato della Scl holding di Stefano Colli Lanzi e della moglie Chiara Violini. Scl è un gigante del settore con un fatturato consolidato di 2,53 miliardi, quasi 50 mila dipendenti e centinaia di filiali in ogni angolo d’Europa, in Sudamerica, India, Russia e nella Repubblica popolare cinese. Già docente a contratto all’università Carlo Cattaneo e oggi alla Cattolica di Milano (gestione aziendale), Colli Lanzi ha 57 anni ma ha intuito le potenzialità del lavoro interinale da quando nel 1986 seguiva don Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione, nel suo pellegrinaggio in Terra Santa insieme ad altri fedelissimi di Cl come l’imprenditore Antonio Intiglietta e Giancarlo Cesana, medico e futuro presidente della fondazione Ircss Ca’ Granda, quella del Policlinico di Milano. Il quarto lotto è andato, come si diceva, all’Umana di Brugnaro (754 milioni di ricavi e 29 di utile nel 2019). Rieletto sindaco con il centrodestra al primo turno lo scorso settembre, Brugnaro ha affidato le sue attività e il suo pacchetto azionario al trustee (fiduciario) statunitense Ivan Anthony Sacks per separare politica e gestione d’impresa. Il patron della Reyer Venezia basket dovrà selezionare medici e infermieri in Sicilia, Toscana, Abruzzo e provincia di Bolzano per complessivi 10,5 milioni di abitanti. Il quinto e ultimo lotto (Veneto, Calabria, Friuli Venezia Giulia e Molise) è andato al binomio milanese-romano fra Etjca, controllata da Guido Crivellin, Carlo Massimo Sarni e il trust Etabeta. Orienta, associata di Etjca, è in mano a una società di persone (Givabia di Giuseppe Biazzo) con altri azionisti di spicco nel Gotha nobiliare italiano come Andrea Torlonia e i conti Giulio e Ugo Campello. La nobiltà non è interinale.

INTERMEDIARI, SOCIETA’ FANTASMA, PREZZI ALLE STELLE: IL GIRO DEGLI APPALTI DI ARCURI. Il Corriere del Giorno l'8 Febbraio 2021. Il commissario di governo Domenico Arcuri grazie ai poteri ricevuti dall’ ex-premier Giuseppe Conte, ha affidato più di 3 miliardi di euro di forniture senza gara a decine di aziende in totale autonomia nonostante la Farnesina avesse messo a disposizione una lista di fornitori in Cina e nel mondo. Ed adesso è in corso un’inchiesta della Procura di Roma. L’onnipresente  Domenico Arcuri commissario straordinario nominato dall’amico-premier Giuseppe Conte è apparso più volte in televisione nelle sue conferenze stampa in cui minacciava i giornalisti elencando le querele che presentava con la stampa poco “amica”, rilasciando un paio di interviste persino a Barbara D’Urso (che giornalista non è ! n.d.r. ) non accreditando la stampa che ritiene “scomoda” a partire dai giornalisti de La7 ed in particolare i collaboratori di Massimo Gilletti. L’ex premier Conte all’epoca imperante a Palazzo Chigi aveva pensato che soltanto un uomo di suo fiducia come Arcuri potesse reperire, produrre, acquistare, distribuire mascherine, vaccini, copricapo, visiere, igienizzanti, macchinari e qualsiasi materiale per qualsiasi esigenza per fronteggiare l’epidemia crescente del Covid-19. Arcuri nelle sue comparsate televisive e “conferenze -monologhi” con la stampa morbida ed amica, si è giudicato e si è assolto da solo, nella presunzione di meritare degli elogi. Ma andando a scavare dietro le quinte del suo operato escono a galla una serie di operazioni imbarazzanti. Incredibilmente Arcuri ed i suoi stretti collaboratori non hanno attinto mai al vasto elenco di aziende straniere, sparse in tutto il mondo disposte a fornire quello che il commissario straordinario cercava , che erano state trovate e verificate e dalle strutture diplomatiche del ministero degli Esteri. In un’inchiesta il settimanale L’ESPRESSO ha ricostruito, nei giorni compresi tra l’annuncio e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della nomina del commissario Arcuri, cioè tra l’11 e il 20 marzo 2020, la Protezione Civile di Angelo Borrelli – con l’aiuto del ministero degli Esteri e l’ambasciata a Pechino –  un accordo stipulato con la Byd auto industry company, un’azienda statale cinese di automobili convertita alla fabbricazione di mascherine chirurgiche: 100 milioni di pezzi, pagati 0,29 euro l’uno, per un totale di 29,8 milioni di euro. In quegli stessi giorni momento l’ormai ex- premier Conte decideva però di trasferire il centro di spesa dalla Protezione Civile alla struttura commissariale di Arcuri. In quel periodo non semplice del passaggio di consegne, il Ministero degli Esteri ha continuato ad inviare alla Protezione Civile, e in copia al commissario straordinario le segnalazioni degli ambasciatori con i nomi e contatti delle società che si erano rese disponibili ed interessate a trattare con l’Italia. Nella fase iniziale della pandemia, la più difficile, quando il Paese era disorganizzato, la Farnesina trasmetteva di fornitori da contattare quattro o cinque comunicazioni al giorno, e successivamente raggiunta una certa normalità, è stata in grado di compilare un documento al giorno con una lista ( dalla A dell’ Austria alla T della Thailandia ) . Obiettivo ed interesse delle strutture diplomatiche italiane era quello di non incappare in società improvvisate o in speculatori e, soprattutto, di non ricorre a importatori e mediatori che avrebbero fatto lievitare alle stelle il prezzo finale. Come invece grazie ad Arcuri & company è accaduto. A maggio cioè due mesi dopo l’albo dei potenziali fornitori reperiti dal Ministero degli Esteri era lungo una trentina di pagine. Ma incredibilmente la struttura guidata da Domenico Arcuri non ci ha mai trovato nulla di interessante ed economicamente vantaggioso. Ha preferito comprare altri 200 milioni di mascherine da Byd Auto a 0,29 c/euro. Una delle comunicazioni con le quali il Ministero degli Esteri rendeva noto l’ elenco ditte selezionate dalle rappresentanze diplomatiche. In quelle settimane di emergenza mondiale, Arcuri non ha più trovato prezzi vantaggiosi come quelli garantiti da Byd auto. La struttura del commissario ha trovato, ancora in Cina, società con appetiti ben maggiori, come la Luokai Trade, che ha venduto all’ Italia la bellezza di 450 milioni di mascherine sanitarie (pagate 0,49 l’una) per un totale di spesa di 220 milioni di euro, o come la Wenhzou Moon-Ray, che ha venduto 10 milioni di mascherine (a 0,55 l’una). Per entrambe queste operazioni sono state pagate provvigioni per decine di milioni di euro , venute alla luce grazie all’apertura di un’inchiesta giudiziaria. Basta sfogliare i numeri resi pubblici da Palazzo Chigi per capire in che modo siano stati gestiti gli affidamenti ed il “potere” quasi dittatoriale del commissario Arcuri, la cui la struttura commissariale ha bandito ad oggi gare con una base d’asta pari a circa 8 miliardi di euro e firmato 291 contratti per un valore di 3,5 miliardi di euro. Numeri e dati sono stati controllati dall’Anac, l’Autorità anticorruzione, ma senza alcun potere di intervento in quanto la gran parte degli appalti (5,2 miliardi di euro) sono stati conferiti con il sistema della “procedura negoziata senza previa comunicazione“. In parole povere una scelta discrezionale di aziende invitate a fornire preventivi e offerte. La procedura decisionale che si è poi conclusa con una altrettanto discrezionale scelta del contraente! La difesa del commissario Arcuri si basa sulla teoria secondo la quale la scelta di procedere in via diretta o con la procedura negoziata senza pubblicazione , il tutto giustificato dall’urgenza e necessità di fronteggiare l’improvviso scoppio della pandemia nel febbraio 2020. Le uniche gare aperte sono pochissime, ed in particolare quelle per il finanziamento delle riconversioni industriali per la produzione di dispositivi antivirus. Ma la macchina degli affidamenti senza gara non si è fermata neppure dopo la fine dell’emergenza della primavera 2020. Il commissario Arcuri non ha mai messo fine alla fine della gestione delle gare in totale autonomia. In poche parole semplice non era richiesta la trasparenza sulla scelta dei contraenti. E neanche sui prezzi “pompati” a cui venivano conclusi i contratti. E’ a seguito di questo discutibile modus operandi che è stato possibile consentire la vergognosa vicenda delle commesse per un miliardo e duecento milioni di euro aggiudicate a due gruppi cinesi spuntati dal nulla, precedentemente citati, cioè Luokai e Wenzhou. Si è scoperto che a far da tramite per la fornitura era scesa in campo un’imbarazzante “comitiva” affaristica guidata dal giornalista Mario Benotti, ex-consulente del ministro Graziano Del Rio (Pd) che si è spartita un’enorme torta di provvigioni: 72 milioni di euro. La procura di Roma ha aperto un’inchiesta ipotizzando i reati di traffico di influenze, perché Benotti, sfruttando la sua personale conoscenza-amicizia con Domenico Arcuri (che ora finge di non conoscerlo nonostante i tabulati telefonici proverebbero il contrario) si sarebbe fatto retribuire dalle controparti cinesi in modo “occulto e non giustificato” e senza che il commissario lo sapesse. Chiaramente tutti gli indagati autoproclamano la propria innocenza e la totale legalità dell’operazione effettuata e dei rispettivi compensi. Non spetta certamente ai giornalisti determinare l’esito finale delle indagini della magistratura, ma questa vicenda illumina il “sistema Arcuri” che in definitiva ha fatto lievitare e moltiplicare i costi a carico dello Stato e cioè dei cittadini. Lo confermano i numeri delle varie operazioni: le mascherine chirurgiche importante con la mediazione di Benotti & furbetti vari sono costate molto di più, (fino al 90 per cento), degli stessi identici prodotti forniti nello stesso periodo (marzo-aprile) dal gruppo cinese Byd industry. Ma non solo. Persino la scelta di prodotti e materiali si è rivelata molto spesso inadeguata. Nei mesi scorsi, per esempio, la Regione Sicilia dopo che si è vista recapitare in piena emergenza pandemica cento termometri ascellari, inutilizzabili per il Covid-19, ed anche diversi lotti di mascherine non certificate per uso medico, ha dovuto fare da sè. Pertanto a conti fatti calcolatrice alla mano, la spesa complessiva è aumentata, perché nei conteggi vanno inseriti anche gli esborsi supplementari a carico degli enti locali, che secondo i dati raccolti dalla fondazione Openpolis arrivano a circa 3 miliardi di euro. Nel suo ruolo di commissario straordinario Arcuri si è comportato come un manager dotato di superpoteri, il cui operato è insindacabile ed inattaccabile. Nelle vesti di amministratore delegato di Invitalia guida l’operazione che porterà in mani pubbliche una quota del 15 per cento di Reithera, l’azienda produttrice del cosiddetto vaccino tutto italiano, anche se al consorzio per lo sviluppo del farmaco partecipano un’azienda belga e una tedesca. A cui vanno aggiunti, contributi pubblici a fondo perduto per 80 milioni per finanziare le ricerche della stessa società Reithera. Arcuri si troverà quindi nella conflittuale posizione di trattare le fornitura di vaccini con le case farmaceutiche internazionali, mentre nello stesso momento ha voce in capitolo nella gestione di un’impresa italiana impegnata nel medesimo settore! Come racconta il settimanale L’ESPRESSO è rimasta impigliata In questa sovrapposizione di ruoli, anche Laura Frati, già Gucci (famiglia fondatrice del famoso marchio di moda) che dirige l’ufficio stampa dell’ Ospedale Spallanzani di Roma e da vent’anni fa pubbliche relazioni per la società Pirene che ha collaborato dopo bandi pubblici con Invitalia e di recente ha ottenuto un lauto mandato da Arcuri, cioè quello di allestire la sala per 12 conferenze del commissario. Compenso: 17.500 euro. Non è tanto la cifra della consulenza che impressiona, ma il ginepraio di incarichi quello che intriga: fra i clienti di Pirene ci sono aziende farmaceutiche come Pfizer, che ha prodotto il primo vaccino anti-Covid-19, e pure Johnson&Johnson, che ancora lo sta sperimentando. La società Zenith Italy si è offerta a sua volta di “aiutare”… la struttura del commissario Arcuri per l’app Immuni, che secondo il governo sarebbe stata utile a tracciare gli infetti per arginare la diffusione del contagio, e che si è rivelata un vero e proprio “flop” ! Zenith ha assistito il commissario per la “realizzazione grafica e creatività per post social, la moderazione e la valutazione dei commenti sulla pagina ufficiale di Immuni su Facebook” Sul più famoso dei social network Immuni conta al momento circa 19.000 like (più o meno quanti ne ha il nostro giornale !) . Per questo lavoro il commissario Arcuri ha riconosciuto alla Zenith un compenso di 40.720 euro effettuato Il 10 ottobre . Cioè ha pagato 2 euro a “mi piace”. Un vero e proprio sperpero di denaro pubblico! Scorrendo l’elenco dei contratti firmati da Arcuri capita anche di trovare società nate e costituite poche settimane prima della firma del contratto. Come la lombarda MyMask, messa in piedi in pieno lockdown. L’azienda ha firmato con Arcuri lo scorso 3 giugno 2020 un contratto da 13,2 milioni di euro per produrre mascherine chirurgiche ad un costo medio di 0,30 euro. Appalto ottenuto anche questo utilizzando una “procedura negoziata senza previa comunicazione“. Resta da chiedersi legittimamente come abbia fatto un’azienda nata dal nulla qualche settimana prima a reperire macchinari e impianti produrre una cifra così importante di mascherine, e sopratutto farli installare in tempi così rapidi . Amministratore delegato della società è il Ignazio Matteo De Nicolò, figlio di Giovanni (di professione immobiliarista), il quale ha spiegato al settimanale L’ ESPRESSO di aver investito “due milioni di euro, miei e senza aiuti pubblici, per creare questa fabbrichetta e darla in mano a mio figlio. Abbiamo costruito dal nulla lo stabilimento, trovato i fornitori di materiale in parte dalla Cina, e avviato la produzione. Arcuri ci ha pagato, ha rispettato gli impegni anche se per due mesi ci ha tenuti fermi in attesa di verifiche“. Piccolo particolare: la certificazione di conformità Ue delle mascherine MyMask è datata 3 giugno 2020, cioè lo stesso giorno del contratto. Oggi però l’azienda non produce più mascherine. De Nicolò dice: “Per chi le devo produrre? Ormai il mercato è chiuso e i prezzi sono inaccessibili. Da Arcuri non ho avuto altre commesse. La verità? Ho perso 2 milioni di euro”». A Ferragosto Arcuri preparava il secondo tempo della sua personale sfida durante l’ultimo scorcio di un’ estate illusoria senza virus . Problema all’ordine del giorno la riapertura delle scuole a settembre ed allora il commissario si addentra nel mercato degli igenizzanti per reperire milioni di litri in formato gel per gli insegnanti, studenti e bidelli. Il 19 agosto si concludono le trattative con la Italyam per 6,5 milioni di litri di gel per un costo di ben 36,7 milioni di euro. Anche la Italyam è una società giovane come il suo titolare Alessio Fontana, comasco classe ’79, . Impresa talmente giovane che il contratto milionario è stato firmato dopo che erano passate soltanto due settimane dal deposito dell’atto costitutivo della Italyam alla Camera di Commercio di Milano. Ed il 31 agosto, con una letterina formale, il commissario straordinario Arcuri assegna all’ Italyam di Fontana, con sede legale a Milano in zona San Vittore e un capannone a Chiuduno in provincia di Bergamo, il compito di fornire l’igienizzante agli istituti scolastici di Lombardia, Piemonte, Liguria, Sardegna e Valle d’Aosta. Ma la struttura del commissario è costretta prendere atto molto presto che la Italyam non riusciva a rispettare gli accordi contrattuali. Ed allora il 30 ottobre, cioè 60 giorni dopo la firma del contratto, il responsabile del procedimento contestava alla società neo-costituita da hoc una serie di “inadempienze”. Gli istituti scolastici conseguentemente si lamentano perchè il gel non arriva e, quando arriva, è in quantità insufficiente. Ma non è finita. Il 13 novembre l’amministratore Fontana, ormai nella black-list mirino di Arcuri, cede la maggioranza di Italyam alla società romana Dispositivo Medico Sanitario, che era stata fondata tre giorni prima dall’avvocata Eleonora Carfagna (titolare del 90 per cento delle azioni), nota nella capitale sopratutto per essere un’ottima giocatrice di bridge. La Carfagna ha spiegato a L’ESPRESSO di aver conosciuto Fontana per questioni lavorative, e “siccome la Dispositivo Medico Sanitario non trattava il prodotto gel igienizzante abbiamo proposto di acquistare le quote e poi trasferito la sede sociale a Roma“. Quattro giorni dopo, siamo al 17 novembre, gli uffici del commissario Arcuri sollecitano all’ Italyam la distribuzione di 140.450 litri di gel per le scuole entro il 27. Piccolo particolare: le scuole però erano in gran parte chiuse a causa della pandemia. Ed allora Arcuri si corregge ed il 18 novembre,  ordina di portare i carichi negli ospedali, però proprio come era già successo con gli istituti scolastici, anche gli ospedali, non ricevono l’igienizzante richiesto !!! Il 23 novembre, la struttura del commissario intima a Italyam di far arrivare, entro e non oltre il 7 dicembre, 2,8 milioni di litri di gel al magazzino di un corriere di Vercelli. Anche in questo caso Niente da fare. Il 10 dicembre il commissario straordinario Arcuri comunica all’ Italyam la risoluzione del contratto dopo 3,678 milioni di litri di gel distribuiti con grossa fatica e gravi ritardi e ben 20,7 milioni di euro spesi. Applausi. Fontana e Carfagna sentitamente ringraziano… Ma a Palazzo Chigi, all’ ANAC nessuno dice e fa nulla. Ma la Procura di Roma in questo caso che fà?

La giostra degli appalti miliardari di Arcuri: tra mediatori, prezzi alti e società fantasma. Il commissario di governo ha distribuito senza gara più di 3 miliardi a decine di aziende. Sempre in totale autonomia. Anche quando in piena emergenza - e anche dopo - il ministero degli Esteri ha offerto una lista di fornitori in Cina e nel mondo. Finendo così nella rete di intermediari improvvisati. Ora sotto inchiesta. di Antonio Fraschilla, Carlo Tecce, Vittorio Malagutti su L'Espresso l'8 febbraio 2021. Si è creduto a lungo che di Domenico Arcuri ce ne fosse più di uno. Ogni qual volta è apparso in televisione dopo aver rilasciato un paio di interviste ai giornali e fissato una conferenza stampa mentre l’amico Giuseppe Conte gli affidava l’ennesimo incarico, l’onnipresente Arcuri dev’essersi davvero sentito un commissario straordinario, pronto però a concentrarsi più sull’aggettivo straordinario che sul sostantivo commissario. Così ha pensato che soltanto un uomo, sé stesso, potesse reperire, produrre, acquistare, distribuire mascherine, vaccini, copricapo, visiere, igienizzante, macchinari e qualsiasi materiale per qualsiasi esigenza. Arcuri si è giudicato e si è assolto, sicuro di meritare un premio. E fin dall’inizio ha ignorato il resto. Non ha attinto mai dallo sterminato elenco di aziende straniere, disseminate nel mondo, scovate e vagliate dalle strutture diplomatiche del ministero degli Esteri, disposte a fornire quello che Arcuri cercava. Secondo quanto L’Espresso ha ricostruito, nei giorni compresi tra l’annuncio e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della nomina del commissario Arcuri, cioè tra l’11 e il 20 marzo 2020, la Protezione Civile di Angelo Borrelli – con l’aiuto del ministero degli Esteri e l’ambasciata a Pechino – ha stipulato un accordo con la Byd auto industry company, un’azienda statale cinese di automobili convertita alla fabbricazione di mascherine chirurgiche: 100 milioni di pezzi, 0,29 euro l’uno, per un totale di 29,8 milioni di euro. In quel momento, però, Conte trasferisce il centro di spesa dalla Protezione Civile alla struttura di Arcuri. Nel periodo non semplice del passaggio di consegne, la Farnesina continua a mandare alla Protezione Civile, e in copia al commissario straordinario, le segnalazioni degli ambasciatori con le società che si rendono disponibili a trattare con l’Italia. Nella fase più confusa della pandemia, il ministero spedisce quattro o cinque comunicazioni al giorno, raggiunta una certa normalità, poi è stata in grado di compilare un documento al giorno con una lista - dalla A di Austria alla T di Thailandia – di fornitori da contattare. Il vantaggio era quello di non incappare in società improvvisate o in speculatori e, soprattutto, di non ricorre a importatori e mediatori che avrebbero inciso sul prezzo finale. Dopo due mesi, a maggio, l’albo dei potenziali fornitori della Farnesina era lungo una trentina di pagine. Però Arcuri non ci ha trovato mai niente di interessante. Ha comprato altri 200 milioni di mascherine da Byd Auto a 0,29 e ha tentato una sinergia per dei tubi sanitari – poi interrotta per ritardi, dicono dalla struttura – sempre con i cinesi, stavolta con la multinazionale della farmaceutica Sinopharma. In quelle settimane di emergenza, Arcuri non ha più spuntato prezzi come quelli garantiti da Byd auto. La struttura del commissario ha trovato, ancora in Cina, società con pretese ben maggiori. È il caso della Luokai Trade, 450 milioni di mascherine (0,49 l’una) per 220 milioni di euro, come la Wenhzou Moon-Ray, 10 milioni di mascherine (0,55 l’una). Per entrambe, si è saputo dopo l’apertura di un’inchiesta giudiziaria, sono state pagate provvigioni per decine di milioni di euro.

LA PROCEDURA. Per capire il potere del commissario Arcuri e in che modo siano stati gestiti gli affidamenti basta dare un’occhiata ai numeri resi pubblici da Palazzo Chigi. Ad oggi la struttura commissariale ha bandito gare con una base d’asta pari a circa 8 miliardi di euro e firmato 291 contratti per un valore di 3,5 miliardi di euro. I dati sono stati analizzati dall’Anac, l’Autorità anticorruzione: la gran parte degli appalti, 5,2 miliardi di euro sono stati avviati con il sistema della «procedura negoziata senza previa comunicazione». Cioè una chiamata discrezionale di aziende invitate a fornire preventivi e offerte. La procedura si è poi conclusa con una altrettanto discrezionale scelta del contraente.

IL CASO. Le gare aperte sono una manciata, perlopiù quelle per il finanziamento delle riconversioni industriali per la produzione di dispositivi antivirus. La scelta di procedere in via diretta o con la procedura negoziata senza pubblicazione è stata dettata dalla necessità di fronteggiare l’improvviso scoppio della pandemia nel febbraio dello scorso anno, questa la difesa del commissario. Il fatto è, però, che la macchina degli affidamenti senza gara non si è fermata neppure dopo la fine dell’emergenza della primavera 2020. Arcuri non ha mai smesso di gestire le gare in totale autonomia. In altre parole, non era richiesta la trasparenza sulla scelta dei contraenti. E neppure sui prezzi a cui venivano conclusi i contratti. Nasce così il colossale pasticcio delle commesse per un miliardo e duecento milioni di euro aggiudicate a due gruppi cinesi spuntati dal nulla, i già citati Luokai e Wenzhou. Si è scoperto che a far da tramite per la fornitura era scesa in campo un’eterogena compagnia di giro guidata dal giornalista Mario Benotti. La torta da spartire era gigantesca: 72 milioni di provvigioni. La procura di Roma ha aperto un’inchiesta ipotizzando i reati di traffico di influenze, perché Benotti, sfruttando la sua personale conoscenza di Arcuri, si sarebbe fatto retribuire dalle controparti cinesi e senza che il commissario lo sapesse, in modo «occulto e non giustificato». Tutti gli indagati reclamano la loro innocenza e la totale liceità dell’operazione e dei rispettivi compensi. A prescindere dal risultato delle indagini, la vicenda illumina un sistema, il sistema Arcuri, che ha finito per moltiplicare i costi a carico dello Stato. Lo dicono i numeri: le mascherine chirurgiche importante con la mediazione di Benotti e soci sono costate molto di più, fino al 90 per cento, dei prodotti analoghi forniti nello stesso periodo (marzo-aprile) dal gruppo cinese Byd industry. Anche la scelta di prodotti e materiali a volte si è rivelata inadeguata. Nei mesi scorsi, per esempio, la Regione Siciliana ha dovuto fare da sé dopo che si è vista recapitare in piena emergenza pandemica cento termometri ascellari, inutilizzabili per il Covid-19, ma anche diversi lotti di mascherine non certificate per uso medico. A conti fatti, quindi, la spesa complessiva aumenta, perché nel computo vanno inseriti anche gli esborsi supplementari a carico degli enti locali, che secondo i dati raccolti dalla fondazione Openpolis ammontano a circa 3 miliardi di euro.

GLI APPALTI. Arcuri è un manager con i superpoteri, inattaccabile e insindacabile. Da capo di Invitalia guida l’operazione che porterà in mani pubbliche una quota del 15 per cento di Reithera, l’azienda produttrice del cosiddetto vaccino tutto italiano, anche se al consorzio per lo sviluppo del farmaco partecipano un’azienda belga e una tedesca. Inoltre, contributi pubblici per 80 milioni finanzieranno le ricerche della stessa Reithera. Arcuri si troverà, dunque, nella singolare posizione di trattare la fornitura di vaccini con le case farmaceutiche internazionali, mentre allo stesso tempo ha voce in capitolo nella gestione di un’impresa tricolore impegnata nel medesimo settore. In questa sovrapposizione di ruoli, è rimasta incastrata anche Laura Frati, già Gucci (quelli della famiglia del famoso marchio di moda). Frati dirige l’ufficio stampa dello Spallanzani e fa pubbliche relazioni da vent’anni con Pirene, società che ha collaborato – dopo bandi pubblici - con Invitalia e di recente ha ottenuto un prezioso mandato da Arcuri: allestire la sala per 12 conferenze del commissario. Compenso: 17.500 euro. Più che la cifra, è il ginepraio di incarichi che intriga: fra i clienti di Pirene ci sono aziende farmaceutiche come Pfizer, che ha prodotto il primo vaccino anti-Covid-19, e pure Johnson&Johnson, che ancora lo sta sperimentando. Zenith Italy, invece, si è offerta di aiutare la struttura del commissario per l’app Immuni, che secondo il governo sarebbe servita a tracciare gli infetti per arginare la diffusione del contagio. Zenith ha assistito il commissario per la «realizzazione grafica e creatività per post social, la moderazione e la valutazione dei commenti sulla pagina ufficiale di Immuni su Facebook». Sul più famoso dei social network Immuni conta al momento circa 19.000 like. Il 10 ottobre il commissario ha riconosciuto per l’impegno un pagamento di 40.720 euro a Zenith. Più di 2 euro a “mi piace”. Un successo non proprio contagioso.

INCHIESTA. Il caso già citato di Reithera non è l’unico in cui il manager di Stato finisce per giocare su due tavoli. Come numero uno di Invitalia, la scorsa primavera Arcuri ha dato via libera ai finanziamenti per la riconversione o all’ampliamento di 129 aziende che producono dispositivi antivirus. Gli stessi dispositivi che poi il medesimo Arcuri, questa volta con il cappello di commissario per l’emergenza, si trova a comprare per conto del governo. Succede così che un grande gruppo come Gvs, specializzato in sistemi filtranti destinati al settore automobilistico e medicale, ad aprile dell’anno scorso abbia incassato soldi pubblici (circa 500 mila euro) targati Invitalia. Il prestito senza interessi serviva per ampliare gli stabilimenti con nuovi macchinari per fabbricare mascherine FFP3. Ebbene, nel giro di poche settimane, Arcuri questa volta come commissario all’emergenza Covid, ha stipulato con Gvs quattro contratti per la fornitura di quelle stesse mascherine FFP3 di cui Invitalia aveva in parte finanziato la produzione. Tutto bene, se non fosse che nella prima metà di giugno dell’anno scorso, la Gvs della famiglia Scagliarini è sbarcata in Borsa e ha fatto il pieno di capitali. Un trionfo: in sette mesi la quotazione è più che raddoppiata. Gli azionisti venditori hanno incassato quasi 500 milioni di euro, mentre all’azienda sono andati circa 80 milioni. I prestiti di Invitalia, quindi, sono serviti a sostenere una società che non ne aveva bisogno, perché di lì a poco avrebbe raccolto denaro in abbondanza sui mercati finanziari. Interpellati in proposito, i portavoce di Gvs spiegano che a marzo, data del bando per i sussidi di Stato, «non era possibile immaginare che cosa sarebbe accaduto con il percorso di quotazione avviato». Non solo. In base a una clausola del contratto di finanziamento, legata ai tempi dell’entrata in funzione delle nuove linee produttive, Gvs potrà ottenere anche uno «sconto del 100 per cento in conto capitale». Insomma, il prestito potrebbe trasformarsi in un sussidio a fondo perduto: un regalo.

AZIENDE DAL NULLA. Scorrendo l’elenco dei contratti firmati da Arcuri capita anche di trovare società costituite poche settimane prima della firma del contratto. Come la lombarda MyMask, nata in pieno lockdown. Il tre giugno 2020 l’azienda firma con Arcuri un contratto da 13,2 milioni di euro per produrre mascherine chirurgiche ad un costo medio di 0,3 euro. Appalto ottenuto con la «procedura negoziata senza previa comunicazione». Ma come ha fatto un’azienda nata qualche settimana prima a trovare macchinari e impianti, installarli in tempi rapidi e produrre una cifra così importante di mascherine? L’amministratore delegato della società è il giovane Ignazio Matteo De Nicolò. Il padre Giovanni, immobiliarista, spiega di aver investito «due milioni di euro, miei e senza aiuti pubblici, per creare questa fabbrichetta e darla in mano a mio figlio. Abbiamo costruito dal nulla lo stabilimento, trovato i fornitori di materiale in parte dalla Cina, e avviato la produzione. Arcuri ci ha pagato, ha rispettato gli impegni anche se per due mesi ci ha tenuti fermi in attesa di verifiche». La certificazione di conformità Ue delle mascherine MyMask è datata 3 giugno 2020, lo stesso giorno del contratto. Oggi però l’azienda non produce più mascherine. E De Nicolò si chiede: «Per chi le devo produrre? Ormai il mercato è chiuso e i prezzi sono inaccessibili. Da Arcuri non ho avuto altre commesse. La verità? Ho perso 2 milioni di euro».

I DISINFETTANTI. A Ferragosto, durante l’ultimo scorcio di un’illusoria estate senza virus, Arcuri si preparava al secondo tempo della sua personale sfida. All’ordine del giorno c’è la riapertura delle scuole e il commissario setaccia il mercato per trovare milioni di litri di igienizzante in formato gel per insegnanti, studenti e bidelli. Il 19 agosto si concludono le trattative – cioè il solito bando «a procedura negoziata senza previa pubblicazione» – con la Italyam per 6,5 milioni di litri di gel al costo di 36,7 milioni di euro. Al pari del suo titolare Alessio Fontana, comasco classe ’79, anche Italyam è una società giovane. Talmente giovane che quel contratto milionario è stato firmato neppure due settimane dopo il deposito dell’atto costitutivo alla Camera di Commercio di Milano. Il 31 agosto, con una lettera formale, Arcuri assegna a Italyam di Fontana – con sede a Milano in zona San Vittore e un capannone a Chiuduno in provincia di Bergamo – il compito di fornire l’igienizzante agli istituti scolastici di Lombardia, Piemonte, Liguria, Sardegna e Valle d’Aosta. Ben presto però la struttura del commissario è costretta prendere atto che Italyam non riesce a rispettare gli accordi. Già il 30 ottobre il responsabile del procedimento contesta a Fontana una serie di “inadempienze”. Le scuole si lamentano, il gel non arriva e, se arriva, non è in quantità sufficiente. Il 13 novembre l’amministratore Fontana, ormai nel mirino di Arcuri, cede la maggioranza di Italyam alla società romana Dispositivo medico sanitario, fondata tre giorni prima dall’avvocata Eleonora Carfagna (azionista al 90 per cento), nota come un’ottima giocatrice tra gli appassionati di bridge della capitale. Carfagna ha spiegato a L’Espresso di aver conosciuto Fontana per questioni lavorative, e «siccome la Dispositivo medico sanitario non trattava il prodotto gel igienizzante abbiamo proposto di acquistare le quote e poi trasferito la sede sociale a Roma». Il 17 novembre gli uffici del commissario incalzano Italyam per sollecitare la distribuzione di 140.450 litri di gel entro il 27. Le scuole però sono in gran parte chiuse causa pandemia. E allora, il 18 novembre, Arcuri si corregge e ordina di portare i carichi negli ospedali, però anche gli ospedali, proprio come era già successo con gli istituti scolastici, non ricevono l’igienizzante richiesto. Il 23 novembre, la struttura del commissario intima a Italyam di far arrivare, non oltre il 7 dicembre, 2,8 milioni di litri di gel al magazzino di un corriere di Vercelli. Niente da fare. Il 10 Arcuri comunica la risoluzione del contratto con Italyam dopo 3,678 milioni di litri di gel distribuiti con grossa fatica e gravi ritardi e 20,7 milioni di euro spesi.

Giuseppe Marino per "il Giornale" l'11 febbraio 2021. Mai più spargere denari a fondo perduto, ha detto Draghi. Se intendeva mai più perdere fondi sprecandoli malamente, Domenico Arcuri si deve preoccupare. L'ultimo caso è la pagina Facebook dell'app Immuni che riesce nel miracolo di essere meno efficace dell'app stessa, ormai caduta nel dimenticatoio. Arcuri ha affidato l'appalto per la gestione della pagina Facebook a Zenith Italy, società del gruppo Publicis. Il budget non è trascurabile, sostiene un'inchiesta de L'Espresso: 40.720 euro, non male per una semplice pagina Facebook. Eppure i risultati paiono risibili rispetto ai mezzi in campo: i like raccolti attraverso la promozione della pagina attualmente sono poco meno di 19 mila. Bazzecole se raffrontati al fatto che l'app, pur ben lontana dagli obiettivi prefissati, è stata comunque scaricata da oltre dieci milioni di italiani e pubblicizzata anche in tv e sui giornali. «Il costo di due euro a like - commenta Davide Dal Maso, social media coach - è insensato. La media di mercato è 30 centesimi. Che scendono facilmente anche a 20 centesimi a fronte di un marchio che ormai molti conoscono. In più i contenuti della pagina non sembrano all'altezza». Innanzitutto la frequenza dei post: l'ultimo risale a ieri, quello precedente all'1 febbraio. Mediamente uno ogni dieci giorni. Con una lunga pausa di quasi un mese a Natale. Per non parlare della curiosa avvertenza che «la pagina e le conversazioni sono presidiate 7 giorni su 7, dalle 9:00 alle 19:00». Un «orario da ufficio» che stona con l'uso di Facebook, che non chiude mai ed è comunque molto usato la sera. I commenti ai post riflettono la qualità della pagina: valanghe di commenti negativi anche pesanti. E, guarda caso, è stato rimosso il tasto «recensioni». La gestione Arcuri è riuscita a mettere in fuga anche i fan. Tra i commenti c'è quello di un utente che si qualifica avvocato e ha come immagine il logo «Io uso Immuni». Ma il suo commento è inferocito: «Mi ha deluso, la disinstallo». Del resto a deludere non è solo la pagina Facebook ma l'app, la cui tecnologia tutto sommato funziona, ma non è accompagnata da un'infrastruttura in grado di supportare gli utenti. Risultato: segnalazioni a picco, download a rilento e generale sfiducia. Come già aveva rilevato Il Giornale, a fronte di 400 mila attualmente positivi al Coronavirus, Immuni ne rileva appena 10 mila. Fosse così altro che zona gialla, la pandemia sarebbe finita. L'ulteriore spesa di 677 mila euro per affidare la gestione del call center di supporto all'app affidandolo alla coop rossa «Acapo» non pare aver migliorato la situazione. Chissà cosa ne pensa Draghi.

Il flop di Immuni è anche social: Arcuri ha pagato due euro per ogni "mi piace" alla pagina Facebook. Il commissario ha affidato un appalto da 40 mila euro a una società di comunicazione per curare la pagina dell’app sul tracciamento. Che ha raccolto appena 19 mila like. di Antonio Fraschilla, Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 9 febbraio 2021. A Roma lo si può chiamare "er calcolatore", il calcolatore, come l’omonimo sito che si definisce «risolutore automatico di problemi di matematica ed elettronica». Anche Domenico Arcuri, il commissario straordinario del governo di Giuseppe Conte, si è comportato da risolutore automatico di problemi della pandemia. Spesso, suo malgrado, si è inceppato. La campagna di comunicazione su Facebook dell’app Immuni, per esempio, non ha funzionato. Immuni era chiamata a tracciare e istruire i contagiati, centinaia di migliaia di italiani, ma la pagina Facebook, affidata alla multinazionale Zenith Italy per 40.720 euro, ha raccolto soltanto 19.000 iscritti. A oggi un "mi piace" è costato in media due euro. Come ha dimostrato l’inchiesta dell’Espresso sul metodo di acquisti della struttura, Arcuri ha sempre preferito la strada breve degli appalti con «procedura negoziata senza previa pubblicazione», anche dopo la fase più acuta e confusa dell’emergenza. Tutto lecito, certo, ma con un aggravio di responsabilità. Pure Zenith Italy, succursale di un gruppo mondiale, è stata selezionata in questo modo: il bando risulta creato e assegnato il 15 ottobre e ha per oggetto, tra le altre cose, «la realizzazione di grafica per post su pagina ufficiale Immuni su Facebook, inclusa la moderazione e la valutazione dei commenti e le interazioni». Arcuri si occupato anche del "centralino" di Immuni, cioè della società deputata a contattare gli utenti dell’applicazione: si tratta di Acapo srl, una cooperativa romana che già lavora con aziende sanitarie locali, che ha ricevuto la commessa di 677.000 euro.

Inchiesta mascherine: Arcuri ora trema "Spreco miliardario, prodotti scadenti". Le voci degli imprenditori italiani esclusi dalle gare per "eccesso di certificazione richiesta. Pezzi pagati pure 6 euro, il 100% in più". Chiara Giannini, Domenica 07/02/2021 su Il Giornale. La gestione dell'emergenza del commissario Domenico Arcuri fa acqua da tutte le parti. Dopo l'indagine della Corte dei Conti sulle siringhe inadatte per i vaccini, ora l'inchiesta sulle mascherine cinesi rischia di travolgere l'intera macchina di gestione della crisi pandemica. Lo scenario si apre a marzo dello scorso anno, quando molti imprenditori italiani si offrono di fare da mediatori con le aziende produttrici cinesi per portare le mascherine in Italia. Mentre tutti gli altri Paesi si rivolgono al governo cinese, che garantisce qualità e affidabilità dei prodotti, l'Italia gestisce tutte le richieste, su ordine del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, attraverso l'ambasciata di Pechino. I dispositivi di protezione arrivano tutti da quel «triangolo delle Bermuda» compreso tra Shenzhen e Hong Kong, da cui si riforniscono anche imprese italiane. Viene intanto creato un gruppo di gestione dei voli. In realtà il Kc-767 dell'Aeronautica militare per il primo volo imbarca pochissimi pezzi perché deve effettuare il rientro velocemente, con un unico scalo e rifornimento, proprio su ordine del ministro Di Maio. Un po' come la storia dei vaccini, arrivati in quantità ridicole su un furgoncino della Pfitzer solo per ragioni di palcoscenico mediatico. I voli militari sono pochi. Subito dopo il trasporto viene affidato alla società Neos, che fa 94 viaggi, secondo i dati da loro forniti, con i vettori 787, che hanno una capacità di 200 metri cubi e che vince la gara per il prezzo più competitivo, per poi passare ai 777 di Alitalia, che hanno una portata di 120 metri cubi, a un costo maggiore. Ma il punto chiave è il criterio di commercializzazione delle mascherine. Il 18 marzo, con il decreto Cura Italia, è l'Inail l'ente che si occupa di approvare o meno i vari tipi di mascherina. Senza la validazione nessuno può venderle. A raccontarlo è Giovanni Conforti, proprietario della Yakkyo srl, che da anni lavora con la Cina e che presenta sei tipi di mascherine. Inspiegabilmente, alcuni dei modelli sottoposti a Inail, identici a quelli portati da altre aziende, non vengono approvati. Viene dato l'ok a due modelli dopo il riesame e, chiarisce, «successivamente abbiamo presentato due ricorsi al Tar per il diniego e un ricorso per risarcimento danni». Confrontando i tipi di mascherina presentati da altre realtà e subito approvati con quelli poi piazzati attraverso Invitalia, si scopre che la maggior parte di essi ha usufruito di quel canale. E qualche dubbio sorge. Il viareggino Pier Luigi Stefani spiega di essersi speso per piazzare mascherine provenienti dalla Corea, Paese in cui ha lavorato per oltre 10 anni. «Ho scritto a numerosi soggetti - dice - compresi Estar Toscana, Assolombarda, Regione Campania. Ma ogni volta chiedevano un sacco di certificazioni. Impossibile piazzare le mascherine. Io lo facevo perché vedevo gente morire, medici e infermieri disperati, il mio scopo non era guadagnare. Il tipo di mascherina che proponevo era sicura e acquistabile a 70 centesimi a pezzo. Attraverso il sistema Arcuri ne sono state acquistate anche a 6 euro. Hanno buttato via oltre un miliardo di euro che sarebbe potuto servire ad aiutare le aziende». Anche il senatore Massimo Mallegni (Forza Italia), scrisse al governo per informare della disponibilità di mascherine. Ma mai nessuno rispose. Gli scambi di mail che ancora Stefani conserva parlano chiaro: qualcosa non tornava e continua a non tornare. Ma le Procure dovranno indagare, perché i morti per Covid sono stati moltissimi e sulla pelle della gente non si può scherzare.

(ANSA il 30 gennaio 2021) "Domenico Arcuri, commissario per l'emergenza coronavirus con il mandato di dirigere il piano vaccinale, è allo stesso tempo l'amministratore delegato di Invitalia che ha investito in un'azienda privata italiana - parte di un consorzio internazionale - al lavoro su un vaccino in fase di sperimentazione". Questa la denuncia dell'Associazione Luca Coscioni, che chiede con un appello "al Governo, e allo stesso Arcuri, di risolvere immediatamente il conflitto d'interessi, dimettendosi da uno dei due incarichi palesemente incompatibili, per non pregiudicare la credibilità del suo operato in un momento così difficile per il Paese e di spiegare il perché della sua scelta di investimento". "Nel segnalare dubbi circa i dati sugli studi clinici in atto e i tempi di messa in produzione che alcune società scientifiche e ricercatori hanno manifestato in queste ore- spiegano Filomena Gallo e Marco Cappato, segretario e tesoriere dell'Associazione- riteniamo che la politica, anche in un momento di amministrazione degli affari correnti, non possa non farsi carico del conflitto d'interessi che investe Arcuri: commissario per l'emergenza sanitaria e amministratore delegato di Invitalia. L'investimento di oltre 80 milioni di euro pubblici in una società privata italiana, parte di un consorzio internazionale per la produzione di un vaccino, è stata deliberata senza che vi fosse possibilità di approfondimento tecnico o pubblico circa quanto annunciato relativamente alla qualità, sicurezza ed efficacia del prodotto. Una decisione presa da qualcuno che agisce nel massimo dei privilegi e delle immunità assicurate dalla gestione commissariale, che si garantisce i fondi necessari per far fronte all'emergenza al netto della valutazione di merito di quanto finanziato e nel momento in cui è pronto a intentare causa a potenziali concorrenti dell'azienda in cui ha investito". "Se starà alla scienza confermare che quanto annunciato circa il vaccino ReiThera corrisponda all'avanzamento degli studi - concludono - alla politica tocca esigere chiarezza circa l'amministrazione di soldi pubblici in un contesto emergenziale quanto delicato".

Domenico Arcuri "umiliato da Burioni, dai numeri e dai fatti". Filippo Facci smonta il commissario punto per punto. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 03 febbraio 2021. Noi aspettiamo serenamente. I morti. L'appuntamento imperdibile (si fa per dire) non è più da un pezzo l'ipnotico bollettino quotidiano in cui si spiegano i dati Covid-19 del giorno prima: l'appuntamento imperdibile è diventato l'uno/due Arcuri-Burioni trasmesso da Che tempo che fa (Raitre) in cui il meritato assopimento domenicale diviene quasi riposo (eterno) quando parla il commissario Domenico Arcuri, e si trasforma in gradito risveglio (tipo caduta dalla poltrona) quando la parola passa a Roberto Burioni, il virologo da ascoltare ponendo una mano a scaramantica protezione. Domenica, appunto, il soporifero Arcuri ha spiegato che i vaccini funzionano e riducono progressivamente i contagi (e sin qui c'eravamo) e che le folle e gli assembramenti però allungano i tempi (c'eravamo anche qui, ma evidentemente non tutti) e però il punto contestato è questo: «Dovremo serenamente condividere», ha detto Arcuri, «che i vaccini che abbiamo a disposizione sono largamente di meno di quelli che ci era stato detto. Noi paesi fruitori abbiamo una quantità di vaccini largamente inferiore rispetto a quelli scritti nei contratti».

Parentesi: questo non spiega perché altri «paesi fruitori» abbiano comunque a disposizione più vaccini di noi o perché procedano più velocemente di noi nel somministrare quelli che hanno a disposizione (parliamo di paesi europei) e però è quel «serenamente» autoassolutorio e fatalista che è piaciuto poco a Roberto Burioni e un po' a tutti noi. «Mi ha colpito», ha detto più tardi il virologo, «l'utilizzo di un avverbio: che dobbiamo accettare serenamente che ci siano meno vaccini. Io posso accettare serenamente la foratura di una gomma, ma se vado da un paziente in ospedale e gli dico che non ho gli antibiotici per curarlo, lui non lo accetta serenamente». Ergo: «Bisogna dire le cose come stanno e dire che un ritardo nella consegna di vaccini significa morti». In effetti. «Quando a Kennedy dissero che ci voleva tempo per andare sulla Luna, lui disse "allora cominciamo subito". Noi non possiamo non andare sulla Luna: i vaccini sono indispensabili. Io sono a favore del giusto profitto, chi ha lavorato e rischiato deve avere un compenso», ha precisato Burioni riferito ai produttori dei vaccini, «ma questo non può venire prima della vita umana. Siamo riusciti a fare qualcosa di incredibile, e non riusciamo a produrla?». A parte la giustificata polemica su un avverbio, il problema di cui discutere è divenuto ovviamente la distribuzione dei vaccini. Il sereno Arcuri, domenica, ha detto che l'Italia era scattata alla grande (vero) anche perché aveva avuto i previsti vaccini Pfizer che erano somministrabili senza limiti di età e a categorie precise: medici e personale paramedico. E tutto è filato veloce e liscio. C'era poi un'altra cosa che sapevano tutti, ma veramente tutti: che dal 29 gennaio sarebbero arrivati i vaccini di AstraZeneca, i quali, tra tanti pregi (più facili da conservare e quindi trasportare, non avendo bisogno dei super-frigoriferi) avevano il difetto di essere indicati per persone d'età inferiore ai 55 anni: e si doveva tenerne conto nell'individuazione delle categorie a cui, come si dice, inoculare il vaccino. Quali? Ecco un'altra cosa che non lascia sereni per niente: queste categorie non ci sono, e le strutture per somministrare neanche. Non le hanno ancora decise: nonostante tutto il tempo che hanno avuto per farlo.

Quel che ci manca - La situazione in concreto: l'8 febbraio arriveranno dal Belgio le prime 428.440 dosi, a cui se ne aggiungeranno 661.133 il 15 del mese. L'Agenzia del Farmaco in teoria deve ancora confermare che l'età ideale di somministrazione è tra i 18 e i 55 anni, ma lo diamo per scontato. Le categorie, invece, non si conoscono. Ieri hanno fatto l'ennesima riunione tra ministri della Salute (Roberto Speranza) e degli Affari regionali (Francesco Boccia) e governatori vari, più il solito Arcuri, ma ognuno dice la sua. L'ascoltato Nino Cartabellotta, esperto di sanità e presidente della Fondazione Gimbe, suggerisce di cominciare dagli insegnanti per poi passare ai servizi pubblici, le forze dell'ordine e le carceri. La Regione Lazio ha fatto sapere che per decidere bisognerebbe coinvolgere il Parlamento, classica tecnica dilatoria e perditempo: «È necessario che le Regioni siano messe nelle condizioni di avere un'indicazione circa le priorità e l'aggiornamento del Piano strategico nazionale». Ma il problema, in termini organizzativi e logistici, è proprio che il famoso Piano strategico è ancora una chimera. C'è, ma è approssimativo, scarno, praticamente una bozza. Da qui all'8 febbraio c'è giusto una settimana per decidere come suddividere gli under 55 italiani: liste con nomi e cognomi e poi convocazioni in non si sa quali centri vaccinali. Qualche regione ha allestito qualcosa, ma è ancora tutto molto improvvisato. Si parla di coinvolgere i medici di base, e le farmacie, ma appunto, si parla. Il rischio che arrivino i vaccini e non ci sia la macchina per distribuirli e somministrarli è piuttosto concreto. Circa le strutture, il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha proposto di utilizzare le fabbriche per la vaccinazione di massa: ma non ha ricevuto risposte.

Una maratona - Non essendo chiare troppe cose, vien quasi da relegare a un futuro remoto il fatto che entro il 31 marzo le dosi attese dovrebbero essere 3,4 milioni totali: anche se è ancora in corso lo scontro tra Commissione europea e AstraZeneca dopo l'annuncio che il taglio delle forniture rispetto ai tempi previsti, in sostanza, sarà del 75 per cento. Nientemeno. AstraZeneca si è impegnata ad aggiungere 9 milioni di dosi per tutta l'Europa (farebbero 1,2 milioni in più per l'Italia) ma insomma i numeri restano un po' ballerini. Non essendoci numeri attendibili, individuare e suddividere le categorie diventa più complicato: sarà per questo che l'Italia è rimasta praticamente immobile. Rischia di rimanerlo a lungo, visto che nella corsa alla profilassi le cose cambiano di giorno in giorno: la stessa AstraZeneca nel giro di un mese o poco più potrebbe fornire dati di nuove sperimentazioni che potrebbero includere fasce di età più elevate (sino ai 65) e dopo le solite validazioni dell'europea Ema e dell'italiana Aifa la suddivisione delle categorie andrebbe in parte rifatta: resta che per ora non è neanche fatta. E gli ultraottantenni? Per loro ci sono i vaccini di Pfizer e Moderna, ed è tutto più semplice perché il criterio è anagrafico: ma bisogna prenotarsi, e per farlo c'è un sito (neanche in tutte le regioni) che non di rado gli ultraottantenni non sono specializzati nel saper usare. Nel frattempo, sembra che si continui a vaccinare ma in realtà siamo fermi: le varie regioni i stanno solo inoculando le seconde dosi, che hanno già ricevuto in circa 600mila su poco meno di un paio di milioni totali. Se il passo rimanesse questo, calcolate voi quanti anni impiegherebbe il Paese per uscire da questo incubo. Siamo partiti con scatto da centometristi, ma resta una maratona in cui mostriamo già il fiato corto: ben 31 paesi ci hanno già superato per dosi giornaliere per milione di abitanti.

Per trovare i vaccinatori, lo Stato paga mille euro a telefonata alle agenzie interinali. Cinque società del settore si sono assicurate un appalto da 25 milioni per contattare 26 mila sanitari iscritti alla campagna anti-Covid. Un lavoro strapagato che forse Regioni e Asl potevano fare gratis. Ecco chi ha vinto l'appalto, dal sindaco di Venezia Brugnaro a un ricchissimo imprenditore cresciuto fra i pupilli di don Giussani. Gianfrancesco Turano su L'Espresso l'1 febbraio 2021. Un medico riceve una telefonata da Catania da parte di un’agenzia interinale milanese per sapere se è disponibile a vaccinare i cittadini di un’azienda sanitaria calabrese. Sembra l’inizio di una barzelletta ma, se lo è, richiede forti anticorpi di umorismo nero. A partire dal 4 gennaio il commissario straordinario all’emergenza pandemica, Domenico Arcuri, ha incaricato le principali agenzie per il lavoro (Apl, in sigla) di selezionare il personale necessario alla campagna anti-Covid, quella dei 1500 gazebo a forma di primula progettati dall’archistar Stefano Boeri. Non è un vero e proprio reclutamento come le Apl sono abituate a fare. L’appalto da 534 milioni di euro, 25 milioni dei quali in diritti di agenzia, consiste nel raccogliere i nomi degli iscritti al portale (personalevaccini.invitalia.it), verificare identità e iscrizioni agli albi professionali e procedere ai colloqui telefonici con i candidati. In termini tecnici, le agenzie stanno facendo screening e non recruiting.

Domenico Arcuri, tutti gli errori del commissario Covid: quanto ha speso e cos’ha comprato. DATAROOM di Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera l'1/2/2021. Fino all’emergenza Covid, tutto quello di cui ogni anno gli ospedali hanno bisogno (28 miliardi di bandi di gara aggiudicati) per il 30% lo comprano direttamente, per il 10% ci pensa Consip, per il resto fanno affidamento sulle 21 centrali d’acquisto regionali. Lo scoppio dell’epidemia rende necessaria la presenza di un commissario con funzione di coordinamento. Il decreto del 17 marzo 2020 gli conferisce il compito di acquistare ogni bene indispensabile al contenimento della diffusione del virus, anche in deroga alle norme: «Tutti gli atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione. Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che li ha posti in essere o che vi ha dato esecuzione».

Compiti e poteri del commissario per l’emergenza. Il governo guidato da Giuseppe Conte sceglie Domenico Arcuri, da 13 anni amministratore delegato di Invitalia. La società, posseduta dal ministero dell’Economia, si occupa di attrazione degli investimenti, sviluppo del Mezzogiorno, aziende in crisi, bonifiche, accoglienza migranti, digitalizzazione Pubblica amministrazione, ricostruzione terremoti, salvataggio Ilva e Banca Popolare di Bari. Il comma 6 dell’articolo 4 dello statuto apre di fatto a 360 gradi il raggio d’azione: «La società potrà esercitare tutte le attività e funzioni ulteriori eventualmente attribuitele in forza di leggi e di norme anche per il perseguimento di nuove attività». Arcuri, manager politico navigato, non ha competenze specifiche in Sanità, ma l’articolo 122 gli consente di attingere dove ci sono: «Il commissario può avvalersi di soggetti attuatori e di società in house, nonché delle centrali di acquisto». Decide di non farlo. Questo è il resoconto dopo dieci mesi.

Camici, tamponi, reagenti: le falle del commissario. Il commissario non ce la fa a soddisfare l’intero fabbisogno di guanti, camici, respiratori, gas medicali, reagenti, siringhe, letti: per più della metà devono pensarci le Regioni. Qualche esempio: Arcuri spende 65,4 milioni in guanti di vinile e nitrile, le centrali acquisti devono sopperire per 138 milioni; 1,4 miliardi per camici, calzari, cuffie e visiere, contro i 338 milioni di Arcuri. Per respiratori, monitor e letti il commissario copre il 57%, per tamponi e reagenti il 49%. Al 30 dicembre 2020 la spesa per le attrezzature e i materiali sanitari indispensabili nella lotta alla pandemia, ricostruita per Dataroom dall’Osservatorio MaSan (Management acquisti e contratti in Sanità) del Cergas-Bocconi, è di 5,5 miliardi così ripartiti: gli acquisti delle Regioni ammontano a 2 miliardi, quelli di Consip a 400 milioni, quelli della Protezione civile a 300, quelli del commissario Arcuri a 2,8 miliardi di cui 1,8 miliardi (il 65% del fabbisogno) riguardano mascherine chirurgiche, Ffp2 e Ffp3.

I prezzi a confronto delle mascherine Ffp2. Sulle mascherine non consideriamo la prima ondata, durante la quale si è consumato ogni sorta di sciacallaggio: non si trovavano e, pertanto, abbiamo dovuto accettare qualunque prezzo pur di averle. Dall’estate scorsa le cose sono cambiate: il mercato è inondato. Per quel che riguarda le Ffp2, il presidio numero uno per gli ospedali, sono pressoché tutte di produzione cinese. Visto che si tratta di quantità gigantesche non c’è dubbio che il commissario spunterà il miglior prezzo. L’11 settembre Arcuri firma un contratto da 100 milioni di pezzi con la YQT Health Care B.V. (la lettera di commessa), società olandese con un solo dipendente costituita il 16 marzo 2020. È una srl controllata dalla Bydcare Eu , filiale europea della cinese Byd, produttore di automobili di Shenzhen riconvertita, come dichiarato sul sito, nel più grosso produttore al mondo di mascherine. Al 20 dicembre l’unico destinatario di import sanitario della YQT è il commissario straordinario. Il prezzo pagato è di 105 milioni di euro, vale a dire 1,05 euro a mascherina. Le forniture sono mensili e, ad oggi, risultano consegnati oltre 45 milioni di pezzi. Val la pena sottolineare che la Byd cinese è la stessa azienda con cui il commissario aveva firmato le scorso aprile due contratti per una fornitura di 300 milioni di mascherine chirurgiche per 89,4 milioni di euro (30 centesimi l’una) con consegne avvenute fino ad ottobre. In quel caso però il pagamento era stato fatto direttamente alla società cinese senza passare dall’importatore olandese.

Dalla Cina all’Italia via Olanda il prezzo raddoppia. Il 25 settembre, dunque nello stesso periodo, l’azienda ospedaliera «Ospedali riuniti Marche Nord» di Pesaro aggiudica una procedura negoziata da 756 mila euro per l’acquisto di 2 milioni di Ffp2, prezzo: 37 centesimi l’una. La gara d’appalto è divisa in tre lotti. Uno degli aggiudicatari è la Polonord Adeste, importatore italiano di mascherine cinesi. La qualità è la stessa, la certificazione è equivalente (come mostrano i documenti esaminati da Dataroom), la differenza però non è banale: su 100 milioni di pezzi il commissario ha pagato 65 milioni in più. Anche la centrale acquisti della Regione Veneto, che per non rischiare di trovarsi scoperta ha acquistato un piccolo lotto, ha speso meno: 90 centesimi; mentre quella del Gruppo San Donato, il principale operatore della Sanità privata accreditata, ai primi di settembre se le aggiudica a 0,91 centesimi da un’azienda produttrice italiana. In sostanza si compra dalla Cina, si paga in Olanda, e si paga caro.

Terapie intensive: 5 mesi per l’elenco dei fornitori. Il decreto legge del 19 maggio 2020 prevede l’acquisto di attrezzature e ventilatori per potenziare di 3.500 posti letto le terapie intensive e di 4.225 le semi-intensive. Il 27 luglio Invitalia pubblica il bando in cui le aziende disponibili a vendere i macchinari devono segnalarsi per poi essere selezionate. Le Regioni comunicano le loro necessità entro il 31 agosto. Ma l’elenco dei fornitori, a cui le singole aziende sanitarie devono rivolgersi per negoziare, il commissario lo rende pubblico il 2 novembre, 5 mesi e mezzo dopo, nel pieno nella seconda ondata. Per quel che riguarda la fornitura da 10 milioni di euro per l’acquisto di 157 milioni di siringhe di precisione «luer lock», che estraggono 6 dosi invece di 5 da ogni fiala del vaccino Pfizer, vuole vederci chiaro la Corte dei Conti del Lazio per capire se sia fondato il sospetto che avrebbero potuto essere comprate siringhe decisamente meno costose. Ma anche se fosse, il commissario per decreto è immune da ogni responsabilità. Vale per le siringhe, le mascherine, le primule (i box per le vaccinazioni) e qualunque altro bene.

Che fine fanno le competenze? Sta di fatto che la presenza di più soggetti che acquistano gli stessi materiali crea un cortocircuito di concorrenza che rende ancora più difficile portare a casa la merce. «La gestione degli acquisti sanitari durante l’emergenza Covid evidenzia i problemi profondi della macchina amministrativa del Paese – spiegano Francesco Longo, Niccolò Cusumano e Veronica Vecchi dell’Osservatorio MaSan Cergas-Bocconi –. Quando si affidano compiti speciali a strutture commissariali raramente si tiene conto delle competenze specialistiche necessarie, soprattutto in Sanità. Le strutture ordinarie dovrebbero, ben coordinate, potersi occupare anche di emergenze: il Servizio sanitario, le Regioni, le loro centrali di acquisto, le aziende sanitarie avrebbero dovuto occuparsi anche di Covid. E, in ogni caso, lo hanno fatto, ma ognuno per conto proprio e cercando di mettere “pezze” alle falle del sistema commissariale». Sta di fatto che la presenza di più soggetti che acquistano gli stessi materiali crea un cortocircuito di concorrenza che rende ancora più difficile portare a casa la merce. Questo succede perché viene creata una struttura che dovrebbe avere una funzione organizzativa e di guida valorizzando quelle che già si occupano della materia, che invece si sostituisce ad esse senza però averne le competenze specifiche.

Dal Corriere della Sera il 7 febbraio 2021. Gentili dottoresse Milena Gabanelli e Simona Ravizza, in relazione all' articolo pubblicato sul Corriere il 1° febbraio 2021, terremmo a fare alcune precisazioni nell' interesse esclusivo dei lettori. La Byd Auto Industry Company Limited, conglomerato cinese quotato alla borsa di Hong Kong, è oggi il più grande produttore mondiale di mascherine. Nei Paesi Bassi operano anche Byd Europe B.v., appartenente al gruppo Byd e la controllata Yqt Health care B.v.H, entrambe operanti nel settore dei dispositivi di protezione individuale. Con il protrarsi della situazione emergenziale, il 1° Giugno 2020 - con lettera Prot. N° 762 - è stata sottoscritta tra la struttura commissariale e Byd Auto Industry Company Limited, la fornitura di ulteriori 100 milioni di mascherine Kn95, al prezzo unitario di 1,05 euro. Il contratto prevedeva un piano di consegne presso Shenzhen, con cadenza settimanale. Inoltre era necessario procedere al trasferimento dei dispositivi in Italia, nonché al loro sdoganamento. Nel mese di giugno 2020 si è riusciti a trasferire e sdoganare in Italia 18.827 colli, corrispondenti a 18.827.000 dispositivi. Si sottolinea che, considerata l' enorme quantità dei dispositivi in quel periodo acquistati e consegnati in Cina, il trasferimento all' estero, e quindi anche in Italia, registrava dilazioni temporali anche consistenti, aggravate dalle modifiche introdotte dal Governo cinese nella legislazione in materia di esportazioni. La struttura commissariale avviava perciò una serie di interlocuzioni con Byd, al fine di identificare soluzioni che potessero rendere più rapide le operazioni di esportazione dalla Cina. Queste interlocuzioni hanno portato l' 11 settembre 2020 - con lettera Prot. N° 1355 -, alla risoluzione per mutuo consenso del contratto sottoscritto con Byd Auto Industry Company Limited il 1° Giugno 2020, e alla sottoscrizione di un contratto sostitutivo con Yqt Health care B.v. alle medesime condizioni economiche. Il nuovo contratto ha previsto, come condizione di maggior favore per la struttura commissariale, la fornitura di 50 milioni di mascherine Ffp2, normalmente commercializzate ad un prezzo superiore, in luogo di analoga quantità di Kn95, oggetto del precedente contratto. Il prezzo unitario è rimasto quello contrattualizzato a giugno, ovvero 1.05 euro. È stata anche l' occasione per rimodulare il calendario delle consegne previste, in relazione alle mutate esigenze del sistema sanitario nazionale. Le operazioni di importazione e sdoganamento sono risultate ovviamente più celeri in conseguenza del cambiamento del soggetto contraente. Ufficio Stampa del commissario Arcuri

LA RISPOSTA DI MILENA GABANELLI. Prendiamo atto della precisazione, ma i documenti inviati la contraddicono.

Punto uno: in data 1° giugno viene stipulato un contratto con la Byd cinese per 100 milioni di pezzi a 1,05 euro con consegna entro il 28 giugno. A tale data risultano consegnati solamente 20 milioni di pezzi all' incirca, risultando inadempiente per gli altri 80 milioni. Dalla documentazione inviata non emergono i motivi dei ritardi della Byd e nemmeno una richiesta danni da parte del commissario.

Punto 2: nella lettera prot. 1355 dell' 11 settembre 2020 scrive che il contratto della Byd è stato risolto consensualmente per «sopravvenute ragioni ricollegabili a mutamenti dello scenario epidemiologico» . Come dire «quelle mascherine non ci servono più».

Punto 3: lo stesso giorno, ma con il protocollo immediatamente precedente, firma un contratto con la Yqt (filiale europea della Byd) per lo stesso quantitativo in ragione della «estrema ed indifferibile urgenza», impegnandosi a pagare lo stesso prezzo di giugno, 1,05 euro. Eppure a settembre, come dimostrato, lo stesso prodotto certificato Ce, si acquistava a meno di 40 centesimi.

Ultimo punto: sostenete che un contratto ha semplicemente sostituito quello precedente. Allora avrebbe dovuto essere stipulato per 80 milioni di pezzi e non 100, visto che 20 erano stati consegnati a giugno, e immaginiamo anche pagati. Milena Gabanelli e Simona Ravizza

"Siringhe pagate 6 volte di più", ora Arcuri è sotto inchiesta. Arcuri ha acquistato una fornitura di 157 milioni di siringhe luer lock, perché sarebbero le uniche in grado di estrarre 6 dosi da ogni fiala. Forse bastavano i più economici aghi standard. Ora la Corte dei Conti indaga. Martina Piumatti, Mercoledì 27/01/2021 su Il Giornale. Tutta colpa dell'Aifa. Il commissario straordinario all'emergenza scarica sull'Agenzia italiana del farmaco tutta la responsabilità sulla questione delle super siringhe pagate sei volte di più. A sentire Arcuri, le 157 milioni di siringhe di precisione (con cono e ago che si avvita) luer lock sarebbero le uniche in grado di estrarre 6 dosi invece di 5 da ogni fiala del vaccino di Pfizer. Intanto, mentre il super commissario gioca allo scaricabarile, la Corte dei Conti, riporta La Repubblica, ha aperto un fascicolo per verificare se sui 10 milioni di euro spesi per siringhe luer lock si poteva risparmiare e, soprattutto, se non siano stati uno spreco inutile per le casse dello Stato. La questione è: si poteva ottenere lo stesso risultato anche con dei banalissimi aghi standard che costerebbero, stando ad alcune ricostruzioni, fino a 6 volte in meno rispetto ai prezzi pattuiti con i fornitori del materiale speciale? Per ora Arcuri nega. "La differenza è solo di pochi centesimi, non è vero ci sia un divario così ampio tra i due prodotti". E le luer lock sarebbero una scelta obbligata indotta dalle agenzie regolatorie del farmaco. Aifa nel suo “bugiardino” sul vaccino anti Covid-19 di Pfizer parla dell’uso delle siringhe con ago bloccato, ma non lo indica come l'unica soluzione possibile. Mentre, nelle indicazioni di Ema il riferimento alle luer lock non c'è proprio. “Dopo la diluizione, - si legge nel riassunto delle caratteristiche del prodotto- il flaconcino contiene 2,25 mL, corrispondenti a 5 dosi da 0,3 mL. Aspirare la dose necessaria da 0,3 mL di vaccino diluito utilizzando un ago sterile”. Niente che non potrebbe fare una normale siringa. come quelle prodotte a milioni dalle aziende italiane e commissionate dalla Francia per iniettare lo stesso vaccino anti Covid. Insomma, la difesa di Arcuri comincia a fare acqua. E per il commissario all'emergenza, quella delle siringhe, non sarebbe l'unica grana. Altre ipotesi di danno erariale pendono sulle sue "discutibili" scelte in fatto di forniture. Nel mirino della procura contabile del Lazio ci sarebbero gli acquisti di mascherine e l'appalto dei "famigerati" banchi a rotelle. L'esito dell'inchiesta sarebbe appeso allo "scudo" penale garantito al commissario straordinario attraverso il decreto Cura Italia. L' articolo 122, comma 8, recita infatti - riferendosi ai "contratti relativi all' acquisto di beni" ritenuti idonei "a far fronte all' emergenza" - che "tutti tali atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione. Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è comunque limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario". Un paracadute costruito ad hoc con cui, ora, toccherà ai magistrati fare i conti.

“Fu Pfizer a chiedere le siringhe di precisione”: ecco il dossier di Arcuri alla Corte dei Conti.  Giuliano Foschini Fabio Tonacci su La Repubblica il 30/1/2021. Nella dibattuta questione delle costose siringhe di precisione comprate dalla struttura commissariale per somministrare il vaccino Pfizer, Domenico Arcuri ha tre carte da calare sul tavolo delle polemiche. Tre documenti - due mail e una circolare dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco - per convincere la Corte dei conti che la scelta di puntare sulle luer lock (quelle con l'ago che si avvita) non è stata un vezzo, ma una indicazione arrivata dalla stessa casa farmaceutica americana. La prima carta - un allegato alla mail inviata ad Arcuri il 23 ottobre scorso da Pfizer - riporta nel dettaglio la procedura di inoculo del vaccino. A pagina 17 i tecnici della multinazionale indicano espressamente di usare le "1 ml luer lock syringes": sono quelle adatte per fare l'iniezione intramuscolo. L'avviso è ribadito successivamente in una seconda comunicazione prodotta sempre da Pfizer: l'elenco di Faq (le domande frequenti) nelle quali si legge che per ogni fiala "sono necessarie cinque siringhe (si è scoperto poi invece che le dosi estraibili erano sei, ndr) modello luer lock". Infine, è la stessa Aifa, in un documento interno, a segnalare come le siringhe di precisione luer lock siano quelle migliori. E non soltanto per una questione di accuratezza ma soprattutto per ragioni legate all'igiene. "Questo sistema - scrivono al punto 34 - serve quale garanzia contro il distacco accidentale dell'ago dalla siringa, la sconsiderata pratica di lasciare un ago infisso nel flaconcino di vaccino per prelevare successivamente le sei dosi". Ancora: "Per evitare di prelevare più dosi usando la stessa siringa e la ancor più pericolosa pratica di prelevare dal flaconcino più dosi cambiando solo l'ago per più vaccinandi". Chiosa dunque l'Aifa: "Queste pratiche sono molto pericolose perché espongono aghi e punte delle siringhe alla contaminazione microbica". Sono queste le tre carte che Arcuri si giocherà davanti ai magistrati contabili con i quali conta di parlare nelle prossime ore. Come Repubblica ha raccontato nei giorni scorsi, infatti, la Corte dei conti ha aperto un fascicolo d'inchiesta sulla fornitura di 157 milioni di siringhe di precisione (il valore complessivo della commessa è di 10 milioni di euro) che il commissario ha voluto per gestire la campagna vaccinale. La Corte non si è mossa d'ufficio, bensì a seguito di un esposto presentato dall'ex europarlamentare del Pdl, oggi in Fratelli d'Italia, Enzo Rivellini. Alla denuncia Rivellini ha allegato un servizio giornalistico sulle siringhe comprate da Arcuri mandato in onda dalla trasmissione Tagadà di La7. Il sospetto ruota attorno alla domanda: perché fare un bando per le costose luer lock quando invece sarebbero bastate le normali, e più economiche, siringhe da ospedale? Una domanda che nasce dal fatto che, è stato dimostrato, anche con quest'ultime si riesce a prelevare sei dosi da ogni fiala. La parola finale, adesso, spetta alla Corte dei conti. 

Grazia Longo per "La Stampa" il 28 gennaio 2021. Sono sette i fascicoli aperti dalla Corte dei Conti per far luce sugli acquisti disposti dal commissario all'emergenza Domenico Arcuri. Riguardano principalmente le siringhe di precisione per il vaccino Pfizer, ma anche le mascherine e i banchi a rotelle. La magistratura contabile ha affidato la delega per le indagini al Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza. I militari stanno acquisendo la documentazione necessaria a far luce sul sospetto di danno erariale, ma al momento non sono state ancora attivate perquisizioni. All'origine dell'inchiesta della Corte dei Conti del Lazio c'è l'esposto di un politico napoletano, l'ex europarlamentare Enzo Ravellino, ex Forza Italia poi confluito nei Fratelli d'Italia. Il dubbio evidenziato è che ci siano state «forzature» nei bandi per l'acquisto del materiale durante la fase di emergenza in corso per la pandemia. Tanto per capirci: le siringhe di precisione «luer lock» (dove l'ago si avvita invece di essere solo applicato, e rimane quindi ben bloccato), più costose rispetto a quelle classiche perché in grado di favorire l'estrazione di 6 dosi anziché 5 da ogni fiala del siero Pfizer, sono state comprate secondo la norma? Sono stati spesi quasi 10 milioni di euro per procacciarne 157 milioni e pare che la spesa sia sei volte superiore alle siringhe tradizionali (ma dall'ufficio di Arcuri insistono che sia inferiore). Si è proceduto secondo la norma? In realtà, in base al comma 8 dell'articolo 122 del decreto Cura Italia è stato tutto regolare perché, come ribadiscono i collaboratori di Arcuri, «la legge istitutiva del commissariato non prevede il controllo preventivo della Corte dei Conti sugli acquisti ma solo la rendicontazione. Inoltre, ha creato una sorta di scudo penale per il commissario proprio perché costui ha dovuto agire in emergenza e quindi i tempi non potevano essere dilatati». Viene inoltre fatto osservare che proprio grazie all'approvvigionamento delle «luer lock» è stato possibile estrarre 6 dosi anziché 5 dalle fiale del vaccino Pfizer, «e questo ha consentito di ottenere 200 mila dosi in più di vaccino gratis, dal 27 dicembre al 15 gennaio, nella fase cioè in cui si consigliava solo il prelievo di 5 dosi da ogni fiala». Sia la Pfizer sia l'Aifa, puntualizzano ancora i collaboratori del commissario, «hanno chiaramente indicato la necessità di usare le "luer lock", che peraltro sono più sicure perché non consentono usi multipli». Ma ora i magistrati contabili e la Guardia di Finanza dovranno accertare se è stato cagionato un danno erariale. Ci sono stati degli sprechi oppure no? Si sta lavorando per rispondere a questo interrogativo e non è neppure escluso, in caso di responso affermativo, che si sollevi la questione di costituzionalità sulla norma del decreto del governo che tutela gli acquisti da parte di Arcuri. Il nodo da sciogliere resta, appunto, quello dello scudo garantito dal decreto Cura Italia che stabilisce: «Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è comunque limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario».

Covid, ora spunta il dossier che incastra Arcuri. Mascherine, ventilatori, App Immuni, banchi scolastici e piano vaccini. Ora spunta un dossier dell'opposizione che punta a mettere il commissario Domenico Arcuri davanti alle sue responsabilità. Francesco Curridori, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. Mascherine, ventilatori, App Immuni, banchi scolastici e piano vaccini. Su tutti questi temi l'opposizione di centrodestra ha stilato un dossier con cui intende “incastrare” il commissario straordinario Domenico Arcuri per la sua pessima gestione della pandemia. Il documento, che ilGiornale.it ha potuto visionare in esclusiva, racchiude tutti gli errori e le inadempienze compiute dal presidente di Invitalia a cui, lo scorso marzo, il governo Conte-bis ha affidato il compito di lavorare per il contrasto all'emergenza Covid-19.

Siringhe, ora Arcuri è sotto inchiesta. L'epidemia era arrivata da pochi mesi, ma aveva già imposto il lockdown nazionale e l'Italia aveva un'enorme difficoltà nel reperire i cosiddetti dpi, dispositivi di protezione individuale. “Ogni papà con un euro potrà comprare due mascherine ai suoi figli”, aveva assicurato Arcuri in una delle sue tante conferenze stampa. Erano, poi, sorte molte polemiche sulla sua decisione di imporre un prezzo politico sulle mascherine con lo scopo di combattere gli speculatori. “Peccato che nel frattempo farmacie e rivenditori avevano già fatto scorte a prezzo di acquisto bel superiore rispetto quello fissato da Arcuri, tanto che, dopo la sua ordinanza, le mascherine sparirono dalla circolazione”, si legge nel dossier dove, inoltre, si sottolinea che “gli esercenti avevano smesso di vendere per non andare in perdita ed esaurita rapidamente la merce residua, smettono di ordinarla”. Della “vicenda mascherine”, poi, se ne occuperà anche la magistratura aprendo un'indagine su una tangente pagata da da società cinesi a due faccendieri italiani, il giornalista Mario Benotti e l'imprenditore Andrea Tommasi. Il nome di Arcuri non risulta nel registro degli indagati, ma l'opposizione si chiede: “Perché per stabilire un contatto con un gruppo cinese che ha radici a Settimo Milanese c’è stato bisogno dell’intermediazione di Tommasi, Solis e Benotti?”. Ma, come se non bastasse, la trasmissione 'Stiscia la notizia' scopre che le mascherine prodotte da Fca per la distribuzione nelle scuole non sono a norma. E, sempre sulle mascherine, Arcuri è stato indagato per corruzione, ma i pm hanno prontamente chiesto l'archiviazione. Sui sequestri e dissequestri dei respiratori prodotti dalla Medtronic ha, invece, cercato di far luce il programma Report, ma durante la conferenza stampa del 2 maggio, Arcuri “incalzato, si mette a parlare di calcio e di fedi calcistiche”, si ricorda nel dossier. L'App Immuni si rivela un ennesimo flop perché, come ammetterà lo stesso Arcuri, il sistema di tracciamento non ha dato i risultati sperati e perché qualcosa non torna nell'affidamento del servizio alla società Bending Spoons. Un affidamento che avviene il 16 aprile con una procedura rapidissima, sulla base della comunicazione del 10 aprile del ministro dell'Innovazione Paola Pisano dopo che la task force data driven aveva indicato l'App Immuni come la migliore. Solo in seguito, dall'esame dei rapporti della suddetta task-force, si apprende che, in realtà, gli esperti del ministero della Pisano avevano consigliato di usare parallelamente sia Immuni sia CovidApp, un'altra applicazione per il tracciamento dei positivi. “Il Ministro, dunque, - si legge nel dossier - ha fornito alla Presidenza del Consiglio indicazioni parziali, non ha riportato i risultati dell’analisi effettuata dai membri della task force incaricata, ai quali peraltro prima dell’accettazione dell’incarico aveva fatto firmare un accordo di riservatezza, che impediva in buona sostanza di rivelare fatti inerenti lo svolgimento del proprio servizio e infine ha orientato le decisioni del Commissario imponendo di fatto un soggetto che non era risultato il migliore in graduatoria”. Un atto giudicato “gravissimo” dall'opposizione perché conferma “l'assoluta inadeguatezza di questo governo”.“E dunque su un tessuto già intriso di illegittimità e di chiare violazioni della privacy, si insinuano anche gravi opacità nell'aggiudicazione del servizio”, è la chiosa finale in tema di fallimento del tracciamento. Arcuri, col decreto Semplificazioni, viene inoltre investito del compito di reperire tutti gli arredi scolastici necessari per tornare in classe in sicurezza, in particolare i banchi monoposto. Ne servono la bellezza di due milioni entro settembre. E cosa fa il nostro “Der Kommissar”? Poco prima di settembre, con un ritardo a dir poco clamoroso, indice un bando da 45 milioni per trovare i banchi monoposto necessari. L'appalto viene vinto da 11 imprese, tra cui la Nexus made Srl, specializzata nell’organizzazione di eventi, con capitale sociale di appena 4mila euro. Nonostante ciò, la Nexus aveva garantito la fornitura di 180mila arredi al costo di 247,80 euro l'uno. La Lega, a tal proposito, ha interpellato Invitalia, la quale ha assicurato di non mai stipulato alcun contratto con la Nexus. “Ci domandiamo, però, come sia stato possibile un cortocircuito di questo tipo. Com’è possibile che una società operante nel campo degli eventi, abbia potuto partecipare – e vincere! – a un bando per la fornitura di arredi scolastici”, è il quesito che affligge gli autori del dossier.

In tilt persino i bandi per le primule di Arcuri. Sono care, servono a poco e sono ritardo. E che dire delle siringhe "luer lock", tanto decantate da Arcuri? Nel programma Quarta Repubblica si è dimostrato che non è assolutamente vero che il loro acquisto era stato raccomandato dalle case farmaceutiche, mentre è risaputo che sono le siringhe più care e introvabili sul mercato. La struttura commissariale di Arcuri, inoltre, all'inizio della campagna vaccinale, aveva rifornito alcune Regioni quali la Lombardia, la Liguria, il Piemonte e la Calabria di siringhe e aghi non idonei per somministrare il vaccino. “Sarebbero circa 46 mila le siringhe sbagliate inviate nella regione guidata da Attilio Fontana”, si legge nella relazione che incastra Arcuri, il cui stipendio da presidente di Invitalia, come ha rivelato il Domani, è oggetto di indagini da parte della Guardia di Finanza. Infine, i padiglioni-primula, progettati dall'archistar Stefano Boeri. “Per prima cosa ci chiediamo se davvero fosse necessario allestire una serie di padiglioni come “spinta” alla vaccinazione di massa. Non si sarebbe forse potuto trovare un altro modo (meno costoso) per rispondere all’esigenza, di certo nobile e sentita, di promuovere la profilassi da Covid-19?”, si domanda l'opposizione di centrodestra che userà questo dossier come base per un'interrogazione parlamentare sull'operato di Arcuri. Anche nel caso dei padiglioni-primula, il bando è stato pubblicato quasi fuori tempo massimo, il 20 gennaio, ma a destare preoccupazione sono le condizioni stabilite. Le aziende che partecipanti al bando di gara hanno solo una settimana per presentare un’offerta tecnico-economica e appena trenta giorni per la progettazione esecutiva e la realizzazione di 21 padiglioni (uno per Regione). Il testo prevede anche i tempi di risposta dell’intervento di riparazione molto celeri: al massimo 30 minuti. “Ad essere maliziosi verrebbe da pensare che, o chi ha redatto il bando è totalmente ingenuo ed estraneo al settore o qualcuno ha già pronto tutto da inizio dicembre”, si legge nel documento dove si dimostra, numeri alla mano, che il progetto ha dei costi eccessivamente elevati. “Ma la chicca finale – è la chiosa - è la parte in cui il bando precisa che 'la presentazione dell’offerta non vincola il Commissario straordinario ad affidare la realizzazione dei padiglioni'”.

Luca Serranò per "la Repubblica" il 27 gennaio 2021. Per il Commissario straordinario all' emergenza era una scelta lungimirante quanto necessaria, l' unico modo per ricavare il massimo da ogni fiala di vaccino. Ora, però, sulla fornitura di 157 milioni di siringhe di precisione (con cono e ago che si avvita) Luer lock, individuate da Domenico Arcuri come le uniche in grado di estrarre 6 dosi invece di 5 da ogni fiala del siero Pfizer, la Corte dei Conti vuole vederci chiaro. La Procura contabile del Lazio ha aperto un fascicolo per verificare se la spesa sostenuta (una decina di milioni complessivamente) sia stata proporzionale ai benefici, o se invece, un risultato analogo poteva essere ottenuto con gli strumenti tradizionali: quindi aghi standard che costerebbero, stando ad alcune ricostruzioni, fino a 6 volte in meno rispetto ai prezzi pattuiti con i fornitori del materiale speciale. E non si tratta dell' unica ipotesi di danno erariale su cui si intende procedere. Altri fascicoli aperti, sempre dai magistrati contabili di Roma, riguarderebbero le forniture di mascherine, e l' appalto dei banchi scolastici con le rotelle. Le verifiche procedono nel massimo riserbo. Ma sullo sfondo pare delinearsi un "conflitto" con il Governo, sullo "scudo" garantito al Commissario straordinario attraverso il decreto Cura Italia. L' articolo 122, comma 8, recita infatti - riferendosi ai «contratti relativi all' acquisto di beni» ritenuti idonei «a far fronte all' emergenza» - che «tutti tali atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione ». Ed ancora: «Per gli stessi atti la responsabilità contabile e amministrativa è comunque limitata ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario». Un paracadute clamoroso, per i magistrati: secondo i quali si tratterebbe di un precedente in grado di riservare al Commissario un potere discrezionale pressocché assoluto. Non solo. Prevedendo il dolo come presupposto, quella norma equiparerebbe il danno (per spese non congrue ) all' evento penale. E quindi confondendo profili e responsabilità diverse, su cui non a caso indagano uffici diversi, Corte dei Conti o Procura ordinaria. Ecco perché i magistrati contabili, ammesso fossero accertati degli sprechi, non escluderebbero di sollevare la questione di costituzionalità. Sul capitolo Luer lock, in particolare, da esposti, da articoli di stampa, oltre che da un' indagine giornalistica apparsa a Tagadà su La 7, sarebbe emerso che le siringhe acquistate dal Commissariato sono meno reperibili e costano di più. «Ma la differenza è solo di pochi centesimi, non è vero ci sia un divario così ampio tra i due prodotti», aveva fatto già sapere Arcuri un mese fa. Meno tecnico, l'altro paradosso: l'Italia avrebbe acquistato all' estero le siringhe «più performanti», mentre le aziende italiane già producevano milioni di quei prodotti standard, in uso nella Sanità italiana da sempre e commissionate dalla Francia per iniettare lo stesso vaccino antiCovid. Rilievi che non sembrano preoccupare Arcuri. Gli uffici del Commissariato premettono, «per completezza, l' esistenza della norma» che sottrae quelle scelte alle istruttorie della Corte dei Conti. E, quanto al merito dell' acquisto delle particolari siringhe ad avvitamento, sottolineano che la scelta è dipesa dalle indicazioni «sia delle case produttrici dei vaccini, sia dell' agenzia Aifa che richiedeva l' utilizzo delle Luer lock » , considerate strumenti «a maggior precisione e sicurezza nell' interesse collettivo».

·        Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Il titolo sparato in prima pagina. Figliuolo indagato, contro il generale la ‘gogna’ del Fatto Quotidiano: ma è un atto dovuto che va verso l’archiviazione. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Ottobre 2021. Francesco Paolo Figliuolo indagato. Il generale dell’Esercito, scelto dal presidente del Consiglio Mario Draghi come ‘erede’ di Domenico Arcuri come numero uno della struttura commissariale per la gestione dell’emergenza Covid-19, risulta essere iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta su Enzo Vecciarelli, il capo di Stato maggiore della Difesa indagato con l’accusa di corruzione per una storia di abiti sartoriali utilizzati come ‘tangenti’ in cambio di appalti. A scriverlo, anzi gridarlo in prima pagina, è l’edizione odierna de Il Fatto Quotidiano, il giornale di Marco Travaglio, che dedica poi l’intera pagina cinque alla vicenda. Un grande scoop? Insomma. Basta leggere proprio l’articolo del Fatto, a firma di Vincenzo Bisbiglia e Valeria Pacelli, e scorrere alcune righe per arrivare al punto chiave della questione: l’iscrizione nel registro degli indagati di Figliuolo, scrive lo stesso giornale di Travaglio, “è un atto dovuto, a sua tutela”. Ma non è finita qui. Nonostante il titolone di prima pagina sull’indagine a carico di Figliuolo, sempre nell’articolo i due giornalisti scrivono che “nelle prossime settimane la Procura di Roma depositerà una richiesta di archiviazione”, anche perché il commissario all’emergenza Covid “non è mai finito direttamente nelle intercettazioni” che riguardano Vecciarelli, ma “sarebbero altri a far riferimento a lui nell’ambito di circostanze che riguardano però un periodo precedente alla sua nomina” da parte di Draghi. Sull’operazione mediatica messa in piedi dal Fatto Quotidiano va registrata anche la presa di posizione di Enrico Costa, deputato di Azione, da sempre attivissimo sul fronte della tutela della presunzione di innocenza: “Il Fatto titola sul Generale Figliuolo indagato – scrive Costa su Twitter -. Poi, nel pezzo, spiega che è “atto dovuto, a sua tutela” e sarà richiesta l’archiviazione. Figliuolo sta facendo un lavoro enorme e il Paese, anziché ringraziarlo, consente lo si infanghi a mezzo stampa, “a sua tutela””.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Francesco Figliuolo, sul Fatto Quotidiano l'ultimo affondo: "Non sa niente, vuole comandare e noi dobbiamo subire in silenzio". Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. Continua ad arricchirsi di nuovi capitoli l'ossessione del Fatto Quotidiano per il generale Francesco Figliuolo, nominato commissario all'emergenza Covid dal governo Draghi al posto di Domenico Arcuri. Questa volta l'invettiva piove nell'articolo a firma Daniela Ranieri, la quale si chiede come mai si sia deciso di "affidare la delicatissima macchina dell’immunizzazione di massa a un generale dell’Esercito: "Cioè a uno che di medicina e sanità pubblica ne sa quanto un geometra, un sarto o noi giornalisti". Vero, ma a questo punto è difficile non notare che anche il suo predecessore con la medicina non aveva nulla a che fare. E ancora, quello del generale è un ruolo logistico e non "medico", proprio come lo era quello di Arcuri: dunque, sul profilo, c'è davvero ben poco da discutere. La giornalista del Fatto, poi, se la prende per una frase che il commissario ha pronunciato qualche giorno fa, in seguito alle polemiche su vaccini, richiami e mix: “Non è il momento delle polemiche, è il momento di stringersi a coorte”. Un'eresia secondo la Ranieri, che attacca: "Che crede il generale, che siamo in caserma, dove comandano i nonni e le reclute subiscono in silenzio?". E ancora: "'Stringersi a coorte': che c’entra l’amor di Patria dei singoli con la sicurezza sanitaria di una popolazione in una pandemia?". Per la giornalista e per il Fatto, insomma, "ogni volta che Figliuolo apre bocca fa danni": "'Chiunque passa va vaccinato', così, senza anamnesi, senza parere del medico di base, senza alcun filtro tra il cittadino e l’inoculatore, di modo che ogni eventuale malattia o difetto genetico viene fuori solo sul tavolo delle autopsie". Un'analisi che potrebbe definirsi giusta, sennonché il generale non ha mai suggerito di fare a meno della scheda anamnestica, che è fondamentale in questi casi. Poi il solito paragone col precedente esecutivo e la precedente gestione della pandemia: "Immaginiamo cosa sarebbe successo se tutto questo l’avessero fatto Conte, i 5Stelle, Arcuri". Già, ma "questo"... cosa? Forse raddrizzare le sorti della campagna vaccinale? Infine un commento al vetriolo anche contro il premier: "Draghi tace, forse spera che nessuno si accorga che il capo è lui. È il Governo di Tutti, quindi non è colpa di nessuno. Se va bene, il merito è di Figliuolo, se va male è colpa di Speranza".

Ermes Antonucci per ilfoglio.it il 27 ottobre 2021. “Abiti sartoriali in regalo: indagato anche Figliuolo”. La notizia pubblicata in apertura di prima pagina oggi sul Fatto quotidiano non lascia spazio a dubbi: anche il commissario all’emergenza sanitaria, Francesco Paolo Figliuolo, risulterebbe coinvolto nell’inchiesta su tangenti e corruzione nelle forniture agli apparati militari che è giunta a toccare il capo di Stato maggiore della Difesa, Enzo Vecciarelli, indagato per corruzione. Uno scoop da parte del giornale diretto da Marco Travaglio? Non proprio. Più che altro si è di fronte all’ennesimo caso indegno di gogna mediatico-giudiziaria. Una volta superato il titolo forcaiolo sparato in prima pagina e letto l’articolo, infatti, si scopre – per stessa ammissione degli articolisti – una realtà ben diversa: l’iscrizione di Figliuolo nel registro degli indagati è stato un atto dovuto, a sua tutela, da parte dei pm; il generale non è mai finito direttamente nelle intercettazioni, ma sarebbero altri a far riferimento a lui; le circostanze riguardano un periodo precedente alla sua nomina da parte del governo Draghi; e soprattutto “nelle prossime settimane, la procura di Roma depositerà una richiesta di archiviazione”. Insomma, altro che “indagato anche Figliuolo”. Viste le informazioni riportate nell’articolo, il titolo avrebbe dovuto essere: “Figliuolo indagato per atto dovuto e verso l’archiviazione”. In questo modo, però, il Fatto quotidiano non avrebbe alimentato gli istinti forcaioli dell’opinione pubblica e gettato fango sull’immagine del commissario all’emergenza sanitaria, nominato dall’odiatissimo premier Draghi. Anzi, visto che per il giornale diretto da Travaglio il fango nel ventilatore non è mai abbastanza, ecco l’accostamento del nome di Figliuolo ad “abiti sartoriali in regalo”. Il riferimento, anche in questo caso del tutto improprio, è al contenuto delle accuse mosse nei confronti di Vecciarelli e su cui stanno indagando i pm. Il capo di Stato maggiore è infatti accusato di corruzione per l’esercizio della funzione: secondo le accuse, si sarebbe messo a disposizione di una società fornitrice di mascherine e macchinari per la produzione e il confezionamento di mascherine. In cambio Vecciarelli avrebbe ricevuto per sé e i suoi familiari utilità consistite “nella donazione di generi alimentari e di 58 capi di abbigliamento”. E nel capo di imputazione si citano: “Abiti sartoriali, cappotti, vestito da sposa, giacche, camicie e divise”.

Generale Figliuolo "indagato". L'agguato del Fatto, ma la storia è diversa: l'ultima vergogna di Travaglio. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 27 ottobre 2021. Nel giornalismo italiano capita anche questo: una richiesta di archiviazione diventa, come per prodigio, un capo d'imputazione da prima pagina. È quanto accaduto al generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario all'emergenza sanitaria Covid 19. «Abiti sartoriali in regalo: indagato anche Figliuolo», il titolo dell'articolo pubblicato in apertura di prima pagina ieri sul Fatto quotidiano. Un titolo che non lascia spazio a molti dubbi interpretativi: Figliuolo risulterebbe coinvolto nell'inchiesta "Minerva" condotta dalla Squadra mobile di Roma. Una inchiesta alquanto controversa per tangenti e corruzione nelle forniture all'Agenzia industrie e difesa (Aid) che ha coinvolto anche il capo di Stato maggiore della Difesa, il generale dell'Aeronautica Enzo Vecciarelli. Cosa avrebbe fatto di così grave Figliuolo per meritare le attenzioni del giornale diretto da Marco Travaglio? Nulla. Dopo aver letto il titolo, infatti, si scopre che l'iscrizione di Figliuolo nel registro degli indagati è stato un atto dovuto, a sua tutela, da parte dei pm. Il generale non era mai finito direttamente nelle intercettazioni, ma sarebbero stati altri a far riferimento a lui con messaggi e chat.

FINE DELLA STORIA

L'indagine, condotta inizialmente dal pm Antonio Clemente e ora assegnata al collega Carlo Villani del dipartimento reati contro la Pa della Procura di Roma diretto dall'aggiunto Paolo Ielo, riguarda per altro un periodo precedente alla nomina di Figliuolo da parte del governo Draghi. La chicca, però, arriva verso fine del pezzo: «Nelle prossime settimane, la Procura di Roma depositerà una richiesta di archiviazione». Fine della storia. Per non farsi mancare nulla, però, il nome di Figliuolo nell'articolo era stato accostato agli «abiti sartoriali in regalo». Il riferimento era al contenuto delle contestazioni mosse a Vecciarelli, accusato di corruzione per l'esercizio della funzione: secondo i magistrati romani si sarebbe messo a disposizione di alcune società, la Technical Tex srl e Technical trade srl di Eugenio Guzzi e Rosa Lovero, fornitrici di mascherine e macchinari per la loro produzione e confezionamento. In cambio Vecciarelli avrebbe ricevuto per sé e i suoi familiari utilità consistite «nella donazione di generi alimentari e di 58 capi di abbigliamento». Se l'articolo del Fatto serve, allora, solo a mettere in cattiva luce il "famigerato" Figliuolo che ha osato prendere il posto di Domenico Arcuri, il manager favorito da Travaglio, come mai la notizia dell'indagine nei confronti di Vecciarelli arriva proprio ora, quando il generale sta lasciando l'incarico di capo di Stato maggiore della Difesa? Il passaggio di consegne alla presenza di Sergio Mattarella è in programma il prossimo 5 novembre. Sul punto è necessario fare un piccolo passo indietro. Il mese scorso il governo aveva nominato Giuseppe Cavo Dragone nuovo capo di Stato Maggiore della Difesa al posto di Vecciarelli. Il generale Luca Goretti era diventato capo di Stato maggiore dell'Aeronautica prendendo il posto di Alberto Rosso, fedelissimo di Vecciarelli. Questo valzer di nomine ai vertici delle Forze armate era propedeutico ad un altro valzer, non meno importante, di nomine governative: quello dei futuri consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti.

POLPETTA AVVELENATA

Vecciarelli sarebbe stato in predicato sia per Palazzo Spada che per diventare giudice contabile. Per essere nominato nella quota di posti spettante al governo per le due giurisdizioni, ovviamente, bisogna essere in eccellenti rapporti con i ministri di riferimento e con il mondo della politica in generale. Vecciarelli in passato si era scontrato con il ministro della Difesa Lorenzo Guerini (Pd) ma aveva sempre avuto una sponda importante nel suo predecessore: il generale Claudio Graziano, ora comandante del Comitato militare dell'Unione europea e futuro consigliere militare del prossimo presidente della Repubblica al posto del generale Rolando Mosca Moschini. La notizia dell'indagine per corruzione nei suoi confronti ha, di fatto, azzerato ogni possibile velleità di essere nominato dal governo consigliere di Stato o della Corte dei Conti e rimanere in servizio per almeno altri cinque anni. Una classica polpetta avvelenata da parte di chi non ha mai visto di buon occhio l'attivismo di Vecciarelli. «È un linciaggio che a questo punto può colpire chiunque si scambia una panettone e spunta in regalo a Natale», le parole del senatore Carlo Giovanardi riguardo Vecciarelli che, per la cronaca, ha chiarito con i pm la provenienza degli oggetti di abbigliamento oggetto di contestazione.  

Generale Figliuolo indagato? Pietro Senaldi: "Giustizia marcia", svelata la vergogna dietro a cui si nascondono i magistrati. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 ottobre 2021. Ci mancava solo l'inchiesta sul generale Figliuolo a far capire quanto la nostra giustizia sia mediamente più marcia di qualsiasi indagato. Nel momento decisivo, due settimane dopo l'esordio del Green pass obbligatorio in ufficio e alla vigilia dell'operazione di massa per vaccinare tutti con la terza dose, un'istruttoria del piffero macchia la divisa del commissario straordinario, l'uomo che ci ha fatto dimenticare il suo predecessore, Arcuri, e ha messo l'Italia in sicurezza. Ce ne informa il Fatto Quotidiano, storica gazzetta delle procure della Penisola. L'Alpino è finito nell'inchiesta dei pm romani sul capo di Stato Maggiore della Difesa, Enzo Vecciarelli, in pensione tra una settimana, sospettato di aver ricevuto in regalo generi alimentari e vestiti da un'impresa produttrice di mascherine, alle quali il graduato avrebbe agevolato l'ingresso nel mercato. Figliuolo nella vicenda non c'entra nulla, ai tempi non era neppure commissario al Covid, è scivolato nel tritacarne solo perché in un'intercettazione si parla di lui. Per questo è nel registro degli indagati, anche se i pm sono al punto convinti della sua innocenza che il Fatto anticipa la sua prossima archiviazione. Intanto però non risparmia al generale il titolo «Abiti sartoriali in regalo: indagato anche Figliuolo», sebbene poi si precisi nel pezzo che i vestiti erano per Vecciarelli. E allora che senso ha sputt***rlo? Semplice, così il giornale vedovo di Conte getta discredito sulla vaccinazione e sul premier Draghi.

FASCICOLI NATI MORTI

Il Fatto si firma pure la giustificazione, spiegando beffardo che l'iscrizione nel registro degli indagati è a difesa del commissario. Come se, quando uno non è colpevole, il modo migliore per tutelarlo non fosse invece evitare direttamente di indagarlo. Ma qui sta la nota dolente. I pm si nascondono dietro l'obbligatorietà dell'azione penale per indagare chi vogliono, anche se innocente, quando sarebbe molto meglio che risparmiassero il loro tempo e il nostro denaro e non aprissero fascicoli che nascono morti e hanno la sola funzione di essere buttati in pasto all'opinione pubblica, screditare chi è coinvolto e talvolta procurare danni allo Stato, oltre che pubblicità ai pm. Questo sarebbe stato possibile fino a poco tempo fa, poi sono scoppiati lo scandalo Palamara e la guerra civile tra toghe. La corporazione, indebolita, si dimena in lotte di potere intestine, avendo perso il perno intorno al quale ruotava: credibilità e autorevolezza. Oggi, un pm che decidesse di non aprire un fascicolo contro Figliuolo, pur sapendolo innocente, rischierebbe di essere denunciato da un suo collega rivale. È successo a Milano, con il caso della lobby Ungheria, dove Greco, procuratore fino a poco fa intoccabile, deve rispondere penalmente di non aver dato ascolto alle denunce dell'avvocato Amara, pregiudicato millantatore avvezzo a inventarsi scandali a consumo mediatico. È proprio vero che in Italia uno comincia ad avere guai con la giustizia quando inizia a fare le cose giuste.  

Danilo Toninelli, lo sfregio al generale Figliuolo dopo il vaccino: la bassezza per cui il grillino viene massacrato. Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Danilo Toninelli si vaccina con polemica. Il fu ministro delle Infrastrutture del governo gialloverde ha approfittato del giorno della sua vaccinazione per puntare il dito contro il generale Francesco Figliuolo. Il motivo? Ancora una volta AstraZeneca e lo stop agli under 60 in seguito al decesso di Camilla Canepa. "Oggi - scrive il Cinque Stelle in calce a una foto che lo ritrae al centro vaccinale - finalmente mi sono vaccinato (con Pfizer). Lasciatemi dire però una cosa: se il caos di questi giorni con AstraZeneca fosse avvenuto con Conte e Arcuri, apriti cielo. Massacro a reti unificate. Invece abbiamo il pluridecorato generale sottoposto di Draghi e quindi nulla. Va tutto bene". Peccato però che a loro volta gli utenti del web si siano scagliati contro il senatore. Addirittura il Corriere della Sera ha contato ben 2600 commenti tutt’altro che amichevoli. "Ma veramente stai ancora confrontando il Generale C.A. Figliuolo con Arcuri.... dai non renderti ridicolo più di quanto già sei!!!", scrive uno sotto alla foto mentre un altro non attende a fargli eco: "Con Giuseppe Conte e Domenico Arcuri non sarebbe potuto succedere, sarebbero stati ancora nei campi a cercare Primule". Non essendo nuovo alle gaffe, c'è anche chi gli ricorda: "Che peccato, un’altra occasione per stare zitto è stata sprecata". E ancora: "La mediocrità cui ci avete abituati è stata scalzata dal duo Draghi-Figliuolo. Non possiamo che gioirne". Insomma, si potrebbe andare avanti ad oltranza. C’è poi chi domanda a Toninelli se Matteo Salvini si sia vaccinato e se sia addirittura un temibile no-vax. Una domanda a cui i grillini meno smemorati rispondono: "Beh, anche il Movimento 5s, lo era prima di arrivare al governo. Mi ricordo di vari post, in cui molti di loro, erano, se non addirittura contrari, per il rispetto della libertà di scelta".

Da "il Giornale" il 3 marzo 2021. Dopo il giallo sul suo presunto profilo Facebook, da ieri mattina è scomparso dalle pagine del social account attribuito al neocommissario all' emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo. La pagina - che era visibile fino a lunedì sera e ora risulta «irraggiungibile», cioè rimossa - era diventata bersaglio dell' ironia della rete, poiché presentava elementi tipici delle pagine fake: nella parte alta un fotomontaggio, con il generale in primo piano e un cerchio con una donna, una rosa rossa e alcuni cuoricini rossi. Tutti elementi poco consoni a un alto ufficiale. Tra i pochi dati, alcune inesattezze tra cui quella relativa alla data di nascita (15 aprile), mentre il generale è nato l' 11 luglio 1961. Poi una data fake che parla di un matrimonio celebrato l' 8 aprile del 2018. Secondo gli esperti, il profilo fake Figliuolo avrebbe tutte le caratteristiche della truffa online e sarebbe opera di «scammer» ovvero truffatori/truffatrici che operano sui social. Visti i commenti (sul profilo comparivano solo interazioni con donne sudamericane), si può ipotizzare una truffa «amorosa»: il nome e le foto del generale sono state utilizzate in modo fraudolento per accalappiare le utenti social particolarmente sprovvedute.

Generale Francesco Figliuolo, chi è e da dove arriva? Ciò che non sapete: la clamorosa sorpresa nel suo curriculum. Libero Quotidiano il 29 giugno 2021. È l'uomo del momento, il generale Francesco Paolo Figliuolo, il commissario all'emergenza coronavirus che ha preso in mano la situazione, che ha corretto le storture di Domenico Arcuri e ha dato lo slancio definitivo alla campagna vaccinale. Ammirato ma anche criticato. Critiche spesso faziose. Si pensi alla pelosissima campagna condotta da Marco Travaglio ogni santo giorno sul suo Fatto Quotidiano, house-organ di Giuseppe Conte, quel Conte che con la sua caduta ha, di fatto, spianato la strada proprio al generale. O si pensi anche all'affondo di Vincenzo De Luca, il governatore della Campania che ieri, lunedì 28 giugno, si è spinto a chiedere le dimissioni del "turista svedese" Figliuolo. La ragione? Il caos comunicativo su AstraZeneca. Quel caos per il quale il generale ci ha messo la faccia. In studio da Mara Venier a Domenica In, la scorsa domenica, ha ammesso che è stata fatta confusione, che si sarebbe potuto fare di meglio. Anche se la competenza circa la comunicazione su AZ non è certo sua, ma di chi la faccia sulla questione non la ha messa: per esempio Cts e Roberto Speranza, giusto per citare due esempi dal mazzo. Insomma, un comportamento meritorio, quello di Figliuolo, che però gli è valso le accuse di De Luca. Un totale cortocircuito.

Ma chi è, Francesco Paolo Figliuolo? Da dove arriva? Delle risposte precise e circostanziate, almeno per quel che concerne la sua carriera da graduato, arrivano dal curriculum riportato sul sito dell'Esercito italiano. Un curriculum che qui sotto vi riportiamo in versione integrale: 

Il Generale Francesco Paolo FIGLIUOLO ha maturato esperienze e ricoperto incarichi molteplici e diversificati, in ambito Forza Armata Esercito, interforze e internazionale.

Ufficiale di artiglieria da montagna, svolge le primissime esperienze di comando presso il Gruppo Artiglieria “AOSTA” in Saluzzo (CN), per divenirne Comandante, nella sede di Fossano (CN), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo, nell’enclave serba di Goradzevac (Pèc).

Comandante del I Reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di Vice Comandante della Brigata “TAURINENSE” per assumerne, senza soluzione di continuità, il Comando sino all’ottobre 2011.

Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli Ufficiali dell’Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito NATO, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e Capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016.

Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, in un momento di fondamentale trasformazione delle Forze Armate in chiave interforze. Dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito.

Di rilievo l’esperienza internazionale quale Comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell’ambito dell’operazione ISAF (ottobre 2004 - febbraio 2005) e quella diciannovesimo Comandante delle Forze NATO in Kosovo (settembre 2014 – agosto 2015), nella stessa area di crisi balcanica che lo aveva già visto impegnato agli inizi degli anni 2000, quale Comandante della Task Force “Istrice” in Goradzevac e, precedentemente, nel ’99, nell’ambito dell’organizzazione logistica del Comando NATO-SFOR in Sarajevo.

Nato e cresciuto a Potenza prima di entrare in Accademia Militare, il Generale FIGLIUOLO vive a Torino con la moglie Enza ed ha due figli: Salvatore e Federico. Appassionato di lettura e sport, pratica nuoto e sci di cui è istruttore militare.

FORMAZIONE E TITOLI DI STUDIO

Nella sua carriera, il Generale FIGLIUOLO ha conseguito i seguenti titoli di studio:

− Diploma di laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Salerno;

− Diploma di laurea in Scienze Strategiche e relativo Master di 2° livello presso l’Università di Torino;

− Diploma di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste.

Il Generale FIGLIUOLO ha frequentato:

− il 119° Corso Superiore di SM, il 3° Corso Superiore di SM Interforze ed il 92° Senior Course presso il NATO Defence College in Roma;

− il corso di Alta Formazione “Ingenio vi virtute” presso l’Università degli studi Link Campus in Roma.

E’ altresì autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa (Informazioni della Difesa dello Stato Maggiore Difesa e Rivista Militare dell’Esercito Italiano).

ONORIFICENZE

Il Generale FIGLIUOLO è stato insignito di numerose onorificenze. Tra le più significative:

− Decorazione di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia;

− Croce d’Oro ed una Croce d’Argento al Merito dell’Esercito;

− Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana;

− NATO Meritorius Service Medal;

− Croce d’Oro d’Onore della Bundeswehr;

− Legion of Merit degli Stati Uniti d’America.

Generale Figliuolo, alpino testardo. Renato Farina: "Perché lui riesce dove Arcuri ha fallito". Renato Farina su Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Com'è possibile che quest'uomo, il generale degli Alpini, Paolo Francesco Figliuolo, 59 anni, fino a centodieci giorni fa sconosciuto a tutti, anche a Mario Draghi che l'ha scelto, sia diventato il militare più popolare e amato d'Italia dai tempi di Armando Diaz? Noi una risposta a pelle la diamo. Somiglia a quella che danno i suoi soldati. Sotto la divisa è un uomo, ma la sua divisa è perfetta per quest' uo- mo. E pure per l'Italia in quest' epoca sto- rica. Se ci fossero scrittori capaci dei toni epici dei giornalisti di guerre mortali - tipo Vasilij Grossman e Il'ja Eremburg a Stalingrado emergerebbe come l'eroe della semplicità, poche parole trascurabili, molta presenza nella nostra mente, una specie di inviato della Provvidenza. In questi mesi difficili ha incarnato non solo la propensione degli alpini a fare il bene, ma ci è riuscito pure. L'impossibile campagna della vaccinazione in ambienti riottosi, con dubbi su dubbi, scienziati che si sbudellano, gli sta riuscendo, spes contra spem, che tradurremmo così dal latino: nonostante Speranza. Nelle stanze dagli alti soffitti affrescati di Palazzo Chigi e di ambienti consimili, si condivide la percezione popolare, ma si prova a spiegare l'essenza della sua qualità di comandante: la capacità di semplificare le questioni difficili non con le parole ma con l'azione, ordini sul tamburo, pochi comandi secchi. Non un teorico ma un pratico. Un Giovanni delle Bande Nere non un Machiavelli. E Dio sa se non ci fosse bisogno di uno così. C'è una pagina di Leonardo Sciascia che spiega bene la questione: «Nella realtà i generali ci vogliono, anche nelle guerre che sembra facile poter vincere. Generali che abbiano intuito e pratica, perché studio e teoria non bastano: come ci dà esempio Matteo Bandello, quando racconta di una manovra che Machiavelli voleva far fare a una truppa in piazza d'arme; e nacque tale confusione che bisognò Giovanni dalle Bande Nere desse un paio di secchi ordini perché si effettuasse la manovra voluta da Machiavelli e si potesse andare al rancio». 

PER LA PATRIA - L'avventura del generale degli alpini Paolo Francesco Figliuolo nella sua prima campagna d'Italia da comandante supremo ha esattamente questi connotati. Cominciò alla fine del febbraio scorso. Rispose alla chiamata di Mario Draghi con il signorsì tipico dei militari come piace immaginarli a noi del popolo: «Lavorerò per la nostra patria e per i nostri connazionali». Un tocco di retorica, non a petto in fuori, ma già essendo balza to a cavallo. Prima di patria ha detto: lavorerò. In fondo è il primo articolo della Costituzione. La sorte del generale a tre stelle fu segnata a fine febbraio. Mario Draghi voleva sapere e capire tre cose dal Maresciallo in capo dell'esercito contro il Covid: a che punto precisamente fosse la guerra contro il nemico assassino; se fosse condotta con la dovuta cattiveria; se la battaglia delle vaccinazioni stesse piegando la Bestia. Il Commissario straordinario Domenico Ar curi, con la consueta bonomia, e l'aria di chi da solo doveva affrontare il Mostro, dispiegò sul tavolo quello che credeva il suo capolavoro: il piano delle primule, i padiglioni elegantissimi disegnati dall'archistar del grattacielo detto giardino verticale, Stefano Boeri. Stiamo morendo e questo qui propone la Bella Epoque. Osiamo dire interpretando quel che Draghi non disse: cazzarola! Salutò Arcuri e pose una questione urgente al suo staff: ditemi chi in Italia è il migliore nel settore della logistica che lo prendo. La risposta fu unanime: è Figliuolo, ma c'è un problema, è un generale. Meglio, se è una guerra ci vuole uno che se ne intenda. Di teorici bastano e avanzano quelli che ronzano con lelo ro ricette mirabolanti ma non sanno spostare una scrivania da qui a là. Uno che come Napoleone sa che non basta avere in mano il piano perfetto, dove la fanteria attacca sul fianco sinistro e la cavalleria a sorpresa esce dalla boscaglia; ma che sappia spostare i carri, trovare il fieno per i cavalli, muovere l'intendenza. Ecco cosa voleva dire la sua richiesta. 

POCHE STORIE - Cos'è la logistica? Procurare ciò che occorre, a chi occorre, quando occorre. Servono le vaccinazioni? Farle. Materiale, luogo, tempo, modi, risultati da segnare su un foglietto. Tutto lì. Poche storie. Siccome è semplice, in Italia è impossibile. Perché Figliuolo? A proposito di Co vid, senza che nessuno lo abbia mai sentito nominare, era già stato uno dei protagonisti silenziosi di alcune delle battaglie vinte e di quelle dove amaramente avevamo dovuto raccoglierei caduti sul campo sin dal febbraio del 2020. Aveva risolto lui, in quattro e quattr' otto, il complicato trasferimento in Italia dei nostri concittadini imbottigliati a Wuhan portandolo a termine in sicurezza; era riuscito a trasformare l'ospedale militare del Celio in un avamposto scientifico contro il Covid; allestito una ventina di infermerie da campo. Soprattutto, e scusate l'emozione, è stato lui ad aver preso su di sé e sui suoi soldati, amaramente ma con il decoro del lutto e della mestizia dell'onore militare, il trasferimento delle bare da Bergamo ai luoghi deputati alla cremazione. Da quel momento del 1° di marzo ogni sera ha fatto sapere a Draghi e a Speranza i numeri, e dove trovava muri da buttar giù o da aggirare, senza attendersi ordini al riguardo, semmai lo sostituissero. Prima dell'aritmetica dei contagiati, e dei morti, la cifra dei vaccinati. Tra Draghi e Figliuolo l'intesa è stata perciò immediata. La scelta della priorità su a chi toccasse il siero, spettava alla politica, le indicazioni sulle categorie da sottoporre per prime o per seconde all'inoculazione pure, a lui toccava muovere i suoi anfibi nel fango e nella polvere bruciando i veti locali, adoperando uno strumento docile qual è un esercito che ha il morale alto perché il comandante è bravo e lo vedi che sta lì in piedi, non si chiude in ufficio a telefonare a strani mediatori di mascherine scassate, ma sta un giorno a nord, e lo stesso giorno a sud, davanti ai padiglioni, nelle fabbriche trasformate in dispensari pinti e lindi della salute, senza paura di esporsi ai colpi, si arrampica sulle difficoltà com'è buona pratica degli alpini.  

ANCORA IN GUERRA - Insomma a differenza dello stato maggiore del precedente governo, la chiarezza, la ponderatezza, persino il buon umore e il bicchiere di vino accompagnato da un salutare sigaro serale. Con la precisa distinzione degli ambiti tra politica che espone al popolo il disegno e i risultati, e la "logistica", chiamiamola così, che avanza sul terreno. L'esatto opposto dei metodi di Arcuri, che era una sola cosa con Conte e Speranza, in un impasto tragicamente confusionario di politica - scienza - mascherine - primule - soldi buttati dalla finestra, ma poi raccolte da manine abbastanza avide. La guerra non è ancora finita, per carità. Ma salvo colpi di coda della variabile Delta, l'immunità di gregge dovrebbe essere raggiunta a fine settembre, e le dosi di vaccino per raggiungere il risultato ci sono. E c'è chi spiritosamente gli toccherà davvero la storte di Armando Diaz. Definire il predecessore di Figliuolo, il gran commissario Domenico Ar curi come un general Cadorna nella sua Caporetto pare ingeneroso (verso quale dei due non lo diciamo), ma di certo ha raddrizzato le nostre sorti, e bisognerebbe pensare a un titolo per lui del tipo di quello che il Re assegnò all'Armando dopo Vittorio Veneto: Duca della Vittoria. Qualche simpatico burlone ha proposto, e sui social ci sono manipoli di combattenti alla tastiera che si stanno spendendo allo scopo, di fare di Figliuolo il sindaco di Roma. Ma per Roma non ci vuole un generale, servirebbe Nerone.

Michela Murgia a DiMartedì: "Il generale Figliuolo? In divisa girano solo i dittatori, quando vedo le uniformi mi spavento". Libero Quotidiano il 07 aprile 2021. Il peggio di Michela Murgia va in scena a DiMartedì, il programma condotto da Giovanni Floris su La7. La puntata è quella di martedì 6 aprile in onda su La7. Si parla, nel dettaglio, del generale Paolo Figliuolo, nuovo commissario all'emergenza coronavirus per il piano vaccinale. Uomo deciso e decisionista che ci ha abituato a mostrarsi in divisa. Circostanza che alla scrittrice comunista che mostra di disprezzare la forze dell'ordine sembra non piacere. Floris, prima di interpellarla, le ricorda alcune delle frasi pronunciate da Figliuolo: "Daremo fuoco a tutte le polveri"; "Nuovo fiato alle trombe"; "Svolta o perderemo tutto"; "Chiuderemo la partita". Dunque il conduttore chiede alla Murgia: "A questo linguaggio corrisponde un'efficacia della campagna vaccinale dal suo punto di vista?". Ed ecco che basta questa domanda a scatenare la vergogna della scrittrice: "Probabilmente da un uomo che viene da un contesto militare non ci si può che aspettare un linguaggio di guerra. Mi domando se questo linguaggio sia quello giusto da utilizzare con chi non è militare, ovvero tutto il resto del Paese. A me personalmente spaventa avere un commissario che gira con la divisa, non ho mai subito il fascino della divisa". Insomma, la Murgia "spaventata" da Figliuolo perché indossa una uniforme. "Però se funziona...", fa notare Giovanni Floris. Niente da fare. "Ma su chi - replica a brutto muso la Murgia -? Questo fascino per l'uomo forte... Gli unici uomini che ho visto in divisa davanti alle telecamere che non fossero poliziotti che stavano dichiarando un arresto importante sono i dittatori negli altri Paesi - sparacchia all'apice del delirio -. Quando vedo un uomo in divisa mi spavento sempre, non mi sento più al sicuro. Non sono sicura che la categoria bellica sia una categoria con cui si può responsabilizzare un Paese: ci spaventa di più", conclude la Murgia in una intemerata vergognosa. Insomma, lei quando vede un uomo in divisa "si spaventa sempre". E con le forze dell'ordine non si sente più al sicuro. Dunque anche con Figliuolo. Robaccia che non ha bisogno di ulteriori commenti.

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 9 aprile 2021. Michela Murgia, la recidiva. Ci era già cascata, nel reato di lesa italianità, con l'invenzione del «fascistometro», ovvero la misurazione del fascismo che è in noi. Era il 2018. In piena marea di sovranismo, scrisse un pamphlet per Einaudi, «Istruzioni per diventare fascisti», e di colpo divenne una nemica del popolo (di destra). Ecco, la scrittrice Murgia ci è ricascata. Due sere fa, in tv, ospite di Giovanni Floris, parlando del generale Paolo Figliuolo, il commissario straordinario del piano vaccinale, ha detto che «gli unici uomini che ho visto in divisa davanti alle telecamere che non fossero poliziotti che stavano dichiarando un arresto importante, sono i dittatori negli altri Paesi». Apriti cielo.

Murgia, era consapevole che con quelle parole a «Di Martedì» stava entrando in rotta di collisione con un mito nazionale?

«Chiariamo: non volevo assolutamente essere provocatoria. Floris mi ha chiesto di interpretare semiologicamente le frasi del generale. E io ho semplicemente detto che era un linguaggio da guerra. Che quel linguaggio non mi rasserena. E che affidare le vaccinazioni a un generale che veste la divisa è un forte atto simbolico».

Non trova però che la scelta di un generale dell'esercito, in fondo, sia solo l'ultimo atto di un anno tutto all'insegna di linguaggi bellici? Sono mesi che si parla di guerra al virus.

«Vero. E so bene che questi termini bellicistici vengono usati spesso in medicina.

Chiunque abbia avuto a che fare con un cancro, ha sentito continuamente dire che "bisogna battere il male", che l' organismo "vincerà", che "si sta combattendo". Ebbene, guardi, tutta questa terminologia che ti sbatte in trincea, non aiuta. No, non ti rasserena affatto».

Ma è quel che sta accadendo con la pandemia. Il clima è di guerra guerreggiata.

«E ce ne siamo accorti. Non mi dimentico che un anno fa, quando eravamo tutti chiusi in casa per il lockdown, inseguivano i podisti con i droni. Si è visto un elicottero correre dietro un tizio sulla spiaggia. Nelle strade c'erano solo divise. E si è arrivati alle pattuglie di militari che controllavano le buste della spesa, per vedere se c'erano fondati motivi per uscire di casa. Siamo stati tutti militarizzati con una invasione della nostra privacy».

Va bene, era la prima volta che si dichiarava un lockdown. Si capisce che ci fossero i controlli. Ma lei ce l'ha con i soldati? Qui è un fiorire di critiche, da Matteo Salvini a Ignazio La Russa, a Carlo Calenda. Persino la nuova sottosegretaria alla Difesa, Stefania Pucciarelli, M5S, dice che lei ha offeso i nostri soldati.

«No, io rispetto i soldati. Danno lustro all'Italia nelle missioni all' estero e un contributo essenziale nelle emergenze di protezione civile. Ma io ho sollevato una questione che mi pare persino ovvia e mi stupisco dello stupore. Mi sorprende di essere sola io a dirlo: se uno Stato si affida ai militari per delle funzioni civili, significa che dichiara fallimento. Mettere lì un generale in divisa, vuol dire che Draghi ci manda un messaggio: visto che la situazione è caotica, vi metto il massimo del disciplinato e del disciplinante. Un generale. E quando sento tanti che si dicono più rassicurati da un generale, vuol dire che hanno talmente poca fiducia nella politica, che per loro chiunque è meglio, anche un militare. Non mi meraviglia però se quelli di destra mi strumentalizzano. Salvini, poi, si sa che ama le divise. Le metteva anche quando non poteva».

Dovrebbe aver fatto il callo alla polemica.

«Invece no, sono incazzatissima. Io dico cose ovvie, e subito la destra insorge chiedendo di far chiudere la bocca a una scrittrice che fa il suo lavoro, cioè interpreta i linguaggi. Non mi pare normale, poi, che mi rispondano tre segretari di partito e una sottosegretaria».

Intanto è diventata il bersaglio di ogni contumelia. Di giornaliste note come Guia Soncini e Rita Dalla Chiesa, o di folle sui social.

«Io penso di aver detto cose perfino ovvie. Non si affida a un generale la gestione di cose civili, quali le vaccinazioni. Non mi risulta che sia successo in nessun altro Paese d'Europa o forse del mondo. Per questo ho usato il riferimento alla dittatura, ovvero quando i militari subentrano alla politica. Ripeto: non è una guerra e i generali lasciamoli in caserma a fare quel che devono fare, la Difesa. Guardi, se avessimo per premier un medico, e quello si presentasse con il camice bianco, direi lo stesso. È una forzatura del sintagma. Ma mentre lo dico, so già che i leghisti non capiranno».

Perché Michela Murgia ha ragione sul generale Figliuolo. Luca Bottura su L'Espresso l'8 aprile 2021. Nessuno disconosce il ruolo decisivo dei nostri militari. Ma per distribuire vaccini non serve la divisa. Viviamo in un mondo curioso nel quale i social da ore lapidano un critico televisivo per aver criticato un programma che peraltro a me è piaciuto moltissimo. Cioè per aver fatto il proprio lavoro. E viviamo nello stesso contesto per cui Michela Murgia deve sopportare una cremolata di escrementi virtuali per aver detto in tv che il generale Figliuolo non la rassicura e che (sunteggio, male) meno divise circolano in tempo di pace, meglio è. Sono d’accordo con Murgia. Mi correggo: “sono d’accordo” non rende l’idea. Trovo che abbia ragionissima. Ritengo che l’esercito a commissariare lo Stato, beh, meglio di no. Ma se proprio si deve, sarebbe meglio avere l’accortezza di farlo in borghese. Perché Figliuolo non ha dichiarato guerra alla Kamchatka: sta distribuendo vaccini. E siccome svolge un compito da civile, potrebbe vestirsi di conseguenza. Dice: ma allora ce l’hai coi militari. Dice: ma allora ha ragione la Meloni che lamenta l’odio contro le forze armate. Dice: comunista! E dice male. Nessuno disconosce il ruolo decisivo dei nostri militari. Per il lustro che ci procurano all’Estero e per le volte in cui, sempre supplendo in modo emergenziale alle carenze della Repubblica, hanno svolto compiti decisivi nel campo della protezione civile e (questione già meno commestibile) dell’ordine pubblico. Ma trattasi appunto di una forzatura del sintagma democratico, secondo cui non solo le stellette devono rimanere in un contesto preciso, definito dall’articolo 11 della nostra Costituzione, ma soprattutto non dovrebbero esorbitare dai loro ambiti permeando l’ordinaria amministrazione. Specie perché di generali altrimenti vocati – Figliuolo è certamente persona buona e giusta – ne abbiamo visti un po’ troppi anche fuori dalle caserme, e nemmeno in tempi così lontani. Siamo una democrazia giovane. Ciò non significa ovviamente che Figliuolo messo a distribuire punture sia un attentato alla democrazia. Ma che possa farlo senza il sottofondo della Pearl Harbour informativa, beh, non sarebbe mica male. Cioè: nulla contro la cavalcata delle Valchirie, ma sarebbe bene abbassarle un filo il volume. Specie perché manco è sicuro che Figliuolo lo sia, un militare. Numeri alla mano, parrebbe più Arcuri che, per non farsi riconoscere, s’è infilato un costume carnascialesco.

Chiara Giannini per “il Giornale” il 9 aprile 2021. Le parole della scrittrice Michela Murgia, spaventata «dall'avere un commissario che gira con la divisa» come il generale Francesco Paolo Figliuolo, hanno fatto adirare i militari. È così partito un tam tam sui social, una protesta pacifica dei rappresentanti delle Forze armate che hanno deciso di ribellarsi a chi non porta rispetto per quell'uniforme per cui sono morte migliaia di persone. Tantissimi militari hanno così postato su Facebook, Instagram e Twitter la loro foto in divisa. «A supporto del generale Figliuolo - scrivono - e scioccato dalle insulse parole di una donna ideologizzata, inconsapevole e faziosa come la Murgia. Non è un problema di destra o sinistra, bensì di rispetto, ma soprattutto di intelligenza che manca completamente. Ecco una foto, dei miei anni di onorato servizio». E ancora: «Inondiamo i social. Chi ha paura delle divise ha paura della legge e non è degno di chiamarsi italiano». Pensare che esiste una direttiva delle Forze armate che impone ai militari di non pubblicare foto in divisa. «Ma per tutelare il nostro onore - scrive qualcuno - questo e altro. È un affronto quello della scrittrice, che evidentemente non capisce i sacrifici di chi ogni giorno si impegna per il proprio Paese». Così rappresentanti di Marina, Esercito, Aeronautica, Carabinieri, ma anche Polizia e Guardia di Finanza hanno pubblicato la loro protesta silenziosa e composta, volta a raccontare quell'orgoglio che appartiene a chi ama la propria Patria. «Gentile signora Murgia - scrive il rappresentante del comparto Sicurezza e Difesa Marco Cicala - abbiamo appreso, non senza stupore, del fatto che lei si spaventi di avere un commissario in divisa come il generale Figliuolo. Tale affermazione è stata immediatamente sostenuta da chi, come lei, purtroppo non conosce cosa sia e cosa rappresenti l'uniforme militare. Bene, lei non deve temere mai questo abito, perché chi lo indossa non costituisce in alcun modo un pericolo, ma identifica al contrario chi ha giurato di servire la nostra Nazione e di difenderla in ogni circostanza, anche pagando il prezzo più alto». E ancora: «L'uniforme identifica indissolubilmente chi la indossa con l'istituzione a cui appartiene, rendendo evidenti i segni distintivi dello Stato. Mi sembra che la dedizione al servizio e al bene della nostra Patria da parte delle Forze armate sia sotto agli occhi di tutti, oggi come non mai, tanto da rendere inutile sottolineare - prosegue - lo sforzo da tempo in atto in questo doloroso periodo per la popolazione italiana». Per concludere: «Allora signora Murgia, invece che cercare followers per le sue attività commerciali, con frasi a effetto, rifletta sulle sue affermazioni e contribuisca a rinsaldare lo spirito di comune afflato che risulta indispensabile in un così delicato passaggio per la vita della nostra Nazione». A fargli eco il collega Antonello Ciavarelli, delegato Cocer Marina militare - Guardia costiera: «Alla scrittrice in questione probabilmente sfugge che le divise rappresentano la nostra Italia, che è carica di 2.700 anni di storia fatta di libertà, principi, cultura e rispetto della dignità umana. Per questo noi ci sentiamo orgogliosi di indossare la divisa, perché orgogliosi della nostra cultura, della nostra identità, delle nostre origini e della nostra Costituzione». Ieri anche il senatore Manuel Vescovi (Lega), parlando in aula, ha ricordato il sacrificio di due agenti caduti in servizio e ha chiarito: «Io quando vedo un uomo o una donna in divisa non mi spavento».

Murgia “affondata”. Capitano Ultimo e il generale Tricarico: “Le divise ricordano il sangue versato”. Gabriele Alberti venerdì 9 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Le “spiegazioni” Di Michela Murgia alla “Stampa” sulla sua avversione alle divise (“Fallimento della politica”) stanno peggiorando la sua situazione. Stritolata letteralmente, le sue parole non convincono, irritano. Parte in tromba la senatrice Roberta Pinotti, presidente della commissione Difesa. A proposito della divisa che tanto suscita risibile paura: ” Il generale Figliuolo è stato nominato commissario straordinario per l’emergenza Covid19, ma permane nel suo incarico di comandante della logistica dell’Esercito. Continua dunque ad usare la divisa perché svolge questo compito in quanto esponente delle Forze Armate, così come la usano i membri della Protezione civile e della Croce Rossa. Dunque, la politica non ha abdicato, ma ha scelto”. Alla lezione della Pinotti alla Murgia segue una reprimenda durissima, quella del generale Leonardo Tricarico, ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica militare. Dà dell'”incolta” alla scrittrice:  “Preoccuparsi per una uniforme in plancia di comando fa parte dell’ incultura della difesa, purtroppo dominante in Italia”. Tra l’altro il generale dice di non conoscere Michela Murgia: “Conosco purtroppo il suo partito, di cui lei è certamente portabandiera ed emblema: una congenie di antropofagi e parricidi che non fanno che sbranarsi gli uni con gli altri appena qualcuno emerge. Oggi questo partito è quello che più di ogni altro porta la responsabilità della condizione disastrosa in cui versa il Paese”. “Ancora più offensivo -prosegue Tricarico parlando con l’Adnkronos-  il plauso che quel partito riserva alle divise quando le stesse si incontrano per strada a presidio della loro sicurezza; o impiegati in compiti impropri a puntello di problemi cronici che loro non riescono o non vogliono risolvere. Insomma, bene i militari in condizioni emergenziali, ma come carne da cannone e manovalanza a basso prezzo, non in posti di responsabilità altrimenti la Birmania è vicina!”. Rita Dalla Chiesa che è stata una delle prime ad intervenire nei giorni scorsi ritorna ancora sull’intervista della Murgia: “Raramente sono così dura, cerco di pesare ogni parola che dico. Su questa signora, ho perso la pazienza. Non posso accettare di pensare che uomini in divisa siano visti come persone che ‘fanno paura’; dei portatori di dittatura, mentre in realtà io li vedo – e non perché sia vissuta nelle caserme ma come cittadina – come persone pronte a proteggere il cittadino”. “Se lei non ha mai visto immagini di terremoti, alluvioni, immagini di persone arrampicate in montagna salvate dai vigili del fuoco o dei carabinieri; se lei non ha mai visto immagini di uomini in divisa che sono vicini alla popolazione è un problema suo. Probabilmente deve andare da un oculista – attacca Dalla Chiesa parlando con l’Adnkronos-. La conduttrice è netta sulla divisa portatrice di timore: “Non credo che condizioni nessuno se non sé stessa – scandisce -. La gente non è con lei. La gente ha capito benissimo che la figura del generale Figliuolo è una figura di alta istituzione. Ha paura chi ha qualcosa da nascondere“. In cauda venenum: “Di arroganza e di un certo tipo di frustrazione e di aggressività non abbiamo bisogno. Ci serve pacificazione, solidarietà”. E poi, “abbiamo accettato Arcuri e non accettiamo il generale Figliuolo? Ma stiamo scherzando?”... “Rispetto le idee di tutti, ma a me le divise ricordano il sangue versato per questo Paese. E dal sangue di quelle divise è nata questa Repubblica: questa Costituzione, che difenderemo fino alla fine”. A dirlo all’AdnKronos, replicando alle affermazioni di Michela Murgia, è il colonnello Sergio De Caprio, alias "Capitano Ultimo". La Murgia dovrebbe sotterrarsi…

Naja obbligatoria per la Murgia. Che sciocchezza la paura delle divise: gli eserciti servono. I radical chic se ne facciano una ragione. Giuseppe De Lorenzo - Ven, 09/04/2021 - su Il Giornale. Michele Murgia con la divisa, ce la vedete? Lei evidentemente no, e forse si metterebbe ad urlare solo guardandosi allo specchio. Non perché non le possa donare, di solito le divise fanno miracoli e creano un certo fascino. Ma perché se lei si “spaventa” ad “avere un commissario che gira con la divisa”, figuratevi cosa accadrebbe se si dovesse svegliare una mattina con la mimetica addosso. Un incubo. Le deliranti (si può dire?) frasi della scrittrice liberal-femminista sono ormai note ai più. Passino i ragionamenti sciocchi sul “linguaggio” militaresco che in pandemia un soldato non dovrebbe “utilizzare con chi non è militare” (dimenticando che gli stessi termini guerrafondai media e politici li usano da più di un anno). Passi il non subire "il fascino della divisa”, che mica è un dogma papale. Ma che la Murgia non si senta "più al sicuro" quando vede un uomo in mimetica è una sparata degna del peggior odio pacifista contro i militari. Che t’ha fatto Figliuolo per terrorizzarti così? S'è presentato col carro armato al Quirinale? Ha arrestato una suffragetta? Ha occupato la Rai, assediato i ministeri e dato il via a un golpe? No. Ha solo accettato l’invito di un banchiere (pure quello allora dovrebbe far paura, eh) di occuparsi di un piano logistico per la distribuzione dei vaccini. E lo ha fatto senza dismettere l'uniforme con cui ha prestato giuramento di fedeltà alla Nazione. Non mi pare un comportamento così pericoloso. Va bene, capisco tutto. Hanno le armi i militari? Sì. Fanno la guerra? Certo, ci mancherebbe. E questo ai pacifisti radical chic può dare fastidio. Ma pensare che possa esistere un mondo senza soldati è un’utopia favolesca che si può raccontare nei centri sociali tra una canna e l’altra, non ha legami con la realtà. Pensate che i curdi abbiano sconfitto l'Isis infilando fiori nei cannoni? Suvvia. Pure papa Francesco conserva la Gendarmeria e le Guardie Svizzere. E senza esercito ogni Stato rischia la dissoluzione, come faceva dire Oriana Fallaci a un suo personaggio: "Nessuna società riuscirà mai ad esistere senza soldati". Perché oggi viviamo in pace, ma domani chissà: sempre meglio farsi trovare pronti. Faccio dunque una proposta, senza troppe pretese. Alla signora Murgia fate fare il servizio di leva obbligatorio. Un paio di mesi dovrebbero bastare. So che in Italia non esiste più dal 2005. So che lei forse si incatenerebbe alla sedia pur di non farsi trascinare nel fango con gli anfibi. Ma darebbe grande prova del suo femminismo. Di più: sarebbe infatti la prima soldatessa (o soldata?) a ricevere la cartolina di convocazione per la naja. La leva obbligatoria è sempre stata croce e delizia degli uomini, evidente discriminazione di genere. Mentre i maschietti venivano costretti sotto le armi, le ragazzine dovevano restare a casa. Che orrore. Anche se dal 2000 pure le donne possono vestire la mimetica, la legge lo prevede solo su base volontaria: per loro l’obbligatorietà non c’è mai stata. Che machismo. Visto allora che la Murgia, classe 1972, se fosse nata uomo avrebbe ricevuto la chiamata, credo sia arrivato il momento di recuperare. Magari la naja fa il miracolo e dopo due mesi di alza bandiera le passa pure questa insana fobia per le divise.

"Il militare sopprime l'umano". L’ultima boiata radical chic. Giuseppe De Lorenzo il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Dopo la "paura" della Murgia, altri guardano con sospetto le divise e il loro mondo. Ma chi indossa una divisa lo fa con orgoglio. È sempre difficile commentare un commento. Analizzare cioè il pensiero di chi ha preso carta e penna per comunicare un disagio, raccontare una storia personale, spiegare i suoi perché. Però stavolta è necessario, oltre che interessante. Sarete ormai edotti sulla querelle della settimana, ovvero la “paura” che pare attanagli Michela Murgia ogni qual volta vede il generale Figliuolo indossare la divisa di fronte alle telecamere. Quando lo sente annunciare “fuoco a tutte le polveri” o “fiato alle trombe” le vengono proprio i brividi. La nostra proposta, in questa umile rubrica sui radical chic, l’abbiamo già fatta: la scrittrice sarda dovrebbe farsi un paio di mesi di naja obbligatoria per imparare che dai soldati non s’ha nulla da temere, al massimo da imparare. Dedizione, fedeltà, rispetto, cameratismo: sono tutti valori che temprano gli uomini e le donne. E che renderebbero la nostra società un po’ migliore, se solo ai giovani d’oggi glieli insegnassero invece di farli bighellonare in giro a creare baby gang. Di critiche contro la Murgia ne sono piovute a iosa. Ma è arrivato pure qualche attestato di stima. Su Domani, ad esempio, lo scrittore Andrea Donaera, figlio di un finanziere, ha difeso la collega rivendicando il “diritto di essere spaventati dal linguaggio militare” e biasimando le “espressioni fuori tempo del commissario Figliuolo”. Ora, non commenteremo il disagio di Doanera per aver vissuto anni in una caserma al seguito di papà. Nè l’imbarazzo che ha provato quando invitava le fidanzatine passando di fronte ad un minacciosissimo cartello giallo con scritto: “Zona militare. Divieto di accesso. Sorveglianza armata” (brrr, che paura!). Ci limiteremo però a dire che sbaglia enormemente quando afferma che per loro natura “i militari devono essere percepiti come una forza in grado di far abbassare la testa. Sono e devono essere la mano severa dello Stato”. E non perché non siamo d’accordo. Ma proprio perché è una corbelleria. Lei ha mai visto un soldato in mimetica effettuare un arresto? No, non possono. Oppure reprime azioni dei cittadini? No, non credo. Certo ci sono i carabinieri, che tecnicamente sono militari, ma allora anche la polizia dovrebbe farci “paura” alla stessa maniera. L’armamentario c’è: pistole, manette, manganelli, scudi. L’altra baggianata è sostenere che i militari parlino “in modo assertivo” per “creare ordine”, o che usino un “linguaggio violento”, “inquietante e “spaventoso”, instillando così “timore nei cittadini”. Sia chiaro. Da ormai diversi anni chi risiede in una città è abituato a vedere i soldati di Strade Sicure agli angoli dei quartieri. Sarò poco attento io, ma non ho mai visto cittadini tramortiti dal terrore girare alla larga dalle camionette o mettersi ad urlare appena vedono una mimetica. E poi mi scusi, dottor Doanera: ma che vuol dire che la lingua militaresca “troppo spesso combacia con il linguaggio della guerra”? Quali parole dovrebbero usare, mi dica: quelli da centro sociale affumicato di marijuana? L’architetto utilizza termini sulle costruzioni. L’avvocato prosopopee legali. Il medico parole scientifiche. E i soldati, che ovviamente si tengono pronti in caso di conflitto, maneggiano il linguaggio della guerra. Non mi pare uno scandalo. Infine, piccolo appunto. Per Doanera chi veste una divisa in alcuni casi vive come una doppia vita: una durante il servizio, impettito e gerarchico, l’altra in abiti civili, quando torna a casa. Può darsi. Ma sostenere che “il contesto” militare è per natura “repressivo” perché deve sopprimere “non solo il disordine, ma l’umano”, è eccessivo. E forse è anche offensivo verso i soldati che con dedizione appartengono a quel pianeta. Vada a vedersi suoi social quanti hanno pubblicato immagini del loro servizio militare. Persone che non si sentono affatto “oppresse”, ma pienamente realizzate. E che con orgoglio indossano una divisa.

La querelle di Michela Murgia su Figliuolo. Cari intellettuali, anche la divisa ha il suo fascino: viaggio nell’immaginario filmico dei militari che piacciono. Fulvio Abbate su Il Riformista il 16 Aprile 2021. L’italiano, inutile occultarne la storia, ha un sincero debole per le divise e soprattutto per la loro vestibilità spettacolare. Così dalla mimetica alla “drop”, senza neppure dimenticare l’uniforme di gala bianca estiva. Ciò sia detto senza citare, almeno inizialmente, l’orrendo fascismo che, in termini di uniformologia, ha donato all’immaginario maschile e perfino femminile davvero molto. Al momento però, facendo un passo avanti fino agli anni Sessanta, basterebbe menzionare una battuta de Il sorpasso, quando il giovane Roberto Mariani-Trintignant ascolta da Gianna, l’ex moglie di Bruno Cortona-Gassman, il racconto secondo cui lui l’avrebbe sedotta in tenuta da ufficiale dei marines, aggiungendo che a Bruno, quell’uniforme, era subito piaciuta fino a procurarsela e indossarla come se davvero fosse al seguito del generale Clark. Forse, chissà, dovrebbe bastare solo questo graffito per rispondere ai timori di nuovi golpe e alla semplice percezione fantasmatica d’autoritarismo manifestati dalla scrittrice Michela Murgia, sia detto da chi ha una memoria esatta di ciò che Pietro Nenni, al tempo di “piano Solo” del generale De Lorenzo, ebbe a definire “un tintinnare di sciabole”. Ora, per non farla troppo lunga con certe passioni da baby-boomer, escludendo perfino il racconto dei soldatini da ritagliare lungo le pagine del Corriere dei Piccoli, compresi i fanti del Carso, sarebbe comunque il caso di raccontare i nostri desiderata infantili durante il Carnevale. Lì nessun dubbio, tutti o quasi, avremmo voluto vestirci chi da Zorro chi da moschettiere e così via fino al proverbiale, lo avrete già intuito, marine. Personalmente, mi sognavo in uniforme da nordista della guerra di secessione americana, peccato che il negoziante, dopo aver controllato la merce sugli scaffali, così pronunciò: «C’è da sudista, ti va bene lo stesso?». Dunque, non soldato blu, bensì grigio bordato di giallo. Morale: anch’io, sebbene più prossimo al pensiero anarchico che non a immaginarmi cadetto presso l’Accademia di Modena, ho indossato per puro piacere un simulacro di divisa, e non mi dilungo neppure sull’infanzia trascorsa in una caserma con nonno sarto, per l’appunto, militare, cosa che ancora adesso mi consente di riconoscere i fregi di appartenenza d’ogni corpo, comprese le mostrine e le fiamme dei singoli reggimenti: il nero bordato di giallo dell’artiglieria, il blu e nero degli autieri, il bianco dei Lancieri di Novara, il cremisi dei bersaglieri. Ora, restando sempre in tema di uniformi, è giunto l’esatto momento di soffermarsi su quanto il fascismo volle farne uso, cominciando a vestire i piccini da “figli della Lupa”, gli adolescenti da avanguardisti-moschettieri, così fino a Console generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale; e non diremo dei Moschettieri del duce, muniti di colbacco fregiato dal teschio incrociato con due fioretti. Quando Michela Murgia manifesta il suo legittimo stupore nel vedere ubiquo il generale Figliuolo in mimetica e cappello da alpino, forse omette di pensare (al di là d’ogni riflessione sulle suggestioni del profondo, dove la divisa potrebbe perfino ricondurre alle pagine del Portiere di notte) che di recente l’Esercito è stato chiamato in campo per l’eccezionalità critica della pandemia, e, forse, ciò accade poiché lo si ritiene in possesso di un know how capace di rispondere o comunque supportare il piano vaccinale; altrettanto accertato che dopo ogni sisma i primi ad arrivare sono proprio i soldati, sia pure accompagnati dalla (successivamente creata) Protezione civile. Quanto a me, faccio fatica a immaginare Figliuolo Francesco Paolo, generale, “già comandante logistico dell’Esercito italiano dal 2018, dal primo marzo 2021 commissario straordinario per l’attuazione e il coordinamento delle misure occorrenti per il contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica COVID-19”, nei panni del generale Pariglia. Per il nostro, al momento, basta e avanza l’imitazione che ne fa Maurizio Crozza, dove Figliuolo si degrada da solo, strappandosi le mostrine dalla divisa colma di nastrini, assodati i ritardi del piano vaccinale. Fra l’altro, Pariglia è dell’aeronautica e non un alpino, sia detto per precisazione. Adesso alcuni diranno: e chi cavolo è il generale Pariglia? E qui torna subito utile la nostra passione per l’uniformologia, nel dettaglio applicata al cinema, con Vogliamo i colonnelli di Mario Monicelli, dove, a golpe in parte avvenuto, proprio il Pariglia dovrebbe fare il discorso alla nazione per annunciare l’arrivo del “pugno di ferro”. Peccato che il colpo di Stato non potrà compiersi dato che i congiurati, compresi gli squadristi capitanati da “Er Nerchia”, giungono in ritardo presso il centro di produzione Rai di via Teulada a Roma, nel 1974 le trasmissioni cessavano prima della mezzanotte. L’ho detto che il fascismo impose a tutti una divisa, perfino alle massaie rurali, ai Guf, Gruppi Universitari Fascisti, al Personale civile dello Stato? Chissà se ho citato a Pasolini che, sempre a proposito di divise, nella “lettera” agli studenti dopo la battaglia di Valle Giulia, racconta: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida, che puzza di rancio furerie e popolo». Chissà se ho ricordato che periodicamente il pendolo della moda, sebbene non necessariamente immaginando il ritorno dei generali De Lorenzo e, va da sé, Pariglia (“Grand’Ufficiale Alceo, ex comandante del XXV° Settore Aeroporti d’Italia in pensione e semirimbambito, o almeno così lo demolisce un recensore su un portale neofascista”) ritrova il grigioverde delle t-shirt? Avrà certamente Michela Murgia visto un altro film dove, in tempi non pandemici, l’autorità militare viene messa in discussione anche nelle sue implicazioni psicoanalitiche, compreso il tema del potere e del dominio sul femminile, ossia Marcia trionfale di Marco Bellocchio, questo per dire che, perfino quando si afferma il feticcio perturbante delle divise, la complessità è d’obbligo, così come le parole degli anarchici che in Spagna nel 1936 chiarirono i propri intendimenti: miliziano, sì, soldato mai, e invece dell’uniforme indossarono, il “mono”, cioè la tuta blu della fabbrica, forse anche quella una divisa. Forse. Post scriptum dell’ultim’ora: Non era mai accaduto, ma la regina Elisabetta ha preteso che per i funerali del suo consorte, il principe Filippo, duca di Edimburgo, nessuno dei presenti indosserà l’uniforme militare, una notizia che certamente darà gioia a Michela Murgia.

Fulvio Abbate. Nato a Palermo nel 1956. Scrittore, critico d’arte e inventore della web-tv Teledurruti, ha pubblicato, fra l’altro, i romanzi Zero maggio a Palermo (1990), ripubblicato dalla Nave di Teseo nel 2017, Oggi è un secolo (1992), Dopo l’estate (1995), La peste bis (1997), Teledurruti (2002), Quando è la rivoluzione (2008), Intanto anche dicembre è passato (2013). E ancora, Il ministro anarchico (2004), Sul conformismo di sinistra (2005), Pasolini raccontato a tutti (2014), Roma vista controvento (2015), LOve. Discorso generale sull'amore (2018) e Quando è la rivoluzione (2018). Nel 2010 ha dato vita al movimento Situazionismo e Libertà, il cui simbolo è disegnato da Wolinski. Nel 2012, a Parigi, il Collège de ‘Pataphysique lo ha insignito del titolo di Commandeur Exquis de l’Ordre de la Grande Gidouille.

Chi sono i 3mila alpini comandati da Figliuolo che hanno salvato l'Italia: tutti i segreti degli eroi con la penna. Non solo generale Figliuolo, ecco chi sono i 3mila alpini che hanno salvato l'Italia: tutti i loro segreti. Massimo Sanvito su Libero Quotidiano l'08 luglio 2021. Ci volevano gli alpini per sbrogliare la matassa. Prendere in mano il pallino del gioco in una partita molto intricata e mettere la palla in rete. Il generale Figliuolo, penna nera di lungo corso, fiero con le sue stellette sulla divisa (non ce ne voglia la Murgia...) ci aveva subito tranquillizzato. Era bastata la sua presenza in tv e sui giornali. Poche parole e tanti fatti, lo abbiamo pensato tutti. E infatti i numeri gli hanno già dato ragione. Perché se la campagna vaccinale sta funzionando come un ingranaggio perfetto, salvando vite umane e svuotando le terapie intensive, lo dobbiamo proprio agli alpini. Quando il paese era in preda al caos per l'incapacità del super commissario Arcuri sono arrivati loro a mettere ordine, con metodo e disciplina. 

TRIAGE E TAMPONI. Un po' di cifre, giusto per rendere l'idea del lavoro abnorme messo in campo dai fantastici volontari raggruppati sotto il cappello della sezione di Protezione Civile dell'Ana, l'Associazione nazionale alpini, anche se non bastano dati e tabelle per dare contezza di ciò che questo glorioso corpo ha saputo offrire e che - siamo certi - saprebbe offrire in ogni circostanza. Spulciando il portale VolA, che dal 2016 gestisce gli iscritti, fino al 19 maggio (ultimi numeri disponibili) si sono registrate 54 attività a supporto delle vaccinazioni, 2.643 volontari impegnati su 9.927 turni per 10.094 giornate. Un servizio impeccabile, di cuore e di sostanza, che si somma a tutto ciò che è venuto prima: montaggio delle tensostrutture per triage e tamponi, trasporto delle mascherine e dei dispositivi di protezione, interventi di sanificazione e di aiuto alla popolazione, rifornimento di generi alimentari per la popolazione più bisognosa, supporto in denaro e in beni di prima necessità a residenze per anziani e per disabili. Quattro sono i raggruppamenti dell'Ana impegnati in ogni angolo d'Italia per combattere una guerra senza colpi di mortaio e sventagliate di mitragliatrici, ma contro un nemico subdolo che da oltre un anno e mezzo ci tiene sotto scacco. Il primo, coordinato da Paolo Rosso, è attivo in Valle d'Aosta, Piemonte e Liguria. Da inizio anno ha totalizzato la bellezza di 3.000 giornate per ogni suo uomo solo per il capitolo vaccini. Oltre ai servizi nei centri grandi e piccoli delle tre regioni, gli alpini del primo raggruppamento accompagnano quotidianamente medici e infermieri a casa delle persone più fragili per immunizzarle. Il secondo raggruppamento (Lombardia ed Emilia-Romagna), coordinato da Ettore Avietti, oltre che per la costante e assidua presenza nei centri vaccinali più grandi del paese - su tutti quello del Palazzo delle Scintille a Milano - si è distinto per la quantità esagerata di asfalto percorso per i trasporti con mezzi articolati: 17.000 chilometri da gennaio ad aprile. Il drive-in di Trenno, voluto a tutti i costi dal generale Figliuolo, grazie al loro impegno è diventato un simbolo dell'eccellenza sanitaria di Regione Lombardia, perché qui sono impegnate a turno tutte le sezioni lombarde degli alpini. 

DIVISIONI. Il terzo raggruppamento, invece, quello del Triveneto che comprende Veneto, Friuli Venezia-Giulia e Trentino Alto Adige, coordinato da Andrea Da Broi, ha impegnato 1.600 volontari per 5.075 giornate. La chicca è rappresentata sicuramente dal magazzino di Campiglia dei Berici (Vicenza), dove è stato allestito, in collaborazione con la Sanità Alpina, un centro vaccinale dedicato all'immunizzazione di tutti i volontari della Protezione Civile veneta, autorizzato e certificato dall'Asl e gestito interamente dall'Ana. Infine, il quarto raggruppamento coordinato da Sauro Lambruschi, che comprende il resto d'Italia. Tra le sezioni impegnate nell'assistenza ai punti vaccinali, quelle di Firenze, Massa Carrara-Alpi Apuane, Marche, Molise, Sardegna e l'Abruzzi, i cui volontari con 175 giornate di lavoro e con il supporto del battaglione Vicenza del 9^ Alpini hanno dato un contributo determinante per l'allestimento del centro "Val Pescara" che serve 25 Comuni. In totale, le sezioni dell'Italia peninsulare si sono smazzate 3.600 giornate di lavoro. E allora dobbiamo toglierci il cappello di fronte a questi uomini meravigliosi. Uomini che agli inizi della pandemia, in soli sette giorni, hanno realizzato un ospedale all'interno della Fiera di Bergamo. Uomini che hanno riattivato cinque ospedali dismessi in Veneto e due in Piemonte. Uomini che a Schiavonia hanno montato un grande ospedale da campo donato dal Qatar. Uomini che ci stanno salvando dal covid, a cui va il nostro infinito grazie.

Guerra Esercito-virologi. I militari a Crisanti: deve chiederci scusa. Lo scienziato aveva ironizzato sulla nomina di Figliuolo: era meglio affidarsi ad Amazon. Chiara Giannini - Sab, 06/03/2021 - su Il Giornale. I militari non ci stanno. Le dichiarazioni del professor Andrea Crisanti, secondo il quale il nuovo commissario all'emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo, «in confronto agli ingegneri di Amazon, è un apprendista» della logistica, hanno fatto adirare le divise. Non gliele manda a dire il rappresentante nazionale del comparto Sicurezza e Difesa Marco Cicala (Cocer interforze), che scrive un duro commento. «Apprendo non senza stupore - scrive in una nota - che il professor Crisanti, direttore di laboratorio di Microbiologia e virologia dell'azienda ospedaliera di Padova e docente di Microbiologia, è anche un luminare nel settore della logistica. Infatti, ha pubblicamente affermato che il comandante logistico dell'Esercito italiano, cui compete il supporto logistico dei comandi delle unità dell'Esercito, in Patria e all'estero, sia un apprendista rispetto al Ceo di Amazon». Cicala non usa mezzi termini: «Immagino che l'augusto cattedratico abbia una conoscenza diretta dell'infologistica delle Forze armate, così come dei compiti di responsabilità di un amministratore delegato di un'organizzazione aziendale. Laddove ciò non fosse vero - prosegue - parrebbe auspicabile che il luminare porgesse formali scuse a chi da sempre serve, incondizionatamente, la propria Patria». Crisanti aveva affermato che per gestire la distribuzione dei vaccini anti Covid, anziché un generale come Figliuolo, sarebbero serviti esperti di ingegneria informatica. «Due mesi fa - ha spiegato Crisanti - avevo detto che il Governo doveva consultare quelli di Amazon. Non lo avevo detto a caso, Amazon è un gigante nella logistica. Con tutto il rispetto, il nostro generale del Genio, in confronto agli ingegneri di Amazon, è un apprendista». E ancora: «Questi di Amazon sono in grado di movimentare miliardi di pacchi al giorno e distribuirli capillarmente su tutto il territorio. Il fatto che sia stato scelto un generale ha un grosso impatto mediatico, ma vi assicuro che per distribuire i vaccini ci volevano esperti in ingegneria e informatica che stanno in Amazon, non nell'Esercito». Per poi proseguire: «Se avessero preso lo chief executive officer di Amazon sarei stato più tranquillo». Il direttore del laboratorio di Microbiologia dell'Università di Padova ha criticato in tv l'intera gestione della campagna vaccinale: «Abbiamo iniziato la vaccinazione con quella pagliacciata del vaccination day, illudendo tutti gli italiani». Ma Cicala controbatte: «L'emergenza Covid non è stata solo un'emergenza sanitaria, ma anche uno stress test per l'Italia intera. In questo frangente sono venute fuori tante criticità, tra cui questo modo di comportarsi di personalità che appartengono agli apparati pubblici. È grave giudicare senza alcuna competenza e senza conoscere». Per il delegato Cocer «il giudizio negativo si esterna sempre verso altre organizzazioni pubbliche. È una lotta tra fratelli che alla fine fa male a tutta la famiglia. Non c'è alcun senso di rispetto delle istituzioni, degli uomini e delle donne che le incarnano e dedicano tutto il loro essere al servizio della collettività. Crisanti non sa che il colosso Amazon va alla ricerca di personale con esperienza militare, che si è formato ed è cresciuto nelle forze armate. Questo è un ossimoro». Forse il professore preferiva la vecchia gestione Arcuri.

Marco Travaglio, l'ultima porcata sul Fatto Quotidiano: il generale Paolo Figliuolo? Un ubriacone. Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Marco Travaglio, dacci anche oggi un po' di fango quotidiano. Ovviamente sul Fatto Quotidiano. Fango scagliato in dosi copiose contro tutto e tutti quelli che ricordano al direttore la "scomparsa" di Giuseppe Conte, il "suo" premier, il cocco di mister-manetta. Una cacciata che Travaglio proprio ancora non è riuscito a metabolizzare. E così un giorno picchia contro Matteo Renzi, artefice della detronizzazione dell'avvocato, e uno contro Mario Draghi. Poi, certo, non scorda mai di insultare anche Matteo Salvini e i leghisti, non sia mai, e ogni tanto la bastonata cade contro il nemico di sempre, Silvio Berlusconi. A bastonare ci pensa Travaglio in prima persona oppure il direttore lo fa fare su commissione, ai suoi giornalisti e ai suoi vignettisti. E la bastonata di oggi va a colpire il generale Paolo Figliuolo, l'uomo che ha sostituito il disastroso Domenico Arcuri, quest'ultimo diretta emanazione del fu premier Conte e, dunque, difeso in modo cieco e fideistico, sempre e comunque a spada tratta, da quel Marco Travaglio che si spaccia come il nume tutelare dell'indipendenza giornalistica. E la sua "indipendenza" da Conte e dal M5s la si nota ogni santo giorno, basta dare una scorsa al Fatto Quotidiano. Bene, eccoci ora alla vignetta contro il generale, firmata da Mannelli. Ecco il generale, ritratto di profilo, sguardo rivolto al cielo mentre afferma: "Vedo milioni di vaccini balenare alle porte di Milano e virus in fiamme ai bastioni di Roma...", una citazione con rivisitazione di Blade Runner, tanto che il titolo della vignetta è "Blade Runner Alpino". Ma il punto è che una voce fuori campo, dopo aver sentito il generale, chiede: "Un altro grappino...?". E la porcheria è servita: per la banda-Travaglio, Figliuolo è un ubriacone.

Goffredo Buccini per corriere.it il 3 aprile 2021.

Da un mese in carica: che Italia ha trovato nella prima ricognizione sui territori, generale Figliuolo?

«Un’Italia che vuole uscire in fretta dalla pandemia. Ora è chiaro che bisogna mettere al sicuro le nostre radici: gli anziani; e poi i più vulnerabili».

Non è sempre stato così chiaro, diciamolo...

«La svolta sta nel piano strategico del ministero della Salute condiviso con la struttura commissariale: abbiamo messo un punto fermo su chi deve essere vaccinato in priorità. Adesso è stato recepito dai presidenti di Regione e dai loro responsabili sul territorio per le vaccinazioni».

Le Regioni però hanno sbandato, prima. Draghi le ha bacchettate e lei stesso ha parlato di nepotismi.

«C’è stato un combinato disposto: da una parte la pandemia, infida e poco nota, soggetta a rivisitazioni su come agire; dall’altra il primo piano vaccinale, dove si parlava di categorie essenziali poco declinate, al di là di forze armate e forze dell’ordine, insegnanti e sanitari, lasciava molto spazio a ciò che diventa... l’italica inventiva».

Che lei giustifica?

«Io non devo giustificare. Capisco gli atteggiamenti di qualche Regione. Io per primo ho ricevuto molte sollecitazioni, al limite della pressione, da ordini professionali che mi dicevano “noi siamo essenziali”. Aspirazioni legittime, perché non era declinato il piano. Poi si è aggiunta la problematica di AstraZeneca che ha dato all’agenzia regolatoria motivi per porre un limite. Poi, vedendo altri Paesi che vaccinavano oltre quel limite, si è cambiato rotta. Ma alcune Regioni si sono dette: ho AstraZeneca, lo posso fare solo ad alcune tipologie, ci sono i servizi essenziali, li allargo».

Fine degli equivoci, ora?

«Dopo le raccomandazioni del 10 marzo, questo atteggiamento deve scomparire, perché il piano è molto chiaro. C’è una tabella di priorità. Devo ringraziare il ministro Speranza che ha declinato le categorie dei fragili. Dopo queste precisazioni non ci sono più margini: se abusi ci sono, sono voluti. Che poi ci sia qualche nepotismo... io non so come uno possa dormire la notte sapendo che avrebbe potuto salvare una vita e invece ha dato il vaccino all’amico. Lo trovo inqualificabile. Le liste di riserva devono essere in analogia col piano vaccinale: con gli ottantenni, poi i settantenni... non è che fai venire tuo cugino dicendo aspetta che ti vaccino con la sesta dose che rimane».

Accanto al virus letale, c’è un virus della polemica che ci indebolisce nella lotta?

«Noi italiani siamo bravissimi singolarmente ma non pratichiamo il gioco di squadra. Perciò io voglio smorzare le polemiche, sempre».

Mi definisca il suo Piano.

«È la sintesi di tutti i piani regionali. Sono contento di farlo per i nostri concittadini, ho la soddisfazione di essere stato chiamato da un numero uno, il presidente Draghi».

Chi sono i suoi alleati?

«Le Regioni. Ma devo citare anche l’ingegner Curcio, capo della Protezione civile. Mi sta dando una grande mano. Ci conoscevamo da altre emergenze. Ora è nata un’amicizia. In squadra si vince».

Punto debole?

«Dobbiamo spingere Big Pharma a onorare gli impegni. Sui territori ci sono cose da migliorare, ma andarci crea tensione positiva tra i responsabili dei piani vaccinali. I confronti che ho avuto, a volte anche accesi, sono sempre stati costruttivi. Ho avuto interlocutori sul pezzo».

Nelle Regioni?

«Sì. Dalla Lombardia, che è una Regione-Stato, alla Calabria, alla Sardegna, ognuno con le sue peculiarità. La moral suasion magari su tre commissari Asl, un sindaco e un presidente di Regione, senza pensare al ritorno per ognuno, provoca riposte responsabili da tutti. Andando in giro con Curcio si mettono insieme associazionismo, protezione civile, Difesa, medici, infermieri».

Le task force servono?

«Eccome. Danno il senso dello Stato che arriva laddove ci sono i più fragili».

Quanti punti vaccinali abbiamo in tutto?

«A fine febbraio siamo partiti da 1.500, ora sono 2.066: dal punto vaccinale in un presidio sanitario fino all’hub da 50 linee di vaccinazione. Il piano prevede approvvigionamento e distribuzione, verifica dei fabbisogni e capillarizzazione. Non deve accadere che arrivino le dosi e non abbiamo chi le somministra».

A quando il mezzo milione di vaccinazioni al giorno?

«L’ultima settimana di aprile. Ora incrementeremo».

Aprile è il mese decisivo?

«Sì. Tra due settimane staremo a 300 mila dosi al giorno. Ad aprile si incrocia un consistente arrivo di vaccini con la verifica delle capacità dei vaccinatori e dei punti di vaccinazione. Se il sistema regge, e mi porta ad avere 500 mila vaccinazioni al giorno a fine mese, a fine settembre chiudo la campagna».

I privati si sono fatti avanti per dare una mano?

«Abbiamo già censito 420 siti produttivi che possono entrare in campagna vaccinale, offerti da Confindustria, aziende, Coni. Ne abbiamo controllato i requisiti. Molti dicono: vorremmo vaccinare i nostri lavoratori. Si farà quando avremo messo in sicurezza chi ha più probabilità di esito negativo per questa malattia. Quando arriveremo a quel punto, vaccineremo in parallelo, per far ripartire il Paese».

Quando?

«Verso fine maggio».

Come valuta il passaporto vaccinale?

«È importante. Si sta pensando a un green pass di natura europea. Ci lavorano i ministri competenti».

L’Oms ha criticato duramente l’Europa per i ritardi nei vaccini...

«Ogni sprone, ben venga. Poi il tempo è galantuomo».

Lei, da tecnico, è un «chiusurista» o un «aperturista»?

«Bisogna essere equilibrati, con buonsenso e pragmatismo».

Un segnale di speranza?

«Le scuole aperte dopo Pasqua. Vaccineremo di più. E tornare sui banchi sarà sempre più sicuro per i nostri figli e i nostri nipoti».

Roberto Burioni per il Corriere della Sera il 7 marzo 2021. Carissimo generale Figliuolo, chi le scrive è una persona che ha grandissima fiducia nelle nostre Forze Armate e che ripone - come sono certo la maggior parte degli italiani - grandi speranze nel suo operato. Per questo, da cittadino che a causa della sua professione (sono un medico e insegno Virologia all'Università) ha dovuto seguire sin dal primo giorno questa terribile pandemia, mi permetto di condividere con lei alcune rispettose considerazioni. Ci sono persone che rifiutano ideologicamente l'uso delle armi. In guerra possono essere utili a decrittare codici segreti o nelle retrovie a organizzare la logistica, ma non posso prestare servizio in prima linea: non essendo armati metterebbero in pericolo non solo loro stessi, ma pure i loro commilitoni e potrebbero pregiudicare l'esito finale del conflitto. Allo stesso modo i sanitari che rifiutano i vaccini devono essere trasferiti. Non possono stare a contatto con i pazienti perché potrebbero contagiarli e quindi dovranno essere assegnati a qualche mansione che non metta a rischio la loro salute e quella delle persone che assistono. Dico di più: chi rifiuta un vaccino che la scienza ha definito sicuro ed efficace nel proteggere contro una malattia pericolosissima certamente non è un bravo sanitario. Fargli cambiare lavoro potrebbe essere un'ottima soluzione sia per lui, sia per i cittadini. Alla fine del mese di maggio del 1940 i soldati alleati si trovarono circondati dai nazisti a Dunkerque, senza speranza di rompere l'assedio. A quel punto sulla costa francese c'erano la prigionia o la morte, mentre per chi riusciva a oltrepassare la Manica arrivando in Inghilterra si apriva la prospettiva non solo della salvezza, ma anche l'opportunità di combattere di nuovo il nemico nel futuro. In quella occasione Churchill «arruolò» qualunque cosa galleggiasse per portare in salvo il maggior numero possibile di soldati sulle coste inglesi. Non fece distinzioni tra navi militari, tra barche pubbliche e private, tra marinai professionisti e volontari. Chiese aiuto a tutti. Noi ci troviamo in una situazione identica. Da una parte, la malattia con il suo carico di dolore e morte, dall'altra (la sponda del vaccino) la salvezza e la possibilità di aiutare gli altri a combattere la malattia. Faccia lo stesso. Nei prossimi mesi arriveranno molti milioni di vaccini e la priorità assoluta è somministrarli a più persone possibile nel più breve tempo possibile, come non importa. L'importante è riuscirci, ed è questione di vita o di morte. Qualcuno le dirà che i vaccini sono pochi, ma lei sa che in periodo bellico si fanno cose impossibili per salvare la Patria. Nei primi 5 mesi della Grande Guerra il Regno Unito produsse in 5 mesi 500.000 proiettili per artiglieria. Nella primavera dell'anno successivo ci si accorse che erano pochissimi: in un bombardamento di 35 minuti nella battaglia di Neuve Chapelle si erano sparati più proiettili che nell'intera guerra Anglo-Boera. Si arrivò al punto che nel maggio 1915 ogni cannone non poteva utilizzare più di 4 colpi al giorno. A quel punto gli inglesi si misero al lavoro, trovarono un nuovo modo di produrre gli esplosivi utilizzando anche i fermentatori delle birrerie e nei sei mesi successivi del 1915 produssero oltre 16 milioni di proiettili. Nel 1917 i proiettili prodotti diventarono 50 milioni all'anno, e consentirono all'Intesa di vincere la guerra. Per i vaccini regoliamoci nello stesso modo: invece di essere strumenti di morte come i proiettili dei cannoni sono strumenti di pace e di salute, ma ci servono a tutti i costi. Senza vaccini, non importa quanto terremo duro, non importa quanti sacrifici faremo: la guerra è persa. A proposito dell'Intesa che vinse la Grande Guerra, era composta da diversi Paesi, ma su ogni fronte il comando era unificato. Pensare di vincere questo virus con venti piani vaccinali diversi - uno per regione - è una pericolosa illusione. La battaglia è una e le regole devono essere identiche in tutto il Paese, altrimenti sarà molto difficile portare a termine questo difficile compito. Infine, «loose lips sink ships» , dicevano durante la seconda guerra mondiale gli inglesi: i chiacchieroni affondano le navi. Chi in una situazione di grave emergenza parla sconsideratamente può causare - anche involontariamente - danni incalcolabili. Incredibilmente capita di vedere in televisione, nelle ore di maggiore ascolto, individui che raccontano bugie pericolose, dicendo che Covid-19 non esiste, che le mascherine sono inutili, che i vaccini sono tossici e inefficaci. La Costituzione - che insieme alla libertà di opinione per noi è sacra anche in guerra - garantisce che chi afferma che Sars-CoV-2 causa una «semplice influenza» non venga arrestato all'alba ma non conferisce a ogni ciarlatano il diritto di potere esporre la sua ignoranza in prima serata televisiva. I cittadini dopo un anno di sacrifici che nessuno di noi avrebbe potuto immaginare sono stanchi, sfiduciati, increduli, diffidenti. Molti hanno perso persone care e quasi tutti hanno avuto danni economici che per non pochi sfortunati hanno significato la catastrofe di un progetto di vita. Tutto questo rende difficile questo ultimo periodo nel quale ognuno di noi deve tenere duro in attesa del completamento della campagna vaccinale. Per questo è importante che la comunicazione riguardo alla situazione della pandemia, ai pericoli, alle varianti, ai vaccini sia autorevole, precisa, basata su dati solidissimi, semplice ma soprattutto convincente. Non basta dire le cose giuste, bisogna anche dirle nel modo giusto, quello che riesce a convincere. Perché se la gente non si convince non crede a quello che sente, con conseguenze catastrofiche. Concludo con il mio in bocca al lupo e con la massima fiducia nelle sue capacità, sperando che presto «i resti di quello che fu uno dei più potenti virus del mondo risalgano in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». Buon lavoro, generale.

Paolo Mauri per ilgiornale.it l'1 marzo 2021. Con due mesi di anticipo rispetto alla scadenza dello Stato di emergenza nazionale, e a più di due settimane dal compimento di un anno esatto della sua nomina, il commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19 Domenico Arcuri è stato sostituito dal generale di corpo d'armata Francesco Paolo Figliuolo. Arcuri era in carica dal 18 marzo 2020, ed il suo mandato, così come da legislazione vigente, sarebbe dovuto durare “fino alla scadenza dello stato di emergenza nazionale e delle relative eventuali proroghe” ovvero sino alla fine di aprile. Il generale Figliuolo, nato a Potenza nel 1961, frequenta l'Accademia militare e diventa ufficiale di artiglieria da montagna. Svolge le primissime esperienze di comando presso il gruppo artiglieria “Aosta” di Saluzzo (Cn), per divenirne comandante, nella sede di Fossano (Cn), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo. Successivamente diventa comandante del Primo reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, mentre dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di vice comandante della brigata alpina “Taurinense” per assumerne poi il comando sino all’ottobre del 2011. Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli ufficiali dell’Esercito, presso la scuola di applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito Nato, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di capo ufficio logistico del comando delle truppe alpine ed in seguito quelle di capo ufficio coordinamento del Quarto reparto logistico dello Stato maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di vice capo reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016. Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di capo ufficio generale del capo di Stato maggiore della Difesa, mentre il 7 novembre 2018 diventa comandante logistico dell’Esercito. Il generale può vantare esperienza internazionale in ambito militare. È stato infatti comandante del contingente italiano in Afghanistan nell’ambito dell’operazione Isaf tra l'ottobre del 2004 ed il febbraio del 2005 oltre a essere stato comandante delle Forze Nato in Kosovo tra il settembre 2014 e l'agosto del 2015. Il generale Figliuolo è anche autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa. Il governo Draghi quindi non perde tempo e fa una mossa che tutti si aspettavano per dare una svolta alla lotta contro la pandemia da Covid-19: sostituire il commissario Arcuri che è stato uno dei principali fautori dell'attuale (e inadeguata) campagna vaccinale. La scelta di un militare si pone nel solco di quella fatta proprio per la distribuzione dei vaccini: la gestione della filiera logistica è infatti in mano alle Forze Armate che già lo scorso dicembre avevano individuato nell'aeroporto militare di Pratica di Mare, nei pressi di Roma, l'hub nazionale di gestione e smistamento dei vaccini. Decisioni a dir poco scellerate, come quella di creare gli stand “primula” per la vaccinazione, con un costo non indifferente per l'erario, hanno sicuramente pesato sulla decisione di esautorare il commissario Arcuri. Il curriculum vitae del generale, poi, sembra adeguato al ruolo che gli è stato affidato avendo maturato una certa esperienza nella logistica, se pur militare. La sua nomina potrebbe anche essere indicativa di una svolta proprio in funzione dell'accelerazione della campagna vaccinale, ovvero una possibile “militarizzazione” delle vaccinazioni sfruttando gli assetti e le infrastrutture delle Forze Armate.

Monica Guerzoni per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2021. «Normalmente io faccio le battaglie per vincerle, mica per perderle...». E la battaglia che il generale Francesco Paolo Figliuolo sta combattendo è vaccinare tutti gli italiani che lo vorranno entro la fine dell'estate, o se possibile ancor prima. Il nuovo commissario straordinario all'emergenza Covid-19, che il premier Mario Draghi ha voluto al posto di Domenico Arcuri, è più che fiducioso sull'esito della campagna vaccinale. «Sono molto ottimista», confida poco prima che il capo del governo prenda la parola nella sala stampa allestita nell'hub di Fiumicino. «Non fatemi bruciare il discorso del presidente del Consiglio, altrimenti perdo il posto», scherza con i giornalisti e spiega la strategia «in due pilastri» studiata dal governo: da una parte la disponibilità e l'afflusso dei vaccini e dall'altra la capacità di somministrarli, nei tempi stabiliti e in tutta sicurezza. Figliuolo è nato a Potenza, ha tre lauree, ha comandato il contingente italiano in Afghanistan e le forze Nato in Kosovo. Da comandante logistico dell'Esercito ha allestito le aree di isolamento per gli italiani rimpatriati da Wuhan e il metodo di lavoro non è cambiato: «Io sono uno che controlla le cose che fa, la chiave è comando accentrato, esecuzione decentrata». Due giorni fa ha emanato il suo primo ordine, inviando in Calabria un team di «pianificatori» della Difesa e della Protezione civile per affiancare la Regione nella campagna vaccinale. «Alcune regioni mi preoccupano e la Calabria è tra queste», ammette il generale. Ma nel complesso Figliuolo è fiducioso, riconosce che il Lazio di Nicola Zingaretti «sta camminando molto bene» quanto a numero di somministrazioni e anche sul piano nazionale si mostra ottimista. «I problemi li risolveremo quando arriva Johnson&Johnson - prevede il commissario -. Ci consegneranno 25 milioni di dosi e, poiché se ne fa una soltanto, è come se ne arrivassero 50 milioni». Entro l'estate tutti gli italiani saranno vaccinati? «Io dico almeno entro l'estate - sorride con gli occhi -. Se poi ce la facciamo prima siamo più bravi. Ecco, noi ci attrezziamo a essere più bravi». Le telecamere si soffermano sulla sua divisa punteggiata di onorificenze, dalla decorazione di Cavaliere dell'Ordine militare d'Italia, alla Legion of merit degli Stati Uniti. «Mi hanno chiesto di dare una mano e io ho detto che per l'Italia ci sono. Se poi va male torno a fare quello che facevo prima». Ma è una battuta, perché davvero pensa che il Paese ce la farà: «Io sento che c'è un afflato e che vincerà l'Italia. Mi stanno chiamando tutti, l'Eni, l'Enel, il Coni, i medici sportivi. È una sfida bella e importante. Ora dobbiamo tarare i sistemi informativi». Il nuovo decreto blinda la Pasqua, misure severe che il generale approva: «Teoricamente ci possono aiutare, perché uno dei pilastri della campagna è mettere in sicurezza la popolazione per far ripartire l'Italia». C'è ancora il tempo di fare il punto su AstraZeneca, che ha sollevato polemiche e paure. Il generale alpino invece si fida e consiglia di sottoporsi all'iniezione senza timori. Spiega che «AstraZeneca ha lo 0,002 per cento di casi assoggettabili a casi gravi», il suo problema è che è stato pubblicizzato male, comunicato male e quindi percepito male dai cittadini, anche per l'eccesso di cautela dell'Europa. Si tratta di un farmaco che dà «una carica importante di anticorpi» sin da subito e quindi nei giovani provoca risposte forti, per questo funziona meglio sulle persone adulte: «Più la classe di età è avanzata e meglio va». Dagli incontri fatti e dalle informazioni assunte, il commissario si è convinto che AstraZeneca sia un «prodotto fortissimo, che fornisce uno scudo molto importante già con la prima dose». Arriva Roberto Speranza, che è di Potenza come Figliuolo e i due si salutano dandosi di gomito. «Io sono un po' più anziano, ma il ragazzo ha una bella fama - lo loda il generale, 60 anni -. Roberto, sto parlando male di te!». E il ministro della Salute: «Tanto più giovane non sono, perché io ho fatto un anno di Covid che vale 15 anni».

Ecco chi è il super generale per vincere la missione vaccini. Il generale sostituisce Arcuri come commissario per l'emergenza Covid. Un passato anche nelle missioni all'estero. Paolo Mauri - Lun, 01/03/2021 - su Il Giornale. Con due mesi di anticipo rispetto alla scadenza dello Stato di emergenza nazionale, e a più di due settimane dal compimento di un anno esatto della sua nomina, il commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19 Domenico Arcuri è stato sostituito dal generale di corpo d'armata Francesco Paolo Figliuolo. Arcuri era in carica dal 18 marzo 2020, ed il suo mandato, così come da legislazione vigente, sarebbe dovuto durare “fino alla scadenza dello stato di emergenza nazionale e delle relative eventuali proroghe” ovvero sino alla fine di aprile. Il generale Figliuolo, nato a Potenza nel 1961, frequenta l'Accademia militare e diventa ufficiale di artiglieria da montagna. Svolge le primissime esperienze di comando presso il gruppo artiglieria “Aosta” di Saluzzo (Cn), per divenirne comandante, nella sede di Fossano (Cn), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo. Successivamente diventa comandante del Primo reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, mentre dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di vice comandante della brigata alpina “Taurinense” per assumerne poi il comando sino all’ottobre del 2011. Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli ufficiali dell’Esercito, presso la scuola di applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito Nato, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di capo ufficio logistico del comando delle truppe alpine ed in seguito quelle di capo ufficio coordinamento del Quarto reparto logistico dello Stato maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di vice capo reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016. Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di capo ufficio generale del capo di Stato maggiore della Difesa, mentre il 7 novembre 2018 diventa comandante logistico dell’Esercito. Il generale può vantare esperienza internazionale in ambito militare. È stato infatti comandante del contingente italiano in Afghanistan nell’ambito dell’operazione Isaf tra l'ottobre del 2004 ed il febbraio del 2005 oltre a essere stato comandante delle Forze Nato in Kosovo tra il settembre 2014 e l'agosto del 2015. Il generale Figliuolo è anche autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa. Il governo Draghi quindi non perde tempo e fa una mossa che tutti si aspettavano per dare una svolta alla lotta contro la pandemia da Covid-19: sostituire il commissario Arcuri che è stato uno dei principali fautori dell'attuale (e inadeguata) campagna vaccinale. La scelta di un militare si pone nel solco di quella fatta proprio per la distribuzione dei vaccini: la gestione della filiera logistica è infatti in mano alle Forze Armate che già lo scorso dicembre avevano individuato nell'aeroporto militare di Pratica di Mare, nei pressi di Roma, l'hub nazionale di gestione e smistamento dei vaccini. Decisioni a dir poco scellerate, come quella di creare gli stand “primula” per la vaccinazione, con un costo non indifferente per l'erario, hanno sicuramente pesato sulla decisione di esautorare il commissario Arcuri. Il curriculum vitae del generale, poi, sembra adeguato al ruolo che gli è stato affidato avendo maturato una certa esperienza nella logistica, se pur militare. La sua nomina potrebbe anche essere indicativa di una svolta proprio in funzione dell'accelerazione della campagna vaccinale, ovvero una possibile “militarizzazione” delle vaccinazioni sfruttando gli assetti e le infrastrutture delle Forze Armate.

Al posto di Arcuri.  Chi è Francesco Paolo Figliuolo, il generale nominato da Draghi commissario all’emergenza covid. Antonio Lamorte Libero Quotidiano l'1 Marzo 2021. Finisce l’era Arcuri e comincia l’incarico di Francesco Paolo Figliuolo. Il generale dell’esercito è stato nominato dal Presidente del Consiglio Mario Draghi Commissario straordinario all’emergenza covid-19. A farlo sapere una nota di Palazzo Chigi. Figliuolo è lucano, originario di Potenza, comandante logistico dell’Esercito. È nato nel Capoluogo della Basilicata l’11 luglio del 1961. Da anni torinese di adozione, con la moglie Enza e i figli Salvatore e Federico. Ufficiale di artiglieria da montagna, ha svolto le prime esperienze di comando presso il Gruppo Artiglieria “AOSTA” in Saluzzo (CN), per divenirne Comandante, nella sede di Fossano, Cuneo, negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo, nell’enclave serba di Goradzevac (Pèc). E’ stato Comandante del I Reggimento di artiglieria da montagna di Fossano e Vice Comandante della Brigata “TAURINENSE” per assumerne, senza soluzione di continuità, il Comando sino all’ottobre 2011. Alle esperienze ha alternato esperienze nei campi di formazione base e avanzata degli Ufficiali dell’Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, “della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito NATO, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell’Esercito”, come si legge sul sito dell’esercito. Ha assunto gli incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e Capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016. Fino al novembre 2018 è stato Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa. Dal novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito. È stato impegnato in diverse operazioni militari nello scacchiere internazionale: in Afghanistan, nell’ambito dell’operazione ISAF dall’ottobre 2004 al febbraio 2005; e in Kosovo da diciannovesimo Comandante delle Forze NATO in Kosovo dal settembre 2014 all’agosto 2015, nella stessa area di crisi che lo aveva visto impegnato da Comandante della Task Force “Istrice” in Goradzevac e, precedentemente, nel ’99, nell’ambito dell’organizzazione logistica del Comando NATO-SFOR in Sarajevo. Figliuolo è stato insignito delle onorificenze di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, della Croce d’Argento al Merito dell’Esercito, della Croce d’Oro al Merito dell’Esercito. Palazzo Chigi esprime gratitudine per l’operato e la dedizione nello svolgimento del suo compito a Domenico Arcuri mentre esulta Matteo Salvini, il segretario della Lega, come plaude alla nomina sia Italia Viva con la voce del leader Matteo Renzi che Forza Italia attraverso il vice presidente Antonio Tajani.

Covid: Figliuolo dal 2018 è comandante logistico esercito. (ANSA l'1 marzo 2021) Il generale Francesco Paolo Figliuolo, nominato da Draghi nuovo commissario all'emergenza Covid, è originario di Potenza, ha maturato esperienze e ricoperto molteplici incarichi nella Forza Armata dell'Esercito, interforze e internazionale. Ha ricoperto l'incarico di Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell'Esercito. In ambito internazionale ha maturato esperienza come Comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell'ambito dell'operazione ISAF e come Comandante delle Forze Nato in Kosovo (settembre 2014 - agosto 2015). Il generale Figliuolo è stato insignito di numerose onorificenze. Tra le più significative la decorazione di Cavaliere dell'Ordine Militare d'Italia, la Croce d'Oro ed una Croce d'Argento al Merito dell'Esercito e Nato Meritorius Service Medal. Francesco Paolo Figliuolo, ecco il curriculum del generale che sostituirà il commissario Arcuri.

Da startmag.it l'1 marzo 2021. Ribaltone al vertice della struttura commissariale anti Covid. Domenico Arcuri è stato silurato dal governo e al suo posto il premier Mario Draghi ha nominato un generale: Francesco Paolo Figliuolo. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha nominato il Generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo nuovo Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19. “A Domenico Arcuri i ringraziamenti del Governo per l’impegno e lo spirito di dedizione con cui ha svolto il compito a lui affidato in un momento di particolare emergenza per il Paese”, si legge nel comunicato stampa della presidenza del Consiglio che ha dato conto della nomina del generale Figliuolo al posto di Arcuri. La sostituzione, molto prima della scadenza naturale del mandato di Arcuri che sarebbe scaduto ad aprile, segna di fatto una svolta decisa rispetto all’impostazione della gestione dell’emergenza pandemica da parte del governo Conte 2 che aveva affidato ad Arcuri l’intera impalcatura emergenziale. ECCO IL CURRICULUM UFFICIALE DI FIGLIUOLO

Il Generale Francesco Paolo FIGLIUOLO ha maturato esperienze e ricoperto incarichi molteplici e diversificati, in ambito Forza Armata Esercito, interforze e internazionale.

Ufficiale di artiglieria da montagna, svolge le primissime esperienze di comando presso il Gruppo Artiglieria “AOSTA” in Saluzzo (CN), per divenirne Comandante, nella sede di Fossano (CN), negli anni 1999-2000, periodo in cui conduce l’unità in missione in Kosovo, nell’enclave serba di Goradzevac (Pèc).

Comandante del I Reggimento di artiglieria da montagna di Fossano negli anni 2004-2005, dal settembre 2009 all’ottobre 2010 ricopre l’incarico di Vice Comandante della Brigata “TAURINENSE” per assumerne, senza soluzione di continuità, il Comando sino all’ottobre 2011.

Alterna ai precedenti periodi esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli Ufficiali dell’Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell’addestramento in ambito NATO, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell’Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all’agosto 2014 e Capo Reparto dall’agosto 2015 al maggio 2016.

Ricopre quindi, sino al 5 novembre 2018, l’incarico di Capo Ufficio Generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, in un momento di fondamentale trasformazione delle Forze Armate in chiave interforze. Dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito.

Di rilievo l’esperienza internazionale quale Comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell’ambito dell’operazione ISAF (ottobre 2004 – febbraio 2005) e quella diciannovesimo Comandante delle Forze NATO in Kosovo (settembre 2014 – agosto 2015), nella stessa area di crisi balcanica che lo aveva già visto impegnato agli inizi degli anni 2000, quale Comandante della Task Force “Istrice” in Goradzevac e, precedentemente, nel ’99, nell’ambito dell’organizzazione logistica del Comando NATO-SFOR in Sarajevo.

Nato e cresciuto a Potenza prima di entrare in Accademia Militare, il Generale FIGLIUOLO vive a Torino con la moglie Enza ed ha due figli: Salvatore e Federico. Appassionato di lettura e sport, pratica nuoto e sci di cui è istruttore militare.

FORMAZIONE E TITOLI DI STUDIO

Nella sua carriera, il Generale FIGLIUOLO ha conseguito i seguenti titoli di studio:

− Diploma di laurea in Scienze Politiche presso l’Università di Salerno;

− Diploma di laurea in Scienze Strategiche e relativo Master di 2° livello presso l’Università di Torino;

− Diploma di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Università di Trieste.

Il Generale FIGLIUOLO ha frequentato:

− il 119° Corso Superiore di SM, il 3° Corso Superiore di SM Interforze ed il 92° Senior Course presso il NATO Defence College in Roma;

− il corso di Alta Formazione “Ingenio vi virtute” presso l’Università degli studi Link Campus in Roma.

− altresì autore di articoli di analisi d’area e geopolitica per la pubblicistica specializzata della Difesa (Informazioni della Difesa dello Stato Maggiore Difesa e Rivista Militare dell’Esercito Italiano).

ONORIFICENZE

Il Generale FIGLIUOLO è stato insignito di numerose onorificenze. Tra le più significative:

− Decorazione di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia;

− Croce d’Oro ed una Croce d’Argento al Merito dell’Esercito;

− Commendatore Ordine al Merito della Repubblica Italiana;

− NATO Meritorius Service Medal;

− Croce d’Oro d’Onore della Bundeswehr;

− Legion of Merit degli Stati Uniti d’America.

− Croce d’oro al merito dell’Esercito

Cenni storici e normativa dell’onorificenza. Colonnello. Data del conferimento: 13/06/2007

motivazione: “Ufficiale superiore dl indiscusso valore, dotato di pregevoli qualità etico militari e di una preparazione professionale di primissimo ordine il Col. Figliuolo ha assolto l’impegnativo incarico di rappresentante militare dell’autorità nazionale e comandante del contingente nazionale in afghanistan, con eccezionale razionalità e concretezza, evidenziando costantemente indubbie doti dirigenziali. In un contesto operativo ed ambientale estremamente difficile caratterizzato da elevato rischio terroristico e durissime condizioni climatiche, ha affrontato e portato a termine brillantemente numerose e delicate attività operative, mettendo in luce una magistrale capacità di guida del suo staff ed una efficace e lungimirante azione di comando nei riguardi dei suoi uomini che lo hanno sempre seguito con entusiasmo e convinzione. Animato da straordinaria motivazione e fortissima determinazione, ha saputo imporsi nel variegato contesto multinazionale quale autorevole e disponibile interlocutore, calibrando la sua azione all’assolvimento del mandato ed alla salvaguardia degli interessi nazionali e della sicurezza del personale dipendente. Di particolare rilevanza e valenza sono risultate le molteplici attività volte a garantire sicurezza nell’area di responsabilità, le numerose iniziative intraprese nel settore dei concorsi a carattere umanitario forniti alla martoriata popolazione locale e la fattiva collaborazione a favore del neo costituito governo afgano, che. Hanno accresciuto la stima ed il rispetto per il contingente nazionale e favorito il raggiungimento degli obiettivi della missione. Numerose al riguardo, sono state le espressioni di plauso ed ammirazione, formulate nei suoi confronti da autorità militari e politiche, nazionali e straniere, presenti nel teatro di operazioni. Ufficiale superiore di assoluto valore, professionista esemplare, il col figliuolo ha dato prova di elevatissime capacità di comando e non comune spirito di integrazione multinazionale contribuendo, in un difficile e pericoloso contesto operativo internazionale, ad accrescere il lustro ed il prestigio dell’esercito italiano e della nazione”. Kabul, (Afghanistan) ottobre 2004 – febbraio 2005.

Cavaliere Ordine al Merito della Repubblica Italiana. Cenni storici e normativa dell’onorificenza. Data del conferimento: 27/12/2006. Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Croce d’argento al merito dell’Esercito. Cenni storici e normativa dell’onorificenza. Tenente Colonnello. Data del conferimento: 29/03/2002. motivazione: “Comandante del gruppo artiglieria da montagna “AOSTA” inquadrato nella brigata multinazionale ovest operante in Kosovo nell’ambito dell’operazione “JOINT GUARDIAN”, dimostrava di possedere pregevoli doti morali e di carattere e una preparazione professionale completa e di altissimo livello. Impegnato in attività operative di grande rilievo nel delicato settore di GORAZDEVAC, sede della più grande enclave serba del Kosovo, affrontava ogni impegno con determinazione, equilibrio, spiccata iniziativa ed eccezionali capacità organizzative, riuscendo a gestire con notevole efficacia anche situazioni molto difficili. Con grande spirito di abnegazione, sviluppava in prima persona una serie di operazioni complesse e onerose volte a impedire il verificarsi di eventi con possibili tragiche conseguenze, in periodi caratterizzati da grande tensione quale l’anniversario dei bombardamenti nato, garantendo condizioni di elevata sicurezza nell’area. Ufficiale molto generoso e carismatico, costituiva elemento di immediato riferimento nelle circostanze più delicate, nelle quali evidenziava sempre spiccata capacità di guida e lucida visione degli obiettivi, conseguendo risultati di eccezionale livello e meritando il plauso anche di personale straniero. Chiaro esempio di altissima dedizione al dovere e straordinaria professionalità, che ha contribuito in modo significativo ad elevare il prestigio dei, contingente e dell’esercito italiano in ambito internazionale”. Pec, (Kosovo) 08 marzo 2000 – 30 giugno 2000.

Grazia Longo per "la Stampa" il 2 marzo 2021. Molto stimato per le capacità organizzative e l' equilibrio, il generale di corpo d' armata Francesco Paolo Figliuolo, 60 anni, originario di Potenza ma torinese d' adozione, era in corsa per il ruolo di capo di stato maggiore dell' Esercito, posto poi occupato dal generale Pietro Serino. Da ieri, invece, su nomina del premier Mario Draghi, è diventato il nuovo Commissario straordinario per l' emergenza Covid al posto di Domenico Arcuri. In qualità di Comandante logistico dell' Esercito - incarico che riveste dal 7 novembre 2018 - dall' inizio della diffusione della pandemia, ha dato prova di saper gestire l' emergenza con una serie di fruttuose iniziative. Nell' ultimo anno, ad esempio, è proprio grazie al suo impegno che sono stati creati in tempi brevissimi due centri Covid. Uno nella capitale, al policlinico militare del Celio, dove sono stati allestiti 150 posti letto di cui 50 in terapia intensiva e sub-intensiva. Un altro all' ospedale militare di Milano, con 50 posti letto. E sempre a lui si deve il coordinamento dei drive in per effettuare il tampone: ne sono stati istituiti 200 in giro per tutta Italia. Figliuolo ha, inoltre, dato impulso alla riconversione di numerosi laboratori biologici in centri per esami Covid. Più recentemente ha poi contribuito alla realizzazione del centro vaccinazioni anti coronavirus alla Cecchignola, a Roma, e all' invio di 5 ufficiali miliari in Molise appena diventata zona rossa, quattro a Campobasso e uno a Termoli. Negli anni, dopo l' Accademia di Modena, ha maturato varie esperienze e ricoperto molteplici incarichi nella Forza Armata dell' Esercito, interforze e internazionale. È stato comandante del Contingente nazionale in Afghanistan, nell' ambito dell' operazione Isaf (ottobre 2004 - febbraio 2005) e comandante delle Forze Nato in Kosovo (settembre 2014 - agosto 2015), nella stessa area di crisi balcanica che lo aveva già visto impegnato agli inizi degli anni 2000, quale Comandante della Task Force «Istrice» in Goradzevac e, precedentemente, nel '99, nell' ambito dell' organizzazione logistica del Comando Nato-Sfor in Sarajevo. Si ricordano, inoltre, esperienze ad ampio spettro nei campi della formazione di base e avanzata degli Ufficiali dell' Esercito, presso la Scuola di Applicazione di Torino, della pianificazione operativa e dell' addestramento in ambito Nato, presso il Joint Command South di Verona e, non ultimo, della logistica, ricoprendo le funzioni di Capo Ufficio Logistico del Comando delle Truppe Alpine ed in seguito quelle di Capo Ufficio Coordinamento del IV Reparto Logistico dello Stato Maggiore dell' Esercito, dove assumerà i successivi incarichi di Vice Capo Reparto dal novembre 2011 all' agosto 2014 e Capo Reparto dall' agosto 2015 al maggio 2016. Fino al 5 novembre 2018 aveva ricoperto l' incarico di capo ufficio generale del Capo di Stato Maggiore della Difesa, in un momento di fondamentale trasformazione delle Forze Armate in chiave interforze. Tre lauree (Scienze Politiche, Scienze Strategiche e Scienze Internazionali) è stato anche insignito di varie onorificenze: cavaliere dell' Ordine Militare d' Italia, una croce d' oro e una croce d' argento al Merito dell' Esercito, commendatore, Nato meritorius service medal, croce d' oro d' Onore della Bundeswehr, Legion of Merit degli Stati Uniti. Sposato, due figli, condivide con la moglie Enza Maria la passione per il nuoto e lo sci di cui è istruttore militare. Inoltre ama molto la lettura e il calcio: è tifosissimo della Juventus. Uno dei suoi figli, Federico, ha seguito le sue orme nella carriera militare ed è ufficiale negli alpini, mentre l' altro, Salvatore, è avvocato. Appena informato della nomina, il generale Figliuolo si è definito «onorato: metterò tutto me stesso e tutto l' impegno possibile per fronteggiare questa pandemia. Lavorerò per la nostra Patria e i nostri connazionali».

Via gli ultimi residui di contismo a Palazzo Chigi. Draghi cancella il contismo: dopo Arcuri e Borrelli è il turno del comitato tecnico scientifico. Claudia Fusani su Il Riformista il 2 Marzo 2021. A chi chiede il «cambio di passo che non arriva». A chi lamenta «l’assenza di discontinuità». A chi già comincia ad alimentare dubbi: «E vabbè, ma che sta facendo Draghi, quanto dura così…». Per carità, non sono le nomine che fanno la differenza. A volte non è sufficiente una buona squadra per vincere le partite. E non basterà il licenziamento, avvenuto ieri e tenuto coperto fino agli ultimi minuti, del super commissario Domenico Arcuri a sconfiggere la pandemia. La sostituzione del Commissario speciale con un generale di corpo d’armata esperto di logistica nei grandi teatri di crisi internazionali è però il pezzo mancante di un disegno che nel complesso – il ritorno di Curcio alla Protezione Civile, la nomina di Franco Gabrielli sottosegretario alla Presidenza con delega ai servizi segreti – segna il cambio di tattica, strategia e di obiettivi. «I vaccini sono la prima emergenza economica del paese» ha detto il premier chiedendo la fiducia al Parlamento. Sono l’unico modo per combattere la pandemia, far ripartire il paese ed evitare il default economico. La conclusione del mandato ad Arcuri è anche la rimozione di quel che resta del contismo a palazzo Chigi e dintorni. In venti giorni è cambiato molto di più di quello che appare. Persino i 5 Stelle non si sono opposti alla rimozione di colui che per un anno è stato il mr. Wolf italiano. Solo che ha risolto poco. Quasi nulla. Italia viva segna un’altra tacchetta nella lista delle richieste esaudite. Giubilo di Lega, Forza Italia. Giorgia Meloni, che è all’opposizione, addirittura entusiasta. È stato un colloquio cortese ma breve, soprattutto inappellabile quello tra Mario Draghi e il supercommissario Domenico Arcuri. Un dialogo riservato, avvenuto a palazzo Chigi poco dopo le due del pomeriggio, e un attimo prima che il comunicato ufficiale salutasse il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo come nuovo commissario straordinario per l’emergenza Covid. «Cambiamo approccio, non servono più gli acquisti, è necessario vaccinare i cittadini e dobbiamo farlo il prima possibile. È uno spreco, in queste condizioni, tenere un milione e 600 mila dosi in frigorifero» è stato il senso del colloquio tra i due. L’obiettivo del piano vaccini è arrivare a 300 mila dosi al giorno. Siamo a mala pena a centomila. Le varianti del virus hanno fatto aumentare i contagi di 30 mila in una settimana. Sono già 500 le micro zone rosse blindate che sindaci e governatori hanno istituito nel paese per isolare l’infezione. Non c’è tempo da perdere. Tutto questo è diventato un comunicato diffuso ieri alle 15 e 35: «Il Presidente Mario Draghi ha nominato il generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo nuovo commissario per l’emergenza Covid-19. A Domenico Arcuri i ringraziamenti del governo per l’impegno e lo spirito di dedizione con cui ha svolto il compito a lui affidato in un momento di particolare emergenza per il Paese». Semplicemente non esistono i mr. Wolf. E non si può essere adatti a tutte le stagioni e a tutte le emergenze. «Io non faccio troppe cose, ne faccio una sola», combatto la pandemia ha detto pochi giorni fa Arcuri. In effetti, oltre al dossier Ilva e all’agenda di Invitalia, Arcuri in questi mesi ha fatto di tutto, dalle mascherine all’app Immuni, dai banchi a rotelle all’approvvigionamento di siringhe, fino alla sfida più impegnativa, il più grande piano vaccinale nella storia italiana che aveva immaginato in oltre mille tendoni nelle varie città italiane con il logo delle Primule in segno di rinascita. Il Commissario è finito sulla graticola per ciascuna di queste voci, al netto di inchieste giudiziarie (sull’acquisto delle mascherine) che lo vedono coinvolto come parte offesa e su cui presto sarà chiamato dai magistrati per spiegare cosa è successo. E cosa non ha funzionato. Aver speso un miliardo e 200 milioni per 800 milioni di mascherine acquistate tramite intermediari (tutti indagati) dalla Cina (all’epoca l’Italia era sprovvista di Dpi), non gli ha però giovato. Adesso cambia tutto. Nella speranza e con la volontà che funzioni meglio. La squadra che dovrà gestire la pandemia è un “work in progress” che vede Draghi aiutato e confortato nelle scelte da un tecnico come il prefetto Franco Gabrielli che ha lasciato il Viminale e la guida della Polizia di stato per assumere la delega all’intelligence, uno dei civil servant che meglio conosce la macchina dell’emergenza in Italia, quella del terrorismo interno ed esterno; quella della Protezione civile che ha guidato per anni fin da quando fu nominato commissario per la ricostruzione de L’Aquila; quella della macchina della sicurezza, immigrazione compresa. Il primo tassello è stato nominare Francesco Curcio alla guida del Dipartimento della Protezione civile che torna ad essere, dopo la parentesi Arcuri, il braccio armato della lotta alla pandemia. Curcio è già al lavoro e ha chiari gli obiettivi: coordinare i 21 piani regionali (ciascuno ha il suo) per le vaccinazioni; più che raddoppiare le dosi inoculate giornalmente (da 100 a 200 mila con l’obiettivo di arrivare a 300 mila); gestire il piano nazionale e coordinare i 300 mila volontari medici e infermieri più l’Esercito che attendono il via per essere operativi nei vari centri vaccinali che dovranno essere allestiti ovunque. A questo punto entra in gioco il secondo tassello, il generale Figliuolo. Dal 7 novembre 2018 è Comandante Logistico dell’Esercito, il braccio operativo dell’emergenza con la Protezione civile. La fama di Figliuolo è di essere uno in grado di allestire tende e recuperare e rendere agibili strutture in poche ore per garantire gli spazi vaccinali anche nei tanti comuni piccoli e isolati così come nelle grandi città, secondo quei ritmi inglesi che Draghi ha indicato come esempio per combattere la pandemia. L’obiettivo di Curcio e del commissario è rendere omogenea a livello nazionale la tempestività delle vaccinazioni (dunque rivedere le fasce e le convocazioni) e l’attuazione dei piani di prevenzione. Resta un terzo tassello ancora da sistemare: il Comitato tecnico scientifico. Il premier metterà mano, a breve, anche al Cts. È vero che al momento le dosi scarseggiano. Ma a partire da aprile, entro la fine dell’anno, arriveranno in Italia 27 milioni di dosi. Un tesoro che non può essere sprecato. Intanto vanno usate tutte quelle che ci sono, mai più rimanenze nei frigoriferi, prevedere una sola dose senza il richiamo (con Astrazeneca ma il Cts nicchia) per dare una protezione anche se non totale al numero più alto di persone.

·        Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 26 febbraio 2021. «Come mi sento? Sono felice», prova a svicolare Angelo Borrelli, il capo della Protezione civile ormai uscente, nel giorno in cui il nuovo premier, Mario Draghi, ha appena deciso di richiamare in via Vitorchiano al posto suo Fabrizio Curcio, 55 anni, ingegnere, che il Dipartimento aveva già guidato dal 2015 al 2017 con Borrelli vice. Accelerare la campagna vaccinale, combattere con ogni mezzo la pandemia, questo ha detto Draghi sin dal primo giorno: «Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare, ricorrendo alla Protezione civile, alle Forze armate, ai tanti volontari...». La Protezione civile, dunque, in prima linea anche per i vaccini. Perciò serviva un uomo adatto alle emergenze e Curcio lo è di sicuro. Chiamato alla Protezione civile nel 2007 da Guido Bertolaso, già l'anno dopo gli venne affidata la speciale sezione della gestione calamità: ed ecco l'alluvione di Messina, il terremoto dell'Aquila del 2009, quello in Emilia e poi nel 2012 il disastro della Costa Concordia, naufragata all'isola del Giglio, quando Curcio fece squadra con il capo della missione, Franco Gabrielli, che adesso ritrova a Palazzo Chigi nel ruolo strategico di sottosegretario ai servizi segreti e alla sicurezza. Tra i due c'era un'intesa fortissima già allora e proprio da Gabrielli, poi, Curcio ereditò il comando del Dipartimento, nel 2015, affrontando nel triennio in carica (durante i governi Renzi e Gentiloni) il sisma del centro-Italia e la tragedia di Rigopiano. Fino alle dimissioni presentate nel 2017 per motivi di salute. Oggi, però, anche quel problema personale per fortuna è superato e forse non è un caso che la nomina di Curcio abbia seguito di appena un giorno quella dell'ex capo della Polizia a sottosegretario alla Sicurezza. L'avvicendamento alla Protezione civile sembra il primo passo di una ristrutturazione, decisa dal governo, delle varie strutture che si occupano dell'epidemia da Covid 19. Tra gli osservati speciali ci sono adesso la governance del commissario Domenico Arcuri ma anche la composizione del Comitato tecnico scientifico (Cts), a cui Draghi ha già raccomandato nei giorni scorsi più moderazione nelle comunicazioni pubbliche. In realtà ieri Angelo Borrelli, l'uomo dei 55 bollettini consecutivi in diretta tv, l'anno scorso, da febbraio ad aprile, durante la prima ondata del coronavirus, c'è rimasto male («Alt, basta così, no comment»). Il suo mandato con la fine del governo Conte era ormai in scadenza, ma lui si aspettava la riconferma, che invece non è arrivata e anzi la notizia nel pomeriggio non gli è stata neppure comunicata direttamente dal nuovo inquilino di Palazzo Chigi. Per lui solo una nota, piuttosto stringata, con «i ringraziamenti per l'impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni». Con Curcio, comunque, nessun problema: «Siamo in ottimi rapporti, abbiamo passato una vita insieme», aggiunge Borrelli, che alla Protezione civile entrò nel 2002 e assieme allo stesso Curcio e ad Agostino Miozzo, oggi coordinatore del Cts, è stato uno dei fedelissimi di Guido Bertolaso. Da parte di Curcio, per ragioni di garbo istituzionale, aspettando l'insediamento che avverrà lunedì, per ora nessun commento. Funzionario di Stato di lungo corso, entra giovane nei Vigili del fuoco e già nel '97 dirige la colonna mobile del Veneto intervenuta per il sisma in Umbria e nelle Marche. Tre anni dopo, è ancora in prima linea a Roma per il Giubileo del 2000. Ma anche in questi ultimi anni non ha certo smesso di lavorare: nel 2018 coordina la cabina di regia di Palazzo Chigi nella Terra dei Fuochi, nel 2019 diventa responsabile di «Casa Italia», il Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio che guida il coordinamento dei soggetti istituzionali impegnati nel ripristino dei territori colpiti da eventi calamitosi. Suo il sistema di «omogeneizzazione delle linee di ricostruzione post-terremoto», là dove un tempo regnava l'anarchia più assoluta.

IL PREMIER DRAGHI NOMINA FABRIZIO CURCIO ALLA GUIDA DELLA PROTEZIONE CIVILE. Il Corriere del Giorno il 26 Febbraio 2021. Ha già ricoperto l’incarico dal 2015 al 2017 accanto a Guido Bertolaso, prende il posto di Angelo Borrelli . Nei prossimi giorni è atteso un parere tecnico del Comitato Tecnico Scientifico sulla situazione epidemiologica nelle scuole, richiesta dai governatori regionali alla luce della diffusione delle nuove varianti del Covid. A Palazzo Chigi si è tenuto ieri mattinata il Consiglio dei Ministri e successivamente una cabina di regia con il premier Mario Draghi ed alcuni ministri delle forze di maggioranza: Roberto Speranza, Stefano Patuanelli, Dario Franceschini, Maria Stella Gelmini, ed altri per fare il punto sul nuovo Dpcm che presto verrà inviato alle Regioni. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha nominato Fabrizio Curcio Capo Dipartimento della Protezione civile. “Ad Angelo Borrelli  i ringraziamenti per l’impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni” si legge in una nota di Palazzo Chigi. Fabrizio Curcio classe 1966, ha lavorato negli anni da funzionario del Corpo dei vigili del fuoco nel terremoto di Umbria e Marche del 1997, ha coordinato il corpo al Giubileo 2000 e al vertice di Pratica di Mare del 2002. Chiamato da Guido Bertolaso a dirigere dal 2007 la segreteria alla Protezione Civile. L’anno successivo nel 2008 passa alla guida della Sezione di Gestione di Emergenze: l’alluvione di Messina, quelle in Liguria e Toscana, il Terremoto dell’Aquila del 2009, quello in Emilia e la Costa Concordia fra i disastri gestiti. È già stato capo della Protezione Civile, dopo Franco Gabrielli, dall’aprile 2015 fino all′8 agosto 2017, quando ha rassegnato le dimissioni per ragioni personali.

Nei prossimi giorni è atteso un parere tecnico del Comitato Tecnico Scientifico sulla situazione epidemiologica nelle scuole, richiesta dai governatori regionali alla luce della diffusione delle nuove varianti del Covid. A portare all’attenzione del Governo la richiesta delle Regioni sono stati i ministri delle Autonomie e dell’Istruzione, Mariastella Gelmini e Patrizio Bianchi. Nei prossimi giorni quindi il Cts si esprimerà e darà un quadro sulla diffusione del Covid negli istituti.

Curcio va alla Protezione Civile. Chi è e perché Draghi lo ha scelto. Ha gestito in diversi ruoli alcune delle più gravi emergenze del Paese degli ultimi trent'anni: Fabrizio Curcio ora torna a capo della Protezione civile. Francesca Galici - Ven, 26/02/2021 - su Il Giornale. Le prime indiscrezioni parlavano di una discussione all'ordine del giorno del Consiglio dei ministri per la sostituzione di Angelo Borrelli. Al termine del vertice, invece, sembrava che non ci fosse stato modo di parlare della Protezione civile e che, anzi, non era da escludere la possibilità di riconferma. Invece, quasi a sorpresa, con una nota di Palazzo Chigi è stato annunciato l'arrivo di Fabrizio Curcio al posto di Angelo Borrelli, ringraziato in maniera formale per il lavoro svolto negli ultimi anni. Mario Draghi ha messo a segno il primo colpo nel suo progetto di riorganizzazione delle strutture per la gestione dell'emergenza coronavirus e non è da escludere che il prossimo obiettivo sia Domenico Arcuri, commissario straordinario tuttofare. Fabrizio Curcio è un uomo esperto, abituato a prendere decisioni e a lavorare in condizioni di forte stress. Lavora da tantissimi anni in veste di funzionario di Stato con ruolo sempre più decisivi. Classe 1966, è un ingegnere laureato alla Sapienza di Roma, con un Master in Sicurezza e Protezione. Ha già ricoperto il ruolo di capo della Protezione civile a partire dal 3 aprile 2015 e fino all'agosto del 2017, quando si dimise per motivi personali. Al suo posto venne nominato proprio Angelo Borrelli, già vicecapo dipartimento. Ha operato sul campo nella gestione di alcune delle più grandi emergenze degli ultimi trent'anni del nostro Paese, tra le quali il terremoto in Umbria e Marche nel 1997, quando in veste di responsabile della sezione operativa della colonna mobile dei Vigili del fuoco del Veneto ha fatto parte della spedizione per i soccorsi immediati nei luoghi maggiormente colpiti dal sisma. Nel 2000 ha organizzato il sistema di sicurezza per il Giubileo in veste di coordinatore dei Vigili del fuoco e due anni dopo ha svolto lo stesso lavoro per il vertice Nato di Pratica di Mare. Vista l'esperienza maturata sul campo e i successi ottenuti, nel 2008 viene messo a capo dell’Ufficio Gestione delle emergenze. È in questo ruolo che coordina i soccorsi per il terremoto de L'Aquila del 2009 e per quello dell'Emilia Romagna nel 2012. Ha fatto capo a lui anche la gestione del naufragio della Costa Concordia all'Isola del Giglio, in particolare ha gestito l’emergenza e le fasi di recupero e allontanamento della nave con incarico di Franco Gabrielli.

La Protezione civile si inceppa e cerca scuse Curcio contro i giornali. Come capo della Protezione civile, a partire dal 2015, è stato impegnato nella gestione dell'emergenza del terremoto di Amatrice del 2016 e poi per i terremoti successivi che si verificarono tra ottobre 2016 e gennaio 2017 tra Umbria, Marche, Abruzzo e Lazio. Quelle operazioni, soprattutto nel periodo invernale, furono rese ancora più complicate dalle abbondanti nevicate che sommersero le zone colpite dal sisma. A seguito del terremoto di gennaio 2017 va anche aggiunta la frana che colpì l'hotel Rigopiano in Abruzzo, che rappresentò un'altra emergenza da gestire per Fabrizio Curcio. Nel 2018 ha seguito il "Protocollo d’intesa per un’azione urgente nella Terra dei fuochi".

Decisione di Draghi: ritorno dopo quattro anni. Chi è Fabrizio Curcio, il nuovo capo della Protezione civile: via Angelo Borrelli. Redazione su Il Riformista il 26 Febbraio 2021. Fabrizio Curcio è il nuovo Capo del Dipartimento della Protezione civile. La nomina è arrivata venerdì 26 febbraio da parte del presidente del Consiglio Mario Draghi. Curcio, 55 anni, succede ad Angelo Borrelli cui fanno – si legge nella nota della presidenza del Consiglio – i ringraziamenti per l’impegno profuso e il lavoro svolto in questi anni. Per Curcio si tratta di un ritorno al vertice della Protezione civile: il nuovo numero uno di via Vitorchiana aveva ricoperto l’incarico dal 2015 al 2017 quando si dimise per motivi personali lasciando il posto ad Angelo Borrelli il cui mandato è terminato con la fine dell’esperienza del governo Conte. Dopo due rinnovi, l’avvicendamento con Curcio. Una scelta voluta dal neo premier Mario Draghi intenzionato ad affidare il comando della Protezione Civile – in un momento così delicato per il Paese – a qualcuno che ne conoscesse bene il funzionamento. Classe 1966, laurea in ingegneria alla Sapienza di Roma, con i vigili del fuoco Curcio aveva lavorato in prima linea nel terremoto di Umbria e Marche del 1997 e coordinato il Giubileo del 2000 e il vertice Russia-Nato del 2002 a Pratica di Mare. Alla Protezione civile è arrivato nel 2007 con Guido Bertolaso, che lo chiamò come capo segreteria, per poi passare a dirigere la sezione emergenze. In prima linea, dunque, sul terremoto dell’Aquila del 2009 e il caso Costa Concordia (2012), nel 2015 Curcio era stato nominato alla guida del Dipartimento al posto di Franco Gabrielli, nominato capo della polizia. Nel suo mandato si è trovato ad affrontare il terremoto del centro Italia (Amatrice-Norcia-Visso) e la tragedia dell’hotel Rigopiano (gennaio 2017). Sempre nello stesso anno le dimissioni con una lettera all’allora premier, Paolo Gentiloni, in cui spiegava che “il ruolo di Capo del Dipartimento della Protezione Civile è unico, necessariamente assorbente e totalizzante per chi lo ricopre, dati tutti i rischi presenti sul territorio italiano e il complesso ma strepitoso Sistema di componenti e strutture operative che ruota intorno al Dipartimento stesso ” e che “tutte le energie devono essere dedicate a svolgere nel miglior modo possibile questa funzione senza soluzione di continuità, giorno e notte, h24 come diciamo in gergo. Purtroppo, per motivi strettamente personali, non sono più, in questo momento, nella possibilità di garantire il cento per centro della mia concentrazione e del mio impegno per continuare a ricoprire tale ruolo“. Il presidente del Consiglio ha ringraziato molto Curcio per il lavoro svolto in questi anni, “con una dedizione, una passione, una energia e una competenza straordinarie”.