Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

QUARTA PARTE

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

  

 

 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

INDICE PRIMA PARTE

 

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Burocrazia Ottusa.

Il Diritto alla Casa.

Le Opere Bloccate.

Il Ponte sullo stretto di Messina.

Viabilità: Manutenzione e Controlli.

Le Opere Malfatte.

La Strage del Mottarone.

Il MOSE: scandalo infinito.

Ciclisti. I Pirati della Strada.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Insicurezza.

La Strage di Ardea.

Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.

Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.

La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.

Le Disuguaglianze.

Martiri del Lavoro.

La Pensione Anticipata.

Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.

L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.

Malasanità.

Sanità Parassita.

La cura maschilista.

L’Organismo.

La Cicatrice.

L’Ipocondria.

Il Placebo.

Le Emorroidi.

L’HIV.

La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.

La siringa.

L’Emorragia Cerebrale.

Il Mercato della Cura.

Le cure dei vari tumori.

Il metodo Di Bella.

Il Linfoma di Hodgkin.

La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?

La Miastenia.

La Tachicardia e l’Infarto.

La SMA di Tipo 1.

L'Endometriosi, la malattia invisibile.

Sindrome dell’intestino irritabile.

Il Menisco.

Il Singhiozzo.

L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.

Vi scappa spesso la Pipì?

La Prostata.

La Vulvodinia.

La Cistite interstiziale.

L’Afonia.

La Ludopatia.

La sindrome metabolica. 

La Celiachia.

L’Obesità.

Il Fumo.

La Caduta dei capelli.

Borse e occhiaie.

La Blefarite.

L’Antigelo.

La Sindrome del Cuore Infranto.

La cura chiamata Amore.

Ridere fa bene.

La Parafilia.

L’Alzheimer e la Demenza senile.

La linea piatta del fine vita.

Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Introduzione.

I Coronavirus.

La Febbre.

Protocolli sbagliati.

L’Influenza.

Il Raffreddore.

La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Il contagio.

I Test. Tamponi & Company.

Quarantena ed Isolamento.

I Sintomi.

I Postumi.

La Reinfezione.

Gli Immuni.

Positivi per mesi?

Gli Untori.

Morti per o morti con?

 

INDICE QUINTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Alle origini del Covid-19.

Epidemie e Profezie.

Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.

Gli errori dell'Oms.

Gli Errori dell’Unione Europea.

Il Recovery Plan.

Gli Errori del Governo.

Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.

CTS: gli Esperti o presunti tali.

Il Commissario Arcuri…

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.

Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.

 

INDICE SESTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

2020. Un anno di Pandemia.

Gli Effetti di un anno di Covid.

Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.

La Sanità trascurata.

Eroi o Untori?

Io Denuncio.

Succede nel mondo.

Succede in Germania. 

Succede in Olanda.

Succede in Francia.

Succede in Inghilterra.

Succede in Russia.

Succede in Cina. 

Succede in India.

Succede negli Usa.

Succede in Brasile.

Succede in Cile.

INDICE SETTIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Vaccini e Cure.

La Reazione al Vaccino.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Furbetti del Vaccino.

Il Vaccino ideologico.

Il Mercato dei Vaccini.

 

INDICE NONA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Coronavirus e le mascherine.

Il Virus e gli animali.

La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.

Le Fake News.

La manipolazione mediatica.

Un Virus Cinese.

Un Virus Statunitense.

Un Virus Padano.

La Caduta degli Dei.

Gli Sciacalli razzisti.

Succede in Lombardia.

Succede nell’Alto Adige.

Succede nel Veneto.

Succede nel Lazio.

Succede in Puglia.

Succede in Sicilia.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Reclusione.

Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.

Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.

Covid e Dad.

La pandemia è un affare di mafia.

Gli Arricchiti del Covid-19.

 

 

 

 

 

L’AMMINISTRAZIONE

QUARTA PARTE

 

IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Introduzione.

Antonio Giangrande, autore del saggio “IL COGLIONAVIRUS”.

Covid-19: lo conosco; li conosco.

Il virus: mi ha colpito pesantemente. Ho rispettato tutte le regole imposte dagli incompetenti. Regole inutili visti i risultati di morti ed infetti, nonostante si voglia dare la colpa alla gente ligia al dovere. In ospedale mi hanno somministrato 15 litri di ossigeno con la saturazione del sangue a 82. Stavo per morire e non me ne rendevo conto. In ospedale ho visto morire gente che stava meglio di me. Un attimo prima scherzavano e ridevano; un attimo dopo annaspavano come se affogassero in mare. Non avevo ossigeno, ma avevo spirito, tanto da darlo agli altri. Mi sono salvato solo grazie alle cure sperimentali assunte su mia piena responsabilità, ma negate ai malati ignoranti o inconsapevoli sedati, incapaci di decidere.

Gli esperti: tutti si elevano a professoroni in tv nel parlare di qualcosa che non si conosce e quindi che non conoscono. Sballottando di qua e di là i cittadini, in base alle loro opinioni cangianti dalla sera alla mattina.

I Negazionisti, ossia i coglioni sani, asintomatici o pauci sintomatici che non ci credono alla pericolosità del virus: dicono che sono un miracolato, perché avevo patologie pregresse, o, comunque,  non curate. Tutto falso. I morti per Covid-19 sono il frutto della malasanità, specialmente quella nordica, falsamente eccelsa tanto pubblicizzata in tv, e/o di protocolli sanitari criminali. Sono menzogne divulgate da media prezzolati dal Potere incompetente ed incapace. Protocolli sanitari internazionali, giusto per dire: tutto il mondo è paese. Protocolli imposti da chi diceva che il Coronavirus non era pandemia. Dal dietrofront sulle mascherine al saluto con il gomito, dagli asintomatici “non contagiosi” fino all’uso dei guanti: perché l’Oms inanella brutte figure? Ero sanissimo, più di altri. Uno sportivo di arti marziali che a 57 anni riusciva, prima, e riesce, ancora dopo, a fare 22 chilometri di corsa in un’ora e 45 minuti e con la bici da cross in 41 minuti. Per il mio lavoro ero e sono chiuso in casa da mattina a sera. Se ha colpito me, colpisce tutti.

I NoVax: cosa mi sentirei di dire a chi osteggia il vaccino? Cazzi loro. Di Covid-19 c’è ne per tutti, anche per loro. Mi spiace solo per i loro familiari, vittime inconsapevoli. Perché questa è una malattia che si trasmette, specialmente, alle persone più vicine. E poi direi che il vaccino non è solo la panacea di tutti i mali, ma sicuramente è la speranza che si possa uscire da quest’incubo. E chi non si nutre di speranza: muore disperato. Dr Antonio Giangrande

Coronavirus: “310 giorni in ospedale, 2 mesi in coma. Al risveglio credevo di essere stato rapito”. Matteo Gamba su Le Iene News il 12 febbraio 2021. Maurizio Sacchetto, 57 anni, nessuna altra malattia, ci racconta l’incubo Covid che lo ha portato più volte vicino alla morte durante 310 giorni di ricovero in cui ha perso 28 chili. Con una cosa che vuol dire subito a chi si ha ancora dubbi sul Covid. “Ai negazionisti, a chi non crede ancora al coronavirus voglio dire subito una cosa: fatevi un giro nei reparti di rianimazione dove sono stato. Date un’occhiata alle lastre e guardate come sono ridotti i polmoni dei malati di gravi di Covid”. Maurizio Sacchetto è appena uscito da un lunghissimo incubo, quello del Covid che ha preso a 57 anni in una forma molto grave. Il 9 febbraio è uscito dall’ospedale dopo 11 mesi, 310 lunghissimi giorni. Ci era entrato il 29 marzo 2020: nelle foto qui sopra lo vedete prima e dopo la malattia. Ci ha contattato, prima via email su redazioneiene@mediaset.it, per lanciare proprio il suo messaggio con la sua storia a chi non crede ancora oggi al coronavirus. Il secondo appello è per tutti: “State attenti, il coronavirus è subdolo. Non ho altre malattie, ero in buona salute, ho sempre fatto sport e una vita sana. Mai fumato, al massimo un bicchiere di vino a cena. Tutto questo non mi ha salvato dal finire più volte vicino alla morte”. “Pensavo fosse una normale influenza e ho aspettato una settimana prima di fami ricoverare. Il dubbio ce l’avevo ma il dottore mi ha detto di evitare se possibile il pronto soccorso perché, se non avevo il Covid, lì rischiavo di prenderlo”, ci racconta al telefono Maurizio, che lavora per l’azienda dei rifiuti Amiat di Torino e che dovrà aspettare ancora altro tempo prima di tornare al suo posto. “Era l’inizio della pandemia, stavo attento a tutto, penso di essermi contagiato qualche giorno prima andando a mangiare una pizza con un amico in difficoltà. Non avevo fame, la febbre saliva fino a 39 poi scendeva con la tachipirina, è iniziata anche la tosse. Sono andato all’ospedale San Giovanni Bosco: mi hanno portato subito in rianimazione e intubato, avevo la saturazione a 70”. “Anche all’arrivo al pronto soccorso, quel 29 marzo, non capivo quanto ero vicino alla morte, pensavo che sarei guarito a breve”, prosegue. “Sono stato portato subito in coma farmacologico e per due mesi sono stato di fatto incosciente tra coma e rianimazione. Ho rischiato la vita più volte: in aprile ho avuto un’emorragia ai polmoni perdendo un litro e mezzo di sangue. Ho recuperato una piena coscienza solo a maggio. Ricordo che non sapevo dov’ero, avevo paura di essere stato rapito. Mi ha rassicurato un’infermiera: "Sono la moglie di un tuo collega, sei in ospedale, i tuoi cari sono stati avvertiti". Era maggio”. “Sono diventato negativo al coronavirus a luglio ma ho dovuto affrontare tantissime complicazioni, tra cui sei infezioni, e ora una lunghissima riabilitazione. Si era parlato perfino di trapianto di polmoni. Quando mi hanno tirato su dal letto per la prima volta non ce la facevo neanche a tener su la testa. In ottobre ho ricominciato a mangiare cose liquide, in novembre a camminare. Avevo perso 28 chili: a marzo ne pesavo 76, ero arrivato a 48. Ne ho ripresi 14 ma la strada è ancora lunga anche se sto meglio e sono a casa. Mi hanno fatto la tracheotomia per farmi respirare con una cannula e il buco nella gola non si è richiuso, potrebbe servire un altro intervento. Sono stati tutti eccezionali, medici e infermieri del San Giovanni Bosco e del San Luigi di Orbassano, dove ho fatto la riabilitazione. Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno salvato per l’eccezionale professionalità e umanità”.

L’ingiusta fine dei “morti evitabili”. Andrea Massardo su Inside Over il 10 gennaio 2021. Con l’arrivo della pandemia di coronavirus in Europa nello scorso inverno, gli ospedali di tutto il continente sono stati colpiti da una domanda di assistenza che nessun sistema sanitario europeo aveva mai messo in conto. Ambulanze in coda all’ingresso dei pronti soccorso e sirene accese che attraversano le città per tutta la notte non sono diventate che l’immagine di questi ultimi dieci mesi della nostra quotidianità. E l’alta contagiosità del patogeno ha impattato anche sul modo stesso in cui sono state gestite le strutture ospedaliere e sul modo in cui gli stessi pazienti – negativi al coronavirus ma affetti da altre patologie – sono stati tenuti in considerazione. Tutto questo, però, avrà sul lungo periodo una grandissima serie di conseguenze in grado di generare un vero e proprio esercito di “morti evitabili“, così come sono stati definiti dal medico britannico Chris Whitty in un lungo approfondimento sul The Sunday Times.

Gli ospedali rischiano di cedere. Come riportato sempre dalla testata britannica, la situazione che si sta vivendo in questo momento nel Regno Unito è emblematica di come gli sforzi compiuti dalla popolazione non siano stati sufficienti a contenere la diffusione del patogeno. E soprattutto, credere che l’arrivo del vaccino sia la naturale fine del ciclo epidemico già a distanza di pochi mesi è una pura e semplice visione fantascientifica. Il vero problema, infatti, è la capacità di tenuta del sistema sanitario, il quale non deve preoccuparsi “solamente” dei pazienti positivi al Covid-19 ma deve occuparsi anche di tutti coloro che necessitano quotidianamente di assistenza medica. Malati di tumore, sieropositivi, persone affette da gravi patologie, diabetici e persone che devono recarsi almeno tre volte a settimana in ospedale per le dialisi. Tutti esponenti molto fragili della nostra società che con la pandemia rischiano quasi di passare in cavalleria, come se il mondo si dimenticasse completamente di loro. Ma la percentuale di affetti da queste patologie, purtroppo, è ancora più alta di coloro che sono entrati in contatto con il coronavirus.

In Italia rischiamo lo stesso problema. Da quando il coronavirus è entrato nella nostra quotidianità, a quasi tutti noi è capitato di subire o di conoscere qualcuno a cui è stato notificato un rimando di un intervento medico definito come “non urgente” e dunque posticipabile ad una non meglio specificata data del futuro. E tutti, dunque, abbiamo avuto contatto diretto con quelle che sono le problematiche tecniche e organizzati che sta affrontando quotidianamente il sistema sanitario italiano e che alle volte hanno portato anche alla cancellazione di un intervento programmato. Tuttavia, benché questa quotidianità vada avanti ormai dalla scorsa primavera, il problema nel nostro Paese non è sostanzialmente migliorato. Ancora adesso le operazioni “non urgenti” vengono posticipate sin tanto che non lo saranno diventate – se non addirittura oltre, come già purtroppo accaduto – delineando di conseguenza uno scenario che denota una carenza organizzativa che travalica il semplice sistema ospedaliero, arrivando sino alle fondamenta dell’attuale organigramma politico nazionale.

Senza potenziare di conseguenza l’apparato organizzativo alla base della gestione della pandemia, purtroppo, il quadro della situazione – come emerso negli ultimi mesi – potrebbe essere destinato a peggiorare ulteriormente. In uno scenario in cui sempre più malati negativi al coronavirus rischieranno di vedere anteposta al proprio diritto ad essere curati la necessità di non creare affollamenti all’interno delle strutture sanitarie. In una situazione contradditoria, che evidenzia però la sostanziale inadeguatezza di molti approcci operativi che sono stati utilizzati nell’ultimo periodo, molti dei quali rischiano di generare un’ondata di morti che, come definiti dal primario medico britannico, sarebbero stati altrimenti evitabili.

Coronavirus, nuovo piano pandemico 2021-23: "Se le risorse sono scarse, scegliere chi curare prima". Libero Quotidiano l' 11 gennaio 2021. "Se le risorse sono scarse, scegliere chi curare prima": è questo uno dei punti cruciali indicati nella bozza del nuovo Piano pandemico 2021-23. Nel documento, infatti, si legge: “Quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio”. La bozza, elaborata dal dipartimento Prevenzione del ministero della Salute con tutte le misure da adottare in caso di pandemie, prevede anche: capacità di produrre velocemente mascherine e dispositivi di protezione individuale a livello, possibilità di realizzare in tempi brevi nuovi posti letto in terapia intensiva, scorte nazionali di farmaci antivirali e formazione continua degli operatori sanitari.

Grazia Longo per "la Stampa" il 12 gennaio 2021. Meglio tardi che mai. È finalmente pronta la bozza del nuovo piano pandemico 2021-2023 che, sulla scorta dell'emergenza coronavirus sostituirà il piano influenzale datato 2006, poi aggiornato, ma di fatto rimasto identico rispetto alla sua formulazione originaria. E già non mancano le polemiche, soprattutto per la possibilità di privilegiare chi curare. Tra le novità della bozza del nuovo piano strategico, che verrà poi sottoposta alle Regioni, ci sono la necessità di produrre velocemente mascherine e dispositivi di protezione individuale a livello nazionale sia per medici e infermieri sia per i cittadini, la possibilità di realizzare in tempi brevi nuovi posti letto in terapia intensiva, l'esigenza di scorte nazionali di farmaci antivirali e di una formazione continua degli operatori sanitari. Il testo della bozza, elaborato dal ministero della Salute, prevede inoltre esercitazioni, definizione della catena di comando e azioni di monitoraggio dell'attuazione. Preziose saranno un'anagrafe vaccinale nazionale, la predisposizione di piattaforme informatiche per il monitoraggio sei servizi sanitaria, una comunicazione costante tra le varie autorità. Viene poi ribadito che è possibile scegliere chi curare per prima nel caso in cui mancano le risorse. «Quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità - si legge nel testo -, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio». Si precisa tuttavia che «non è consentito agire violando gli standard dell'etica e della deontologia ma può essere necessario per esempio privilegiare il principio di beneficialità rispetto all'autonomia, cui si attribuisce particolare importanza nella medicina clinica in condizioni ordinarie. Condizione necessaria affinché il diverso bilanciamento tra i valori nelle varie circostanze sia eticamente accettabile è mantenere la centralità della persona». Nel documento, si sottolinea anche che «la preparazione a una pandemia influenzale è un processo continuo di pianificazione, esercitazioni, revisioni e traduzioni in azioni nazionali e regionali, dei piani di risposta. Un piano pandemico è quindi un documento dinamico che viene implementato anche attraverso documenti, circolari, rapporti tecnici». Il dilagare del Covid «conferma l'imprevedibilità di tali fenomeni e che bisogna essere il più preparati possibile ad attuare tutte le misure per contenerli sul piano locale, nazionale e globale». Per questo è necessario disporre di «sistemi di preparazione che si basino su alcuni elementi comuni rispetto ai quali garantire la presenza diffusamente nel Paese ed altri più flessibili da modellare in funzione della specificità del patogeno che possa emergere». Il piano pandemico dovrà pure definire le procedure per i trasferimenti e trasporti di emergenza, oltre al monitoraggio centralizzato dei posti letto e la distribuzione centralizzata dei pazienti. Riferendosi quindi ai piani regionali, nella bozza si osserva che questi «devono essere attuati dopo 120 giorni dall'approvazione del Piano nazionale e ogni anno va redatto lo stato di attuazione». Tra le 140 pagine della bozza, stilata dal Dipartimento Prevenzione del ministero, è più volte rimarcata la necessità di una «formazione continua finalizzata al controllo delle infezioni respiratorie e non solo, in ambito ospedaliero e comunitario» con un'attiva collaborazione tra livello nazionale e servizi sanitari regionali.

Da "corriere.it" il 5 gennaio 2021. Negava la pericolosità del Covid-19, lo escludeva come causa delle morti, non credeva alle immagini delle corsie ospedaliere stracolme, era scettico che le ambulanze con la sirena azionata trasportassero malati di Covid. Ora Daniele Egidi, 54 anni, di Fano, tecnico informatico in tribunale, si è ammalato di Covid-19 e ha ammesso, in un’intervista sulle pagine locali del Resto del Carlino, «la lettura alterata fatta fino ad ora» del virus. Egidi ha ora una polmonite bilaterale, è stato ricoverato in ospedale con un’ossigenazione all’86% e respira con l’ossigeno. Dal 30 dicembre era assistito nel reparto Covid a Pesaro e da oggi le sue condizioni hanno imposto il trasferimento nel reparto di Pneumologia dove viene monitorato costantemente: non ha febbre ma è debole. «Non avevo capito, rifiutavo inconsciamente l’idea che la pandemia fosse grave, - ha aggiunto - minimizzavo culturalmente l’emergenza sanitaria. Qui, mi sono reso conto di esser stato per circa un anno fuori dalla realtà. Forse è brutto dirlo ma bisogna passarci. Ora vedo che le corsie stracolme sono vere, - ha detto ancora - che medici e altro personale fanno l’impossibile per salvare le vite delle persone, e io che pensavo a una messinscena del potere. Le parole negazioniste, comprese le mie, hanno fatto danni, hanno messo a rischio la vita delle persone, e non me rendevo conto». «Ora ne capisco tutta la portata, - ha proseguito a proposito di idee e parole pronunciate nel precedenza - ero affascinato dalle parole e dalla determinazione di una marea negazionista che nei siti ha sempre una risposta a tutto. Ero attratto. Ora mi si è spalancato un mondo che nemmeno immaginavo, qui tutto segue una logica e un suo percorso». «Se posso dare un giudizio a quello che sto vivendo qui dentro, dico che non sempre va messo in discussione quello che ci capita, bisogna fidarci e affidarsi agli altri. - ha detto ancora Egidi - Io non mettevo la mascherina fuori dal lavoro, la ritenevo inutile. Sbagliavo, e io oggi pago sulla mia pelle quella essere stato cieco». «Spero che le mie parole possano servire a qualcuno per evitare il mio errore di sottovalutazione o negazione. - ha concluso - Il Covid-19 mette a rischio la vita della gente, per favore proteggetevi ed evitatelo».

Medici no-vax, come fate a disconoscere la scienza? Gianluigi Nuzzi su Notizie.it 11/01/2021. Il medico che si pone contro scelte prevalenti disconosce il sistema sanitario stesso, lo dichiara illegittimo nelle sue scelte e quindi non può più rappresentarlo. Cari medici e infermieri contrari ai vaccini, da giorni mi interrogo su come un dottore con il giuramento di Ippocrate nel cuore e a sigillo della propria professionalità possa dichiararsi obiettore rispetto al vaccino contro il Covid 19. E non certo per il numero di morti che questa pandemia ormai conta in tutto il mondo con effetti dirompenti sulla mortalità annua. Infatti secondo l’Istat il covid ha fatto incrementare di quasi il 9% il numero di decessi nel nostro paese. Lo stupore è dovuto al fatto che il medico obiettore a conclusione di un suo percorso logico a noi ignoto ritiene che il vaccino o non sia efficace o non sicuro e quindi ritiene etico non somministrarlo. La fragilità di questo ragionamento è presto detto. Se infatti questo arbitrio venisse generalizzato a tutti i farmaci e allargato a tutti i medici dovremmo attenderci dai dottori atteggiamenti individuali e soggettivi non solo sui vaccini ma anche sulle cure, sui singoli farmaci. Ogni medico dovrebbe seguire lo stesso processo mentale per ogni medicina ed esame che prescrive. E questo rallenterebbe le cure provocando complicazioni fino alla morte del paziente. Per questo in una società strutturata come la nostra farmaci e vaccini prima di essere somministrati seguono un iter di approvazione da parte di enti e strutture delegate dallo Stato e quindi dalla comunità. Il fatto poi che proprio questo iter venga preso di mira da medici obiettori, ritenendolo troppo modesto e rapido rispetto all’approvazione di vaccini nel passato è un’altra follia perché basa la valutazione soggettiva prevalente rispetto a quella scientifica. “L’approvazione di questo vaccino è stato più veloce di quelle nel passato e quindi non è affidabile” – ripetono alcuni di loro, dimenticando alcuni punti fondamentali: lo sforzo internazionale per vincere il Covid 19, l’impegno di ricerca finanziario impiegato da aziende farmaceutiche, comunità scientifiche e stati, l’appartenenza del Covid19 alla famiglia della Sars già nel mirino da anni degli scienziati, e si potrebbe continuare. Ma soprattutto il medico che si pone contro scelte prevalenti, disconosce il sistema sanitario stesso, lo dichiara illegittimo nelle sue scelte e quindi non può più rappresentarlo. Anche perché un atteggiamento di questo tipo non rientra nelle scelte etiche e di libertà del medico. Pensate solo cosa accadrebbe se in un piccolo paesino quello che una volta veniva chiamato il “medico condotto” si rifiutasse di vaccinare la popolazione anziana, esponendola a rischi incalcolabili. Qui c’è in ballo la vita. Non a caso, l’ordine dei medici su tutto il territorio sta perseguendo chi incrocia le braccia. Si tratta di poche centinaia di dottori su oltre 400mila camici bianchi, siamo quindi di fronte a una percentuale assai esigua ma che assume rilevanza in un paese democratico come il nostro dove la cronaca giustamente ascolta anche le minoranze.

Da liberoquotidiano.it il 9 marzo 2021. Fabrizio Roncone ne fa una questione di coerenza. Ospite dell'Aria Che Tira, il giornalista si trova di fronte a Paola Taverna, grillina da sempre contraria ai vaccini. "Visto che lei evoca la memoria, mi chiedevo se provi un poco di vergogna nel ricordare le parole che lei usava nei confronti dei vaccini da accanita sostenitrice No Vax, ha cambiato idea?", chiede la firma del Corriere della Sera rompendo gli indugi. Immediata la replica della senatrice del Movimento 5 Stelle che alle accuse replica stizzita: "Abbia l'accortezza anche li di provare un po' vergogna per come la stampa ha strumentalizzato quella fase. Ho un disegno di legge per informare la popolazione sui vaccini piuttosto che obbligarla". "Questa - e qui la Taverna strappa un sorriso a Roncone - la posizione politica che ho sempre sostenuto fin dall'inizio. C'è un testo di legge che dimostra la mia buonafede". Parole che non convincono il giornalista, tanto da sospirare ogni tre per due. Ed ecco che a quel punto interviene Myrta Merlino nella speranza di riportare la calma nello studio di La7: "Taverna, parliamo di futuro che è più importante", esordisce per poi chiedere: "Oggi per lei i vaccini vanno fatti senza se e senza ma". "Oggi i vaccini, in questa fase, sono indispensabile - risponde a sua volta la Cinque Stelle -, specialmente nel rispetto di chi non ha potuto farlo. Ma ribadisco che è sempre stata questa la mia posizione". Roncone non si arrenda: "Senatrice, la risposta è secca: i vaccini si devono fare o lei fa ancora dei distinguo". La replica però arriva a metà: "Io dico che i vaccini vanno fatti e che le persone vanno informate sulla loro importanza e sulle politiche sanitarie da affrontare in questo Paese". E Roncone rimane perplesso.

Da corrieredellosport.it il 14 gennaio 2021. Francesca Benevento è esponente del XII municipio della capitale e convinta no vax. Infatti, sulla sua pagina Facebook pubblica molti post contro le vaccinazioni scatenando le reazione del pubblico social. Questo è uno dei suoi ultimi post: "Di preciso i medici che si sottopongono a questo vaccino cosa vogliono dimostrare? Forse un atto di fede verso il loro aguzzino? Pur sapendo che per un vaccino occorrono 5 anni, pur non conoscendo il contenuto del veleno (che sarà noto forse fra 2 anni), pur sapendo che le case farmaceutiche sono coperte da immunità per qualsiasi danno biologico si sottopongono a ciò che gli viene richiesto dai governanti corrotti o meglio da un Bill Gates che ci vuole tutti morti e i rimanenti controllati da remoto? Forse la loro vita e la loro salute valgono così poco quanto il loro stipendio?" . Per una volta Pd e Lega si schierano dalla stessa parte e definiscono la consigliera Francesca Benevento "una squilibrata" che in modo assolutamente incontrollato scrive sui social messaggini 100% no vax. Infatti il suo profilo è popolato solo con post che invitano a non vaccinarsi e condividendo storia assolutamente discutibili.

Da lastampa.it l’1 maggio 2021. I carabinieri del Ros hanno arrestato i responsabili dell'attentato incendiario avvenuto contro un hub vaccinale a Brescia lo scorso 3 aprile. Si tratta di un 51 e un 52enne, entrambi bresciani e del movimento no-vax, accusati di terrorismo. Sono state eseguite nelle province di Brescia e Verona delle perquisizioni nei confronti di alcuni conoscenti degli indagati che apparterrebbero allo stesso movimento. L'ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere è stata emessa dal gip del Tribunale di Brescia Alessandra Sabatucci, su richiesta della procura della Repubblica diretta da Francesco Prete. Contestualmente, sono state eseguite nelle province di Brescia e Verona delle perquisizioni nei confronti di alcune persone rientranti nel circuito relazionale degli indagati. In particolare, il provvedimento cautelare è il risultato delle indagini condotte dal Dipartimento antiterrorismo della Procura di Brescia e dai Carabinieri del Ros e del comando provinciale di Brescia, coordinati dal sostituto procuratore Francesco Carlo Milanesi e dall'aggiunto Silvio Bonfigli Secondo gli investigatori, l'incendio alimentato dagli ordigni - non propagatosi all'intero padiglione solo per la resistenza ignifuga della tensostruttura e per altre cause fortuite - era potenzialmente idoneo a causare danni devastanti alla struttura nella quale erano stoccate diverse centinaia di dosi di vaccino nonché altro materiale infiammabile, danni che avrebbero potuto ripercuotersi negativamente sulla campagna vaccinale anti Covid. A pochi metri dal principio di incendio corrono cavi elettrici che se fossero stati interessati dalle fiamme avrebbero interrotto l'alimentazione della catena del freddo così rendendo inutilizzabili i vaccini. Nel sito colpito vengono infatti somministrate circa 1000 dosi di vaccino al giorno. Le indagini, condotte in tempi brevi anche mediante il ricorso alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, si sono subito concentrate sull'analisi dei sistemi di videosorveglianza e rilevazione targhe dei veicoli presenti sul territorio del Comune di Brescia, e hanno consentito di individuare il mezzo utilizzato dai dai due per raggiungere il centro vaccinale.

No Vax e negazionisti scatenati sul web: sono ex grillini. Li guida Francesca Benevento, consigliere a Roma. Mia Fenice giovedì 14 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Francesca Benevento, ex grillina, consigliera nel XII municipio di Roma non crede nel Covid ed è come una no-vax. Nel 2009 aveva abbandonato il Movimento 5 stelle per passare al gruppo misto. In queste ore l’attenzione dei media si accesa su di lei dopo che ha pubblicato sulla sua pagina Facebook alcuni post anti-Covid e anti-vaccino. In uno degli ultimi parla dei medici che si sono vaccinati e cita anche un Bill Gates che ci vorrebbe tutti morti, in linea con le numerose teorie complottiste sulla «riduzione della popolazione mondiale».

Francesca Benevento, il post sui medici che fanno il vaccino. «Di preciso – scrive – i medici che si sottopongono a questo vaccino cosa vogliono dimostrare? Forse un atto di fede verso il loro aguzzino? Pur sapendo che per un vaccino occorrono 5 anni, pur non conoscendo il contenuto del veleno (che sarà noto forse fra 2 anni), pur sapendo che le case farmaceutiche sono coperte da immunità per qualsiasi danno biologico si sottopongono a ciò che gli viene richiesto dai governanti corrotti o meglio da un Bill Gates che ci vuole tutti morti e i rimanenti controllati da remoto? Forse la loro vita e la loro salute valgono così poco quanto il loro stipendio?».  Parole che non sono sfuggite e che sono state riprese da molti giornali, dal Corriere dello Sport a Open  per finire al Mattino: ma  nel primo pomeriggio del 14 gennaio poi il post è sparito dalla pagina Facebook dell’ex grillina.

Francesca Benevento sul vaccino Rna. Scorrendo i post ce n’è uno del 12 gennaio. «Il Dna non supporta l’impianto dei microchip, il vaccino Rna effettua una mutazione genetica affinché il nostro corpo diventi da supporto per i #quantum #dots». Francesca Benevento sul Covid pare abbia le idee ben precise: «Il Covid è stato creato per arrivare a comandare l’uomo dall’interno, non più con la tv, i programmi spazzatura, lo sdoganamento della morale, l’emergere di cattivi esempi. Con un cerottino che inietterà i quantum dots sarete interconnessi con la rete (sì proprio come un elettrodomestico a distanza) e tramite l’#entaglement sarete telecomandati da un altro luogo, in cui è stata conservata copia dell’elettrone intrecciato al vostro su cui si farà ciò che si vuole fare con voi. Molti sostengono che siano già passati ad iniettarli direttamente con il vaccino e con il tampone tramite microparticelle di grafene immesse nel nostro organismo».

«Dominio e sorveglianza mondiale grazie al 5G». E poi ancora: «#Dominio e sorveglianza mondiale grazie al 5G e le onde elettromagnetiche. Si può curare una persona o farla ammalare o sedarla, in caso di rivoltosi, ed addirittura ucciderla da remoto procurandogli un infarto o simili. Sono miliardi di milioni di soldi per le case farmaceutiche e vuoi mettere il potere totale sulle masse addormentate tramite campi elettromagnetici ed impulsi? Per arrivare a questo sono disposti a tutto. Una modifica dei codici creazionali nel Dna umano che sono a immagine e somiglianza di Dio. I vaccini a mRna, messaggeri e codificanti per il Dna, modificano la firma del Creatore e attraverso questa manipolazione, formano una nuova specie di umani: impuri e schiavi».

Chi è Francesca Benevento. Su Facebook Francesca Benevento ha oltre 4mila follower. Un centinaio tra i like e le condivisioni. Come riporta Repubblica, laureata in architettura, sul suo curriculum presente sul sito di Roma Capitale si legge che è iscritta all’albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici Anac e a quello dei consulenti tecnici d’ufficio del tribunale di Roma in qualità di architetto, progettista e pianificatore.

I suoi post creano polemiche. I suoi post non sono passati inosservati e hanno scatenato polemiche. «È assurdo», dice a Repubblica la presidente del XII municipio, la 5S Silvia Crescimanno. Per Lorenzo Marinone, consigliere Pd, «è inaccettabile che una rappresentante delle istituzioni esprima posizioni simili, così lontane dalla realtà». Dello stesso avviso anche Giovanni Picone della Lega  che sempre su Repubblica rincara la dose. : «Ennesimo delirio di questa consigliera di chi ricopre ruoli istituzionali e dovrebbe avere maggior equilibrio nelle dichiarazioni anche per rispetto delle migliaia vittime e degli sforzi degli operatori sanitari».

Da inbici.net il 13 gennaio 2021. Si tratta di Riccardo Riccò. Sì, proprio lo stesso corridore che nel febbraio di dieci anni fa, era stato ricoverato in ospedale a Modena in gravi condizioni perché – come lui stesso aveva confessato ai medici – si era iniettato una sacca di sangue conservata in frigorifero da 25 giorni.  “Leggo di una marea di persone che dicono che il vaccino deve essere obbligatorio!!!! Ma stiamo scherzando !!!! – ha scritto sulla sua pagina facebook il 37enne di Formigine – Io faccio quello che voglio del mio corpo. Nessuno può costringermi a fare qualcosa che, se avesse effetti negativi su il mio corpo, a rimetterci sarei solo io. Quindi: voi fatevi pure iniettare non so quale m….da, ma non rompete il c….zo alla gente come me che si è informata molto bene (da amici medici) e che non si farà un bel c…..zo di vaccino”. Il post, va detto, non è più visibile sul suo profilo social e non è ancora chiaro se sia stato lo stesso Riccò a rimuoverlo oppure – come lui stesso scrive – sia stato bannato da facebook. Le sue parole, tuttavia, hanno subito sollevato uno sciame di prevedibili polemiche visto che la “predica” no-vax arriva da un atleta squalificato a vita per aver fatto uso di doping. L’ergastolo sportivo – lo stesso comminato a Danilo Di Luca e a Lance Armstrong – era arrivato proprio il mese scorso con la sentenza della prima sezione del Tribunale nazionale antidoping. Il 19 aprile del 2012 l’ex ciclista, attualmente residente a Formigine dove gestisce una gelateria, era stato inibito a 12 anni con scadenza 2024 per la pratica dell’autoemotrasfusione. Nel 2008, dopo il secondo posto al Giro d’Italia, Riccò era stato trovato positivo al Tour de France dove aveva anche vinto 2 tappe.

Umberto Rapetto per infosec.news il 31 gennaio 2021. Oltre 50 manifestanti hanno forzato la cintura di sicurezza che regolava l’accesso al Dodger Stadium, il complesso sportivo dove gioca la squadra di baseball di Los Angeles che adesso è uno dei più importanti centri di vaccinazione della California. La manifestazione di protesta, organizzata dal gruppo “Shop Mask Free Los Angeles” contro vaccini, maschere e restrizioni, ha costretto i vigili del fuoco a chiudere precauzionalmente l’ingresso dello stadio per oltre un’ora e le forze di polizia a intervenire per ripristinare l’ordine. Andrea Garcia, portavoce del sindaco Eric Garcetti, ha assicurato che – nonostante quella che visto il contesto si può considerare una sorta di “invasione di campo” – nessun appuntamento è stato cancellato grazie ad una organizzazione che aveva pianificato ogni genere di imprevisto e che ha saputo gestire anche questa fastidiosa circostanza. Tra i manifestanti c’erano membri di gruppi No-Vax e di organizzazioni di estrema destra che inneggiavano all’inesistenza del coronavirus e urlavano la pericolosità della vaccinazione. I casi confermati di Covid-19 in California hanno superato quota 3 milioni e 200 mila e più di 40.000 persone (una su 1.000 californiani) sono morte per complicazioni da coronavirus. Un post sui social media ha descritto l’evento “Scamdemic Protest March”, il cui nome Scamdemic è la fusione di Scam (truffa o imbroglio) e Pandemic. Gli organizzatori hanno consigliato ai partecipanti di non indossare indumenti o sciarpe “Trump / MAGA” o di non sventolare analoghi vessilli e bandiere per spersonalizzare la protesta da qualunque riferimento politico. Non ci sono stati arresti ma la manifestazione è stata lo spunto per una intensificazione delle misure di sicurezza e per il perfezionamento delle dinamiche di intervento per l’eventuale ripetersi di simili episodi. Nonostante l’incoraggiamento degli organizzatori a contenere il proprio comportamento evitando eccessi, molti manifestanti hanno riempito la strada di accesso allo stadio con cartelli del tipo “Salva la tua anima! Torna indietro ora!” oppure “La CNN ti sta mentendo” o ancora “Togliti la maschera! Cosa aspetti?”. Analoghe incitazioni arrivavano con slogan urlati al megafono da attivisti che strillavano “Torna indietro fin che puoi!” o “Sei un topo da laboratorio”. Probabilmente situazioni di quella risma non troveranno spazio dalle nostre parti, ma – vista l’istrionica capacità di stupire che caratterizza gli italiani – “non si può mai sapere….”. Forse è il caso di considerare gli incidenti di Los Angeles come una sorta di lezione gratuita, di una prova d’orchestra. Se mai si dovessero verificare assembramenti pilotati ad ostruire il regolare funzionamento delle strutture di vaccinazione o, ancor peggio, si concretizzasse una protesta più o meno energica, non si dica che non lo si poteva prevedere.

L’IGNORANZA È PIÙ CONTAGIOSA DEL VIRUS. Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 2 gennaio 2021. Gli ignoranti pensano sempre di avere ragione, e più il loro livello di ignoranza è alto, più tendono drammaticamente a sovrastimare quello della loro conoscenza, e il motivo per cui si considerano più capaci e più informati degli altri sta nel fatto che tali soggetti, a causa delle loro carenze cognitive, non sono in grado di riconoscere i livelli di competenza di altre persone, per cui la loro incompetenza li priva della capacità metacognitiva di comprendere le proprie mancanze, con l’ effetto di credersi più intelligenti e più abili di quello che realmente sono. La consapevolezza di non sapere è sempre stata una rarità, e purtroppo, soprattutto in queste settimane, siamo costretti ad ascoltare dichiarazioni ed opinioni gravemente devianti di persone totalmente inesperte in campo scientifico che si elevano a intenditori specializzati, esprimendo concetti che non stanno in piedi e sparando sentenze funeree sulla presunta pericolosità dei Vaccini anti-Covid19, senza essere sfiorati da alcun dubbio di ignoranza. Niente paura però, perché gli ormai noti ‘negazionisti’ sono afflitti dal cosiddetto “Effetto Dunning-Kruger”, che non è una malattia mentale e nemmeno una sindrome, ma un pregiudizio cognitivo, una distorsione intellettiva e culturale che induce queste persone con poca cognizione e nessuna esperienza sull’ argomento vaccinale a non essere in grado, a causa della loro incompetenza, di accorgersi che il loro ragionamento, le loro scelte e le loro conclusioni sono semplicemente sbagliate, per non definirle ridicole. Questo fenomeno è qualcosa che tutti noi abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita, con cui abbiamo avuto a che fare quando ci siamo imbattuti in qualcuno talmente convinto della propria ragione da non cambiarla nemmeno dopo molte smentite pertinenti e inoppugnabili, come i dati scientifici pubblicati, e tale mancanza di metacognizione porta tali soggetti ad essere sempre più ignoranti della propria ignoranza, dettata dalla pesante carenza di conoscenze di base incomplete. L’ effetto Dunning-Kruger è strettamente legato a quella che è chiamata “superiorità illusoria”, una caratteristica psichiatrica che accomuna i soggetti con conoscenza incompleta e fuorviante che ne subiscono l’influenza, e che elevano le proprie convinzioni, le decisioni che prendono e le azioni che intraprendono, inconsapevoli che la loro incompetenza deriva dalla loro inettitudine. La "superiorità illusoria" fa sì che tali persone non siano in grado di valutare se stesse dal punto di vista soggettivo, giudicandosi altamente qualificate, competenti e superiori alle altre, illudendosi di essere più sapienti, traendo conclusioni a dir poco imbarazzanti, e la propria illusorietà impedisce loro di vedere razionalmente le enormi lacune cognitive che li affliggono. Il problema di chi subisce l’effetto Dunnig-Kruger però, è che tale fenomeno è molto contagioso, poiché facilmente esso diventa da individuale a sociale, coinvolgendo una platea sempre più estesa di ignoranti, che si riconoscono tra loro per affinità, si fidelizzano e si accomunano, come sta accadendo con la negazione dell’ efficacia terapeutica dei vaccini contro il Coronavirus, i cui detrattori non si mettono in dubbio, bensì mettono in discussione pubblica la sua inesistente pericolosità, continuando a crogiolarsi nel loro piccolo e misero sapere senza saper valutare l’estensione della propria ignoranza in materia. Gli ignoranti inoltre, sono spesso arroganti, esibiscono un’ autostima esagerata e sproporzionata che esprimono con affermazioni eccessive e presuntuose, accompagnate dalla convinzione di essere nel giusto, di avere sempre ragione, un meccanismo di difesa tipicamente infantile che dimostra la celata insicurezza di base, ovvero di ignoranza. Gli ignoranti seguono il conformismo senza batter ciglio, senza porsi delle domande, vivono la loro vita soltanto applicando il pensiero dicotomico del buono e cattivo, del giusto e sbagliato, dell’ utile o inutile, banalizzando tutto ciò che non fa parte dei loro bisogni. Sono persone superficiali che non riescono ad argomentare un discorso articolato, svalutando chi ha facoltà intellettive superiori, tendendo facilmente all’ira quando non riescono a raggiungere i loro scopi o ad essere ascoltati, e sfogando la loro frustrazione diventano frequentemente bellicosi quando la loro dissonanza cognitiva viene messa in discussione, temendo che le opinioni contrarie o semplicemente intelligenti possano far crollare il loro castello di carta. L’ignoranza è difficile da eliminare, e andrebbe appunto ignorata o combattuta soprattutto dagli organi di informazione e comunicazione, specie quelli del servizio pubblico, che invece tendono a dar voce, in contrapposizione agli scienziati riconosciuti, ai personaggi mediatici più disparati e ignoranti in materia, tipo Enrico Montesano, Daniela Martani, Heather Parisi o peggio Eleonora Brigliadori, i quali diffondono disinformazione e notizie false, legate alla loro ignoranza, sostenendo addirittura bestialità come quella che il vaccino Rna modifichi il codice genetico, e le cui comparsate in Tv e sui social hanno depistato e confuso i pazienti che li seguono, opponendo riserve di nessuna rilevanza scientifica e seminando ulteriori dubbi tra il popolo degli incompetenti come loro. L’ignoranza purtroppo crea spesso diffidenza nei confronti della scienza, quella scienza alla quale dovremmo inchinarci e che dovremmo tutti ringraziare per aver sintetizzato miracolosamente in pochi mesi l’arma terapeutica del Vaccino anti-Covid19, l’unico farmaco sicuro ed efficace contro la pandemia che salverà innumerevoli vite, incluse quelle dei negazionisti che non si infetteranno grazie alla vaccinazione di massa delle persone non ignoranti, quelle che si faranno somministrare il siero e che loro continueranno a criticare e a ridicolizzare. Salvo poi, nella sfortunata situazione di vedere un proprio caro o loro stessi ricoverati e intubati in un reparto Covid di rianimazione, invocare con l’ultimo filo di voce il vaccino salvavita che avevano fino al giorno prima disprezzato, denigrato e deriso.

Covid: il contagio è quasi impossibile all’aperto. Notizie.it il 10 gennaio 2021. Un contagio da Covid all'aperto è una possibilità remota: lo dimostrano gli studi di CNR e ARPA. Rischio più alto se si è chiusi in casa. Il contagio da Covid è quasi impossibile all’aperto. A dimostrarlo un recente studio da parte di CNR e ARPA. Il contagio sarebbe una possibilità remota anche se ci si trova in luoghi più malsani con un’elevata presenza di smog. Bisogna stare attenti, invece, se si è nel chiuso della propria casa. Un’affermazione in fondo già ovvia, ma è anche giusto ricordare queste regole basilari per prevenire l’infezione. La recente scoperta è totalmente italiana. Gli studi sono iniziati partendo proprio dai reparti Covid delle strutture sanitarie. Dopo le opportune ricerche all’interno dei reparti ospedalieri si è scoperto come il coronavirus sia più presente nel chiuso delle case, piuttosto che nelle strutture sanitarie. All’aria aperta, invece, il virus sostanzialmente risulta non esserci. Ovviamente i ricercatori non invitano a uscite di massa senza mascherina, questo è meglio ribadirlo! I rilievi scientifici che hanno confermato i risultati della ricerca sono stati svolti sia in strada sia nelle abitazioni di alcuni soggetti positivi al coronavirus. Proprio nel chiuso delle case di queste persone contagiate le concentrazioni del virus risultano essere presenti in maniera più consistente. Nell’aria della casa di un infetto è possibile trovare, infatti, fino a 40:50 copie genomiche del virus su metro cubo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI  2021

REGIONE

Gennaio

Febbraio

Marzo

Aprile

Maggio

Giugno

 

VALLE D’AOSTA

7.800

8.057

9.350

10.990

11.601

11.693

 

PIEMONTE

223.611

248.289

311.864

346.275

360.483

362.944

 

LOMBARDIA

539.147

605.216

739.967

806.759

835.578

841.961

 

VENETO

312.695

334.250

384.471

412.813

423.433

425.478

 

TRENTO

27.580

34.115

41.371

44.077

45.459

45.775

 

BOLZANO

40.483

53.925

69.071

71.277

72.913

73.315

 

FRIULI

67.663

76.984

98.210

105.372

107.025

106.957

 

LIGURIA

69.817

78.287

90.034

99.635

102.780

103.445

 

EMILIA ROMAGNA

219.702

263.194

337.620

370.190

383.986

386.888

 

TOSCANA

134.829

157.112

197.005

227.737

241.581

244.327

 

UMBRIA

36.194

44.762

51.082

54.538

56.400

56.856

 

MARCHE

55.676

68.303

88.633

97.964

102.716

103.445

 

SARDEGNA

38.660

41.236

45.854

54.691

56.695

57.246

 

LAZIO

206.165

235.272

287.285

324.823

342.218

346.037

 

ABRUZZO

43.007

54.664

65.508

71.444

74.075

74.874

 

MOLISE

8.408

10.732

12.306

13.259

13.590

13.720

 

CAMPANIA

223.179

269.515

339.547

393.742

419.644

424.419

 

PUGLIA

123.286

147.681

195.381

235.971

250.646

253.381

 

BASILICATA

13.244

15.710

19.639

24.155

26.340

26.964

 

CALABRIA

32.942

38.031

47.480

60.411

67.006

68.989

 

SICILIA

136.869

153.036

175.405

209.487

226.135

231.833

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTAGIATI  2021

REGIONE

Luglio

Agosto

Settembre

Ottobre

Novembre

Dicembre

 

VALLE D’AOSTA

11.769

12.022

12.140

12.310

13.222

16.574

 

PIEMONTE

365.973

372.766

379.208

385.055

400.190

502.219

 

LOMBARDIA

853.492

870.382

884.125

894.769

935.047

1.254.634

 

VENETO

437.066

455.494

469.574

480.822

519.814

659.993

 

TRENTO

46.430

45.521

48.394

49.396

52.300

64.329

 

BOLZANO

73.818

75.130

76.980

79.110

88.630

101.608

 

FRIULI

108.084

110.944

113.845

117.301

131.774

158.419

 

LIGURIA

105.500

109.942

112.785

114.981

122.948

151.492

 

EMILIA ROMAGNA

394.934

412.269

424.089

432.679

457.044

549.175

 

TOSCANA

252.675

271.803

282.467

289.841

302.055

396.593

 

UMBRIA

58.429

61.820

63.836

65.246

67.629

92.680

 

MARCHE

105.688

110.686

113.951

116.277

124.334

147.083

 

SARDEGNA

62.365

72.373

75.334

76.208

79.006

89.125

 

LAZIO

359.244

375.003

384.836

395.591

425.209

517.619

 

ABRUZZO

76.267

79.165

81.281

83.034

87.894

110.499

 

MOLISE

13.939

14.276

14.503

14.669

15.236

17.109

 

CAMPANIA

431.440

446.268

456.695

467.572

491.746

597.150

 

PUGLIA

256.189

263.852

268.812

273.009

279.751

312.157

 

BASILICATA

27.424

29.018

30.175

30.778

31.618

37.137

 

CALABRIA

71.081

78.048

83.918

87.608

93.222

112.976

 

SICILIA

242.541

277.705

298.810

308.527

324.951

378.368

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI  2021

REGIONE

Gennaio

Febbraio

Marzo

Aprile

Maggio

Giugno

 

VALLE D’AOSTA

24

10

10

34

13

1

473

PIEMONTE

898

517

961

937

370

       53

11.696

LOMBARDIA

1947

1.253

2.459

2060

698

162

33.782

VENETO

2341

882

801

679

219

47

11.616

TRENTO

195

61

78

59

13

4

1.362

BOLZANO

133

164

91

32

13

5

1.180

FRIULI

749

426

478

389

77

1

3.789

LIGURIA

491

247

253

300

135

27

4.351

EMILIA ROMAGNA

1702

1056

1.418

909

296

53

13.262

TOSCANA

517

469

694

822

523

145

6.870

UMBRIA

164

267

203

98

45

17

1.419

MARCHE

397

281

381

303

74

19

3.036

SARDEGNA

235

180

72

149

78

26

1.491

LAZIO

1230

889

766

1009

499

154

8.339

ABRUZZO

252

239

436

263

376

-272

2.784 (2.512)

MOLISE

76

84

88

38

13

0

491

CAMPANIA

901

533

1.120

987

811

268

7.484

PUGLIA

747

724

896

1046

614

134

6.642

BASILICATA

70

48

71

89

45

11

590

CALABRIA

117

92

135

192

157

56

1.228

SICILIA

1068

648

491

773

419

135

5.974

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MORTI  2021

REGIONE

Luglio

Agosto

Settembre

Ottobre

Novembre

Dicembre

 

VALLE D’AOSTA

0

0

1

0

5

9

488

PIEMONTE

-54

21

45

52

79

166

12.059

LOMBARDIA

45

96

126

113

234

699

35.095

VENETO

26

47

87

57

144

418

12.395

TRENTO

1

3

6

6

12

33

1.423

BOLZANO

4

1

8

10

38

66

1.307

FRIULI

1

13

20

33

134

235

4.225

LIGURIA

12

23

24

16

42

119

4.587

EMILIA ROMAGNA

21

89

105

118

202

434

14.231

TOSCANA

43

107

155

108

126

153

7.562

UMBRIA

5

9

16

15

26

14

1.504

MARCHE

3

7

32

29

45

97

3.249

SARDEGNA

11

81

59

32

23

32

1.729

LAZIO

65

116

138

141

193

283

9.275

ABRUZZO

2

16

15

17

33

45

2.640

MOLISE

1

3

2

1

6

8

512

CAMPANIA

110

158

192

119

170

238

8.471

PUGLIA

27

44

81

41

51

101

6.987

BASILICATA

1

8

5

10

3

8

635

CALABRIA

27

61

92

43

50

124

1.625

SICILIA

73

322

463

187

195

300

7.514

 

 

Totale:

6.266.939 casi totali

5.107.729 dimessi-guariti

137.513 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).

Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.

 

 

Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 29 gennaio 2021. In piena crisi politica e col Paese bloccato in attesa dell'esito delle consultazioni, sulla scrivania del presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte è finito un dossier dell'intelligence che ridisegna drammaticamente al rialzo l'andamento pandemico degli ultimi due mesi. E che preoccupa i collaboratori più stretti del premier. I nuovi positivi giornalieri in Italia sarebbero in realtà il 40-50 per cento in più di quelli rilevati ufficialmente. «Il totale dei contagiati è sottostimato a causa del calo del numero dei tamponi avvenuto a metà novembre 2020», scrivono gli analisti. Che lanciano due allarmi: la curva epidemiologica non sta piegando verso il basso tanto quanto attestano i bollettini diramati dal ministero della Salute; i dati al momento sono inattendibili e quindi difficili da analizzare e da usare per prendere misure adeguate di contenimento del virus. Il dossier degli 007 Il Covid-19, col suo violento impatto sanitario e sociale, è diventato fin da subito materia di sicurezza nazionale, prioritaria per le nostre agenzie di intelligence. Con l' aiuto di statistici e matematici, di recente hanno elaborato un modello predittivo che, alla prova dei fatti, è risultato essere efficace. Il 25 dicembre scorso, infatti, stimava in 86.500 il numero dei decessi totali che l' Italia avrebbe raggiunto nei successivi trenta giorni: il 26 gennaio la conta delle vittime del Covid ha toccato quota 86.422, con un errore, rispetto alla previsione, dello 0,09 per cento. Irrisorio. Il modello matematico da loro adottato sembra funzionare. Come arrivano però a sostenere che il sistema italiano di sorveglianza, composto da ministero della Salute, Protezione civile e Regioni, sta sottostimando i contagi? Con un calcolo che si basa sulla proporzione matematica tra nuovi ingressi nelle terapie intesive («fotografano la situazione delle due settimane precedenti, indipendemente dai tamponi») e la quota giornaliera di positivi aggiornata dal bollettino.

L'ONDATA FANTASMA. «Osservando le terapie intensive nella parte finale dell'anno, si può dedurre che vi è stata una fase di ripresa dell'epidemia verso la metà dicembre. Una ripresa che non è stata rilevata né tracciata dai numeri nazionali a causa dei pochi test effettuati in quel periodo», si legge nel dossier. Secondo l' intelligence, quindi, poco prima di Natale la curva è tornata a salire e la riprova sta nel fatto che i pazienti a rischio vita negli ospedali non sono diminuiti come ci si aspettava: la cifra è rimasta stabile, oscillando intorno alle 2.580 unità. Non ci siamo accorti del rialzo della curva perché nei bollettini ministeriali veniva detto il contrario, e cioè che dal picco del 13 novembre (+ 40.902 contagiati) in avanti la conta delle nuove positività è andata progressivamente calando, salvo un breve sussulto intorno al 25 dicembre. Dov'è l' errore? Perché la sottostima?

I TAMPONI BUGIARDI. Il pasticcio statistico ruota attorno ai tamponi. Nella settimana tra l' 11 e il 17 novembre ne sono stati processati un milione e mezzo, il numero più elevato registrato fino ad allora. Da quel momento, però, i test hanno preso a diminuire arrivando agli 868 mila della settimana tra il 23 e il 29 dicembre, salvo poi schizzare a 1,4 milioni dal 13 gennaio in poi per effetto dell' inclusione, nel conteggio, dei tamponi antigenici rapidi. Prima ai fini del computo valevano solo quelli molecolari, poi il ministero della Salute ha ammesso anche gli altri. Ma è questo il passaggio che, secondo il dossier dell' intelligence, ha complicato il quadro, generando il caos. «L' introduzione dei test rapidi ha reso impossibile un confronto con le serie storiche passate. Alcune Regioni, inoltre, non fanno distinzione tra il molecolare e il rapido, è ciò ha evidenti ripercussioni sul calcolo di tutti i valori, tra cui il rapporto positivi/tamponi». Il rapporto, sostengono, va rivisto, scorporando i rapidi e, soprattutto, togliendo quelli fatti per confermare l' avvenuta guarigione. «Sono solo i tamponi di prima diagnosi a fotografare la reale situazione epidemiologica, e a partire da metà novembre abbiamo visto un brusco calo di questa tipologia». Ad oggi i test di conferma sarebbero il 65 per cento del totale: troppi per non alterare sensibilmente la rappresentazione della curva del contagio. Rischio ripresa incontrollata Repubblica, sul punto, ha chiesto un parere al professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo di fama internazionale e assessore regionale in Puglia. «È vero che le positività sono sottostimate, anche più di quanto rileva il dossier. Ed è vero che in questo momento il trend non è valutabile. I dati che abbiamo da analizzare derivano dai sistemi di sorveglianza, che per loro natura sottostimano i fenomeni. Sono utili per valutare l' andamento, ma nel momento in cui interviene una modifica, come nel caso dell' inclusione nella statistica dei tamponi rapidi, bisogna aspettare un po' prima che torni attendibile». Tradotto: in questo momento è impossibile fare un' analisi realistica e attendibile sulla base dei dati pubblicati. È quello che segnala anche la nostra intelligence, invitando il governo alla massima prudenza sulle riaperture. Sostengono infatti che abbassare la guardia in questi giorni, «in cui stanno terminando gli effetti benefici delle misure "rosse" imposte sotto Natale», e soprattutto ha preso a circolare in maniera importante la variante inglese e brasiliana del Covid-19, «potrebbe portare a una nuova ripresa incontrollata dell' epidemia, difficilmente sostenibile dal sistema ospedaliero, vicino alla soglia di saturazione».

L’Iss e i contagi sottostimati: “Quelli veri sono il quadruplo”. Michele Bocci su La Repubblica il 30/1/2021. Brusaferro interviene sull’allarme dei Servizi. Crisanti: “Distinguere tra rapidi e molecolari”. Sappiamo tutti che i sistemi di sorveglianza non possono essere esaustivi: noi stimiamo che il numero dei positivi intercettati sia in rapporto di 1 a 3, a anche di 1 a 4 rispetto ai positivi reali». Il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro commenta la ricerca dell’Intelligence pubblicata da Repubblica secondo la quale il totale dei contagiati è «sottostimato a causa del calo del numero di tamponi avvenuto a metà novembre 2020». Brusaferro aggiunge: «Naturalmente con i nostri dati peschiamo più i sintomatici. Rimane il fatto che ci possono essere positivi asintomatici, inconsapevoli di esserlo, quindi la circolazione del virus è superiore rispetto a quella che riusciamo a vedere». Flavia Riccardo, ricercatrice dell’Istituto superiore di sanità che partecipa anche alla Cabina di regia, spiega che la sorveglianza «ci permette di seguire l’andamento dell’epidemia, quindi non ha bisogno di intercettare tutti i casi. E infatti quando descriviamo le curve dei contagi non parliamo di numeri assoluti, ma di tendenza. Si fa così in tutto il mondo». Sempre secondo l’Intelligence, a complicare il quadro dei dati nelle ultime settimane c’è stata l’introduzione nel conteggio dei test antigenici rapidi, dei quali non si conosce il reale peso nelle varie Regioni rispetto ai tamponi “tradizionali”, quelli molecolari. «C’è stato un cambiamento della definizione di “caso” da parte delle istituzioni sanitarie internazionali — dice Riccardo — È collegato all’evoluzione molto rapida degli strumenti diagnostici a disposizione. Usare i test rapidi ha un impatto sul numero dei casi confermati. Però bisogna osservare i dati con cautela, non possono essere fatti paragoni tra periodi diversi, ad esempio tra quando questo esame non c’era e quando invece è stato utilizzato. Anche paragonare Regioni diverse può indurre in errore». Per Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia di Padova, i dati dell’Intelligenge sono credibili e bisogna cercare le differenze tra positività trovate con tamponi rapidi e molecolari. Se i positivi trovati con i rapidi sono un numero molto diverso vuol dire «o che i tamponi rapidi vengono usati male o non sono affidabili». Questi test «a cui sfuggono i positivi, hanno contribuito ad aggiungere confusione a una situazione poco chiara visto il tracciamento saltato. Io li avrei confinati in situazioni specifiche e non usati come una sorta di lasciapassare sociale».

Come leggere i dati sull’eccesso di mortalità per Covid-19. Alberto Bellotto su Inside Over il 21 gennaio 2021. La pandemia ha portato con sé un diluvio di numeri. Bollettini quotidiani con il numero dei casi, delle vittime e dei tamponi fatti. Poi è arrivato l’indice Rt, il tasso di positività e i primi conteggi sui vaccini. È facile perdersi in questa infinità di dati. Alla fine dell’anno l’Istat ha pubblicato nuove rilevazioni in merito al tasso di mortalità che vanno contestualizzate e spiegate. Numeri preoccupanti che raccontano del debito che il Paese ha pagato alla pandemia. Come ha evidenziato Federico Fubini sul Corriere della Sera, nel periodo tra marzo e novembre del 2020 l’Italia ha visto un incremento dei decessi rispetto alla media del periodo precedente di 85 mila persone. Nel lasso di tempo considerato hanno infatti perso la vita 547.369 italiani rispetto alla media di 461.746 calcolata nel quadriennio precedente.

Un’Italia a macchia di leopardo. La fredda contabilità ci dice che la mortalità è cresciuta del 19% nel giro di un anno. Questo numero racconta però molto poco la realtà che ci circonda. Per avere un quadro più completo e veritiero di come la pandemia ha colpito alcune zone più di altre, è necessario gettare uno sguardo sui territori. I dati dell’Istituto nazionale di statistica mostrano infatti un’Italia a macchia di leopardo. La provincia che ha pagato il debito più alto è stata Bergamo. Centrata in pieno dalla prima ondata ha fatto registrare un incremento di morti dell’86%, con una variazione spaventosa del +574,7% solo a marzo. Numeri importanti però anche in altre zone del Nord come la provincia di Cremona (+76%), Lodi (62%), Brescia (+57%). Numeri più diffusi invece durante la seconda ondata del virus. Tra le province più colpite Aosta (+138%), Cuneo (+114%), Barletta-Andria-Trani (+112%). Un lungo elenco che indica come il coronavirus lascerà strascichi enormi.

Confronto tra morti Covid e decessi totali. Fubini fa poi un secondo conteggio e cerca di confrontare i decessi per Covid con l’eccesso di mortalità. Il ragionamento è questo: essendo la pandemia una novità rispetto al periodo precedente, l’eccesso di mortalità deve ricondursi proprio ad essa. Questo è vero solo in parte, ci torneremo. Ma provare a fare il confronto ci può aiutare ad avere un quadro delle differenze territoriali nella lotta al Covid-19. Il confronto può essere fatto a partire dai decessi segnalati dal bollettino della Protezione civile rispetto all’eccesso di mortalità. Già qui c’è un primo problema. Non esistono dati disponibili sulla mortalità a livello provinciale. I bollettini giornalieri arrivano al massimo a indicare i decessi per regione. Questo ci costringe a sommare i dati provinciali raggruppandoli appunto per regione. In questo modo si nota come in alcuni contesti ci sia una forbice molto ampia tra persone che hanno perso la vita per il coronavirus ed eccesso di morti nel periodo di tempo considerato. Ma cosa vuol dire praticamente? Facciamo l’esempio di una delle regioni più colpite, la Lombardia. La media del periodo 2015-2019 indica 71.346 vittime all’anno, mentre tra marzo e novembre 2020 il numero si attestava a 105.479. In questo caso “l’eccesso” è di 34.133 persone. Ma secondo i dati del bollettino al 30 novembre 2020 le vittime per Covid in Lombardia erano state 21.855. In pratica, è stato anche il ragionamento di Fubini, solo il 64% dell’eccesso di mortalità era spiegabile con il coronavirus. Questa forbice è ampia soprattutto nelle nelle regioni più colpite dalla pandemia, Lombardia appunto, ma anche Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto. Seguendo questo ragionamento si notano alcune zone in cui la mortalità in eccesso è molto lontana dai numeri legati al Covid. È il caso ad esempio di Sardegna, Puglia e Calabria. In queste regioni, nell’ordine, la quota di persone decedute in più nel periodo considerato era coperta solo per il 34%, 41% e 42%. Al lato opposto ci sono regioni come la Toscana in cui questa copertura arriva al 73% o il Veneto (72%). Come si possono spiegare queste discrepanze? Qui la certezza dei numeri viene meno e si entra nel campo delle supposizioni. Una delle ipotesi è che ci siano stati molti decessi non registrati come pazienti Covid. È un fenomeno successo soprattutto nella provincia di Bergamo nelle primissime fasi dell’epidemia.

Cosa possono dirci i tamponi. L’ipotesi quindi è quella di un certo numero di pazienti non individuati come pazienti Covid e quindi non curati a sufficienza o comunque non archiviati nei famosi bollettini giornalieri della Protezione civile. Ma è possibile verificare questa ipotesi? L’unico tentativo che si può fare è quello di osservare il numero dei tamponi fatti e questo perché sono i soli che permettono di individuare i contagi. Al 30 novembre i tamponi eseguiti nel corso dell’anno erano stati quasi 22 milioni. Distribuiti in maniera irregolare in tutto il territorio, ad esempio erano 4 mln in Lombardia, 2,7 in Veneto, 2,2 nel Lazio e 2,1 in Emilia. Al contrario in Sardegna erano solo 372 mila, in Calabria 364 mila e in Puglia 784 mila. Se poi proviamo a fare un conteggio in base alla popolazione, scopriamo che molte regioni del Sud avevano un numero di tamponi processati ogni 100 mila abitanti inferiore a quelle del Centro-Nord Italia. Meno tamponi potrebbe quindi voler dire meno casi scoperti e più pazienti trascurati. Questa però rimane un’ipotesi. Come ha ricordato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’ospedale San Martino di Genova, è un errore pensare che tutto sia riconducibile direttamente al coronavirus.

I rischi di un’eccessiva semplificazione. “Ci si dimentica”, ha scritto Bassetti, “di tutti quelli che sono morti anche per altri problemi a causa del Covid. Quanta gente è morta perché ci si dedicava unicamente al Covid di infarto, ictus, altre infezioni, tumore, leucemia, diabete, malattie respiratorie? Quanti sono morti di infezioni da batteri resistenti perché l’attenzione era unicamente rivolta al Covid?”. Il nodo infatti è che la pandemia non ha avuto solo un impatto diretto sulla salute delle persone, ma ha causato ricadute a cascata che hanno messo in crisi tutta la filiera sanitaria. Come avevamo provato a spiegare parlando di mortalità e letalità del virus, la misura dell’eccesso di mortalità ci può dare un’idea ma da sola non basta, perché non distingue tra le vittime della malattia e quelle legate a fattori paralleli. Pensiamo solo alle visite rimandate da pazienti oncologici o in generale a tutti quelli che nei momenti acuti delle ondate rimandavano visite e terapie. A maggio la stessa Istat metteva in guardia sulla necessità di maggiori dati per fare valutazioni più precise: “L’ammontare totale dei decessi nel 2020”, si legge in una nota, “è il risultato dell’interazione di diverse componenti: la mortalità direttamente imputabile a Covid-19 e la mortalità per altre cause non direttamente ad esso correlata. Quest’ultima componente, a sua volta, è stata in parte modificata dagli effetti indiretti dell’epidemia. Infatti, mentre ci aspettiamo che la mortalità per alcune cause possa essere in linea con quanto osservato negli anni precedenti, per altre si noteranno delle importanti variazioni”. “Solo il contributo dell’analisi di tutte le schede con la certificazione delle cause di morte del 2020”, conclude la nota, “consentirà il di individuare le malattie che hanno maggiormente risentito degli effetti indiretti della pandemia”.

Dietro il dato. Report Rai PUNTATA DEL 11/01/2021 di Antonella Cignarale, collaborazione di Marzia Amico. Per monitorare l’impatto dell’epidemia da Sars-Cov-2 viene rilevata quotidianamente una mole di dati dalle aziende sanitarie locali che però non sempre viene trasmessa con completezza alla Regione. Altri dati raccolti invece a livello regionale, seppur preziosi, non vengono inviati ai vertici nazionali. E a oggi non c’è un dato solido nazionale sul rischio di trasmissione di contagio nel momento in cui ci si esponga a un caso positivo in ambito familiare, lavorativo o ricreativo. Se non pubblicato nella sua completezza, il dato offre una marginale lettura della situazione pandemica, finanche fuorviante. Se dal bollettino giornaliero la diminuzione di ricoveri in terapia intensiva può sembrare una buona notizia, in realtà non si sa se i posti letto liberati sono di pazienti dimessi o deceduti. E il dato dei decessi Covid come viene calcolato?

“DIETRO IL DATO” di Antonella Cignarale collaborazione Marzia Amico immagini di Chiara D’Ambros e Giovanni De Faveri.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il 10 marzo viene mostrato il primo bollettino Covid. Da allora i dati che vediamo ogni giorno ci danno solo una parziale lettura della pandemia. I morti non sono tutti deceduti il giorno precedente. Nei dati trasmessi dalla Toscana il 4 dicembre, oltre ai deceduti del 2 e 3 dicembre, c’è anche un deceduto di ottobre.

CARLA RIZZUTI - ASSESSORATO DIRITTO ALLA SALUTE REGIONE TOSCANA Quando il decesso avviene sul territorio, quindi al di fuori degli ospedali, è un iter un pochino più lungo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO I deceduti Covid vengono schedati con un SI se avevano patologie pregresse e con un NO se non le avevano. Dagli approfondimenti fatti solo su 5000 cartelle cliniche dei positivi morti fino a maggio, l’Istituto Superiore di Sanità ha constatato che nell’89% dei casi la causa responsabile di morte è il Covid-19 ma nell’11% le cause di decesso sono altre patologie.

ANTONELLA CIGNARALE Se un paziente entra in ospedale, fa il tampone, risulta positivo, se non ce la fa per un’altra patologia, è un deceduto Covid?

EMANUELA BALOCCHINI - RESP. SETTORE PREVENZIONE COLLETTIVA REGIONE TOSCANA Sì, e forse è anche la ragione per la quale noi abbiamo un così alto numero di morti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non è proprio così. Buonasera. Anche perché in Germania contano come morto Covid qualsiasi persona sia deceduta, a prescindere della patologia in essere, che sia risultata positiva al virus. Quello che abbiamo capito è che se dovessimo basarci sui dati che vengono ogni volta pubblicati dai bollettini giornalieri in materia di virus, potremmo avere una falsa percezione della realtà. Questo perché c’è un peccato originale. La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Dal 3 dicembre sul bollettino viene pubblicato, oltre al totale dei ricoveri in terapia intensiva, anche il numero degli ingressi giornalieri. Ma per avere una lettura completa c’è da guardare anche il dettaglio delle dimissioni. Ad esempio, il 4 dicembre, in Toscana sono stati registrati in terapia intensiva 9 posti letto in meno occupati, ma dietro questo dato non c’è una buona notizia.

CARLA RIZZUTI - ASSESSORATO DIRITTO ALLA SALUTE REGIONE TOSCANA In realtà questo saldo negativo ha dietro di sé ben 16 ingressi nelle ultime 24 ore, 13 si sono liberati perché i pazienti sono passati ad area meno critica, 12 purtroppo si sono liberati perché i pazienti sono deceduti.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Quindi 16 sono i ricoverati in ingresso, meno i 13 dimessi e meno i 12 deceduti, uguale meno 9 ricoverati. Questi dati non pubblicati interamente rischiano di darci una lettura distorta. Lo stesso vale per il numero dei tamponi: da fine ottobre i dati che leggiamo sul bollettino sono un bel misto fritto.

GANDOLFO MISERENDINO - RESPONSABILE TECNOLOGIE E STRUTTURE SANITARIE REGIONE EMILIA ROMAGNA Sul bollettino nazionale vedete il dato dei tamponi molecolari e dei positivi derivanti dal tampone molecolare.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO La Regione Piemonte, invece, per più di un mese ha conteggiato tra i tamponi anche i test antigenici rapidi fino a quando il ministero della Salute è intervenuto per correggere il calcolo. E così sul bollettino nazionale, da un giorno ad un altro, il numero dei tamponi piemontesi è drasticamente diminuito, più di 220mila test sono stati cancellati.

ANTONELLA CIGNARALE Quando dovevate inviare i dati aggregati dei tamponi effettuati per il bollettino nazionale, avete sommato i tamponi molecolari e gli antigenici.

MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Ma come doveva essere fatto, secondo me.

ANTONELLA CIGNARALE Per voi, perché le altre regioni non lo hanno fatto.

MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Scusate ma se sono tutti e due, vengono utilizzati per diagnosticare un caso di positività perché dare solo una parte?

ANTONELLA CIGNARALE Ma dico ma voi quando fate questa conferenza Stato Regioni che vi dite se non vi riuscite neanche a organizzare su quali dati mandare per poi una lettura omogenea a livello nazionale?

MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Se non c’è una direttiva nazionale noi abbiamo fatto quello che ritenevamo più giusto.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il Piemonte si è dovuto riallineare alle altre regioni. Ma così facendo non vengono conteggiati neanche i positivi individuati con i test rapidi. E infatti sul bollettino della regione Piemonte il 29 dicembre i nuovi positivi risultano essere 921 ma sul bollettino nazionale leggiamo solo gli 840 individuati con i tamponi molecolari. In pratica, i positivi che vediamo sul bollettino non sono tutti quelli individuati da ogni regione.

MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Il cittadino che guarda vede diciamo un dato parziale di quello che è l’andamento dell’epidemia a livello nazionale e regionale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO A partire dal numero dei positivi e dal numero dei positivi tracciati, la regione calcola la percentuale della propria capacità di tracciamento e la comunica all’Istituto Superiore di Sanità. Questo dato è uno dei 21 indicatori che servono a valutare lo scenario di rischio di ogni regione. Mentre invece il dato che attesta se effettivamente i contatti che possono aver contratto il virus siano stati ricercati, non viene richiesto.

ANDREA BELARDINELLI – DIRETTORE SANITÀ DIGITALE REGIONE TOSCANA Noi lo registriamo, ma non viene trasmesso.

ANTONELLA CIGNARALE Se una regione fa il 100%?

STEFANIA SALMASO - EPIDEMIOLOGA – ASS. ITALIANA EPIDEMIOLOGIA Vuol dire che ha parlato con il 100% dei suoi casi e si è fatto dare da ognuno di questi l’elenco dei propri contatti, poi se quei contatti sono stati rintracciati o meno qua non è compreso.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Tra le più brave a comunicare con il 100% dei positivi, chiedendogli la lista dei contatti, c’è la Basilicata. A confermarlo è il coordinatore della task force regionale, il direttore Ernesto Esposito.

ANTONELLA CIGNARALE La Basilicata nell’indicatore del tracciamento è al 100%, questo che vuol dire che tutti i positivi che voi trovate riuscite a tracciare la catena di contatti?

ERNESTO ESPOSITO – RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA È quello che ci dicono dalla periferia.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma a noi, a novembre, dalle periferie ci dicono altro POSITIVO 1 Non sono stato contattato da nessuno, oggi è il diciassettesimo giorno, soffriamo della sindrome dell’abbandono.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E purtroppo non è l’unico.

POSITIVO 2 Oggi è il mio quattordicesimo giorno che sono positivo al Covid, nessuno mi ha chiamato per chiedermi i contatti, nessuno!

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Di questi positivi che nessuno ha chiamato per la ricerca dei contatti stretti pare non se ne abbia contezza a partire dal dottor D’Angola, direttore sanitario dell’Asl di Potenza dove vediamo la centrale del contact tracing.

ANTONELLA CIGNARALE Ci risulta che ci sono positivi che sono ancora positivi della provincia di Venosa che non sono mai stati contattati per chiedere la lista dei contatti.

LUIGI D’ ANGOLA – DIRETTORE SANITARIO ASP – REGIONE BASILICATA Dovremmo riuscire…

ANTONELLA CIGNARALE C’è un positivo che addirittura sono passati 14 giorni quindi voglio dire non è che non vi è scappato ve lo siete proprio perso.

LUIGI D’ANGOLA – DIRETTORE SANITARIO ASP – REGIONE BASILICATA Non… Non… Potrebbe essere anche capitato, non mi risultano queste cose, però le dico con molta franchezza che il sistema è rodato.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sarà pure rodato ma quello che ci spiega un tracciatore è che i contatti stretti del positivo vengono prima riportati su questi fogli di carta e man mano che vengono chiamati, vengono inseriti nella piattaforma regionale.

TRACCIATORE Una volta che sono stati inseriti in piattaforma e che effettivamente sono stati contattati, esistono e sono all’attenzione del sistema.

ANTONELLA CIGNARALE Ok, quindi se te ne sei scordato qualcuno non rimane traccia, sei tu che…

TRACCIATORE Sì VINCENZO BARILE - EX MEMBRO TASK FORCE - REGIONE BASILICATA Ci vuole un’organizzazione per avere la certezza di tracciare tutte queste persone. È come se lei volesse andare, diciamo, sulla luna senza avere l’astronave. Noi l’astronave in questo momento non ce l’abbiamo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il dottore Barile è stato responsabile della piattaforma regionale fino a dicembre, si è dimesso dalla task force regionale lamentando falle nell’organizzazione del sistema di tracciamento. Ma per il coordinatore della centrale operativa tutto funziona.

ANTONELLA CIGNARALE Quanti positivi ad esempio usciti oggi voi avete tracciato, cioè lei lo sa questo?

MICHELE DE LISA – DIR. UOC IGIENE EPID. SANITÀ PUBBLICA – ASP BASILICATA Io non posso dire quanti ne abbiamo tracciati, tutti li abbiamo tracciati e le assicuro che, se scappa qualcheduno, lo recuperiamo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma a fine novembre da Venosa a Pisticci i sindaci lamentano il contrario e chiedono più personale. A Ferrandina, in provincia di Matera, il sindaco aveva addirittura chiesto di diventare zona rossa visti i ritardi sul tracciamento e l’aumento dei contagi.

GENNARO MARTOCCIA – SINDACO DI FERRANDINA (MT) Il tracciamento non ha funzionato perché la struttura non è stata potenziata a dovere.

MEDICO ASM MATERA Eravamo tre.

ANTONELLA CIGNARALE Per il tracciamento?

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Nella sede centrale dell’ASL di Matera fino a metà novembre a occuparsi della ricerca dei potenziali contatti contagiati erano tre medici che svolgevano anche il lavoro ordinario, e due medici dell’USCO, che assistono i positivi a domicilio. E non si capisce come mai sulla carta la Basilicata si attesti al 100% e nella realtà non ne abbiamo avuto totale riscontro. Abbiamo provato a chiarirlo con il direttore Esposito.

ANTONELLA CIGNARALE Lei ci ha detto a noi così ci dicono le periferie per il 100%, ora come calcolate il 100%?

ERNESTO ESPOSITO - RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA Come calcoliamo il 100% per tutti quelli che ci sono.

ANTONELLA CIGNARALE Senta ma ci sono dei positivi che non sono mai stati chiamati a voi dove risultano?

ERNESTO ESPOSITO – RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA Assolutamente, assolutamente.

ANTONELLA CIGNARALE Noi li abbiamo sentiti, ci sono positivi che non sono mai stati chiamati per la ricerca dei contatti, quindi voi dove le calcolate queste persone?

ERNESTO ESPOSITO – RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA Assolutamente no.

ANTONELLA CIGNARALE Ad oggi il dato di qual è la percentuale di rischio di contagiarsi tra conviventi oppure sul luogo di lavoro non ce lo abbiamo a livello nazionale?

STEFANIA SALMASO - EPIDEMIOLOGA ASSOCIAZIONE ITALIANA EPIDEMIOLOGIA Non abbiamo un dato italiano solido. Queste informazioni sono state sicuramente raccolte a livello locale ma finché rimangono su carta o finché rimangono su sistemi locali non possono essere messi insieme per avere un po’ quella che è l’intelligenza proprio di tutta la pandemia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cioè vedi che si liberano posti in terapia intensiva, uno gioisce e invece scopre che si sono liberati perché chi c’era dentro è morto. Ora, alla fine ha ragione un luminare, come il prof. Rezza che dice: se vuoi avere una percezione esatta dell’impatto del virus, alla fine devi contare i morti perché lì è il nodo. Insomma, abbiamo capito anche perché i dati dei contagiati è un dato effimero, c’è chi calcola i tamponi rapidi, chi no, e poi non sono del tutto attendibili. Quelli molecolari, che invece sono più attendibili, non ne sono fatti a sufficienza. Ecco, e poi ogni Regione si muove un po’ per conto suo, ha adottato il suo sistema di conteggio. Poi ci sono molti dati invece che non sono accessibili. Per questo una rete di cittadini e associazioni si è fatta promotrice di una petizione, #datibenecomune, cioè renderli a disposizione della collettività. Questo aiuterebbe anche a metabolizzare le misure restrittive che ci vengono in qualche modo imposte. Poi, prima o poi, bisognerà pensare a un hub digitale nazionale, che raccolga tutti i dati che vengono dalle periferie in modo veloce e anche raccolti, se possibile, in un modo standard, comune ecco.

·        I Coronavirus.

L’Oms vuole combattere anche le malattie tropicali “trascurate”. Andrea Massardo su Inside Over il 5 febbraio 2021. Il passaggio della pandemia di coronavirus e la crisi sanitaria che è stata generata in modo diffuso in tutto il mondo ha messo in evidenza come la medicina – nonostante gli enormi passi in avanti dell’ultimo secolo – abbia ancora incredibile margine di miglioramento. Molteplici sono i fattori che infatti hanno provocato una sostanziale impreparazione, almeno nei primi mesi, dell’umanità nei confronti del virus del Covid-19: anni di tagli ai sistemi sanitari, pochi investimenti nella ricerca e squilibrio nella copertura medica mondiale. E oltre a questo, anche una troppa e cieca fiducia nell’invincibilità dell’uomo nei confronti delle malattie, convinzione nata dalla lunga scia di successi ottenuti dal dopoguerra sino al giorno d’oggi. La realtà dei fatti è però ben differente e questa visione deriva principalmente dal nostro vivere all’interno del mondo industrializzato, all’interno del quale le malattie ad alta trasmissibilità sono sempre state sconfitte, o quantomeno tenute a bada. In alcune parti del mondo (come in Africa, America equatoriale e nelle regioni più povere dell’Asia) lo scenario è ben differente, con alcune malattie che da anni vessano la popolazione senza che mai sia stato scoperta una cura efficace o un vaccino utile alla prevenzione. Ma sotto questo aspetto, forse, la pandemia di coronavirus e le conseguenze che una nuova malattia può arrecare alla comunità mondiale ha spinto l’Oms a concentrare la propria attenzione anche verso le malattie “dimenticate”, come nel caso delle malattie tropicali trascurate.

Malattie tropicali trascurate: un pericolo per un miliardo di esseri umani. Come riportato dal comunicato stampa dell’istituzione internazionale con sede a Ginevra, la sfida del decennio 2021-2030 sarà proprio quella di sconfiggere le 20 più pericolose malattie tropicali trascurate (o neglette). Presenti in aree cui popolazione aggregata supera infatti il miliardo di unità, esse sono una delle piaghe più terribili del Terzo mondo, soprattutto a causa della mancanza di cure efficaci e dei pochi fondi stanziati negli anni per la ricerca. Echinoccoccosi, Dracunculiasi e Framboesia sono solo tre delle patologie più frequenti, le quali – sebbene abbiano tassi di mortalità molto basse – sono anche la causa dell’alto tasso di disabilità e di sindromi epilettiche che colpiscono la popolazione dei Paesi più poveri del mondo. E soprattutto, sono una delle cause che contribuiscono al peggioramento della vita nelle zone rurali del mondo e altresì la perdita di potenziale forza lavoro soprattutto nelle campagne. Secondo le stime dell’Oms, attualmente sarebbero almeno un miliardo di persone quelle potenzialmente esposte al contagio delle 20 sindromi tropicali neglette e il loro numero sarebbe in costante aumento a causa dell’alta natalità delle regioni in questioni. In uno scenario che, senza movimentazione medica a riguardo, nell’arco di una ventina d’anni potrebbe divenire sostanzialmente incontrollabile.

L’importanza del Covid. Quando la nostra progenie studierà i difficili anni vissuti dall’umanità nella battaglia contro il coronavirus, probabilmente verrà messo in evidenza anche come per la prima volta nella storia il mondo si sia mosso – quasi – all’unisono nella ricerca di una cura e di un vaccino. E questa situazione, in fondo, ha dato anche un notevole impulso al potenziamento delle strutture sanitarie e dei laboratori di ricerca, favorendo quelli che saranno gli studi anche contro le altre malattie che vessano la popolazione mondiale. Grazie al potenziamento delle strutture, dunque, anche la lotta contro le malattie che al giorno d’oggi sono state più trascurate verrà svolta con maggiore efficacia. E in questo scenario, l’indirizzo dato dall’Oms nella lotta contro le malattie tropicali trascurate non è che un segnale di come le sindromi fino a questo momento considerate di “serie b” potranno ottenere maggiore attenzione dalla comunità scientifica. Quando usciremo dalla crisi sanitaria, dunque, non dovremo vedere a quanto vissuto come una semplice finestra negativa della nostra esistenza. Essa infatti ci ha messo di fronte alla necessità di affrontare anche quelle sfide che consideravamo forse vinte con troppo anticipo, come la battaglia contro le malattie epidemiche. E sotto questo aspetto, dunque, forse ci ha fornito la spinta propositiva necessaria per arrivare davvero, un giorno, a considerarci completamente al sicuro dalle malattie che affliggono l’intera umanità.

Che cos’è il Nipah, l’altro virus che preoccupa gli scienziati e il mondo. Vito Califano su Il Riformista il 18 Gennaio 2021. Ci sono moltissime cose in comune tra il coronavirus e il Nipah, altro virus di origine animale che fa paura e che preoccupa gli scienziati. Come se non fossero abbastanza gli oltre due milioni di morti causati dalla pandemia da coronavirus. Ed è proprio perché era stata ampiamente pronosticata la pericolosità di un’epidemia mondiale, anche nelle dimensioni di un mondo globalizzato, e quindi ipotizzata per vastità e gravità, che occorre informare su altre situazioni a rischio. Prima di gridare all’allarmismo meglio ricordare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) rinnova continuamente la sua lista di patogeni che potrebbero diventare delle emergenze di salute pubblica. Nipah, quindi, che cos’è?  La genesi è simile anch’essa a quella del coronavirus. L’Asia è il continente sotto osservazione: ci vive il 60% della popolazione Mondiale, tra a Asia e Pacifico, dove tra l’altro è in corso una rapida urbanizzazione. La Banca Mondiale stima in 200 milioni le persone che tra il 2000 e il 2010 si sono trasferite in Asia Orientale. Una rapidissima urbanizzazione. Il virus della covid-19 è sorto in primis in Cina, nella città focolaio di Wuhan, nei wetmarket – a dispetto delle teorie senza alcuna dimostrazione che tirano in ballo laboratori o complotti vari. Il Nipah è un’infezione virale e si è presentata per la prima volta nel villaggio di Sungai Nipah, in Malesia. La malattia è stata identificata per la prima volta nel 1998, il virus isolato nel 1999. Niente di nuovo insomma: il film Contagion del 2011 – e citato spesso nella prima fase della pandemia da coronavirus – era ispirato proprio al Nipa; un altro film del 2019, Malayalam Virus, è stato ispirato sull’epidemia di Nipah nel Kerala indiano del 2018 – morirono 17 persone. “C’è grande preoccupazione perché non esiste un trattamento e questo virus ha un alto tasso di mortalità”, ha commentato a Bbc Supaporn Wacharapluesadee del Centro di Scienze e Malattie Infettive emergenti della Croce Rossa tailandese di Bangkok. La professoressa ha fatto parte negli ultimi 10 anni di Predict, un progetto mondiale per rintracciare e contenere malattie che possono passare dagli animali agli esseri umani. Il tasso di mortalità è compreso tra il 40% e il 75%. Non esiste un vaccino. Le ragioni della diffusione del virus sono le stesse del Sars-Cov-2, ovvero la crescita della popolazione umana e l’aumento del contatto tra persone e animali selvatici. Si tratta di un virus che nasce nelle Regioni tropicali che hanno una ricca varietà di biodiversità. Può presentare sintomi come febbre, tosse, mal di testa, encefalite, respiro corto. Le complicazioni possono portare all’infiammazione del cervello, a convulsioni, al coma. Ci sono varie ragioni, per l’esperta, che rendono il Nipa così pericoloso. Il periodo di incubazione, che può arrivare a 45 giorni; la possibilità di contagiare un’ampia gamma di animali; le probabilità di contagio diretto o attraverso il consumo di alimenti contaminati. Gli ospiti naturali del Nipah sono i pipistrelli della frutta – altro punto di contatto con il coronavirus. Il virus si propaga attraverso il contatto diretto con una fonte infetta. Anche i suini possono essere infettati. Si tratta quindi di zoonosi anche in questo caso, ovvero di malattia infettiva che può passare dall’animale agli esseri umani. “La propagazione di questi patogeni e il rischio di trasmissione accelerano con la trasformazioni nello sfruttamento della terra come la deforestazione, l’urbanizzazione e l’agricoltura intensiva”, hanno scritto gli autori di uno studio del 2020 dell’Università di Exeter sulle malattie zoonotiche emergenti, Rebekah J. White e Orly Razgour.asia

 

Cristina Marrone per corriere.it il 18 gennaio 2021. Milioni di persone nel mondo stanno ricevendo il vaccino contro il coronavirus e, come in tanti tra politici e scienziati stanno ripetendo, si vede la luce in fondo al tunnel, anche se la strada è ancora lunga. Ma come si concluderà l’epidemia che ha sconvolto il globo? Come sarà l’era post-vaccino? Probabilmente non ci sbarazzeremo della malattia di punto in bianco. Sarà piuttosto un lungo addio (anche se sui tempi mancano certezze) con un periodo di convivenza decisamente più gestibile di quanto stiamo vivendo ora. Data l’elevatissima diffusione di Sars-CoV-2 è difficile che i vaccini riescano a debellare del tutto l’infezione, ma è realistico pensare che la malattia Covid-1, causata dal coronavirus, diventerà endemica. Sarà quindi molto diffusa ma, una volta che la maggior parte della popolazione sarà immune, a seguito di infezione naturale o vaccinazione, il virus non sarà una minaccia più di quanto non lo sia un comune raffreddore secondo uno studio appena pubblicato su Science.

Milioni di persone ancora suscettibili. Il fatto che la maggior parte delle persone nel mondo non abbia ancora contratto l’infezione indica che il nuovo coronavirus ha ancora a disposizione una vasta popolazione suscettibile: uomini e donne dove il virus può replicarsi. Nei prossimi mesi però, grazie alla campagna vaccinale e l’immunità naturale di chi si è ammalto ed è guarito, la corsa del patogeno dovrebbe quanto meno rallentare. Non succederà ovunque nello stesso modo. Nelle aree densamente popolate o con ancora un alto numero di popolazione suscettibile , Covid continuerà a circolare in modo sostenuto. Basti pensare alla Lombardia, che con i suoi 10 milioni di abitanti è la regione più popolosa d’Italia: qui i contagi sono sempre elevati.

Infezione endemica. Oggi il virus è una minaccia perché si tratta di un patogeno sconosciuto che può sopraffare il sistema immunitario adulto che non è stato addestrato a combatterlo. Ma non sarà più così una volta che tutta la popolazione mondiale sarà stata esposta al virus o avrà fatto un vaccino. Il quadro delineato dagli scienziati nel nuovo studio è confortante. Se SarsCoV2 seguisse le orme di altri coronavirus responsabili del comune raffreddore, l’infezione potrebbe notevolmente attenuarsi: secondo le previsioni, potrebbe colpire la prima volta entro i 3-5 anni di età con sintomi modesti, per poi ripresentarsi in età adulta, ma in modo ancora più lieve. In altre parole il coronavirus ha tutte le caratteristiche per diventare endemico: cioé sarà un patogeno che circola a bassi livelli e solo raramente causerà malattie gravi.

Gli altri coronavirus. Lo studio su Science è stato condotto dai ricercatori della Emory University e della Penn State University, negli Stati Uniti. La ricerca si basa su dati epidemiologici e immunologici relativi al virus della Sars del 2003 (poi rientrato nel bacino animale) , quello della Mers del 2012 (che causava una malattia grave ma per fortuna non si è diffuso) e altri quattro coronavirus umani diventati ormai endemici, cioè virus diffusi nella popolazione che continuano a circolare a bassi livelli, causando per lo più sintomi modesti.

Il tasso di letalità destinato a calare. I ricercatori, in particolare, hanno tenuto conto di diversi aspetti immunologici, ovvero la suscettibilità alla reinfezione, l’attenuazione della malattia e la sua trasmissibilità in caso di seconda infezione. Il modello, usato per prevedere la traiettoria della pandemia di Covid-19 nel prossimo decennio, mostra che una volta raggiunto lo stato endemico, il tasso di letalità di SarsCoV2 potrebbe scendere al di sotto di quello dell’influenza stagionale rendendo Sars-CoV-2 simile ai quattro coronavirus del raffreddore già con noi da anni. Gli scienziati, in uno studio precedente, avevano osservato che la prima infezione da coronavirus del raffreddore comune si verifica in media tra i 3-5 anni. Dopo le persone possono infettarsi più e più volte, aumentando la loro immunità e mantenendo il virus in circolazione ma non si ammalano seriamente. È inoltre plausibile che i vaccini prevengano la malattia grave, ma non necessariamente l’infezione e la trasmissione e questo significa che il coronavirus continuerà a circolare. Senza fare i danni che sta facendo ancora oggi.

Il nodo dei tempi. Quanto tempo ci vorrà? La risposta per ora resta un’incognita: tutto dipenderà dalla velocità di diffusione del virus e dalla rapidità con cui verrà effettuata la vaccinazione di massa. Il percorso non sarà lineare e privo di intoppi, come abbiamo appena visto con il taglio nella consegna delle dosi da parte di Pfizer in tutta Europa.«Ci stiamo muovendo in un territorio inesplorato - ammette il biologo Ottar Bjornstad della Penn State University -, ma il messaggio chiave derivante dallo studio è che il tasso di letalità e il bisogno di una vaccinazione di massa potrebbero declinare a breve termine: quindi bisogna fare il massimo sforzo possibile per spianare la strada che porterà questo virus pandemico a diventare endemico». I vaccini accelerano di molto la rapidità in cui un virus può diventare endemico per questo occorre fare presto, senza lasciare indietro nessuno. «È improbabile che i vaccini sradichino il coronavirus- ha commentato Jennie Lavine, del Dipartimento di Biologia presso la Emory University di Atlanta, che ha guidato lo studio - ma è realistico pensare che diventerà un abitante permanente, anche se più benigno, del nostro ambiente».

Altri scenari. Come detto il modello utilizzato dallo studio si basa sul presupposto che il nuovo coronavirus sia simile ai comuni coronavirus del raffreddore. «È uno scenario piuttosto probabile, ma non c’è una garanzia che sia davvero così perché non abbiamo visto che cosa possono fare quei coronavirus su persone anziane che non sono mai state esposte a questi virus» ha commentato sul New York Times Marc Lipsitch, epidemiologo presso la Harvard TH Chan School of Public Health di Boston. «Il virus potrebbe anche diventare simile all’influenza stagionale che in alcuni anni è lieve e in altri più letale. Certamente la comparsa di varianti che sfuggono alla risposta immunitaria potrebbero complicare il quadro generale».

·        La Febbre.

IN ATTESA DI GUARIRE. Da abbassolafebbre.it il 09/12/2020.

La febbre da sei mesi in su. Mano a mano che il bimbo cresce, la febbre perde quel carattere di “urgenza” che deve essere invece avere quando è neonato. Vediamo quali sono le caratteristiche (e le indicazioni) per il giusto approccio nei confronti dei rialzi febbrili dai 6 ai 24 mesi. Dopo i sei mesi di vita il bambino è particolarmente soggetto alle malattie virali perché viene meno l’azione biologica e protettiva del latte materno, il quale non è più un alimento esclusivo. Inoltre, cominciando l’avventura degli asili nido (per chi ci va) è più facile entrare in contatto con germi che, pur non essendo particolarmente pericolosi, sono molto virulenti. La febbre, comunque, non va drammatizzata: a sei mesi molte delle malattie più pericolose del periodo neonatale sono rare. E quindi, più che la febbre, è necessario valutare con il pediatra la comparsa di eventuali altri sintomi. Se nei primissimi mesi di vita ogni rialzo febbrile deve essere monitorato con molta attenzione per via della fragilità del bambino piccolo, è chiaro e intuitivo che, con il passare dei mesi, aumenta la resistenza e la capacità di reazione nei confronti delle aggressioni virali, tipiche dell’infanzia. Ci troviamo però, allo stesso tempo, in una situazione in cui mamme e papà rischiano di sentirsi un po’ spaesati, perché molto spesso le linee guida si soffermano sulle indicazioni per i neonati, ma sono meno chiare in relazione a che cosa fare con bambini anche solo poco più grandi. Uno dei motivi per cui si tende a concentrare più attenzioni alla fase neonatale riguarda il fatto che ci sono alcune malattie, sfortunatamente anche gravi, che tendono a manifestarsi proprio in questa finestra temporale e che, con il tempo, diventano statisticamente meno frequenti. Al di là di quelle a trasmissione diretta di infezioni da madre a bambino, l’attenzione è rivolta anche al virus respiratorio sinciziale, responsabile della bronchiolite. Inoltre, specie nei primi mesi, i bambini malati sviluppano sintomi molto poco specifici, qualunque sia il germe che ha provocato la malattia: febbre, vomito, diarrea è la classica triade di manifestazioni che, invece, dopo i sei mesi, tende a differenziarsi un po’ di più, offrendo così ai genitori qualche indizio ulteriore per comprendere quale possa essere la causa del rialzo della temperatura. Un altro aspetto importante che va considerato nei bambini al di sopra dei sei mesi è il seguente: entrano in una fascia di età in cui è possibile che inizino a frequentare gli asili nido. Ebbene l’alta circolazione di germi, soprattutto dei virus, unita a una scarsa “competenza immunitaria” (il sistema delle difese del bambino giunge a maturazione più avanti) fa sì che in questa fase della vita i piccoli si ammalino spesso. Al punto che, fino ai 2 anni di età, possono presentarsi anche sei episodi infettivi in un solo anno. Paradossalmente il neonato nei mesi di esclusivo allattamento al seno è più protetto, poiché nel latte materno passano anche sostanze immunologicamente attive in grado di difenderlo laddove lui, con i suoi anticorpi, non riuscirebbe.

Come comportarsi. Poste queste premesse è importante allora sapere come affrontare questa maggiore vulnerabilità del bambino di età compresa tra i sei mesi e i due anni, in modo da rivolgersi al pediatra di libera scelta (o al pronto soccorso pediatrico) in maniera appropriata, senza ansie ma anche senza sottovalutazioni. Il rialzo febbrile nel bambino con più di sei mesi non deve essere vissuto con quella idea di urgenza che contraddistingue invece lo stato di malattia nel neonato. Laddove nel primo mese il ricorso al pronto soccorso pediatrico è assolutamente raccomandato dalle linee guida della Società Italiana di Pediatria, dopo il sesto mese il consulto con il pediatra di libera scelta rappresenta la soluzione migliore. E, sulla base dei sintomi, si potrà stabilire la necessità di una visita e in quali tempi. Va comunque considerato come anche una eventuale febbre alta non sia di per sé indicativa di malattia grave: le infezioni virali possono infatti causare impennate di temperatura molto rapide e importanti, pur trattandosi spesso di infezioni non pericolose per un bambino sano. In caso di febbre, a partire dai sei mesi in su, la prima cosa da fare è misurare la temperatura con un termometro elettronico posto in sede ascellare. La temperatura può essere presa ogni 4/6 ore ma le misurazioni più significative sono quella del mattino (attorno alle 10) e quella della sera (attorno alle 18). Il pediatra va consultato telefonicamente per verificare l’opportunità di una visita, sapendo però che alcuni sintomi richiedono un approccio di urgenza. Questi sono: la comparsa di lesioni simili a lividi sulla pelle, uno stato di torpore associato a rigidità della nuca e segni di disidratazione (come l’eventuale fontanella infossata, occhi cerchiati e infossati anch’essi, pelle e labbra secche, mancanza di salivazione e scarse urine e molto concentrate). Per il resto, il bambino va tenuto poco vestito perché possa scambiare con facilità la temperatura con l’esterno e gli va proposto spesso da bere, poiché l’idratazione è più importante dei cibi solidi, nella fase acuta di malattia.

·        Protocolli sbagliati.

Antonio Giangrande: Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?

L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.

Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che, ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura.

Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No! No. Non perchè, per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.

Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia, ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!

Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 ottobre 2021. Solo due mesi fa, la Florida stava vivendo una delle peggiori ondate di Covid-19 degli Stati Uniti. Lo stato aveva la media più alta di casi al giorno su base settimanale, e il più alto tasso di ospedalizzazione del paese. Nonostante i numeri, il governatore Ron DeSantis non ha ordinato nuove restrizioni, né chiusure. Sosteneva che il picco fosse dovuto a un ciclo stagionale del virus e invitava i residenti a farsi vaccinare, ma senza obbligare nessuno. Oggi la crisi in Florida sembra superata. Senza spiegazioni apparenti, i casi e i decessi sono diminuiti nonostante DeSantis non abbia fatto in sostanza nulla per mitigare la situazione. I dati del CDC (Centers for Disease Control and Prevention) hanno mostrato che la Florida sta registrando i dati migliori del paese su nuovi contagi e mortalità. La Florida va bene quanto la California, con la sola differenza che a Miami e dintorni hanno adottato un approccio molto rigoroso, con obbligo di mascherine, limitazione agli assembramenti e divieto di frequentare locali al chiuso. Durante l’estate il governatore DeSantis si era difeso dalle critiche dichiarando che lo Stato aveva grande successo nel trattamento precoce dei pazienti Covid con gli anticorpi monoclonali. All’epoca medici ed esperti di salute pubblica dissero che l’approccio di DeSantis era una scommessa, ma ad oggi sembra aver dato i suoi frutti. Ma secondo David Leonhardt del New York Times, il virus sembra seguire un ciclo di due mesi. Una delle spiegazioni è che il virus esaurisca la sua carica virale dopo due mesi: non trovando più nessuno da infettare, si esaurisce. Da quando è iniziata la pandemia, il Covid ha spesso seguito un ciclo regolare, anche se misterioso. «Un paese dopo l’altro, il numero di nuovi casi è spesso aumentato per circa due mesi prima di iniziare a diminuire» ha scritto Leonhardt. «La variante Delta, nonostante la sua intesa contagiosità, ha seguito questo schema». 

Covid, la variante Delta e la sfida dell'immunità di gregge. Maria Girardi il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'importante studio sulla pandemia è stato condotto dai ricercatori del National Centre of Disease Control e dall'Institute of Genomics and Integrative Biology (India). Il grave focolaio di Covid a Delhi nel 2021 ha dimostrato non solo che la variante Delta è estremamente trasmissibile, ma che è altresì in grado di infettare individui già venuti in precedenza a contatto con un'altra variante. A questa conclusione è giunto uno studio condotto dai ricercatori del National Centre of Disease Control e dal CSIR Institute of Genomics and Integrative Biology (India) e pubblicato su "Science". I dati dell'Indian Council of Medical Research parlano chiaro. Il virus si era diffuso ampiamente nel continente durante la prima ondata, quando risultava positivo un adulto su cinque (21%) e un adolescente su quattro (25%) di età compresa fra i 10 e i 17 anni. Le cifre erano molto più alte nelle megalopoli indiane: qui, a febbraio 2021, oltre la metà degli abitanti (56%) aveva contratto il coronavirus. Dal momento in cui il primo caso di Covid è stato rilevato a Delhi nel marzo 2020, la città ha dovuto fare i conti con diversi focolai, a giugno, a settembre e a novembre dello stesso anno. Dopo aver raggiunto un massimo di quasi 9mila contagi giornalieri a novembre 2020, l'incidenza è diminuita in maniera costante, con poche infezioni tra dicembre 2020 e marzo 2021. La situazione si è invertita drasticamente ad aprile 2021, mese in cui si sono raggiunti i 20mila casi al giorno con conseguente aumento dei ricoveri in terapia intensiva e pressione sul sistema sanitario. Nella ricerca in questione gli scienziati hanno studiato l'epidemia avvalendosi di dati genomici, epidemiologici e modelli matematici. Per determinare se le varianti di Covid fossero responsabili dei contagi di aprile 2021 a Delhi, il team ha sequenziato e analizzato campioni virali della città riferiti al precedente focolaio del novembre 2020 fino a giugno 2021. Si è scoperto che i focolai del 2020 non erano correlati a nessuna variante preoccupante. La variante Alpha è stata identificata solo in maniera occasionale e principalmente nei viaggiatori stranieri fino a gennaio 2021. La stessa variante è aumentata a Delhi di circa il 40% (marzo 2021) prima di essere sostituita da un rapido incremento della variante Delta (aprile 2021). Applicando la modellizzazione matematica ai dati epidemiologici e genomici, gli studiosi hanno scoperto che la variante Delta era fra il 30-70% più trasmissibile rispetto ai precedenti lignaggi del Covid a Delhi. Inoltre la stessa variante era in grado di infettare persone che in precedenza erano già entrate in contatto con il virus. Per cercare prove effettive di reinfezione gli scienziati hanno esaminato una coorte di soggetti reclutati dal Consiglio della ricerca scientifica e industriale indiano. A febbraio il 42,1% dei partecipanti non vaccinati era risultato positivo agli anticorpi contro il coronavirus. A giugno il numero corrispondente era dell'88,5%. Ciò suggeriva tassi di infezione molto elevati durante la seconda ondata. Tra i 91 individui con precedente infezione (prima dell'avvento della variante Delta), circa un quarto (27,5%) ha mostrato un aumento dei livelli anticorpali e quindi un'evidente reinfezione. Quando i ricercatori hanno sequenziato tutti i campioni di casi di vaccinazione in un singolo centro durante il periodo dell'indagine, hanno scoperto che tra le 24 infezioni segnalate, la variante Delta aveva sette volte più probabilità di contagiare nonostante il vaccino. Secondo gli scienziati il concetto di immunità di gregge è fondamentale per porre fine alle epidemie. Tuttavia la situazione a Delhi mostra che l'infezione con precedenti varianti di Covid sarà insufficiente per raggiungere l'immunità di gregge contro la variante Delta. «L'unico modo per porre fine o prevenire le epidemie di Delta - ha concluso il professor Ravi Gupta del Cambridge Institute of Therapeutic Immunology and Infectious Disease -è l'uso di richiami vaccinali che aumentano i livelli di anticorpi in maniera tale da superare la capacità della variante di eludere la neutralizzazione anticorpale».

Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero.Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza

Maurizio De Giovanni per "la Stampa" il 9 ottobre 2021. È sperabile che tra qualche anno sarà divertente parlare del metro che venne meno all'inizio di ottobre del Ventuno. Cento centimetri che con il passare del tempo a noi distanziati sono sembrati mille, diecimila. Certo, bisognerà che sia un addio e non un arrivederci; e che come sempre dovrebbe accadere, a partire da oggi ogni giorno sia migliore del precedente e peggiore del successivo. Bisognerà aver dimenticato molte cose, immergendosi in una ripresa che avrà il colore e il sapore di un dopoguerra, come quando agli inizi degli anni Sessanta del Novecento si divenne finalmente consapevoli che la guerra era finita, che le macerie erano state rimosse e che si poteva solo migliorare. Bisognerà che, come nel terzo atto di Napoli Milionaria, nessuno abbia più voglia di sentire incombente il pericolo e che la malattia e la morte siano definitivamente dietro le spalle; e che i reparti di terapia intensiva siano ormai vuoti, con i letti liberati per le ordinarie emergenze. Dovrà insomma essere dimenticato il rischio della vita, e la lotta a questo invisibile terribile nemico dovrà essersi ridotta a una punturina da fare a inizio della brutta stagione, magari comprensiva di quella per l'influenza generica, quella non legata a oscuri laboratori orientali e a pipistrelli infetti venduti in mercati cinesi (che poi, ci chiediamo con un brivido a chi venga mai voglia di comprare un pipistrello a fini alimentari). E dovremo, per parlarne con leggerezza, aver dimenticato curve e grafici e virologi divenuti divi del piccolo schermo, dai gravi accenti e dalle nere previsioni. Le scuole dovranno essere pienamente popolate, come negozi e uffici; e il mondo dovrà essere di nuovo un luogo sicuro, in cui saranno visibili i sorrisi e ci si potrà salutare con un cenno del capo, consapevoli dell'altrui gradimento verso il nostro cenno. E non si dovrà più avere l'impressione straniante di essere diventati sordi, per le parole attutite da barriere FFp2 e l'impossibilità di integrare i suoni percepiti con un minimo di lettura delle labbra. Al sottoscritto, in particolare, il Covid ha portato un'ulteriore brutta notizia: la certezza di un'ipoacusia galoppante. Di tante, troppe cose brutte accadute negli ultimi anni, la peggiore è sicuramente stata il cosiddetto distanziamento sociale. Certo, le perdite subite e le immagini dei camion carichi di bare in fila nelle strade deserte sono una ferita impossibile a rimarginarsi; e nessuno potrà dimenticare i pomeriggi passati a fissare dalle finestre il silenzio di città abbandonate. Ma il non potersi abbracciare, il non potersi stringere ha inciso non poco nel venir meno del coraggio e nell'incremento della paura. È per questo che oggi la notizia dell'abolizione del metro di distanza necessario in ogni luogo aperto e chiuso come misura preventiva del contagio riveste un'importanza molto maggiore di quella che potrebbe apparire, nelle pieghe del susseguirsi di intese e malintesi interni ed esterni a maggioranze e minoranze, di estimi e di catasti, di piani e di resilienze. Ci spingeremmo quasi ad affermare che, sotto l'aspetto simbolico, è la prima vera buona notizia da molti mesi; e che per molti versi potrebbe segnare l'inizio della vera ripresa, quella sperabilmente senza ritorno. Ci pensate? Basta col criterio del congiunto, del convivente, del confinante e del limitrofo. Ci si potrà urtare casualmente, si potrà capitare seduti vicini al cinema o al teatro e perfino scambiarsi opinioni sul film o sullo spettacolo. Si potranno fare file senza guardarsi in cagnesco nel momento in cui inavvertitamente si arriva a novanta centimetri di distanza, e si potrà forse anche starnutire al chiuso, se proprio scappa, senza essere fissati con riprovazione come terroristi. Dietro semplice esibizione di una schermata del telefonino o di un foglio stampato a casa ci si potrà stringere la mano e parlarsi confidenzialmente avvicinandosi a distanza d'orecchio. Si potrà fare amicizia. Si potranno fare nuovi incontri, stringere conoscenza con persone che non abitano nello stesso appartamento senza sentirsi in colpa. Si potrà recarsi a uno spettacolo, a un incontro culturale o a un evento sportivo decidendolo anche all'ultimo minuto, senza prenotare a pioggia sulla rete, nella speranza di rientrare nel ristrettissimo numero degli ammessi al venticinque per cento. Si potrà sedere sotto lo stesso sole e davanti allo stesso mare, o sulla stessa terrazza di fronte al panorama. Si potrà salire su un aereo o su un treno senza rintanarsi sulla parete del veicolo, lanciando occhiatacce acciocché nessuno osi avvicinarsi troppo. Un metro è un metro, in fondo. Meno di un passo, un po' più della maggior parte delle braccia. Ma è diventata in quest' epoca buia una distanza siderale, perché quel metro ha diviso me da te, e noi da loro. Ha imposto paura, incertezza, pessimismo e soprattutto solitudine. Per questo, tra tante cose, sarà proprio questo metro che non dovremo dimenticare. Perché quel metro per due anni ha separato l'esistere dal vivere; e ora che non c'è più, la sua assenza dovrà accompagnare la voglia di rinascere.

Covid, le barriere in plexiglas proteggono davvero dal contagio? Lo studio pubblicato sul NYT. Asia Angaroni il 24/08/2021 su Notizie.it. I divisori in plexiglas funzionano davvero? Secondo alcuni studi, potrebbero ostacolare il ricambio d’aria negli ambienti, generando un effetto contrario. Con lo scoppio dell’emergenza Covid abbiamo imparato a convivere con la mascherina e con i plexiglas, ormai presenti in negozi, tabaccherie, locali, supermercati, uffici e non solo: ma davvero le barriere in plexiglas proteggono dal rischio di contagio? Quando la pandemia è scoppiata anche nel nostro Paese, a fine febbraio 2020, negozi, uffici, supermercati e non solo si sono muniti di divisori in plexiglas. Sono state tra le prime indicazioni fornite e consigliate ad aziende e piccoli imprenditori, affinché mantenessero le dovute distanze dai clienti e/o dagli altri colleghi presenti sul posto di lavoro. Tuttavia, non mancherebbero gli effetti controproducenti. A evidenziarli è uno studio pubblicato sul New York Times: all’apparenza il plexiglas agisce come la mascherina, bloccando le goccioline che escono da naso e bocca di chi sta davanti a noi, ma al contrario rappresenta solo un falso senso di sicurezza. Il virus, infatti, viaggia principalmente via aerosol e le goccioline leggere restano nell’aria. Inoltre, i divisori potrebbero ostacolare il corretto ricambio d’aria negli ambienti chiusi. Arieggiare adeguatamente una stanza, aprendo con frequenza le finestre per alcuni minuti, permette di limitare il rischio di contagio anche in luoghi affollati, come le classi scolastiche. Al contrario, le barriere rallenterebbero il riciclo d’aria e potrebbero formarsi “zone morte” dove l’aria non viene pulita e il virus può concentrarsi ad alti livelli. Secondo alcuni studi condotti sui contagi da Covid-19, i divisori in plexiglas avrebbero un’efficacia parziale, generando persino effetti controproducenti. A spiegarlo è Linsey Marr, professore di Ingegneria alla Virginia Tech di Blacksburg, che dichiara: “Una foresta di barriere in un’aula interferisce con la corretta ventilazione”. Quindi ha precisato: “Gli aerosol di tutti i presenti saranno intrappolati e si accumuleranno, finendo per diffondersi al di fuori dello spazio individuale”. Una volta sottolineati i possibili effetti controproducenti dei divisori in plexiglas, resta fondamentale ribadire l’importanza di vaccini e mascherine. Gli studiosi condividono la necessità di vaccinare insegnanti, studenti e lavoratori e imporre l’uso della mascherina. Importante anche migliorare la qualità dell’aria, per esempio servendosi di depuratori con filtri di tipo Hepa. Le barriere in plexiglas, inoltre, spesso vengono disposte all’interno di una stanza senza il supporto di esperti che possano valutarne gli effettivi benefici. A tal proposito, Richard Corsi, professore di Ingegneria all’Università della California, ha commentato: “Ogni stanza è diversa in termini di disposizione dei mobili, altezza delle pareti e dei soffitti, finestre e porte. Tutte queste cose hanno un enorme impatto sul flusso effettivo e sulla distribuzione dell’aria”.

Enrico Pirondini per "blitzquotidiano.it" il 3 novembre 2021. Covid, Enrico Pirondini annota nel suo diario. Scrivo ancora dal bunker Covid di Reggio Emilia. Padiglione infettivi. Blindato e isolato da giorni. Letto 14. In stanza entrano solo infermieri con scafandro. Sembrano palombari. Poche parole, gesti sicuri, tante accortezze. Il virus fa paura. È in arrivo un’altra ondata. C’è un ottimismo solo di facciata, per non allarmare i pazienti, pesantemente provati dal Covid, dalle cure martellanti, dalla solitudine. Sono momenti difficili, l’anima “non vibra più” come diceva la poetessa Alda Merini. La solitudine è una pace inaccettabile. Perché “imposta”, perché nutre pensieri cupi, perché è il campo da gioco di satana. I palombari lo sanno e ti sommergono di antidepressivi. Le cure cominciano all’alba con la misurazione della temperatura e della glicemia. E si va avanti fin quasi a mezzanotte. Con prelievi, antibiotici, misteriosi infusi (misteriosi almeno per me), tac a sorpresa, tamponi molecolari.

Iniezione di eparina nella pancia alla sera

Prima di cena (al tramonto) non manca mai l’iniezione di Eparina nella pancia; è un farmaco “efficace è sicuro “, garantisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È un formidabile anticoagulante, mi mette al riparo da eventuali trombosi. La circolazione del sangue è salva. Medici e paramedici seguono rigorosi protocolli. Sono regolarmente vaccinato e, con mia moglie, ho beccato il Covid.  Come è stato possibile? Chi l’ha trasmesso se eravamo in quarantena volontaria? Mistero. Forse tutto è partito da una nipotina in visita che era negativa al tampone e nessuno immaginava invece che il virus era già in viaggio. 

Limitata copertura del vaccino anti covid: serve la terza dose

D’accordo. E le nostre vaccinazioni? Mi sono fatto un’idea, peraltro condivisa nel mio padiglione: i vaccini hanno una “copertura” di fatto inferiore alle attese. Di qui la necessità della terza dose.

Sarà. A complicare il quadro va ricordato che nessuno dei sintomi simil-influenzali (febbre, tosse, mal di testa, respiro corto, dolori muscolari, stanchezza, perdita dell’olfatto e del gusto) si era manifestato prima del fatal tampone positivo. Quindi l’arrivo del 118, il ricovero urgente, sette ore in barella al Pronto soccorso (intasato), l’isolamento nel reparto bunker, le cure tempestive, la stanzetta blindata. Comunico solo con il tablet. Gli amici vogliono sapere. A tutti raccomando l’igiene personale e di stare molto attenti. E limitare – ad esempio – il contatto con le superfici potenzialmente infette negli spazi pubblici: corrimano, maniglie, sostegni, pulsanti. E pure le merci nei supermercati: sono potenziali veicoli di contagio. E se qualcuno ha ancora dei dubbi venga qui nel padiglione (strapieno) degli infettivi, sentirà storie illuminanti. 

Mascherine di ossigeno e antibiotici a grappoli

E scoprirà come si vive aggrappati a mascherine di ossigeno, flebo, aghi nelle vene, grappoli di antibiotici detti “antivita”. Perché è vero che fanno strage di batteri ma si fanno pagare salato, impoveriscono la nostra flora batterica indiscriminatamente. Non distinguono i batteri buoni da quelli cattivi. Paradossalmente rinforzano alcuni batteri pericolosi  che, come ogni forma di vita, si adattano per sopravvivere alle minacce. Si imparano molte cose a stare qui. Prima fra tutte: state alla larga da questi padiglioni.  Se potete. E contate sul vaccino. Sennò dovrete contare parecchi giorni di solitudine e sofferenza. Sono dolori che rovesciano la vita.

Dagotraduzione dal New York Times l'1 agosto 2021. Chi sono i fornitori più pericolosi di disinformazione sul Covid? Questa primavera, il Center for Countering Digital Hate ha pubblicato “The Disinformation Dozen", un rapporto sui 12 influencer che secondo il Centro erano responsabili del 65% delle falsità anti-vaccino diffuse su Facebook e altre piattaforme di social media. In cima alla lista c'è l'osteopata della Florida Joseph Mercola, oggetto di un recente profilo su The Times della mia collega Sheera Frenkel. Altri disinformatori sono Robert F. Kennedy Jr., attivista ambientale, e Rizza Islam, un affiliato della Nation of Islam. La disinformazione che Mercola, Kennedy e gli altri hanno diffuso è una brutta cosa, un pericolo per la salute di chi ci crede oltre che un pericolo pubblico per coloro che sono esposti alle loro scelte irresponsabili. È anche un promemoria del fatto che gli anti-vaccinisti di oggi non sono solo un fenomeno di destra, come alcuni media hanno cercato di far passare. La maggior parte delle figure nell'elenco proviene dal mondo della medicina alternativa, solitamente non associato al repubblicanesimo a coste rock. Ma la storia dei ciarlatani che spacciano cure false e teorie del complotto politico non è l'unica parte della saga di disinformazione sul Covid. La sfiducia nei messaggi di salute pubblica viene anche seminata quando i messaggeri di salute pubblica si mostrano meno che completamente affidabili. L'ultimo esempio in questo dramma è stato un match urlante del 20 luglio tra il dottor Anthony Fauci e il senatore Rand Paul. Il repubblicano del Kentucky ha suggerito che Fauci avesse mentito al Congresso sostenendo che il National Institutes of Health non aveva mai finanziato la ricerca sul guadagno di funzione presso l'Istituto di virologia di Wuhan. Fauci ha fatto un'eccezione veemente, affermando che la ricerca che il NIH aveva finanziato indirettamente con una sovvenzione di 600.000 dollari non era collegata al virus Covid e non si qualificava come guadagno di funzione, una tecnica di ricerca in cui un agente patogeno è reso più trasmissibile. Fauci ha quasi certamente ragione sui meriti tecnici, e Paul non ha aiutato il suo caso con le sue buffonate da J'accuse. Ma la verità più grande – oscurata fino a poco tempo fa da fervidi sforzi (Fauci incluso) per respingere la teoria della perdita di laboratorio per le origini della pandemia – è che l'establishment scientifico del governo degli Stati Uniti ha sostenuto la ricerca sul guadagno di funzione e la questione meritava molto più dibattito pubblico di quello che ha ottenuto. È anche incontrovertibilmente vero che i beneficiari di quel finanziamento si sono impegnati in tattiche ingannevoli e in menzogne totali per proteggere la loro ricerca dal controllo pubblico mentre denunciavano i loro critici come complottisti. «In una riunione del Dipartimento di Stato, i funzionari che cercano di chiedere trasparenza al governo cinese affermano di essere stati esplicitamente invitati dai colleghi a non esplorare la ricerca sul guadagno di funzione dell'Istituto di virologia di Wuhan, perché porterebbe un'attenzione sgradita al finanziamento del governo degli Stati Uniti», ha riferito il mese scorso Katherine Eban di Vanity Fair raccontando i dibattiti interni al governo sull'origine della pandemia. C’è una buona ragione se milioni di persone pensano che alcuni esperti di salute pubblica non siano così eroici o onesti come li fanno sembrare i loro stenografi dei media. Ciò che vale per le domande sulle origini della pandemia vale anche per le domande sulla sua gestione. Il CDC ha ampiamente sopravvalutato i rischi di diffusione all'aperto del virus, che (almeno fino all'emergere della variante Delta) sembrava essere più vicino allo 0,1% che al 10% sbandierato. Fauci ha mentito - non c'è altra parola per questo - su quella che vedeva come la soglia per raggiungere l'immunità di gregge, basata, come ha riportato Donald McNeil sul Times a dicembre, sulla «sua sensazione istintiva che il paese è finalmente pronto ad ascoltare ciò che ha pensa davvero». Un allarmante studio del CDC ha scoperto che i bambini ispanici e neri erano a maggior rischio di essere ricoverati in ospedale per Covid, il che ha contribuito alla pressione per mantenere le scuole pubbliche chiuse all'insegnamento in presenza nonostante le crescenti prove che le scuole non fossero zone calde virali. L'impatto di questa disinformazione sulla vita quotidiana è stato immenso. E sebbene possa avere il pregio di essere offerto con le migliori intenzioni o con molta cautela, questo atteggiamento probabilmente ha fatto più danni nel minare la fiducia del pubblico nella scienza dell'establishment di quelli ad opera di un ciarlatano della Florida. La credibilità degli esperti di salute pubblica dipende dalla loro comprensione del fatto che il compito di informare il pubblico significa dire tutta la verità, incluse le incertezze, invece di offrire Nobili Bugie al servizio di ciò che credono il pubblico abbia bisogno di sentirsi dire. Questi stessi esperti potrebbero rischiare di diminuire ulteriormente la loro credibilità se le loro assicurazioni sull'efficacia del vaccino si rivelassero eccessivamente ferventi. Uno studio preliminare condotto da Israele suggerisce che il vaccino Pfizer perde gran parte della sua capacità di proteggere dalle infezioni dopo pochi mesi, sebbene continui a proteggere da malattie gravi. Questo è ancora un argomento decisivo per il vaccino, ma un passo indietro rispetto alle precedenti promesse. Se finiamo per aver bisogno di un terzo, quarto o quinto colpo - e se condizioni gravi come la miocardite finiranno per essere legate ai vaccini - l'erosione della fiducia pubblica potrebbe trasformarsi in una frana. Quindi, con ogni mezzo, continuiamo a esporre e denunciare la disinformazione proveniente dalle paludi febbrili di Alternative America. Ma non sarà abbastanza bene finché i tutori della salute pubblica non si atterranno a uno standard più elevato di veridicità e responsabilità. Medico, guarisci te stesso.

VACCINI & GREEN PASS. CHI SONO I VERI ASSASSINI. Andrea Cinquegrani il 26 Luglio 2021 su la Voce delle Voci.

Finalmente le "cure" anti coronavirus trovano una legittimazione a livello europeo.

Finalmente i farmaci in grado di contrastare il Covid al suo primo insorgere ricevono disco verde delle autorità UE.

Finalmente nuove terapie, soprattutto a base di anticorpi monoclonali, hanno l’ok per combattere il virus fin dai suoi primi sintomi.

Finalmente, quindi, crolla il mito dei ‘vaccini’ come unica strada da battere sulla via della salvezza.

Finalmente, poi, si scopre d’incanto chi sono stati e sono – fino ad oggi – i veri "assassini". 

LE CURE NEGATE

E partiamo, a questo punto, proprio dai killer. 

Il premier Mario Draghi. Quelli che il nostro premier, Mario Draghi, ha additato come i veri, autentici, unici responsabili di tutti i crimini possibili, coloro i quali non intendono vaccinarsi, che si trasformano in "assassini", perché uccidono se stessi, i loro cari e gli altri. Estrapolate così, e attribuite ad un fuori di testa, un ubriaco o un decerebrato, non stonerebbero. Ma se pensiamo che a pronunciarle è stato il nostro super-amato e super-stimato primo ministro, corrono subito dei brividi lungo la schiena.

Viviamo ormai in un mondo distopico e capovolto?

Dove la pandemia ha rovesciato tutti i canoni?

Ed è saltata ormai ogni regola, ogni minimo buonsenso?

Forse è proprio così. Perché i veri assassini, i killer sono stati e sono proprio loro. Lorsignori. Chi ci ha (s)governato fino ad oggi sia a livello politico che (sic) scientifico, chi ha portato al massacro migliaia e migliaia di italiani privati delle cure, dei farmaci necessari per fronteggiare il coronavirus fin dal suo primo insorgere.

In soldoni: chi ha ordinato, come terapia, solo “tachipirina e vigile attesa”, negando, per legge, l’utilizzo di quei prodotti che chiunque, invece, avrebbe potuto trovare tranquillamente in farmacia dietro presentazione di una ricetta del medico di famiglia. E ad un prezzo incredibilmente basso, 5 o 6 euro la confezione (peccato gravissimo!): come succede, ad esempio, con l’idrossiclorochina, usata ritualmente per combattere patologie artritiche, ma subito indicata dallo scienziato francese, Didier Raoult, come efficace terapia anti covid. E l’idrossiclorochina è stata ostacolata sia a livello internazionale – dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) all’Agenzia europea per il farmaco (EMA) – che a livello nazionale, dal Comitato Tecnico Scientifico (CTS) all’Associazione italiana delle industrie farmaceutiche, la potente AIFA. A sollecitarne l’uso solo alcune associazioni di medici di base e soprattutto il comitato ‘Cure domiciliari’. E c’è voluta una ordinanza del Consiglio di Stato, emessa il 12 dicembre 2020, per consentirne e legittimarne l’uso. Un vero ceffone al ministro della Salute Roberto Speranza, quell’ordinanza. Quante vite si sarebbero potute salvare facendo ricorso a cure tempestive come l’idrossiclorochina, l’invermectina, la lattoferrina, i cortisonici, l’eparina e via di questo passo?

Perché tutto è stato negato, ostacolato, osteggiato, nella messianica attesa dei vaccini, il vero, unico eldorado per le case farmaceutiche?

Chi pagherà per quelle vite?

Sapete quale è stato il paravento dietro al quale si sono protetti lorsignori? “Siamo in emergenza”, “la pandemia va comunque fronteggiata”, quindi si possono bypassare test e sperimentazioni, perciò si può autorizzare l’uso dei vaccini (pur sperimentali), proprio in virtù di quell’emergenza. 

PERFINO LA UE SOLLECITA LE “CURE”

Ma adesso si scopre che il re è nudo. Che l’emergenza era taroccata. Proprio perché esistevano dei farmaci, delle cure invece negate, delle terapie possibili e invece nascoste ai cittadini.

Ora la conferma arriva addirittura dalla stessa EMA, che sta monitorando le ultime fasi di altri farmaci anti covid, i quali verranno approvati entro ottobre-dicembre e autorizzati dall’Unione europea.

Giorni fa, infatti, la Commissione europea ha annunciato il varo di un primo ‘portafoglio’ di cinque trattamenti che “potrebbero essere presto disponibili per curare i malati della UE”. E’ la Commissaria europea alla Salute in persona, Stella Kyriakides, ad ammettere: “anche se la vaccinazione sta prendendo velocità, il virus non sparirà e i pazienti avranno bisogno di cure sicure ed efficaci per ridurre il peso della Covid 19”. Era ora!!

Ma vediamo, nello specifico, di cosa si tratta. Partiamo dai farmaci a base di anticorpi monoclonali, quattro in tutto.

Il primo è una combinazione di "bamlanivimab" ed "etesevimab": il farmaco viene prodotto dalla casa farmaceutica "Eli Lilly".

Il secondo è una combinazione di "casirivimab" e "imdevimab". Alla sua produzione hanno lavorato due aziende: "Regeneron Pharmaceuticals Inc." e "Hoffman–La Roche Ltd".

Il terzo farmaco è a base di "regdanivimab", e viene prodotto da "Celltrion".

Il quarto è a base di "sotrovimab", anche qui impegnate due case farmaceutiche: "Glaxo SmithKline" e "Vir Biotechnology Inc.".

Passiamo al quinto prodotto. Si tratta di un immunosoppressore, "baricitinib", che riduce l’attività del sistema immunitario. Viene prodotto anch’esso da "Eli Lilly". Tale immunosoppressore – già attualmente autorizzato per pazienti non covid – “inibendo una sostanza presente nel nostro organismo, tiene sotto controllo l’infiammazione”, secondo Antonio Clavenna, responsabile dell’unità di farmacoepidemiologia dell’Istituto Mario Negri di Milano.

Così viene dettagliato in un documento UE: “Sulla base del lavoro del gruppo di esperti sulle varianti della Covid 19, istituito di recente, la Commissione definirà entro ottobre un portafoglio di almeno 10 possibili strumenti terapeutici contro la Covid-19. Il processo di selezione sarà obiettivo e basato su dati scientifici con criteri di selezione concordati con gli Stati membri. Dal momento che sono necessari tipi di prodotti differenti a seconda delle popolazioni di pazienti e delle fasi e della gravità della malattia, il gruppo di esperti individuerà le categorie di prodotti e selezionerà gli strumenti terapeutici candidati più promettenti per ciascuna categoria sulla base di criteri scientifici”.

E ancora: “Il portafoglio contribuirà all’obiettivo di disporre di almeno 3 nuovi strumenti terapeutici autorizzati entro ottobre, ed eventualmente di altri 2 entro la fine dell’anno. L’Agenzia europea per i medicinali avvierà altre revisioni cliniche di strumenti terapeutici promettenti entro la fine del 2021, in funzione dei risultati delle attività di ricerca e sviluppo”.

Non è finita. Due settimane fa è stato organizzato un “primo evento di settore sugli strumenti terapeutici per garantire che questi ultimi, una volta autorizzati, siano prodotti in quantità sufficiente il prima possibile”. 

IL NOSTRO MINCULPOP

A questo punto, con dei farmaci utilissimi per fronteggiare con efficacia il coronavirus, perché mai un cittadino italiano dovrebbe essere indotto se non ‘obbligato’ al vaccino?

Ad un vaccino che, ribadiamo per l’ennesima volta, è del tutto sperimentale?

Con i test che verranno ultimati – nel migliore dei casi – a dicembre 2023, quindi tra un anno e mezzo?

E senza che le case farmaceutiche abbiano ancora prodotto lo straccio di un documento scientifico attestate efficacia e sicurezza dei vaccini inoculati in questi mesi sui cittadini-cavia?

Emerge, di tutta evidenza, la totale illegittimità e la profonda anticostituzionalità sia della prassi vaccinale, così come impostata – anzi imposta – dal governo e dalle truppe capeggiate dal generale degli alpini, che della politica di restrizioni attraverso il ‘Green Pass’, altrettanto illegale e anticostituzionale come può facilmente comprendere uno studente al primo anno di legge.

Torniamo quindi all’interrogativo di partenza.

Chi sono i veri assassini?

Chi ammazza non solo libertà e democrazia, ma in modo concreto attenta alla salute dei cittadini?

E’ venuto il momento di un sonoro VAFFA a tutti quelli che in queste settimane di rincoglionimento collettivo (causato da calura continua o effetto collaterale della pandemia e/o di una sua ultima variante?) hanno intonato la litania: la libertà individuale non può mettere in pericolo la salute di tutti.

E di un sonoro VAFFA a tutti i media, uniti nel coro della più becera e volgare disinformazione. Ma avete sentito i tiggì, soprattutto made in Rai, con voci fuori campo da telegiornali Eiar, quelli d’epoca fascista? Fate subito la prova: e vedete se un mezzobusto dirà in questi giorni una parola, una sola, sui farmaci, le cure appena varate a livello UE (non dai bolscevichi) e che mandano in soffitta i vaccini.

Non sentirete volare una mosca: proprio come ai tempi del Minculpop…

FACEBOOK. CENSURA LA VOCE SU FARMACI E CURE ANTI COVID. Andrea Cinquegrani il 14 Luglio 2021 su la Voce delle Voci. La Voce censurata da Facebook per un articolo su farmaci e cure in grado di contrastare il coronavirus. L’ennesimo episodio che dimostra come i social si stanno sempre più rapidamente trasformando nei ferrei guardiani di Big Pharma e delle politiche governative (come sta dimostrando in modo clamoroso la Francia sotto il pugno di Emmanuel Macron) ormai finalizzate a reprimere, con le buone o con le cattive, chi osa solo mettere in discussione l’efficacia e, soprattutto, la sicurezza dei vaccini. E documentare che esistono alternative ai vaccini, fino a quando saranno sperimentali (dicembre 2023 almeno, e fino ad allora i cittadini saranno le cavie), ossia cure e farmaci come – per fare due esempi – idrossiclorochina e invermectina. Ecco l’ultimo esempio di smaccata censura nei confronti della Voce, rea di aver pubblicato, meno di 24 ore fa, il testo di un’intervista rilasciata non da un signor nessuno, ma da un autorevolissimo scienziato a livello internazionale, Peter McCullough. Nei riquadri, potete leggere i testi inviatici da Facebook per motivare la censura. Motivi chiaramente risibili, ma ottimi per far in modo che l’articolo non possa circolare in rete, ma solo fra i lettori della Voce. Ovviamente oscurato, l’articolo, sulla pagina Facebook della Voce.

Cosa aveva sostenuto, nell’intervista rilasciata addirittura ad un avvocato tedesco, Reiner Fuellmich, di tanto terrificante il dottor McCullough?

Ecco un paio di passaggi.

“Avevamo scoperto che la soppressione del trattamento precoce era strettamente legata allo sviluppo di un vaccino. E l’intero programma della Fase I del bioterrorismo era incentrato sul mantenere la popolazione nella paura e nell’isolamento e prepararla ad accettare il vaccino che sembra essere la Fase II di un’operazione di bioterrorismo”.

E poi: “La prima ondata è stata quella di uccidere gli anziani a causa dell’infezione respiratoria. La seconda ondata è prendere i sopravvissuti, prendere di mira i giovani e sterilizzarli. Se noti, il messaggio nel paese, negli Stati Uniti, è che ora non sono nemmeno interessati agli anziani. Vogliono i bambini…”.

Così aggiungeva Reiner Fuellmich: “McCullough ha spiegato perché solo i trattamenti precoci possono ridurre i ricoveri e i decessi, mentre rimane ‘materialmente impossibile’ per le campagne di vaccinazione fare lo stesso”. 

CHI E’ REALMENTE IL “MOSTRO” MCCULLOUGH?

Vediamo, a questo punto, chi è quel satanasso di McCullough.

Attualmente ricopre la carica di vice responsabile del reparto di Medicina Interna del Centro Medico alla Baylor University di Dallas, nel Texas. E’ autore di oltre 1000 pubblicazioni scientifiche su riviste come il ‘New England Journal of Medicine’, ‘The Lancet’, il ‘Journal of American Medical Association’, di cui una quarantina proprio sul tema bollente del covid. Il suo nome è citato oltre 500 volte dalla ‘National Library of Medicine’. E’ il fondatore e presidente della ‘Cardiorenal Society of America’, essendo un grande studioso nel campo della malattia renale cronica come rischio cardiovascolare.

Insomma, una vera e riconosciuta autorità in campo medico, e non uno dei tanti cialtroni e saltimbanchi che, in questi mesi, stanno popolando le tivvù e infestando i media di mezzo mondo, a partire dall’Italia.

Fin dall’inizio dell’epidemia e poi della pandemia da Covid-19 ha profuso tutte le sue energie per far conoscere negli Stati Uniti e nel mondo (molto note, per fare un solo esempio, le sue ricerche in Australia) l’esistenza di cure e farmaci ben precisi, poco costosi e accessibili a tutti perché esistenti in commercio e quindi presenti in ogni farmacia, per contrastare il coronavirus fin dalle prime battute, in modo precoce, ossia quando si presentano i primi sintomi. Niente “tachipirina e vigile attesa”, come consigliato, anzi "ordinato" subito dal nostro ministero della Salute, ottima anticamera per l’ospedalizzazione, quindi l’intubazione e in moltissimi, troppi casi, la morte (e di ciò dovranno rispondere in parecchi, soprattutto da noi, nella lunga catena di responsabilità, che comunque comincia dal ministro della Salute e prosegue con il governo e il ‘Comitato Tecnico Scientifico’). Dicevamo, non vigile attesa e tachipirina, ma farmaci che hanno un nome ben preciso: in prima fila idrossiclorochina einvermectina, appunto, che però hanno il grave difetto di costare poco (circa 5 euro la confezione) e quindi di risultare sgraditi ai famelici appetiti delle grandi case farmaceutiche, le star di Big Pharma. 

SENATO AMERICANO BOLLENTE

Il 10 novembre 2020 McCullough è stato protagonista di un’animata udienza del Senato americano, dove ha illustrato la fondamentale importanza del “Trattamento ambulatoriale del Covid-19”, questo era il tema al centro della discussione. Di seguito potete ascoltare quel video, di grande rilievo scientifico e soprattutto ‘storico’, perché nessuno, da quel momento in poi, è più autorizzato a sostenere di essere all’oscuro su farmaci e cure in grado di contrastare il Covid. Nel corso di quella infuocata riunione al Senato degli Stati Uniti, anche altri medici hanno parlano a favore dell’uso precoce di quei farmaci, soprattutto dell’idrossiclorochina (il cui sponsor principale, a livello internazionale, è lo scienziato francese Didier Raoult). Ma la maggior parte dei senatori a stelle e strisce da quell’orecchio non volevano sentire: per fare un solo, emblematico esempio, il senatore Gary Peters, il quale ha sostenuto che è “irresponsabile” (testuale) dare false speranze agli americani e ha sottolineato che le raccomandazioni per questo o quel farmaco devono essere “radicate nella scienza”. Quella dei ricercatori al soldo di Big Pharma, of course! Nel suo intervento, McCullough ha puntato l’indice non solo contro la politica sorda e collusa, ma con forza anche contro il potere accademico, i soloni in camice bianco che non lavorano certo per il bene collettivo e la salute dei cittadini. E si è scagliato anche contro le due riviste alle quali pure collabora da anni, "The Lancet" e il "New England Medical Journal", colpevoli di aver pubblicato studi taroccati, firmati da sedicenti scienziati al solo scopo di screditare l’idrossiclorochina. Studi che, dopo qualche settimana, sono stati infatti ritirati dalle stesse riviste, dopo una valanga di critiche. 

LE ACCUSE AI MICROFONI DI "FOX NEWS"

Poco più di due mesi fa, per la precisione il 7 maggio 2021, McCullough è stato ospite del programma di punta su "Fox News", il "Tucker Carlson Today Show". Al centro delle sue parole, anche stavolta, le cure precoci contro il covid e come – scrive ‘Radio radio’, la quale ha mandato in onda l’intervista che potete ascoltare cliccando sul link in basso – “siano state inspiegabilmente soppresse in tutto il mondo nonostante la loro efficacia fosse ampiamente dimostrata dall’esperienza di moltissimi medici”.

Così continua ‘Radio radio’: “"Perché altri medici non intervengono sulla malattia per aiutare questi pazienti a evitare il ricovero e la morte? Perché non lo fanno?", si chiede McCullough durante l’intervista. Il conduttore Tucker Carlson è sconvolto: ‘possibile che non se ne parli? Ma soprattutto, chi e cosa c’è dietro? Interessi economici?’. ‘Tucker non posso dirtelo – risponde – ma ho visto cose nell’ultimo anno che come medico non posso spiegare. Sono profondamente preoccupato che qualcosa sia fuori controllo nel mondo. E questo – continua – coinvolge la scienza, coinvolge la letteratura medica, coinvolge una risposta normativa, coinvolge popolazioni tenute nella paura, nell’isolamento e nella disperazione”.

Commenta "Radio radio": “Medici che rifiutano categoricamente le cure ai pazienti, famiglie che nella disperazione si rivolgono ai tribunali per ottenere l’autorizzazione ai trattamenti: qualcosa non torna in questo meccanismo di blocco mondiale sui possibili trattamenti della malattia e il dottor McCullough se ne fa testimone”.

Da noi è successo proprio lo stesso. C’è voluta un’ordinanza emessa dal Consiglio di Statoil 12 dicembre 2020 per "legalizzare" e rendere possibile l’uso dell’idrossiclorochina come farmaco per la terapia anti covid. Fino a quel momento il nostro ministero della Salute si era battuto come un leone, a botte di ricorsi al Tar contro le richieste dei legali di famiglie e associazioni, per vietarne l’uso. 

CENSURE ANCHE VIA YOUTUBE

Anche ‘YouTube’ si è accanito contro McCullough.

Lo rammenta proprio l’avvocato tedesco Fuellmich. “Nonostante le eminenti qualifiche del dottor McCullough, YouTube ha ritirato una presentazione che ha tenuto sul sito, mentre altre piattaforme hanno attivamente soppresso praticamente tutte le informazioni relative al trattamento precoce dei pazienti”.

Ed è fresca fresca un’altra performance griffata "YouTube". 

La racconta il sito di controinformazione ‘Renovatio 21’: “La scorsa settimana Joe Roganha realizzato un ‘podcast d’emergenza’ insieme al biologo evoluzionista Bret Weinstein, Ph.D., e allo specialista di terapia intensiva Dr. Pierre Kory, dove raccontano la censura operata da YouTube per aver discusso dei vantaggi dell’uso dell’invermectina per il trattamento del Covid”.

Così continua la ricostruzione di quanto è successo: “Weinstein, conduttore del ‘DarkHorse Podcast’, ha detto a Rogan che YouTube ha "demonetizzato" i suoi canali, rimosso alcuni dei suoi video e ha emesso avvisi per i contenuti che menzionavano l’invermectina, etichettandoli come "spam" e "informazioni mediche ingannevoli"”. Estratto di una sua deposizione rilasciata nei mesi scorsi; il video è privo di identificazione di quale udienza in particolare si tratti, ma lo stesso McCullough ha recentemente confermato in una intervista al blog Mittdolcino di aver testimoniato il 19 novembre 2020 al Comitato del Senato degli Stati Uniti sulla Sicurezza Nazionale degli affari Governativi, nonché per tutto il 2021 presso il Comitato del Senato del Texas sulla Salute e i Servizi Umani, all’Assemblea Generale del Colorado e al Senato del New Hampshire. “Ho visto cose sul Covid che non sono spiegabili: il mondo è fuori controllo”…

"Il Covid si può trasmettere anche attraverso i peti". L'ultima "scoperta" degli inglesi. Da iltempo.it il 25 luglio 2021. A leggerlo risulta difficile trattenere il sorriso. L'ultimo studio sul Covid che arriva dall'Inghilterra è incredibile: "Il virus si trasmette anche attraverso i peti". Sì, avete capito bene, se qualcuno va al bagno a liberare le sue "arie" corporee e subito dopo entra un altro in toilette, ci sarebbe il rischio di contrarre il coronavirus. Della ricerca, non confermata ad oggi dagli scienziati del governo inglese, parla il tabloid Sun citando diverse fonti mediche. Un ministro ha detto al Telegraph di aver letto "roba dall'aspetto credibile" sull'argomento da altri paesi in tutto il mondo. Ci sarebbero state prove di una "connessione di tracciamento legata al genoma tra due individui entrati nella stessa toilette pubblica in Australia". Inoltre, ci sono stati alcuni "casi ben documentati di malattie che si sono diffuse attraverso i tubi di scarico durante i lockdown a Hong Kong". Un portavoce del Primo Ministro ha però affermato di non essere consapevole che il virus può essere diffuso "scorreggiando". Ma questo non toglie che è stato dimostrato come la presenza del Covid possa essere riscontrata nelle feci. Lo scorso maggio, il medico australiano Andy Tagg ha sottolineato che i peti potrebbero causare la trasmissione del coronavirus dopo aver analizzato una serie di test effettuati da pazienti positivi all'inizio di quest'anno. Ha citato i test che hanno rivelato che il virus era presente nelle feci del 55 per cento dei pazienti con Covid-19. Il dottor Tagg ha scritto: "Beh, SARS-CoV-2 può essere rilevato nelle feci ed è stato rilevato in un individuo asintomatico fino a 17 giorni dopo l'esposizione". Ha aggiunto: “Forse SARS-CoV-2 può essere diffuso attraverso i peti ma abbiamo bisogno di più prove". 

Tagadà, Matteo Bassetti e il ragionato ritorno alla normalità: "Perché sono due mesi che do la mano". Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. "Sono due mesi che do la mano per una semplice ragione. Io le mani me le lavo da sempre e quindi non vedo nessun problema": Matteo Bassetti - in collegamento con Tiziana Panella a Tagadà su La7 - dice basta alle restrizioni di più di un anno fa, come appunto quella di non darsi la mano. "Se chi me la stringe non se l'è lavata io poi me le igienizzo le mani. Non dimentichiamo che le cose cambiano, ciò che andava bene 15 mesi fa probabilmente oggi va meno bene". L'infettivologo del San Martino di Genova ha fatto lo stesso discorso anche sulla questione mascherine, per cui oggi vige ancora l'obbligo di indossarle. "Se si dice che la mascherina è obbligatoria e poi vediamo le cose che abbiamo visto ieri sera - ha detto Bassetti in riferimento ai festeggiamenti dopo la vittoria della nazionale italiana - allora ha molto più senso fare quello che hanno fatto i francesi, levare l'obbligo della mascherina all'aperto, dicendo che magari è fortemente raccomandata. Perdi forza come istituzione se dici di fare una cosa e poi i cittadini ne fanno un'altra". Tornando all'argomento mani, poi, Bassetti ha continuato: "Possiamo dare la mano ad altre persone, l'importante è che con quelle mani poi non andiamo a toccare naso, bocca e occhi. Ma questo non vale solo per il Covid, è una misura che gli italiani devono imparare nell'ambito dell'educazione civica". A tal proposito l'esperto ha ricordato che prima del Covid eravamo il Paese che si lavava meno le mani: "Bastava andare nelle scuole italiane nel novembre del 2019 per vedere che non c'erano nemmeno i distributori di sapone nei bagni. Credo che la pandemia ci abbia insegnato qualcosa. Lavarsi le mani salva la vita e fa bene, ma non è non dandosi la mano che si risolve il problema".

Mix, mascherine e stato d'emergenza: la zuffa dei virologi. Alessandro Ferro il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. C'è chi vorrebbe toglierle subito e chi invece predica prudenza e pazienza per il mantenimento delle mascherine anche all'aperto. "Non capisco la fretta di toglierle..." Caos virologico anche sui vaccini. Mascherine si, mascherine no? Sta diventando il nuovo tormentone (anche politico) di questi ultimi giorni. Complice l'estate che avanza, lo stare all'aria aperta e la bassa circolazione del virus la tendenza sarebbe quella di toglierle, almeno nei luoghi non chiusi. Dall'altro lato c'è lo spettro della variante Delta, la più pericolose tra le mutazioni che il Covid ha fatto finora. Cosa fare, quindi?

"Toglierle? Non lo capisco..."

"Io sinceramente non capisco bene il razionale, non capisco la fretta di togliere le mascherine. Siamo stati per 16 mesi con queste protezioni sul viso, in fondo". Mario Clerici, docente di immunologia dell'università degli Studi di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, aspetterebbe ancora. "Non vorrei che ufficializzando lo stop alle mascherine passasse il messaggio del 'liberi tutti'. Magari non siamo ancora pronti - afferma ad AdnKronos - se si va al mare già tutti girano senza". Se è vero che la percentuale dei vaccinati comincia ad essere molto alta ed i raggi solari, in questo periodo dell'anno, riescono ad inattivare il virus in pochi secondi (qui il nostro approfondimento), sarebbe logico pensare ad una sospensione all'aperto dell'uso delle mascherine, come lo stesso Prof. Clerici ammette. Però, per l'immunologo, è bene mantenere ancora una linea cautelativa. "Ma, come al solito, visto che ci muoviamo su un crinale di massima cautela, perché non aspettare ormai fino a settembre-ottobre per decretare lo stop? Sarebbe per avere più vaccinati con due dosi".

"Il virus è in letargo"

In realtà, il Prof. Clerici si "smentisce" da solo: il suo timore è legato principalmente all'idea che togliere le mascherine possa significare che la pandemia è finita ma non che, in questo periodo storico, non sia giusto toglierle. In Gran Bretagna, dove la variante Delta sta diventando sempre più diffusa, "essenzialmente le infezioni si stanno concentrando in un'area dove la percentuale di vaccinati è più bassa e la verità è che se hai fatto due dosi di vaccino hai una protezione pressoché perfetta - ha dichiarato - Io mi sentirei sicuro anche oggi a uscire senza mascherina, però non vorrei che scattasse un liberi tutti". Più sereno il Prof. Zangrillo, che ospite ad "Un giorno da pecora" su Radio Rai, ha fatto il punto sulla situazione epidemiologica come abbiamo riportato con questo articolo. "Oggi il virus è in letargo", affrontando poi l'argomento mascherine che "all'aperto non hanno alcun senso". Un comportamento che Alberto Zangrillo stigmatizza perché "non ci porta a quella consapevolezza, a quell’equilibrio mentale e psicologico dell’evidenza, dell’obiettività, dell’informazione corretta. Senza questa informazione corretta saremo tutti un popolo di beoti che segue chi la spara più grossa".

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"Toglierle subito", "Usate la mascherina"

La pensa diversamente Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, che come abbiamo scritto sul giornale.it, ritiene che "andrebbero tolte subito, non ha più senso tenerle". Parafrasando un famoso detto, si potrebbe dire "virologo che vai, risposta che trovi": per Massimo Galli, direttore del dipartimento Malattie Infettive dell'ospedale Sacco di Milano, eliminare l'obbligo di mascherina all'aperto "mi sembra stia diventando un altro di quei tormentoni di contenuto più che altro politico, per accattivarsi un pò di simpatie di qua o di là", afferma a SkyTg24, sottolineando come fin quando la situazione epidemiologica non si sarà stabilizzata, "usate la mascherina, soprattutto in ambiti di affollamento. È un sacrificio minimo che comunque aiuta a ridurre la circolazione del virus. Non dico in spiaggia piuttosto che al ristorante, ma in situazioni affollate, anche all'aperto, vale la pena di ricordare che è sicuro che ci aiuti".

Prevale, però, la linea del buon senso. "La mascherina all'aperto si può togliere, con saggezza, quando siamo distanti dagli altri, rimettendola quando ci sono persone vicine. È uno strumento utile e non va demonizzata, perché ci serve ancora". A dirlo all'Adnkronos Salute il virologo Giovanni Maga, direttore dell'l'Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia favorevole, con prudenza, ad un'eventuale abolizione dell"obbligo all'aperto, come ha fatto la Francia dove da oggi è possibile girare per strada senza. "La mascherina all'aperto - continua Maga - serve soltanto quando si è a stretto contatto con altre persone. Sappiamo che il rischio di contagio all'aperto è molto basso, sappiamo che quando si è fuori si tende ad essere più dispersi. Però, in tutti quei casi in cui ci sia un'aggregazione significativa, anche all'aperto in questo momento la mascherina la terrei. Fino a quando avremo una circolazione di virus abbastanza significativa, seppure in calo, resterei prudente".

Nessuna linea comune anche sui vaccini

Ma quella delle mascherine non è che la punta dell'iceberg del disaccordo tra virologi, epidemiologi ed immunologi: come abbiamo descritto in questo articolo di Francesca Galici, il mix vaccinale ha mandato in tilt gli esperti. Va fatto o no? Cos'è meglio? Tra i più dubbiosi sull'effettiva validità della vaccinazione eterologa c'è Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali. "Si potevano aspettare più dati dagli studi in corso. Capisco che siamo in 'guerra' contro il Covid, ma certe scelte hanno poi delle conseguenze. Mi sembra un parere tirato per i capelli", ha affermato. Ha un punto di vista diverso, ma non opposto, Andrea Crisanti. Il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'Università di Padova, intervistato ai microfoni di "Un giorno da pecora", dice che "non ci sono dal punto di vista teorico, immunologico e biochimico elementi che fanno ritenere che il mix sia dannoso". Ancora diverso è il punto di vista di Pierluigi Lopalco, epidemiologo e assessore alla Sanità della Regione Puglia: "In emergenza purtroppo bisogna anche prendere decisioni di politica sanitarie basate su evidenze deboli (non assenti). Non possono essere applicate in pandemia le stesse regole della gestione ordinaria della sanità". Secondo l'assessore è fondamentae la corretta comunicazione a ogni livello per "spiegare bene al cittadino il perché di certe scelte" sui vaccini. Super favorevole Bassetti, per il quale "è corretto cambiare se si modificano le evidenze scientifiche", più "politico" Pregliasco che afferma come gli "elementi scientifici ci sono. Altre nazioni lo hanno fatto, ci sono i dati".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care.

"Via le mascherine all'aperto": cosa dicono gli esperti. Alessandro Ferro il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Mentre negli Stati Uniti il Cdc elimina quasi del tutto l'uso delle mascherine all'aperto, in Italia si discute in merito ad eventuali provvedimenti da attuare. I dubbi, ormai, sono sempre di meno: usare le mascherine all'aperto e specialmente tra vaccinati non ha senso (o ne ha poco). Il Covid-19 si contrae quasi esclusivamente negli spazi chiusi e scarsamente areati. Un’evidenza scientifica che negli ultimi tempi ha portato il Centers for Disease Control statunitense, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, ad aggiornare le linee guida sull’utilizzo delle mascherine ed il messaggio è chiaro: l'uso deve continuare ma, in determinate circostanze, è possibile abolire l’obbligatorietà all’aperto. Proprio pochi giorni fa, come riportato da Repubblica, il Cdc statunitense ha emanato nuove indicazioni sull’utilizzo della mascherina all’aperto: si può togliere in caso di passeggiata, corsa o giro in bici con i propri familiari e per gli incontri all’aperto tra poche persone ma vaccinate. Mascherina invece consigliata, nello stesso contesto, per chi non ha ancora ricevuto il vaccino. Situazione diversa, logicamente, al chiuso: l’impiego della mascherina è sempre consigliato sia per i vaccinati sia per chi non ha ricevuto ancora nulla. Quel che più ci interessa, comunque, è che all'aperto e con la giusta distanza la mascherina non serve ma l'Italia, in tal senso, non ha ancora preso nessuna decisione. "Io lo dico da sempre: le mascherine all'aperto hanno un senso nel momento in cui si arriva ad un contatto ravvicinato con un'altra persona, se sto parlando indosso la mascherina. Ma quando cammino da solo, indipendentemente dal resto dal mondo, non so quale senso possa avere. Loro, ovviamente, lo stanno dicendo perché hanno sempre più vaccinati, quindi è evidente che aumentando le persone che hanno una copertura è inutile l'uso della mascherina all'aperto e, probabilmente, anche al chiuso": è quanto ci ha detto in esclusiva il Prof. Matteo Bassetti, Direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova. Secondo l'infettivologo genovese, anche da noi si dovrà adottare, quanto prima, un provvedimento che dica: chi si vuole mettere la mascherina perché si sente più sicuro, come fanno gli orientali, va benissimo metterla ma l'importante che non sia un obbligo di legge quando mi trovo nel bosco, in un parco o quando non ho nessuno accanto a me. "È questo che dovrebbe cambiare: un conto è se ritengo che mi possa servire perché me lo ha consigliato il mio medico in quanto non vaccinato, debole o per altri motivi. Non c'è nessun problema dire di poterla mettere ma è diverso dal dire che tu te la devi mettere", sottolinea Bassetti. Adesso che si va incontro all'estate ed i raggi solari UV-A e UV-B inattivano il virus (come abbiamo scritto in questo approfondimento dopo aver anche interpellato un astrofisico), diventa ancora più inutile l'uso delle mascherine all'aperto. "Il problema non è tanto dell'inattivazione del virus - prosegue Bassetti - stiamo vedendo una riduzione significativa dei contagi perché stiamo di più all'aria aperta e si riesce ad areare molto di più gli ambienti. Il problema è quanto si stia vicini ad un'altra persona, al chiuso capita molto più frequentemente di quando si sta all'aperto. Dobbiamo avere il coraggio di togliere, con l'estate, l'obbligo delle mascherine all'aperto anche perché altrimenti diventa un obbligo anche quando si va in spiaggia. Sinceramente, pensare di vedere gli italiani a luglio ed agosto con 40 gradi e la mascherina, farebbe ridere il mondo intero. Evitiamo di fare la figura di quelli che la fanno più grossa di tutti gli altri". Gli studi proseguono ed arrivano le prime evidenze: i vaccinati sono protetti dalla forma grave della malattia ma una minima parte di loro potrebbe, comunque, infettarsi. Pfizer copre al 95%, significa che 5 su 100 possono contrarre il virus, AstraZeneca copre all'80-85% quindi uno ogni 10 potrebbe contagiarsi "ma nessuno di quelli che si contagia fa la polmonite o muore - sottolinea l'infettivologo - Questo significa che, probabilmente, avremo persone positive al tampone ma con il raffreddore". Tutto questo è importante per capire se i vaccinati possano, o meno, trasmettere il virus a chi non lo è. "Non è ancora dimostrato con certezza che i vaccinati possano trasmettere il virus ma alcuni dati ci dicono che la trasmissione è ridotta del 95% rispetto a chi non lo è. Quindi, è probabile che possa infettarmi ma la mia capacità di trasmettere il virus ad altri è di 95 volte inferiore rispetto a quella che ha chi non è vaccinato". Un altro motivo, quindi, affinché il governo possa e debba fare un decreto per cui un vaccinato possa non indossare la mascherina come sta avvenendo negli Stati Uniti. "Gli italiani, già tra vaccinati, possono non mettere la mascherina anche al chiuso senza alcun tipo di problema come avviene già in altri Paesi evoluti. E poi questo è anche un modo per incentivare la vaccinazione, purtroppo abbiamo a che fare con una grossa fetta di no vax. La mascherina è stata fondamentale per un certo periodo della nostra vita, adesso credo che con i vaccini lo sia molto di meno". Recentemente abbiamo pubblicato uno studio irlandere (qui il nostro pezzo) che ha dimostrato come, all'aperto, si sia contagiata soltanto una persona su mille. "L'ho sempre detto, all'aperto non succede quasi nulla: anche se vedo tanta gente per strada con una certa densità non mi preoccupa assolutamente", ha dichiarato per ilgiornale.it il Prof. Giovanni Di Perri, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia e della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Torino. L'esperto ci ha aggiornato con un altro studio molto significativo. "Circa un mese fa è uscita un'analisi retrospettiva quasi ossessiva di tutte le variabili che hanno condizionato l'infezione: ebbene, su quasi 1.600 infezioni contratte ed analizzate una per una, meno del 3% risultavano essere state contratte all'aperto da persone che, verosimilmente, si baciavano". Più cauto ma certamente a favore di usare intelliggentemente l'uso delle mascherine all'aperto è il Prof. Masssimo Ciccozzi, Responsabile di epidemiologia al Campus Bio-Medico di Roma al quale abbiamo chiesto il suo parere sull'argomento. "Se ti sei vaccinato e stai da solo in un parco ma non in una strada dove passa gente, in quel caso la mascherina si può togliere certamente - ci dice, ma - Il vaccinato può infettarsi e puoi infettare gli altri". Parlando della situazione americana, in Italia ci troviamo ancora con un 30% di popolazione vaccinata, un numero ben diverso da quello degli Stati Uniti ormai si è quasi raggiunta la soglia dell'immunità di gregge. "Certo, se anche noi vacciniamo l'80-90% della popolazione, sono d'accordo che tra vaccinati si possa non portare ma, poiché non siamo ancora a questo livello di copertura, il virus può ancora circolare. Le toglierei solo quando avremo il minor numero possibile di suscettibili", conclude.

Graziella Melina per “il Messaggero” il 14 maggio 2021. Tra le misure di precauzione anticovid, all'inizio della pandemia, di sicuro la mascherina è stata quella più bistrattata. Gli esperti non erano del tutto sicuri che potesse servisse a proteggere dal contagio, tanto che per arrivare a obbligarne l'utilizzo c' è voluto un bel po' di tempo. Ora che è entrata nell' uso comune, senza neanche troppi disagi, pare sia diventata la misura più gravosa di cui liberarsi. Il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri assicura che all' aperto se ne potrà fare a meno quando si arriverà a vaccinare 30milioni di persone. Ma intanto la comunità scientifica resta cauta. «Sicuramente quando saremo su livelli come l'Inghilterra e Israele quindi sopra il 50 per cento dei vaccinati - precisa Fabrizio Pregliasco, ricercatore di Igiene generale e applicata dell'Università degli Studi di Milano - all' aperto si potranno togliere. Sono del parere però che per gli ambienti chiusi bisogna aspettare livelli di sicurezza maggiori, almeno finché non ci sarà una campagna vaccinale molto più ampia, circa all' 80 per cento. Comunque, toglierla o meno dipende dai contesti, non è facile dare indicazioni, non tutti gli ambienti chiusi sono uguali. Molto varia anche a seconda della permanenza delle persone in un ambiente». Nulla è scontato, insomma. Neanche ipotizzare quando si potrà davvero farne a meno. «Bisogna valutare l'andamento effettivo dell'epidemia - mette in guardia Pregliasco - perché nel prossimo futuro ci ritroveremo con una riduzione dei casi gravi, visto che proteggiamo soprattutto i soggetti fragili, però potremmo avere un incremento del numero dei casi. Quindi, alla luce dell'efficacia di alcune vaccinazioni e della possibilità che emergano e si diffondano le varianti, aspetterei ancora prima di togliere l'obbligatorietà». Per valutare se all' aperto sia il caso di usarla oppure no, conta anche il fatto di essere immunizzati. Come ricorda Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, «nella presa di posizione dei Centers for Disease control and prevention dell'8 di marzo, si afferma che tra i vaccinati le mascherine possono essere rimosse anche al chiuso. La Germania qualche giorno fa ne ha allentato l'uso. È innegabile che se i vaccini funzionano, e funzionano - ribadisce Cauda - prima o poi riusciremo a toglierle. Non dimentichiamo che intanto ci siamo risparmiati 8milioni di casi di influenza». Ma per il momento, meglio non affrettare i tempi. «Sarei comunque cauto, finché non si raggiunge una immunità del 50 per cento - precisa Cauda - visto che siamo in presenza di varianti estremamente trasmissibili. In questo tipo di decisioni bisogna tenere conto anche dell'andamento dell'infezione. Se avessimo 50 contagi per 100mila persone, il tracciamento sarebbe possibile, ma noi siamo ancora a 127 su 100mila». Anche l'arrivo delle belle giornate di sole non viene in soccorso. «Il caldo in sé non aiuta - ricorda Cauda - guardiamo per esempio a quello che sta succedendo in India». Per decidere quando sarà possibile privarsene, bisogna dunque valutare diversi parametri. Secondo Antonio Ferro, presidente della Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica, «la copertura vaccinale è importante, ma quello che conta è anche l'incidenza del virus, quindi il valore Rt. Ricordiamo che fra i giovani il virus continua a circolare, e la trasmissione può essere pericolosa, poi ci sono le varianti di cui tenere conto. Sicuramente, utilizzare il vaccino da solo come criterio per decidere di togliere la mascherina non può bastare». Pensare di liberarsi al più presto di questa protezione di sicurezza, quando ancora i conti con la pandemia non sono affatto chiusi, non sembra dunque una mossa vincente. «Se eliminassimo oggi le mascherine anche solo all' aperto - mette in guardia Carlo Signorelli, ordinario di Igiene dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - passerebbe il messaggio che siamo tutti liberi, che è finito il pericolo. Ma così non è. Dunque, non solo bisogna farla tenere in luoghi chiusi, dove c' è il rischio di contagio, ma bisogna mantenerla anche all' aperto. Resta poi il fatto che, in questo momento, la mascherina non impedisce alcuna delle attività fondamentali. Quindi, visto che siamo sulla strada buona, nelle ultime settimane la campagna vaccinale sta andando bene, gli anziani sono protetti nel 90 per cento dei casi, dobbiamo continuare a essere cauti, anche all' aperto. La mascherina deve essere utilizzata finché non saremo davvero al sicuro».

Da corriere.it il 14 maggio 2021. «Mentre negli Usa chi è vaccinato può persino fare a meno delle mascherine, da noi non solo bisogna continuare a portarle, ma ai vaccinati si continuano a fare tamponi e a sottoporli a quarantena come se i vaccini fossero acqua fresca. E invece i vaccini (anche in Italia) funzionano molto bene». È la riflessione pubblicata sui social da Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova dopo aver letto la notizia che negli Stati Uniti i vaccinati potranno smettere di indossare la mascherina e di rispettare la regola del distanziamento sociale nella gran parte delle situazioni, sia all’aperto che al chiuso.

Da ansa.it il 14 maggio 2021. Gli americani che sono completamente vaccinati potranno smettere di indossare la mascherina e di rispettare la regola del distanziamento sociale nella gran parte delle situazioni, sia all'aperto che al chiuso: lo affermano i Cdc, la massima autorità sanitaria statunitense. "Se siete vaccinati e siete all'aperto, mettete da parte la vostra mascherina": è l'ultimo messaggio agli americani del virologo Anthony Fauci, consulente sanitario del presidente Joe Biden. In una serie di interviste tv rilasciate negli ultimi giorni Fauci ha insistito sul fatto che negli Usa è ora di allentare l'obbligo di indossare le mascherine. "E' tempo per una transizione - ha sottolineato oggi alla Cbs - e le persone vaccinate non devono più indossare la mascherina all'aperto, a meno che non si trovino in situazioni molto affollate. Ma in tutti gli altri casi, mettete la mascherina da parte, non dovete indossarla". Fauci ha quindi spiegato che l'uso della mascherina potrebbe diventare un'abitudine stagionale, per combattere la diffusione anche di comuni malattie: "Guardate come quest'anno la stagione influenzale non è praticamente esistita, perché le perone hanno seguito quelle regole sanitarie che funzionano non solo per fermare il Covid". "Oggi è un grande giorno per l'America nella nostra lunga battaglia contro il Covid-19. Qualche ora fa, il Cdc ha annunciato che non sarà più raccomandato ai totalmente vaccinati di indossare le mascherine": lo ha detto Joe Biden parlando dal Rose Garden della Casa Bianca, dove ha lanciato un nuovo appello agli americani perchè si vaccinino: "la scelta è vostra, vaccinarsi o continuare a indossare la mascherina finchè non sarete immunizzati".

Il vaccino ai guariti è utile? Tutti i dubbi sulle direttive di Speranza. Martina Piumatti il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Per il ministero della Salute chi ha fatto il Covid può vaccinarsi con una singola dose entro 3-6 mesi dalla guarigione. Con il ciclo completo oltre i 6. Ma diversi studi sulla durata degli anticorpi in chi è guarito sollevano dubbi sui protocolli. Lucia ha 64 anni e non ha fatto il Covid. O almeno così credeva. A metà aprile prima di prenotarsi per il vaccino decide di fare il test sierologico. Risultato: ha oltre 21 mila IgG (anti-spike), gli anticorpi contro il Sars-CoV-2, quando il limite minimo per essere protetti è 50. Segno che deve aver contratto il virus in forma asintomatica. Ma ora: data l’alta concentrazione di anticorpi, il vaccino va fatto o no? “Il mio medico - racconta Lucia - ha chiamato il referente della nostra Asst, che però ha lasciato a chi mi farà il vaccino la responsabilità di decidere in base alle direttive ministeriali. Insomma, ne so come prima”. La circolare del ministero della Salute n. 8284 parla chiaro: “È possibile - si legge nel documento del 3 marzo scorso - considerare la somministrazione di un’unica dose di vaccino anti-Covid-19 nei soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dalla documentata infezione e, preferibilmente, entro i 6 mesi dalla stessa”. Insomma, secondo le linee guida siglate da Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero, chi ha fatto il Covid dovrebbe vaccinarsi con una singola dose se è guarito da un minimo di 3 mesi a un massimo di 6. Non è specificato, però, cosa deve fare chi non sa quando ha contratto il virus, ma lo scopre, come Lucia, dal numero elevato di anticorpi neutralizzanti rilevati dal test sierologico. Alla base della raccomandazione ministeriale ci sarebbero alcuni studi sulla durata della protezione anticorpale. “Il rischio di reinfezione da Sars-CoV-2 - si legge nel report n. 4/2021 dell’Iss condiviso da ministero, Aifa e Inail che contiene la circolare - è stato valutato in uno studio multicentrico di coorte condotto su oltre 6.600 operatori sanitari nel Regno Unito. I risultati mostrano che nei soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 la probabilità di reinfezione sintomatica o asintomatica è ridotta dell’83% e che la durata dell’effetto protettivo dell’infezione precedente ha una mediana di 5 mesi”. Ma se, come nel caso di Lucia, il valore è ancora alto ha senso fare il vaccino? I protocolli non distinguono in base ai livelli di immunità naturale contro il virus di chi è guarito e “ai fini della vaccinazione” stabiliscono che “non è indicato eseguire test diagnostici per accertare una pregressa infezione”. Una direttiva giudicata insensata da Claudio Giorlandino, direttore scientifico dell'Istituto Clinico Diagnostico di Ricerca Altamedica e autore di una meta analisi in fase di pubblicazione sulla rivista Virus Disease. “Tutte le ricerche scientifiche che abbiamo esaminato - spiega Giorlandino a IlGiornale.it - dimostrano come nelle persone che hanno già avuto il Covid la risposta immunitaria contro il Sars-CoV-2 sia di lunga durata, almeno 11-12 mesi secondo un recente studio dell’Istituto Spallanzani. Se anche gli anticorpi scomparissero la protezione sarebbe assicurata dai linfociti T di memoria, pronti a rispondere in caso di nuovo contatto con il virus. E lo stiamo dimostrando su un gruppo di operatori sanitari di centri Covid. A distanza di molti mesi dalla malattia avevano gli anticorpi quasi a zero. Poi, probabilmente in seguito a un nuovo contatto con il virus, sono schizzati a livelli altissimi. Il Sars Cov-2 è un virus a Rna ed è noto che, per alcuni virus di questo tipo, come quello del morbillo e della polio, la prima infezione può fornire un'immunità permanente. Cosa che a distanza di anni si verifica ancora nel caso di guariti da Mers e Sars, parenti stretti del Sars-Cov2”. Data la durata della protezione anticorpale, vaccinare chi ha già avuto il Covid per Giorlandino è uno spreco inutile di dosi che potrebbero essere usate per chi non è immune. “Anche perché - aggiunge il direttore di Altamedica - a differenza di chi è vaccinato, è coperto contro le varianti perché la mutazione avviene per ora solo sulla proteina spike ma il virus rimane lo stesso. Per questo, contrariamente all’indicazione ministeriale, è necessario che si valuti con un test sierologico qualitativo pungidito, economico ed efficace, l’eventuale presenza di anticorpi prima di praticare una vaccinazione che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe inutile ed avrebbe sottratto un vaccino a chi ne ha bisogno. Basta scelte dettate da una "medicina difensiva", ora serve focalizzarsi su dati epidemiologici e statistici riportati da studi scientifici. Perché sprecare una dose per chi è già immunizzato quando i vaccini scarseggiano?”. Favorevole, invece, alla singola dose di vaccino per i guariti è Sergio Romagnani, immunologo di fama internazionale e professore emerito di Immunologia clinica e Medicina Interna all’Università di Firenze. “Un richiamo dopo la malattia va fatto perché è dimostrato che potenzia la risposta immunitaria preesistente. Anche se la cosa più giusta - sottolinea Romagnani a IlGiornale.it - sarebbe fare un test sierologico per valutare la presenza degli anticorpi. Perché se il livello di IgG è molto alto esiste un rischio, bassissimo, di reazioni collaterali intense. E stimolare eccessivamente il sistema immunitario può provocare la comparsa dei cosiddetti "anticorpi a bassa affinità" per l’antigene. Che non sarebbero più protettivi, ma facilitanti la moltiplicazione del virus nel caso di ulteriore infezione naturale. Ma sconsiglio di fare due dosi di vaccino a chi è guarito, anche a distanza di oltre 6 mesi. Perché con la seconda dose non si andrebbe ad aumentare ulteriormente la risposta anticorpale. Sarebbe del tutto inutile”. Una linea seguita anche dal ministero, ma solo per chi è guarito da massimo 6 mesi. Se ne sono passati da 7 in su, vanno fatte entrambe le dosi. Ora Lucia però si chiede: “Io che non so quando ho contratto il Covid, ma ho un livello altissimo di anticorpi, cosa rischio a fare il vaccino? Per il ministero la vaccinazione anti-Covid “si è dimostrata sicura anche in soggetti con precedente infezione da Sars-CoV-2”. Più avanti si legge: “Anche se la numerosità dei soggetti con pregressa infezione era molto limitata (circa 2-2,5% dei partecipanti negli studi)”. Insomma, una precisazione non molto tranquillizzante. Non solo. “Sulla base di dati molto preliminari - si ammette subito dopo - è ipotizzabile che la risposta immunitaria alla seconda dose nei soggetti con pregressa infezione possa essere irrilevante o persino controproducente”. Un’ipotesi documentata da alcune ricerche, citate nelle note del documento avallato da Speranza, tra cui lo studio dell’Humanitas di Rozzano. Il team di ricercatori, guidato dal professor Alberto Mantovani, ha confrontato i livelli di anticorpi dopo il vaccino. “Secondo quanto emerge dalla nostra esperienza - spiega a IlGiornale.it Maria Rescigno, docente di Patologia generale e pro rettore vicario con delega alla ricerca dell’Humanitas University - i guariti, anche da oltre 6 mesi, con una singola dose di vaccino raggiungono un livello di immunità equivalente a quello delle persone che non hanno contratto il virus. Soprattutto nei casi di infezione sintomatica, dove il livello di partenza delle IgG è ancora più alto rispetto ai casi asintomatici. Poi, se il livello di protezione è già ottimale, somministrando ugualmente il vaccino, si potrebbe anche verificare una leggera riduzione degli anticorpi e quindi della protezione”. Non solo. Come ci spiega Stefano Pallanti, psichiatra e docente di psichiatria e scienze del comportamento all’università di Firenze e alla Stanford University, “stiamo cominciando a vedere casi di guariti che dopo il vaccino manifestano gli effetti tipici della sindrome da post-Covid. Quell’insieme di sintomi che vanno dalla perdita delle forze ai disturbi del sonno e che persistono per mesi in 7 negativizzati su 10. Si tratta ancora di pochi casi, ma devono essere un campanello d’allarme”. Tanto che persino il ministero si premura di segnalarlo. “Qualche recente segnalazione - si legge nel report del 13 marzo che contiene le direttive sul vaccino per chi è guarito - mostra una reattogenicità sistemica (reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, ecc.) più frequente nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi”. Ma al netto di possibili, e rarissime, riduzioni della protezione, vaccinare i guariti dal Covid può essere più che altro uno spreco inutile? "Dato che il livello di anticorpi si mantiene alto, non serve - ribadisce Romagnani - fare la seconda dose a chi ha già contratto il virus anche da più di 6 mesi. Basta un singolo richiamo. Poi, perché, quando i vaccini scarseggiano, sprecarli per chi è già immune?".

Vaccini, il nodo temperature può aver scatenato alcune reazioni avverse. Zaira Bartucca su Rec News il 12 Aprile 2021. “Nell’arco di qualche mese questi prodotti si degradano, e se iniettati diventano più nocivi dello stesso vaccino. Meno novanta, poi -20 perché così “si facilita il trasporto”, -80 che è l’ideale, a temperatura ambiente. Sui preparati anti-covid si è detto davvero di tutto, ma senza che si facesse davvero chiarezza. A porsi un interrogativo destinato a durare e ad ampliare il dibattito in corso sulla sicurezza di questi sieri sperimentali, è ora il dottor Mariano Amici, che nel corso di un’intervista rilasciata a Rec News ha messo in guardia rispetto al pericolo di conservare i ritrovati medici in maniera scorretta: una pratica – avverte – molto “nociva”, che dunque potrebbe essere la causa di alcune delle reazioni avverse che sono state registrate. “Il vaccino – ha detto Amici – a seconda della temperatura richiede un tempo più o meno lungo per la degradazione. Se parliamo di una temperatura a -20 si degrada in qualche ora, se parliamo di -90 si degrada in qualche settimana, se parliamo di -180 si degrada in un periodo più lungo. Quindi nell’arco di qualche mese questi prodotti si degradano, e se iniettati dopo che hanno subito questo processo, i materiali di degradazione sono ancora più nocivi di quanto può essere il vaccino”.

Vaccini e decessi sospetti, il dottor Amici: Nessuna correlazione? Io dico che è tutto da rifare. Zaira Bartucca su Rec News l'11 Aprile 2021. Il chirurgo censurato da Vespa spiega il fenomeno della degradazione. Quella dei sieri anti-covid conservati a temperature “sbagliate” e quella dei tessuti di chi è morto dopo il vaccino: “inutili le autopsie lampo”. Ecco cosa basterebbe per capirne di più sugli effetti di questi preparati sperimentali con scienza e coscienza”. Il dottor Mariano Amici – il chirurgo più censurato dalla tv con alle spalle una lunga carriera in ambito universitario e ospedaliero, autore di numerosi studi – ripete varie volte le parole che caratterizzano il Giuramento di Ippocrate nel corso dell’intervista che ha rilasciato a Rec News. Sono discorsi da “stregone” per un Paese che lo scorso anno sceglieva chi doveva vivere e chi doveva morire nelle terapie intensive. C’è chi ci ha trovato un ché di ciarlatanesco, nell’Italia che ha lasciato fuori dagli ospedali i malati non covid e che non ha curato i malati covid. Una strage annunciata, causata da quelli che il dottor Amici definisce “protocolli sbagliati”. Un tributo di vite umane in costante crescita, perché ora alla cattiva gestione si aggiungono gli effetti avversi dei vaccini.

La commissione europea ha recentemente annunciato l’acquisto di 900 milioni di dosi di vaccini a RNA messaggero. Sono realmente così efficaci e privi di rischi?

Sull’efficacia c’è ampia letteratura scientica che dice che è molto limitata, e che va dal 19 al 29%. Questo lo dice per esempio Peter Doshi, che è co-direttore dell’autorevole British Medical Journal. L’efficacia stimata è ben al di sotto di quella del placebo, che essenzialmente non dà nessun effetto nell’organismo, e anche al di sotto della soglia di commerciabilità.

Se è un preparato inadatto privo delle caratteristiche di commerciabilità, perché viene venduto e somministrato?

Perché i dati che hanno fatto passare non sono reali. Si è parlato di un 95% di efficacia, ma in realtà i test sono stati fatti su una popolazione che non contraeva la malattia, non tra gli ultra-ottantenni con più patologie. Anche dando per buono quel 95%, saremmo comunque al di sotto di 4 punti percentuali rispetto all’ecacia della natura, cioè rispetto alle possibilità di contrastare il virus grazie al proprio sistema immunitario. Tanto è vero che l’indice di mortalità è al di sotto dell’1%. Parliamo dello 0,014%. Dopo di che questi vaccini a mRNA non sono stati realmente testati, sono stati approvati a condizione, sulla base delle dichiarazioni e dei dati forniti dalle stesse case produttrici. E’ come andare a chiedere all’oste se il vino è buono. Insomma, non c’è stata una verifica al di sopra delle parti.

Cosa serve per giungere alla vera approvazione?

Anzitutto, determinati studi. C’è tutto un cammino di sperimentazione che deve essere compiuto per giungere ad evidenze scientiche sull’efficacia, e soprattutto sulla sicurezza. Si deve accertare che siano innocui. Il foglietto stesso della casa farmaceutica invece dice chiaramente che non conosciamo gli effetti collaterali a lungo termine, se possono avere effetti cancerogeni o se possono interferire con le gravidanze. Non sappiamo se passano nel latte materno. Ci sono dunque tutta una serie di incognite che non sono state vericate. Un primo resoconto si potrà avere solo al 31 dicembre 2023, quando terminerà la sperimentazione. Nel frattempo, gli eventuali effetti avversi si segnalano al medico curante e il medico curante li segnala agli enti preposti: questo signica che i soggetti vaccinati vengono usati come cavie.

Siamo cavie di un esperimento di massa?

E’ esattamente questo. Gli effetti avversi cominciamo a conoscerli tutti perché su tutti i vaccini genici che sono in commercio ci sono degli effetti avversi gravi. Anche se la percentuale può essere relativamente bassa, abbiamo comunque centinaia, migliaia di casi di morti. Su questi decessi si sbrigano subito a dire il giorno stesso dell’autopsia che non c’è il nesso di causalità tra il vaccino e la morte. Io dico che non è possibile dire che non ci sia alcuna correlazione dopo un’autopsia di una o due ore. Per stabilire il nesso di causalità per questo tipo di vaccini, bisogna fare degli studi molto approfonditi che richiedono molto tempo. Si parla di minimo due o tre mesi. Bisogna usare una metologia particolare e bisogna sapere cosa cercare. Solo in quel caso si può stabilire il nesso di causalità. Diversamente, è una cosa che non è realistica. Da questo punto di vista non è stato detto ancora nulla.

Nel pratico in cosa consistono questi studi?

Parlo da medico, basandomi sulle mie conoscenze e sui miei studi. Come minimo vanno conservati i tessuti per poterli esaminare nel tempo e cercare aspetti specici. Questo implica un metodo di conservazione adeguato, perché altrimenti il tessuto organico si deteriora e il materiale al suo interno che può contenere lo stesso vaccino o alcuni virus, se non conservato in maniera corretta si degrada e poi non si trova più niente. Quindi intanto i tessuti prelevati dalle autopsie andrebbero tenuti minimo a -180 gradi. Lo stesso discorso vale per il vaccino: dicono che dovrebbe stare a -90 gradi per non degradarsi, ma in realtà anche questi preparati hanno bisogno di una temperatura che sia almeno di -180 gradi per conservarsi correttamente. Un dato che già da solo sembra essere in grado di inciare la buona riuscita della campagna vaccinale… Il vaccino a seconda della temperatura richiede un tempo più o meno lungo per la degradazione. Se parliamo di una temperatura a -20 si degrada in qualche ora, se parliamo di -90 si degrada in qualche settimana, se parliamo di -180 si degrada in un periodo più lungo. Quindi nell’arco di qualche mese questi prodotti si degradano, e se iniettati dopo che hanno subito questo processo, i materiali di degradazione sono ancora più nocivi di quanto può essere il vaccino.

Perché non si fa questo? Esistono problemi strutturali, di strumentazioni?

Basterebbe volerlo fare. Sulle autopsie stabilire con certezza che esiste il nesso di causalità significa intanto che qualcuno deve risarcire i danni, poi signica ammettere che questi vaccini sono nocivi. In altre parole si potrebbero mettere in evidenza problemi che entrerebbero in contrasto con la somministrazione di massa e l’obbligatorietà vaccinale che si sta perseguendo, come nel caso dei sanitari. Non c’è altra spiegazione.

Ha citato il vaccino obbligatorio per i sanitari. Il governo ha previsto un demansionamento per chi dissente e addirittura la mancata erogazione dello stipendio, ma si poteva fare?

E’ stato un atto gravissimo. Prima di tutto perché è anti-costituzionale: non si può obbligare nessuno a un trattamento sanitario senza che ci sia il consenso reale di chi lo deve subire. Quello che è strano è che solo l’Italia tra tutti i Paesi ha pensato all’obbligo. Un provvedimento del genere potrebbe essere giustificato solo se l’indice rischiobenecio fosse fortemente, e sottolineo fortemente, a favore del beneficio e non del rischio. La realtà, al netto dei numeri ufficiali che vengono dati, è che non c’è un grande beneficio a fronte di un rischio relativamente ridotto, perché la mortalità per questa malattia è ferma allo 0,014%. Praticamente sovrapponibile a quella della sindrome influenzale.

Non c’è questo morbo incurabile che giustifica interventi di questo tipo?

Non c’è. Io ho dimostrato insieme a moltissimi altri colleghi in Italia che si possono fare le cure a domicilio. Abbiamo curato tutti i casi che si sono presentati, non abbiamo dovuto ricoverare alcun paziente e non abbiamo avuto alcun decesso. Questa malattia si può curare. L’importante è imboccare tempestivamente la strada giusta, quella appunto della cura, non i percorsi sbagliati che aggravano la malattia no a portare alla morte. Questo è quello che è avvenuto, sostanzialmente. Chi cura la malattia agisce secondo scienza e coscienza, non secondo protocolli terapeutici spesso sbagliati. Non c’è quindi ragione di avere tutta questa paura, tutto questo timore, per questo virus. Di contro, i fenomeni avversi che caratterizzano i vaccini anti-covid sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di centinaia, migliaia di effetti avversi anche letali: quelli sì che sono incurabili. Non è come dice Remuzzi, che pure l’aspirina ha effetti collaterali. Non si può paragonare un farmaco sperimentato da decenni di cui conosciamo tutto, con un vaccino genico di cui non conosciamo gli effetti avversi nell’immediato e nel lungo periodo. Ecco perché a Porta a Porta da Vespa ho detto che Remuzzi ha detto delle cose assolutamente anti-scientiche.

Lo scorso 8 aprile il Senato ha approvato una mozione sulle terapie domiciliari. Siamo nalmente sulla strada giusta?

E’ la strada giusta e lo dico da mesi. Su La7, quando sono stato intervistato da Giletti o da Formigli, mi hanno fatto passare per uno stregone, come se curare a casa un paziente fosse diventato un misfatto. Mi hanno perno denunciato all’Ordine dei medici ma dopo qualche settimana, dopo che anche il Tar ha iniziato a dire che le cure domiciliari sono importanti, gli stessi che mi insultavano, per esempio Sileri (viceministro alla Salute, nda) e Giletti, sono andati in trasmissioni nazionali a dire che la medicina di base deve essere rivalutata.

Insomma chi cura i pazienti viene additato, chi è per la vigile attesa senza far nulla viene osannato.

Esatto, chi è per la sorveglianza vigile col paracetamolo che in realtà porta all’aggravamento del paziente, secondo loro agisce bene. L’osservazione è giusta, per carità, ma gli antipiretici possono essere fortemente lesivi nel malati di covid: possono aggravare la malattia, perché la febbre è un meccanismo di difesa dell’organismo.

Da quello che ho capito, così tra l’altro non si agisce sull’infiammazione. E’ vero?

Non si agisce ma anzi si aggrava, a causa dei meccanismi che si vanno ad instaurare. I numeri dello scorso anno sui decessi nascondono anche i casi di abbadono del malato. Borrelli lo ha in qualche modo ammesso nel corso di una conferenza stampa diventata tristemente celebre per quel “contiamo tutti i morti, non solo quelli per coronavirus” Esattamente. I pazienti non potevano essere visitati dai loro medici curanti a causa delle disposizioni normative, con tutto quello che ne è seguito. Fortuna che io e molti altri colleghi abbiamo contravvenuto alle direttive e abbiamo curato comunque i pazienti a domicilio, secondo scienza e coscienza. Sono gli altri medici che hanno fatto i danni, provocando l’aggravamento di chi poi si è recato al pronto soccorso e si è sottoposto al tampone. Il problema è che tutti i tamponi positivi sono stati trattati come casi covid. Esistono documenti che noi abbiamo trattato che parlano del fenomeno dei “falsi positivi”.

Uno studio del professor Zhuang pubblicato dal NCBI di Bethesda dice che nell’80,33 per cento dei casi i tamponi riportano risultati errati.

Certo, perché il tampone, io lo dico e l’ho dimostrato ovunque, è assolutamente inattendibile, non è stato mai standardizzato, non è stato mai validato e non è diagnostico. Lo ha ammesso la stessa Organizzazione mondiale della Sanità. Ormai lo sanno anche le pietre ma continuano sulla base dei falsi positivi ad adottare queste misure restrittive che non hanno alcun senso, non tutelano la salute e creano gravissimi danni all’economia nazionale. Pensare che il tampone potrebbe diventare obbligatorio tramite l’introduzione del covid pass, su cui punta il ministro al Turismo Garavaglia. Sono forme di ricatto che stanno tentando di introdurre. Non gli basta il decreto legge che obbliga i sanitari al vaccino. Se non ci arrivano con la legge, ci vogliono arrivare con ricatti vari. Questo signica che stiamo andando verso una deriva di tipo dittatoriale. Tra informazione, disposizioni sanitarie e impunità, sembra di essere già in una dittatura conclamata.

Draghi nel corso dell’ultima conferenza stampa ha parlato della necessità di sottoporsi al vaccino anticovid anche per i prossimi anni. Ma il virus non doveva diventare endemico? Non si diceva che avremmo imparato a conviverci sviluppando gli anticorpi?

Infatti se non vengono praticate le vaccinazioni il virus diventa endemico, piano piano perde la sua virulenza e dopo di che gli organismi ci convivono tranquillamente. E’ quella la vera immunità di gregge, che non si ottiene mai con le vaccinazioni.

E’ vero che non bisogna vaccinare quando è in corso un’epidemia?

Certo, lo dico io e lo dicono altri autorevoli autori, primari di ospedale, specialisti del settore e scienziati molto preparati. E’ controproducente, non facciamo che aggravare la situazione.

Ascoltandola si capisce perché non la fanno parlare.

Perché mentre tutte le tv nazionali e tutti gli organi di stampa nazionale portano avanti una voce unica e vogliono far passare questo vaccino per un toccasana senza nessuna spiegazione scientifica, io dico cosa significa vaccinarsi, come è fatto il vaccino, i suoi meccanismi di azione e i possibili danni a distanza. Tanto è vero che ho parlato delle tromboembolie prima che iniziassero le somministrazioni del vaccino. Basterebbe osservare, studiare, basarsi sulla propria esperienza, come faccio io. L’impressione è che quelli che vogliono far passare un certo tipo di narrativa si dividano in chi realmente non sa e in chi per qualche motivo fa finta di non sapere. In Italia c’è un grosso problema, ed è quello del conflitto di interessi. Ci sono virologici, ricercatori e cattedratici che fanno ricerca finanziata dalle case farmaceutiche e partecipano a convegni organizzati da loro per fior di gettoni di presenza. Di fatto non sono più soggetti che parlano di scienza al di sopra delle parti, ma promotori farmaceutici che coltivano determinate strategie commerciali. Altri semplicemente vanno avanti con l’idea del vaccino miracoloso, senza approfondire. In questi giorni mi chiamano tanti colleghi che mi dicono: ho fatto il vaccino maledetto me, ho questi sintomi. Ora che faccio? Niente, non puoi fare niente.

Dopo non si può fare più nulla?

No perché determinati vaccini oltre al fenomeno tromboembolico possono scatenare anche dei meccanismi autoimmunitari, che non si possono più curare. Ci sono i vaccini a mRNA che hanno un tipo di problemi, poi ci sono i vaccini a vettore adenovirale che possono avere anche ulteriori complicazioni. Siccome sono coltivati su linee cellulari rese immortali prelevate da feti abortiti, portano con sé quella contaminazione e possono generare il cancro. Non solo: siccome entrano nel nucleo della cellula, possono anche alterare il patrimonio genetico. Le alterazioni possono ricadere sul soggetto che si è fatto la vaccinazione ma anche sui gli, sui gli dei gli e via discorrendo.

Per quanto riguarda i vaccini a mRNA, sono stati ingegnerizzati per non entrare nel nucleo della cellula, ma non è detto che non possa accadere. Perché?

Perché è vero che quel mRNA dura poco perché si distrugge nel citoplasma, ma avviene comunque la produzione della proteina spike che poi l’organismo vede come estranea, e contro cui produce anticorpi. Questa proteina può creare degli effetti collaterali, come i fenomeni tromboembolici che hanno già provocato decessi. La proteina spike, quindi, produce fenomeni dannosi non solo con il virus ma anche con i vaccini. Il fenomeno delle tromboembolie alla fine è stato ammesso dalla stessa EMA per quanto riguarda AstraZeneca. Sì ma riguarda anche Pfizer, Moderna, riguarda tutti i vaccini anti-covid, perché sono eetti avversi legati alla proteina spike, che è anche tossica e neuro-tossica, quindi può anche provocare eetti avversi di tipo nervoso ma anche di tipo immunitario in forza delle sue sequenze geniche molto simili, se non uguali, a quelle dell’organismo. Per cui l’organismo quando produce anticorpi contro la proteina spike, produce anticorpi anche contro sé stesso e contro i suoi tessuti. Si può giungere a fenomeni immunitari multi-organo, quindi effetti avversi gravissimi che possono portare anche al decesso. Questi sono meccanismi di azione che qualunque medico dovrebbe conoscere. Riassumendo e concludendo, mi domando perché una persona dovrebbe sottoporsi a un vaccino che ha questi rischi per una malattia che ha una letalità dello 0,014%, come ha detto lei.

Esattamente. Intanto se malauguratamente dovessero incorrere nel virus si possono curare, mentre per i casi dicili di persone che non riescono a sviluppare difese autonome ci sono gli anticorpi monoclonali e c’è la plasmaferesi praticata con grande successo da De Donno.

Di che ci dobbiamo preoccupare?

Il problema è che laddove c’è una terapia valida e senza controindicazioni, questa viene squalicata e mortificata, laddove abbiamo meccanismi non terapeutici come la vaccinazione, si fanno passare come un qualcosa di miracoloso, di dogmatico. Tutto questo fa pensare che ci sia una strategia diversa dal mantenere la popolazione in salute. Lo Stato anziché spendere fior di milioni per una propaganda terroristica che diffonde panico in tutta la popolazione, potrebbe spendere per dire alla popolazione come mantenersi in salute.

Coronavirus, la bomba dell'esperto: "Tamponi, l'errore che può avere falsato tutto". Contagio in Italia, solo balle sulle cifre? Libero Quotidiano il 13 aprile 2021. Se ora l'arma contro il coronavirus è il vaccino, fino a qualche mese fa era il tampone. E in Italia abbiamo avuto problemi anche a fare i test. Abbiamo avuto problemi sul tracciamento, problemi sull'app immuni. Insomma, un disastro. Ma ora si aggiunge una inquietante rivelazione. Un esperto otorinolaringoiatra ha svelato a Il Giornale che "in Italia ancora oggi i tamponi si fanno mediamente male. È una discussione che va avanti da diversi mesi. Vedo foto e riprese televisive in cui il bastoncino viene infilato nel naso nelle direzioni più disparate”. Un errore gravissimo: "Realizzare maldestramente il tampone può inficiare la validità del test: se non vado a cercarlo nella sede corretta, cioè il rinofaringe, potrei anche non trovarlo”. In questo modo il referto segnerà un falso negativo, che così continuerà a girare e infettare. Alzando la curva dei contagi. I tamponi insomma andrebbero affidati ad otorinolaringoiatri esperti: “Di solito - spiega invece la fonte - vengono incaricati infermieri, magari neppure i migliori, ritenendo erroneamente si tratti di una manovra semplice. E pensare che alcuni non distinguono neppure il tampone per l’orofaringe da quello per il rinofaringe”.  E “basterebbe organizzare delle lezioni apposite, anche solo di un’ora”. Altro problema è il pasticcio prodotto dall’Iss tra marzo, aprile e maggio. Non solo il Report dell’Istituto su “come” fare i tamponi per diversi giorni ha fornito indicazioni del tutto sbagliate ma cita scienziati che non hanno mai fatto parte del gruppo di studio. Come Andrea Crisanti. “Se si realizza un documento per spiegare come eseguire i test - dice la fonte - non si può non interpellare neppure un otorinolaringoiatra, come purtroppo è stato fatto. Ma soprattutto deve essere preciso”. Sempre secondo Il Giornale diversi professionisti hanno fatto notare all’Istituto che dava indicazioni errate, suggerendo di puntare il bastoncino verso l’alto anziché al rinofaringe. Fortunatamente l'errore è stato corretto ma ormai il danno fatto. “L’Iss è l’Istituto di riferimento cui ci si rivolge per sapere come fare determinate cose - fa notare, rammaricata, la fonte - e invece pure loro avevano sbagliato tutto”.  

La rivelazione shock sui tamponi in Italia: "Questo errore può falsare tutto". Giuseppe De Lorenzo il 12 Aprile 2021 su Il Giornale. La rivelazione choc sui test in Italia: "Vengono fatti male". L'Iss pubblicò una guida errata: "Si stavano sputtanando". Immaginatevi una palla di neve che inizia a cadere dalla cima di una montagna, rotola, rotola, rotola, e mentre scende a valle si ingrossa sempre più diventando valanga. Ecco. La gestione della pandemia in Italia ha una sua palla di neve che forse si è trasformata in tragedia, inficiando tutto ciò che oggi consideriamo un dogma: i parametri per decidere le chiusure, le zone gialle-arancioni-rosse, il tracciamento dei contagi, la lotta alla Covid. E se fosse tutto macchiato da un errore a monte? Ormai da mesi molti scienziati non fanno che ripetere: prima del vaccino, la vera arma per frenare l’avanzata del virus sono i tamponi. Lo dimostra il caso di Madrid (leggi qui): più se ne fanno, più si interrompono le catene di trasmissione e meno lockdown bisogna imporre. In Italia invece di problemi sui test ne abbiamo avuti a bizzeffe: all’inizio il ministero della Salute vietava di farli a chi non era stato in Cina, poi sono mancati i reagenti, infine abbiamo tentennato sull’implementazione dei test rapidi. Inoltre il tracciamento è saltato sia durante la prima che nella seconda e terza ondata. Insomma: un mezzo disastro, cui oggi si aggiunge un altro inquietante tassello. A parlare col Giornale.it, sotto garanzia di anonimato, è un esperto otorinolaringoiatra. “In Italia - dice - ancora oggi i tamponi si fanno mediamente male. È una discussione che va avanti da diversi mesi. Vedo foto e riprese televisive in cui il bastoncino viene infilato nel naso nelle direzioni più disparate”. Direte: cosa cambia? Molto, se non tutto. “Realizzare maldestramente il tampone può inficiare la validità del test: se non vado a cercarlo nella sede corretta, cioè il rinofaringe, potrei anche non trovarlo”. In questo modo il referto segnerà un falso negativo, che così continuerà tranquillamente a girare, a infettare i parenti e ad alza la curva dei contagi. Costringendo il Paese ad un perenne isolamento. Di chi è la colpa? Più che un imputato, vanno cercate diverse responsabilità. Primo fattore: per essere sicuri, i tamponi andrebbero affidati ad otorinolaringoiatri che sanno esattamente come far scendere il bastoncino lungo il pavimento nasale. “Di solito - spiega invece la fonte - vengono incaricati infermieri, magari neppure i migliori, ritenendo erroneamente si tratti di una manovra semplice. E pensare che alcuni non distinguono neppure il tampone per l’orofaringe da quello per il rinofaringe”. Secondo fattore: la poca formazione. “Non va bene se a dare generiche indicazioni sono un altro infermiere o un tecnico di laboratorio, serve un otorinolaringoiatra”. In fondo, spiega la fonte, “basterebbe organizzare delle lezioni apposite, anche solo di un’ora”. Sul sito dell’Iss si trovano tanti corsi (Fad) realizzati in questo ultimo anno, ma nessuno sembra essere interamente dedicato all’esecuzione dei test (come si trovano invece da altri promotori). Terzo problema: il pastrocchio prodotto dall’Iss tra marzo, aprile e maggio. I nostri lettori sanno di cosa parliamo (leggi qui): non solo il Report dell’Istituto su “come” fare i tamponi per diversi giorni ha fornito indicazioni del tutto sballate, ma citava (e tuttora cita) scienziati che non hanno mai fatto parte del gruppo di studio. Vedi Andrea Crisanti. “Se si realizza un documento per spiegare come eseguire i test - dice la fonte - non si può non interpellare neppure un otorinolaringoiatra, come purtroppo è stato fatto. Ma soprattutto deve essere preciso”. E invece il primo rapporto dell’Iss, datato 4 aprile, “gridava vendetta”. A quanto risulta al Giornale.it diversi professionisti hanno fatto notare all’Istituto che “si stava sputtanando” perché “non faceva chiarezza”. Anzi: dava proprio indicazioni errate, suggerendo di puntare il bastoncino verso l’alto anziché al rinofaringe. Per fortuna qualcuno se ne è accordo ed ha suggerito alcune modifiche. In due soli mesi l’Istituto ha prodotto ben due revisioni, una sorta di record, ma il “danno” ormai era fatto. Quanti hanno imparato a fare i tamponi con la guida errata? E quanti ancora oggi si richiamano a quel documento? Certo, finalmente è stato tolto dalla sito ufficiale (anche se è rimasto online per diversi giorni), ma ancora oggi alcuni dossier dell’Iss pubblicati prima del 17 aprile continuano a far riferimento alla guida fallata. “L’Iss è l’Istituto di riferimento cui ci si rivolge per sapere come fare determinate cose - fa notare, rammaricata, la fonte - e invece pure loro avevano sbagliato tutto”. Questione non di poco conto, soprattutto se in palio c’è la corretta mappatura dell’epidemia. “La gestione dell’Iss è stata deficitaria. Questi Istituti sono costituiti da burocrati nel vero senso della parola. A loro non importa cosa inseriscono nei documenti, si assicurano solo risulti che loro qualcosa l’hanno fatto”. Anche se è sbagliato e rischia di inficiare la validità dei test. Trasformando la palla di neve in valanga.

Graziella Melina per “il Messaggero” il 12 aprile 2021. Che il virus per diffondersi prediliga gli ambienti chiusi era noto da tempo. Sul fatto che invece all'aperto avesse qualche difficoltà in più a passare da un soggetto all'altro gli scienziati lo hanno sempre ipotizzato, senza però arrivare a dati certi. A dare concretezza ad una questione finora solo dibattuta ci hanno pensato ora gli irlandesi. Secondo l'Health Protection Surveillance Centre, la trasmissione all'aperto avviene in un caso su mille. I dati presi in esame dagli scienziati, dall'inizio della pandemia e fino alla fine del mese scorso, comprendono 232.164 casi di persone infettate. Dopo aver analizzato la catena di contagio e soprattutto i possibili focolai, i ricercatori hanno calcolato che le persone che hanno avuto contatto col virus all'esterno erano 262, ossia lo 0,1 per cento. La conclusione degli irlandesi però non stupisce più di tanto la comunità scientifica che da mesi si arrovella alla ricerca delle vie di trasmissione del virus, senza però venirne a capo.

DATO ASSODATO. «È un dato scientifico ormai assodato - spiega Antonio Ferro, presidente della Società italiana di igiene e medicina preventiva e sanità pubblica - che la contagiosità del virus dipenda dalla sua concentrazione nell'aria, che però all'aperto si riduce in maniera esponenziale». Non solo le droplet, ossia le goccioline più grandi, vanno tenute insomma a bada, ma anche l'aerosol, ossia quelle più piccole. E la consolazione, non di poco conto dopo mesi di restrizioni e chiusure, sta ora nella certezza che le attività all'aperto non sono rischiose, sempreché si rispettino le norme di sicurezza. «Il covid è una malattia che si trasmette negli ambienti confinati e i dati anche nostri dicono che le occasioni di contagio sono sempre stati in ambienti chiusi - precisa Carlo Signorelli, ordinario di Igiene dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - Nell'area esterna c'è una dispersione tale da non rappresentare un rischio, gli aerosol si diluiscono immediatamente nell'aria e non possono arrivare in quantità tali da costituire infezione, poiché la carica virale non è sufficiente. È logico che, se il contatto è stretto, può avvenire anche in ambiente esterno. Lo studio irlandese ci conforta se vogliamo riaprire quelle attività che sono a più basso rischio».

LE TRACCE. A scovare con più precisione le tracce del virus in realtà ci avevano già provato anche ingegneri dell'università di Hong Kong ed erano arrivati alla conclusione che su 1.245 contagiati solo tre erano attribuibili a incontri all'aperto. In Gran Bretagna, l'Università di Canterbury ha analizzato invece 27mila casi di covid e il risultato è stato altrettanto confortante: secondo i ricercatori il numero di contagi all'aria aperta è quasi insignificante. All'Università della California, invece, hanno stimato che il rischio di infettarsi all'esterno è di 19 volte più basso rispetto a un ambiente chiuso. In Italia, si sono cimentati nell'impresa del calcolo delle probabilità di contagio in luoghi esterni anche i ricercatori dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr e di Arpa Lombardia e hanno dedotto che la trasmissione del virus, nel nord Italia tra febbraio e maggio, all'aperto e lontano da assembramenti è «assolutamente trascurabile». Anche Giorgio Buonanno, ordinario di Fisica tecnica ambientale all'Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia) da quando è scoppiata la pandemia ha osservato il fenomeno della trasmissione dei contagi via aerosol e ha elaborato diversi studi anche su come minimizzare i rischi. «In ambienti aperti, se manteniamo una distanza di un metro e mezzo - spiega - non abbiamo alcuna possibilità di contagiarci. Il rischio c'è però quando ci si siede al tavolino, si sta di fronte ad un'altra persona e si parla, emettendo così molta più aria. Per il teatro e il cinema all'aperto, basta invece un metro di distanza, perché lì in genere si resta in silenzio». Inutile dire che al chiuso le possibilità di contagio sono amplificate. «Abbiamo dimostrato come si possa arrivare ad avere l'80% dei casi di covid via aerosol negli ambienti indoor - precisa Buonanno - Mentre all'aperto, se non si ha un'esposizione prolungata e ravvicinata con un contagiato non c'è rischio».

(ANSA " il 27 aprile 2021)  L'Organizzazione mondiale della Sanità ha affermato che la tragica seconda ondata della pandemia da covid-19 che sta vivendo l'India è la causa di una "tempesta perfetta", ovvero della cruciale combinazione di diversi fattori fra cui raduni di massa, vaccinazioni a rilento e varianti contagiose. Lo ha sottolineato il portavoce dell'agenzia dell'OnuTarik Jašarevic, mettendo in guardia dall'attribuire esclusivamente alle mutazioni del virus l'unica causa dell'impennata di casi registrata nel Paese nelle ultime settimane. Lo riferisce il Guardian.

Da www.tgcom24.mediaset.it " il 27 aprile 2021. E' stato uno dei più grandi raduni in Europa dall'inizio della pandemia il concerto-esperimento organizzato a Barcellona il 27 marzo. Ora, a distanza di un mese, gli organizzatori hanno annunciato che tra i 5mila partecipanti non è stato registrato alcun caso di coronavirus. Tutti gli spettatori erano stati sottoposti ad un test antigenico e avevano dovuto indossare la mascherina. Ma avevano potuto ballare senza distanza sotto al palco sulle note della rock band catalana Love of Lesbian. Il concerto - Il pubblico del concerto era tenuto a sottomettersi a un test antigenico prima del concerto e indossare una mascherina Ffp2 per tutta la durata dello stesso. Inoltre, è stato utilizzato un sistema di ventilazione che garantiva un corretto ricambio dell'aria nel palazzetto che ha ospitato il concerto, il Palau Sant Jordi. Le persone non erano obbligate a rispettare distanziamento fisico. I risultati del test - Nei 14 giorni successivi, sono stati diagnosticati 6 casi positivi tra le 4.592 persone che hanno assistito al concerto e poi acconsentito all'analisi dei dati diagnostici, tutti lievi o asintomatici. Di questi, per almeno 4 è stato possibile stabilire che l'occasione del contagio non è stato il concerto; inoltre, per tutti è stato riscontrato che non hanno provocato ulteriori contagi. "I dati permettono di escludere che il concerto al Palau Sant Jordi sia stato un evento di super trasmissione del Covid", hanno spiegato i responsabili. L'analisi dei dati è stata curata da medici della Fondazione Lotta contro l'Aids e le Malattie Infettive e dell'ospedale pubblico universitario Germans Trias i Pujol e approvata dal servizio di sorveglianza epidemiologica della Catalogna. La band coinvolta nell'esperimento, Love of Lesbian, ha ringraziato gli organizzatori e i consulenti scientifici dell'evento. "Ci auguriamo che d'ora in poi, dopo questi ottimi risultati, il mondo della cultura venga ascoltato come merita", ha twittato. 

Per la Danimarca il Covid “non è più una minaccia”. Stop restrizioni dal 10 settembre. Federico Giuliani su Inside Over il 28 agosto 2021. Dopo il Regno Unito tocca alla Danimarca. Copenaghen revocherà tutte le restrizioni contro il Covid-19 ancora in vigore a partire dal prossimo 10 settembre. Il governo danese non considera più la malattia una minaccia per la società, e ha dunque pianificato l’uscita dall’incubo. “L’epidemia è sotto controllo, abbiamo tassi di vaccinazione record. Per questo, il 10 settembre, potremo abbandonare le regole speciali che abbiamo dovuto introdurre nella lotta al Covid-19”, ha spiegato il ministro della Sanità, Magnus Heunicke. Certo, le autorità allenteranno le misure di sicurezza e i cittadini potranno riassaporare la quotidianità del periodo ante Covid. Eppure – e questo può essere considerato un paradosso – l’esecutivo non sembra affatto essere intenzionato a lanciare messaggi troppo blandi. Detto altrimenti, i danesi non dovranno abbassare la guardia. “Non siamo fuori dall’epidemia”, ha sottolineato ancora il ministro, aggiungendo che il governo “non esiterà ad agire rapidamente se la pandemia metterà nuovamente a repentaglio le funzioni essenziali della società”. Nel caso in cui tutto dovesse filare liscio, la Danimarca tornerà così a respirare, proprio come ha ripreso a far il Regno Unito dallo scorso giugno, e proprio mentre molto altro Paesi europei temono di dover inasprire le misure restrittive anti Covid.

Vaccinazioni record. Ma per quale motivo la Danimarca può permettersi un simile privilegio? Niente è stato dettato dal caso. Il vero segreto di Copenaghen, più che poter contare su un efficace sistema di tracciamento e su misure altrettanto efficiente, sta tutto nella sua campagna di vaccinazione da record. Il ministro Heunicke lo ha spiegato alla lettera pubblicando un post inequivocabile sul proprio profilo Facebook: “Stiamo raggiungendo più persone possibile attraverso il nostro programma di vaccinazione, e dobbiamo mantenere il ritmo ora, così avremo gli ultimi che lo faranno. Volontario e libero”. È ancora: “In Danimarca siamo a livelli molto alti quando si tratta di far vaccinare la popolazione e quindi uscire dall’epidemia in modo sicuro ed efficace. Se non hai ancora ricevuto il tuo vaccino ti incoraggio a farlo. Aiuta te stesso, i tuoi cari e tutta la nostra comunità. Grazie”. Calcolatrice alla mano, la Danimarca è riuscita a vaccinare con un ciclo completo il 71% della popolazione e il 4,6% con almeno una dose. In tutto, Copenaghen ha somministrato 145,77 dosi di vaccino ogni 100 persone. Più del 70% della popolazione del Paese scandinavo di 5,8 milioni è completamente vaccinato; significa che il governo danese ha ottenuto una copertura vaccinale tale da poter controllare il virus e, di conseguenza, allentare le misure restrittive. Ed è proprio questo il traguardo che le altre nazioni – Italia compresa – dovranno raggiungere per sperar di imitare Copenaghen.

Aria di libertà. Il binomio che ha consentito alla Danimarca di programmare l’uscita dal tunnel si basa, da una parte, sulla significativa copertura vaccinale (sono vaccinati 7 cittadini su 10 mentre il Paese può vantare il terzo tasso di vaccinazione più alto d’Europa), e dall’altra sull’ottimo sistema di prevenzione e controllo allestito dal governo. La differenza rispetto all’Italia appare evidente nei numeri relativi alla vaccinazione. Nel nostro Paese ha completato il ciclo vaccinale il 62,8% della popolazione, mentre l’8,3% attende la seconda dose: ancora troppo poco per togliere le restrizioni. Ricordiamo che nel marzo 2020, la Danimarca era stata una delle prime nazioni a istituire un regime di semi-lockdown con la chiusura di scuole e attività non essenziali. Dopo un primo allentamento delle misure, poche settimane dopo, da agosto 2020, Copenaghen aveva nuovamente e invertito la rotta imbastendo un nuovo confinamento a Natale. Da allora il Paese si è gradualmente riaperto. Il 14 agosto, l’uso della mascherina obbligatoria è scomparso dai mezzi pubblici, unico luogo dove era ancora obbligatorio. L’obbligo di esibire il green pass nei locali notturni – che riaprono il 1 settembre – e durante i grandi eventi scomparirà il 10 settembre. Era già previsto che il “coronapass” non fosse più richiesto nei ristoranti, nei centri sportivi e nei parrucchieri dal 1 settembre. L’unica spada di Damocle che continuerà a pendere sulla testa dei danesi sarà rappresentata dalle limitazioni inerenti ai viaggi all’estero, che permarranno almeno fino ad ottobre.  

Irene Soave per corriere.it l'1 settembre 2021. «È presto per giudicare». Anders Tegnell - l’epidemiologo che ha guidato la Svezia attraverso la pandemia - ha ripetuto questa frase ad aprile 2020, a giugno 2020, a settembre, a dicembre e poi di nuovo ad aprile in ogni intervista, conferenza stampa, comunicato. «Giudicatemi tra almeno un anno». Il tempo passa, ma il giudizio sul «modello svedese» rimane, in larga parte, indecidibile. Tra quelli dei Paesi industrializzati, il protocollo con cui Stoccolma ha affrontato il Covid-19 è stato il più discusso e strumentalizzato. Mentre le autorità sanitarie di quasi tutta Europa, degli Stati Uniti e di gran parte dell’Asia chiudevano negozi, scuole e attività produttive, Tegnell insisteva sull’inefficacia dei lockdown. «È come cercare di uccidere una zanzara con un martello» è un’altra delle sue frasi più ripetute. A lungo le autorità svedesi hanno esitato a introdurre l’obbligo di mascherina: «Non ci sono prove che funzioni», ha sostenuto sempre Tegnell, e quando poi si è deciso, o piegato, a introdurla sui mezzi pubblici almeno nelle ore di punta, lo ha fatto con una «raccomandazione». Le scuole sono rimaste aperte, e così bar e ristoranti. La sostanza della strategia non è cambiata nemmeno quando, a dicembre, re Carl XVI Gustaf ha rotto la tradizionale ritrosia a commentare gli affari correnti per andare in tv a scusarsi coi suoi sudditi: «Sul Covid-19», ha detto, «abbiamo sbagliato». Eppure nemmeno allora Tegnell ha intrapreso un’inversione a U. Il mantra è stato sempre lo stesso: «È presto per giudicare». A giugno l’epidemiologo ha poi ammesso soltanto che «se si ripresentasse la pandemia, con le cose che sappiamo ora, ci comporteremmo a metà tra quanto fatto e quanto ha fatto il resto del mondo». A oggi la Svezia ha registrato 1.122.139 casi di Covid-19 e 14.682 morti causate dalla malattia. È un successo? Una disfatta? 

I dati. Solo questa settimana, ad esempio, il quotidiano britannico Telegraph elogia l’«esperimento svedese» — «Ha salvato Pil e salute mentale» — mentre il magazine Business Insider lo stronca titolando «Troppi morti, non ha funzionato». Opinioni così polarizzate si alternano sulla stampa internazionale da 16 mesi. Sono però fondate sui medesimi dati. I casi registrati, un milione e centomila su circa 10 milioni di abitanti, indicano che ha avuto il Covid-19 circa l’11 per cento della popolazione. A confronto coi vicini, un record: ha avuto il Covid solo il 2,9% dei 5,3 milioni di norvegesi, ad esempio, e il 2,2% dei 5,5 milioni di finlandesi. Insieme alla capillarità della campagna vaccinale — a oggi l’81,5% degli svedesi ha ricevuto almeno una dose e il 65,8% le ha ricevute entrambe — questo dato può forse contribuire a spiegare come mai, in questa settimana in cui le curve di diffusione del contagio tornano a salire in molti Paesi industrializzati e soprattutto nelle vicine Norvegia e Danimarca, la curva svedese va invece ancora verso il basso. È l’effetto a lungo termine a cui puntava Anders Tegnell quando, circa un anno fa, in un’intervista al Financial Times parlava di «sostenibilità» della risposta al Covid-19. Si era sul finire di un’estate in cui la pandemia sembrava recedere, e il «modello svedese» tornava d’interesse: proprio in quei giorni il premier britannico Boris Johnson aveva invitato Tegnell per un’audizione che gli sarebbe servita a pianificare le riaperture. Pur smentendo la possibilità di puntare a un’«immunità di gregge», Tegnell citava l’alto tasso di svedesi immunizzati perché guariti dal Covid-19, chiedendosi anche: «Cosa proteggerà, per esempio, i danesi? Nuovi lockdown?». Sarebbe facile pensare che Tegnell abbia avuto ragione. Nella stessa intervista, però, pronosticava che per la Svezia il peggio fosse passato: «Non mi pare possibile che avremo nuovi picchi». La settimana seguente ripartiva in Svezia un’ondata di nuovi casi che non si sarebbe spenta fino alla primavera 2021, in un autunno nero che sarebbe culminato, a dicembre, con le scuse in televisione del re. Che sia sempre Anders Tegnell a enunciare, difendere, spiegare — «ripeto volentieri le cose cento volte a chiunque me le chieda» — la strategia svedese di contenimento della pandemia non è un caso di protagonismo. Dirigente della Folkhälsomyndigheten, l’agenzia di salute pubblica di Stoccolma, sarebbe dovuto partire per una missione in Somalia all’inizio del 2020, ma le cose sono andate diversamente. La Folkhälsomyndigheten fa parte di una serie di agenzie pubbliche su materie tecniche che sono, secondo la costituzione, totalmente indipendenti dal governo. Questa estraneità alla politica e la natura «tecnica» della Folkhälsomyndigheten sono state spesso citate da Tegnell come spiegazione della sua maggiore libertà di movimento e con essa dell’eccezione svedese. «Se non fossero paralizzati dalle istituzioni», dice in un’intervista della scorsa primavera, «molti altri ufficiali di salute pubblica, in altri Paesi, avrebbero seguito policy come le nostre». Salvo che da parte dell’estrema destra parlamentare, che ne chiede regolarmente le dimissioni, Tegnell gode di un diffuso appoggio da parte della popolazione anche dopo 16 mesi di pandemia: un «Anders Tegnell fan club» su Facebook ha 32 mila iscritti e viene regolarmente aggiornato, e il 34enne Gustav Lloyd Agerblad, che la scorsa estate si è fatto tatuare la faccia di Tegnell sull’avambraccio, ha lanciato una piccola moda hipster. Il rapper svedese Shazaam gli ha dedicato un brano, «Anders Tegnell», che ne loda l’equilibrio. «Non sono un uomo solo contro il mondo», ripete spesso Tegnell — che ha però sospeso per il momento le interviste con la stampa internazionale, e si esprime solo per conferenze stampa — e cita il sostegno dei più di 500 colleghi che lavorano con lui alla Folkhälsomyndigheten. È innegabile, comunque, che sia il volto della lotta al Covid-19 nel Paese.

La strategia e i (pochi) cambi di rotta. A inizio 2019 un report globale della Johns Hopkins University classificava la Svezia come uno dei Paesi «più pronti» ad affrontare una pandemia. Il primo caso di coronavirus in Svezia si manifesta il 31 gennaio 2o20: è una donna di Jönköping, tornata una settimana prima da un viaggio a Wuhan. Sentendosi male, con sintomi respiratori, e avendo sentito parlare in Cina di una nuova influenza in circolo, la donna si chiude intuitivamente, volontariamente in casa. Non contagia nessuno. Facendo affidamento su un simile senso civico il governo svedese non obbliga i cittadini a restringere i movimenti, ma «raccomanda» di limitare gli spostamenti nelle città e fuori al minimo necessario. Gli esercizi commerciali, i bar e i ristoranti restano aperti. Funzionerà: uno studio sulle celle telefoniche citato dal «New Yorker» mostra che gli spostamenti degli svedesi si sono massicciamente ridotti sin dai primi giorni della pandemia, nonostante non sia mai stato indetto un lockdown. Già a gennaio 2020, con le prime allerte internazionali, Tegnell avverte in alcuni scambi privati (pubblicati poi dal «New Yorker») che le sole misure da prendere saranno quelle basate sull’evidenza scientifica; questa linea prevarrà nei primi mesi di pandemia, quando in mezzo all’Europa che chiude Tegnell nega che vi siano evidenze sull’efficacia del lockdown, inventando il famoso slogan che «è come uccidere una zanzara con un martello». «Non ci sono epidemiologi che ne sostengano l’utilità a lungo termine», è da sempre la sua difesa. 

L’immunità di gregge. Nei mesi che seguiranno, Tegnell e l’intera agenzia di salute pubblica negheranno che lo scopo sia mai stato quello di perseguire una «immunità di gregge», cioè uno stato in cui una maggioranza della popolazione sia immune al virus, per averlo già contratto, e quindi il virus cessi di circolare. Anche perché è ben presto chiaro che l’obiettivo sarebbe irrealistico. Eppure alcune inchieste giornalistiche mostrano uno scambio di mail — datato 14 e 15 marzo — tra la Folkhälsomyndigheten e l’omologa agenzia finlandese in cui Tegnell resiste a indire la chiusura delle scuole, spiegando che tenendole aperte «i giovani si sarebbero immunizzati più presto». I finlandesi rispondono che con le scuole chiuse la proiezione è che i contagi tra gli anziani possano diminuire anche del 10%. La risposta di Tegnell è lapidaria: ne vale la pena? «Siamo di fronte a una malattia che è qui per restare», ha sempre detto l’epidemiologo, «ed è necessario costruire sistemi che possano farvi fronte in maniera duratura». Il «modello svedese» affascina da subito il Regno Unito di Boris Johnson, e i contatti tra gli ufficiali di salute pubblica sono sistematici. Nelle prime settimane della primavera 2020, la risposta alla pandemia segue nei due Paesi simili traiettorie di volontarietà e libertà. Poi in Regno Unito i casi schizzano: anche per la densità demografica: gli svedesi sono sono 10 milioni e il 20% vive a Stoccolma, non a caso infatti i casi in Svezia sono sei volte tanto che nel resto del Paese, mentre il Regno Unito è assai più densamente urbanizzato. Già il 23 marzo il Regno Unito chiude le scuole. Poi a Pasqua Boris Johnson si ammala e rischia di morire e la sua strada si separa fatalmente da quella di Tegnell. 

I primi segni di sfiducia e il commissariamento dell’Agenzia. Ad aprile 2020 in Svezia — dove le scuole restano aperte fino ai 16 anni e i presidi minacciano i genitori di ricorrere agli assistenti sociali se i figli vengono tenuti a casa — si verifica una prima crepa nella fiducia che la collettività accorda a Tegnell. Un articolo scientifico dell’università di Uppsala raggiunge gli organi di stampa prima di essere approvato. Contiene proiezioni per i mesi a seguire: se la strategia continua così, il 50% degli svedesi si infetterà entro un mese e 80 mila moriranno. È panico generale. Non andrà così; ma il tasso di morti su 100 mila abitanti diventa ben presto tra i più alti d’Europa, con una vera e propria strage nelle case di riposo. Questo dato, più delle pressioni sempre più insistenti dell’opposizione parlamentare e dei cittadini, spinge il governo a aggiungere due misure restrittive: chiudere al pubblico tutte le case di riposo e vietare i raduni di più di cinquanta persone. Tegnell compare spesso in pubblico a discutere della strategia adottata. Il mantra è sempre: «È presto per giudicare». In estate i casi declinano e la situazione sembra migliorare, tanto che a settembre Tegnell e i suoi incontrano Boris Johnson per un’audizione sul loro modello, che il premier britannico (guarito a Pasqua) studia con attenzione. Il protocollo svedese, dopo una primavera di sfinenti lockdown in tutto il mondo, sembra tornare in auge; a luglio 2020 una lettera di 25 scienziati svedesi lancia un appello, «Non fate come la Svezia, non ha funzionato». È di quei giorni l’intervista al Financial Times in cui Tegnell prevede, disinvoltamente, che «difficilmente la Svezia vedrà nuovi picchi». Due mesi dopo, a novembre 2020, le terapie intensive di Stoccolma e Malmo sono piene. Escono i primi sondaggi preoccupanti: la fiducia generale nelle istituzioni a ottobre è del 68%, a dicembre del 52%. Il governo crea una commissione di vigilanza sulla risposta al Covid. La commissione emette un giudizio severo, particolarmente sulla gestione del Covid negli anziani . «La strategia per proteggere gli anziani è stata fallimentare». Il 17 dicembre il discorso del re. «Abbiamo sbagliato». 

La schermaglia sulle mascherine. È in quei giorni che una legge introduce un’eccezione alla costituzione: lo stato potrà, se necessario, ordinare la chiusura delle attività produttive. Il 18 dicembre la Folkhälsomyndigheten di Tegnell diffonde una raccomandazione di indossare mascherine almeno nell’ora di punta sui mezzi - comunque ribadendo che il distanziamento è il vero antidoto alla trasmissione.

Lo scetticismo sull’uso delle mascherine, all’inizio della pandemia addirittura vietate in certi ospedali, è diventato uno dei simboli dell’eccezione svedese. La Folkhälsomyndigheten, all’inizio, ne scoraggia addirittura l’uso: non solo, è la spiegazione ufficiale, non ci sono sufficienti evidenze scientifiche che serva. Ma spesso le mascherine sono usate in modo scorretto, o addirittura sembrano una misura di protezione sufficiente che fa sì che ad esempio chi le indossa non tenga le distanze. La linea anti-mascherine è più forte soprattutto nei primi stadi della pandemia, quando le certezze della loro utilità, tra gli scienziati, erano poche - e c’erano poche certezze al riguardo. Ad aprile 2020 Tegnell scrive all’European Center for Disease Control chiedendo di sospendere le raccomandazioni in tema, dicendo che «gli argomenti contro sono almeno altrettanti che quelli a favore». Tegnell insiste sempre sul distanziamento.

Il confronto con gli altri Paesi. Per valutare l’efficacia delle misure adottate da Stoccolma, con quali Paesi ha senso confrontarle? L’orientamento della comunità scientifica internazionale è più spesso quello di confrontarli con quelli degli altri Paesi scandinavi, comparabili per diversi fattori chiave — dalle strutture del sistema sanitario al contesto socioeconomico — ma più rigidi nel limitare spostamenti, assembramenti e attività produttive. In questo caso i contagi per milione di abitanti e la mortalità sono peggiori in Svezia che nei Paesi vicini. A oggi i morti complessivi di Covid-19 sono 14.682. I casi totali sono 1.122.139. Ha avuto il Covid-19 l’11% degli svedesi. In Norvegia: 152.714 casi totali, 814 morti. I norvegesi sono 5,3 milioni: lo ha avuto il 2,9% dei norvegesi. Finlandia: 124.285 casi, 1.019 morti. I finlandesi sono 5,5 milioni e lo ha avuto il 2,2% dei finlandesi Danimarca: 342.861, 2.575 morti. I danesi sono 5,8 milioni. E così via. Anders Tegnell ha sempre sostenuto però che la Svezia vada confrontata — per la maggiore densità abitativa, avendo il doppio degli abitanti della Norvegia — con il resto d’Europa. Anche per quanto riguarda la percentuale di stranieri sul territorio, la Svezia somiglia più a un Paese Ue che ai suoi vicini scandinavi. Eppure non ci sono evidenze epidemiologiche di una maggiore incidenza del Covid-19 tra gli stranieri in alcun altro Paese d’Europa. L’Italia e la Danimarca hanno una simile percentuale di stranieri residenti (il 10% circa) ma statistiche Covid-19 ben diverse. In senso ancora contrario va invece una ricerca del dipartimento di salute pubblica pubblicata a primavera 2021: nella popolazione di migranti ci sono molti più ospedalizzati per Covid-19 e meno vaccinati. Insomma, i migranti pesano o no? Anche qui, «è presto per giudicare». L’impatto sul Pil, viceversa, non è stato tanto più clemente: la Svezia nel 2020 ha perso circa il 3 per cento, meglio della media europea ma non della media scandinava. 

Quel che ha funzionato. Anche confrontando la Svezia con i vicini scandinavi più rigoristi, comunque, la pandemia a oggi non è stata una catastrofe. Non si sono avverate, per esempio, le proiezioni tragiche del paper dell’università di Uppsala. Perché? La risposta sanitaria, con ospedali di alto livello, è stata all’altezza. Ma soprattutto le restrizioni, forse, non sono state davvero così lassiste come sono parse nel resto del mondo. Gli svedesi, già inclini a isolarsi — come la paziente zero — si sono davvero mossi assai meno che in tempi normali. Le scuole sono sì rimaste aperte, ma le superiori e le università hanno trasferito online tutte le attività, e la didattica a distanza ha preso piede sopra i 16 anni in modo capillare. Queste misure sono forse state sufficienti, di per sé, ad arginare il propagarsi incontrollato dei contagi. E mentre le curve di tutta Europa, comprese Danimarca e Norvegia, continuano a salire verso l’alto, quella svedese resta meno ripida. È possibile che dopo 16 mesi di pandemia si stiano davvero mietendo i frutti di una politica che a molti è parsa controcorrente? Anche in questo caso, «è presto per giudicare». 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 agosto 2021. Come sta andando il Covid in Svezia? Nelle ultime due settimane il paese ha registrato una media di 0,6 decessi per Covid al giorno, contro i 74 del Regno Unito e i 329 degli Stati Uniti. Nonostante un numero di morti pro capite di molto maggiore rispetto alla vicina Scandinavia, la Svezia ha mantenuto aperta la sua economia durante la pandemia ed è stata riluttante a imporre rigide regole di distanziamento sociale o restrizioni. All’inizio di luglio ha fatto cadere l’ultima restrizione, l’uso della mascherina sui mezzi pubblici, contrariamente a Regno Unito e Usa dove la protezione personale è ancora raccomandata. I Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) venerdì hanno avvertito che la variante Delta è contagiosa quanto la varicella, ma Anders Tegnell, l'architetto della strategia Covid svedese, ha messo in guardia contro simili analogie radicali. L'epidemiologo ha affermato che c'è ancora «molto che non sappiamo» sul ceppo Delta e che è sbagliato trarre «conclusioni di vasta portata». Parlando al quotidiano Aftonbladet, Tegnell ha affermato che la variante Delta era il ceppo dominante in Svezia ed era in circolazione da «un bel po' di tempo». Ha detto al giornale: «È difficile dire quanto sia contagioso il Delta, per la varicella, siamo stati in grado di seguire la malattia per diversi anni. L'infettività [di Delta] sembra essere molto irregolare: in alcuni casi, una persona infetta un centinaio di persone, altre volte non infetta nessuno». Ma nonostante non siano state registrate infezioni in molti comuni, Tegnell non crede affatto che la pandemia sia finita. «Ovunque c'è bisogno di preparazione e attenzione. Non bisogna trarre alcuna conclusione dal fatto che questa settimana non sono stati trovati malati in un comune. Può portare a gravi conseguenze se abbassi la guardia», ha detto. Lunedì, Tegnell ha annunciato piani per dosi di vaccino di richiamo per i cittadini più vulnerabili dall'inizio di settembre. «La valutazione è che non è possibile sradicare il virus e quindi il lavoro di vaccinazione dovrebbe essere a lungo termine e focalizzato sulla riduzione di malattie gravi e morte», ha affermato il capo della sanità. Il dipartimento della salute svedese ha dichiarato di aspettarsi che l'intera popolazione adulta avrà ricevuto due vaccinazioni entro l'autunno e che ci sarà una buona fornitura di vaccini nei prossimi anni. L'autorità non ha fornito una cifra esatta di quante persone avrebbero ricevuto un terzo vaccino l'anno prossimo, ma ha detto che sarebbe stato offerto a gran parte della popolazione.

In Svezia non hanno avuto il lockdown. E stanno meglio di noi. Stefano Magni su Inside Over il 4 agosto 2021. Ma in Svezia non sono tutti morti? A giudicare dalle previsioni fatte nella primavera del 2020 e dalle notizie allarmistiche diffuse da tutti i media europei, nel Paese scandinavo dovrebbero essere tutti morti di Covid-19. Invece: anche nel pieno della nuova ondata estiva, dovuta alla diffusione della variante Delta, la Svezia registra meno vittime rispetto alle nazioni più colpite. La differenza è enorme: una media di 0,6 decessi per Covid al giorno, contro i 74 del Regno Unito e i 329 degli Stati Uniti. Anche facendo le debite proporzioni con la popolazione, la Svezia resta molto indietro rispetto alle nazioni più colpite: 0,06 morti per milione di abitanti in Svezia, mentre nel Regno Unito sono 1,2 ed 1,09 negli Usa (dati del 31 luglio, Our World in Data). Negli altri due Paesi il numero delle vittime è in crescita, in Svezia è in calo, sia nelle tendenze settimanali che in quelle bi-settimanali.

La Svezia continua a far discutere perché è praticamente l’unico Paese membro dell’Ue che non ha mai adottato una politica di lockdown. L’Imperial College, che con il professor Neil Ferguson è diventato uno dei più ascoltati in Europa, prevedeva, per la Svezia, fino a 18 morti al giorno ogni 100mila abitanti, nel momento di picco, in caso di assenza di misure di lockdown. Nel peggiore dei casi possibili, calcolava 65mila vittime. Il governo di Stoccolma non ha ascoltato i consigli di Ferguson, bensì quelli dell’infettivologo Anders Tegnell. Non ha chiuso nulla e ha limitato al minimo anche le politiche di distanziamento, obbligo di mascherina e tracciamento. Da quel momento in poi, la politica svedese è stata descritta come una follia dai media di tutto il mondo. Ma le profezie dell’Imperial College non si sono avverate mai. In totale, da febbraio 2020 ad oggi (4 agosto 2021), le vittime di Covid-19 in Svezia sono state 14.620, circa 4 volte e mezzo in meno rispetto a quelle previste in uno scenario senza lockdown. In termini relativi, dunque il numero di morti per milione di abitanti, la Svezia ne ha subiti 1438, al 39mo posto nel mondo, dietro a quasi tutti i Paesi europei che hanno applicato il lockdown (l’Italia è al 16mo con 2122 vittime per milione di abitanti). I fatti hanno clamorosamente smentito le previsioni, ma non hanno cambiato la percezione dell’opinione pubblica. È tuttora talmente radicata l’idea che solo il lockdown salvi vite, che, se la realtà contraddice questa idea, è la realtà che deve essere messa da parte. Il trattamento che i media hanno riservato alla politica di Stoccolma ne è la dimostrazione. La nazione scandinava, nel corso della prima ondata (febbraio-giugno 2020), era stata descritta addirittura come la “maglia nera” dell’Europa. Alla fine di maggio, era data come “prima per tasso di mortalità”. Tutti si attendevano l’ecatombe prevista, che non c’è stata. Solamente nella seconda settimana di maggio, infatti, il Paese nordico ha registrato il numero di morti medio quotidiano settimanale più alto d’Europa. Rileggiamo più lentamente: numero di morti medio, quotidiano, settimanale. Un dato veramente dettagliato che non fotografava affatto la situazione nel suo complesso e che, per di più, si è ridotto nelle settimane successive. In generale, alla fine della prima ondata la Svezia era, in termini assoluti (numero di morti), non la prima, bensì la quindicesima al mondo con 3.871 vittime. Siccome i numeri assoluti significano poco, allora si guarda ai numeri relativi: il numero di morti per milione di abitanti. Anche in questo caso, la Svezia non era la prima, ma l’ottava (384 morti per milione di abitanti), superata da Francia, Regno Unito, Italia, Spagna, Andorra, Belgio e San Marino. Nella seconda ondata (ottobre-novembre 2020) che è stata usata, politicamente, come misura dell’efficienza o dell’inefficienza delle precedenti politiche anti-Covid, vediamo che l’impatto che questa ha avuto sulla Svezia è decisamente inferiore rispetto a quello di quasi tutti gli altri Stati europei colpiti. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione Hume (del sociologo Luca Ricolfi), i decessi medi settimanali, su 100mila abitanti, nei mesi di ottobre e novembre erano 0,91 in Svezia, meno di uno al giorno. Andava meglio anche rispetto alla Germania, nota come esempio virtuoso, che registrava 0,95. Decisamente meno che in Italia, con 3,67 e anche di Spagna, Regno Unito, Francia e Belgio. Anche l’arrivo della variante Delta non ha cambiato lo scenario. La Svezia resta sempre relativamente più sicura rispetto alla maggioranza dei Paesi europei. Questo vuol dire che il lockdown non serve a nulla? Non esageriamo, sarebbe una conclusione troppo affrettata. Vuol dire, però, che abbiamo un “controfattuale”, una storia fatta con i “se”. La Svezia è la nostra storia controfattuale: cosa sarebbe successo se avessimo tenuto tutto aperto, senza chiudere le aziende, senza impedire ai giovani di frequentare la scuola in presenza e di divertirsi alla sera, senza impedire ai runner di correre e agli sciatori di fare le loro discese e risalite sugli impianti… quanti morti avremmo avuto? Non molti di più, forse anche meno: è la risposta che ci arriva dall’esperimento svedese. E fa male, considerando i sacrifici affrontati in questo anno e mezzo e i danni, forse permanenti, lasciati dal lockdown alla nostra società, prima ancora che alla nostra economia.

Fabio Dragoni per "la Verità" " il 27 aprile 2021. Hanno un costo spropositato rispetto ai benefici. Spesso sono difficilmente valutabili. Quasi sempre inutili e talvolta addirittura controproducenti. Stiamo parlando degli «Interventi non farmaceutici» per contenere la diffusione di un morbo. In gergo «Npi» che abbiamo imparato a conoscere con il termine lockdown. Chiusure di attività ritenute «non essenziali» per combattere la diffusione del Covid. Il prezzo lo paga il ristoratore o il barista che deve abbassare la saracinesca e chi dentro vi lavora. Noi della Verità avanziamo da tempo dubbi sull' efficacia di queste soluzioni. Contro di noi quasi tutti i mezzi di informazione ispirati da esperti quali Andrea Crisanti, Roberto Burioni, Massimo Galli, Anna Capua, Nino Cartabellotta e Walter Ricciardi. Venerati come divinità nei salotti televisivi. Ma le opinioni di questi signori rappresentano veramente quelle dei tanti scienziati in tutto il mondo? Abbiamo raccolto più di cinquanta pubblicazioni scientifiche, molte delle quali reperibili anche sull' account twitter Brumby. Lavori che hanno coinvolto più di duecento scienziati delle più prestigiose università, istituzioni e centri di ricerca in tutto il mondo. Da Stanford a Pittsburgh. Da Sidney a Tokyo. Dal Fmi a Jp Morgan. Lavori talvolta consultabili ancor prima della pubblicazione (preprint). L' esito è univoco. Abbiamo ragione noi a dubitare dell'efficacia delle chiusure. Non potremo che segnalarvi i più importanti non potendo fare un numero monografico. «Non escludiamo piccoli benefici, ma non ne vediamo di significativi in termini di contenimento della crescita dei casi. Simili risultati si possono ottenere con interventi meno severi». La firma è quella di Ioannidis. Epidemiologo di fama mondiale con un H index di 214. È la misura della qualità e della quantità del suo lavoro. Tre volte quello di Crisanti. Quattro volte Galli. Cinque volte Burioni e Ricciardi. Cartabellotta non pervenuto. «Gli asseriti benefici del lockdown appaiono sfacciatamente esagerati». Scrive addirittura in un altro preprint sempre Ioannidis. «Iniziative quali la chiusura delle frontiere, lockdown nazionali, test di massa non si associano a riduzioni statisticamente significative sul numero dei casi e sulla mortalità» fa eco uno studio di cinque studiosi delle università di Toronto, Houston e Ioannina . «Dimostriamo che l'efficacia del lockdown nel risparmiare vite umane è modesta se confrontata con interventi focalizzati. Hanno costi enormi e possono avere effetti economici devastanti e tali da aumentare il numero dei morti in futuro». Scrive in preprint un gruppo di ricercatori dell' Università di Tel Aviv, mentre The Lancet lo scorso aprile invitava i governi ad «applicare le misure disponibili in modo mirato a diversi gruppi generazionali [] visto che il 96% dei decessi legati al Covid-19 in Europa si è verificato in pazienti di età superiore di 70 anni». 

«Dimostriamo che i livelli di infezione sono diminuiti prima che il lockdown iniziasse []. Ad esempio, la Florida sta andando meglio della California nonostante Disney World sia aperto da mesi e la California non abbia attualmente alcun piano per riaprire nulla a partire da Disneyland». Scrivevano a gennaio gli studiosi danesi Kepp e Biornskow. Infine, «Npi meno dirompenti e costosi possono essere efficaci quanto quelli più intrusivi e drastici quale un lockdown nazionale» scrive un gruppo di nove studiosi delle università di Vienna, Parigi, Roma e Santa Fe. Se non costosi, i lockdown sono molto difficili da valutare a parere di molti scienziati. I modelli non supportano affermazioni in base alle quali l' indice Rt si sia ridotto dell' 80% grazie al lockdown. Scrivono nella sostanza cinque studiosi delle università scozzesi di Edimburgo e Glasgow in preprint.  Dalle Università di Parigi e Tolosa cinque autori spiegano che la mortalità è principalmente legata a fattori economici e ambientali di contesto; in altre parole «il rigore delle misure stabilite per combattere la pandemia, compreso il lockdown non sembra essere legato al tasso di mortalità». Addirittura, già nel 2006, il Medical Center di Pittsbourgh evidenziava che non ci sono osservazioni storiche che supportano le quarantene di massa per lunghi periodi. «Le conseguenze negative sono così estreme che questa misura di contenimento non dovrebbe essere seriamente considerata» Dall' Università di Greenwich ci fanno sapere che «i lockdown si basano su modelli teorici non empirici. I problemi che creano sono superiori alle vite che salvano». Mentre da Burnaby in Canada si sottolinea come le analisi costi benefici su cui si appoggiavano i lockdown vengono «successivamente confutate dai dati» Quasi la metà degli studi sul nostro tavolo dimostrano invece la sostanziale inutilità delle chiusure ai fini del contenimento del virus. Secondo l'università di Edimburgo le diminuzioni delle infezioni in Inghilterra iniziano prima del lockdown; lo dimostra un confronto con la Svezia che senza chiusure ha avuto dinamiche analoghe. I tedeschi Homburg e Kuhbandner sulla rivista Nature definiscono «illusori» gli effetti dei Npi ai fini del contenimento del virus nel Regno Unito.Quattro studiosi dell'Università di Norwich, Londra e Newcastle scrivono in preprint che «le quarantene domiciliari obbligatorie, la chiusura delle attività non essenziali e l' utilizzo di mascherine non sono associabili ad alcun impatto aggiuntivo».Muener, della Woods Hole Oceanographic Institution in Massachussets specifica che «I lockdown completi nell' Europa occidentale non hanno avuto impatti evidenti sull' epidemia di Covid 19». Ci si mette addirittura JP Morgan a dire che «i dati mostrano una diminuzione dei contagi anche dopo le riaperture». Il New Zealand Economic Paper riporta come «gli studi condotti su tutto il Paese hanno rilevato l'inefficacia dei lockdown». Il lockdown è controproducente. Proprio così. Non mancano addirittura gli studi che segnalano la pericolosità più che l'inutilità di queste misure. Già nel 2009 Cohen e Lipsitch esprimevano preoccupazione sul paradossale effetto che misure di contenimento della circolazione del virus avrebbero avuto nello spostare «il peso dell'infezione verso gli individui più anziani». Su Newsweek, il prestigioso epidemiologo Harvey Risch della Yale Medical School definisce controproducenti i lockdown perché ritardano il raggiungimento dell' obiettivo dell' immunità di gregge. Atteso che ogni studio è fatto per essere analizzato, dibattuto ed eventualmente confutato, sconcerta l' enormità del numero dei lavori che certificano l' inutilità se non addirittura la dannosità del lockdown unitamente al prestigio dei suoi estensori e alla capillare diffusione geografica di dette analisi in ogni parte del pianeta. Saremo curiosi di vedere come esperti di zanzare e veterinari assortiti - tutti travestiti da esperti televisivi - contesteranno questi report. Più probabile che li ignorino e continuino imperterriti nella loro opera. Voi lettori potrete giudicare da soli.

Graziella Melina per "il Messaggero" il 13 maggio 2021. Quanto incida il coprifuoco nel tenere a bada il virus, gli scienziati non lo sanno con certezza. Di sicuro c' è che il rientro obbligatorio a casa entro una certa ora è una misura di precauzione che serve per evitare gli assembramenti, e quindi la trasmissione del virus. Ma questa restrizione funziona solo se è combinata ad altre precauzioni ormai comuni, ossia il distanziamento e l' uso delle mascherine. Mentre in Italia si discute su un possibile allungamento dell' orario, in altri Paesi europei la restrizione alla circolazione serale resiste, seppure con orari diversi, come in Francia (tutti a casa dalle 19), e la Germania, dalle 22. Ma c' è chi lo ha abolito: ultima in ordine di tempo la Spagna (niente restrizioni alla circolazione dal 9 maggio), preceduta da Portogallo, Belgio e paesi scandinavi. Gli scienziati italiani, però, preferiscono la linea della cautela. Non è possibile stabilire con certezza l' esatta incidenza di questa strategia nel mitigare l' epidemia. «È una delle tante misure che concorrono a rallentare la trasmissione del virus - rimarca Fabrizio Pregliasco, ricercatore di Igiene generale e applicata dell' Università degli Studi di Milano - Sappiamo che è efficace perché riduce la mobilità e quindi la possibilità di contagio interpersonale». Il coprifuoco da solo però non basta. «Si tratta di una restrizione che va messa in atto insieme a tante altre - mette in guardia Patrizia Laurenti, professore di Igiene dell' Università Cattolica di Roma - Per il momento, dunque, non abbiamo contezza che il coprifuoco di per sé abbia un peso rilevante nella modifica dell' andamento dell' epidemia. Ma è plausibile che abbia contribuito a rallentare la diffusione del virus insieme a tutte le altre precauzioni di sicurezza». Dal punto di vista epidemiologico non è possibile definirlo. «Un' ora in più o in meno non cambia molto - rimarca Claudio Mastroianni, direttore di malattie infettive del Policlinico Umberto I di Roma e vice presidente della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) - quindi credo che pensare di spostarlo di qualche ora in avanti sia un ragionamento che si possa fare». Ma bisogna mettere in conto che la circolazione delle persone rappresenta comunque di per sé un fattore di rischio. «È ovvio che se si dà la possibilità di rimanere più tempo fuori casa - sottolinea Massimo Ciccozzi, direttore dell' Unità di Statistica medica ed Epidemiologia molecolare dell' Università Campus Bio-medico di Roma - ci saranno più probabilità di avere aggregazione e magari di potersi infettare». I rischi di contagio sono possibili sempre. «Il problema, però, è che in genere - sottolinea Mastroianni - durante le ore serali e di notte soprattutto fra i giovani sono più frequenti situazioni di assembramento. Ricordiamo poi che è proprio questa la fascia di età che in questo periodo sta favorendo la circolazione del virus». I giovani sono dunque gli osservati speciali. E non c' è da stupirsi, visto che, come ricorda Ciccozzi, «non essendo stati ancora vaccinati, ora sono i più suscettibili al virus e quindi si ammalano di più. E poi, avendo una maggiore socialità rispetto agli ultra quarantenni, la sera e la notte si incontrano e si aggregano di più di tutti gli altri, e quindi possono trasmettere il virus». Per il momento, gli esperti preferiscono attenersi ai dati dei contagi. «È meglio mantenerlo ancora, ma con una progressione dell' orario - precisa Pregliasco - Credo sia fondamentale liberarsene con gradualità, ma solo quando saremo più avanti con le vaccinazioni, così come le altre nazioni. Tutto dipende dall' andamento epidemiologico». Per deciderlo, serve dunque un costante monitoraggio di diversi parametri, come il numero dei contagiati, ma anche le ospedalizzazioni. Meglio, intanto, rimanere cauti e ipotizzare uno spostamento del coprifuoco di qualche ora. «Gradualmente - osserva Laurenti - si può estendere l' orario di apertura dei locali, anche perché andiamo verso la bella stagione e si sta di più all' aperto. Però, con una discriminante, ossia il rispetto delle regole. Ricordiamo che anche all' aperto, infatti, se c' è assembramento e ci si toglie la mascherina il rischio di contagiarsi rimane».

Coprifuoco, lockdown e chiusure non hanno aiutato: "Stiamo peggio di prima". Alessandro Ferro il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. Più ricoverati in terapia intensiva, più casi giornalieri, stesso indice di positività e centinaia di decessi ogni giorno: dopo un anno, la pandemia sembra al punto di partenza. I numeri non mentono e fotografano benissimo la situazione attuale: stiamo meglio o peggio di un anno fa, quando il 18 maggio 2020 ci furono le prime riaperture dopo oltre due mesi di lockdown serrato? Le risposte, purtroppo, non sono quelle sperate dopo un anno di pandemia e tutte le chiusure che ci hanno accompagnato finora.

La fotografia attuale. Lunedì 26 aprile per oltre 45 milioni di italiani si è tornati ad una specie di "libertà vigilata" con riaperture di bar, ristoranti, spostamenti tra regioni (soltanto tra le gialle) ed una parvenza di normalità. La matematica, però, non è un'opinione: soltanto pochi giorni fa, prendendo in esame i numeri di venerdì 23 aprile, si è visto che i nuovi casi giornalieri di positivi al Covid sono stati 14.761 contro i 451 del 23 aprile dell'anno scorso; i morti sono stati 342 contro i 99 del 23 aprile 2020, i ricoverati in terapia intensiva 2.929 contro 749, quelli nei reparti ordinari 21.440 contro 10.207. Infine, i casi attivi risultavano 465.543 contro 66.553 (numeri del Corriere). Per tutte e cinque queste voci, come si vede, l'aumento rispetto allo stesso giorno di un anno fa è inequivocabile. Ma come è possibile che, un anno dopo, ci troviamo in una situazione per certi versi peggiore dello scorso anno nonostante le chiusure che, evidentemente, non hanno aiutato? Come si possono commentare questi numeri con quelli di fine aprile dello scorso anno?

"Stiamo molto peggio dell'anno scorso". “Ho fatto un aggiornamento tra il 27 aprile del 2020 ed il 27 aprile di quest’anno: non guardo mai il dato giornaliero, ma calcolo la media dei sette giorni precedenti per evitare quello che succede sempre quando la domenica si dice ‘i morti sono diminuiti’ ed il lunedì si dice che sono risaliti, così come il tasso di positività che è tipicamente più alto la domenica rispetto agli altri giorni. Facendo il confronto giorno su giorno, oggi stiamo molto peggio dell’anno scorso per quel che riguarda le terapie intensive, ci troviamo il 32.8% al di sopra", afferma in esclusiva per ilgiornale.it Giuseppe Arbia, professore ordinario di Statistica Economica presso la Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Roma. Il Prof. ci ha spiegato come, ad oggi, "i posti occupati nei reparti di terapia intensiva sono 3.032, il 27 aprile 2020 erano 2.282 (sempre medie settimanali). Come tasso di positività siamo uguali all’anno scorso al 4,7%, mentre siamo al di sotto, per fortuna, per quanto riguarda i decessi: oggi se ne contano 330, il 27 aprile 2021 erano 409 (-19.3%)”. In pratica si assiste ad un aumento delle terapie intensive, i decessi rimangono centinaia al giorno ma, per capire come stiamo, il tasso di positività è uno dei criteri fondamentali. “Si, ma assieme a decessi e posti in terapia intensiva. Il tasso di positività è identico, come conseguenze del virus siamo più o meno nella stessa situazione, anzi direi un po’ peggio quest’anno”, sottolinea Arbia.

"Oggi c'è una percentuale di positività più alta". Un anno dopo abbiamo una situazione peggiore di quella dell'anno scorso, a giudicare dai numeri. Cosa abbiamo sbagliato? "Il lockdown più duro è stato quello della prima ondata: i risultati al 18 maggio erano il risultato di restrizioni più profonde. È chiaro che si facevano meno tamponi ma la percentuale di positività era dell'1%, adesso si viaggia intorno al 5-6% in base al giorno preso in esame", afferma al nostro giornale il Prof. Giovanni Di Perri, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia e della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Torino svolgerà attività ambulatoriale. Da questo punto di vista, ci spiega l'infettivologo, c'è un terzo della popolazione che non dovrebbe essere suscettibile perché già infettata o vaccinata con almeno una dose. "Ma sui 40 milioni restanti, suscettibili, l'infezione corre molto di più dell'anno scorso e non è la stessa infezione perché si tratta della variante inglese, che contagia molto di più". È questo, insomma, l'elemento principale dal punto di vista tecnico che differenzia i due periodi. "È una situazione dinamica, ogni giorno il numero di soggetti immunizzati aumenta sia per il contagio ma soprattutto per le vaccinazioni ed in poche settimane potrà cambiare il volto di questo rapporto ma purtroppo le vaccinazioni non sono veloci come il generale Figliuolo vorrebbe e questo processo di immunizzazione va avanti ad una velocità inferiore rispetto a quella desiderata", aggiunge Di Perri.

Cosa dicono quei numeri. Leggendo i numeri vengono i brividi: mesi di chiusure, mezze riaperture, nuove chiusure, zone rosse e coprifuoco sembrano non essere serviti a nulla o davvero a ben poco. “Certamente quest’anno non stiamo meglio dell’anno scorso e dunque non c’erano i numeri per la ripartenza, per i passaggi in zona gialla di lunedì 26 aprile. Avremmo dovuto essere ancora più cauti”. Cosa è successo, allora? “Ci sono alcune cose che bisogna interpretare: la prima è che sono arrivate le varianti - afferma il Prof. Arbia - il fatto che siamo al di sopra come terapie intensive ma al di sotto come decessi mi fa pensare che in terapia intensiva vanno più frequentemente categorie di individui più giovani rispetto allo scorso anno, che sono meno fragili e che vanno incontro con probabilità più bassa ad un esito letale. Questo accade perché è iniziata la campagna vaccinale". Effettivamente, tra maggio e settembre dell'anno scorso il virus era giù mutato ma non circolavano tutte le varianti che abbiamo adesso e che sembrano mettere un po' a rischio anche i vaccini. "L’arrivo delle varianti che colpisce i più giovani e la campagna vaccinale che protegge i più deboli, gli anziani, ci porta a questi numeri. C’è più gente che entra in terapia intensiva ma c’è anche più gente che ne esce", aggiunge.

I casi attivi. Non dimentichiamoci dei casi attivi: l’anno scorso erano circa 66mila, oggi più di 465mila. “Non ho citato questi numeri perché è cambiato completamente il criterio di raccolta del dato: il numero di tamponi che facciamo oggi non è assolutamente paragonabile a quello dell’anno scorso, per questo motivo guardo soltanto il tasso di positività. Molti di questi 465mila sono asintomatici e sono a casa e l’anno scorso non sarebbero proprio stati rilevati. È vero che stiamo peggio dell’anno scorso, ma non 10 volte peggio. A tal proposito, i nuovi positivi del 27 aprile sono il triplo di quelli dell’anno scorso, ma i tamponi sono più del triplo. È per questo che dobbiamo guardare il tasso di positività che elimina questo effetto”, specifica il Prof. di statistica.

L'indice Rt. Il famoso indice Rt è il parametro che valuta quante persone possono essere contagiate da una sola persona in media e in un certo periodo di tempo in relazione, però, all’efficacia delle misure restrittive. Anche in questo caso, cos'è cambiato rispetto allo scorso anno? “L’Rt nazionale ci dice poco, dobbiamo guardare le situazioni locali. E poi, più passa il tempo e meno mi fido del calcolo dell’Rt perché dipende da troppe scelte soggettive". Il motivo ce lo spiega chiaramente: Rt non è una grandezza primaria e deriva come output di un modello statistico. Bisogna capire come detto modello viene utilizzato e quali dati vengono utilizzati in input. "Questo parametro è stato stimato un anno fa all’inizio dell’epidemia sui dati della sola Lombardia e da allora è rimasto sempre lo stesso, mentre è verosimile che vari nel tempo e nello spazio. Un altro input del modello è quello degli infetti, i quali sono sistematicamente sottostimati sfuggendo il numero degli asintomatici. Altro elemento rilevante è la lunghezza della serie storica che viene considerata per calcolarlo: se guardo gli ultimi 7 giorni ottengo un risultato, se guardo l’ultimo mese ne ottengo un altro così come se guardo tutta l’epidemia dall’inizio. Mentre nei primi mesi l’anno scorso Rt è stato un indicatore fondamentale, adesso non so quanto possa più essere considerato valido”, specifica il Prof. Arbia.

Quali sono le scelte sbagliate. “Non è adesso che stiamo sbagliando, è in precedenza che siamo stati troppo laschi con le misure" aggiunge. L'errore, forse, è avvenuto durante la seconda ondata, a cavallo delle festività natalizie, che bisognava essere più decisi con le chiusure e continuare a mantenere le restrizioni anche nelle prime settimane del 2021. Oltre a guardare al passato, l’altra cosa che possiamo fare è guardare cosa succede altrove. "Il Regno Unito sta aprendo in maniera decisa ma è stato chiuso dai primi di gennaio fino a qualche giorno fa, ha avuto un lockdown come il nostro della scorsa primavera ed ha attualmente un tasso di vaccinazioni che è circa il doppio del nostro". Ci però sono due obiettivi che sono in contrasto tra loro: controllare l’epidemia e non far morire l’economia. "L’errore che si è fatto in passato è pensare che uscire in fretta dall’epidemia significa uscirne bene, invece non è così. I Paesi che si troveranno meglio dal punto di vista della ripresa economica saranno quelli che hanno adottato misure più dure prima e, una volta usciti, non rischiano ulteriori ricadute. La cosa peggiore che potremmo fare è quella di allentare troppo le misure oggi e ritrovarci di nuovo nei guai tra qualche mese”, aggiunge Arbia.

"Le aperture? Una scelta politica". "Il fatto che le riaperture siano state decisioni di matrice politica è evidente, si è deciso di aprire in un momento in cui i dati oggettivi non erano tecnicamente quelli adatti in confronto a quando aprimmo nel maggio dell'anno scorso. Se il confronto è quello, i dati sono molto diversi", ci dice l'infettivologo Di Perri. Se ci troviamo in questa situazione, che senso hanno avuto tutte le chiusure che si sono susseguite dall'ottobre 2020 fino a pochi giorni fa? "Hanno limitato ma non c'è stata la profondità di azione del primo lockdown - afferma Di Perri - In più, nel mese di febbraio 2021, si è innestata la variante inglese che, a parità di condizioni, aumenta i contagi". Come dice un report dell'Istituto Superiore di Sanità, il 3 febbraio i casi di variante inglese erano il 12%, il 18 febbraio il 54%, i primi di marzo il 90%. "È stato ai primi di febbraio che la variante inglese si è presa il Paese. Mettendo a latere tutte le considerazioni sui numeri, ad ogni modo, si è riaperto con una variante più contagiosa: se abbiamo preso le misure sul vecchio virus, quelle misure non valgono più perché questo virus contagia di più", sottolinea. Insomma, il confronto con le strade vuote di marzo ed aprile del 2020 confrontate con quelle da settembre in poi non regge, è molto diverso: è chiaro che in questi mesi abbiamo avuto un lockdown più soft ma il risultato è sempre lo stesso, molte categorie ne hanno sofferto e la situazione non è certamente migliorata. "Ricordiamoci che la scuola fu totalmente chiusa durante il lockdown mentre nella seconda ondata i miei figli di 9,7, e 5 anni sono sempre andati a scuola salvo quest'ultimo periodo che hanno fatto dad per un paio di settimane", aggiunge Di Perri. Con l'aumentare delle vaccinazioni, però, a parità di numeri, dovremmo correre meno pericoli. "Se mettiamo progressivamente in sicurezza le fasce d'età più a rischio, una volta immunizzati tutti gli ultra60enni me la gioco, nel senso che a quel punto gli ospedali si saranno svuotati perché l'infezione nei soggetti più giovani determina molte meno ospedalizzazioni e morti. Siamo a metà del guado, che Dio ce la mandi buona", conclude.

Dagotraduzione da Aier il 26 aprile 2021. Non era mai successo che l'intero paese venisse bloccato. Non era successo nel 1968/69, nel 1957, negli anni 1949-1952 e neanche nel 1918. È successo invece a marzo dello scorso anno, in pochi, terrificanti, giorni che hanno provocato ovunque una distruzione sociale, culturale ed economica di cui sentiremo parlare nei secoli. In che modo un piano temporaneo per preservare la capacità ospedaliera si è trasformato in due o tre mesi di arresti domiciliari praticamente mondiali che hanno causato stop ai viaggi internazionali, disocuppazione, devastazione di ogni settore economico, confusione e demoralizzazione di massa? E questo in barba a tutte i diritti e le libertà fondamentali, tra cui anche la proprietà privata, cancellata dalla decisione di chiudere forzatamente migliaia di aziende? Qualunque sia la risposta, deve essere una storia incredibile. Come è incredibile quanto sia recente la teoria alla base del lockdown e del distanziamento sociale forzato. La macchina che ha creato questo pasticcio è stata inventata 14 anni fa, ed è stata poi sposata non dai medici esperti, ma dai politici. Iniziamo con la frase di allontanamento sociale, che si è trasformata in separazione umana forzata. Ho sentito parlare di distanza sociale per la prima volta nel film del 2011 Contagion. Ma sul New York Times se ne discuteva già il 12 febbraio 2006: Se l'influenza aviaria diventerà pandemica mentre il Tamiflu e i vaccini scarseggiano ancora, dicono gli esperti, l'unica protezione che la maggior parte degli americani avrà sarà «l'allontanamento sociale», che è il nuovo modo politicamente corretto di dire «quarantena». Ma la distanza sociale prevede anche misure meno drastiche: indossare maschere per il viso, stare fuori dagli ascensori, toccarsi con il gomito. Questi stratagemmi, dicono gli scienziati, riscriveranno i modi in cui interagiamo, almeno durante le settimane in cui le ondate di influenza ci investiranno. Per fortuna l'influenza aviaria del 2006 non ha trovato terreno fertile e non ha avuto conseguenze. Tranne una: ha spinto l'allora presidente George W. Bush adì informarsi sulla spagnola del 1918 e sulle conseguenze catastrofiche di quella pandemia. E a chiedere ad alcuni esperti di preparare un piano strategico per affrontare la diffusione di virus pericolosi. Sempre il New York Times, questa volta il 22 aprile del 2020, racconta come andò: Quattordici anni fa, due medici del governo federale, Richard Hatchett e Carter Mecher, incontrarono un collega in una hamburgeria alla periferia di Washington per un'ultima revisione di una proposta che sapevano sarebbe stata trattata come una bomba: obbligare gli americani a restare a casa dal lavoro nel caso il paese venisse colpito da una pandemia mortale. Quando hanno presentato il loro piano non molto tempo dopo, sono stati accolti con scetticismo e con una certa dose di scherno da alti funzionari, che come altri negli Stati Uniti si erano abituati a fare affidamento sull'industria farmaceutica, con la sua gamma sempre crescente di nuovi trattamenti, per affrontare le sfide della salute in evoluzione. Hatchett e Mecher proponevano invece l'autoisolamento, un metodo utilizzato per la prima volta nel Medioevo. Una delle storie mai raccontate durante il coronivurs è in che modo quell'idea - nata da una richiesta del presidente George W. Bush per garantire che la nazione fosse meglio preparata per la prossima epidemia - sia diventata il cuore delle linee guida nazionali per rispondere a una pandemia. Per superare l'intensa opposizione iniziale, la teoria ha richiesto il lavoro dei suoi principali sostenitori - il dottor Mecher, un medico del Dipartimento per gli affari dei veterani, e il dottor Hatchett, un oncologo diventato consigliere della Casa Bianca. Ai loro studi ne è stato poi aggiunto uno simile portato avanti dal Dipartimento della Difesa. E ha avuto alcune deviazioni inaspettate: una profonda immersione nella storia dell'influenza spagnola del 1918 e un'importante scoperta avviata dal progetto di ricerca della figlia liceale di uno scienziato presso i Sandia National Laboratories. Il concetto di allontanamento sociale è ormai intimamente familiare a quasi tutti. Ma quando si è fatto strada per la prima volta attraverso la burocrazia federale nel 2006 e nel 2007, è stato considerato poco pratico, inutile e politicamente irrealizzabile». Nel corso di questa pianificazione, non sono stati coinvolti né esperti legali né economici. Invece è toccato a Mecher (medico di terapia intensiva senza alcuna precedente esperienza in pandemie) e all'oncologo Hatchett. Ma di cosa parla il New York Times quando cita la figlia liceale di uno scienziato? La ragazza si chiama Laura M. Glass e recentemente ha rifiutato di essere intervistata dall'Albuquerque Journal che voleva approfondire la storia. «Laura, sotto la guida del padre, ha progettato una simulazione al computer per studiare come le persone - familiari, colleghi di lavoro, studenti nelle scuole, persone in situazioni sociali - interagiscono. Ha scoperto che i ragazzi delle scuole entrano in contatto con circa 140 persone al giorno, più di qualsiasi altro gruppo. Sulla base di questa scoperta, il suo programma ha mostrato che in un'ipotetica città di 10.000 persone, ne sarebbero state infettate 5.000 durante una pandemia se non fossero state prese misure, ma il numero si sarebbe ridotto a 500 se le scuole fossero state chiuse. Il nome di Laura appare sul documento alla base del lockdown e del distanziamento sociale, il «Targeted Social Distancing Designs for Pandemic Influenza» (2006). Il suo studio ha stabilito un modello per la separazione forzata. La ragazza lo ha poi applicato a ritroso nel tempo, fino al 1957, con buoni risultati. Il documento conclude con un'agghiacciante appello: «L'implementazione delle strategie di allontanamento sociale è impegnativa. Probabilmente le restrizioni devono essere imposte per tutta la durata dell'epidemia locale e possibilmente fino a quando non viene sviluppato e distribuito un vaccino specifico per ceppo. Se la conformità con la strategia è elevata durante questo periodo, è possibile evitare un'epidemia all'interno di una comunità. Tuttavia, se anche le comunità limitrofe non utilizzano questi interventi, i vicini infetti continueranno a introdurre l'influenza e prolungare l'epidemia locale, anche se a un livello poco significativo e più facilmente risolvibile dai sistemi sanitari». In altre parole, si tratta di un esperimento scientifico scolastico che è diventato legge attraverso un percorso tortuoso spinto più dalla politica che dalla scienza. L'autore principale di questo esperimento è stato Robert J. Glass, un analista di sistemi complessi al Sandia National Laboratories. Non aveva una formazione medica, tanto meno una competenza in immunologia o epidemiologia. Questo spiega perché il Dr. DA Henderson, «che era stato il leader dello sforzo internazionale per sradicare il vaiolo», ha completamente respinto l'intero progetto. Continua il NYT: «Il dottor Henderson era convinto che non avesse senso forzare la chiusura delle scuole o interrompere le riunioni pubbliche. Gli adolescenti sarebbero scappati dalle loro case per passare il tempo al centro commerciale. I programmi della mensa scolastica sarebbero stati chiusi e i bambini poveri non avrebbero avuto abbastanza da mangiare. Il personale ospedaliero avrebbe avuto difficoltà a lavorare se i figli fossero stati a casa. Scriveva Henderson che le misure ideate da Mecher e Hatchett «avrebbero provocato una significativa interruzione del funzionamento sociale delle comunità e avrebbero portato a possibili seri problemi economici». Secondo Henderson, l'unica risposta valida a una pandemia è resistere: lasciare che la pandemia si diffonda, curare le persone che si ammalano e lavorare rapidamente per sviluppare un vaccino che ne impedisca il ritorno». Phil Magness di AIER si è messo al lavoro per trovare la letteratura che rispondesse al documento del 2006 di Robert e  Laura M. Glass e ne confutasse le tesi, e ha scoperto il seguente manifesto: Disease Mitigation Measures in the Control of Pandemic Influenza. Gli autori, DA Henderson, insieme a tre professori della Johns Hopkins, confutano l'intero modello di blocco. Non ci sono osservazioni storiche o studi scientifici che supportano il confinamento in quarantena di gruppi di persone potenzialmente infette per periodi prolungati al fine di rallentare la diffusione dell'influenza. … Nell'ultimo mezzo secolo è difficile identificare circostanze in cui la quarantena su larga scala è stata utilizzata efficacemente nel controllo di qualsiasi malattia. Le conseguenze negative della quarantena su larga scala sono così estreme (reclusione forzata dei malati; restrizione completa dei movimenti di grandi popolazioni; difficoltà nel fornire rifornimenti critici, medicinali e cibo alle persone all'interno della zona di quarantena) che, dopo un'attenta considerazione, questa misura di mitigazione dovrebbe essere eliminata... La quarantena domestica solleva anche questioni etiche. L'implementazione della quarantena domestica potrebbe comportare il rischio di infezione da parte dei malati su persone sane e non infette. Potrebbero essere raccomandate pratiche per ridurre la possibilità di trasmissione (lavarsi le mani, mantenere una distanza di 2 metri dalle persone infette , ecc.), Ma una politica che imponga la quarantena domestica precluderebbe, ad esempio, l'invio di bambini sani dai parenti quando un membro della famiglia si ammala. Una tale politica sarebbe anche particolarmente dura e pericolosa per le persone che vivono in ambienti ravvicinati, dove il rischio di infezione sarebbe aumentato. Le restrizioni di viaggio, come la chiusura degli aeroporti e lo screening dei viaggiatori alle frontiere, sono state storicamente inefficaci. Il World Health Organization Writing Group ha concluso che «lo screening e la messa in quarantena dei viaggiatori in entrata ai confini internazionali non hanno sostanzialmente ritardato l'introduzione del virus nelle passate pandemie... e sarà probabilmente ancora meno efficace nell'era moderna»... È ragionevole presumere che i costi economici legati all'interruzione dei viaggi aerei o ferroviari sarebbero molto alti,  i costi sociali estremi. Durante le epidemie di influenza stagionale, gli eventi pubblici con grande partecipazione sono stati talvolta annullati o rinviati, con la logica di diminuire il numero di contatti con coloro che potrebbero essere contagiosi. Non ci sono, tuttavia, indicazioni certe che queste azioni abbiano avuto un effetto definitivo sulla gravità o sulla durata di un'epidemia. Se si prendesse in considerazione la possibilità di farlo su una scala più ampia e per un periodo prolungato, sorgerebbero immediatamente domande sul numero di tali eventi che sarebbero interessati. Ci sono molte riunioni sociali che coinvolgono stretti contatti tra le persone e questo divieto potrebbe includere servizi religiosi, eventi sportivi, forse tutti gli incontri di più di 100 persone. Potrebbe significare la chiusura di teatri, ristoranti, centri commerciali, grandi magazzini e bar. L'attuazione di tali misure avrebbe gravi conseguenze dirompenti. Le scuole vengono spesso chiuse per 1-2 settimane all'inizio dello sviluppo di focolai di influenza stagionale, principalmente a causa degli alti tassi di assenteismo, specialmente nelle scuole elementari, e a causa di malattie tra gli insegnanti. Ciò sembrerebbe ragionevole per motivi pratici. Tuttavia, chiudere le scuole per periodi più lunghi non solo è impraticabile, ma comporta la possibilità di un grave esito negativo. Pertanto, l'annullamento o il rinvio di riunioni di grandi dimensioni non avrebbe probabilmente alcun effetto significativo sullo sviluppo dell'epidemia. Mentre le preoccupazioni locali possono portare alla chiusura di eventi particolari per ragioni logiche, una politica che diriga la chiusura di eventi pubblici a livello comunitario sembra sconsigliabile. Quarantena. Come dimostra l'esperienza, non ci sono basi per raccomandare la quarantena di gruppi o individui. I problemi nell'attuazione di tali misure sono grandissimi ed è probabile che gli effetti secondari dell'assenteismo e dell'interruzione della comunità, nonché le possibili conseguenze negative, come la perdita della fiducia del pubblico nel governo e la stigmatizzazione delle persone e dei gruppi in quarantena, siano considerevoli. L'esperienza ha dimostrato che le comunità che affrontano epidemie o altri eventi avversi rispondono meglio e con la minima ansia quando il normale funzionamento sociale della comunità è meno interrotto. Sono elementi critici una forte leadership politica e sanitaria per fornire rassicurazioni e garantire che i servizi di assistenza medica necessari saranno forniti. Se uno dei due poteri è considerato non adeguato, un'epidemia gestibile potrebbe spostarsi verso la catastrofe». Affrontare un'epidemia gestibile e trasformarla in una catastrofe: sembra una buona descrizione di tutto ciò che è accaduto nella crisi del Covid-19 del 2020. Ma se alla base del lockdown e di tutto quello che ne è conseguito c'è la ricerca scientifica di una ragazzina del liceo, che ha utilizzato modelli matematici astratti che nulla avevano a che vedere con la vita reale e meno che mai con la medicina, come mai è prevalsa questa visione? Risponde sempre il New York Times: «L'amministrazione Bush alla fine si schierò con i fautori dell'allontanamento sociale e delle chiusure sociali, sebbene la loro vittoria sia stata poco notata al di fuori dei circoli della salute pubblica. La loro politica sarebbe diventata la base per la pianificazione del governo e sarebbe stata ampiamente utilizzata nelle simulazioni utilizzate per prepararsi alle pandemie e in modo limitato nel 2009 durante un'epidemia di influenza chiamata H1N1. Poi è arrivato il coronavirus e il piano è stato messo in atto per la prima volta in tutto il paese».

Dagotraduzione dalla Cnbc e dal DailyMail il 26 aprile 2021. Secondo un nuovo studio del MIT, le regole antiCovid stabilite dall'Oms e relative al distanziamento sociale e alla capienza dei luoghi chiusi «non hanno nessuna base scientifica». I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology hanno infatti pubblicato i risultati di una ricerca che dimostra come, in un luogo chiuso (e a maggior ragione all'aperto), il rischio di contrarre il virus sia lo stesso per tutti, a prescindere dalla distanza a cui si mantengono i presenti. Martin Z. Bazant, professore di ingegneria e matematica applicata, e John WM Bush, ordinario di matematica applicata, hanno sviluppato un metodo per calcolare il rischio di esposizione al coronavirus in un ambiente chiuso considerando alcune variabili: il tempo di permanenza, i sistemi di filtraggio, la circolazione dell'aria, l'immunizzazione, le varianti del Covid, l'uso della mascherina combinate con le attività respiratorie in situazioni diverse (respirare, parlare, mangiare, cantare). «Noi sosteniamo che non c’è un grande vantaggio nella regola dei 2 metri, soprattutto quando le persone indossano mascherine», ha detto Bazant in un’intervista. «Questa precauzione non ha una base scientifica: l’aria che una persona espira indossando una maschera tende a salire e scendere in altre parti della stanza, quindi si è quasi più esposti restando lontani». La variabile fondamentale che è stata trascurata è la quantità di tempo trascorso al chiuso, ha detto Bazant. Più a lungo qualcuno è dentro con una persona infetta, maggiore è la possibilità di trasmissione. «La nostra analisi mostra che molti spazi, oggi forzatamente chiusi, non hanno bisogno di esserlo», ha detto Bazant. «Spesso, lo spazio è abbastanza grande, la ventilazione è abbastanza buona, la quantità di tempo che le persone trascorrono insieme è tale che quegli spazi possono essere gestiti in sicurezza anche a piena capacità». Le regole di allontanamento sociale di due metri che hanno portato alla chiusura di aziende e scuole sono «semplicemente non ragionevoli», secondo Bazant. «Questa enfasi sulla distanza è stata davvero fuori luogo fin dall’inizio. Il CDC e l’OMS non hanno mai fornito una spiegazione per questo, hanno detto solo che questo è ciò che va fatto e l’unica giustificazione di cui sono a conoscenza, si basa su studi su tosse e starnuti, in cui si osservano le particelle più grandi che potrebbero sedimentare sul pavimento e anche in questo caso è molto approssimativo, si può certamente avere un raggio più lungo o più corto, o goccioline di grandi dimensioni», ha detto Bazant. «La distanza non aiuta più di tanto e dà anche un falso senso di sicurezza: si è al sicuro a 2 metri come lo si è a 18 se si è in casa. Tutti in quello spazio corrono più o meno lo stesso rischio, in realtà», ha osservato. Secondo gli scienziati, inoltre, aprire le finestre o installare nuovi ventilatori per mantenere l'aria in movimento può essere altrettanto efficace o più efficace dell'acquisto di un nuovo sistema di filtrazione.

Vittorio Sgarbi sbotta alla Camera: "Il coprifuoco? Roba da comunisti balordi, malati di mente". Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. “Coprifuoco è una parola da comunisti balordi”. Così Vittorio Sgarbi si è espresso nel corso del suo intervento alla Camera prima del voto sul Def. Il noto critico d’arte ha approfittato del tempo a sua disposizione per manifestare la sua più totale contrarietà nei confronti dell’estensione del coprifuoco almeno fino al primo giugno, tra l’altro senza neanche concedere la proroga dalle 22 alle 23 che era stata espressamente richiesta dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Già al termine del Consiglio dei ministri di ieri sera, Sgarbi era stato molto critico: “Il governo continua a provocare i cittadini - aveva scritto in un tweet - il coprifuoco alle 22 è una limitazione della libertà personale decisa da menti malate”. Intervenendo in un aula a Montecitorio, il noto critico d’arte è stato altrettanto duro: “Non so cosa sia un’Italia moderna e resiliente. Moderna non è per ragioni infrastrutturali, resiliente non so cosa voglia dire. Qualcuno ha inventato questa orrenda parola che viene ripetuta in modo idiota da persone che non usano la lingua italiana nell’anno di Dante”. “Ci sono parole inconciliabili - ha continuato il deputato del gruppo Misto - non resiliente e moderno o altre putt***te create per violentare la lingua, ma la parola ripresa e la parola coprifuoco: ripresa è una parola che indica rinascere, coprifuoco è una parola da comunisti balordi”. 

Zero lockdown e 11 morti: così Taiwan ha sconfitto il Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 22 aprile 2021. Appena 11 morti in un anno, 1.086 casi complessivi, un’incidenza di 46 contagi e 0.5 decessi per milione di abitanti. Tutto senza fare un solo lockdown da quando, oltre un anno fa, è scoppiata l’emergenza Covid-19. Benvenuti nell’altro mondo Taiwan, l’isola al centro di mille dispute geopolitiche, incastonata nel Mar Cinese Meridionale e “contesa” tra Stati Uniti e Cina. Per il Partito Comunista Cinese stiamo parlando di una provincia ribelle, a tutti gli effetti parte integrante del territorio della Repubblica Popolare, e che presto dovrà essere interamente riannessa alla mainland; per Washington siamo al cospetto di una roccaforte da supportare in chiave anti Pechino, e questo nonostante la Casa Bianca abbia sposato il principio di “una sola Cina”. Questioni complesse, storie vecchie appartenenti al passato, ma che oggi più che mai tornano a riempire le cronache internazionali relative alla vicenda taiwanese. Eppure, dietro a mille diatribe politiche, c’è un aspetto collegato alla pandemia di Sars-CoV-2 che dovrebbe fungere da promemoria per la maggior parte dei Paesi occidentali. Il modello di contenimento anti coronavirus sposato da Taipei non solo si è rivelato efficace, ma è riuscito pure a bilanciare la fame di libertà chiesta dai cittadini, la contrazione dell’economia e la diffusione del “nemico invisibile”.

Le radici del successo. Poco importa se Taiwan si trova geograficamente a due passi dalla terraferma cinese, e se il flusso di viaggiatori tra l’isola, Pechino e le altre città della Repubblica Popolare era particolarmente intenso prima dello scoppio dell’emergenza. Taipei, memore anche del precedente relativo alla Sars nel 2003, ha agito in maniera rapida stroncando sul nascere il rischio di un possibile contagio incontrollato. Missione riuscita, a giudicare dai numeri che abbiamo già elencato. Il 20 gennaio 2020, quando moltissimi Paesi non sapevano ancora come muoversi né se la minaccia Covid li avrebbe mai travolti (illusione vana, come scopriranno a loro spese), Taiwan istituiva un Central Epidemic Command Centre per gestire lo scenario pandemico tra ministeri, agenzie, esecutivo e imprese. Non solo: la “provincia ribelle” blindava subito i suoi confini, interrompeva ogni collegamento aereo con l’estero e imponeva una quarantena obbligatoria per qualsiasi viaggiatore internazionale. Volessimo condensare il modello Taiwan in due pilastri, potremmo citare le decisioni tempestive e il contact tracing. Se le autorità hanno agito in fretta, chiudendo il rubinetto prima che la vasca fosse colma di acqua, è pur vero che le stesse istituzioni si sono affidate a un contact tracing spinto ai massimi livelli grazie al massiccio utilizzo della tecnologia. Fin da subito, ogni positivo veniva messo in quarantena (a non rispettarla si rischia una multa che può arrivare fino a 35 mila dollari) e isolato assieme a tutti i suoi contatti. Queste misure, perpetuate nel tempo, e molte delle quali valide ancora oggi, hanno consentito all’isola asiatica di restare quasi indenne dal Covid-19.

Misure basate sui casi e sulla popolazione. A proposito di misure, è inoltre interessante distinguere le misure basate sui casi e quelle calibrate sull’intera popolazione. La distinzione, a detta di vari ricercatori chiave del successo taiwanese, è stata approfondita da uno studio pubblicato nel Journal of the American Medical Association. Nel primo caso, cioè nelle misure basate sui casi, le autorità si sono affidate al rilevamento mediante test dei contagiati, isolamento dei positivi, quarantena di 14 giorni obbligatoria e, più in generale, all’arma del contact tracing. Un’arma funzionale solo se adottata tempestivamente. Le misure basate sulla popolazione includono invece provvedimenti quali l’adozione delle mascherine, il distanziamento sociale e il mantenimento dell’igiene personale. Cosa hanno scoperto gli autori dello studio? Che le due diverse misure funzionano solo se combinate insieme. Quelle tarate sui singoli casi non ostacolano i contagi tra due persone, ma impediscono che il virus possa coinvolgere terze e quarte persone; quelle basate sulla popolazione completano invece il lavoro di prevenzione su scala generale. Unire i due approcci (ripetiamolo: in maniera tempestiva) ha consentito a Taiwan di vincere contro il virus senza rimetterci troppo in termini economici e sociali.

Perché il “modello svedese” è ancora un mistero. Daniele Dell'Orco su Inside Over il 15 aprile 2021. Il mistero epidemiologico della Svezia. Un case study che molti, a più riprese e in giro per il mondo, hanno posto a sostegno della propria narrazione di fondo: paradiso per gli aperturisti, catastrofe per i rigoristi. La verità, però, è che da un anno a questa parte ciò che sta accadendo nel Paese scandinavo resta oggettivamente difficile da spiegare in modo analitico. Com’è noto, per via delle convinzioni dell’epidemiologo dell’Agenzia per la salute pubblica Anders Tegnell, il primus inter pares nella gestione dell’emergenza, la Svezia è uno dei Paesi che sin dall’inizio ha scelto la strategia più “soft” possibile per contrastare la pandemia. Nessuna imposizione dell’uso di dispositivi di protezione (men che meno all’aperto), nessun lockdown, nessuna autocertificazione. Niente di niente. Solo la raccomandazione al sapiente, nonché genetico a quelle latitudini, ricorso al distanziamento sociale. Ora, a un anno di distanza dall’inizio dell’epidemia, i dati raccolti dall’esperimento svedese sono a dir poco contrastanti. È vero che il numero di vittime, circa 13mila a fronte di una popolazione di 10 milioni di abitanti, è tra i più alti del Nord Europa, ma ben più contenuto rispetto a Paesi “chiusuristi” come Spagna, Italia e Francia, o “altalenanti” come il Regno Unito. Che infatti dal modello svedese si fece contagiare, è proprio il caso di dirlo, molto presto, salvo poi rettificare l’approccio sanitario dopo la positività di Boris Johnson. È altresì vero, però, che durante la scorsa primavera i ricercatori dell’Università di Uppsala avevano pubblicato un modello matematico che prevedeva che il 50% degli svedesi sensibili si sarebbe infettato entro trenta giorni, provocando oltre 80mila morti entro luglio. Il virus è effettivamente circolato parecchio, ma meno rispetto alle proporzioni teorizzate e soprattutto con un tasso di mortalità sensibilmente più contenuto. Un altro dato interessante riguarda il Pil, che ha fatto registrare un -3% nel 2020, piuttosto incoraggiante se confrontato col -8.9% dell’Italia, ma allo stesso tempo non così decisivo rispetto al rendimento in termini macroeconomici degli altri Paesi scandinavi “chiusuristi” (Finlandia -3.3%, -3,5% della Danimarca, -4.1% della Norvegia).

Ciò che è davvero inspiegabile, però, è l’attuale curva dei decessi. Il virus circola che è una bellezza, col tasso di incidenza di nuovi contagi ogni 100mila abitanti a quota 772. In tutta l’Unione europea, secondo i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, fanno peggio solo Francia (801), Polonia (988), Repubblica ceca (808) ed Estonia (1.007). Anche il numero dei posti letto in terapia intensiva resta elevato, con quasi 400 ricoveri fatti registrare nell’ultimo bollettino, superiori al picco della seconda ondata dello scorso gennaio. Eppure, attualmente il numero dei decessi è tra i più bassi di tutto il Continente: otto per ogni milione di abitanti. L’Italia, per fare un confronto rapido con una delle maglie nere, è a 102, l’Ungheria, tra i Paesi più colpiti dalla terza ondata, è addirittura a 355. Dall’inizio del mese di aprile la Svezia ha fatto registrare appena 135 morti. Non giornalieri. Totali. Il merito, secondo Tegnell, sarebbe tutto delle vaccinazioni mirate e sistemiche volte alla protezione delle fasce deboli della popolazione, specie gli anziani ospitati nelle rsa. Il resto della popolazione invece, che pure nel corso dei mesi ha iniziato “in autonomia” a cambiare le proprie abitudini circolando meno e indossando dispositivi di protezione con più continuità, è tecnicamente lasciata libera di contagiarsi. Potrebbe essere questa una prima risposta in termini di confronto, se si pensa che in Italia al momento sui 4,4 milioni di over 80 totali, meno della metà ha completato il ciclo vaccinale (43,9%) e meno di un terzo ha ricevuto almeno la prima dose (32%). Nella fascia 70-79 anni, addirittura, su oltre 5,9 milioni di persone appena il 3% ha completato il ciclo vaccinale. Stante questa variabile, comunque, un numero di decessi così basso in proporzione agli “attualmente positivi” (170mila al momento dell’ultima rilevazione) resta a dir poco anomalo. Forse è per via delle varianti meno aggressive, o dell’efficacia delle terapie, o ancora delle differenze nel conteggio delle vittime. Ma una cosa è certa, quello svedese rappresenterà un modello vincente per alcuni, un inferno in Terra per altri. Ma, per tutti, resta un mistero.

Coprifuoco e lockdown ai raggi X: vantaggi e svantaggi. Federico Giuliani su Inside Over il 25 aprile 2021. Lockdown e coprifuoco: sono queste le due misure restrittive anti Covid più drastiche tra quelle attuate dai governi per contenere la diffusione dei contagi. La differenza è sostanziale. Con il primo termine ci riferiamo al protocollo d’emergenza che limita la circolazione di tutte le persone che vivono in uno Stato, regione, città o, più in generale, in un’area specifica. All’interno della “zona rossa”, nel caso del Covid perché si sospetta la presenza di un focolaio oppure perché gli esperti ritengono che il virus sia ormai fuori controllo, nessuno può muoversi liberamente se non per ragioni eccezionali, che corrispondono solitamente con ragioni di salute, lavoro o emergenza. Ci sono vari tipi di lockdown, che in italiano può essere tradotto come “blocco” o “isolamento”. Nei casi più estremi assistiamo al divieto delle persone di lasciare la propria abitazione, ma può anche accadere che gli individui possano transitare solo all’interno del proprio comune o della regione. Questo dipende dalle situazioni. In ogni caso, il lockdown viene attuato per impedire alle persone di muoversi da una certa area, così da limitare i contatti e stroncare la trasmissione del Covid.

La differenza tra lockdown e coprifuoco. C’è ancora molta confusione tra i due concetti, tant’è vero che spesso vengono utilizzati quasi come sinonimi. Abbiamo visto, a grandi linee, che cos’è il lockdown. La suddetta misura coincide solo in parte con il coprifuoco, ovvero il divieto alla popolazione di uscire durante determinate ore serali o notturne. Anche qui, limitazioni sono permesse per casi speciali: lavoro, salute ed emergenze varie. Qual è la differenza tra lockdown e coprifuoco? Entrambi comportano limitazioni nei movimenti, ma mentre il coprifuoco vale soltanto per le ore notturne, il blocco si estende oltre una fascia di tempo ben delineata. Discorso ancora diverso è quello relativo alla quarantena: in tal caso, parliamo di una misura attuata per separare le persone infette da quelle sane, oppure chi è stato in contatto con un contagiato dagli altri.

Sono misure utili? In Italia, ormai da settimane, vige il coprifuoco che va dalle 22 alle 5 del mattino, sette giorni su sette. In un primo momento, la decisione del governo di prolungare la misura anche in piena estate, ha scatenato non poche polemiche. In seguito all’aspra reazione dell’opinione pubblica, le autorità hanno provato ad addolcire la questione lasciando intendere che la fine della restrizione dipenderà dall’andamento dei contagi, che potrebbe essere deciso un orario più largo o che il coprifuoco potrebbe addirittura essere tolto nel giro di qualche settimana. Non ci sono certezze e non sappiamo come si svilupperà la vicenda. In molti, tuttavia, si stanno facendo una domanda ben precisa: funziona davvero il coprifuoco? Partiamo dal presupposto che alla base della misura c’è la volontà di limitare le interazioni sociali nelle ore notturne, una fascia oraria particolarmente amata dai giovani, cioè la categoria di persone che riceverà il vaccino più tardi delle altre. E che dunque può contagiarsi e infettare i parenti. La comunità scientifica è spaccata sull’utilità di tale misura (o meglio: non sappiamo se i benefici superano gli svantaggi). Ci sono voci che si interrogano sulla sua reale efficienza, visto che le persone possono sempre radunarsi di giorno o all’interno di case private correndo lo stesso rischio che correrebbero in un locale. A questo proposito, è interessante dare un’occhiata a due studi che cercano di chiarire l’utilità di coprifuoco e lockdown. Il primo paper, pubblicato su Science, ha analizzato la situazione a Wuhan. Le due misure estreme hanno ridotto i contagi all’esterno, ma li hanno fatti schizzare alle stelle in famiglia, visto che in spazi chiusi il Sars-CoV-2 è libero di trasmettersi tra gli individui dello stesso nucleo familiare. Il secondo studio è stato effettuato in Francia e pubblicato su Eurosurveillance: il coprifuoco francese ha ridotto la riproduzione dei ceppi del Covid, ma non ha bloccato né le varianti né una nuova ondata. Sempre in Francia, è curioso il caso di Tolosa, dove il coprifuoco è stato attuato prima a partire dalle 20, poi dalle 18. Ebbene, a detta degli scienziati, chiudere alle 20 avrebbe ridotto del 38% i contagi. Il motivo è semplice: le chiusure anticipate spingono le persone, in massa, a fare compere prima dell’ora x. Il dibattito è aperto.

Lockdown inutile: alcuni scienziati la pensano come il leghista Claudio Borghi. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 23 aprile 2021.

Lorenzo Mottola. Milanese sulla quarantina, storico bocconiano, nel senso che la Bocconi l'avevo cominciata, ma poi mi sono laureato in storia (altrimenti mica sarei qui a fare il giornalista). Caporedattore centrale di Libero da parecchi anni, mi occupo principalmente di politica. Ma anche di pandemie, quando qualche genio decide che è giunto il momento di scoprire di cosa sa un pipistrello alla piastra. Su questo blog cercheremo di trattare di tutto.

Il lockdown non serve a frenare il Covid? Claudio Borghi la pensa così e ieri sera è andato in televisione a ripetere la sua teoria a PiazzaPulita, su La7. Ed è scoppiato il caos. Il leghista è stato trattato come un gerarca nazista, passato per le armi dal professor Andrea Crisanti. Il dibattito tra i due è finito praticamente a insulti (“Non sai leggere”, “Lei è un esperto di zanzare”).  E da questa mattina il politico salviniano è preso di mira su tutti i social. Unica domanda: ma se invece avesse ragione Borghi? In realtà nella comunità scientifica c’è davvero chi mette in discussione l’utilità delle chiusure “alla Wuhan”. Perché quindi parlarne è diventata un’eresia? In passato su Libero abbiamo parlato di alcuni studi su questo tema: vi riproponiamo l’articolo. Per i più curiosi, sul web si trovano tranquillamente gli studi cui facciamo riferimento. Attenzione: non stiamo prendendo posizione. Semplicemente vi ricordiamo che al momento non esiste una verità assoluta su questo argomento. Ecco l'articolo: Cosa direste se vi spiegassero che chiuderci in casa per un anno non è servito a niente e che anche i prossimi lockdown non faranno la differenza? Nel formulare la vi inviamo a evitare bestemmie ed espressioni da taverna. E vi informiamo che la possibilità che sia stato tutto inutile esiste. Si moltiplicano gli studi - elaborati da università, non da circoli di terrapiattisti – che contestano l'utilità di queste operazioni. Attenzione: tutto questo non c'entra nulla col negazionismo e non significa che le mascherine o il distanziamento sociale siano da scartare, tutt'altro. In discussione ci sono le chiusure “pesanti”, le serrate di negozi e ristoranti perfino all'aperto e così via. Esattamente quelle misure che il governo italiano si sta preparando a varare, rispedendoci ai domiciliari almeno fino a Pasqua (inclusa) nella disperata speranza di voler frenare la terza ondata di contagi. L'ultimo celebre studio pubblicato al riguardo è quello dell'università di Stanford, di cui si è parlato molto anche in alcune trasmissioni televisive. I ricercatori californiani hanno messo a confronto 10 Paesi. Alcuni, come il nostro, nei quali il governo ha scelto di imporre misure severe. Altri, come la Svezia e la Corea del Sud, nei quali è stata adottata una politica diversa se non opposta, con qualche divieto ma senza esagerare. Conclusione degli accademici: alla luce dei dati, non si nota alcuna sostanziale differenza negli effetti, il virus ha fatto il suo corso serenamente. Si sono visti picchi che poi sono stati riassorbiti. Gli scienziati nell'annunciare il risultato sembrano quasi dispiaciuti: «Non mettiamo in dubbio il ruolo di tutti gli interventi di salute pubblica o delle comunicazioni coordinate sull'epidemia ma non riusciamo a trovare un vantaggio ulteriore negli ordini di stare in casa e le chiusure dei negozi». Secondo gli studiosi americani il punto è che non si ravvisa «alcun effetto benefico evidente e significativo maggiore sulla crescita dei contagi in nessun Paese» con i lockdown. Un altro lavoro interessante è quello pubblicato a settembre dell'Università di Edimburgo, che ha concentrato la sua ricerca sul Regno Unito. L'autore, Graeme Ackland, sostiene che il “blocco nazionale” abbia avuto un effetto nel breve periodo , ma che lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere con misure più blande. Anzi: le politiche di Londra – che poi sono molto simili a quelle italiane – potrebbero aver reso il Paese più vulnerabile e addirittura aver determinato un numero di morti maggiore. Questo perché la durata della pandemia è stata prolungata. Secondo lo studio, al momento di riaprire, probabilmente si troverà nel Paese ancora una vasta percentuale di popolazione vulnerabile e un alto numero di infetti. E questo, dice Ackland, «porta a una seconda ondata di infezioni che può provocare più morti». Per lo studioso sarebbe stato meglio proteggere gli anziani e le persone vulnerabili, consentendo al tempo stesso ai giovani di tornare a vivere in un modo quasi normale. Con attenzione, ma senza esagerare. Il terzo studio che citiamo è stato pubblicato a ottobre su Lancet, rivista che ormai tutti gli ipocondriaci del Paese hanno imparato a conoscere: si tratta sostanzialmente della bibbia della divulgazione scientifica. L'analisi appartiene a un altro gruppo di ricercatori dell'università di Edimburgo e aveva l'obiettivo di valutare quali fossero le misure più efficaci per ridurre il famoso indice RT, quello sulla base del quale il ministero della Salute decide quali regioni chiudere e quali lasciare in libertà condizionata. Ovviamente, nelle prime posizioni troviamo tutti gli eventi pubblici con più di 10 persone (vietandoli l'indice si abbassa del 25%). Al secondo posto c'è la chiusura delle scuole, che in assenza di misure di sicurezza risultano delle vere bombe epidemiologiche (-15% se si sospendono le lezioni). Limitare la circolazione delle persone o costringerle a rimanere a casa invece parrebbe avere un impatto ridottissimo: rispettivamente 7% e 3%. Ovviamente, nella comunità scientifica tanti hanno storto il naso leggendo questi studi. Alcuni virologi, come Ilaria Capua, chiedono anche oggi almeno due mesi di lockdown totale. Noi assistiamo al dibattito e poniamo semplicemente qualche domanda. Su Libero a dicembre avevamo provato a chiedere come mai in Abruzzo, l'unica regione che era rimasta in zona rossa, in una settimana l'indice Rt fosse sceso dello 0,25 mentre in Sicilia, che era zona gialla, nello stesso periodo l'Rt si fosse abbassato di più: ovvero dello 0,26. La zona rossa quindi a cosa era servita esattamente?

Quanto un’ora di libertà in più può cambiarci la vita. Il coprifuoco è utile per contenere i contagi? Gli studi scientifici a confronto. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Aprile 2021. In Italia vige il coprifuoco dalle 22 alle 5 del mattino seguente di oltre un anno. Ed è proprio questa decisione presa dal governo di continuare su questa linea che ha fatto scatenare non poche polemiche. Soprattutto i ristoratori temono l’ennesima beffa: se i ristoranti potranno rimanere aperti anche a cena sarà difficile che tornino tutti a casa entro le 22. E così l’ipotesi di uno slittamento dell’orario alle 23 sembra una speranza per una boccata d’ossigeno per tutti. L’idea che spinge il Governo a mantenere le restrizioni è quella di limitare le interazioni sociali, soprattutto tra i più giovani che sono anche quelli che avranno il vaccino più tardi. Il Comitato tecnico scientifico (Cts) ha spiegato in una nota che “alla luce delle situazione epidemiologica attuale, il Cts in una strategia di mitigazione del rischio di ripresa della curva epidemica, ritiene opportuno che venga privilegiata una gradualità e progressività di allentamento delle misure di contenimento, ivi compreso l’orario d’inizio delle restrizioni di movimento”. Dunque per il Cts un’ora in più di libertà significherebbe maggiori occasioni di contagio. Ma la comunità scientifica a livello mondiale non dà risposte univoche sull’importanza del coprifuoco per limitare i contagi. Nel dibattito entra a gamba tesa Antonella Viola, immunologa, docente di Patologia Generale all’Università di Padova. “Condivido le scelte del governo: riaperture graduali, basate su priorità (la scuola) e rischio limitato (locali all’aperto) – ha scritto in un post su Facebook – Non sono però d’accordo sulla decisione di mantenere il coprifuoco alle 22: spostarlo solo di un’ora sarebbe stato importantissimo per i ristoratori, che avrebbero potuto contare su 2 turni di cena”. L’immunologa sottolinea: “A fronte di un vantaggio tutto da discutere e dimostrare in termini di contenimento del contagio (ci sono persino discussioni sull’utilità in toto del coprifuoco, figuriamoci se possiamo dimostrare che 1 ora fa la differenza), il danno per le categorie coinvolte è certo e pesante. È una decisione che ha un sapore moralistico più che scientifico”.

Il coprifuoco da solo non basta. Da quando è iniziata la pandemia la nuova “normalità” è fatta di regole da rispettare sempre: indossare la mascherina, lavare spesso le mani e mantenere le distanze. Il coprifuoco è solo una delle nuove norme. “Se vediamo benefici dopo un mese sarà per merito del coprifuoco o di tutte queste misure insieme?” dice Helen Boucher, specialista di malattie infettive al New York Times come riporta il Corriere della Sera. Il professor Ira Longini esperto di biostatistica ed epidemiologia delle malattie infettive presso l’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida sostiene che le prove sull’efficacia del coprifuoco sono tutto fuorché evidenti.

Studi sul coprifuoco a confronto. Una ricerca pubblicata su Science e condotta a Wuhan ha evidenziato che il coprifuoco e il lockdown hanno sì fatto diminuire i contagi all’esterno, ma li hanno fatti aumentare in famiglia. Al chiuso infatti il virus prospera di più. Un altro studio svolto in Francia e pubblicato su Eurosurveillance ha fatto emergere che il rigido coprifuoco a cui sono stati sottoposti i francesi ha ridotto l’indice di riproduzione dei ceppi storici di Covid ma non è stato sufficiente a fermare le varianti e quindi una nuova ondata. Poi c’è il caso di Tolosa che ha vissuto prima il coprifuoco alle 20 e poi alle 18. Gli scienziati hanno studiato come la chiusura alle 20 avesse ridotto del 38% i contagi, mentre il lockdown alle 18 avrebbe paradossalmente fatto aumentare i contagi. Il motivo? Le persone si precipitano a fare compere prima della chiusura e considerato che le ore di apertura sono minori si concentrano maggiormente. I ricercatori dell’Università di Deft nei Paesi Bassi hanno condotto una serie di simulazioni per capire l’impatto delle varie restrizioni. “Il coprifuoco notturno aiuta a evitare che il numero di infezioni salga alle stelle e può quindi contribuire a limitare il sovraccarico degli ospedali ma a differenza di un lockdown completo ha bisogno di un periodo più lungo per essere efficace e da solo non basta, andrebbe adottato insieme ad altre misure restrittive – ha spiegato uno dei ricercatori, Amineh Ghorbani, come riporta il Corriere della Sera – Dopo tre settimane, ad esempio, il blocco potrebbe essere allentato, ma il coprifuoco dovrebbe rimanere in vigore per poter mantenere più a lungo l’effetto positivo delle severe restrizioni”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La luce del sole spegne il Covid? Allora usciamo da casa. Maurizio Costanzo su Libero Quotidiano il 15 aprile 2021. Leggo e riferisco senza prendere posizione, che la luce solare renderebbe inattivo il Coronavirus. Ve lo dico semplicemente, ma gli scienziati lo hanno affermato con maggior competenza, ovviamente. D’altra parte, si è sempre detto che all’aperto era più difficile rimanere contagiati. Allora mi chiedo per quale motivo, se tutto ciò è vero, ci hanno costretto e ci costringono a stare in casa il più possibile. Certo, vanno evitati gli assembramenti. Evitiamoli ma adesso che è la bella stagione, torniamo a stare un po’ all’aperto.

Da liberoquotidiano.it il 15 aprile 2021. C'è un Paese che, all'inizio della pandemia, sembrava avere in mano la situazione. Si tratta della Germania, poco sfiorata dalla prima ondata della Covid-19, risalente ormai a 14 mesi. Con il passare dei mesi, la situazione è cambiata però anche lì e la gestione è andata sempre di più nella direzione delle chiusure. Da quasi un mese, in Germania si sta vivendo un lockdown, parecchio simile a quello italiano. Annunciato prima di Pasqua da Angela Merkel, la cancelliera aveva poi fatto un passo indietro il giorno dopo, ritirando la decisione e "concedendo" le vacanze di Pasqua ai tedeschi. Poi anche in Germania: lockdown totale e chiusura di tutte le attività non necessarie. Il cosiddetto Notbremse (freno a mano) è stato tirato e verrà confermato in Parlamento mercoledì della prossima settimana. La proposta comprende misure ancora più restrittive, tra gli altri, anche un coprifuoco dalle 21 alle 5. Almeno le chiusure messe in atto finora hanno salvato delle vite, si obietterà. E invece lo scenario è ben diverso: nelle ultime 24 ore, la Germania ha registrato un balzo in avanti nei contagi, il più alto da inizio gennaio: 29.426 contagiati in un solo giorno. Nella giornata di ieri, 14 aprile 2021, le vittime sono state 294 (79.381 in totale), mentre il numero di nuove infezioni ogni 100.000 residenti in sette giorni è schizzato a 160,1 secondo i dati del Robert Koch Institut. Il presidente dell'RKI Lothar Wieler ha detto stamani in conferenza stampa "dobbiamo agire subito, le terapie intensive rischiano il sovraccarico e dobbiamo salvare vite umane". Eppure, la strategia delle chiusure senza se e senza ma, non sembra aver dato frutti in tutti Paesi che l'hanno attuata, Italia in primis, chiusa da oltre un anno e con uno dei tassi di mortalità più alti d'Europa. Inoltre, il costo dal punto di vista del tessuto economico è spaventoso: si stima che nel 2020 l'Italia perderà circa 10 punti di Pil. Arrestata anche la crescita economica in Germania a causa delle chiusure che, per il primo quadrimestre dell'anno, è stata ridotta in autunno dagli esperti da 4,7% a 3,7%. Anche l'andamento delle vaccinazioni non procede proprio come auspicato dalla Germania. Sono 14.058.329 le persone che hanno ricevuto il vaccino (16,90% della popolazione totale), 5.186.083 hanno ricevuto invece entrambi le dosi necessario (6,24% della popolazione). Tuttavia, nella giornata di ieri sono state 600.000 le persone a ricevere il vaccino. "I numeri sono troppo alti, e salgono ancora. In terapia intensiva aumentano quotidianamente" ha affermato in conferenza stampa il ministro della Salute Jens Spahn. Insomma, chiusure e vaccini: una ricetta che non sembra funzionare. Un'evidenza che ora appare in Germania, ma che presto potrebbe riguardare altri Paesi. Ed è per questo che il picco di contagi in Germania, ora, è la peggiore delle notizie: lockdown e campagna vaccinale a che risultati stanno portando?

Vittorio Sgarbi a Stasera Italia travolge Roberto Speranza: "700 morti Covid con le chiusure? È evidente che non sono la soluzione". Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. Vittorio Sgarbi non cambia idea. In linea con Matteo Salvini, il critico d'arte ora in corsa per il Campidoglio non perde l'occasione per appellarsi a Mario Draghi e Roberto Speranza e ridare vita al Paese. "700 morti con le chiusure? È evidente che non sono la soluzione. Le chiusure come ha dimostrato l'Irlanda non sono connesse al virus - ha spiegato ai microfoni di Stasera Italia su Rete Quattro -. Il Covid si diffonde in casa, mentre all'aria aperta siamo tutti mascherati. Questo è dimostrato da uno studio irlandese". Quella citata dal critico d'arte è la ricerca condotta dall'Health Protection Surveillance Centre, l'ente che monitoria la diffusione del Covid in Irlanda. Su 232.164 casi di contagio registrati fino al 24 marzo, è emerso che solo 262 volte il virus ha infettato all'aperto. La percentuale è dunque dello 0,11 per cento, vuol dire una persona su mille. "Anche in piccoli paesi - ha proseguito Sgarbi davanti a Barbara Palombelli - il contagio è limitato". Insomma, un appello al premier e al governo affinché venga abolita la zona rossa. Una batosta per gli italiani e le loro tasche. Lo stesso Sgarbi, intervenuto qualche settimana fa a La Zanzara, si era lasciato andare a uno sfogo privatissimo ma che dimostrava in pieno la drammaticità del momento: "Basta retorica sui medici. Il medico deve stare in ospedale, cura i malati che ci sono. Se poi trascura i malati di cancro è già un medico che mi sta sul ca***. Non c’è solo il Covid al mondo. Io ho avuto il Covid e ne sono uscito, e ho un cancro alle p**e e non ne sono ancora uscito".

Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 9 aprile 2021. Sul volo Milano-Madrid è l'argomento più dibattuto. Da mesi. I veterani della tratta alzano l'aspettativa dei novizi. «Vedrai a Madrid. È tutto aperto. Dalle scuole ai ristoranti, ai negozi». La differenza della quotidianità tra i due motori economici, in effetti, fa impressione. Il sacrificio chiesto a negozianti, ristoratori e studenti lombardi è stato enorme rispetto a quello dei loro colleghi madrileni. A guardare i dati però si scopre che Madrid (aperta) ha patito meno il Covid della Lombardia (chiusa). All'inizio della stagione fredda, la Lombardia si presentava con 107 nuovi positivi e 5 morti al giorno contro i 952 infetti e 50 morti di Madrid. Secondo la logica delle chiusure, chi avrebbe dovuto entrare in isolamento era la Comunidad spagnola. Invece dall'1 ottobre 2020 al 30 marzo 2021 le politiche di contrasto alla pandemia si sono divaricate: Madrid permissiva, con «coprifuoco» in genere alle 23 e chiusure limitate a singoli quartieri, Milano e le sue province lombarde rinserrate. La metropoli spagnola pur con mascherine e distanziamenti ha mantenuto cinema, ristoranti, teatri e scuole quasi sempre operativi anche la sera. La Lombardia, con l'eccezione del periodo natalizio, no. Eppure l'epidemia ha colpito di più la metropoli con le regole più prudenti. Tra ottobre e marzo la Lombardia ha avuto 6.200 positivi ogni 100 mila abitanti, la Comunidad di Madrid qualcuno meno, 5.800. Maggiore il vantaggio della capitale spagnola sui decessi. In Lombardia sono stati 136 ogni 100 mila abitanti, a Madrid 98. Meno sorprendentemente, a minori chiusure ha corrisposto un miglior andamento economico. La Lombardia, più chiusa del resto d'Italia, ha perso un punto di Pil in più della media nazionale. Madrid, invece, più attiva anche del resto della Spagna, ha retto un po' meglio, con uno 0,7 di Pil di vantaggio sulla media del Paese. Sicuramente insufficienti a spiegare le differenze tra le due aree, ma comunque utili, sono anche altre statistiche. L'età ad esempio. La Lombardia ha il 28% degli abitanti sopra ai 60 anni (e il 17% sopra i 70) mentre la Comunidad è un poco più giovane (e quindi favorita rispetto al Covid) con il 26,8% sopra i 60 anni (e il 16,3 sopra i 70). A Madrid, anche in tempi normali, si muore meno. Nel quadriennio 2015-2019 ci sono stati 704 decessi ogni 100 mila abitanti, nell'anno del Covid (il 2020) sono aumentati del 43% fino ad arrivare a mille ogni 100 mila abitanti. In Lombardia in tempi normali i decessi erano 997 e sono saliti nel 2020 a 1.360 sempre ogni 100 mila (+36%). Altro aspetto strutturale (e misurabile) che può aver favorito Madrid è il suo sistema sanitario. A inizio pandemia la Lombardia aveva 9 posti letto di terapia intensiva ogni 100 mila abitanti e Madrid 14. Anche il miglior clima e il minor inquinamento potrebbero aver favorito la capitale spagnola. Sulla rivista scientifica The Lancet, un pool di esperti spagnoli, però, ha proposto altre ipotesi, anzi, tre fattori chiave nello «sforzo titanico di Madrid per controllare la seconda ondata».

Primo: la scelta di estendere a chiunque e negli ambulatori sotto casa i test rapidi. «Sono sicuramente meno attendibili, ma hanno permesso di raddoppiare il numero dei controlli».

Secondo: la conta del virus nelle acque reflue per isolare i quartieri più contagiati. Circa 2 dei 6,6 milioni di abitanti della Comunidad di Madrid sono stati coinvolti da queste micro chiusure.

Terzo: l'accesso ai test e la consapevolezza del tasso di contagio nel proprio quartiere ha aumentato il livello di responsabilità dei cittadini e di conseguenza l'attenzione nell'uso delle mascherine e del distanziamento.

È esportabile il modello madrileno? «Le ondate pandemiche non colpiscono in maniera sincrona - spiega il professor Paolo Bonanni, epidemiologo dell'Università di Firenze -. Perché? Non lo sappiamo. I fattori da inserire nel modello sono talmente tanti e variabili nel tempo che basta ignorarne uno per far fallire tutto». Intanto, però, anche l'altro ieri (7 aprile) Madrid continuava a stare meglio della Lombardia. Aveva più infetti, ma meno vittime: 2.394 nuovi positivi (36 ogni 100 mila abitanti) contro i 2.569 lombardi (25 ogni 100 mila) e 19 decessi contro 109 (0,2 contro uno ogni 100 mila).

Coronavirus e vaccini, fuori la verità: anche nel mondo scientifico le scelte sono politiche. Francesco Bertolini su Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. La rivincita della scienza è durata poco, purtroppo. Se la scienza è associabile all'Ema, la European Medicines Agency, l'agenzia europea del farmaco, siamo messi malissimo. Fortunatamente la scienza non coincide con questi baracconi sovranazionali, espressioni di equilibri di potere tra vari Paesi e corporazioni. Ma è indubbio che la figura che questa autorità ha fatto in queste settimane non aiuta nessuno, né gli Stati, né i cittadini. Si chiede ai cittadini, in maniera fideistica, di credere alle indicazioni del governo, che recepisce le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico (Cts) che a sua volta si appoggia alle indicazioni dell'Ema o dell'Organizzazione mondiale della sanità. Ma quando le indicazioni cambiano ogni settimana qualunque fiducia viene meno; inutile che le nuove star dei talk show continuino a sostenere che i benefici delle scelte prese siano superiori ai rischi, ci mancherebbe altro. La fiducia è difficile da conquistare, ma quando si perde è quasi impossibile da recuperare. La fiducia è una relazione fondata sulla dipendenza. Sia che si parli di persona fisica o di istituzione, l'altro a cui assegna fiducia ha un certo potere su di me. Un potere che però instaura un senso di responsabilità, oppure può approfittare della situazione vantaggiosa. Così facendo genera una spirale di sfiducia che logora qualsiasi legame sociale. In questi mesi disgraziati che hanno portato alla ribalta personaggi sconosciuti, si è ascoltato tutto e il contrario di tutto. Una informazione sciatta e appiattita, istituzioni allo sbando incapaci di decidere e di prendersi dei rischi, preferendo addossare ai cittadini ogni colpa. E cittadini disorientati, terrorizzati , manipolati, oggi a loro volta allo sbando. L'emergenza sanitaria della prima ondata non è mai terminata, è arrivata poi l'emergenza economica, e ora è arrivata l'emergenza psicologica di un Paese che non ce la fa più. La paura della malattia e della morte si è trasformata in paura di vivere. Ciò non sembra scalfire i protagonisti dei talk show, a cui la pandemia ha portato notorietà, potere e magari qualche nomina pubblica, prestigiosa nei loro ambienti. Ma solo nei loro ambienti ormai, perché se si facesse un sondaggio sulla credibilità dell'Ema o dell'Oms non penso che i risultati sarebbero lusinghieri. E infatti non si fanno, si continua a giocare con la salute, fisica e mentale, di milioni di persone, raccontando che tutto il mondo è nella stessa situazione; niente di più falso, in larghe aree del pianeta la vita è normale, senza mascherine, con l'economia che corre e che sta togliendo quote di mercato che non torneranno facilmente alle nostre imprese. Intanto, qui, attendiamo con ansia il prossimo comunicato Ema.

I vaccini e le big pharma. Su AstraZeneca l’oscillare dei governi e gli interessi di Big Pharma: aveva ragione Totò? Oreste Scalzone su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Così parlò questo stupido… (detto, parafrasando e volgendo al riflessivo il Totò di «Voglio vedere dove vuole arrivare questo stupido… Io non mi chiamo Pasquale»). D’abord: mi sa, mi è sempre saputo veramente ozioso e insensato il chiedersi se, o in che misura, siamo in presenza di demenza o di cinismo moderno . O ancora – complessificando concedendoci “semel in vita”, per disperazione, una caduta nell’abisso del “sospetto” (che è sempre maligna grottesca caricatura e contraffazione del dubbio) – chiedermi se si tratti di vero ”sterminismo” a fini di «igiene del mondo, eliminazione degli scarti». Magari si tratta di tutto questo assieme. Ora, parlando semplice-semplice: dunque, già il vaccino AstraZeneca era, o comunque risultava, dubbio, e percepito come tale, e “chiacchierato”. Dapprima lo si preconizza come adatto tra i 18 e i 55 anni come tetto. Poi, si alza il tetto a 65 anni. Poi anche oltre, fino a 79, poi senza limite…

Vaccino, i profitti di BigPharma "tra 120 e 150 miliardi di dollari": le cifre e il sospetto, guerra economica sulla nostra pelle? Libero Quotidiano il 17 marzo 2021. Giovedì 18 marzo arriverà la tanto attesa decisione dell'Ema riguardo all'utilizzo del vaccino anglo-svedese AstraZeneca. Sin da subito, molti Paesi dell'Ue hanno deciso di inoculare il serio solo a determinate fasce della popolazione, ritenendolo inutile per le fasce d'età dai 65 anni in su.

Da leggo.it il 26 febbraio 2021. «Io ho 66 anni e non appartengo al gruppo per cui AstraZeneca è consigliato» ma «è un vaccino affidabile, efficace e sicuro ed è stato approvato dall'agenzia europea del farmaco e in Germania consigliato fino ai 65 anni di età».

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 9 aprile 2021. Aumentano le disdette tra chi è in lista per il vaccino AstraZeneca, che da ieri è raccomandato agli over 60.I consigli del virologo. Dove si rischia maggiormente il contagio da Covid: dall’autobus agli ospedali quali sono i luoghi più pericolosi. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Dopo un anno di pandemia le regole d’oro per evitare i contagi le conoscono tutti e sono sempre valide: indossare la mascherina, lavare spesso le mani e mantenere la distanza tra le persone. Ma quali sono i luoghi dove si rischia maggiormente il contagio da Covid? Per Fausto Baldanti, virologo del policlinico San Matteo di Pavia, bisogna tenere l’attenzione massima nei luoghi pubblici perché lì “non si può mai sapere chi c’è stato”, ha detto in un’intervista a Repubblica.

Il pericolo di contagio nei luoghi pubblici. È proprio nei luoghi pubblici che il rischio è più elevato. Nei mezzi pubblici o nei locali di transito di molte persone si possono nascondere numerose insidie. “Bisogna mantenere il massimo della cautela – avverte Baldanti –. Del resto ci si può aspettare che sui mezzi il virus circoli, perchè non tutti coloro che li frequentano sono rigorosi. Quindi è consigliabile portarsi un gel disinfettante in tasca, non toccare superfici, indossare la mascherina. E poi, appena possibile, lavarsi le mani”. Bisogna quindi fare molta attenzione a bar, ristoranti, uffici o mezzi pubblici e anche all’utilizzo di strumenti di uso pubblico come le tastiere dei bancomat, dei pos o degli ascensori che raramente vengono disinfettati tra un uso e l’altro.

Il pericolo di contagio negli ospedali. Molti hanno paura anche solo dell’idea di avvicinarsi a un ospedale. Ma secondo Baldanti lì invece l’ambiente è più sicuro. “Dove l’attenzione è più alta, la soglia di rischio si abbassa. Abbiamo pubblicato due lavori in cui, analizzando le superfici dei luoghi di cura in cui convivevano pazienti ricoverati per Covid, non si trovava traccia del virus. Questo perchè in ambito sanitario ci si cautela molto di più: si indossano le protezioni, si sanificano e arieggiano frequentemente i locali”. RIMANERE IN SILENZIO AIUTA – Per chi dovesse trovarsi in luoghi pubblici, soprattutto in presenza di tante persone, il virologo consiglia un piccolo accorgimento: rimanere in silenzio. “Sono le goccioline (droplets) che emettiamo quando parliamo, tossiamo o starnutiamo che contengono il virus. Anche se indossiamo la mascherina, osservare qualche minuto di silenzio, almeno per tutta la durata del viaggio, non potrà che giovare alla nostra salute”, ha detto il virologo. A conferma di ciò, alcuni studi hanno dimostrato come, chi usufruisce dei mezzi pubblici, corra un rischio di contagio sette volte maggiore. E aggiunge anche il consiglio di evitare l’uso dell’ascensore: si tratta di un luogo piccolo e poco arieggiato, frequentato da tante persone e che impone di toccare almeno i tasti per selezionare la chiamata e il piano. Meglio le scale, che fanno benne alla salute anche per il movimento fisico. Stessa cosa per quanto riguarda distributori automatici e maniglie delle porte.

Il pericolo di contagio negli ambienti chiusi e aperti. Studi scientifici hanno dimostrato che la temperatura caldo umida favorisce la diffusione del virus. Per questo è fondamentale il ricambio frequente dell’aria anche in inverno. Ma all’aperto non si può stare più sereni. “Non vorrei diventare maniacale, non sono tra chi sostiene che bisogna mettersi la mascherina anche quando si è al tavolo del ristorante. Certamente stare all’aperto in tanti per fare una grigliata è altamente sconsigliato visto che si parla di trasmissione di un virus attraverso le goccioline che escono dalla bocca di ognuno di noi. La stessa cosa la si può dire anche se si è solo in due, al chiuso, non appartenenti allo stesso nucleo familiare, e pure a stretto contatto. In quel caso basta veramente poco per infettarsi”, dice Baldanti.

Il virus su scarpe e indumenti. Non è ancora stato dimostrato che scarpe e vestiti possano essere veicolo di contagio. Ad ogni modo i virologo suggerisce di lasciarli all’aria e lavarli normalmente. “L’importante è sempre curare la nostra igiene – conclude Baldanti –. Mi riferisco al fatto di lavarsi le mani una volta tornati a casa, dopo che si è maneggiata la spesa o si sono toccati oggetti provenienti dall’esterno”. Dunque le buone e care vecchie regole auree restano sempre la soluzione migliore per evitare il contagio.

Coronavirus, lo studio irlandese: all'aperto non ci si contagia. Ecco le cifre che dovrebbero far riflettere Roberto Speranza. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 07 aprile 2021. Lo «state a casa!» ormai è storia. Fin da subito è stato il mantra di chi - premier, ministri e pseudo scienziati - anziché lavorare per combattere il Covid, ha combattuto per azzerare la vita sociale e cancellare il lavoro. Il virus spadroneggiava e loro giù col tormentone e i relativi hashtag, che all'inizio hanno colorato i balconi e poi sono stati cancellati dagli insulti. Conte, Lamorgese, Speranza e altri stenui combattenti di terra, del mare e dell'aria hanno ordinato a polizia e carabinieri di interrompere d'imperio i picnic e di inseguire chi correva da solo sulla spiaggia. I droni hanno setacciato terrazze e parchi. «State a casa!». Per un po', tramortiti, ci siamo stati senza fiatare. Presto però abbiamo cominciato a chiederci che senso avesse restare murati in casa, se era ed ovviamente è ancora in casa che il virus ha maggior possibilità di riprodursi. Ci hanno vietato lo sport all'aperto concedendoci al massimo di fare «attività motoria nei pressi della propria abitazione». Ai bambini è stato vietato di calciare un pallone. Agli adulti di bere il caffè seduti in piazza. L'ordine di indossare la mascherina è stato imposto perfino nei boschi. Nessuno tra gli "esperti" asserviti a Roma ha mai presentato uno straccio di documento che attestasse la pericolosità di uscire e continuare a vivere, pur rispettando il distanziamento, e il perché è fin troppo evidente. All'estero, invece, hanno certificato l'assoluta inutilità di tali provvedimenti con una serie di studi molto dettagliati. L'ultimo è dell'Health Protection Surveillance Centre, l'ente che monitoria la diffusione del Covid in Irlanda. Su 232.164 casi di contagio registrati fino al 24 marzo, è emerso che solo 262 volte il virus ha infettato all'aperto. La percentuale è dello 0,11 per cento, vuol dire una persona su mille. È chiaro che nessuno può conoscere il numero esatto con assoluta certezza, ma il dato è emblematico.

RISULTATI EVIDENTI. L'ente irlandese ha dunque riscontrato appena 20 focolai riconducibili ad "attività sportive e fitness" (131 i casi associati) e 21 nei cantieri edili (124 infezioni). Ed Lavelle, professore di biochimica al Trinity College di Dublino e dal 2013 presidente della Società irlandese di Immunologia, ha affermato che «i risultati convalidano molte delle tesi provenienti dagli Stati Uniti» e «dimostrano che le attività all'aperto sono sicure. Andare in un bar all'aperto», ha sottolineato, «è molto sicuro. L'aspetto fondamentale è cosa succede dopo queste attività». La collega Orla Hegarty è meno ottimista, e però anche lei sostiene che «all'aperto il rischio di contagio è basso, perché», ha spiegato, «a meno che tu non sia vicino a qualcuno infetto, la maggior parte del virus viene spazzato via dall'aria, come avviene per il fumo della sigaretta». Il governo irlandese, sulla base di tali dati, ha deciso per il ripristino delle attività sportive all'aperto dal 26 aprile. L'apertura riguarda anche alcuni luoghi turistici e i locali con spazi esterni. Il ministro del Turismo, Catherine Martin, ha messo a disposizione l'equivalente di 17 milioni di euro per i ristoratori che vogliono ampliare i plateatici. Sennonché, dicevamo, ci sono altri autorevoli studi che dimostrano l'inutilità e la pericolosità di chiudere in casa le persone. L'Università della California, dopo cinque analisi su altrettanti campioni di popolazione, è arrivata alla conclusione che la possibilità di contrarre il Covid in un ambiente chiuso è 19 volte superiore.

ANALISI CONVERGENTI. In Cina un altro studio ha evidenziato che su un campione di 1.245 contagi, solo 3 persone, con certezza, si sono infettate per strada conversando senza mascherina. Significa lo 0,24%. Mike Weed, docente della Canterbury Christ Church University (Inghilterra), ha analizzato 27 mila casi parte dei quali provenienti dalla Cina e dal Giappone. La trasmissione del virus all'esterno, ha concluso, «era così marginale da essere scientificamente insignificante». Weed ha sottolineato che i ritrovi all'aperto, «se accompagnati da un'adeguata gestione del rischio», non devono allarmare. Da noi invece gli uccellacci del malaugurio nemici della vita continuano a dirci che passeggiare in collina è pericoloso. Dopo un anno gli hashtag sono spariti ma Speranza ci obbliga ancora in casa. La follia, diceva Albert Einstein, sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Speranza non è folle. È drammaticamente incapace.

"Le scuole non amplificano la diffusione del Covid". Il primario di Pediatria del Buzzi: "I dati scientifici dicono che la variante ha impatto minore sui bimbi". Marta Bravi - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Gian Vincenzo Zuccotti, direttore Pediatria e Pronto soccorso dell'ospedale dei Bambini Buzzi e preside della facoltà di Medicina della Statale, scuole elementari e la prima media riaperte senza screening.

«Credo sarebbe stato meglio fare qualcosa».

Come Statale avete fatto degli screening...

«Con il mio team di ricerca abbiamo portato avanti un'indagine con il test sierologico pungidito per vedere quanti bambini fossero entrati in contatto con il Coronavirus: 15 le scuole di Milano che hanno aderito, 3mila gli studenti tra i 3 e i 18 anni coinvolti».

Cosa è emerso?

«Abbiamo scattato una prima fotografia a settembre da cui è emerso che il 3 per cento degli studenti aveva sviluppato gli anticorpi, una seconda a dicembre con la seconda ondata e abbiamo rilevato il 13 per cento. La settimana prossima il terzo momento di test, a un mese dalla terza ondata».

Quali conclusioni?

«A breve invieremo il nostro studio a una rivista scientifica, ma le prime conclusioni dicono che la scuola non amplifica la trasmissione dei contagi, ma riflette solo quello che avviene nella popolazione».

Una conclusione di straordinaria importanza...

«Sì, se si pensa che non ci sono tantissimi dati in letteratura che hanno seguito questa coorte di bambini, sulle tre ondate soprattutto».

Il caso Bollate con 59 contagi tra bambini, educatori e famiglie, cosa insegna?

«Per consolidare i dati scientifici finora raccolti e su richiesta del sindaco di Bollate, la prossima settimana esamineremo tutti gli alunni che aderiranno al tampone salivare molecolare che si presenta sotto forma di lecca lecca, ma che ha una sensibilità pari a un tampone nasofaringeo. Si tiene in bocca un minuto, poi si chiude e si consegna al laboratorio. Lunedì partiremo con l'indagine a tappeto e nel giro di due giorni avremo i dati sulla popolazione scolastica di Bollate, con un focus su tre classi che saranno monitorate ogni settimana fino a giugno».

Obiettivo?

«Isolare eventuali positivi, osservare l'andamento dei contagi per capire come comportarci a settembre con le scuole».

E magari sfatare il mito della variante?

«Avremo dei dati oggettivi per confermare quanto osservato: tra settembre e dicembre il tasso di contagio della popolazione scolastica è salito dal 3 al 13 per cento, quindi prima dell'arrivo della variante. Vedremo i nuovi dati, ma la fotografia che abbiamo ci permette già di dire che la scuola non è amplificatore di contagio. Ripeto: i bambini contagiano e si ammalano, ma in modo meno importante degli adulti».

E la sindrome di Kawasaki nella prima ondata?

«La sindrome multi-infiammatoria sistemica, la Mis-C, compare dopo 4 settimane dall'infezione Covid. Nella seconda ondata avevamo il triplo di casi di Mis-C della prima, mentre la terza nessuno: la variante circola di più, ma ha minore impatto sui bambini».

Perché non utilizzare il test salivare molecolare per uno screening sulle scuole?

«Il test, benché affidabile al 94%, permette di rilevare anche i soggetti asintomatici o pre-sintomatici: economico e veloce, in Italia non è stato equiparato al tampone nasofaringeo. Non può essere utilizzato come certificazione di fine malattia. Eppure permetterebbe di risolvere una serie di problemi: si potrebbero abbandonare i drive through, si può eseguire a casa o in farmacia, liberando personale utile per le vaccinazioni».

I vantaggi per le scuole e le famiglie?

«Risolverebbe l'enorme problema della reticenza di molti bambini e, quindi, dei genitori a far eseguire il tampone naso faringeo. Ci sono piccoli che sono rimasti traumatizzati».

Ispezioni del Nas sui mezzi pubblici: tracce di Covid su maniglie e sedili. La Repubblica il 6 aprile 2021. I carabinieri del Nas hanno effettuato controlli su 693 mezzi del trasporto pubblico, in varie città italiane, per verificare il rispetto delle regole anti Covid. 32 tamponi di superficie hanno evidenziato tracce del virus nei punti di maggiore contatto (obliteratrici, maniglie e barre di sostegno per i passeggeri, pulsanti di richiesta di fermata e sedute) di autobus, vagoni metro e ferroviari di Roma, Viterbo, Rieti, Latina, Frosinone, Varese e Grosseto. Va precisato che la presenza di tracce di virus su queste superfici non implica di per sé la certezza che ci si possa contagiare venendone a contatto.

Covid sui mezzi pubblici, 28 casi nel Lazio. Blitz dei Nas: "Virus su maniglie, poggiatesta e nelle sale d'attesa". Romina Marceca su La Repubblica il 6 aprile 2021. Tamponi eseguiti in diverse città d'Italia e nella nostra regione. Undici i casi nella capitale. Il virus sulle maniglie, sui pulsanti di chiamata della fermata, sulle barre di sostegno dei passeggeri e sui poggiatesta dei sedili. L'incubo coronavirus sale a bordo di bus, metro, scuolabus, treni. E il morbo, in questo viaggio, si annida nei pulsanti delle biglietterie, nelle sale d'attesa e nelle stazioni metro. È quanto hanno appurato i carabinieri del Nas in 32 casi di positività dei tamponi di superficie effettuati in diverse città d'Italia. In 28 casi è stato rilevato che il virus si era insediato sui mezzi pubblici e nei luoghi di attesa dei mezzi di trasporto di Roma e delle altre quattro province del Lazio: Rieti, Viterbo, Latina e Frosinone. Un controllo straordinario messo in campo dai Nas e dal ministero della Salute. È così emerso che a Roma su 42 tamponi di superficie, 11 sono risultati positivi in campioni prelevati da un autobus urbano, da 4 autobus di linee extraurbane della capitale e da 6 vagoni della linea ferroviaria extraurbana Roma -Lido. I tamponi risultati positivi erano stati prelevati da punti ritenuti sensibili: maniglie di apertura delle vetture, pulsanti di chiamata della fermata, barre di sostegno dei passeggeri e poggiatesta dei sedili. Dieci le positività sulla rete di trasporto urbano di Latina e Frosinone. I prelievi hanno interessato 5 autobus, uno del capoluogo pontino e 4 di quello ciociaro. Dopo i controlli è scattata la sanificazione straordinaria. Nove i casi di positività su mezzi pubblici nelle provincie di Viterbo e Rieti. "Il riscontro della presenza di materiale genetico del virus sulle superficie dei mezzi di trasporto, seppur non indice di effettiva capacità di virulenza o vitalità dello stesso, rileva con certezza il transito ed il contatto di individui infetti a bordo del mezzo, determinando la permanenza di una traccia virale", scrivono in un comunicato i carabinieri del Nas. E, infatti, i controlli hanno anche svelato quanta poca attenzione ci sia alle norme anti-Covid che potrebbero comunque mettere al riparo dal contagio. In quattro, titolari di aziende di trasporto, sono stati denunciati per non avere seguito le procedure di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro a favore degli operatori. I Nas e l'Arpa hanno anche scoperto che, in molti casi, non sono state eseguite pulizia e sanificazione dei luoghi e delle vetture, non sono stati esposti cartelli e regole anti contagio e non c'era il giusto distanziamento a bordo dei mezzi di trasporto. Mancavano anche i dispencer per il gel disinfettante o non erano funzionanti. I mezzi controllati in diverse città italiane sono stati 693.

Covid, tracce del virus su bus e treni: la scoperta dei Nas. Adnkronos.com il 06 aprile 2021. Tracce del coronavirus sulle superficie di bus e treni. E' quanto hanno scoperto i Carabinieri del Nas, d'intesa con il ministero della Salute, durante una campagna di controlli a livello nazionale per la corretta applicazione delle misure di contenimento epidemico sui servizi di trasporto pubblico. I militari hanno eseguito "756 tamponi di superficie su mezzi di trasporto e stazioni (obliteratrici, maniglie e barre di sostegno per i passeggeri, pulsanti di richiesta di fermata e sedute), rilevando - riporta la nota del Nas - 32 casi di positività per la presenza di materiale genetico riconducibile al virus all’interno di autobus, vagoni metro e ferroviari operanti su linee di trasporto pubblico a Roma, Viterbo, Rieti, Latina, Frosinone, Varese e Grosseto". I test sono stati eseguiti in collaborazione con i servizi locali di Asl, agenzie di protezione ambientale ed enti universitari. Le analisi hanno "rilevato con certezza il transito e il contatto di individui infetti a bordo del mezzo, determinando la permanenza di una traccia virale", osserva il Nas, anche se questa non è "indice di effettiva capacità di virulenza o vitalità" del virus. Gli interventi condotti negli ultimi giorni hanno interessato 693 veicoli, tra autobus urbani ed extraurbani, metropolitane, scuolabus, collegamenti ferroviari locali e di navigazione, ma anche biglietterie, sale di attesa e stazioni metro. Tra questi, 65 hanno evidenziato irregolarità, principalmente connesse con l’inosservanza delle misure di prevenzione al contagio da Covid-19, quali la mancata esecuzione delle operazioni di pulizia e sanificazione, l’omessa cartellonistica di informazione agli utenti circa le norme di comportamento ed il numero massimo di persone ammesse a bordo, l’assenza di distanziatori posti sui sedili e di erogatori di gel disinfettante o il loro mancato funzionamento. Complessivamente sono stati deferiti alle competenti Autorità giudiziarie 4 responsabili di aziende di trasporto, per non aver predisposto le procedure di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro a favore degli operatori e sanzionati ancora 62 responsabili per irregolarità amministrative, irrogando sanzioni pecuniarie pari a circa 25 mila euro. Le attività di controllo dei Carabinieri Nas proseguiranno al fine di tutelare la salute dei cittadini e della collettività, con particolare riguardo agli aspetti connessi con il contesto di emergenza epidemica in atto.

Contagi sui mezzi pubblici, i Nas scoprono 32 casi. Meloni attacca «Ora la verità è sotto gli occhi di tutti». Adriana De Conto martedì 6 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Irresponsabili. Fratelli d’Italia da un anno sta mettendo in guardia sulla situazione dei mezzi pubblici: anello cruciale per la trasmissione dei contagi e pure mai attenzionati con cura e capacità. Anzi si è negata l’evidenza, tuona Giorgia Meloni dai suoi canali social. E oggi il blitz dei Nas ha scoperchiato il problema. “Per mesi hanno raccontato ai cittadini che il trasporto pubblico era sicurissimo, ma oggi la verità è sotto gli occhi di tutti: i mezzi pubblici sono veicolo di contagi. E il loro potenziamento, richiesto a gran voce da Fratelli d’Italia, doveva essere una priorità. Invece – entrambi i governi che si sono susseguiti – hanno preferito continuare a colpevolizzare bar, palestre e ristoranti; chiudendo le loro attività, già in ginocchio dalle continue limitazioni, che da tempo seguivano tutte le norme anti-contagio. Un controsenso assurdo di cui adesso qualcuno deve rispondere davanti agli italiani”. Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, commentando i controlli anti-Covid effettuati dai Nas sui mezzi di trasporto pubblico nazionali. Il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute ha realizzato, d’intesa con il Ministero della Salute, una campagna di controlli a livello nazionale. Gli interventi hanno interessato 693 veicoli, tra autobus urbani ed extraurbani, metropolitane, scuolabus, collegamenti ferroviari locali e di navigazione. Ma anche biglietterie, sale di attesa e stazioni metro. Tra questi, 65 hanno evidenziato irregolarità, principalmente connesse con l’inosservanza delle misure di prevenzione al contagio da Covid-19: la mancata esecuzione delle operazioni di pulizia e sanificazione; l’omessa cartellonistica di informazione agli utenti circa le norme di comportamento ed il numero massimo di persone ammesse a bordo; l’assenza di distanziatori posti sui sedili e di erogatori di gel disinfettante;  o il loro mancato funzionamento. Complessivamente sono stati deferiti alle competenti Autorità giudiziarie 4 responsabili di aziende di trasporto e sanzionati  62 responsabili per irregolarità amministrative. I 756 tamponi di superficie su mezzi di trasporto e stazioni (obliteratrici, maniglie e barre di sostegno per i passeggeri, pulsanti) hanno rilevato 32 casi di positività per la presenza di materiale genetico riconducibile al virus. I casi su autobus, vagoni metro e ferroviari operanti su linee di trasporti pubblici di Roma, Viterbo, Rieti, Latina, Frosinone, Varese e Grosseto. FdI – come ha rilevato la Meloni- ha sempre spronato il governo Conte ed ora quello guidato da Draghi – a potenziare i trasporti, che dovevano essere i veri osservati speciali. Niente da fare. Dopo un anno di pandemia tragica il blitz, fuori tempo.

«IL VIRUS RALLENTA MA NON CERTO PER LE ZONE ROSSE». Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 6 aprile 2021. «La normalità, per come la intendevamo prima della pandemia, non tornerà da un giorno all’altro. L’onda sarà lunga e le mascherine, almeno nei luoghi pubblici al chiuso, ci accompagneranno ancora per un bel po’. Altro è chiedersi quando torneremo a incontrarci, a fare ognuno il proprio mestiere, con i negozi tutti aperti. Con i vaccini questo è un obiettivo alla nostra portata già per la prossima estate». 

La previsione è del professor Paolo Spada, chirurgo vascolare dell’Irccs Humanitas e fondatore della pagina Facebook “Pillole di ottimismo”, che dagli albori del Covid analizza l’andamento dell’epidemia in modo disallineato rispetto alla narrazione in chiave pessimistica maggioritaria sui media, ai quali non risparmia severe critiche. «Gran parte della stampa e degli organi di comunicazione in genere continuano a fornire una lettura superficiale dei dati – ci spiega – senza preoccuparsi dei destinatari: cittadini confusi, disorientati e ora anche molto stanchi. Il tutto nel nome dei clic e dell’audience. Sottolineare le variazioni giornaliere dei contagi non serve a nulla, si tratta di problemi relativi su cui si fa terrorismo. Così poi, quando sorgono criticità serie, il pubblico va in saturazione». Lo stesso, osserva, avviene «con le misure di contenimento. Se l’azione fosse stata più mirata e meno generalizzata, ubiquitaria e prolungata nel tempo, le restrizioni sarebbero più digeribili». Gli italiani, prosegue, «saranno anche indisciplinati ma hanno dimostrato di saper rispettare le regole quando sono ragionevoli. Se, diversamente, sono esasperanti, le aggirano. Un atteggiamento che viene messo in conto dal decisore politico». Dal suo canale social, Spada porta avanti una battaglia personale (fondata sui numeri) per un cambio di strategia nella lotta al virus, che si fondi su chiusure limitate alle province e ai comuni dove si sviluppano i focolai e non estese all’intera regione. «Da sempre – dice – l’epidemiologia si fonda sul principio dell’isolamento del soggetto infetto. Un criterio che andrebbe seguito anche a livello territoriale. In fondo si tratta di un’estensione del concetto di tracciamento. Quando i focolai sono tanti, come avviene con la stagione autunnale e invernale, diventa difficile stargli dietro, quindi servono provvedimenti generalizzati ma non su scala regionale. Eppure, nonostante si conoscano i dati dell’incidenza provinciale, si è sempre agito a livello di regione piuttosto che intervenire prima che il contagio si diffondesse sul suo intero territorio. Questa è una strategia perdente». E, soprattutto, lenta. «Seguiamo troppo l’incide Rt, il quale tiene conto solo dei sintomatici e ha bisogno di dieci/undici giorni di tempo per consolidarsi. Le restrizioni hanno la loro utilità, a patto che vengano adottate in modo tempestivo. Invece noi mettiamo le zone rosse quando l’incidenza ha raggiunto il massimo. L’efficacia è nell’evitare la curva, non nell’arrivare quando è già al suo apice». Insomma per Spada, se come pare, ci troviamo in una fase di rallentamento della terza ondata non è solo grazie all’exploit di lockdown regionali disposti nel mese di marzo. «Il calo era già iniziato – fa notare – le zone rosse lo hanno agevolato ma non lo hanno provocato». Anche perché «le epidemie hanno un loro andamento fisiologico, che dipende da più fattori. La prima ondata ci ha colti di sorpresa. La seconda ha avuto un’accelerazione nei primi 15 giorni di ottobre e ha iniziato a frenare prima del 6 novembre, quando sono state adottati i colori delle regioni. La terza, nonostante la maggiore velocità di diffusione della variante inglese, ha trovato subito terra bruciata e ha raggiunto un livello di circolazione oltre cui non riesce ad andare. Il virus, rispetto alla primavera del 2020, trova meno soggetti disponibili. C’è una quota di popolazione naturalmente protetta e un’altra più consapevole, che di suo adotta comportamenti di autodifesa quando, ad esempio, viene a sapere di un familiare o di un vicino di casa contagiato. Tutto ciò prescinde dalle misure restrittive». L’estate aiuterà, come «avvenuto l’anno scorso e come avviene per tutte le malattie respiratorie. La bella stagione, però, non è eterna. Approfittiamone per vaccinare. La cosa importante è ridurre il carico ospedaliero, proteggendo i più vulnerabili. Se raggiungiamo questo obiettivo i contagi giornalieri diventeranno irrilevanti». Ragioni di ottimismo, quindi, «ce ne sono se uno le vuole trovare, con onestà intellettuale e senza partecipare al coro dei catastrofisti». 

Stesso numero di malati pre stretta. La verità sui contagi in classe. La chiusura delle classi non ha influito positivamente sulla curva dei contagi. Bassetti: "Il problema non è lì". Ecco cosa dicono i numeri. Andrea Indini - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. A guardare il grafico appare subito chiaro che il numero dei contagiati e il rapporto con i tamponi giornalieri non si sono scostati di una virgola. Siamo sempre lì a oscillare tra i 15 e i 20mila casi con un'incidenza che non si discosta mai tanto dal 6-7%. Eppure da domani torneranno in presenza in tutta Italia - anche nelle regioni in zona rossa - gli alunni delle scuole fino alla prima media. Il che non può che vuol dire che non è la didattica a distanza la soluzione giusta che il governo sta cercando per frenare i contagi. Come dimostrato dallo studio A cross-sectional and prospective cohort study of the role of schools in the SARS-CoV-2 second wave in Italy recentemente pubblicato sulla rivista Lancet, la curva monitorata dall'Istituto superiore di sanità non viene infatti spinta all'insù dalle lezioni in presenza ma da atteggiamenti non appropriati tenuti in altri luoghi. "Il problema non è la scuola - conferma al Giornale.it Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova e componente dell'Unità di crisi Covid-19 della Liguria - il problema sono il pre e il dopo scuola, a partire dai trasporti che portano gli studenti in classe".

La situazione pre stretta. "La situazione non mi sembra diversa rispetto a quando è stata disposta la misura", ammette a Repubblica Luca Mezzaroma, referente Covid-19 del liceo Kennedy di Roma. Certo, come spiega a Sky Tg24 giustamente Antonello Giannelli, presidente dell'Associazione nazionale presidi (Anp), "rispetto a quando si è chiuso, è cresciuto il numero dei vaccinati, soprattutto tra il personale scolastico". Un punto, quest'ultimo, che mette sicuramente al riparo gli insegnanti da un eventuale contagio tra i banchi ma che non andrà certo a blindare i più piccoli anche perché, come fa notare lo stesso Giannelli, "su screening degli studenti e trasporti non si sono registrati particolari passi avanti". E quindi? Quindi, delle due l'una: o il problema è stato ingigantito un mese fa, quando si è deciso di chiudere ogni classe di ogni ordine e grado, oppure non c'è alcuna correlazione (come dimostrato dagli studi scientifici) tra l'aumento dei malati e la didattica in presenza. In entrambi i casi si può azzardare a dire, a distanza di un mese, che si è trattato di un passo falso. Per argomentare partiamo dai numeri che molto spesso sono più esaustivi delle parole. Andiamo alla settimana in cui l'esecutivo ha deciso di blindare gli studenti in casa. Il primo marzo si contavano poco più di 13mila contagi su 170.633 tamponi effettuati. Un'incidenza del 7,9%. Ma era lunedì e, si sa, il lunedì si contano sempre meno tamponi. L'indomani, infatti, su 335.983 test i malati di Covid-19 erano oltre 17mila (5,08%), mentre Il 3 aprile si arrivava a superare la soglia dei 20mila infetti su 358.884 (5,82%). Il 4 marzo, quando i positivi salivano a 22.865 su 339.635 tamponi (6,73%), il premier Mario Draghi aveva riunito d'urgenza l'esecutivo a Palazzo Chigi per affrontare l'emergenza sanitaria. "L'attenzione è massima, stiamo prendendo delle decisioni che incidono sullo stile di vita degli italiani e siamo ancora in una situazione di allarme, secondo i dati scientifici - aveva motivato l'ex Bce - il contagio potrebbe anche estendersi, non sappiamo quando raggiungeremo il picco". Al termine dell'incontro avevano, quindi, deciso di chiudere tutte le scuole. Il primo giorno di lockdown scolastico si contavano oltre 24mila nuovi contagiati su 378.463 tamponi (6,35%).

La riapertura delle scuole. Un mese dopo ci prepariamo a riaprire le scuole. Non tutte, per carità. Solo fino alla prima media. La nuova mappa delle presenze elaborata dall'agenzia LaPresse sarà la seguente: 3,2 milioni di studenti continueranno la dad (erano 6,9 milioni nei giorni scorsi) e 5,3 milioni nelle aule (erano solo 1,6 milioni). "La chiusura delle scuole - spiega al Giornale.it Bassetti - non ha influenzato l'andamento dei contagi che hanno continuato a mantenersi stabili e che, in alcune situazioni, sono addirittura cresciuti". I numeri di oggi, infatti, non sono poi tanto dissimili da quelli rilevati a inizio marzo. Ieri è stata rilevata una percentuale monstre pari al 10,39% (10.680 positivi su 102.795 tamponi) ma accantoniamola perché, come tutti i lunedì, risente dei pochi test effettuati. Domenica abbiamo, infatti, avuto 18.025 contagiati su 250.933 tamponi (7,18%) e, se prendiamo i giorni prima delle festività di Pasqua, i numeri sono anche peggiori: andando a ritroso, sono stati rilevati il 3 aprile 21.261 malati su 359.214 tamponi (5,92%), il 2 aprile 21.932 malati su 331.154 tamponi (6,62%) e il primo aprile 23.649 malati su 356.085 (6,64%). "Siamo in una fase di plateau", argomenta Bassetti. "Dopo una fase di picco ci auguriamo, tra una o due settimane, di iniziare una fase di discesa anche abbastanza rapida". Per capirlo, però, bisognerà vedere i dati dei prossimi giorni che potrebbero iniziare a beneficiare dello sprint che Draghi ha imposto alla campagna vaccinale.

I controlli sugli studenti. Visti anche questi numeri, secondo Bassetti, è necessario avviare "una profonda riflessione". "Le scuole non sono in sé e per sé un problema - ci spiega - nessuna scuola lo è, né le scuole elementari, né le scuole medie né le scuole superiori. Quando si intraprendono misure del genere - continua - bisognerebbe piuttosto andare a guardare quali sono i benefici e quali sono invece i rischi. Io credo che i rischi che abbiamo preso, chiudendo le scuole da un anno a questa parte, siano enormi per una generazione che ha praticamente perso due anni di studi, ha perso socialità, ha perso cultura... adesso sarà difficile riuscire a recuperarla". Il suo auspicio, condiviso da milioni di genitori in Italia, è che "ora le scuole riaprano per non richiudere più". I fari, a detta di Bassetti, andrebbero accesi sul pre e il dopo scuola. "I ragazzi finiscono per assembrarsi lo stesso - ci spiega - quindi è meglio avere una scuola al cui interno sappiamo che le persone vengono controllate piuttosto che lasciare in giro gli studenti, liberi di fare qualunque cosa senza alcun controllo".

Danilo Taino per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2021. È un anno che parliamo ogni giorno di lockdown. È forse il momento di analizzarli senza preconcetti. Lo ha fatto uno studio di tre ricercatori appena pubblicato dal Centre for Economic Policy Research: la conclusione a cui arrivano è che «le restrizioni impiegate per un periodo lungo, oppure reintrodotte a uno stadio avanzato della pandemia (per esempio nell'eventualità di un nuovo aumento dei casi) esercitano, al massimo, un effetto più debole, attenuato, sulla circolazione del virus e sul numero dei decessi». Patricio Goldstein della Harvard University, Eduardo Levy Yeyati dell'università Torquato Di Tella (Buenos Aires) e Luca Sartorio del ministero del Lavoro argentino hanno raccolto un database di informazioni per 152 Paesi dall'inizio della pandemia al 31 dicembre 2020 (quindi dati non influenzati da campagne di vaccinazione). Il livello d'intensità dei lockdown utilizzato è quello misurato dall'università di Oxford che considera tra l'altro la chiusura delle scuole, dei luoghi di lavoro e le restrizioni agli eventi pubblici. E l'intensità dei movimenti nei luoghi sottoposti alle restrizioni è quella misurata da Google Maps. L'obiettivo era vedere la modifica, nel tempo di vita dei lockdown, dell'indice di contagio Rt e l'evoluzione dei decessi da Covid-19. Dopo 120 giorni - è il risultato dell'analisi - un lockdown stretto «ha un effetto significativamente più attenuato» sulla riduzione del numero dei morti rispetto alle prime fasi delle restrizioni. E sull'indice Rt «non ha un impatto significativo». Probabilmente, molti di noi lo sospettavano ma lo studio misura il fatto che, con il passare del tempo e con l'aumento della fatica da lockdown, le limitazioni delle autorità «sono sempre più ignorate». I tre analisti osservano che le restrizioni «dovrebbero essere rigorose e brevi». Questo rendimento decrescente della chiusura delle attività dovrebbe essere tenuto in conto dalle politiche dei vari Paesi, soprattutto quelli - per esempio i più poveri - che stanno trovando enormi difficoltà a realizzare campagne di vaccinazione di massa e devono ricorrere a difese alternative.

Le prime sconfitte dei governi pro lockdown. Andrea Walton su Inside Over l'1 aprile 2021. Restrizioni e chiusure dominano, ormai da mesi, lo scenario europeo. Tutte le nazioni del Vecchio Continente sono dovute correre ai ripari per provare a frenare la seconda ondata di contagi del Covid-19 che, grazie alla rigida stagione invernale ed alle varianti più contagiose, sembra non voler lasciare l’Europa. C’è, però, anche un altro lato della medaglia ed è quello dei costi economici, sociali e psicologici derivanti da chiusure prolungate nel tempo, talvolta esagerate e lesive delle libertà civili. Gli organi giudiziari ed i parlamenti non sono riusciti ad opporsi, con efficacia, alla preponderanza del potere esecutivo e quasi nessuno ha provato a mettere in discussione lo status quo. Qualcosa, però, potrebbe essere sul punto di cambiare e si cominciano a registrare le prime sconfitte per i “chiusuristi”.

Il Belgio altolà di una corte federale. Una corte belga ha ordinato al governo federale di rimuovere, entro 30 giorni, tutte le misure contro il coronavirus perché prive di una base legale evidente. Il tribunale di primo grado di Bruxelles ha dato all’esecutivo un mese di tempo per agire e qualora ciò non accada verrà multato di cinquemila euro al giorno fino ad un massimo di 200mila euro in totale. Per mesi il governo belga ha usato i decreti legislativi di emergenza per imporre restrizioni scavalcando l’autorità del parlamento e questo stato di cose ha spinto la Lega per i Diritti Umani a fare ricorso. Quest’ultimo è stato promosso alla fine di febbraio con la motivazione che i diritti umani dei cittadini venivano violati senza una base legale e sorprendentemente i giudici si sono schierati con i ricorrenti. Il governo belga guidato dal primo ministro Alexander De Croo, che è in procinto di varare una legge pandemica per coinvolgere i deputati nel processo decisionale, ha già annunciato che si rivolgerà al tribunale d’appello per provare ad invalidare la sentenza. Il Belgio, dove 22,763 persone hanno perso la vita a causa del coronavirus, è stato tra i paesi più colpiti dalla pandemia e le autorità hanno recentemente annunciato nuove restrizioni per alleviare la pressione sugli ospedali e contenere il virus. Sono state chiuse tutte le scuole, asili esclusi, parrucchieri e centri estetici. I negozi non essenziali possono rimanere aperti unicamente su appuntamento mentre i ristoranti sono chiusi ormai da ottobre.

Stop anche in Finlandia. Il governo finlandese del primo ministro Sanna Marin ha dovuto ritirare la proposta di istituzione di un lockdown, che aveva presentato al parlamento, dopo la bocciatura ricevuta da un comitato di legge costituzionale. Quest’ultimo ha chiarito come la scelta di confinare le persone in case nelle aree con più infezioni fosse imprecisa ed in disaccordo con la Costituzione. Il comitato si è definito contrario alle restrizioni su larga scala ed ha chiarito come queste ultime dovrebbero essere mirate nei confronti di eventi od occasioni rischiose, come, ad esempio, gli incontri tra privati. L’esecutivo, che aveva dichiarato di voler sottoporre a lockdown cinque città, tra cui la capitale Helsinki, per limitare la crescita delle infezioni di coronavirus e le ospedalizzazioni, dovrà così rivedere i propri piani e cercare una via alternativa per raggiungere i propri scopi. La Finlandia è stata lodata, in passato, per come ha gestito la pandemia ed è stata tra i paesi meno colpiti dal Covid-19 in Europa. Al momento 259 persone in tutto il paese sono ricoverate in ospedale a causa del Covid-19.

Baleari e Canarie sfidano Madrid. In Spagna si è aperto un vero e proprio scontro tra governo centrale ed alcune autorità regionali in merito all’imposizione dell’uso delle mascherine all’aperto a prescindere dalla distanza interpersonale. Il governo delle Isole Baleari, una popolare destinazione turistica, ha annunciato che le mascherine non saranno obbligatorie nelle piscine e nelle spiagge locali dato che la legge federale non può invalidare quella regionale. Si teme che provvedimenti di questo genere possano portare, come accaduto lo scorso anno, ad una massiccia serie di cancellazioni da parte dei turisti stranieri che vogliono recarsi in vacanza sulle isole. Anche il governo delle Isole Canarie ha reso noto che i suoi servizi legali stanno esaminando la legge per determinare quali saranno le possibili prossime contromosse. Il settore turistico spagnolo versa in uno stato di grave crisi ed è alla disperata ricerca di una ripresa.

Corea del Sud, nemmeno un giorno di lockdown: ecco i dati di contagi e morti. Il caso che smonta la linea-Speranza. Libero Quotidiano l'01 aprile 2021. "In queste ore la Corea del Sud è in allarme perché i contagiati giornalieri sono arrivati a 500. Numeri così bassi e impensabili per noi e tanti altri Paesi occidentali. La Corea del Sud ha avuto anche 2 nuovi decessi, arrivando ad un totale, da quando si è scatenato il Covid, di 1.731 morti. Cifre da lasciare esterrefatti se guardiamo i nostri 108.879 deceduti. Per 100.000 abitanti l’Italia è anche tra i Paesi con più morti al mondo. Peggio di noi solo Messico, Bulgaria, Perù e Ungheria. Fortuna che eravamo un modello!" scrive Antonio Amorosi su affaritaliani.it. Il giornalista spiega la "ricetta coreana", il Paese è riuscito infatti a mantenere sin da subito sotto controllo l'espansione del virus, grazie anche a massicce campagne territoriale di informazione, su come comportarsi nel gestire il Covid in ogni situazione. "Si è diffuso un uso di massa dei tamponi, si è utilizzato il tracciamento dei focolai epidemici al fine di spegnerli sul nascere, ovviamente rispettando la privacy, con l’isolamento obbligatorio quando si è positivi" spiega il giornalista. Inoltre: "Le cure sanitarie ordinariamente vengono fatte a casa, quando è evitabile l’ospedale. Sono state aperte strutture dedicate al Covid e anche gli asintomatici sono stati seguiti e curati dai medici, indipendentemente della gravità della situazione, per tentare di spegnere la capacità virale del virus alla fonte". "La strategia coreana ha funzionato e senza un solo giorno di lockdown. Il governo guidato dal presidente Moon Jae-in ha respinto all'inizio della pandemia l’opzione dei blocchi perché considerata troppo costosa per i mezzi di sussistenza e i legami sociali dei cittadini. E i risultati si sono visti anche sotto il versante economico. La Corea nel 2020 si contrarrà solo dell'1%. Eppure la Corea del Sud è un Paese di grandi dimensioni, con 52 milioni di abitanti e una densità di 491 abitanti a chilometro quadrato, con grandi agglomerati abitativi (Seoul ha 9,7 milioni di abitanti). Una densità molto superiore alla nostra. L’Italia ha una densità di 196,17 abitanti a chilometro quadrato con 59 milioni di abitanti" prosegue Amorosi. "Per contenere il nuovo aumento delle infezioni (500 casi giornalieri), le autorità sanitarie hanno esteso, nella grande area di Seoul, le attuali regole di distanziamento sociale al livello 2. I divieti di raduni di 5 o più persone continueranno e i ristoranti e le altre strutture pubbliche nella grande area di Seoul potranno rimanere aperti fino alle 22:00. Addirittura si sono svolti eventi pubblici all’aperto, tipo attività sportive negli stadi, rispettando il distanziamento sociale e con il contenimento delle presenze." scrive Antonio Amorosi e conclude: "In Italia, come in tantissimi altri Paesi, si aspetta lo scoppiare dei focali e dei contagi per attuare misure di contenimento reali e senza alcun controllo e tracciamento a monte. Bisognerebbe invece seguire l'esempio coreano al fine di anticipare il virus per ridurne la capacità di contagio". 

Chirurgiche o Kn95, tutto quel che sai è falso. I test di laboratorio: usate male da un anno. Molti Paesi ora consentono solo le Ffp2. All'aperto? Sono inutili o dannose. Giuseppe Marino - Mer, 31/03/2021 - su Il Giornale. Se non tutto quello che sappiamo sulle mascherine è falso, perlomeno lo è buona parte. Prenderne coscienza solo ora è tragico, ma meglio tardi che mai. Stando alle analisi di Fonderia Mestieri, l'azienda di Torino che è diventata punto di riferimento per valutare la capacità filtrante delle mascherine anche per le forze dell'ordine, cui dà una mano gratis, una gran parte di ciò che ci siamo messi sulla faccia in questo anno è inutile o dannosa. Facciamo ordine in questo caos criminale. Le mascherine di comunità, ovvero quelle di stoffa, sdoganate con il decreto Cura Italia di marzo 2020, a inizio pandemia, quando non si trovava uno straccio da mettersi sulla faccia. «Servono a fare gli untori -spiega Marco Zangirolami, fondatore del laboratorio- non filtrano nulla ma così la gente crede di avere la stessa protezione di chi indossa una mascherina efficace. Incredibile che non le abbiano ancora tolte di mezzo». Sarà un caso, ma in Parlamento ne è vietato l'uso. Le chirurgiche, le classiche mascherine blu. «Fermano il droplet ma hanno una capacità filtrante ridotta per l'aerosol -spiega Zangirolami- soprattutto perché dai lati entra un 30-40 per cento d'aria. Significa che in un ambiente ben aerato possono avere una certa utilità, ma in ambienti chiusi dove si sta vicini non servono a nulla». Francia, Austria e Germania hanno vietato le mascherine di stoffa e in molti ambienti stop pure alle chirurgiche. Le Kn95 sono le mascherine d'importazione che seguono lo standard cinese e in Italia sono parificate alle FFp2. «C'è un problema -spiega Zangirolami- le linee guida, pur di consentire l'importazione, hanno ammesso una serie di deroghe inclusa quella dell'aderenza al volto. Essendo progettate per un volto orientale, fanno entrare aria e sono molto meno sicure». Le FFp1 sono un mistero. «Sono le mascherine da lavoro -spiega Zangirolami- hanno una capacità filtrante simile a quella delle chirurgiche ma aderiscono al volto. Sarebbero un ottimo compromesso e in Italia avremmo da tempo avuto la capacità di produrle. Chissà perché invece sono state poco prese in considerazione». Infine le Ffp2. Francia, Austria e Germania le stanno rendendo obbligatorie in ambienti chiusi, seguite da altri Paesi. Le raccomanda sui bus perfino la Svezia, da sempre scettica per il timore che inducano falsa sicurezza. «Le Ffp2 -spiega l'esperto- hanno capacità di filtrazione altissima. Se da settembre tutti ci fossimo dotati di mascherine corrette, forse non avremmo avuto le nuove ondate». E invece? «Invece -dice Zangirolami- abbiamo importato milioni di mascherine spazzatura a prezzi bassi, mettendo fuori mercato i produttori italiani che vendono all'estero quelle buone». La politica italiana: carente educazione alla mascherina e obbligo anche all'aperto: «Dove non servono. Che idiozia- chiosa Zangirolami- se c'è distanza meglio respiare e non avere sul viso collettori di batteri».

Niente cortisone con il covid, lo dice l’Ordine dei Medici di Torino: l’uso inappropriato è pericoloso. Giampiero Casoni su Notizie.it il 5 aprile 2021. Niente cortisone con il covid, lo dice l’Ordine dei Medici di Torino che avverte come in più pregiudichi l'accesso alle terapie con anticorpi monoclonali. Niente cortisone con il covid, lo dice l’Ordine dei Medici di Torino, che spiega come l’uso inappropriato degli stessi possa peggiorare addirittura il quadro clinico. Le segnalazioni provenienti dai reparti ospedalieri parlano chiaro: i pazienti che fin dai primi giorni di malattia hanno assunto in modo inappropriato cortisonici peggiorano. L’allarme è serio e arriva dall’Ordine dei medici di Torino. C’è una precisa linea di cui i medici torinesi si sono fatti testimoni. Cioè quella per cui ogni protocollo territoriale per  la cura dei malati covid, compresa la linea guida della Regione Piemonte, e tutta la letteratura scientifica in materia concordano. Su cosa? Sul fatto che l’uso del cortisone all’esordio della malattia sia inutile e pericoloso. Soprattutto in assenza di disturbi respiratori che richiedano ossigenoterapia. Ma c’è di più. “Il trattamento inappropriato con cortisonici impedirà l’inserimento di questi pazienti nella sperimentazione della terapia con anticorpi monoclonali, che è partita proprio in questi giorni in Piemonte”. Non è un caso che il protocollo adottato a livello nazionale per la scelta dei soggetti cui distribuire gli anticorpi sia “riservato a pazienti con sintomi lievi/moderati, nei primi giorni di malattia. Poi non ospedalizzati, senza insufficienza respiratoria e senza terapia cortisonica in corso, ma con rischio di progressione verso forme gravi”. Il presidente dell’Ordine dei Medici di Torino Guido Giustetto la spiega meglio: “Immaginiamo che, in parte, l’uso di cortisonici possa essere un’iniziativa spontanea da parte di cittadini che trovano informazioni scorrette in rete o sui social. Tuttavia ricordiamo comunque a tutti i medici ai quali per la prima volta si rivolge il paziente Covid con sintomi lievi di attenersi strettamente alle evidenze scientifiche. E di farlo riservando la prescrizione di questi farmaci ai casi di insufficienza respiratoria con necessità di ossigenoterapia”.

Follia dei protocolli anti Covid: cosa succede quando ti ammali. Tra telefonate a vuoto e mancanza di un protocollo unico. Ecco cosa prova chi ha la sfortuna di prendersi il Covid-19. Antonella Zangaro - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Il numero verde regionale risponde tutti i giorni: "La sua chiamata sarà la prossima ad essere gestita, attendere prego". La febbre e la paura mi confondono ma ad occhio e croce attendo in linea da venti minuti; da 24 ore l’infame uscito dalle viscere di un pipistrello cinese si è infilato nel mio corpo. Ha superato tutte le mie cautele e le mie attenzioni, mi ha piegato le gambe abituate a correre le mezze maratone rinchiudendomi, sola, in una stanza di fortuna in una città che non è la mia. Sono bloccata a Caserta; bloccata sulla via di casa verso Bologna da qualche sintomo e dal risultato di un test rapido comprato in farmacia: positivo. Il mio incubo è diventato realtà, sono seduta sulle montagne russe con un mostro piccolo e subdolo a banchettare dentro di me mentre fuori c’è il caos e un sistema che, nonostante un anno di vantaggio per corroborare una risposta valida, ancora annaspa e fa leva solo sulla buona volontà dei singoli. Cerco su Google un numero di assistenza Covid-19 in questa città e mi perdo in una pioggia di informazioni inutili, né il comune, né tantomeno l’asl forniscono con chiarezza dei riferimenti validi e facili da trovare. La febbre intanto sale e la paura di quello che mi aspetta mi fa tremare le gambe; nessuno sa come si sviluppa l’infame una volta entrato in circolo e quale organo attaccherà. Nessuno ti può dire con quanta forza saprà reagire il tuo sistema immunitario e quanto ossigeno riusciranno a catturare tuoi polmoni. Un numero mi risponde. “Buonasera, sono malata, ho la febbre, no.. non sono residente in questa regione, a dire il vero non sono più residente neanche in Italia, ma sono Italiana, sono di Bologna ho bisogno di aiuto”. “Mi dispiace - mi risponde il medico del numero Covid di Caserta - ma noi non possiamo prenderla in carico perché Lei non risiede in Campania. Si rivolga al suo medico di base”. Il Covid mi farà morire di burocrazia, penso, mentre la febbre mi sale e il respiro è sempre più rarefatto. Il dottor Quadrelli è stato il mio medico finché non mi sono trasferita a Londra; lo chiamo, trasecola e amorevolmente mi spiega che una frase del genere non l’ha mai sentita ma che lui, sì, si occuperà di me, seppur da lontano e mi seguirà passo passo. Lo stesso dicasi per il direttore della Pneumologia del Sant’Orsola di Bologna, prof Nava, che conosco e che mi prescrive cure e terapie. I singoli uomini reggono sulle loro spalle un sistema che in un anno e nel pieno della terza ondata ancora non è in grado di correre più veloce del contagio. La proprietaria del b&b dove alloggio, turbata da quanto accaduto, riesce a farmi contattare da un dirigente dell’Asl di Caserta che si scusa. “Apriremo un’indagine interna, Lei verrà curata come ogni altro cittadino indipendentemente da quale sia la sua residenza. Non si preoccupi”. Il numero verde del “servizio regionale della Regione Campania che fornisce informazioni sul nuovo Coronavirus in Cina” continua a tenermi in attesa. Dopo tre giorni anche mia mamma sviluppa i sintomi e l’Asl locale le spiega che non essendo residente in Campania non potrà essere presa in carico. Il cortocircuito del sistema si annoda su se stesso mentre le telefonate quotidiane con i miei medici di Bologna mi alleviano la febbre e la paura. Il virus si nasconde nel mio corpo e subdolo mi inganna illudendomi di essersi arreso salvo poi recuperare aggressività rigettandomi nella paura di quel che sarà il mio risveglio la mattina seguente. Le terapie prescritte alla due diverse latitudini non coincidono: più aggressivi e interventisti a Caserta mentre da Bologna la tabella di marcia per antibiotico e cortisone è più dilatata, “per non aiutare il virus a replicare più velocemente”. Deduco che nemmeno sui protocolli di cura esista un sistema omologato, ma che, di nuovo, sono i singoli a fare scuola a sé. Il medico che rispondeva (fino alle 18) al cellulare dell’Asl di Caserta si è ammalato, ha contratto il Covid; quel numero suona a vuoto da giorni. I casi in Campania sono in costante aumento, il sistema è andato in tilt. A Bologna le visite a domicilio prevedono anche la possibilità di fare ecografie ed esami più specifici, a Caserta riesco fortunosamente a trovare un infermiere di buona volontà che all’alba e la sera tardi, prima di rientrare a casa, viene a fare le punture e a controllare l’ossigeno somministrato a mia mamma. Io sono guarita; i miei polmoni da runner, mi spiegano i medici, hanno saputo fronteggiare la malattia. Mia mamma migliora di giorno in giorno. Il numero verde della Regione Campania continua a suonare a vuoto mentre le ambulanze segnano il ritmo del dolore che ci circonda in questa dimensione sospesa dove la burocrazia e il sistema vanno al passo col virus mentre anime belle e piene di buona volontà combattono a mani nude. “Attenda in linea, la sua chiamata sarà la prossima ad essere gestita”.

 (ANSA il 26 marzo 2021) - L'Ema ha espresso "un parere positivo per consentire il trasporto e la conservazione delle fiale del vaccino BioNTech/Pfizer a temperature comprese tra -25 e -15 ° C (ovvero la temperatura dei congelatori per farmaci standard) per un periodo una tantum di due settimane". Lo riferisce l'agenzia europea del farmaco, precisando che "questa è un'alternativa alla conservazione a lungo termine delle fiale a una temperatura compresa tra -90 e -60 ° C". Secondo l'Ema si "prevede che faciliti la rapida introduzione e distribuzione del vaccino nell'Ue riducendo la necessità di condizioni di conservazione a temperature estremamente basse".

Covid, Svezia: tasso di mortalità 2020 tra i più bassi d’Europa senza lockdown. Ilaria Minucci su Notizie.it il 26/03/2021. Un’indagine dell’Eurostat ha rivelato che la Svezia ha registrato uno dei più bassi tassi di mortalità 2020 d’Europa, senza ricorrere ai lockdown anti-Covid. Un’indagine condotta dall’Eurostat ha rivelato che, nel 2020, la Svezia ha registrato un tasso di mortalità complessivamente più basso se confrontato con la maggior parte dei Paesi europei. Il dato potrebbe ricollegarsi alla scelta della nazione di non aver indetto lockdown rigidi per contrastare la diffusione del coronavirus, che hanno compromesso ampie porzioni dell’economia globale. La Svezia persiste nella propria decisione di non ricorrere a lockdown rigidi per arginare la pandemia da SARS-CoV-2 mentre altri paesi come la Germania e la Francia hanno recentemente comunicato alle rispettive popolazioni l’estensione dei lockdown per combattere il massiccio incremento di contagi Covid e di decessi provocati dal virus. Simili scelte, come sottolineano gli economisti, inficeranno la ripresa economica nazionale ed europea. In questo contesto, quindi, la Svezia ha preferito appellarsi alle misure volontarie intraprese dai cittadini, inerenti ad esempio al rispetto del distanziamento sociale o a prestare particolare attenzione all’igiene. Il radicato senso civico degli svedesi, mostrato nel corso degli ultimi mesi, ha consentito al paese di non procedere alla chiusura di ristoranti, scuole e negozi, garantendo la salvaguardia dell’economia nazionale. In merito al tasso di mortalità della Svezia, l’Eurostat ha svelato che la nazione scandinava fa registrato un incremento del 7,7% di morti nel 2020, rispetto alla media calcolata in relaziona ai quattro anni precedenti. Paesi come il Belgio o la Spagna, invece, che hanno varato differenti lockdown rigidi, presentano un tasso di mortalità aumentato del 16,2% e del 18,1%. In totale, 21 paesi dei 30 analizzati dall’Eurostat hanno evidenziato un tasso di mortalità superiore a quello svedese. Il dato relativo alla Svezia, tuttavia, non si configura come il risultato migliore riscontrato: altri paesi nordici, come la Danimarca e la Finlandia, infatti, si sono attestate su tassi di mortalità pari a, rispettivamente l’1,5% e l’1,0%. I dati raccolti sulla Svezia sono stati commentati da alcuni esperti che hanno tenuto a precisare che il fenomeno riscontrato non è da attribuire, necessariamente, alla decisione della nazione di non imporre lockdown rigorosi. A proposito dell’indagine Eurostat, inoltre, il professore di epidemiologia impiegato presso l’Università britannica di Edimburgo, Mark Woolhouse, ha spiegato: “Occorre stare molto attenti nell’interpretare i dati sulla morte collegati al Covid-19, qualunque sia la fonte, perché nessuno di essi è perfetto”. In modo analogo, si è espresso anche il professore di malattie infettive dell’Università di Nottingham, Keith Neal, che ha raccomandato estrema cautela nell’analisi dei dati, facendo riferimento a svariati fattori che possono aver inciso sul tasso di mortalità come la salute complessiva della popolazione svedese, l’età media dei cittadini o la composizione media dei nuclei familiari.

Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it.

Il vigile guarito con i monoclonali: “Il mio corpo aveva smesso di combattere, ma due flebo mi hanno salvato la vita”.  Rosario di Raimondo su La Repubblica il 28 marzo 2021. Roberto Manara, 55 anni, è vicecomandante della polizia locale di San Lazzaro: "La seconda sacca l'ho ricevuta alle cinque del pomeriggio e alle dieci di sera mi sono riuscito ad alzare sulle mie gambe". Ha scoperto di essere positivo al tampone lo stesso giorno in cui doveva vaccinarsi con AstraZeneca, e nel dirlo si commuove: "Forse se l'avessi fatto non mi sarei ammalato così...". È finito al policlinico Sant'Orsola con la febbre a 40, "ho dormito una notte in barella al pronto soccorso". Ieri hanno provato a staccarlo dall'ossigeno, sta meglio. Roberto Manara, 55 anni, vicecomandante della polizia locale di San Lazzaro, alle porte di Bologna, è stato curato con gli anticorpi monoclonali: "Sono rinato, un'iniezione di vita. Medici e infermieri sono stati bravissimi, fanno i salti mortali".

Quando è finito in ospedale?

"Sono entrato in pronto soccorso il 14 marzo, il giorno dopo mi hanno ricoverato. Avevo la polmonite bilaterale. Respiravo a fatica, sono stato a un passo dalla terapia intensiva".

E poi?

"Per fortuna stavano sperimentando gli anticorpi monoclonali".

Com'è andata?

"Sono delle flebo, mi hanno fatto due sacche. Dopo la prima non sono peggiorato. Dopo la seconda... l'ho ricevuta alle cinque del pomeriggio, alle dieci di sera mi sono alzato sulle mie gambe, sono andato in bagno da solo. Ho sentito l'energia che mi tornava, un'iniezione di vita".

Le hanno chiesto il consenso?

"Sì, e ho firmato subito. Non ho avuto paura, non mi sono sentito una cavia, mi sono fidato ciecamente. Prima della terapia mi mancavano le forze, il mio corpo non reagiva al virus, come se non combattesse più. Gli anticorpi mi hanno dato la spinta".

Oggi come sta?

"Respiro meglio, hanno provato a togliermi l'ossigeno. Spero di uscire presto, voglio abbracciare la mia famiglia".

Cosa direbbe a chi non crede al virus?

"Io non bevo, non fumo, non ho patologie. E queste sono state le conseguenze del virus".

E a chi ha dubbi sul vaccino?

"Avrei dovuto farlo proprio il giovedì che ho scoperto di essere positivo. Tutti i miei colleghi si sono vaccinati e io l'avrei fatto sicuramente. Forse non mi sarei ammalato, questo lo voglio dire. Spero che fra i vaccini e queste nuove terapie possiamo tornare alla normalità".

Matteo Bassetti, i monoclonali funzionano davvero contro il Covid: "Ricoveri e decessi ridotti dell'85 per cento". Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 27 marzo 2021. Che gli anticorpi monoclonali fossero un'arma potente contro il Covid Libero lo scrive da mesi, non sulla base di teorie precostituite ma sentiti gli esperti e osservate le statistiche. Le ultime sono della britannica GlaxoSmithKline e dell'americana Vir Biotechnology: certificano che nel caso del farmaco Regeneron, basato sugli anticorpi "casirivimab" e "imdevimab", se i monoclonali vengono somministrati nella fase iniziale della malattia (in Italia il protocollo prevede entro 10 giorni) riducono i ricoveri e i decessi dell'85%. L'efficacia dell'altra cura approvata, quella col farmaco "Bamlanivimab" dell'azienda Eli Lilly, è del 70. Il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive del San Martino di Genova, ha iniziato a curare alcuni malati con gli anticorpi monoclonali Insomma: guariscono 3 pazienti su 4. La sperimentazione è stata fatta su un campione di 583 pazienti e i dati sono stati verificati da un ente indipendente. Le statistiche sono importanti, ma la quotidianità rende l'idea ancora meglio. Ieri il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive dell'ospedale San Martino di Genova, ha fatto sapere che assieme alla propria equipe in meno di una settimana ha cominciato a curare coi monoclonali 9 persone. «Stanno tutte bene e per il momento sono tutte a casa. La sensazione nella pratica clinica», ha sottolineato, «è che funzionino davvero bene. Qui la situazione ospedaliera è tranquilla, come sempre durante questa terza ondata in Liguria, che oggi si potrebbe definire un'ondina». Bassetti ha informato anche sulla tipologia dei pazienti già trattati al San Martino, «soprattutto persone tra i 70 e gli 80 anni e con altre patologie». Poi ha aggiunto: «I monoclonali sono una sorta di paracadute rispetto al ricovero». I primi ospedali a ricevere la prima parte delle 150mila dosi comprate dal commissario all'emergenza Figliuolo sono stati quelli della Lombardia, del Veneto, delle Marche, della Campania, del Lazio, e appunto della Liguria. Ma la cura divenuta celebre, con annesse stucchevoli polemiche, dopo la guarigione lo scorso autunno dell'allora presidente americano Trump è ormai cominciata in tutt' Italia. Ieri il Policlinico Sant' Orsola di Bologna ha preso in carico il primo paziente, trattato col Bamlanivimab. In Emilia Romagna sono state consegnate circa 2.500 dosi e oggi ne sono attese altre mille destinate ad altrettanti pazienti. Ieri anche l'ospedale di Jesi, in provincia di Ancona, ha trattato il primo paziente, un 44 enne risultato positivo al virus il 21 marzo e affetto da una forma di immunodeficienza. L'ospedale, evidenzia una nota dell'azienda sanitaria locale, è stato il primo nelle Marche «a formulare un progetto in merito a tale trattamento, per il quale le evidenze scientifiche in letteratura depongono per una particolare efficacia». La cura è iniziata anche all'ospedale di Pescara, in Abruzzo, su un 82enne. L'Aifa ha stabilito che può accedere all'iniezione chi è affetto da gravi patologie, in questo caso anche chi ha tra i 12 e i 17 anni, chi ne ha più di 55 e soffre di malattie cardiovascolari o respiratorie croniche, e gli over 65 che abbiano almeno un fattore di rischio. Il presidente della Società italiana di farmacia ospedaliera, Arturo Cavaliere, intervistato dall'agenzia di stampa Dire ha affermato che «l'obiettivo comune a tutto il Paese sarà quello di curare coi monoclonali per ridurre le ospedalizzazioni». Negli Stati Uniti l'ente di controllo sui farmaci, l'Fda, ha bloccato l'uso dei monoclonali prodotti da Eli Lilly, ma attenzione, solo se usati da soli, quindi se non associati ad altre terapie. I detrattori della "cura Trump" esultano, ma il professor Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, ha fatto subito chiarezza: «Prima che si scateni la solita disinformazione, la decisione è stata presa perché in alcuni Stati americani circolano le varianti sudafricane e brasiliane, che sono resistenti a quest' anticorpo, se usato da solo. La distribuzione del farmaco Eli Lilly quanto del Regeneron va avanti esattamente come prima».

Perché vaccinare chi ha già gli anticorpi? Piccole Note il 17 marzo 2021 su Il Giornale. In Italia hanno o hanno già avuto il COVID-19 3,4ml di persone. Non è difficile ipotizzare che a questo dato vadano aggiunti almeno altrettanti che sono stati contagiati senza accorgersene. Quindi non è difficile immaginare che più del 10% degli italiani siano stati affetti dal virus. Il dato non è di poco conto e forse andrebbe tenuto in maggiore considerazione nel pianificare la campagna vaccinale. Certo, non tutti i contagiati hanno ancora anticorpi, ma tanti di loro potrebbero ancora averli. E tali anticorpi sono efficaci almeno quanto quelli inoculati tramite vaccino, se non più. Così forse una verifica previa per chi va a vaccinarsi sarebbe utile, magari si scoprirebbe che tanti dei contagiati non necessitano di essere “siringati”. Se si escludono questi, che magari potrebbero essere vaccinati più in là, la vaccinazione delle persone a rischio potrebbe procedere, ovviamente, con più celerità. Andrebbe, peraltro, sciolta la riserva: se cioè anche in assenza di anticorpi, nella persona che abbia contratto il Covid-19 resta una memoria tale che, se ri-contagiato, sviluppa anticorpi. Pare sia così, dato che non si ha notizia di contagiati che hanno contratto nuovamente il virus, cioè se ne ha notizia come di casi più che singolari e che, peraltro, non presentano particolari problemi in tali ricadute (anche qui con singolari eccezioni, dovute forse a patologie sviluppate nel frattempo). Non entriamo nel merito perché sul punto c’è controversia, altro caso in cui la scienza medica, più che aiutare, confonde (almeno parte di essa, ché sono tanti i ricercatori e i medici che hanno dimostrato dedizione e affidabilità). Eppure il rovello, tanto importante, non dovrebbe avere una risoluzione tanto complessa e non è certo di poco conto. Andrebbe affrontato con urgenza. Ma magari semplifichiamo troppo, e chiudiamo la questione. Aggiungiamo a ciò un altro dato che comincia ad emergere. Alcuni ricercatori iniziano a domandarsi se possa essere pericoloso somministrare il vaccino a chi ha già gli anticorpi (vedi  ANSA e DIRE), dato che ne avrebbero così un surplus sul quale al momento non abbiamo alcuna certezza. Più di qualcuno si sta ponendo tale problema e si inizia a suggerire, nel caso, la somministrazione della sola prima dose. A sostenere questa posizione è, ad esempio, il professor Galli, primario del Dipartimento di malattie infettive del Sacco di Milano, che in un’intervista a La7, ha dichiarato : “Stiamo scrivendo la premessa di una memoria perché non vengano inutilmente vaccinati i guariti”. Ovviamente porre come condizione per la vaccinazione la verifica della situazione anticorpale di ciascuno può comportare complicazioni logistiche. Tuttavia, se si trovasse una modalità operativa per procedere in tal senso si potrebbe imprimere un’accelerazione importante alla campagna. In particolare, si andrebbe prima a chiudere la finestra di rischio legata alla vaccinazione delle persone più fragili. Semplice buon senso, quel che è mancato del tutto durante questa pandemia. Infine, l’obliterazione della problematica collegata alla situazione anticorpale, fa sorgere qualche sospetto, dato che, come ormai è evidente a tutti, c’è il marcio in Danimarca. Siamo vittime di una vera e propria guerra dei vaccini, sulla quale torneremo a breve. Non solo divampata contro quelli russi e cinesi, ma anche contro quello prodotto da Astrazeneca (spesso definito anglo-svedese, quando a svilupparlo è stata l’Italia in collaborazione con Oxford, ma tant’é). Dato la guerra in corso, non vorremmo che l’idea di vaccinare anche quanti hanno già gli anticorpi sia legata più a logiche commerciali (dato che parliamo, nel caso, di escludere milioni di persone in Occidente, l’equivalente di miliardi di euro) che a reali esigenze sanitarie. Non che tutti quelli che sostengono tale tesi siano collusi con Big Pharma – siamo coscienti della buona fede di tanti -, ma non escludiamo spinte di tale ambito per procedere in una direzione errata, ma remunerativa per i loro dirigenti. Come si è visto in varie circostanze, Big Pharma, in combinato disposto con l’ambito diplomatico Usa (e non solo), sa essere molto convincente.

"Io non l'ho mai firmato" Bomba sul documento dell'Iss. Il caso dei 3 report sui tamponi pieni di errori. Nel gruppo di lavoro spunta Crisanti. Ma qualcosa non torna. Giuseppe De Lorenzo - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Tre indicazioni diverse per un unico modo di fare i tamponi. Tre metodi discordanti, se non addirittura opposti, forniti dall’Iss a medici, infermieri e volontari impegnati nella lotta al coronavirus. Tre report scritti, pubblicati e poi rivisti finiti online sul sito dell’Istituto a generare pericolosa confusione su come s’infila quel bastoncino nel naso di un paziente. Cose già rivelate nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), ma che oggi si tingono di un nuovo inquietante mistero. Tra i relatori di quei Rapporti figura infatti Andrea Crisanti: nulla di strano, se non fosse che il diretto interessato giura al Giornale.it di essere “sorpreso” non avendo “mai partecipato alla stesura di quei documenti”. Il modo in cui nasce una notizia a volte è curioso e, come in questo caso, merita di essere raccontato. Quasi un anno fa, era il 20 maggio del 2020, scrivemmo un sms al professor Crisanti per chiedergli conto delle notizie emerse in quelle ore. Sulla stampa si parlava infatti della guida errata pubblicata dall’Iss su come eseguire i tamponi. Gaetano Libra, otorinolaringoiatra dell’Ospedale Maggiore di Bologna fece notare che in una delle versioni del report si indicava “una posizione verticale obliqua del tampone, anziché orizzontale rivolta in direzione del canale uditivo, come dovrebbe essere". Con il rischio non solo di non raggiunge la zona dove va ricercato il virus, ma anche di provocare "lesioni al cervello e al bulbo olfattivo”. Ci eravamo rivolti a Crisanti perché tra i componenti del Gruppo di Lavoro Diagnostica e sorveglianza microbiologica Covid-19 dell’Iss, autore dei rapporti sui tamponi, figurava (e ancora figura) pure il microbiologo del Metodo Vo’. Crisanti non ci aveva mai risposto finché in questi giorni, cercato in realtà per altri motivi, è tornato sulla vicenda rivelandoci di non aver fatto parte di “questo gruppo di lavoro”. L’hanno infilata lì a sua insaputa? “Direi di sì: non ho mai partecipato ad alcuna riunione né alla stesura dei documenti”. Tant’è che la presenza del suo nome l’ha scoperta solo grazie alla nostra segnalazione. Ora: come è possibile che un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblicato ufficialmente sul sito, citi come componente del Gruppo di lavoro uno scienziato che sostiene di non saperne alcunché? La faccenda è grave quasi quanto il fatto che in un paio di mesi, tra aprile e maggio 2020, l’Istituto abbia realizzato tre documenti sul prelievo dei tamponi, uno diverso dall’altro e con indicazioni errate o contrastanti.

L'indicazione dei componenti del Gruppo di lavoro nel report dell'Iss. Il primo in ordine di tempo, ancora rintracciabile online, è datato 7 aprile. Primo scivolone: a pagina 1 si legge che il prelievo consiste nel prendere “le cellule superficiali della mucosa della faringe posteriore o della rinofaringe”. Dieci giorni dopo, il 17 aprile, nella prima revisione del testo si precisa che in realtà il prelievo riguarda “il muco che riveste le cellule superficiali della mucosa dell’orofaringe o del rinofaringe”. Dettagli, direte. Vero: ma questo è un errore da matita blu e il peggio deve ancora arrivare. Tampone oro-faringeo, per i mortali quello in bocca: il 7 aprile andava fatto invitando il paziente a “piegare la testa all’indietro” e strofinando solo “le zone tonsillari”; il 17 aprile andava toccata invece anche la “zona retro-tonsillare”; mentre il 29 maggio (terza versione del report) scompare l’indicazione a inclinare il capo, che infatti nelle foto è tenuto bello dritto.

Tampone orofaringeo: illustrazione nei report dell'Iss. Le giravolte più curiose riguardano però il tampone al naso: il 7 aprile la guida dell’Iss invitava a far assumere al paziente “una posizione eretta e con la testa leggermente inclinata all’indietro”; il 17 aprile invece il malcapitato doveva restare seduto e con “la testa leggermente inclinata in avanti” (cioè l’opposto); mentre il 29 maggio l’Iss incrocia le due tecniche e parla di una posizione “seduta con la testa leggermente inclinata indietro”. A sorprendere sono soprattutto le immagini: nella prima versione il cotton fioc si spinge “lungo la cavità nasale per circa 2,5 cm” in direzione del cervello “in modo da raggiungere la parte posteriore della rinofaringe”; nella seconda il tampone viene invece orientato “verso il rinofaringe (che esternamente corrisponde al condotto uditivo esterno” (cioè perpendicolare al volto) per spingerlo “lungo il pavimento nasale” per “circa 6-8 cm”; nella stesura del 29 maggio, infine, i centimetri per raggiungere la parete posteriore del rinofaringe diventano 8-12. Va detto che l’ultima versione, quella di fine maggio, è molto più dettagliata. Le procedure indicate sono quattro: il tampone rinofaringeo, orofaringeo, nasale anteriore e del turbinato medio. Questi ultimi due andrebbero realizzati solo vi sono difficoltà a fare il rinofaringeo, considerato ad oggi il gold standard per scovare l’infezione. Nella prima stesura le indicazioni riguardavano il tampone nasale e non sono poi così dissimili da quelle rintracciabili nella terza versione. Il problema è che faceva una gran confusione: erroneamente suggeriva infatti di infilare il tampone “in modo da raggiungere la parte posteriore della rinofaringe” quando invece l’obiettivo doveva essere il turbinato medio. Con una precisazione importante, arrivata solo nell’ultima revisione: nel fare queste manovre occorre “prestare attenzione” a non entrare oltre i 3 cm verso l’alto “per i rischi” connessi con “le strutture delimitanti il naso rispetto alla fossa cranica anteriore”. Il 7 aprile l’Iss si era scordato di specificarlo.

Covid, meglio due metri di distanza: nuove indicazioni contro il virus. Simona Sirianni su Vanityfair.it il 17/3/2021. Nuove indicazioni contro il Covid. Non è più uno ma sono due i metri di distanza che si devono tenere da chiunque mentre si mangia o se si è senza mascherina. Quarantena  anche per chi è stato vaccinato se ha avuto un contatto stretto con un caso positivo al coronavirus, vaccino in una sola dose per chi ha già contratto il Covid, a meno che non sia immunodepresso: a quel punto si accorciano i tempi e aumentano a due le iniezioni. La circolazione prolungata del virus e soprattutto la comparsa delle varianti, che sono al centro di studi per capire più approfonditamente capacità e modalità di diffusione e contagio, hanno indotto Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa a fornire alcune nuove specifiche indicazioni, basate sulle evidenze ad oggi disponibili,  sulle strategie di prevenzione e controllo dei casi di Covid-19 sostenuti da queste varianti virali. Il documento si chiama “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione anti-COVID-19” e risponde alle diverse domande sulle misure farmacologiche, di prevenzione e controllo delle infezioni da Coronavirus sorte con il progredire della campagna vaccinale contro il contagio e la comparsa delle diverse varianti del virus. I quesiti affrontano argomenti come i test diagnostici, il comportamento dei lavoratori vaccinati, le persone che hanno ricevuto il vaccino fuori dall’ambiente di lavoro, i contatti di un soggetto vaccinato con una persona positiva, lo screening degli operatori sanitari, la vaccinazione di chi è già stato contagiato.

Qual è la distanza minima da tenere. Valentina Mericio su Notizie.it il 17/3/2021. Quando si consumano cibi o bevande bisogna mantenere una distanza interpersonale minima di 2 metri. Un metro di distanza potrebbe non bastare. Ad evidenziarlo l’ultimo rapporto stilato dal Ministero della Salute in collaborazione con Inail, AIFA e Iss. Stando a quanto messo in evidenza da questo report la distanza minima da tenere sarebbe minimo di due metri alla luce delle nuove varianti Covid che si stanno diffondendo in modo capillare. Oltre a ciò il report raccomanda di mantenere tale distanza in caso in cui non si indossi la mascherina come ad esempio a tavola mentre si consumano cibi e bevande. Qualora ci si venga a trovare in situazioni nelle quali non si indossa la mascherina, la distanza minima da tenere è di almeno 2 metri. A riportarlo un’indagine di Iss, Ministero della Salute, Inail e AIFA. Stando a questo report bisognerebbe tenersi ad una distanza “fino a due metri, laddove possibile e specie in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria come, ad esempio, in occasione del consumo di bevande e cibo”. Sul corretto rispetto delle misure di prevenzione si legge dal report: “non è indicato modificare le misure di prevenzione e protezione basate sull’uso delle mascherine e sull’igiene delle mani; al contrario, si ritiene necessaria una applicazione estremamente attenta e rigorosa di queste misure”. infine sulla somministrazione di una singola dose di vaccino il report è molto chiaro: “È possibile considerare la somministrazione di un’unica dose purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dall’infezione e entro i 6 mesi dalla stessa”. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.

Valentina Mericio. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.

«Tenere due metri di distanza quando si mangia»: le nuove raccomandazioni Il dossier. Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 16/3/2021.

1 Per proteggerci dalle nuove varianti dobbiamo mantenerci più lontani gli uni dagli altri?

Un nuovo documento di Istituto superiore di sanità, Aifa (Agenzia del farmaco), ministero della Salute e Inail conferma come sufficiente la distanza minima di un metro. Ma chiarisce che in certe situazioni sarebbe opportuno raddoppiarla «fino a due metri laddove possibile, specialmente in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria, come ad esempio in occasione del consumo di bevande e cibo».

2 Perché due metri?

È in questi momenti di convivialità che aumenta il rischio di trasmettere l’infezione attraverso il respiro. I tecnici sottolineano che in generale le misure finora osservate (mascherina, igiene delle mani e distanza) sono efficaci anche per difendersi dal contagio dei virus mutati, se applicate con attenzione. E bisognerebbe rinnovare le raccomandazioni ai cittadini con campagne di sensibilizzazione mirate.

3 I nuovi ceppi causano forme di malattia più gravi?

Il documento «sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da Sars-CoV-2» si basa sulla più recente letteratura scientifica tenendo conto delle varianti che da febbraio «destano particolare preoccupazione» (inglese, sudafricana e brasiliana). Non è ancora accertato che i ceppi mutati «siano associati a un quadro clinico più grave o se colpiscano di più alcune fasce di popolazione». È assodato però che, almeno il virus identificato per la prima volta nel Regno Unito, sia capace di diffondersi con maggiore facilità.

4 I vaccini sono efficaci e quanto?

Viene ribadita l’efficacia dei vaccini già distribuiti in Italia. Quello di Pfizer-Biontech protegge al meglio dalla malattia sintomatica a partire da circa una settimana dopo la seconda dose, ma una certa protezione subentra a 10 giorni dalla prima. Per il preparato di Moderna lo scudo degli anticorpi risulta «ottimale a partire da 2 settimane dopo il richiamo». Infine AstraZeneca (che potrebbe essere riammesso già domani) comincia a funzionare a 3 settimane dal primo inoculo e la protezione persiste fino alla dodicesima settimana, quando viene somministrata la seconda dose. In tutti e tre i vaccini la protezione non è al 100% né è nota la durata dell’immunità da essi indotta. E non si sa per certo quanto i vaccinati possano evitare il contagio. E’ possibile che non siano difesi dalla malattia asintomatica.

5 Chi si è vaccinato come deve comportarsi sul luogo di lavoro?

Chi si è vaccinato, operatori sanitari inclusi, deve continuare a utilizzare rigorosamente le mascherine e osservare norme di igiene e distanziamento. Se l’azienda propone programmi di screening deve aderire indipendentemente dallo stato di vaccinazione. Questo perché «al momento non ci sono prove sulla possibilità di trasmissione del virus» da parte degli immunizzati che vanno ritenuti potenzialmente in grado di infettarsi e trasmettere il Sars-CoV-2.

6 E nella vita sociale come comportarsi?

Valgono le stesse precauzioni consigliate negli ambienti di lavoro. I vaccinati, con 1 o 2 dosi, devono osservare tutte le misure di prevenzione (distanza, mascherina, igiene delle mani). Si rende a maggior ragione necessario in considerazione dell’attuale quadro epidemiologico, caratterizzato dalla comparsa e dalla circolazione delle nuove varianti, più diffusive rispetto al virus presente nella prima fase dell’epidemia «per le quali la protezione vaccinale potrebbe essere inferiore».

7 E i vaccinati che hanno contatti stretti con un positivo?

Se una persona viene in contatto stretto con un positivo va considerata a sua volta contatto stretto anche se vaccinata e devono essere adottate tutte le precauzione, compresa la quarantena e l’isolamento. Solo il personale sanitario ne è esentato «fino a un’eventuale positività ai test o alla comparsa di sintomi».

8 I guariti devono vaccinarsi?

La vaccinazione si è dimostrata sicura anche in persone che hanno già avuto la malattia Covid-19 e pertanto «può essere offerta indipendentemente dall’aver sviluppato una pregressa infezione sintomatica o senza sintomi». Non si raccomanda, ai fini della vaccinazione, l’esecuzione di test diagnostici (sierologici, ndr) per accertare se siamo già stati «colpiti» dal virus. Si può considerare la somministrazione di una sola dose «purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi dalla documentata infezione e preferibilmente entro 6 mesi. Fanno eccezione alcuni pazienti con immunodeficienza.

9 Quanto dura l’immunità sviluppata una precedente infezione?

Il documento dell’Iss riporta uno studio multicentrico su 6.600 operatori sanitari del Regno Unito che ha valutato il rischio di reinfezione: «La durata dell’effetto protettivo dell’infezione precedente ha una mediana di 5 mesi».

Covid, ecco le nuove raccomandazioni contro il virus: "Con varianti 2 metri di distanza mentre si mangia. Quarantena anche per chi è vaccinato". La Repubblica il 16 marzo 2021. L'ultimo documento stilato da Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa. Più di due metri di distanza da chiunque altro mentre si mangia, si beve o si sta senza mascherina, quarantena anche per chi è stato vaccinato se ha avuto un contatto stretto con un caso positivo al coronavirus, vaccino in una sola dose dopo un periodo variabile tra i 3 e i 6 mesi dalla malattia per chi ha già contratto il Covid, a meno che non sia immunodepresso: a quel punto si accorciano i tempi e aumentano a due le iniezioni. Sono questi i punti salienti delle ultime raccomandazioni dell'Inail, dell'Iss, del ministero della Salute e dell'Aifa riportate in un documento dal titolo  "Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione". 

Con varianti distanza di 2 metri quando si sta senza mascherina. A fronte della circolazione di varianti del virus SarsCov2, per il distanziamento fisico un metro rimane la distanza minima da adottare ma, si legge nel rapporto, sarebbe opportuno aumentarla "fino a due metri, laddove possibile e specie in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria come, ad esempio, in occasione del consumo di bevande e cibo". Laddove dunque è ancora o sarà possibile sedersi a consumare in bar o ristoranti le distanze, e dunque la lunghezza dei tavoli, dovrebbe essere aumentata ulteriormente.

Il vaccino per chi ha avuto il Covid. Le persone con pregressa infezione da SARS-CoV-2 confermata da test molecolare, indipendentemente se con COVID-19 sintomatico o meno, "dovrebbero essere vaccinate". Ma quando e con quale siero? "È possibile considerare la somministrazione di un'unica dose purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dall'infezione e entro i 6 mesi dalla stessa". Fanno eccezione le persone con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, che, anche se hanno avuto il Covid, "devono essere vaccinate quanto prima e con un ciclo vaccinale di due dosi". In merito al profilo di sicurezza dei vaccini anti-COVID-19, "non sembrano esserci differenze significative tra i soggetti positivi per SARS-CoV-2", che hanno già avuto Covid-19, "e quelli negativi". Tuttavia, "qualche recente segnalazione mostra reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, più frequenti nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi". Tradotto: chi ha già avuto il Covid, al momento della somministrazione del vaccino, potrebbe avvertire qualche sintomo lieve più frequentemente degli altri.

Il vaccino per chi ha avuto un contatto stretto con positivo. I contatti stretti di un caso di COVID-19 possono essere vaccinati ma "dovrebbero terminare la quarantena di 10-14 giorni prima di potere essere sottoposti a vaccinazione". Cosa si intende per contatto stretto? "L'esposizione ad alto rischio a un caso probabile o confermato; tale condizione è definita, in linea generale, dalle seguenti situazioni: una persona che vive nella stessa casa di un caso Covid-19, una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso Covid-19 (per esempio la stretta di mano), una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso Covid-19, a distanza minore di 2 metri e di almeno 15 minuti, una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio una aula, una sala riunioni, la sala d'attesa dell'ospedale) con un caso Covid-19 in assenza di dispositivi di protezione come le mascherine Ffp2 e Ffp3 e i guanti o di dispositivi medici appropriati come le mascherine chirurgiche". 

Quarantena anche per i vaccinati dopo contatto con positivi. Anche chi è vaccinato contro Sars-CoV-2 dopo un' esposizione ad alto rischio con un caso Covid, "deve adottare le stesse indicazioni preventive valide per una persona non sottoposta a vaccinazione, a prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione". Il vaccinato considerato 'contatto stretto' deve osservare, purché sempre asintomatico, 10 giorni di quarantena dall'ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo al decimo giorno o 14 giorni dall'ultima esposizione. Ma perché se si è vaccinati bisogna comunque comportarsi come i non vaccinati? "La vaccinazione anti-COVID-19 è efficace nella prevenzione della malattia sintomatica, ma la protezione non raggiunge mai il 100%. Inoltre, non è ancora noto se le persone vaccinate possano comunque acquisire l'infezione da Sars-CoV-2 ed eventualmente trasmetterla ad altri soggetti", viene specificato nella relazione. Si sottolinea anche che alcune varianti "possano eludere la risposta immunitaria" data dai vaccini. "Segnalazioni preliminari suggeriscono una ridotta attività neutralizzante degli anticorpi di campioni biologici ottenuti da soggetti vaccinati con i vaccini a mRNA nei confronti di alcune varianti, come quella Sudafricana, e un livello di efficacia basso del vaccino di AstraZeneca nel prevenire la malattia di grado lieve o moderato nel contesto epidemico sud-africano".

Le misure anti-Covid per i vaccinati. Nessun "liberi tutti", dunque, nemmeno sul lavoro o in famiglia, per i vaccinati. Ogni lavoratore, inclusi gli operatori sanitari, "anche se ha completato il ciclo vaccinale, per proteggere se stesso, gli eventuali pazienti assistiti, i colleghi, nonché i contatti in ambito familiare e comunitario, dovrà continuare a mantenere le stesse misure di prevenzione, protezione e precauzione valide per i soggetti non vaccinati, in particolare osservare il distanziamento fisico (laddove possibile), indossare un'appropriata protezione respiratoria, igienizzarsi o lavarsi le mani secondo procedure consolidate" si legge nel documento.

"I vaccinati posso reinfettarsi ma rischi ridotti". Anche i soggetti vaccinati, infatti, "possono andare incontro a infezione da SARS-CoV-2, seppur con rischio ridotto, poiché nessun vaccino è efficace al 100% e la risposta immunitaria alla vaccinazione può variare da soggetto a soggetto. Inoltre, la durata della protezione non è stata ancora definita". Uno studio condotto su oltre 6.600 operatori sanitari nel Regno Unito, citato dall'Inail nel documento appena diffuso, ha mostrato che nei soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2 "la durata dell'effetto protettivo dell'infezione precedente ha una mediana di 5 mesi". 

Il documento stilato da Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa. Due metri di distanza, unica dose per i guariti dal covid e quarantena anche per i vaccinati: le nuove raccomandazioni. Redazione su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Distanza di almeno due metri mentre si mangia, si beve o si sta senza mascherina, quarantena anche per chi è già vaccinato se ha avuto contatti stretti con un positivo al coronavirus, una sola dose di vaccino dopo un periodo variabile tra i tre e i sei mesi per chi ha già contratto il covid (ad eccezione degli immunodepressi). Sono queste alcune nuove raccomandazione di Istituto superiore di sanità, ministero della Salute, Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Inail che hanno stilato un documento dal titolo “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione”.

LA DISTANZA – Il distanziamento fisico di un metro resta la distanza minima da adottare ma, a causa della circolazione delle varianti, sarebbe opportuno aumentare la distanza “fino a due metri, laddove possibile e specie in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria come, ad esempio, in occasione del consumo di bevande e cibo”. Laddove dunque è ancora o sarà possibile sedersi a consumare in bar o ristoranti le distanze, e dunque la lunghezza dei tavoli, dovrebbe essere aumentata ulteriormente.

UNA DOSE DI VACCINO PER CHI HA AVUTO COVID –  Per le persone con pregressa infezione da SARS-CoV-2 confermata da test molecolare, indipendentemente se con COVID-19 sintomatico o meno “è possibile considerare la somministrazione di un’unica dose purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dall’infezione e entro i 6 mesi dalla stessa”. Fanno eccezione le persone con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, che, anche se hanno avuto il Covid, “devono essere vaccinate quanto prima e con un ciclo vaccinale di due dosi”.

EFFETTI COLLATERALI – Chi ha già avuto il Covid, al momento della somministrazione del vaccino, potrebbe avvertire qualche sintomo lieve più frequentemente degli altri. “Non sembrano esserci differenze significative tra i soggetti positivi per SARS-CoV-2”, che hanno già avuto Covid-19, “e quelli negativi”. Ma “qualche recente segnalazione mostra reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, più frequenti nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi”.

QUARANTENA PRIMA DEL VACCINO – I contatti stretti di un caso di COVID-19 possono essere vaccinati ma “dovrebbero terminare la quarantena di 10-14 giorni prima di potere essere sottoposti a vaccinazione. L’esposizione ad alto rischio a un caso probabile o confermato; tale condizione è definita, in linea generale, dalle seguenti situazioni: una persona che vive nella stessa casa di un caso Covid-19, una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso Covid-19 (per esempio la stretta di mano), una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso Covid-19, a distanza minore di 2 metri e di almeno 15 minuti, una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio una aula, una sala riunioni, la sala d’attesa dell’ospedale) con un caso Covid-19 in assenza di dispositivi di protezione come le mascherine Ffp2 e Ffp3 e i guanti o di dispositivi medici appropriati come le mascherine chirurgiche”.

VACCINATI IN QUARANTENA SE A CONTATTO CON POSITIVI – Anche chi è vaccinato contro Sars-CoV-2 dopo un’esposizione ad alto rischio con un caso Covid “deve adottare le stesse indicazioni preventive valide per una persona non sottoposta a vaccinazione, a prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione”. Bisogna osservare, purché sempre asintomatico, 10 giorni di quarantena dall’ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo al decimo giorno o 14 giorni dall’ultima esposizione.

VACCINATI NO LIBERI TUTTI – Nessun “liberi tutti” per i vaccinati. Ogni lavoratore, inclusi gli operatori sanitari, “anche se ha completato il ciclo vaccinale, per proteggere se stesso, gli eventuali pazienti assistiti, i colleghi, nonché i contatti in ambito familiare e comunitario, dovrà continuare a mantenere le stesse misure di prevenzione, protezione e precauzione valide per i soggetti non vaccinati, in particolare osservare il distanziamento fisico (laddove possibile), indossare un’appropriata protezione respiratoria, igienizzarsi o lavarsi le mani secondo procedure consolidate” si legge nel documento.

CI SI PUO’ RI-CONTAGIARE – Anche i soggetti vaccinati, infatti, “possono andare incontro a infezione da SARS-CoV-2, seppur con rischio ridotto, poiché nessun vaccino è efficace al 100% e la risposta immunitaria alla vaccinazione può variare da soggetto a soggetto. Inoltre, la durata della protezione non è stata ancora definita”. Chi invece ha già avuto il covid, anche se non è ancora vaccinato,  “ha un effetto protettivo dell’infezione precedente di circa 5 mesi”, stando a quanto emerge da un’indagine effettuata nel Regno Unito su oltre 6.600 operatori sanitari.

Ecco le prove che il Cts ha sbagliato tutto. Franco Battaglia il 12 Marzo 2021 su Nicolaporro.it. Diciamo la verità: questi del Cts anti-covid sono ignoranti. Ignoranti come capre, direbbe Vittorio Sgarbi. Ma noi non vogliamo offendere nessuno, né uomini né capre. L’ignoranza di cui tratto non è la competenza nel singolo specialissimo settore di cui costoro, non dubito, saranno pure esperti. No, parlo dell’ignoranza di comprensione del metodo scientifico (il quale metodo impone che se i fatti contraddicono i pareri, questi vanno cambiati). Forse mista ad una dose di disonestà intellettuale, vista l’incapacità di ammettere gli errori fatti e la tendenza ad innamorarsi delle proprie idee e – senza forse – mista a capacità matematiche nulle, cosa comune tra medici e biologi. Vengo al punto.

1° prova d’incapacità del Cts: le loro misure non hanno salvato nessuno. Costoro del Cts – almeno così leggo dalle notizie diffuse dalla informazione unica del virus – dicono che ci vuole un nuovo lockdown, e che le misure prese non sono sufficienti, perché bisognerebbe chiudere di più. E se risultati non si vedono dalle misure adottate, la colpa è di chi non li avrebbe ascoltati a sufficienza. La verità è che non bisognava fare nulla di quel che il Cts ha detto di fare. Abbiamo la prova provata che le misure prese non hanno salvato neanche uno dei 100 mila morti che il Paese ha pianto in un anno. Di quel che dico ne abbiamo la prova provata sicuramente a posteriori. Ma potevamo dedurlo facilmente anche a priori, visto che persino io, che sono nessuno, scrivo queste cose dal marzo dello scorso anno: carta canta. Ci vien detto che se non ci fossero stati i due mesi di ferreo lockdown dello scorso anno (marzo-aprile), oggi i morti sarebbero molti di più di 100 mila. Senonché, se riportiamo in grafico i decessi da covid per milione d’abitanti dell’Italia e della Svezia otteniamo la figura che segue. A volerla ottenere apposta, questa curva, non ci saremmo riusciti! Morti da covid per milione d’abitanti in Italia e in Svezia. Ma la Svezia non ha preso alcuna delle misure che abbiamo preso noi. Più precisamente, la Svezia non ha preso alcuna misura degna di questo nome per prevenire la diffusione del virus. Gli svedesi hanno continuato a vivere quasi come se nulla fosse (per esempio, da marzo a novembre sono stati vietati assembramenti con più di 50 persone e i cinema e teatri sono rimasti aperti), col seguente quasi unico consiglio dalle loro autorità sanitarie: «ognuno sia poliziotto di sé stesso». E se si confronta la Svezia con gli altri Paesi che hanno preso misure simili alle nostre, ecco il risultato: Sembra, questo grafico, un gioco del tipo «trova l’intruso». L’evoluzione delle fatalità è stata essenzialmente uguale in tutti i paesi del grafico – che sono omogenei tra loro per qualità del servizio sanitario – ma tra essi c’è, appunto, l’intruso: la Svezia che, a differenza di tutti gli altri, ha continuato a vivere come se non ci fosse alcun virus. Non che la Svezia abbia fatto bene, come dirò fra poco. Ma sicuramente non hanno fatto bene né noi né gli altri Paesi: le misure prese sono state semplicemente sbagliate. Come se ci avessero detto che per contrastare la pandemia avremmo dovuto recitare la Vispa Teresa una volta al dì.

2° prova d’incapacità del Cts: non hanno saputo gestire la seconda ondata. Guardiamo ora alla variazione di mortalità del 2020 rispetto alla mortalità media degli ultimi 5 anni. Otteniamo, per Italia e Svezia, il grafico che segue. Esso ci insegna alcune cose: 1. conferma che la pandemia ha fatto meno danni in Svezia che in Italia; 2. l’andamento osservato è l’evoluzione del virus e della pandemia, senza alcuna relazione con le misure prese, visto che la Svezia non ne ha preso alcuna e ha subìto la stessa evoluzione; 3) in particolare, la quiescenza italiana del virus nei mesi successivi a maggio 2020, non ha avuto alcuna relazione col lockdown adottato in marzo-aprile 2020. Dal grafico si vede che, effettivamente, c’è stata una seconda ondata. Non me l’attendevo perché avevo sottovalutato l’incompetenza faraonica di chi ci ha governato. Mi ero detto: è dal mese di maggio che paventano la seconda ondata in autunno, sapranno pure cosa fare. Invece no: l’ottusa ignoranza diffusa all’interno del Cts e nei competenti ministeri ha superato ogni immaginazione. Non so chi siano i signori del Cts, ma ho il sospetto che nessuno abbia conoscenze di statistica o capacità di analisi di dati. Costoro, avevano tre informazioni cruciali a loro disposizione: a. la possibilità della seconda ondata; b. la certezza che le misure suggerite non avevano dato alcun risultato; c. un Paese, la Sud Corea, aveva preso misure – ben diverse da quelle prese da noi – che avevano saputo contenere gli effetti della pandemia.

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 14 marzo 2021. «La maggioranza degli accessi Covid19 in pronto soccorso sono causati da terapie domiciliari assenti o sbagliate. Per l' abbandono del paziente e il cortisone alla prima linea di febbre, l'Italia va in rosso». Si scaglia duramente contro gli effetti di mancate cure o terapie domiciliari sbagliate nei pazienti Covid, Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione dell' ospedale San Raffaele di Milano. Anche il virologo Roberto Burioni lo segue e punta il dito contro i medici di base che somministrano cortisone in modo errato: «Sono importanti i vaccini, ma è altrettanto importante non somministrare ai pazienti terapie non solo inutili, ma addirittura pericolose. Nelle fasi iniziali di Covid-19 il cortisone è controindicato». Un allarme che era arrivato pochi giorni fa anche dal direttore della clinica di malattie infettive dell' ospedale San Martino di Genova Matteo Bassetti, che aveva denunciato come «stiamo vedendo un eccesso di prescrizioni di antibiotici, cortisone ed eparina per i soggetti affetti da Covid in terapia domiciliare da parte dei medici di medicina generale ed anche in auto-prescrizione. Occorre evitare l' abuso di farmaci quando non servono. Si rischia di creare un danno importante e rendere il compito più difficile per chi gestisce poi questi casi in ospedale». Le cure a base di cortisone in pazienti per cui questo farmaco non è indicato allarmano le corsie. Pochi giorni fa erano stati anche gli infettivologi dell' ospedale Sant' Orsola di Bologna a chiedere di bloccare prescrizioni troppo affrettate ai malati di Covid assistiti a casa. In una nota all' ordine dei medici, il primario di Infettivologia Pierluigi Viale aveva segnalato che nei pronto soccorso bolognesi «stanno arrivando pazienti, anche giovani, con Covid-19 severo che hanno quale unico fattore di rischio il fatto di avere iniziato terapia con cortisone prematuramente», perché questo farmaco «se iniziato entro 7 giorni dall' esordio dei sintomi favorisce la replicazione virale e quindi l' infezione e le sue conseguenze». Rischiano di finire ora nel mirino i medici di famiglia mentre un protocollo domiciliare dettagliato del ministero della salute ancora non c' è. Respinge lo «scontro tra categorie» il segretario nazionale della Federazione italiana medici medicina generale (Fimmg) Silvestro Scotti. Contattato dal Giornale chiede che «si facciano nomi e cognomi dei medici che prescrivono cortisone in modo sbagliato. Non si può sparare su un' intera categoria». La causa per Scotti va ricercata piuttosto «nella paura della gente, che attraverso anche il passaparola si auto somministra cure sbagliate senza consultare il medico. Poi le faccio l' esempio di un mio paziente diabetico con Covid a cui non avevo prescritto cortisone: questa settimana è stato assistito dalle Usca - unità di assistenza domiciliare - che invece glielo hanno somministrato senza consultarmi. Il problema è una gestione dei pazienti poco integrata con i vari sistemi territoriali, facile dare la colpa a noi».

Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 15 marzo 2021.

1 Il cortisone funziona?

«Dipende dalla fase della malattia», afferma Pierluigi Viale, infettivologo del Sant' Orsola di Bologna che assieme ad alcuni colleghi ha segnalato il fenomeno della prescrizione non sempre appropriata di questo farmaco in pazienti seguiti a casa dai medici di famiglia: «Abbiamo avuto la percezione che il cortisone venga dato precocemente, in contrasto con quanto suggeriscono le linee guida della società americana di malattie infettive, che lo prevedono come presidio utile nella fase critica della malattia quando il paziente si aggrava a causa dell' infiammazione legata alla risposta eccessiva del sistema immunitario. Se viene dato troppo presto, il cortisone potrebbe facilitare la progressione del virus.

2 Quali sono i farmaci anti-Covid ritenuti attualmente più utili?

Al momento non esistono farmaci specifici in grado di bloccare l' infezione da Sars-CoV-2 né di prevenire o curare la polmonite. Tanti principi attivi sono stati considerati inizialmente promettenti e poi abbandonati per mancanza di conferme sul campo. La maggior parte non hanno mantenuto le promesse come spesso succede quando si presentano all' improvviso nuovi agenti patogeni e si cerca di servirsi delle terapie già note.

3 Cosa è previsto per le cure a casa?

Il ministero della Salute ha emanato una circolare (il 30 novembre 2020) per il trattamento dei pazienti gestiti a casa: paracetamolo per abbassare la febbre, anti-infiammatori per dolori muscolari o articolari. Il cortisone può essere considerato solo quando la situazione non migliora entro 72 ore dalla comparsa dei sintomi e quando i livelli di ossigenazione nel sangue, misurati col saturimetro e sempre comunicati al medico, peggiorano e scendono al di sotto di un certo livello.

4 E in ospedale?

Il cortisone costituisce lo standard di cura per i ricoverati con forme gravi. In aggiunta si ricorre a profilassi con eparina, come terapia anticoagulante. Il virus attiva la coagulazione del sangue aumentando il rischio di trombosi cioè l' intasamento vascolare con piccole ostruzioni a livello del microcircolo polmonare o altri organi. L' eparina previene questo rischio.

5 C' è un antivirale contro il virus della pandemia?

Il Remdesivir è l' unico antivirale autorizzato in Europa con «approvazione condizionata» (da confermare con un successiva valutazione in base a nuovi dati clinici) con un' indicazione per il Covid-19. È un farmaco solo ospedaliero, per pazienti che hanno sviluppato la polmonite da meno di 10 giorni e hanno bisogno di terapia non intensiva con l' ossigeno. Il Remdesivir è stato studiato per altre applicazioni e, successivamente, si è dimostrato efficace sia col Sars che con il Sars-CoV-2. Sembra ridurre i tempi di ricovero. È allo studio una formulazione spray più semplice rispetto all' endovena.

6 Quali sono i fallimenti?

Il più clamoroso è l' idrossiclorochina, un farmaco antimalarico che nelle prime fasi della pandemia è stato molto enfatizzato senza che vi fossero evidenze, tanto che andò a ruba in farmacia. Promosso anche dall' ex presidente Usa Donald Trump e in Brasile da Jair Bolsonaro. L' autorizzazione all' impiego off label (fuori indicazione) è stata revocata dalle agenzie (l' americana Fda, l' europea Ema) sulla base di studi che hanno dimostrato il rischio di gravi effetti collaterali. Nelle linee guida l' Oms ha emesso una «forte raccomandazione» a non avvalersi dell' idrossiclorochina. Tanti antivirali anti-Hiv (il virus dell' Aids) hanno fallito quando sono stati provati per il Covid. La stessa fine ha fatto il Tocilizumab, anticorpo monoclonale per l' artrite reumatoide.

Pazienti Covid: insufficienti tachipirina e vigile attesa. Marco Della Corte su Notizie.it l'8/03/2021. L'Aifa aveva pubblicato un documento raccomandante tachipirina e "vigile attesa" per i pazienti Covid lievi, ma il Tar ha bocciato la nota. Non bastano tachipirina e “vigile attesa” per i pazienti Covid lievi a casa. L’esatto contrario del contenuto di un documento che l’Agenzia italiana del farmaco aveva pubblicato lo scorso dicembre. Il Tar ha bocciato la nota, dando ragione ad alcuni medici del Lazio che avevano presentare un ricorso riguardo la libertà di scelta dei farmaci da utilizzare nel corso della terapia. Nella nota invalidata dal Tar, non veniva peraltro raccomandato l’uso di medicinali utilizzati solitamente sui pazienti Covid dai medici di medicina generale. Non basta l’utilizzo di trattamenti sintomatici (come tachipirina e paracetamolo) sui pazienti Covid lievi e curati in casa. Lo ha espresso il Tar bocciando la nota pubblicata dall’Aifa lo scorso dicembre, in cui si consigliava, inoltre, una “vigile attesa”. A opporsi a questa visione della terapia domiciliare nei confronti dei pazienti in questione è stato il Comitato Cura Domiciliare Covid-19. I medici hanno risposto alle indicazioni dell’Aifa con un ricorso, infine vinto. A testimoniarlo l’ordinanza pubblicata dal Tar del Lazio lo scorso 4 marzo. Il documento Aifa respinto dal Tar era stato pubblicato in PDF sul sito ufficiale dell’agenzia. La nota porta il seguente titolo: “Principi di gestione dei casi COVID-19 nel setting domiciliare”. Il PDF contiene raccomandazioni circa il “trattamento farmacologico domiciliare dei casi lievi e una panoramica generale delle linee di indirizzo AIFA sulle principali categorie di farmaci utilizzabili in questo setting”. Si parla di pazienti Covid lievi, secondo l’Aifa, quando i soggetti presentano sintomi quali cefalea, diarrea, tosse, perdita dell’olfatto e del gusto senza ulteriori cause spiegabili.

Marco Della Corte. Nato a Capua il 4 Agosto 1988, si è laureato in Filologia classica e moderna ed è iscritto all'Ordine dei giornalisti di Napoli. Collabora con diverse testate giornalistiche online, tra cui Blasting News e Scuolainforma.

Coronavirus, "come eliminarlo in soli 35 minuti": la (semplicissima) scoperta che rivoluzione la guerra alla pandemia. Andrea Casa Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Un articolo pubblicato il 21 gennaio sulla rivista scientifica Nature, sottolinea come la trasmissione del Coronavirus avvenga soprattutto per via aerea, attraverso l'inalazione di aerosol infetti, mentre molto più marginale appare il ruolo giocato dal contatto con le superfici contaminate. Diventa dunque quanto mai importante, per contrastare la trasmissione del virus, garantire un'adeguata qualità dell'aria indoor, in particolare nelle attuali strutture vaccinali, dove il rischio potrebbe essere più elevato: gli impianti aeraulici, quelli cioè che si occupano della climatizzazione o ventilazione degli edifici, possono diventare infatti veicoli del virus. La prima e più importante raccomandazione attiene ovviamente alla ventilazione di tutti i locali, che vedranno la presenza costante del personale sanitario e dei soggetti cui viene somministrato il vaccino. È fondamentale che gli ambienti siano dotati di impianti di trattamento aria privi di circuiti di ricircolo e in grado di garantire un adeguato tasso di ventilazione, almeno pari a 8 ricambi d'aria all'ora. In simili condizioni, infatti, la trasmissione dovuta alla permanenza nell'aria interna di micro-droplet contenenti il virus, è adeguatamente contrastata, poiché in circa 35 minuti tali particelle contaminanti vengono eliminate al 99%. Aumentando ulteriormente il numero di ricambi d'aria la situazione migliora sensibilmente: con 10 ricambi l'ora, tale risultato si raggiunge in 28 minuti e con dodici ricambi l'ora, in 23 minuti. Una seconda raccomandazione riguarda la precisa mappatura dei flussi d'aria in ingresso e in uscita. Gli impianti di trattamento aria, infatti, oltre ad introdurre negli edifici determinate quantità d'aria dall'esterno, ne devono anche estrarre una quantità equivalente, per evitare che all'interno dei locali aumenti la pressione ambientale, rendendoli invivibili. La conoscenza precisa di come si muovono i flussi dell'aria, pertanto, risulta di grande importanza per valutare come le micro-droplet infette, veicolate da questi flussi, si possano propagare e spostare all'interno degli ambienti indoor. In questo senso, ad esempio, la stessa disposizione degli arredi e delle persone deve tener conto di tale variabile, evitando di posizionare postazioni lavorative in ambiti spaziali direttamente attraversati dai flussi d'aria, perché potrebbero veicolare il virus. Inoltre, la presenza negli ambienti di unità locali di climatizzazione, come i ventilconvettori o i cosiddetti "split", può alterare significativamente le distanze di sicurezza da mantenere e pertanto deve essere presa in considerazione. Infine, una terza indicazione attiene alla corretta gestione igienica degli impianti, con particolare riguardo alla scelta e sostituzione dei filtri dell'aria e al controllo dello stato igienico generale degli apparati. Dall'inizio del 2020, l'emergenza causata dal Covid-19, ha incrementato la percezione sociale dell'importanza delle operazioni di sanificazione degli impianti di trattamento aria. Tuttavia, ciò ha dato origine a pratiche scorrette, tra le quali si può annoverare un eccessivo utilizzo di prodotti chimici disinfettanti, spesso erogati all'interno degli ambienti e degli impianti senza una necessaria e preliminare pulizia degli stessi. Anche a livello normativo l'attività di "sanificazione aeraulica" è composta da due operazioni distinte: quelle di pulizia (o detersione) e quelle successive di disinfezione (o sterilizzazione). Senza le prime, le seconde risultano inefficaci, perchè un substrato di contaminanti sulle superfici, costituisce un ottimo riparo per i microrganismi che vivono al suo interno. Al contrario, senza le seconde le prime rischiano di risultare incomplete, in tutte quelle situazioni in cui si registra una forte contaminazione microbiologica delle superfici. Oltre al Coronavirus, infatti, devono essere adeguatamente mitigati anche i rischi derivanti dalla contaminazione chimica degli apparati, o dalla colonizzazione degli stessi da parte di altri agenti microbiologici, primi fra tutti batteri e miceti di natura patogena.

Coronavirus, l'allarme degli scienziati: "Basta distanziamento e mascherina, se non circola ne avremo per altri 20 anni". Libero Quotidiano il 06 marzo 2021. Chiudere tutto? Cambio di programma. Nei giorni in cui quasi tutta Italia si avvia a nuove restrizioni, Science lancia un preoccupante allarme. La rivista scientifica americana ha infatti pubblicato uno studio che ribalta le credenze sul coronavirus. Due scienziati, Jennie S. Lavine del Dipartimento di Biologia della Emory University, Atlanta (Usa) e Ottar N. Bjornstad del Dipartimento di Biologia e del Centro Dinamica delle malattie infettive dell’Università dello Stato della Pennsylvania, hanno riscontrato che il Sars-Cov-2 è diventato così diffuso da esserci poche possibilità di eliminazione diretta. Una di queste? L'immunità di gregge. D'altronde - è il loro ragionamento - gli uomini convivono con tantissimi virus per i quali, per indebolirne l'aggressività, hanno dovuto abituarsi. Da qui la loro conclusione: più il virus circolerà velocemente (R0=6) e più in fretta ce lo toglieremo di torno. Ma se continuiamo a limitarne la diffusione ci metteremo almeno 10 o 20 anni, per uscire da questa situazione. Per gli esperti bisogna dunque eliminare qualsiasi forma di distanziamento sociale e di protezione per poterlo diffondere più possibile e ridurne l’aggressività. Una deduzione a cui Jennie S. Lavine e Ottar N. Bjornstad sono arrivati seguendo l’evoluzione degli altri coronavirus. “La nostra analisi dei dati immunologici ed epidemiologici sui coronavirus umani endemici (HCoV)”, dicono i due, “mostra che l'immunità che blocca le infezioni diminuisce rapidamente ma che l'immunità che riduce la malattia è di lunga durata”. Per questo, "affinché la maggior parte delle persone venga infettata così presto nella vita, persino più giovane del morbillo nell'era pre-vaccino, il tasso di attacco deve superare la trasmissione dalle sole infezioni primarie”. In parole povere per gli esperti bisogna rendere il Covid-19 un'abitudine e non una rara eccezione. Il tutto senza però accantonare i processi fin qui fatti, come il vaccino.

Patrizia Floder Reitter per la Verità il 7 marzo 2021. Bisogna lasciar circolare il Covid altrimenti ci vorranno dieci anni per liberarcene. Non è la battuta di un No vax, ma l' opinione di tre scienziati che hanno pubblicato i risultati di un loro studio sulla rivista Science, una delle più prestigiose a livello internazionale. Jennie Lavine e Rustom Antia, del dipartimento di biologia della Emory university di Atlanta, assieme a Ottar Bjornstad, del centro dinamica delle malattie infettive della Pennsylvania State university, hanno elaborato un modello teorico che conferma l' ipotesi che il Covid-19 assumerà carattere endemico e la sua letalità finirà per attestarsi intorno allo 0,1%, scendendo al di sotto del livello dell'influenza stagionale. Il Sars-Cov-2 non è stato contenuto subito, la sua diffusione ha provocato una pandemia e non può più essere eliminato direttamente. Ma se vogliamo che si raggiunga in fretta la fase endemica, quando il coronavirus potrà non essere «più virulento del comune raffreddore», scrivono gli autori, occorre che il tasso di contagiosità R0 (R con zero) sia uguale a 6. Cioè che una persona ne contagi sei, altro che l' auspicato valore inferiore a 1 che da mesi ci sta ripetendo il Cts (con quella cabina di regia che è diventato l' incubo settimanale per tutte le Regioni) o che viene sbandierato da più di un anno dagli esperti televisivi alla Massimo Galli. E senza il distanziamento che ci viene imposto, regolamentato a seconda della fascia colorata cui veniamo assegnati in base a incomprensibili algoritmi. Gli scienziati americani arrivano a questa conclusione considerando che «esistono quattro coronavirus di interesse umano (Hcov) che causano il raffreddore comune, o sindromi delle vie respiratorie superiori, e che circolano endemicamente in tutto il mondo. Causano solo sintomi lievi e non rappresentano un notevole onere per la salute pubblica». Gli autori dello studio ritengono che tutti gli Hcov suscitino un' immunità con caratteristiche simili e che «l' attuale, grave problema di salute pubblica sia una conseguenza dell' emergenza epidemica in una popolazione immunologicamente mai trattata, in cui gruppi d' età avanzata senza precedente esposizione sono più vulnerabili». Bisogna agire con vaccini, senza ridurre i test diagnostici e «se è necessario un frequente potenziamento dell' immunità mediante la circolazione virale in corso, per mantenere la protezione dalla patologia, allora potrebbe essere meglio che il vaccino imiti l' immunità naturale nella misura in cui previene la patologia, senza bloccare la circolazione del virus», afferma Jennie Lavine, prima autrice dell' articolo su Science. Gli scienziati aggiungono che «infezione o vaccinazione possono proteggere, ma non fornire il tipo d' immunità di blocco della trasmissione che consente la schermatura o la generazione di immunità di gregge a lungo termine». In un successivo articolo apparso su Nature, Jennie Lavine, che è ricercatrice di malattie infettive, spiega: «Il virus si attacca, ma una volta che le persone sviluppano una certa immunità, attraverso l' infezione naturale o la vaccinazione, non presenteranno sintomi gravi. Il virus diventerebbe un nemico incontrato per la prima volta nella prima infanzia, quando in genere causa un' infezione lieve o del tutto assente». Si potrà convivere con il Covid, come accade con altri coronavirus endemici che possono provocare più reinfezioni, grazie a un' immunità diffusa acquisita fin da piccoli, quando, a seguito dell' esposizione a raffreddori comuni, sembra si generi una protezione. La cosiddetta «cross reattività», grazie alla quale gli anticorpi riuscirebbero a riconoscere un nuovo virus con corredo genetico simile ad altri patogeni con i quali si è venuti a contatto. Non a caso, per la maggior parte dei bambini il Covid-19 non rappresenta un rischio. Ma se vogliamo arrivare rapidamente a una fase endemica, altrimenti ipotizzata tra dieci anni dagli autori se proseguiamo di questo passo, il forte distanziamento sociale non è la soluzione. «Un R0 maggiore si traduce in un' epidemia iniziale più ampia e più rapida e in una transizione più rapida alle dinamiche endemiche», concludono gli autori dello studio. D' altra parte, ricordiamoci quello che lo scorso ottobre dichiarò il professor Giorgio Palù, oggi presidente dell' Agenzia italiana del farmaco, a proposito del Covid che è «più mortale dell' influenza», ma come tutti i virus che hanno una letalità relativamente bassa «tende a coesistere. I virus sono parassiti obbligati e non hanno interesse a estinguersi, quindi a uccidere l' ospite e a essere letali».

DOPO UN ANNO, ECCO COME SCEGLIERE LA MASCHERINA PIU’ ADATTA E SICURA. Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2021. Quali sono le caratteristiche delle varie mascherine a disposizione? Il noto ed autorevole quotidiano americano NEW YORK TIMES se l’è chiesto stilando un elenco dei principali modelli più sicuri, per aiutare il lettore a orientarsi meglio nella scelta. In attesa di ottenere una copertura completa con la prevista campagna vaccinale che procede a rilento, al momento la mascherina resta il miglior metodo per proteggere noi stessi e gli altri dal coronavirus. Sul mercato esistono diversi modelli ma l principio base di utilizzo di questo dispositivo di protezione è sempre lo stesso: “uno qualunque è meglio di niente“. Ma quali sono le  caratteristiche delle varie opzioni a disposizione? Il noto ed autorevole quotidiano americano  NEW YORK TIMES se l’è chiesto stilando un elenco dei principali modelli più sicuri, per aiutare il lettore a orientarsi meglio nella scelta. Ecco cosa c’è da sapere: La maschera N95 filtra il 95% delle particelle da 0,3 micron, la dimensione più difficile da intrappolare. Per una corretta efficacia, è necessario prestare attenzione alla modalità con la quale si indossa:

controlla il giusto verso, assicurati che aderisca bene al volto. Le N95 non sono facili da reperire e alle volte presentano valvole respiratorie: evita questo modello, espelle i tuoi germi sugli altri.

Anche la mascherina KN95, prodotta in Cina, filtra il 95% delle particelle più difficili da intrappolare. A differenza del modello precedente, per posizionarlo saldo al volto non si serve di stringhe che circondano la testa, ma di due corde elastiche a forma di anello che vanno apposte dietro le orecchie. Questo potrebbe significare che non tutti calzano la mascherina in maniera adeguata.

Tra le scelte più diffuse e raccomandate c’è la KF94: ottima qualità, alto tasso di filtrazione e aderenza, forma modellabile al proprio volto. Come per gli altri modelli, il rischio contraffazione è dietro l’angolo. Assicuratevi che il vostro acquisto sia prodotto in Corea, dove è elevato il controllo qualità. 

La mascherina chirurgica è sicuramente il modello più utilizzato ed economico sul mercato, quello che osserviamo più frequentemente camminando per strada o andando in ufficio, al supermercato: La “chirurgica” arriva in laboratorio a a catturare dal 60 all′80% delle particelle. Diversa l’efficacia nel mondo reale, dove risulta meno performante. 

La maschera in tessuto a due strati, composta da un terzo strato di materiale filtrante è la migliore maschera “non medica” che si possa scegliere. Le velocità di filtrazione variano a seconda del tessuto: per osservare la sua protezione può essere un metodo osservare quanta luce penetra attraverso loro, se poste di fronte al sole. Ovviamente è necessario assicurarsi un’ottima aderenza al volto.

Sicuramente e più consigliabile abbondando. Indossare una doppia mascherina può essere un metodo per garantirsi maggiore protezione. In questo caso, la maschera chirurgica può essere apposta sotto a quella di stoffa. 

Coronavirus, è davvero utile disinfettare le superfici? Marta Musso su La Repubblica il 26 febbraio 2021. Il virus può restare anche a lungo sugli oggetti, ma è improbabile che ci si possa contagiare, se non per via aerea. Lo studio su Nature. Da pochi minuti, a una manciata d'ore, fino a intere giornate. Sono molti gli studi disponibili in letteratura che hanno dimostrato la permanenza del coronavirus su diverse superfici, come plastica, carta, metalli e via dicendo. E con l'aumentare delle evidenze scientifiche, è aumentata anche la nostra preoccupazione di poter essere infettati anche semplicemente toccando una maniglia non accuratamente disinfettata. Timori che ci hanno portato a un'attenzione, a volte maniacale, nel pulire a fondo qualsiasi cosa. E, con il senno del poi, probabilmente anche fin troppo esagerata: anche se questa modalità di trasmissione è teoricamente possibile, è allo stesso tempo davvero molto rara. A tornare sull'argomento è stata la rivista Nature, in un lungo articolo che ripercorre le tappe della pandemia dal principio, quando era stata data molta importanza alla via di trasmissione attraverso le superfici contaminate, anche dette fomiti, ossia oggetti che, se contaminati da microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. All'inizio della pandemia, il rischio di trasmissione attraverso le superfici contaminate era considerato significativo. Tanto che, a maggio del 2020, dopo la pubblicazione di diversi studi che dimostravano come il Coronavirus potesse persistere su diversi materiali per una quantità di tempo estremamente variabile, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e molte altre istituzioni decisero di raccomandare la pulizia e disinfezione delle superfici, soprattutto di quelle che vengono toccate più frequentemente, in contesti pubblici, come uffici, autobus, negozi e scuole. Oggi, tuttavia, recenti studi suggeriscono che la trasmissione attraverso il contatto con superfici contaminate, sebbene possibile, non è considerata un rischio significativo. Evidenze che hanno spinto alcune istituzioni ad aggiornare le proprie raccomandazioni. "Numerosi provvedimenti sono stati emanati per fronteggiare il rischio e contenere i contagi - ricorda Domenico Maria Cavallo, ordinario di Medicina del Lavoro presso il Dipartimento di Scienza e Alta Tecnologia dell'Università dell'Insubria - le misure straordinarie inizialmente intraprese non potevano essere basate su una corretta e completa valutazione del rischio, dato il livello di incertezza associato alle conoscenze allora disponibili. Pertanto, è stato adottato un approccio cautelativo, nel tentativo di garantire la massima protezione possibile". La maggior parte dei contagi, come dimostrano gli studi più recenti, avviene tramite aerosol e droplets, le ormai famose goccioline di saliva infetta che parlando, tossendo o respirando possono raggiungere chi si trova nelle immediate vicinanze. "Nuovi studi vengono continuamente condotti e pubblicati, per cui la comprensione scientifica di Sars-Cov-2 e delle sue modalità di trasmissione è cambiata nel tempo - commenta Cavallo - alcuni studi svolti più di recente hanno contribuito a ridimensionare il ruolo del contagio attraverso i fomiti, documentando come in realtà siano scarse le evidenze a supporto dell'ipotesi che il coronavirus possa essere trasmesso da una persona all'altra attraverso superfici contaminate". Il motivo, commenta l'esperto, è che gli esperimenti svolti riguardo la permanenza del virus su diversi materiali sono stati condotti in laboratorio, in condizioni controllate. "I primi studi condotti sulla persistenza di Sars-Cov-2 sulle superfici in realtà sono poco rappresentativi di scenari e condizioni di vita reale". Sebbene la trasmissione del virus attraverso le superficie sia possibile, non dovrebbe essere una nostra priorità. Alla luce dei recenti studi, di una maggior consapevolezza e una miglior valutazione dei rischi, suggerisce Cavallo, è necessario adottare una prospettiva più equilibrata. "La disinfezione periodica delle superfici e l'uso corretto di guanti sono ovviamente precauzioni necessarie nel contesto sanitario e assistenziale, dove questo rischio non può essere sottovalutato - commenta l'esperto. “Probabilmente però il contatto con fomiti non rappresenta un rischio rilevante di trasmissione nelle altre situazioni di vita per la popolazione generale. Alla luce delle evidenze disponibili, sarebbe probabilmente più efficace impiegare più risorse per intervenire sui sistemi di ventilazione degli ambienti di vita e di lavoro indoor per ridurre il contagio attraverso aerosol e droplets”. Bisogna, inoltre, considerare i rischi di un uso eccessivo dei disinfettanti. "La sovraesposizione a sostanze chimiche disinfettanti (dovuta all’uso massiccio e prolungato nel tempo) può portare in casi particolari a potenziali effetti avversi per la salute umana", commenta Cavallo. Uno studio recente, per esempio, ha mostrato che alcuni soggetti hanno riportato disturbi a mani, piedi, occhi, disturbi respiratori o gastrointestinali in seguito all'uso ripetuto di disinfettanti. Sicuramente, precisa l'esperto, "è necessario continuare a seguire le raccomandazioni generali attualmente in vigore: il distanziamento personale, l'uso di mascherine e la corretta igiene delle mani, che possono contribuire in maniera rilevante al controllo della trasmissione del contagio e sono da ritenere prioritarie nelle politiche di prevenzione - conclude Cavallo - questo aspetto è fondamentale perché il rispetto di queste misure deve essere visto come la strategia su cui investire: il contributo di ciascuno di noi nel rispettare queste raccomandazioni può contribuire a controllare la diffusione e i danni di Covid-19, senza infliggere i cospicui danni socio-economici di misure più drastiche come un lockdown prolungato e altre misure generalizzate".

Cristina Marrone e Clarida Salvatori per corriere.it il 18 febbraio 2021. Sono sempre stati attenti. Hanno sempre usato tutte le precauzioni. Non hanno mai tenuto comportamenti rischiosi. Eppure si sono ritrovati contagiati dal Covid-19 e ricoverati in un letto di ospedale. E hanno trascorso quei giorni in corsia a riflettere su dove siano venuti in contatto col virus e come abbiano potuto contrarlo. E l’unica risposta che si sono dati è legata alle superfici, magari non perfettamente disinfettate: un cellulare, la maniglia di una porta, il tastierino di un ascensore. Ma non ci sono evidenze scientifico-sanitarie che sia davvero così. Si tratta solo di supposizioni dei singoli pazienti.

Il contagio con un telefono? Di questi casi ne capitano sempre più spesso, specie in questa seconda ondata. È quanto ha raccontato ad esempio il comandante provinciale dei carabinieri di Bergamo, Alessandro Nervi, 51 anni, che a suo avviso si è ammalato passando il telefono a un conoscente che poi è risultato Covid positivo. «Ho sempre indossato la mascherina, ho tenuto le persone alla giusta distanza, non sono stato per più di 15 minuti con la stessa persona in presenza, ho tenuto la finestra aperta per arieggiare l’ufficio. Ma ho fatto quel semplice gesto: ho passato ad un amico il mio telefono con una videochiamata. Io avevo la mascherina, lui stava fumando. Poi ho disinfettato le mani, ma il telefono no. Due giorni dopo, l’amico mi ha avvertito via sms che il suo tampone molecolare era positivo». Pochi giorni dopo i sintomi compaiono e il test conferma il contagio.

Contagio in ospedale. Un po’ le stesse ipotesi di Luciano De Biase, 66 anni, cardiologo e responsabile dei 51 posti letto dedicati alla pandemia nell’ospedale Sant’Andrea di Roma. «Ho contratto il Covid-19. E da che ero medico, mi sono ritrovato paziente del mio stesso reparto. Sono finito in terapia intensiva e sono stato malissimo - ricorda - Come mi sono ammalato? Ci ho pensato tanto e ancora non riesco a darmi una risposta. Al lavoro sono sempre stato protetto, attento e prudente: tuta, mascherina, visiera, guanti, copriscarpe. L’unica risposta plausibile che mi sono dato è che io abbia toccato qualcosa, come una maniglia, e poi inavvertitamente mi sia stropicciato gli occhi».

Il contagio attraverso le superfici è raro. Il contagio da Covid all’interno degli ospedali che coinvolge sia pazienti sia operatori sanitari purtroppo non è una rarità e sono spesso i focolai nati in ospedale che preoccupano. Con le vaccinazioni di medici e infermieri le cose dovrebbero andare progressivamente meglio. «Moltissime persone ricoverate non hanno idea di dove si siano contagiate, sostenendo di essere state sempre molto attente, mantenendo alla lettera tutte le precauzioni» conferma il virologo dell’Università degli Studi di Milano, Fabrizio Pregliasco. Tuttavia il contagio attraverso le superfici, pur non essendo escluso, è considerato molto raro. Il coronavirus può resistere spesso inerte su maniglie e pulsanti. Diversi studi nel corso dei mesi hanno trovato tracce di materiale genetico di Sars-CoV-2 praticamente ovunque, ma questo non implica che il coronavirus sia attivo e ancora in grado di infettare. Le particelle virali non resistono per molto tempo fuori da un organismo e diventano via via meno pericolose. Una ricerca rivelò tracce di coronavirus a 17 giorni dallo sbarco dei passeggeri a bordo della Diamond Princess, la nave da crociera sulla quale si era diffuso un focolaio, ma non era più in grado di contagiare. Basta comunque disinfettare a fondo le superfici per evitare il contagio.

Laboratorio e realtà. Una serie di esperimenti hanno dimostrato che il coronavirus può resistere a lungo sulle superfici, ma questo non significa che le persone si stanno ammalando toccando pulsanti e maniglie. Emanuel Goldman, un microbiologo della Rutgers New Jersey Medical School di Newark, nel luglio scorso ha scritto un commento molto puntuale su The Lancet Infectious Diseases, sostenendo che le superfici presentavano un rischio relativamente basso di trasmissione del virus, mettendo in guardia da certi studi svolti in laboratorio, dove vengono create condizioni difficilmente ripetibili nel mondo reale, con esperimenti che tengono conto di enormi quantità di virus. Toccare una superficie appena contaminata, prima che il virus diventi inerte, per poi portarsi le mani sugli occhi o sul viso può comunque essere una via di contagio, ma gli scienziati la considerano molto rara.

La mascherina chirurgica non basta contro il contagio via aerosol. Anche la rivista Nature pochi giorni fa, con un lungo articolo e un editoriale ha sottolineato che troppi sforzi si concentrano ancora sulla sanificazione delle superfici, senza tenere conto di una realtà che si è scoperta con il passare dei mesi, e cioè che il virus è a trasmissione aerea: ci si può contagiare anche inalando piccole particelle di virus (aerosol) che galleggiano nell’aria a lungo prima di evaporare e non solo attraverso i droplets che per loro grandezza e peso cadono a terra entro i due metri di distanza. Le ricerche degli ultimi mesi provano, in modo sempre più solido, che il coronavirus si trasmetta via aerosol: i luoghi più pericolosi — ormai è chiaro — sono gli ambienti chiusi, affollati, con scarsa ventilazione. Su questo aspetto, dunque — non su quello del contagio attraverso le superfici, su cui le prove sono pressoché nulle — molti scienziati stanno sollecitando interventi per prevenire o limitare la trasmissione del virus. Va sottolineato che in aspirazione le mascherine chirurgiche hanno una scarsa efficienza sull’aerosol. «Per bloccare le goccioline di grandi dimensione l’aderenza perfetta non serve - spiega Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia) - ma le goccioline piccole invece sfuggono dai bordi. La mascherina deve sigillare il viso. Può essere una buona idea provvedere alla capacità filtrante con una mascherina chirurgica o FFP2 e all’aderenza al volto con una mascherina di stoffa messa sopra . Se si riesce ad aggiungere un tessuto che in qualche modo fa aderire meglio le mascherine, si raggiunge una protezione che arriva anche al 90 per cento».

Il «fattore tempo». Oltre all’uso corretto delle mascherine anche il tempo di permanenza incide sul rischio di contagio. Ad esempio sull’app Immuni l’allerta scatta se ci si trova a meno di due metri da un contagiato per almeno 15 minuti (anche se per essere contagiati potrebbe bastare anche solo un colpo di tosse o uno starnuto, con tempo di esposizione ben inferiore ai 15 minuti). Ma il Cdc americani (Centres for Disease Control and Prevention) hanno rivisto nelle loro lineee guida la «regola dei 15 minuti» che non vanno intesi come un tempo “consecutivo”, ma “cumulativo”: l’infezione può dunque avvenire anche con più contatti brevi, ma ravvicinati. Basta poco quindi per non rendersi conto di aver messo in atto, inconsapevolmente, un comportamento a rischio, senza per forza pensare a una maniglia o a un telefonino.

Eugenia Tognotti per "la Stampa" il 17 febbraio 2021. Che cosa è andato storto? A poco più di un anno dalla comparsa sulla scena del Covid - col suo bilancio di due milioni di morti, di cento milioni di infezioni e di una spaventosa devastazione economica e sociale - risponde a questo drammatico interrogativo il secondo rapporto provvisorio dell' Ipppr, cioè il gruppo indipendente per la preparazione e la risposta alle pandemie , guidato dall' ex primo ministro neozelandese Helen Clark e dall' ex presidente liberiano Ellen Johnson Sirleaf. Le valutazioni non potrebbero essere più chiare di così nel rimandare a «una serie di critici fallimenti nelle risposte globali e nazionali al Covid-19», all' inadeguata preparazione alla pandemia, nonostante anni di avvertenze; ai ritardi dell' Oms e delle autorità nazionali nel cogliere il fatto che il virus poteva diffondersi tra le persone e che anche gli asintomatici potevano trasmettere il virus. Il rapporto mette impietosamente a nudo i fallimenti del sistema sanitario internazionale e i fatali ritardi nel rilevare e allertare il mondo sul nuovo patogeno infettivo con potenziale pandemico, SARS-CoV-2 , altamente trasmissibile, aiutato dalla diffusione asintomatica. Dopo essere stato rilevato per la prima volta nella città di Wuhan alla fine del 2019 avrebbe potuto essere bloccato a gennaio prima di attraversare i confini e provocare il caos globale. Ma, sebbene i primi casi risalissero a dicembre e gli ospedali di Wuhan stessero assistendo a nuove polmoniti inspiegabili, è solo il 31 di quel mese che la Commissione sanitaria nazionale cinese annuncia finalmente un' epidemia di polmonite virale non correlata alla SARS, «sotto controllo», e per la quale non esisteva alcuna prova di trasmissione da uomo a uomo. I cluster virali non sono segnalati all'Oms. Allertata tramite notizie parziali e social media, l'Agenzia non riceve conferme ufficiali fino al 3 gennaio 2020, e intanto l'assenza di rapporti accurati e completi è all'origine di informazioni inesatte e di gravi ritardi, come mostra la cronologia, ben presente anche ai non addetti ai lavori. L'Oms convoca il suo comitato di emergenza solo il 22 gennaio 2020, decidendo che i sintomi della nuova malattia non erano preoccupanti come quelli della Sars, tanto da scegliere - con un discusso equilibrismo su termini come "moderata" - di non dichiarare l'epidemia un'emergenza internazionale di sanità pubblica, come aveva fatto per l' Influenza suina e Ebola. Soltanto una settimana dopo, il 30 gennaio 2020 quando la SARS-CoV-2 stava già marciando - non in giorni o settimane, ma in ore, in 20 luoghi fuori della Cina, giunge a dichiarare il focolaio internazionale di Covid-19 un'emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, acronimo PHEIC, Public Health Emergency of International Concern (che comporta raccomandazioni e misure temporanee non vincolanti per i vari Paesi, riguardanti viaggi, commerci, quarantena, screening, trattamenti). L'11 marzo, infine, più di un mese dopo, - mentre perduravano i dubbi sulle modalità di trasmissione e l'uso delle mascherine - arriva finalmente la dichiarazione di pandemia: la lentezza nel dichiarare una crisi internazionale attira sull' Oms l' ira dell' allora presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump che accusa l'organizzazione di aver gestito in modo pessimo la crisi e di essere un "fantoccio della Cina". La parola pandemia - carica di immagini, suggestioni, emergenze sanitarie intorno al mondo, come Ebola - avrebbe dovuto comparire molto prima - segnala il rapporto- data la sua capacità di "focalizzare l'attenzione sulla gravità di un evento sanitario". Lo spaventoso bilancio della pandemia per quanto riguarda il numero dei casi non risponde sicuramente alla realtà: secondo gli esperti il conteggio ufficiale è di gran lunga sottostimato: il volume delle infezioni nella primissima fase dell' epidemia era in tutti i paesi più alto di quanto ufficialmente riportato e non c'è dubbio che un'epidemia in parte nascosta abbia aiutato la diffusione globale. La relazione chiama ad un mea culpa globale: Covid-19 ha crudelmente dimostrato che il sistema istituito per la sicurezza sanitaria globale non è in grado di rispondere adeguatamente. Ma ora è tempo di passare dalle lezioni apprese ai fatti: cominciando, come sostiene il gruppo di esperti, dalla revisione e dalla riforma dell' Oms, messa in grado, con un mandato pieno, una forte autorità e adeguati finanziamenti di assicurare la sanità pubblica che ci si aspetta. Prendendo di petto le tensioni geopolitiche che è stata costretta ad affrontare durante la pandemia, come quella tra Stati Uniti e Cina, in modo da riaffermare la propria guida sulla salute del mondo. Ed esigendo dai governi che rispondano di palesi deviazioni, per quanto riguarda la preparazione e la risposta all' emergenza. Cosa che comprende anche la possibilità di appurare i comportamenti della Cina, all' attenzione di un gruppo di esperti mandati dall' Oms che hanno concluso questi giorni l' indagine a Wuhan per risalire alle origini della pandemia: l'ipotesi «più probabile» è che il coronavirus sia stato trasmesso all' uomo da un animale, passando per una specie intermedia, mentre la possibilità che sia uscito per errore da un laboratorio - che trova ancora molti sostenitori intorno al mondo - è «estremamente improbabile».

Covid: gli 8 errori che facciamo ogni giorno. Irma D'Aria su La Repubblica il 15 febbraio 2021. Dopo un anno abbiamo imparato a limitare il contagio? Gli esperti indicano otto errori che ancora facciamo: dall’idea che il vaccino ci esoneri dalle precauzioni al non tener conto del “modello del formaggio svizzero”. Combattiamo e resistiamo contro il Covid-19 ormai da un anno. Eppure, ancora non è finita: i numeri legati ai contagi restano alti in tutto il mondo e anche se la campagna vaccinale va avanti, dovremo continuare a rispettare alcune regole. Che dovremmo conoscere bene, anche se commettiamo ancora errori. Ecco un “ripasso” delle precauzioni e una lista degli errori da evitare. L’Italia si è ricolorata quasi tutta di giallo e le restrizioni sono diminuite: è di nuovo possibile pranzare nei ristoranti, andare nei centri commerciali e svolgere una serie di altre attività che potrebbero esporci ad un rischio maggiore di contagio. L’errore, dunque, sta nel porre l’attenzione a ciò che finalmente ci è consentito dimenticando che, proprio perché c’è più libertà l’attenzione deve essere alta. Secondo gli esperti, uno dei problemi più comuni è la poca consapevolezza dei rischi di contagio tra le persone che vediamo in un certo contesto e quelle che vediamo in un altro. Sul Guardian, Lucy Yardley, professore di Psicologia della salute all'Università di Bristol, ha dichiarato: “I giovani spesso sentono di potersi mescolare liberamente con i loro coetanei, perché sanno che non sono ad alto rischio. Poi andranno a trovare i loro nonni e staranno più attenti con loro, ma non tanto quanto dovrebbero dato che si sono mescolati liberamente con i coetanei”. Non è il momento di fidarsi troppo degli altri che dichiarano di aver sempre rispettato le regole ma magari le hanno trasgredite e neppure se ne sono resi conto o non lo rivelano. Lo dimostra anche uno studio condotto su 551 adulti americani: un quarto di loro ha confessato di aver mentito dopo aver trasgredito le misure di distanziamento, il 34% di aver negato i propri sintomi, quando altre persone hanno chiesto loro se ne avessero. Stare all’aria aperta non è un’autorizzazione ad abbassare la guardia. Il virus non si trasmette necessariamente in spazi chiusi. “Il virus non ha odore: potresti inalarlo senza neanche rendertene conto”, ha dichiarato al Guardian il virologo Julian Tang della University of Leicester. È importante mantenere alta l’attenzione nelle strade, soprattutto quelle magari trafficate per lo shopping. “Le persone temono ancora i runner o gli adolescenti che chiacchierano per le strade, ma poi abbassano la guardia in altre situazioni”. Essere integralisti non è una buona idea. Quindi, se abbiamo trasgredito una norma anti-contagio, questo non deve indurci a trasgredirle tutte. Infatti, se in un caso il fatto di essere venuto meno agli obblighi può non aver comportato pericolo, non è detto che la volta successiva andrà altrettanto bene. Meglio fare poco e anche in modo imperfetto piuttosto che nulla. Alcuni esperti richiamano a quello che viene definito il “modello del formaggio svizzero” elaborato nel 1990 da James Reason dell'Università di Manchester. Se vogliamo evitare un pericolo, una disgrazia, un virus – come accade oggi con l'epidemia di Sars-CoV-2 – non possiamo mai fidarci di una sola barriera: ne dobbiamo mettere in campo il più possibile perché sappiamo per esperienza che nessuna barriera è impenetrabile. Tutte le barriere hanno punti deboli, ‘buchi’ – proprio come il formaggio svizzero – e quando permettiamo a questi "buchi" di allinearsi, il virus può superare le barriere e raggiungerci. Ecco come si verifica un contagio. Con il vaccino ancora in fase iniziale di somministrazione, la mascherina resta la principale arma di protezione contro il Coronavirus. È importante scegliere un dispositivo a norma e coprire perfettamente naso e bocca, per tutto il tempo in cui siamo esposti all’interazione con altre persone. Dopo tanti mesi di mascherina, moltissime persone hanno adottato quella in stoffa anche per poter variare scegliendo tessuti e colori diversi. Ma sono abbastanza sicure? In realtà, per quello che sappiamo fino ad oggi è meglio tenere quelle chirurgiche o comunque lavare spesso quelle in stoffa. Proprio di recente poi il Center for Disease Control and Prevention americano (Cdc) ha finalmente sciolto un dubbio che in molti avevano. Portare due mascherine sovrapposte ha senso? Il Cdc ha scoperto che una mascherina in tessuto può essere sovrapposta a una mascherina chirurgica, formando una doppia mascherina, per avere una maggiore sicurezza. I Cdc hanno riportato i risultati di un esperimento di laboratorio in cui sono state distanziate di circa 2 metri due teste artificiali, verificando quante particelle delle dimensioni del Coronavirus emesse da una sono state poi inalate dall’altra. I ricercatori hanno scoperto che indossare una mascherina, chirurgica o di stoffa, blocca circa il 40% delle particelle dirette alla testa inalante. Con una mascherina di stoffa sopra una chirurgica, la percentuale sale all’80%. Quando entrambe le teste indossano doppia mascherina, si raggiunge il 95%. Tra chi ha ancora dubbi o è scettico sul vaccino, c’è anche chi pensa che possa causare l’infezione. Ma l’Istituto Superiore di Sanità ha chiarito più volte che non è possibile. I vaccini attualmente in uso in Italia usano la tecnologia a mRna (Pfizer-Biontech e Moderna) e quella a vettore virale (Astrazeneca). Nel primo caso il vaccino a Rna induce l'immunità fornendo a cellule umane esclusivamente le istruzioni per produrre un frammento del virus, la proteina Spike, che indurrà la produzione di anticorpi specifici verso il virus Sars-CoV-2. Con questi vaccini, quindi, non viene somministrato alcun virus, né vivo né attenuato, e la sola proteina spike non può causare infezione o malattia. Nel secondo caso, il vettore virale introduce nelle cellule direttamente il frammento della proteina Spike che induce la reazione immunitaria, ma non l'intero virus, e non può quindi causare la malattia. Una eventuale malattia Covid-19 successiva alla vaccinazione - chiarisce l’Iss - può essere quindi causata solo da una infezione naturale del virus, contratta indipendentemente dal vaccino. L’avvio delle vaccinazioni non deve indurci a pensare che abbiamo un rimedio e possiamo stare tranquilli. Gli esperti continuano a ribadire quanto sia necessario continuare a utilizzare i dispositivi di sicurezza, a mantenere le distanze e a lavarsi bene le mani. Servono infatti alcune settimane prima di avere una risposta immunitaria adeguata. Non è inoltre ancora chiaro se chi ha ricevuto il vaccino possa comunque trasmettere il virus alle altre persone. Sappiamo che chi ha avuto il Covid sviluppa degli anticorpi, ma non è ancora chiaro se ci si possa infettare due volte. Più persone, anche in Italia, sono risultate due volte positive al virus: la reinfezione è possibile, anche se rara. Non è inoltre chiaro se chi è stato precedentemente infettato non possa comunque trasmettere il virus, anche senza avere sintomi. Per questo, è bene continuare a rispettare le regole.

Da leggo.it il 3 febbraio 2021. Gli anticorpi monoclonali potrebbero essere la cura per il Covid-19. La prima italiana a cui sono stati somministrati è Claudia Disi, un'insegnante di 54 anni ricoverata allo Spallanzani con una febbre che sembrava non scendere mai. Il giorno della vigilia di Natale le è stata fatta la flebo di anticorpi e il recupero è stato talmente immediato e completo che a Capodanno la donna era già a casa con la sua famiglia. Come riporta Mauro Evangelisti de Il Messaggero alla donna è stato somministrato un cocktail di anticorpi monoclonali, quello di Regeneron, lo stesso che guarì Donald Trump. Claudia era in ospedale da 45 giorni, così i medici hanno deciso di provare su di lei la nuova cura che si è rivelata essere più che efficace. La Disi ha voluto ringraziare tutto il personale dello Spallanzani che si è presa cura di lei. «Ho avuto paura, non lo nascondo: questo virus maledetto incute terrore nonostante voi, uomini e donne di scienza, lo abbiate sufficientemente identificato e parzialmente snidato», ha scritto la donna in una lettera: «Non potrò dimenticare Andrea, l’operatore che per primo si prese cura di me quando, in lacrime, la sera del 13 novembre, salutai mio marito e mio figlio e presi possesso del mio letto, il numero 14 (poi diventato 5). E come non citare tutte le infermiere: instancabili, professionali e sempre con il sorriso. Sapete quale è stato, per giorni, il mio cruccio più grande? Quello di temere che, una volta uscita da qui, nel caso avessi incontrato uno di voi, non avrei mai potuto riconoscerne le fattezze. Fa venire questi pensieri la bestia Covid. Perché ci costringe a vivere mascherati, come astronauti». Claudia racconta cosa ha vissuto in quei giorni. La 54enne è affetta da sclerosi multipla, per questo prende farmaci che le abbassano le difese immunitare. Quando si è ammalata il medico curante ha voluto tenerla a casa temendo che in pronto soccorso si sarebbe esposta anche ad altre malattie. La febbre però non scendeva ed era sempre sui 39,5 gradi, così alla fine, dopo tre settimane, il ricovero in ospedale è stato inevitabile per poterle salvare la vita. Allo Spallanzani le hanno dato l'ossigeno, le hanno fatto diversi test non capendo perché la febbre continuava a non scendere. Alla fine i medici hanno capito che c'era ancora il virus nei suoi polmoni nonostante ormai fosse negativa e così le hanno somministrato la terapia con anticorpi monoclonali. Si tratta di una cura che non è stata autorizzata dall’agenzia del farmaco, così i vertici dello Spallanzani hanno chiesto una fornitura, per uso compassionevole, ai produttori americani e il farmaco Regeneron è stato inviato dagli Usa. Si tratta di due farmaci che vengono messi in una flebo che viene somministrata per circa 2 ore: «Tutto è successo il 24 dicembre, per me è stato un regalo di Natale. Ho dovuto firmare una liberatoria, perché si trattava di un farmaco sperimentale, ma non ho avuto dubbi. E non ho avuto paura». Claudia si è ripresa immediatamente dopo la cura. I medici hanno preferito monitorarla per una settimana in cui la 54enne afferma di essersi sentita veramente bene. Dopo 7 giorni è stata dimessa ed è tornata a casa dove ha potuto festeggiare il compleanno insieme al marito e al figlio di 18 anni, ma ancora oggi ringrazia tutto il personale dello Spallanzani: «medici e infermieri, straordinari, non possiamo dimenticarli, danno davvero l’anima».

Simone Pierini per leggo.it il 9 febbraio 2021. Opinioni diverse. Sono quelle che emergono da alcuni esponenti del mondo scientifico italiano sul tema degli anticorpi monoclonali che in questi giorni hanno ottenuto il via libera dall'Agenzia del farmaco italiano. Da una parte vengono visti con ottimismo, uno strumento fondamentale per prevenire l'insorgere della gravità della malattia. Dall'altra considerati poco utili perché non efficaci su chi è già alle prese con la fase peggiore del Covid.

Per il virologo Andrea Crisanti - ospite di "Oggi è un altro giorno" su Rai1 - «gli anticorpi monoclonali vanno bene per chi non ne ha bisogno. Perché fondamentalmente hanno un effetto per i casi moderati e non gravi» di Covid-19. «Penso sia uno spreco di soldi senza precedenti. In presenza di un vaccino, spendere 2-4mila euro per un anticorpo monoclonale senza nessun dato che dimostri che» questi farmaci «sono in grado di prevenire l'infezione grave, quando poi c'è il trial dell'Eli Lilly che dimostra che nei pazienti gravi sono controproducenti, penso che sia sbagliato».

Di tutt'altro tono il parere di Walter Ricciardi, professore di igiene all'Università Cattolica di Roma e consigliere del ministro della salute Roberto Speranza, intervenendo durante la trasmissione Agorà, su Rai3. «È una buona notizia - ha dichiarato - perché se somministrati all'esordio della malattia in alcuni soggetti particolarmente a rischio di complicanze, evitano l'aggravamento della malattia. E il fatto che il ministro Speranza abbia trovato, non solo il mondo ma anche i fondi per ottenerli, è un'ottima notizia».

Per il direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, che ha parlato in occasione dell'avvio delle vaccinazioni degli over80, «i vaccini e gli anticorpi monoclonali sono le due armi strategiche che ce lo faranno sconfiggere. Abbiamo messo in campo una macchina poderosissima a cui non corrisponde in questo momento la stessa disponibilità dosi».

Francesco Grignetti per "La Stampa" il 9 febbraio 2021. L'Agenzia italiana per il farmaco è la trincea avanzata contro il Covid, là dove si mettono a punto le armi contro il nemico. Ha appena autorizzato l' uso degli anticorpi monoclonali che finora sembrano l' unico farmaco in grado di sconfiggere il virus. «Un provvedimento eccezionale che risponde a un' esigenza eccezionale», precisa il direttore generale Nicola Magrini. Sulla campagna vaccinale è ottimista, ma anche cauto. «Abbiamo adottato un approccio gentile, di cui le primule sono il simbolo, perché speriamo di essere convincenti». Ma quando vede che molti, troppi del personale sanitario rifiutano la vaccinazione, e crescono le ritrosie nella scuola, sembra tentato di mettere la gentilezza da parte. «La risposta finora è buona. Se le cose cambiassero, potremmo scegliere soluzioni più drastiche».

Magrini, quanto sono importanti i monoclonali?

«In assenza di una decisione di Ema, i pareri di Aifa sono positivi, ma cauti, perché ci si basa su dati che definiamo "preliminari" e "immaturi". In parole semplici, i monoclonali hanno dato iniziali e promettenti risultati in pazienti nelle prime fasi della malattia. Non in pazienti gravi e già ospedalizzati. Per questi ultimi, gli studi a un certo punto sono stati addirittura interrotti perché era inutile continuare. Avendo però visto casi di relativo miglioramento in questi pazienti che ho detto, si è deciso di autorizzarne l' uso, circoscrivendolo. Non si tratta comunque del -70% enfatizzato da molti, ma di un possibile -5% o -10% di ricoveri».

La somministrazione è complessa. Si potrà fare solo in ospedale o anche a casa?

«Parliamo di una somministrazione in infusione, per via endovenosa, che dura, a seconda del prodotto, una o tre ore. E poi occorre un' altra ora di osservazione perché non ci siano effetti indesiderati. Quindi, se fatto a domicilio, occorrerà una equipe qualificata che sia ben schermata e che dovrà sostare molte ore con il paziente. Se ci fossero ambulatori, dovranno essere dedicati. E poi si può pensare alla somministrazione ospedaliera».

Non sarà uno scherzo.

«Visto che la parte organizzativa è indubbiamente rilevante, la cura potrà essere somministrata a un numero limitato di persone».

E quali pazienti dovrebbero essere trattati con gli anticorpi monoclonali?

«Pazienti a rischio, che prendono certi farmaci, o hanno particolari patologie: chi è in dialisi, o ha la fibrosi polmonare, assume farmaci immunosoppressori, i grandi obesi. Aggiungo che gli studi non sono finiti. Aifa stessa promuove un bando che si chiuderà lunedì prossimo per avere protocollo di studio comparativo sull' efficacia dei diversi monoclonali: finora sono due, ma ne arriveranno presto almeno altri tre. A sua volta, l' agenzia europea Ema ha iniziato la revisione per Regeneron ed è pronta ad accogliere altre richieste».

Ha fatto scalpore la notizia che il Sudafrica abbia sospeso la somministrazione di AstraZeneca perché quel vaccino pare inutile contro la «loro» variante del Covid-19.

«Sull' effetto delle varianti, e su ogni dubbio che i cittadini possono nutrire, quanto prima ci saranno le risposte pubblicate su Aifa.it, il nostro sito. Noi procediamo per ora convintamente: questo vaccino per la popolazione di lavoratori a maggior rischio, quelli in rapporti con il pubblico, è un ottimo strumento di controllo del virus».

Eppure cresce una certa sfiducia. Perché gli under-55 dovrebbero correre a vaccinarsi se poi la copertura oscilla sul 60%?

«Guardi, mentre i due vaccini Pfizer e Moderna rappresentano un' ottima protezione individuale, AstraZeneca è meno efficace, ma fornisce comunque una protezione di buon livello, e serve a limitare la diffusione della malattia come sta emergendo dall' esperienza inglese. Con AstraZeneca ci stiamo orientando ad allungare il periodo a 12 settimane tra prima e seconda dose: sempre restando nell' intervallo approvato, gli studi dicono che aumentando le settimane, aumenta anche l' efficacia. Può salire all' 82%. Mi sembra una buona notizia».

Ci sono molti dubbiosi, persino nel personale sanitario.

«I dubbi tra il personale sanitario, in particolare la componente non medica, sono un fenomeno da prendere molto seriamente, ma pacatamente. Noi abbiamo scelto un approccio informato e gentile. Le Primule sono nate anche per questo, come idea, e continuo a sperare che si facciano, al fine di essere un invito informato e accogliente alla popolazione. Perché la vaccinazione non vuol essere un atto d' imperio. Certo, in presenza di scarsa adesione, e ridotta capacità informativa e di coinvolgimento, possono esserci soluzioni più drastiche. Ma rimaniamo per ora verso un' adesione che sembra essere buona».

Monoclonali, è scontro tra Italia ed Europa. Aifa: "Usarle subito". Ema: "Prima altri studi". Palù: "Chiederò a Speranza un decreto urgente". Silvestri: Magrini non all'altezza. Francesca Angeli, Martedì 02/02/2021 su Il Giornale. Duro scontro tra scienziati sull'impiego degli anticorpi monoclonali per la terapia di Sars Cov2. Un confronto sull'efficacia di questa cura e dunque la necessità di autorizzarla al più presto da parte dell'Ema si consuma con l'Aifa, l'Agenzia del Farmaco italiana, ma anche al suo interno. Da un lato il presidente dell'Aifa, Giorgio Palù, eminente virologo. «Ho sottoposto al ministro l'utilizzo degli anticorpi già utilizzati in altri Paesi, spiegando che esiste la possibilità di un decreto d'urgenza, che ha sfruttato anche la Germania, in deroga alla validazione dell'Ema. - ricorda Palù- La legge lo prevede, gli anticorpi monoclonali sono salvavita e somministrati nella fase precoce riducono del 70 per cento i ricoveri ospedalieri e anche nei soggetti fragili riducono la mortalità. Insisterò con il ministro perché si arrivi ad usare i monoclonali, non c'è nessuna controindicazione: si potrebbe partire subito». Sull'altro fronte il direttore generale Nicola Magrini accusato di frenare sull'approvazione della terapia, nonostante il parere di illustri scienziati, da Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta. Sugli anticorpi monoclonali contro Covid-19, afferma Silvestri «la posizione di Magrini, che non approvò la sperimentazione sostenuta da me e molti altri colleghi (tra cui il direttore del Dipartimento di malattie infettive dello Spallanzani, Andrea Antinori; i membri del Cts Ranieri Guerra e Gianni Rezza, il viceministro Pier Paolo Sileri e Roberto Burioni) diventa a mio avviso del tutto insostenibile, e credo che ci si debba chiedere, seppure a malincuore ma con la necessaria schiettezza, se la sua presenza a capo di Aifa rappresenti ancora la cosa giusta per l'Italia e per i malati di Covid19». In sostanza Silvestri chiede le dimissioni di Magrini. Forse anche a seguito di queste pressioni il comitato per i medicinali umani (Chmp) dell'Agenzia europea del farmaco, Ema, proprio ieri ha annunciato di aver promosso la revisione continua dei dati su un medicinale noto come combinazione di anticorpi Regn-Cov2 (casirivimab / imdevimab) sviluppato congiuntamente da Regeneron Pharmaceuticals, Inc. e F.Hoffman-La Roche, Ltd per il trattamento e la prevenzione del Covid19. Con una precisazione però al momento per l'Ema «non ci sono prove sufficienti di efficacia per l'immissione in commercio». A confermare questa posizione ancora molto cauta è il professor Armando Gennazzani che fa parte della Chmp dell'Ema. «Gli anticorpi monoclonali al momento non hanno dimostrato nessuna efficacia nei pazienti ospedalizzati gravi. spiega Gennazzani-L'hanno dimostrata o stanno cominciando a dimostrare una efficacia non ancora matura sui pazienti curati a domicilio che potrebbero ammalarsi più velocemente. Gli anticorpi monoclonali sono in valutazione dell'Ema e credo che li utilizzeremo quando Ema li approverà». Insomma niente corse in avanti da parte dell'Aifa è la raccomandazione.

Covid, l'Aifa ha dato il via libera agli anticorpi monoclonali in Italia. Agnese Ananasso su La Repubblica il 3 febbraio 2021. Approvati quelli prodotti da Regeneron e da Eli Lilly. Previste limitazioni in linea con quelle del Canada e dell'Fda negli Stati Uniti: i farmaci sono destinati a pazienti in fase precoce con alto rischio di evoluzione. La Commissione tecnico scientifica dell'Aifa, dopo una riunione durata l'intero pomeriggio di oggi, ha dato il via libera agli anticorpi monoclonali in Italia. L'ok è stato dato a due anticorpi monoclonali per il trattamento di Covid-19, quelli prodotti da Regeneron e da Eli Lilly, con alcune condizioni, come da legge 648/1996 che prevede l'approvazione di medicinali in corso di sperimentazione clinica o utilizzati in altri Paesi quando non esiste un'alternativa terapeutica valida. La Cts ha previsto limitazioni in linea con quelle del Canada e dell'Fda negli Stati Uniti: i farmaci sono destinati a pazienti in fase precoce con alto rischio di evoluzione. Un via libera molto atteso dagli addetti ai lavori. Un booster, una macchina ausiliaria che permetterà di concludere, con meno urgenza, la campagna vaccinale, sostenendo i pazienti che via via si ammaleranno: questa la funzione, nell'attuale scenario, degli anticorpi monoclonali, secondo il presidente della federazione degli ordini dei medici (Fnomceo), Filippo Anelli. Che definisce "un'ottima notizia" anche l'individuazione di un fondo, da parte del governo uscente, per una somministrazione in via sperimentale. E una "notizia ancora migliore" la sovvenzione della ricerca, "sia quella volta allo sviluppo di monoclonali italiani, sia quella clinica indipendente condotta dalla stessa Aifa". Con le dosi di vaccino che tardano ad arrivare, le categorie e gli ambienti più a rischio potrebbero trovare negli anticorpi monoclonali la protezione contro il Covid di cui hanno bisogno", ha spiegato Giuseppe Novelli, genetista dell'Università Tor Vergata di Roma, impegnato nella ricerca di anticorpi monoclonali efficaci contro il Covid-19. "Gli anticorpi monoclonali sono farmaci precisi, intelligenti e accurati che conosciamo da anni, e che oggi rappresentano l'unica arma farmacologica di cui disponiamo al momento contro il coronavirus. Sono i cosiddetti 'farmaci biologici', usati contro malattie come l'artrite reumatoide e, soprattutto, contro i tumori". E sono "gli stessi anticorpi che produciamo quando ci ammaliamo o facciamo un vaccino. La differenza è che sono già pronti ed utilizzabili come una sorta di immunizzazione passiva in quanto non vengono stimolate le cellule immunitarie che conferiscono una 'memoria' per produzioni future, come avviene nel caso del vaccino. I monoclonali hanno una durata limitata nel tempo, durano un paio di mesi, fai un ciclo di trattamento e poi lo ripeti se necessario", osserva il genetista. Essendo un farmaco gli anticorpi monoclonali "servono a curare innanzitutto. Funzionano contro il Covid specialmente nelle prime fasi della malattia, e la percentuale di successo nella cura dipende da vari fattori". Ma c'è un'altra funzione che, secondo Novelli, non può essere sottovalutata: "I monoclonali hanno anche un ruolo di protezione, cioè di profilassi. Chi è ad alto rischio, dunque, potrebbe utilizzarli per una protezione provvisoria. Penso ad esempio alle Rsa o alle persone fragili che potrebbero ricevere una sorta di protezione in questi mesi di ritardo nell'approvvigionamento delle dosi di vaccino".

Covid, l'Aifa dà il via libera agli anticorpi monoclonali. L'Aifa ha dato il via libera all'utilizzo dei monoclonali per la cura del Covid. I farmaci sono destinati ai pazienti con l'infezione in fase iniziale di sviluppo. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. La notizia tanto attesa, alla fine, è arrivata: l'Aifa ha dato il via libera all'utilizzo della terapia con gli anticorpi monoclonali per la cura del Covid in Italia. Una "boccata d'ossigeno", così come ha commentato l'indiscrezione il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Filippo Anelli, che sarà di prezioso supporto alla campagna vaccinale.

Cos'è la terapia con i monoclonali. Si tratta di una cura all'avanguardia, già in sperimentazione negli Stati Uniti ed altri Paesi, che consente di inibire il virus nella fase iniziale dell'infenzione evitando l'ospedalizzazione del paziente (leggi qui per saperne di più). “Un booster, una macchina ausiliaria che permetterà di concludere, con meno urgenza, la campagna vaccinale, sostenendo i pazienti che via via si ammaleranno: questa la funzione, nell’attuale scenario, degli anticorpi monoclonali”, secondo il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Filippo Anelli. Che definisce “un’ottima notizia” l’individuazione di un fondo, da parte del Governo uscente, per una somministrazione in via sperimentale. E una “notizia ancora migliore” la sovvenzione della ricerca, “sia quella volta allo sviluppo di monoclonali italiani, sia quella clinica indipendente condotta dalla stessa Aifa”.

La somministrazione. Il fondo permetterà di somministrare i monoclonali a diverse decine di migliaia di pazienti nell’ambito del Servizio Sanitario nazionale "secondo le indicazioni che dovranno essere stabilite dall’Aifa – spiega Anelli -.Questi agenti terapeutici hanno dimostrato, secondo gli studi sin qui disponibili, una possibile efficacia se impiegati in una fase precoce della malattia, entro 72 ore dallo sviluppo dei sintomi”. Insomma, una vera e propria manna dal cielo, specie in questo momento in cui la campagna vaccinale arranca. "In uno scenario in cui la disponibilità del vaccino, che è l’unico strumento potenzialmente risolutivo della pandemia, scarseggia, e la campagna va rimodulata di conseguenza, ben venga ogni terapia che ci permette di sostenere chi si ammala – continua il Presidente Fnomceo -. Avere a disposizione anche questa opzione terapeutica, che, in determinate condizioni, permette di ridurre le ospedalizzazioni e di migliorare i risultati clinici, può essere una strategia per prendere fiato e condurre a termine la campagna vaccinale in un tempo più flessibile”.

Il via libera dell'Aifa. Stando a quanto si riporta Repubblica.it, la Commissione tecnico scientifica dell'Aifa, ha dato l'autorizzazione per l'utilizzo dei monoclonali in Italia, al termine di un vertice nel pomeriggio di mercoledì 3 febbraio. Il via libera fa riferimento, nello specifico, a due anticorpi monoclonali per il trattamento di Covid-19, quelli prodotti da Regeneron e da Eli Lilly. Ovviamente, bisognerà attenersi ad alcune condizioni, come da legge 648/1996 che prevede l'approvazione di medicinali in corso di sperimentazione clinica o utilizzati in altri Paesi quando non esiste un'alternativa terapeutica valida. "Questo consentirà, sin da ora, di trattare decine di migliaia di pazienti, selezionati in base al quadro clinico, nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, provando a ridurre le complicanze e le ospedalizzazioni. - conclude Anelli - Sarebbe una boccata d’ossigeno per tutto il sistema, che limiterebbe le conseguenze della scelta, che pare ormai obbligata, di rimodulare su tempi più lunghi la campagna vaccinale”.
Anticorpi monoclonali: cosa sono, a chi servono, come verranno somministrati e quanto costano i nuovi farmaci contro il Covid-19. Viola Giannoli su La Repubblica il 3 febbraio 2021. L'Aifa ha dato il via libera a due farmaci di aziende statunitensi. Ecco le risposte ai principali dubbi sulla super terapia. Via libera anche in Italia agli anticorpi monoclonali dalla Commissione tecnico scientifica dell'Aifa. Ma cosa sono, come funzionano, a cosa servono, a chi, come, dove e quando verranno somministrati e quanto costano? Ecco le risposte ai principali dubbi sulla nuova super terapia contro il Covid-19.

Cosa sono gli anticorpi monoclonali e come vengono prodotti?

"Gli anticorpi monoclonali sono anticorpi sintetici, cioè ottenuti in laboratorio, sulla base di quelli più efficaci prodotti naturalmente dai pazienti già immunizzati al Covid-19 - spiega l'ex direttore dell'Ema e microbiologo all'università di Tor Vergata a Roma, Guido Rasi - Alle cellule ingegnerizzate in laboratorio viene "insegnato" a produrre gli anticorpi migliori per combattere la malattia. La ragione per cui si chiamano monoclonali risiede nel fatto che sono prodotti da un solo tipo di cellula immunitaria".

Come funzionano questi anticorpi nel combattere il coronavirus?

Gli anticorpi monoclonali riconoscono e si legano alla proteina spike, che costituisce la corona del virus e che il virus stesso utilizza per entrare nelle cellule e infettarle, bloccandone l'ingresso e impedendone la replicazione. "Funzionano - racconta Guido Rasi - attaccando il virus come se l'individuo a cui vengono somministrati fosse già immunizzato o vaccinato". Con il vantaggio che, rispetto agli anticorpi naturali, i monoclonali vengono costruiti per dirigersi selettivamente contro un determinato antigene.

Quando devono essere somministrati i monoclonali?

"Possono funzionare - afferma Rasi - anche come scudo anti-contagio con copertura di qualche mese", inferiore a quella dei vaccini e costi ben più alti. Come cura sono utili "nelle fasi precoci della malattia, entro 72 ore e comunque non oltre 10 giorni dal riscontro dell'infezione. La loro efficacia è molto limitata quando il paziente ha sviluppato sintomi gravi: il loro ruolo è di terapia di soccorso per la prevenzione dell'insorgenza di sintomi severi" spiega Carlo Selmi, responsabile di Reumatologia dell'Humanitas Research Hospital e docente di Humanitas University.

A chi e in che modo vengono somministrati gli anticorpi?

"L'ideale - sottolinea ancora Selmi - sarebbe somministrarli a persone che sono a maggior rischio di sviluppare la malattia in forme gravi: anziani, obesi, diabetici, cardiopatici, immunodepressi, anche se su pazienti fragili a oggi non abbiamo dati. Per la somministrazione è utilizzata una infusione endovenosa che dura circa un'ora con un tempo di osservazione di 15-30 minuti come nel caso dei vaccini, mentre non è obbligatoria l'ospedalizzazione. Ma in assenza di un ok dell'Ema partirà solo la sperimentazione ospedaliera".

Quali sono i farmaci in commercio, quali quelli in arrivo e quanto costano?

Gli anticorpi monoclonali approvati in Italia per il Covid sono due: gli americani Regeneron e Eli Lilly. Il primo è un mix di due monoclonali che abbatte la carica virale, il secondo è un anticorpo che ridurrebbe la mortalità del 70%. Allo studio ci sono anche altri anticorpi, tra cui quelli di Toscana Life Sciences che dovrebbero essere disponibili ad aprile-maggio. I costi si aggirano tra mille e 2 mila euro a dose. La Germania ne ha acquistate 200 mila dosi per 400 milioni di euro. E anche l'Italia ha previsto un fondo per garantirne la gratuità ai pazienti. "Ogni dose, seppur costosa - precisa Rasi - corrisponde alla terapia completa per un paziente. La spesa equivale a quella di un solo giorno o poco più di ricovero ospedaliero".

Gli anticorpi monoclonali sono efficaci contro le nuove varianti?

"Gli anticorpi aggrediscono il virus, se questo muta gli anticorpi potrebbero non essere più in grado di combatterlo e bisognerebbe dunque svilupparne di nuovi" avverte Guido Rasi. Per questo si stanno cercando di produrre diversi tipi di anticorpi. Giuseppe Novelli, genetista dell'Università Tor Vergata di Roma, insieme con Sachdev Sidhu dell'Università di Toronto, sta lavorando alla messa a punto di monoclonali di nuova generazione: "A renderli straordinari è la possibilità di aggiornarli in modo da stare al passo con le varianti".

Camilla Conti per “La Verità” il 5 febbraio 2021. Il Commissario Domenico Arcuri - con il placet di Pd e grillini e attraverso il braccio operativo di Invitalia - sta lavorando da tempo per gettare le basi di un polo farmaceutico pubblico-privato con accesso privilegiato ai finanziamenti pubblici. E ieri al puzzle, che ha cominciato a comporsi attorno all'investimento in Reithera, si è aggiunto un nuovo tassello: la produzione di anticorpi monoclonali. Nella riunione di mercoledì scorso l'Agenzia italiana del farmaco non solo ne ha approvato l'utilizzo contro il Covid, ma ha anche affidato alla gestione di Arcuri un fondo da 400 a 500 milioni di euro per acquistare i monoclonali prima che siano opzionati tutti dagli altri Paesi. E senza dover aspettare l'autorizzazione dell'Ema. Lo ha annunciato ieri in un'intervista al Fatto.it, il presidente dell'Aifa Giorgio Palù: «In cda abbiamo deciso all'unanimità di procedere con una legge di emergenza, quindi mettendo tutto in mano al ministro (della Salute, Roberto Speranza, ndr) che può decretare rapidamente basandosi su un fondo tra i 400 e i 500 milioni posti dalla struttura commissariale», ha spiegato Palù. L'Aifa adesso dovrà definire i metodi di impiego dei monoclonali prodotti per ora dalle americane Regeneron ed Eli Lilly, nell'ambito di una prima sperimentazione nel nostro Paese (da notare che una parte importante della produzione dei monoclonali di Ely Lilly, formulazione e infialamento, avviene anche nel sito della BSP Pharmaceuticals di Latina, che produce oltre 100.000 dosi al mese). «Si può fare subito la contrattazione per partire coi pazienti ad alto rischio, ultrasessantenni e fragili, sia domiciliarmente che nelle strutture ambulatoriali. Ora la palla passa al ministero», ha aggiunto il presidente dell'Agenzia. Il meccanismo con cui è stato approvato in cda non è la legge 648/1996 che grava sul fondo nazionale ma appunto la creazione di un fondo straordinario, come per i vaccini, che fa leva sul decreto legislativo 219 del 2006 che recepisce una direttiva europea del 2001 sfruttata già nel 2016 per l'emergenza Ebola (la stessa normativa è utilizzata da Germania e Ungheria per l'uso emergenziale degli anticorpi). A gestire le risorse sarà dunque, come sempre, Arcuri. Che con Invitalia è entrato nel capitale di Reithera (ma il vaccino italiano è ancora alla programmazione dello studio di fase due) e punta a diventare anche azionista della società Toscana Life Sciences. «Mi ha detto che pensa di chiudere l'operazione entro 15 giorni», ha detto in un'intervista lo scorso 31 gennaio l'assessore regionale alla Sanità, Simone Bezzini (Pd). Tanto che ieri anche il governatore della Toscana, Eugenio Giani ha assicurato che da maggio saranno disponibili gli anticorpi monoclonali «che arrivano da Siena, prodotti poi da Menarini a Pomezia». Il presidente di Tls, Fabrizio Landi, spera di firmare nei prossimi giorni l'accordo da 41 milioni con la Invitalia di Arcuri: 15 milioni per il 30% del capitale di Tls Sviluppo, 26 milioni per la fase 2 degli anticorpi più 500.000 euro stanziati dalla Regione. Sono i fondi per il contratto di ricerca e sviluppo per supportare l'attività industriale per la produzione di anticorpi e per riaprire il cosiddetto «lotto 23», il polo produttivo dove saranno fatti vaccini e anticorpi "pilota", sviluppati da imprese e start up. Una volta siglato l'accordo, ci vorrà almeno un anno per avere le autorizzazioni necessarie a riattivare gli impianti e a ricominciare a produrre. Sempre ieri, intanto, l'Aifa ha pubblicato il primo rapporto sulla sorveglianza dei vaccini Covid-19. I dati si riferiscono alle segnalazioni di sospetta reazione avversa registrate tra il 27 dicembre e il 26 gennaio per i vaccini in uso nella campagna in corso, e riguardano soprattutto la prima dose del vaccino Pfizer Comirnaty (99%), che è stato il più utilizzato, e solo in minor misura Moderna (1%). Secondo il rapporto, «le sospette reazioni avverse sono in linea con le informazioni già presenti nel riassunto delle caratteristiche del prodotto dei vaccini e le analisi condotte sui dati fin qui acquisiti confermano il loro profilo di sicurezza». Nello stesso periodo osservato sono stati segnalati 13 decessi avvenuti nelle ore successive alla vaccinazione con le dosi Pfizer-BioNTech e Moderna che, «non sono risultati correlati e sono in larga parte attribuibili alle condizioni di base della persona vaccinata». Nel frattempo, sul fronte europeo dei vaccini, la Commissione Ue ha avviato una task force per incrementare la capacità dell'attuale produzione che sarà guidata dal commissario per il Mercato unico, Thierry Breton, in collaborazione con la responsabilità della Salute, Stella Kyriakides, e si concentrerà su tre filoni principali: «rimuovere ostacoli e colli di bottiglia; adeguare la produzione di vaccini alle varianti del virus; e lavorare a un piano strutturale per una risposta veloce a rischi biologici a livello europeo».

Via libera ai monoclonali: li pagherà (tanto) lo Stato. La cura potrà essere somministrata. Costerà 2mila euro a dose a carico della sanità pubblica. Francesca Angeli, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale.  Via libera alla terapia con gli anticorpi monoclonali. La conferma ufficiale arriverà oggi dopo le pressioni esercitate parallelamente dalla politica e dalla scienza. Il direttore generale dell'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco, ieri sera ha confermato che «i nuovi studi presentano diverse novità in base alle quali verrà valutato l'utilizzo dei monoclonali nell'ambito del Servizio sanitario nazionale». La copertura finanziaria per questa costosissima terapia, circa duemila euro per dose per quella prodotta dalla Lilly, è garantita da «un fondo individuato dal governo per questi farmaci: quindi dovremmo avere la disponibilità per il trattamento per diverse decine di migliaia di pazienti», assicura Magrini. Dopo una serie di audizioni con i rappresentanti delle aziende produttrici fissati per oggi ci sarà il sì definitivo. Uno stop sarebbe davvero inaspettato visto che negli ultimi giorni si erano fatte sempre più insistenti le pressioni per aver l'ok dall'Aifa sia da parte della politica sia da parte della scienza. È prima di tutto il ministro della Salute, Roberto Speranza, a volere che questa terapia sia erogata a carico della sanità pubblica anche se ovviamente ci saranno indicazioni cogenti sul protocollo da seguire e sulle categorie che potranno usufruirne. Speranza ha anche visitato nei mesi scorsi lo stabilimento Menarini di Pomezia dove si stanno sviluppando gli anticorpi frutto della ricerca del laboratorio toscano Life Science, guidato dallo scienziato Rino Rappuoli. Ma anche il viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri, si era rammaricato per il «ritardo» sui monoclonali sottolineando che ora «stiamo recuperando grazie ad alcuni che sono in Aifa e che hanno visto l'occasione. Cerchiamo di non farcela sfuggire: gli anticorpi monoclonali devono andare in parallelo con i vaccini». Accanto al pressing di Speranza e Sileri infatti anche quello interno all'Aifa del presidente, Giorgio Palù che soltanto due giorni fa era tornato alla carica ipotizzando di chiedere un decreto d'urgenza al governo per un utilizzo immediato in via d'emergenza. Senza aspettare l'ok dell'Agenzia europea, Ema.

E pure da un ex direttore dell'Ema Guido Rasi, era arrivata la stessa sollecitazione. «L'Aifa ha strumenti normativi che le permettono di dare subito indicazioni d'uso in emergenza per gli anticorpi monoclonali anti-Covid», aveva detto Rasi. Lo scienziato, docente di Microbiologia all'università di Roma Tor Vergata, spiega anche quali siano però i limiti nell'utilizzo degli anticorpi. «Andrebbero somministrati entro le prime 72 ore dalla comparsa precoce dei sintomi-spiega Rasi- È importante imparare velocemente a utilizzare gli anticorpi monoclonali perché anche questi prodotti dovranno essere cambiati se le varianti di Sars Cov2 imporranno di correggere i vaccini». Proprio ieri sul The Guardian, il quotidiano inglese, lo studioso Nick Cammack, guida di una fondazione che elabora ricerche sulle terapie e le cure per il Covid19, ha evidenziato che purtroppo gli anticorpi monoclonali oggi a disposizione non funzionano contro le varianti che si sono evolute in Sudafrica e Brasile. Sia Regeneron, ovvero l'anticorpo monoclonale usato per trattare Donald Trump, sia i farmaci di Eli Lilly e GlaxoSmithKline, sostiene lo scienziato, non funzionano contro tutte le nuove varianti. Ad esempio, spiega, GlaxoSmithKline funziona contro le varianti di Sudafrica e Brasile ma non contro quella emersa nel Kent nel Regno Unito.

Coronavirus, l’Italia terza al mondo per mortalità grazie a Conte e Speranza. Paolo Lami sabato 23 Gennaio 2021 su Il Secolo d'Italia. Bisogna ringraziare Conte, Speranza e tutto il Circo Barnum dei molto presunti esperti del Cts se l’Italia è il terzo paese al mondo per numero di morti legati al Coronavirus. Eccolo il famoso “modello Italia” che tutto il mondo ci invidia, come continuano a sostenere, senza il minimo senso del ridicolo, Conte, i suoi ministri e i reggicoda del Pd e dei Cinque Stelle. Ma, forse, non basterà neanche che a certificare il clamoroso fiasco del governo Conte nella gestione dell’emergenza Coronavirus sia la Johns Hopkins University. Cioè un’istituzione in materia. La Johns Hopkins University monitora costantemente l’andamento della pandemia, le azioni che i governi mettono in campo e i risultati ottenuti. Senza fare sconti a nessuno. E gli ultimi risultati sono spietati per il governo Conte. Che ha provocato un’ecatombe con la sua incapacità e i suoi tentennamenti. La classifica stilata dagli analisti della Johns Hopkins University assegna al Regno Unito il triste primato del più alto tasso di mortalità da Coronavirus al mondo per 100mila abitanti. A seguire la Repubblica Ceca. E, quindi, l’Italia. La Gran Bretagna, che mercoledì ha registrato il record di decessi giornalieri – 1.820 – e una media nei sette giorni precedenti di 1.240 nuovi decessi al giorno, ha un tasso di mortalità di 142,53 morti per Covid-19 ogni 100mila abitanti e un bilancio complessivo di 96.166 morti dall’inizio della pandemia, su una popolazione di 66 milioni. A seguire nella classifica, come detto, la Repubblica Ceca con 140,91 morti ogni 100mila abitanti. E 15.270 decessi complessivi. Poi ecco l’Italia, terza assoluta a livello globale, con 139,34 decessi ogni 100mila abitanti. E 84.674 decessi totali. Alle spalle dell’Italia, quarti assoluti, gli Stati Uniti. Che pure con un bilancio complessivo di 414.124 morti, hanno un tasso di mortalità di 125,35 ogni 100mila abitanti. Resta la beffa di sentirsi dire, da Conte e compagni che c’è un “modello italiano” di gestione della pandemia da Coronavirus. E che questo “modello” ci viene perfino invidiato.

Balotelli sulla gestione della pandemia: “Mi fa venire il voltastomaco”. Notizie.it il 22/01/2021. L’attaccante del Monza si sfoga su Instagram riguardo alla gestione della pandemia Covid-19 in Italia. Mario Balotelli ex attaccante di Inter e Milan, attualmente al Monza, si è sfogato duramente sulle nuove misure restrittive adottate dal governo e su come si sta gestendo la pandemia in Italia. Balotelli, attraverso una storia di Instagram, si è sfogato contro la gestione della pandemia nel nostro paese. Il giocatore nato a Palermo ha utilizzato termini molto forti per espirimere la propria opinione: “Premetto, non sono di sinistra, non sono di destra e non prendo posizioni politiche da mai. Ragazzi i casi stanno ri-aumentando e sinceramente non mi capacito del perché. Abbiamo dovuto passare Natale e Capodanno così. Hanno chiuso per poi richiuderci e ora mi spiegate che zona rossa è questa con il traffico odierno quasi maggiore del solito? Tutti questi sforzi per poi arrivare a un altro lockdown? Ma è possibile che non si possa gestire l’Italia e chi vi abita in modo sano e onesto? L’Italia ragazzi è l’Italia, c’è poco da dire. È il paese forse più bello al mondo, ma sta degradando a causa di pochi e io ho il mal di stomaco”. Una dichiarazione, quella di Balotelli, destinata a far discutere, considerando l’importante seguito mediatico che il giocatore ha sul noto social network.

Risse e feste abusive, colpa di scuole e palestre chiuse. Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 25 gennaio 2021. Risse organizzate sui social, mascherine calate per un selfie guancia a guancia, la voglia di sballo che si traduce in feste abusive e capannelli fuori dai bar anche oltre l’orario di chiusura, con il più sveglio a fare da palo, non sia mai arrivasse la polizia. Scene di ordinaria follia di una gioventù annoiata, costretta a reprimere quell’innato senso di aggregazione, tipico della verde età. Non c’è l’uscita con gli amici, non c’è attività sportiva, non c’è (soprattutto) la scuola in presenza a scandire giornate altrimenti vuote, con la sua routine fatta di sveglie alle 7, lezioni, interrogazioni e compiti. Ma anche di continuo confronto con gli insegnanti, di sforzo intellettuale, di preteso rispetto delle regole. «Quando la didattica non si svolge in classe questi problemi possono verificarsi» ammette al Quotidiano del Sud Francesco De Rosa, dirigente del Centro paritario Napoli est e presidente dell’Associazione nazionale presidi Campania. «È venuta meno – continua – la possibilità di controllo. Non solo: da quest’anno cittadinanza e Costituzione sono diventate materie obbligatorie. I ragazzi le hanno accolte positivamente ma se potessimo insegnarle in classe sarebbe meglio». Ma attenzione a collegare gli episodi di inciviltà legati al mancato rispetto delle normative anti Covid alla presunta perdita di autorevolezza della scuola. «La nostra funzione educativa rimane intatta – spiega De Rosa – altrimenti dovremmo chiudere bottega». La quasi totalità degli studenti, precisa, «rispetta gli insegnanti e gli episodi di minacce e insulti ai docenti emersi prima della pandemia sono casi isolati. Pochissimi se raffrontati a 8 milioni di scolari. Anche per questo fanno notizia». Intanto qualche speranza per una ripresa dell’attività ordinaria, per gli istituti di ogni ordine grado, è arrivata dal Cts. «La normalizzazione è il mio grande auspicio – dice De Rosa – in Campania per fortuna, rispetto a un paio di mesi fa, la situazione dei contagi sta tornando su livelli accettabili, nonostante il numero dei morti continui a essere importante. Resta la paura di genitori e operatori scolastici. Spero che quanto prima si arrivi a vaccinare tutta popolazione scolastica, anche se i ritardi registrati negli ultimi giorni sulla distribuzione delle dosi non aiutano». Ma le difficoltà non frenano la macchina dell’istruzione, specie per ciò che attiene alla conclusione dei singoli cicli scolastici. Giusto giovedì scorso la ministra Lucia Azzolina ha annunciato l’intenzione di voler replicare l’esperienza del maxi orale per la prossima maturità. «È una formula validissima – commenta il presidente dell’Anp Campania – le dico che dopo 30 anni di esami, solo lo scorso anno ho capito la sostanziale inutilità delle formule precedenti. Riflettiamoci: dopo 5 anni di superiori siamo perfettamente in grado di valutare se un alunno sa tradurre un testo dal greco, fare un tema di italiano o risolvere un problema matematico. Dunque che senso ha chiedergli di svolgere queste prove alla maturità? E’ solo stress…». De Rosa si spinge ad affermare che «il maxi orale dovrebbe essere mantenuto anche quando avremo superato l’emergenza sanitaria e credo che se la situazione politica non dovesse cambiare verrà confermato. Questa formula consente di chiudere la pratica nel giro di un’ora e gli esami in tempi accettabili. In ogni caso resta salva la possibilità di non ammettere e di bocciare». Oltretutto «la discussione di un elaborato si avvicina molto a quella della tesi di laurea», dunque può essere utile in ottica universitaria, anche tenendo conto che «ormai lo studio universitario si è semplificato. Siamo nell’epoca degli atenei telematici, non dimentichiamolo». Chi continuerà a non svolgere una prova finale sono gli alunni di quinta elementare che, insieme ai compagni della quarta, da giovedì scorso sono tornati in presenza anche in Campania. Il Tar ha infatti adeguato l’ordinanza regionale – che disponeva la dad per gli ultimi due anni della primaria – alla normativa nazionale. «A livello a amministrativo le scuole sono sempre rimaste aperte, dunque ci siamo fatti trovare pronti per il rientro degli allievi – sottolinea il dirigente – non si poteva andare avanti all’infinito con le lezioni a distanza. Creano disabitudine alla frequenza e, checché se ne dica, non sono il modo migliore di insegnare».

“MI FATE UNA CENSURA DI STATO PERCHE’ NON USO LA MASCHERINA?”. Da video.corriere.it il 22 gennaio 2021. Alberto Matano taglia il collegamento al ristoratore no mask. È successo durante la puntata de «La vita in diretta», su Rai 1. Quando il conduttore si è reso conto che il suo ospite non aveva la mascherina l’ha prima ripreso poi ha deciso di tagliare il collegamento: «La mascherina va indossata, è un presidio di sicurezza per tutti».

Il timido odio per gli imbranati che non sanno tenere la mascherina sul naso.  Guia Soncini su L'Inkiesta il 23/1/2021. Ieri sono scesa a prendere i pacchi accumulati in portineria. Un incipit così avvincente non può che preludere a una poderosa metafora. Scendo pronta a ritirare i pacchi, rientrare in ascensore, risalire, e quando arrivo al piano terra ci sono padre e figlio che aspettano di prendere il mio ascensore. Quello sul quale tra poco dovrò risalire. Il figlio ha il naso fuori dalla mascherina. Poiché, come Robbie Williams, «non ho paura di morire: è che non voglio», tutto il ritiro dei pacchi e la risalita si svolgono in un clima di paranoia. Quel ragazzino avrà starnutito in ascensore, come minimo. Respirerò il suo moccio virale, come minimo. Morirò d’altrui distrazione. Non esco mai, e poi mi ritrovo a morire come una fessa, morire d’ascensore appestato da un ragazzino che non sa tenersi la mascherina sul naso. Non è mica solo il ragazzino, eh. Il Bill Clinton col naso fuori dalla mascherina, alla cerimonia d’insediamento di Biden, non l’ho notato solo io: ieri sul New York Times c’era una articolo sul fatto che la mascherina abbassata è il nuovo manspreading. Il manspreading l’ho sempre liquidato come una scemenza identitaria: non so se gli uomini stiano seduti a gambe larghe, perché quella seduta più scompostamente sono sempre e comunque io (stessa cosa per il mansplaining: non so se gli uomini interrompano insofferenti le interlocutrici, perché in qualunque conversazione quella che prevarica di più sono comunque io – e tutto questo senza neppure cambiarmi i pronomi). Il naso fuori, però, è una mia fissazione. Ma anche qui, non ho notato se siano più gli uomini. Il tizio del NYT dice che potrebbe essere che agli uomini servisse più ossigeno, ne consumano di più anche in immersione. Farei presente che l’ossigeno dalla mascherina passa (sennò a quest’ora saremmo tutti morti). Ma, davvero, ignoro se sia questione di genere sessuale. Noto solo che tenersi una diavolo di mascherina in faccia sembra un’impresa più complessa del costruire un ponte, per l’occidentale medio. In una puntata di Southpark andata in onda a settembre, le mascherine venivano chiamate «pannolini per il mento». Quando il Fauci del caso cercava di spiegare ai cittadini che la mascherina andava tenuta in faccia, non sotto il mento, quelli gli davano del cretino: ma le pare che tengo un pannolino sulla bocca. Persino Barack Obama a un certo punto aveva il naso fuori dalla mascherina, scrive il New York Times, e in quel “persino” c’è tutta l’esasperazione di noialtri che osserviamo i migliori, i più intelligenti, i più buoni, i best and brightest non saper eseguire un’operazione semplice quale tenersi quella cavolo di mascherina in faccia. Che poi: a me non scivola mai. Ma mai mai mai. La metto, e lì sta finché non la tolgo. L’Esselunga recapita forse a me gli unici pacchi di mascherine non difettose, e a tutti gli altri roba con gli elastici laschi? Il rosticciere di Eataly al quale devo dire cinque volte, nel tempo necessario a incartarmi un pollo, di tirarsi su la mascherina: da dove vengono i suoi elastici? (E chi mi ridarà la serenità perduta, a me che mangio il pollo chiedendomi se il suo naso ci avrà sgocciolato sopra?) Il mio avvocato che viene ripreso dal giudice, mentre fa la sua brava arringa, perché gli è scivolata giù la mascherina: cos’hanno che non va i suoi elastici? (Se Tom Cruise in Codice d’onore si fosse dovuto fermare per aggiustarsi la mascherina, Jack Nicholson non avrebbe mai ammesso d’aver dato ordine d’ammazzare la recluta). I tizi sul Frecciarossa, quattro ore d’agonia a osservare nasi: tutti, tutti, tutti stanno col naso fuori dalle mascherine; s’io fossi il genere di rompicoglioni che gliene chiede conto, mi direbbero che si sentono soffocare, poveri pulcini? A farmi capire che non si tratta d’elastici laschi sono i tizi sul tram numero 9; che, quando punti contro di loro il telefono (l’arma d’autodifesa più efficace ma più inquietante di questo nostro tempo), si tirano su la mascherina capendo che stai per fotografarli e svergognare la loro inadempienza. Quindi lo sapete che il naso non deve stare fuori. Quindi non siete distratti, siete proprio cialtroni. Oppure non avete capito come funziona. Un po’ come quelli che hanno parlato all’insediamento di Biden, che arrivavano con la loro brava mascherina e poi se la toglievano per parlare al microfono. Ma, benedetti figlioli, è proprio quando parli e sputacchi che la mascherina deve coprirti gli orifizi. L’altro giorno il mio dirimpettaio sul Frecciarossa è sceso a Firenze a fumare, e quando è risalito non s’era rimesso la mascherina. S’è seduto, e ha fatto una lunga telefonata, sputacchiando bel bello senza mascherina. L’ho guardato feroce, perché sono così mitomane da credere che un mio sguardo accusatorio ti ricondurrà, tremebondo, nei binari del vivere civile. Niente. Dopo dieci minuti, esasperata, ho alzato la voce: scusi, la mascherina. Se l’è rimessa con tante scuse, e ha chiuso precipitoso la telefonata. Evidentemente convinto che con la mascherina, oltre che l’ossigeno, non passi la voce. Avete notato che la gente con mascherina, per strada al telefono, urla come se uno strato di garza la rendesse inudibile? Dev’esserne convinta anche la portavoce di Biden, che martedì è salita per la prima volta sul pulpito della sala stampa e ha annunciato l’iniziativa “100 giorni in mascherina” con cui il presidente chiedeva a tutti di fare il loro dovere, di non stare senza mascherina in edifici federali eccetera. Lei, dalla sala stampa della Casa Bianca, dettava una regola che non stava rispettando, essendo senza mascherina. Probabilmente convinta che, senza, non l’avrebbero sentita. Speriamo il NYT ci dica presto se è un’eccezione, in quanto donna. 

Anna Guaita per “il Messaggero” il 14 febbraio 2021. Se una funziona, due funzionano meglio. Già da tempo negli Usa si era diffusa la convinzione che indossare due maschere anziché una sola fosse preferibile. Dopotutto varie personalità bene informate, a cominciare dallo stesso dottor Anthony Fauci, si erano viste in giro con una mascherina sanitaria celeste coperta da una di tessuto a trama fitta. Infine, mercoledì scorso, è venuta la conferma dei Cdc, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, che hanno effettuato un esperimento in laboratorio per confermare scientificamente che la teoria è fondata: meglio due mascherine che una sola. C' è tuttavia da fare un distinguo importante, e cioè che i Cdc hanno condotto l' esperimento solo con due tipi di mascherine - una sanitaria e una di tessuto - e non si può essere certi che l' eccellente efficacia dimostrata dal test sia riproducibile se si cambia il tipo di copertura facciale. I tecnici dei Cdc hanno preparato due manichini che imitavano la funzione respiratoria, e hanno provato varie situazioni, la prima con solo un manichino che indossava una maschera sanitaria, la seconda con il manichino che indossava due maschere, una sanitaria e una di tessuto, e la terza con tutti e due i manichini con maschere sanitarie ben aderenti al volto coperte da una maschera di stoffa. Ebbene, se nel primo caso la maschera riusciva a fermare solo il 42% delle goccioline respiratorie, nel secondo si arrivava all' 83%, mentre nel terzo caso, con tutti e due i manichini debitamente coperti, si saliva al 96,5%. In gran parte la doppia copertura serve a far meglio aderire la prima maschera, e a evitare che l' aria fluisca lateralmente. Per evitare i difetti delle mascherine sanitarie troppo cedevoli, suggeriscono i Cdc, si potrebbe però semplicemente renderle più aderenti. Già da mesi ad esempio viene insegnato alle infermiere degli ospedali come fare un nodo agli elastici che devono passare dietro alle orecchie. Il nodo va fatto vicinissimo alla maschera, e il tessuto va piegato all' interno, in modo che lungo la guancia ci sia una maggiore aderenza. La maschera deve essere formata almeno di tre strati, e deve coprire bene anche il mento. Inoltre i Cdc raccomandano di non toccare mai la parte anteriore della maschera per aggiustarsela meglio. Su quella parte sono depositate le goccioline respiratorie degli altri e potrebbero facilmente contenere virus. Per aggiustare la mascherina, bisogna sempre agire sugli elastici. E comunque mai tenerla sotto il naso, anche questo un errore spesso compiuto per distrazione. Il test non è stato condotto con maschere del tipo N95, giudicate già da sole in grado di proteggere dal 95% dei virus. La raccomandazione della doppia copertura giunge negli Usa in coincidenza con il diffondersi della variante inglese del Covid, che si sta dimostrano estremamente contagiosa e pericolosa. Secondo Anthony Fauci entro la fine di marzo la variante inglese sarà la versione dominante del virus negli Usa. Per l' appunto, dopo una terza ondata micidiale, che ha fatto salire il numero dei morti oltre 475 mila, si stava proprio in questi giorni registrando una lieve flessione nel numero dei ricoveri. L' ottimismo davanti a questi dati è stato subito gelato dal timore della diffusione a tappeto della variante inglese, e da lì la raccomandazione dei Cdc affinché la gente si protegga ancora meglio. Certo c' è da dire, come ricorda il professor John Brooks, uno degli autori dei test, che ancora non è stata neanche vinta la battaglia perché tutti indossino almeno una maschera, nonostante «ci siano prove convincenti che nelle comunità che adottano la copertura facciale, le infezioni calano». In 14 degli Stati dell' Unione le maschere sono obbligatorie e il presidente Biden le ha rese obbligatorie negli uffici e i luoghi federali, ma sono ancora milioni coloro che le rifiutano. Fauci insiste che probabilmente sarà necessario invece indossarle fino a tutto l' autunno prossimo, nonostante la diffusione del vaccino. Il lavoro dell' immunologo italo americano è stato riconosciuto dalla National Italian American Foundation (NIAF) che ha annunciato due borse di studio a lui intitolate per ricercatori italiani che lavorino nel campo delle malattie infettive in Italia e italo-americani negli Usa.

Indossare due mascherine serve? La risposta arriva dall'America. Le Iene News l'11 febbraio 2021. Una ricerca dei Cdc statunitensi dice di sì: aiuta contro i contagi da coronavirus, addirittura raddoppiando la protezione. Ecco i dati e consigli dell’ente di controllo sulla sanità pubblica americana su una domanda che ci siamo fatti in tanti, soprattutto dopo questa foto del più famoso immunologo Usa Anthony Fauci. Two is megl che one, come nel famoso spot dei gelati? Ce lo siamo chiesti in tanti: indossare due mascherine una sull’altra aiuta a prevenire i contagi da coronavirus? La domanda era tornata ancora attuale quando Anthony Fauci, una delle massime autorità tra gli immunologi statunitensi, famoso anche per le sue dispute sul Covid con Donald Trump, era comparso in pubblico a fine gennaio con la doppia mascherina consigliando poi di prenderla in considerazione per tutti. La misura è stata adottata in più occasioni anche dal neopresidente Usa Joe Biden durante la campagna elettorale. La risposta arriva ora sempre dall’America e dai Cdc, i centri di controllo e prevenzione sulle malattie, un fondamentale ente che monitora la sanità pubblica statunitense analogo al nostro Iss. Sì, indossare una mascherina di stoffa sopra a una FFP2 come Fauci nella foto qui sopra, ma anche sopra una semplice mascherina chirurgica (quelle azzurre, per capirci), aiuta e molto. Blocca infatti fino al 92,5% delle particelle infettive. I dati arrivano della ricerca Cdc sono stati appena comunicati. Indossando due dispositivi la protezione dai contagi si riduce dell’80%, più del doppio del 40% garantito da uno solo di stoffa o chirurgico. Quando si incontrano due persone con doppia mascherina, si arriva fino al 92,5%. "Continuiamo a raccomandare che coprano completamente naso e bocca e che aderiscano bene al volto”, ha detto la dottoressa Rochelle Walensky, direttore del Cdc, presentando i dati alla Casa Bianca: è proprio quello che garantisce una doppia mascherina. "Tutti dai due anni in sé dovrebbero indossarne almeno una in pubblico o in presenza di persone con cui non vivono”.

Silvia Turin per corriere.it il 28 gennaio 2021. L’immunologo Anthony Fauci, massimo esperto americano di malattie infettive appena nominato consigliere del presidente Joe Biden nella task force contro il coronavirus, ha appoggiato l’idea di calzare sul viso due mascherine: «Probabilmente aiuta», ha detto intervenendo in tv sul tema delle mutazioni del virus e sulla necessità di prendere provvedimenti anche personali per ostacolare l’ulteriore diffusione del SARS-CoV-2. «È semplicemente logico che sarebbe più efficace», ha concluso in merito. Indossare due mascherine una sull’altra è una strategia consigliata da alcuni esperti in situazioni particolarmente rischiose: posti affollati o visite ospedaliere, ad esempio. Le soluzioni più in voga sono una mascherina chirurgica o FFP2 con sopra una di stoffa bene aderente, oppure una mascherina di stoffa a tre strati con in mezzo quello filtrante: sulla bocca stoffa per assorbire l’umidità, in mezzo il filtro per le particelle più piccole e stoffa all’esterno per bloccare le goccioline più grosse e aderire bene al viso.

Il parere dell’esperto. C’è una validità scientifica che sostiene il consiglio? Lo abbiamo chiesto a un esperto di particelle, Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia): «Il doppio mascheramento (double masking, come lo chiamano in Usa, ndr) può aiutare a colmare eventuali spazi vuoti. La protezione data dalle mascherine è completa se le mascherine assolvono ai requisiti di filtrazione e aderenza al volto (“vestibilità”): per bloccare le goccioline di grandi dimensione l’aderenza perfetta non serve, ma le goccioline piccole (chiamate aerosol, ndr) sfuggono dai bordi. La mascherina deve sigillare il viso. Ecco allora che può essere una buona idea provvedere alla capacità filtrante con una mascherina chirurgica o FFP2 e all’aderenza al volto con una mascherina di stoffa messa sopra . Se si riesce ad aggiungere un tessuto che in qualche modo fa aderire meglio le mascherine, si raggiunge una protezione che arriva anche al 90 per cento», conclude l’esperto.

Per una protezione più ermetica. Nella realtà, infatti, dobbiamo confrontarci con mille situazioni differenti: la barba, il viso piccolo, le mascherine troppo grandi, gli occhiali… qualunque soluzione che renda la protezione più ermetica servirà meglio allo scopo. Naturalmente, senza compromettere la respirazione. Aumentare l’efficacia delle mascherine o comunque fare in modo che servano davvero allo scopo è fondamentale: un’ampia revisione appena pubblicata dalla prestigiosa rivista scientifica PNAS ha concluso che le mascherine sono una misura chiave per ridurre la trasmissione del SARS-CoV-2 nella comunità ed è «più efficace quando la conformità (l’aderenza di massa alla misura stessa) è alta».

La «scomparsa» dell’influenza. Lo dimostra in modo indiretto la quasi scomparsa dell’influenza nella presente stagione. Nella 3a settimana del 2021, l’incidenza delle sindromi simil-influenzali continua ad essere stabilmente sotto la soglia base con un valore pari a 1,5 casi per mille assistiti. Nella scorsa stagione in questa stessa settimana il livello di incidenza era pari a 10,7 casi per mille assistiti. Sono i dati settimanali della sorveglianza influenzale in Italia, ma è così in tutti i Paesi. Le sindromi simil-influenzali, molto meno contagiose rispetto al Covid-19, sono state abbattute dalle misure messe in campo e il dato, in modo indiretto, ci dice che ci stiamo muovendo nel modo corretto, ma anche che il SARS-CoV-2 è molto più difficile da estirpare, specie se le mutazioni in corso favoriscono la sua maggior trasmissibilità. Ben vengano allora tutti i sistemi, anche quelli un po’ empirici come la doppia mascherina, per migliorare la comune resistenza al diffondersi dell’infezione.

Francesco Malfetano per “il Messaggero” il 29 gennaio 2021. «È evidente che le Ffp2 hanno una capacità di filtraggio maggiore rispetto alle mascherine chirurgiche o di comunità (le mascherine di stoffa ndr). Per cui potrebbe avere un senso renderle obbligatorie a bordo degli autobus o all' interno di locali chiusi, ma c' è un problema di fornitura oltre che di costo». Il coordinatore del Comitato tecnico scientifico (Cts) Agostino Miozzo avverte che l' ipotesi di rendere obbligatorie le Ffp2 a oggi non è stata ancora esaminata nelle riunioni del Cts. Ma non nega che il tema esista. Con il diffondersi di nuove varianti del virus, più contagiose, sarebbe importante proteggersi con un dispositivo dalla maggiore capacità filtrante. In altri Paesi la questione è all' ordine del giorno.

IN FRANCIA. «L' unica cosa che possiamo fare è migliorare le armi che abbiamo già» dicono gli esperti dell' istituto Pasteur di Lille, in Francia, che la settimana scorsa hanno aperto il dibattito sull' opportunità di rendere obbligatoria la mascherina Ffp2 contro le varianti del Sars-Cov-2. Una discussione che se nel Paese non ha portato a nuove decisioni, le ha invece prodotte altrove. In Austria e nel land della Baviera ad esempio, hanno scelto di imporre l' uso di queste mascherine con un maggiore potere di filtraggio negli ambienti chiusi e a bordo dei mezzi pubblici. Una posizione, al momento non sostenuta da evidenze scientifiche ma basata sul buon senso, su cui starebbe riflettendo anche il governo degli Stati Uniti. Il neo-presidente Joe Biden in effetti, più volte, anche durante le manifestazioni ufficiali di insediamento, ha mostrato di preferire il dispositivo recante la dicitura KN95 equivalente alle nostre Ffp2. Tuttavia lo scoglio del prezzo e della difficile reperibilità delle mascherine avrebbe frenato la sua intenzione di imporla negli Stati americani. Tuttavia il tema preoccupa.

L'ESEMPIO USA. Non è un caso quindi se, in attesa di riscontri scientifici più evidenti, nei giorni scorsi l' immunologo Anthony Fauci, massimo esperto Usa di malattie infettive, appena nominato consigliere da Biden nella task force antiCovid, ha invitato gli americani ad indossare due mascherine. «Probabilmente aiuta» ha spiegato in un suo passaggio in tv, correlando l' uso raddoppiato ad una maggiore efficacia nei confronti delle mutazioni del virus. «È semplicemente logico che sarebbe più efficace» ha concluso. Il prezzo e la capacità produttiva sono i due principali ostacoli a un uso generalizzato delle mascherine Ffp2. Ed è soprattutto questo a frenare le autorità sanitarie italiane. Da noi per acquistare una mascherina di questo tipo servono come minimo due euro. «E come facciamo ad obbligare chi prende ogni giorno l'autobus spendendo un euro e mezzo di biglietto a spenderne due per una mascherina?» si chiede un componente del Cts. E poi c' è il problema dell' approvvigionamento. Per le mascherine chirurgiche, dopo le grandi difficoltà iniziali, l' Italia è riuscita ad assicurarsi forniture stabili e di grandissime dimensioni, se ne distribuiscono diversi milioni al giorno. Ma così non è per quelle di livello superiore. Eppure per qualcuno sarebbe esattamente la mossa da compiere, magari sovvenzionando la spesa sostenuta dai cittadini attraverso un contributo da parte dello Stato.

QUELLE DA ABOLIRE. E magari accompagnando la sovvenzione con un provvedimento normativo di altro tipo: «Una delle misure che si possono prendere subito per rallentare la diffusione della variante inglese è abbandonare le mascherine di cotone. Vanno sostituite con Ffp2 al chiuso», ha detto Giorgio Gilestro, neurobiologo e docente all' Imperial College di Londra. Lo Stato, secondo l'esperto, «dovrebbe ovviamente sovvenzionare una mossa di questo tipo, l' investimento pubblico in termini di rischio è chiaro».

Da inutili a obbligatorie anche all’aperto, il cambio di rotta sulle mascherine. Andrea Gagliardi su Il Sole 24ore il l'8 ottobre 2020. Le mascherine sono diventate sempre più indispensabili per il contenimento del Covid. Eppure, nelle prime settimane dell'emergenza, leader politici e soprattutto delle istituzioni sanitarie si affrettavano a dire che le mascherine non servivano a chi non era contagiato.  Prima inutili per le persone sane, poi obbligatorie solo al chiuso, infine necessarie anche all’aperto. Le mascherine sono diventate sempre più parte integrante della nostra estetica ma soprattutto delle misure di sicurezza anti Covid. Con un cambio di rotta graduale ma costante. Fino all’ultimo decreto legge in vigore dall’8 ottobre che prevede «l’obbligo di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie» e l’uso l’obbligatorio non solo nei luoghi al chiuso aperti al pubblico, ma anche «in tutti i luoghi all'aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi».

Il refrain delle mascherine inutili. Eppure, nelle prime settimane dell'emergenza, leader politici e soprattutto delle istituzioni sanitarie si affrettavano a dire che le mascherine non servivano a chi non era contagiato ed era inutile la corsa nelle farmacie (dove peraltro erano introvabili). «Le mascherine per le persone sane non servono a niente», diceva il 25 febbraio Walter Ricciardi, nella sua prima uscita pubblica da consulente del Ministero della Sanità. «I presidi medici vanno riservati a medici e infermieri, bisogna farne un uso intelligente: usare la mascherina non ha senso se si mantiene la distanza. Non la indosso se sto a un metro e mezzo di distanza» sosteneva il 19 marzo Alberto Villani, presidente della società italiana pediatria. «Oggi non è necessario, per chi riesce a mantenere le distanze e a rispettare le indicazioni che sono state date, utilizzare le mascherine» gli faceva eco il 3 aprile il capo della Protezione Civile Angelo Borrelli, in conferenza stampa per i dati giornalieri sui contagi sempre senza mascherina.

Il cambio di rotta dell’Organizzazione mondiale della sanità. Ma il cambio di rotta più netto è stato quello dell’Oms. Da quando è scoppiata la pandemia di Covid-19, l’Organizzazione mondiale della sanità ha cambiato orientamento, anche in maniera radicale.Il 6 aprile, quando il virus era ormai conclamato, l'Oms affermava che le mascherine erano essenziali soltanto per malati e personale sanitario. Invitava alla cautela rispetto all'uso generalizzato, sottolineando che non ci sono sufficienti prove scientifiche del fatto che le mascherine aiutino una persona sana a evitare l'infezione («esistono prove limitate che indossare una mascherina da parte di individui sani nelle famiglie o tra i contatti di un paziente malato o tra chi si trova in posti con altre persone possa essere utile come misura preventiva»). E ammoniva sul falso senso di sicurezza che potrebbero infondere nella popolazione, con l'abbandono di altre misure essenziali, come le pratiche di igiene delle mani e il distanziamento sociale. In sintesi, l'Organizzazione lasciava ai singoli stati la decisione perché «il vasto uso di mascherine tra la popolazione non è sostenuto da nessuna prova e comporta una serie di incertezze e rischi».

Il dietrofront a giugno. Due mesi dopo, il 6 giugno, gli esperti internazionali fecero dietro front: «Le mascherine da sole non bastano, ma servono a proteggere sé stessi e gli altri» è diventata la linea dell’Oms. Quindi vanno certamente indossate nei trasporti pubblici, i negozi o in altri ambienti chiusi e affollati «perché forniscono una barriera per le goccioline potenzialmente infettive». L'ultima presa di posizione è del 21 agosto, con la raccomandazione - nelle nuove linee guida stilate con l'Unicef - che i bambini sopra i 12 anni indossino le mascherine proprio come gli adulti, cioè «quando non possono garantire una distanza di almeno un metro dagli altri e dove c'è una trasmissione diffusa».

Coronavirus, allarme dei medici: "La variante inglese contagia anche chi indossa le chirurgiche". Laura Barbuscia,  Luca Monaco su La Repubblica il 28 gennaio 2021. Meno aggressiva ma più contagiosa, la variante inglese del Covid in città. Bartoletti: "Il virus si sta adattando alle contromisure che usiamo per proteggerci". Meno aggressiva ma più contagiosa, la variante inglese del Covid prolifera in città. "Buca" le mascherine nei luoghi chiusi. Contagia anche chi si attiene in maniera stringente alle disposizioni di sicurezza. Risultato? Si abbassano l'età media dei malati e la loro capacità di saper collaborare alla ricostruzione dei link epidemiologici. "Sempre più spesso - afferma Pier Luigi Bartoletti, il responsabile della task force anti-contagio Uscar dei medici e degli infermieri volontari - quando chiediamo a un paziente che si è appena scoperto positivo come ha contratto il virus, ci sentiamo rispondere "Non ne ho idea"". Il ché non sarebbe immotivato. "Il virus si sta adattando alle contromisure che usiamo per proteggerci - dice Bartoletti - la variante inglese ha una carica virale più bassa, il ché non significa che sia meno pericolosa". Perché se invece di contagiare cento persone ne contagia mille, "è chiaro che infetta più malati - fa notare Bartoletti - la letalità si misura sulla percentuale dei malati aggrediti dal virus". Il ragionamento non muove da uno studio scientifico, ma dalla casistica riscontrata sul campo da diversi medici di famiglia, al lavoro da Roma Nord al Torre Angela. "Non abbiamo evidenze scientifiche - premette Francesco Buono, nel suo studio in via di Villa Severini, a Corso Francia - notiamo però una maggiore diffusività del virus". Su 1540 pazienti, Buono ha attualmente in cura "circa 20 positivi, senza sintomi gravi - rileva - la maggior parte ha scoperto di avere il covid per caso". Storie che ricorrono all'altro capo della città. "Rispetto a ottobre ho più giovani tra i positivi e con una carica virale più bassa - aggiunge Ombretta Papa, medico di famiglia a Torre Angela - i miei 20 contagiati, su 1.500 pazienti, hanno un'età compresa tra i 20 e i 50 anni. Quasi tutti non accusano sintomi gravi e contagiano le famiglie. Come i due 30enni che mi hanno contattata 10 giorni fa, sono convinti di averlo preso mentre facevano sport all'aria aperta. Non sanno ricostruire il link". Perché "la variante inglese ha una capacità infettiva più alta, fino al 70%", conferma Walter Ricciardi, il consigliere scientifico del ministro della Salute per la pandemia da coronavirus e professore di Igiene all'Università Cattolica di Roma. "Se indossiamo le mascherine chirurgiche o di stoffa in un luogo chiuso e non areato, senza mantenere la distanza di sicurezza, il virus inglese penetra meglio nelle mucose e quindi la probabilità di infettarsi aumenta". Mentre "se utilizziamo le mascherine Ffp2, Ffp3, che esercitano un'azione filtrante, il pericolo non sussiste - assicura - dobbiamo adottare misure più rigide per evitare il contagio. Nessuno studio conferma la sua aumentata capacità di sopravvivere più a lungo sulle superfici". Anzi, "la trasmissione a seguito di contatto con le superfici contaminate -  ragiona Enrico Di Rosa, il direttore del Servizio igiene sanità pubblica della Asl Roma 1 - è marginale per tutte le varianti del virus". Sulla stessa linea di Ricciardi l'epidemiologo Massimo Ciccozzi, ordinario di Statistica medica ed epidemiologica molecolare al Campus Biomedico di Roma: "Sebbene la variante britannica sia più contagiosa, rispettando tre capisaldi: mascherina, distanziamento e gel igienizzante, la probabilità di infettarsi è minima anche con il virus mutato".

Anche l'Iss era negazionista: "Il Covid? È come l'influenza". Spuntano i verbali della task force di Speranza. A inizio febbraio i vertici dell'Istituto dicevano: "Pure l'influenza uccide". Giuseppe De Lorenzo, Martedì 26/01/2021 su Il Giornale. I “migliori cervelli di cui l’Italia dispone”, così li aveva elogiati Speranza, avevano preso una cantonata bella grossa. Il peggiore degli errori, quello in cui il ministro della Salute diceva fosse caduto “un pezzo rilevante del Paese”: la convinzione che “il Covid è solo una semplice influenza”. Nel suo libro, mai pubblicato, accusava politici e “alcuni (pochissimi) clinici” di considerare il coronavirus poco più di un raffreddore perché "si muore di influenza, non bisogna scandalizzarsi se si morirà anche di Covid”. Quello che Speranza nella sua opera non ha mai specificato, però, è che nel gruppone degli scienziati convinti che Sars-CoV-2 fosse poco pericoloso c’erano anche i suoi “migliori cervelli” dell’Istituto superiore di Sanità e dello Spallanzani. Gli stessi cui oggi ancora il governo si affida per combattere la diffusione del virus. La notizia emerge dai verbali della task force istituita il 22 gennaio in viale Lungotevere Ripa 1. Tranquilli: Speranza non ha deciso di renderli pubblici. La linea per ora, come rivelato dal Giornale.it, resta quella di affermare che le riunioni fossero solo un “tavolo informale” non istituzionalizzato. A riportare il contenuto di alcuni di quei verbali è stata Report e all’interno ci sono informazioni che, lette oggi, fanno sicuramente discutere. La composizione di quel tavolo è ormai nota (leggi qui). Ci sono la Direzione generale per la prevenzione, i carabinieri del Nas, l’Istituto Superiore di Sanità, gli esponenti dello Spallanzani, l’Umsaf, l’Agenzia italiana del farmaco, l’Agenas e pure il consigliere diplomatico. I presenti si vedranno spesso, anche nei giorni successivi. Nelle fotografie si riconoscono in particolare Silvio Brusaferro (presidente Iss), Giuseppe Ippolito (direttore scientifico Spallanzani) e Andrea Urbani (Direttore Generale della programmazione sanitaria). A volte partecipano Agostino Miozzo, della Protezione civile, e Ranieri Guerra, delegato dell’Oms. Un consesso di rilievo, insomma, di cui Speranza è più che orgoglioso. “Il SSN è dotato di professionalità, competenze ed esperienze adeguate ad affrontare ogni evenienza”, dice alla fine del primo incontro convinto che “tutto andrà bene”. I fatti lo smentiranno molto presto. Il verbale più interessante è però quello del 3 febbraio, tre giorni dopo la dichiarazione dello stato di emergenza. Ai presenti il rappresentante dello Spallanzani si dice certo che sia “verosimile che il virus si attenui nelle prossime settimane”. S’è visto. Non solo. Perché il brillante scienziato specifica pure che “attualmente la diffusione è simile a quella dell’influenza”. Niente più e niente meno dei peggiori negazionisti messi nei mesi successivi alla gogna. A dargli man forte si schiera pure l’Iss, che “conferma che i dati sono sovrapponibili a quelli dell’influenza”: “Dal 1 gennaio - mette addirittura a verbale - in Italia abbiamo 3 milioni e mezzo di abitanti a letto con l’influenza e diversi sono stati i morti, ma questo dato non fa notizia”. Posizione non così lontana da quella di un gilet arancione. “I sintomi del coronavirus e dell’influenza sono simili - aggiunge - Il virus dell’influenza ha un tasso di riproduzione più elevato rispetto al coronavirus ma il quadro radiologico in quest’ultimo è molto più importante. Sulla base delle esperienza pregresse ci sarà un picco e poi un rallentamento”. Tutte ipotesi rivelatesi piuttosto fallaci. La domanda che molti si pongono è: ci fu sottovalutazione? Checché ne scriva Speranza nel suo libro, le “professionalità” massime dello Stato caddero in un errore rivelatosi poi clamoroso. In fondo non è l’unica pecca. Basta ricordare l’affaire mascherine, prima spacciate per inutili e poi santificate. Oppure lo scivolone del 7 febbraio, un mese prima del lockdown, quando il ministero della Salute pubblica uno spot con Michele Mirabella con cui rassicura gli italiani sul fatto che “non è affatto facile il contagio” da coronavirus. Lo stesso giorno, stando ai verbali riportati di Report, lo Spallanzani rassicura i ministro dicendo che “il virus non è ancora arrivato in Italia in quanto non si è verificata alcuna trasmissione”. E l’Iss conferma che “in Italia non c’è circolazione del virus”. Il resto è ormai storia. Il 5 febbraio Stefano Merler presenta a Brusaferro i suoi calcoli drammatici, secondo cui il Belpaese rischia 70mila morti (una profezia più che una analisi). Il 12 viene ascoltato dal Cts, che a quel punto fa nascere un gruppo di lavoro per realizzare un “piano anti-Covid” specifico, presentato in bozza a Speranza già il 20 febbraio, poi approvato dal Cts a marzo e infine secretato. Ancora oggi è segreto. Il Tar ha obbligato il ministero a renderlo pubblico, e forse presto ne sapremo qualcosa in più.

Articolo di “El Pais” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 28 gennaio 2021. Una delle cose migliori che potrebbe emergere da questa pandemia è un impegno internazionale per stimolare l'Organizzazione mondiale della sanità (OMS). La questione è cruciale e il momento giusto per affrontarla. L'OMS è stata criticata per la sua gestione pandemica, ha reagito tardi e male con la Cina, per fare due esempi, e ha subito un attacco feroce da parte di Donald Trump, che ha tagliato la loro quota di bilancio e intasato il pianeta di tweet fuorvianti o pericolosi per rovinarne l'immagine. Ma una delle prime misure del nuovo Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, sarà di risanare quei danni, tornare nell'OMS e incorporare la razionalità scientifica nella sua politica. La cattiva gestione con la Cina è sfociata in una proficua collaborazione internazionale e le accuse di ritardi stanno per essere rivolte contro i governanti stessi che le hanno formulate. Quasi un anno fa, il 30 gennaio 2020, l'OMS ha proclamato il più alto livello di allarme nei suoi scali. Si chiama PHEIC, sigla inglese di emergenza sanitaria internazionale, e annunciava l'imminenza di una pandemia. Gli esperti critici ritengono che la PHEIC avrebbe dovuto essere dichiarata una settimana prima, e potrebbero avere ragione. Una settimana può sembrare un granello di polvere nella grande cornice delle cose, ma in una pandemia può significare la differenza tra controllarla o perderla di mano. Anche se sono critiche fondate, occupano solo un piatto della bilancia. Nell'altro piatto ci sono virtù che hanno più peso dei difetti. Sono stati gli Stati membri a non dare ascolto all'allarme dell'OMS del 30 gennaio, che raccomandava con urgenza di effettuare test diagnostici, tracciare i contatti dei positivi e adottare misure di allontanamento sociale. Possiamo biasimare l'OMS se ci è voluta una settimana per suonare la campana, ma non che i paesi abbiano impiegato due mesi per ascoltarla. Forse la prima cosa da risolvere è la nostra incompetenza, non quella del l'OMS. In un'iniziativa insolita che dovrebbe diventare quotidiana, l'OMS ha incaricato i suoi esperti e scienziati indipendenti di effettuare una revisione interna per valutare le proprie prestazioni durante la pandemia. È un esame che dovrebbe essere sottoposto a tutti i governi, che per il momento non danno segni di vita intelligente. Nelle sue conclusioni provvisorie vi è una scia di dati e dettagli utili agli specialisti, ma un messaggio comune in entrambe le relazioni è che il più grande errore dell'OMS non è stato dell'OMS, ma dei suoi Stati membri. Le relazioni sono fatte per identificare gli errori e correggerli. Se l'errore è che i governi non curano l'OMS, bisognerà correggerlo. Gli esperti cominciano a studiare i modi per farlo e i politici dovrebbero prestare attenzione alla questione. I paesi devono contribuire non solo al finanziamento dell'OMS, ma anche al miglioramento dei patti internazionali su cui si fonda questa indispensabile agenzia.

Era solo un'influenza? Report Rai PUNTATA DEL 25/01/2021 di Cataldo Ciccolella, Norma Ferrara, Giulio Valesini. Le indagini della procura di Bergamo hanno portato la Guardia di Finanza nelle stanze del ministero della Salute e dell'Iss. I funzionari che hanno gestito la prima ondata devono spiegare perché non hanno risposto immediatamente alla nota dell'Oms che il 5 gennaio dell'anno scorso diceva: "Prendete in mano i piani pandemici". Report è in grado di rivelare che per diverse settimane il nuovo virus fu sottovalutato e ancora a inizio febbraio un verbale della task force che supportava il ministro Speranza lo assimilava a una influenza. Nel frattempo la difesa dell'Oms alle richieste di trasparenza fa sempre più acqua, al punto da usare documenti confidenziali pubblicati proprio da Report, ma cambiandone la data. E per il whistleblower Francesco Zambon, che aveva denunciato la tentata manipolazione del rapporto sull'Italia, non è ancora chiaro cosa riserva il futuro.

ERA SOLO UN’INFLUENZA? di Giulio Valesini, Cataldo Ciccolella, Norma Ferrara Immagini Alfredo Farina – Paolo Palermo Montaggio Riccardo Zoffoli Grafica Giorgio Vallati.

SUGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora è dal 30 marzo scorso che ci occupiamo del piano pandemico, quello che avrebbe dovuto impedire la diffusione del virus e proteggerci. Bene ci torniamo su ancora una volta e ancora una volta con documenti inediti. Per capire che cosa è successo bisognerebbe riavvolgere il nastro e arrivare al 5 gennaio dell’anno scorso, quando l’Oms lancia un alert a tutti i Paesi: Attenzione c’è una polmonite di causa sconosciuta in Cina, mettete in pratica le misure di sanità pubblica e quelle sulla sorveglianza dell’influenza”. In altre parole l’Oms chiede ai paesi: mettete in campo, applicate i piani pandemici contro l’influenza. Il nostro governo dopo 17 giorni mette su una task force per guidare le scelte migliori per contrastare il virus. Chi c’è dentro quella task force e chi decide cosa. I nostri Giulio Valesini, Cataldo Ciccolella e Norma Ferrara sono venuti in possesso dei verbali inediti di quelle riunioni. E da quello che emerge, non rimane altro che… GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 29 gennaio. Al ministero della Salute c’è la riunione della task force. Giuseppe Ippolito, il direttore dello Spallanzani, per la prima volta indica la necessità di seguire “le metodologie del piano pandemico” per le risposte all’epidemia. Un piano, aggiunge, di cui l’Italia è dotata. Sono poche righe. Ad ascoltare intorno al tavolo ci sono anche Agostino Miozzo, Giovanni Rezza e Silvio Brusaferro dell’Istituto superiore di sanità e soprattutto il ministro della Salute, Roberto Speranza. Dai verbali si legge che nessuno risponde. Nei giorni successivi non vengono prese decisioni sul piano pandemico del 2006 che infatti non viene attuato.

CLAUDIO D’AMARIO Quel piano non è scattato dopo le prime avvisaglie.

GIULIO VALESINI Chi lo doveva fare scattare?

CLAUDIO D’AMARIO Viene fatto praticamente attivare dai vertici del ministero, ci vuole anche la condivisione della politica.

GIULIO VALESINI Quindi Speranza?

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018-20 Noi facciamo proposte. Non è che siamo decisori.

GIULIO VALESINI Voi vi siete assunti come responsabilità all’interno della task force di non attivare il piano pandemico del 2006.

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Il piano pandemico scatta quando viene diciamo dichiarata la pandemia, non scatta prima.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non è vero. Il 5 gennaio l’Oms lancia un alert internazionale: c’è una polmonite da eziologia sconosciuta in Cina, invita i paesi a seguire le “misure di sanità pubblica e sulla sorveglianza dell’influenza”. A seguire cioè le misure previste dal piano pandemico influenzale. Quindi già dal 5 gennaio sarebbe dovuta scattare la fase tre, livello uno: “allerta pandemica”.

GIULIO VALESINI Perché lì il ministero non ha fatto scattare la fase tre livello uno? Era un obbligo a quel punto, o no?

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Non era un obbligo, fu discusso anche all’interno della task force se il modello era quello più dell’influenza o il modello quello dell’andamento clinico della Cina e di Wuhan. E quindi fu proposto dall’Istituto.

GIULIO VALESINI L’Istituto superiore di sanità …

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Di sanità … uno studio per poter fare un piano Covid dedicato a questa nuova tipo di pandemia.

GIULIO VALESINI E fu condivisa anche dal ministro Speranza questa scelta?

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Le scelte delle task force sono state verbalizzate, condivise. Il piano pandemico del 2006 è tutt’ora il piano pandemico nazionale.

GIULIO VALESINI Quindi l’aggiornamento del 2017, cos’era?

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Ma era un aggiornamento del sito, non del piano.

GIULIO VALESINI E’ una presa in giro però, dott. D’Amario.

CLAUDIO D’AMATO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Io che il piano andava aggiornato l’ho, diciamo, saputo nell’estate 2018.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Queste dichiarazioni dell’ex direttore generale della prevenzione D’Amario potrebbero mettere nei guai il suo predecessore. Il direttore aggiunto dell’Oms Ranieri Guerra che davanti ai pm di Bergamo avrebbe detto di aver aggiornato il piano pandemico nel 2016.

GIULIO VALESINI Lei scrive una nota a settembre 2018 e dice: signori ministri… dobbiamo aggiornare il piano. Ok? prima riunione dell’aggiornamento del piano, aprile 2019. Sette mesi per convocare una riunione, prima riunione.

CLAUDIO D’AMARIO - DIRETTORE GENERALE PREVENZIONE 2018 – 20 Ogni ministero doveva individuare il referente per la commissione e il gruppo di lavoro. E gli ultimi nominativi son arrivati dopo quattro mesi. Non era considerata secondo me una priorità da nessun ministero.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Proprio sulle misure messe in campo dal Governo per fronteggiare il virus sta indagando la Procura di Bergamo.

ANTONIO CHIAPPANI - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI BERGAMO Ci interessa particolarmente sapere se il piano vigente a gennaio sia stato applicato, quale piano fosse.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una risposta alle domande della procura di Bergamo potrebbe essere contenuta in questo documento. La direzione di Claudio D’Amario il 5 gennaio scrive una nota per avvisare gli altri ministeri e la protezione civile dell’alert dell’Oms. La firma in calce è del dirigente del ministero Francesco Maraglino, anche lui pochi giorni fa dai pm di Bergamo come persona informata sui fatti.

FRANCESCO MARAGLINO – DIRIGENTE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Non posso farle dichiarazioni.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Francesco Maraglino in una riunione della task force del 15 febbraio parla del piano pandemico da aggiornare. Il giorno dopo indica la necessità di formare gruppi di lavoro per accelerare i tempi. Anche a questo incontro è presente il ministro Speranza. E anche in questo caso non vengono prese decisioni.

GIULIO VALESINI Davanti al ministro Speranza. Cosa le hanno risposto lì?

FRANCESCO MARAGLINO – DIRIGENTE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE La ringrazio, ripeto, sono dichiarazioni che non posso fare in questo momento.

GIULIO VALESINI Mi conferma solo una cosa?

FRANCESCO MARAGLINO - DIRIGENTE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Non posso confermarle niente...

GIULIO VALESINI Il piano pandemico italiano non scattò, non era stato aggiornato, eravamo preparati.

FRANCESCO MARAGLINO - DIRIGENTE PREVENZIONE MINISTERO DELLA SALUTE Non è questo il contesto, mi dispiace.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Leggendo i verbali della task force del ministro Speranza si scopre che c’è stata anche una certa sottovalutazione del Covid. La prima riunione avviene solo il 22 gennaio, 17 giorni dopo la nota dell’Oms. A emergenza internazionale dichiarata il 3 febbraio Giuseppe Ippolito rassicura tutti prevedendo l’attenuazione del virus. Rezza e Brusaferro rincarano la dose, per loro “i dati sono sovrapponibili a quelli dell’influenza” che fa morti ma non fa notizia. Eppure a fine verbale la protezione civile dovrebbe far rabbrividire tutti, hanno messo in quarantena Wenzhou, la città da cui viene il 90 percento degli immigrati cinesi in Italia”. Tuttavia, ancora il sette febbraio Ippolito e Istituto Superiore di Sanità sostengono che il virus non è arrivato da noi e che in Italia non c’è circolazione. Le riunioni della task force erano introdotte dalle relazioni del potente segretario generale Giuseppe Ruocco, una vita passata nelle stanze che contano del ministero, ascoltato anche lui pochi giorni fa dai pm di Bergamo sul piano pandemico.

GIUSEPPE RUOCCO – DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Non ho niente da nascondere ma non è il momento di rispondere a lei.

GIULIO VALESINI C’è una circolare del sette gennaio vostra …

GIUSEPPE RUOCCO – DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Vedi che ricomincia…

GIULIO VALESINI Dove c’è scritto “l’Oms ci dice di fare riferimento alla preparazione dei piani antifluenzali”, allora a quel punto perché non avete fatto scattare il piano pandemico? di chi fu la decisione?

GIULIO VALESINI La circolare l’ha letta? L’ha firmata Maraglino….

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Io le ho detto solo che è inutile che mi fa le domande non perché non le rispetti perché non posso rispondere.

GIULIO VALESINI Lei da quanti anni è che è al ministero? questo me lo può dire...

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Si certo, dal 1984…

 GIULIO VALESINI Lei è stato pure direttore generale della prevenzione o sbaglio?

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Sì, certo.

GIULIO VALESINI Io ho letto i verbali, c’è stata una sottovalutazione proprio clamorosa. Perché non avete stoccato i dispositivi di protezione individuale. Mi sembra una domanda importante.

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Ora non posso rispondere ….

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A proposito di dispositivi di protezione nella riunione di task force del 29 gennaio Giuseppe Ruocco accenna a generiche rilevazioni sul mercato per l’eventuale acquisto, solo due giorni dopo l’Italia dichiarerà lo stato di emergenza e i dispositivi sono introvabili. Giuseppe Ruocco è stato prima di Ranieri Guerra, dal 2012 al 2014, anche il direttore generale della prevenzione del ministero della Salute. Anche lui avrebbe dovuto aggiornare il piano pandemico del 2006.

GIULIO VALESINI Dal 2014, anzi dal 2009 il piano andava aggiornato, nel 2013 c’è la decisione del parlamento europeo, c’è la decisione del parlamento europeo… e lei all’epoca era direttore generale della prevenzione…

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 La 1082 del 2013.

GIULIO VALESINI La conosce?

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Certamente. L’ho negoziata io a livello comunitario.

GIULIO VALESINI Cioè impone agli stati di aggiornare il piano? questo esula … dal…impone o no? io l’ho letta…

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Sì.

GIULIO VALESINI Ecco e perché il ministero non l’ha aggiornato?

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Questo poi vediamo. GIULIO VALESINI Ma quindi la delibera era…

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Non era una delibera era una decisione…

GIULIO VALESINI Decisione… era…

GIUSEPPE RUOCCO– DIRETTORE GENERALE DELLA PREVENZIONE – 2012-2014 Ha un valore. Sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il piano pandemico italiano non è mai stato aggiornato e non è mai scattato. Il comitato tecnico scientifico decise di scriverne uno nuovo in risposta al Covid. Il 5 febbraio il ricercatore della fondazione Kessler, Stefano Merler, presentò all’Istituto superiore di sanità i possibili scenari calcolati su modelli matematici che prevedevano fino a 70mila morti entro l’anno. Più che uno scenario si è rivelata una profezia. L’aveva annunciata la prima volta al Cts il 12 febbraio 2020, al ministro Speranza. E’ solo allora che maturò l’idea di scrivere un piano d’emergenza. Il 20 febbraio c’è una riunione di un gruppo ristretto. E come andò ce lo racconta un funzionario del ministero della Salute.

FUNZIONARIO MINISTERO DELLA SALUTE Ci fu una riunione del gruppo ristretto di lavoro che doveva dettare i piani di risposta al Covid quello che poi fu il famoso piano segreto che Speranza continua a negare che esistesse. In quella sed, parlò anche un’altra persona, Alberto Zoli, il rappresentante Conferenza Stato-Regioni, di Areu Lombardia e che anche lui è membro del Comitato tecnico scientifico. Ora, nella bozza erano descritti i differenti impatti che poteva avere il Covid sul Paese e quindi i differenti scenari da adottare. Io so di per certo che a quella riunione partecipò anche il ministro Speranza e che quindi il ministro sapeva quelle che erano le conseguenze catastrofiche che il Paese avrebbe potuto subire. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dalle riunioni di quella task force, dai verbali inediti, presente sempre il ministro Speranza, emerge un’imbarazzante sottovalutazione del pericolo del virus. Ora hanno impiegato 17 giorni dopo l’alert dell’Oms per istituire la task force, poi una volta istituita dentro che cosa hanno fatto? Hanno prima detto, sottovalutato la pericolosità del Covid paragonandolo a quella di un’influenza semplice, poi hanno sottovalutato l’alert della Protezione Civile che diceva: guardate che hanno chiuso in Cina un’intera città, la stessa da dove partono i cinesi che arrivano in Italia, poi non hanno applicato, nonostante l’Oms lo consigliasse il piano pandemico influenzale. Ecco, l’ex direttore generale della Prevenzione Claudio D’Amario dice: io me ne sono accorto nel 2018 che quel piano era del 2006. L’ha confermato anche l’altro direttore, altro… ex direttore della Prevenzione Ruocco che è nel Ministero da quando aveva i pantaloncini corti sostanzialmente, dal ’84, che ci aggiunge anche un’altra informazione. Quel piano c’era l’obbligo di aggiornarlo nel 2013. Tuttavia nessuno lo ha fatto. L’ultimo, irriducibile Viet Cong è il direttore aggiunto dell’Oms Ranieri Guerra che continua a giurare che quel piano è stato aggiornato. Ecco, per noi di Report è certo una magra consolazione poter dire oggi: avevamo ragione.

Come i protocolli anti Covid oltraggiano i nostri morti. Claudio Romiti, 17 gennaio 2021 su Nicolaporro.it. Una società che non rispetta i morti e distrugge il futuro dei giovani è una società defunta, o almeno procede velocemente per diventarlo. Tutto ciò sta drammaticamente avvenendo in questo disgraziato Paese da quasi un anno: si oltraggiano i morti con il Covid, utilizzandoli come una clava politica per toglierci le libertà, e si usano i giovani degli aperitivi e della movida come capro espiatorio con il quale nascondere la gravi carenze logistiche e organizzative che stanno caratterizzando la guerra al medesimo Covid. Guerra gestita da un generalissimo dai poteri speciali, il commissario straordinario Domenico Arcuri, al quale sembra vietato, pena querela di parte, porre domande appena scomode.

Regime sanitario, i morti come propaganda. Per ciò che concerne i poveretti che non ci sono più (mentre scrivo in Italia abbiamo superato le 80.000 vittime con il Covid-19), che la propaganda del regime sanitario ci sventola sotto il naso ad ogni occasione per ricordarci che dobbiamo morire, continuano ad essere trattati con il barbaro protocollo dei primi momenti. Il defunto viene completamente immerso nella varechina e riconsegnato dentro un sacco nero, rigorosamente sigillato, ai parenti. Ora, non bisogna avere ottenuto il premio Nobel per comprendere che si tratta di un procedimento assolutamente insensato, dal momento che il Sars-Cov-2, essendo un virus a Rna è incapace di vita propria. Ciò significa in estrema sintesi che quando l’ospite in cui è installato muore, fatalmente muore anch’esso. Lo dimostra un accurato studio condotto nell’aprile scorso dal  professor Hendrick Streek, uno dei più accreditati virologi tedeschi. In sostanza, in una regione della Germania con elevata diffusione del coronavirus, lo staff diretto da Streek ha raccolto campioni biologici dagli oggetti più usati nelle abitazioni di alcune famiglie poste in quarantena a causa del contagio. Ebbene, in nessuno dei numerosi campioni prelevati era stato possibile coltivare il virus il laboratorio. Il Sars-Cov-2 era ancora molto presente, ma solo in forme residuali completamente inerti.

Le misure scellerate dei giallorossi. Ciò significa che si potrebbe evitare l’oltraggio al culto dei morti, che rappresenta uno dei principali passaggi evolutivi della specie umana, riconsegnando la salma intatta ai propri cari, con qualche minima precauzione in più rispetto ad una tradizione plurimillenaria. Invece si prosegue in questa barbarie la quale si lega con un sinistro filo rosso alle durissime restrizioni che stanno letteralmente distruggendo il futuro delle giovani generazioni. In altri termini, è come se si interrompesse quel profondo legame storico che, presente nel dna culturale di ogni società umana, lega i morti ai vivi. Ed è anche per questo che i vivi onorano da sempre i morti, la cui presenza immateriale nella nostra vita terrena ci ricorda che noi, nel bene e nel male, non siamo altro che gli ultimi staffettisti di una lunghissima corsa evolutiva.  Il problema è che di questo passo, con l’istruzione paralizzata dalle misure scellerate del governo e i nostri ragazzi criminalizzati dal partito del terrore, non ci sarà più nessuno a cui passare il testimone. Claudio Romiti, 17 gennaio 2021

Paolo Tomaselli per il “Corriere della Sera” il 15 gennaio 2021. Il 14 gennaio, ma di 45 anni fa, un comitato di studio della Federcalcio inglese si riuniva a Londra per valutare il divieto alle esultanze di gruppo per celebrare un gol: «Perché considerate nocive alla buona immagine dello sport». L' associazione dei calciatori incassò il colpo, promise di prestare più attenzione al decoro (niente gestacci o provocazioni al pubblico) e la crociata anti-abbracci finì lì. Oggi, nel pieno della recrudescenza della pandemia, il tema è tornato di prepotente attualità in Premier League dato che diverse partite vengono rinviate per l' elevato numero di positività tra calciatori. Ma, ricordando anche il precedente del 1976, sembra che il problema sia più legato all' immagine in sé, che all' effettiva pericolosità per la salute: il ministro dello Sport Huddleston ha espresso preoccupazione per i giocatori che non rispettano le regole quando festeggiano un gol, «mentre ai cittadini viene ripetuto di evitare ogni tipo di contatto stretto». «Alcune delle scene che abbiamo visto nei giorni scorsi sono state senza cervello e hanno trasmesso un messaggio terribile» aggiunge Julian Knight, che presiede il comitato della Camera dei Comuni che sovrintende alla politica sportiva. Sono già lontani i tempi in cui si festeggiava dandosi di gomito. E non solo in Inghilterra. Per far capire che non è solo una questione di cattivo esempio, sono scesi in campo virologi: «Se si creano degli assembramenti dopo una rete, significa che per diversi secondi si è in stretto contatto - spiega il dottor Tang dell' Università di Leicester - e questo può facilitare la trasmissione del virus. Prendiamo dei provvedimenti: se lo fai una volta, sei ammonito. Se lo rifai, sei fuori». Nella Jupiler League in Belgio è già così, con multa di 750 euro alla prima sanzione. Ma calciatori e allenatori di Premier sono scettici: «Il modo più sicuro per rispettare il divieto è quello di non segnare - scherza Carlo Ancelotti, tecnico dell' Everton -. Rispettiamo tutti i protocolli, ma per adesso non c' è una norma che vieti di festeggiare». Roy Hodgson, tecnico del Crystal Palace, scuote la testa come un vecchio zio: «Non so cosa possiamo fare di più per farlo capire ai giocatori - dice -. Sono abituati a far esplodere tutta la gioia». Un calciatore inglese, che vuole restare anonimo, spiega il suo punto di vista alla Bbc: «Sarà dura non continuare a festeggiare. Del resto, siamo vicini quando ci cambiamo, ci alleniamo, ci laviamo , ci sediamo in aereo. Il problema è un altro: il calcio sta andando avanti e forse molta gente non lo ritiene giusto. Così trova il modo per criticare».

Da "blitzquotidiano.it" il 14 gennaio 2021. Chi parla con molte P contagia di più perché la consonante P è quella che fa uscire più saliva e quindi più sputi, e se uno è positivo al Covid... Così dice uno studio, quindi meglio evitare parole con la lettera P come papà, pappa, e, visto il periodo, concedeteci anche un porca puttana. La trasmissibilità del virus infatti può essere influenzata non solo dal tono di voce, ma anche dalla ricorrenza di alcuni consonanti piuttosto che altre. In particolare, secondo i risultati di uno studio pubblicato sull’Irish Journal of Medical Science, la lettera P. Secondo gli autori della ricerca comporta l’emissione di più particelle di saliva. E dunque una maggiore probabilità di trasmettere il virus.

Covid e lettera P, cosa dice lo studio. Nella ricerca viene analizzato in particolar modo il comportamento di 4 consonanti (b,d,p,t) in quanto, si legge, “ci sono prove recenti” che rispetto ad altre possano causare una maggiore emissione di goccioline. Gli autori della pubblicazione sottolineano che si tratta di consonanti di uso molto comune nelle lingue di tutto il mondo. E la cui frequenza varia  dal 60 all’80%. Ciò “potrebbe suggerire” si legge tra le conclusioni, “che le lingue che utilizzano la consonante P con più frequenza abbiano una maggiore possibilità di trasmettere il virus”. Nello studio viene dunque evidenziato che quando usiamo la P emettiamo molte più goccioline. 

Con mascherine e distanziamento influenza sparita Covid no: motivo. Notizie.it il 15 gennaio 2021. Le norme anti-contagio stanno funzionando contro l'influenza, come dimostrato dai dati di monitoraggio, ma non contro il Coronavirus. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha segnalato che l’incidenza dei casi di influenza stagionale è molto al di sotto degli anni precedenti. Sta accadendo anche in Italia, dove i dati del monitoraggio epidemiologico InfluNet dell’Istituto Superiore di Sanità indicano che l’incidenza di sindromi influenzali è al di sotto della soglia di base.

Perché l’influenza è sparita. Su un totale di 1.450 campioni clinici analizzati dall’inizio del monitoraggio, nessuna persona è risultata positiva ad un virus influenzale, anche se sono stati rilevati 201 casi di positività al Coronavirus. Questo dato conferma che la tanto temuta sovrapposizione di Covid-19 e influenza stagionale non sta avvenendo. Le norme di igiene e di contrasto della pandemia, come l’uso delle mascherine e il distanziamento, stanno fermando la diffusione dei virus influenzali ma non quella del Covid. Secondo l’ultimo bollettino, sono oltre 560 mila i casi attualmente positivi, con un incremento quotidiano di contagi di 15mila casi al giorno. Questo dimostra che il Covid-19 non è poco più di un’influenza e che le norme anti-contagio non stanno funzionando bene. I virus dell’influenza sono molto meno contagiosi rispetto al Covid. Una misura approssimativa del livello di contagiosità è data dall’indice R0, numero di riproduzione di base che indica quante persone possono essere contagiate da un individuo infetto. Si tratta di un parametro che misura la trasmissibilità di una malattia infettiva e che l’OMS ha iniziato a calcolare, stimando un R0 compreso tra 1,4 e 3,8 nelle aree più colpite durante la prima fase. Questo valore, per quanto riguarda le nuove varianti, potrebbe essere tra lo 0,4 e lo 0,7 più alto rispetto alla versione originaria del virus. L’R0 in alcuni ceppi di Covid potrebbe superare il valore di 4. Per i ceppi di influenza stagionale l’indice R0 è stimato tra 0,9-2,1, per cui si tratta di un valore medio inferiore a quello del Coronavirus. Le misure di controllo possono influenzare la probabilità di trasmissione, riducendo l’indice di contagio. Un altro motivo per cui l’influenza sembra essere sparita è l’intensa campagna di vaccinazione che si è svolta durante l’autunno. Negli Stati Uniti, dove la percentuale di visite ambulatoriali per patologie influenzali è dell’1,6%, al di sotto della media stagionale degli altri anni, le autorità hanno riportato una distribuzione record di vaccini antinfluenzali. Per questo l’incidenza di casi di influenza è inferiore rispetto agli anni precedenti ed è attenuata ulteriormente dalle misure di prevenzione del contagio.

·        L’Influenza.

Da ansa.it il 30 dicembre 2021. Israele ha registrato il suo primo caso di quella che è stata chiamata "flurona": un'infezione contemporanea di influenza e Covid. Lo riporta il sito Ynet spiegando che si tratta di una partoriente trovata positiva alle due infezioni durante analisi all'ospedale Beilinson di Petach Tikva, nel centro di Israele. Secondo il nosocomio - citato da Ynet - la giovane madre, che non è vaccinata contro nessuno dei due virus, si sente bene e dovrebbe essere dimessa dall'ospedale oggi stesso. Il ministero della sanità - ha precisato il sito - sta ancora esaminando il caso che era relativamente leggero, per determinare se la combinazione delle due infezioni può causare una malattia più grave. Funzionari della sanità hanno stimato - secondo il sito - che molti altri pazienti hanno contratto i due virus ma non sono stati diagnosticati. «Lo scorso anno - ha detto il professor Arnon Vizhnitser, direttore del dipartimento ginecologia dell'ospedale - non abbiamo visto casi di influenza tra le donne gravide o le partorienti. Oggi assistiamo a casi sia di Covid sia di influenza che stanno iniziando ad alzare la testa. Vediamo sempre più donne in gravidanza con l'influenza».

Filippo Facci, l'unico vantaggio del Covid è che ha fatto sparire l'influenza: come si spiegano i rari contagi. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 04 gennaio 2021. C'è una notizia tutta da interpretare, e sarebbe che l'influenza stagionale «comune» sembrerebbe scomparsa dal nostro paese: a dirlo è l'Istituto Superiore di Sanità (Iss) secondo il quale praticamente nessun virus che non sia il Covid-19 è stato segnalato nel nostro Paese. I numeri sono trascurabili: nell'ultima settimana si registrano circa 92mila simil-influenze che risultano cioè «stabilmente sotto la soglia basale, con un valore di 1,5 casi per mille assistiti» (totale 1.265.000 casi). Mentre gli anni scorsi com'era? Nella settimane che corrispondevano a questa, eravamo a 3,9 casi per mille assistiti. Per capirci: a oggi, Trentino alto Adige, Sardegna, Campania, Basilicata e Calabria non hanno neppure ancora attivato la consueta sorveglianza influenzale, e chi l'invece l'ha attivata ha registrato incidenze al massimo di 3,03 casi su mille (nella fascia da 0 a 4 anni) e per tutte le altre fasce niente che si discosti dall'uno-virgola. In pratica niente. Dei 90 campioni clinici analizzati nell'ultima settimana, i positivi all'influenza sono stati questi: zero. Non siamo gli unici a fare questo tipo di monitoraggio, e anche in Europa e Stati Uniti i virus influenzali sono praticamente spariti rispetto alla media. Ora cominciamo a far piazza pulita delle considerazioni più banali ed ovvie. Una è che la moneta cattiva scaccia quella meno cattiva, ergo: chi ha avuto una «semplice» influenza (anche se le influenze in teoria possono ammazzare) un anno fa si sarebbe lamentato e imbottito di farmaci rompendo le scatole a medici e farmacisti: oggi, invece, chi ha un influenza o simil-influenza o cosiddetti sintomi da raffreddamento (espressione peraltro scorretta) tira un sospiro di sollievo, e magari neppure lo racconta, temendo il panico ingenerato anche da un banale colpo di tosse. L'influenza comune è una preoccupazione da benessere, anche perché il benessere genera piccole ipocondrie che si dissolvono quando ci sono problemi di salute più seri: durante la Guerra e nell'immediato Dopo guerra erano in pochi a rivolgersi a un medico per una febbriciattola, una caduta di tono, una modesta depressione o altre sindromi.

LE PREVENZIONI. Altra considerazione ovvia ma meno banale: le prevenzioni anticontagio per il Covid-19 (mascherina, distanze, no assembramenti, no promiscuità) hanno teso a isolare ogni altro virus che si diffonda nello stesso modo, tipicamente l'influenza stagionale. Esempio limite: quello della Sicilia. L'isola è diventata influenza-free: da novembre a oggi non si è registrato nemmeno un caso di contagio, e parliamo di roba che ogni anno mandava in rianimazione decine di anziani, ma che ha protetto anche i bambini: spariti anche i virus gastrointestinali e respiratori che mandavano in tilt gli ospedali pediatrici. Ovvio che c'entrino anche i lockdown e i vaccini anti-influenzali (negli ospedali si è vaccinato contro l'influenza il 65 per cento del personale contro il 10-20 per cento degli anni passati) ma le considerazioni fatte per esempio dal professor Francesco Vitale, direttore del laboratorio di Epidemiologia clinica, suonano anche un po' serenità-free: «Anche nel dopo-Covid bisogna continuare a curare l'igiene delle mani, tossire nella piega del gomito o indossare la mascherina nei luoghi affollati». Una prospettiva da futuro distopico, a cui aggiungere che se ci chiudessimo tutti singolarmente in una camera iperbarica - come faceva ogni giorno il maniacale Michael Jackson, il cantante - forse ci ammaleremmo ancora meno. Però resta vero che «nel nostro laboratorio», dice Vitale, «arrivano tamponi da tutta la Sicilia e su 3mila provette analizzate non c'è stato alcun caso dall'inizio della stagione influenzale». Forse anche il colera farebbe calare i casi di influenza comune, ma nel complesso resta una buona notizia. La rivista scientifica Nature ha quantificato anche su scala globale come la pandemia abbia cancellato influenze e molte altre malattie respiratorie, e questo, come detto, principalmente per le risposte preventive date al Covid-19, compresa l'igiene personale migliorata e la riduzione dei viaggi. Nature è dettagliato, e spiega che l'enorme e aumentata diffusione viceversa di virus minori come il raffreddore suggeriscono che potrebbero risultare una protezione contro Covid. Una cosa che si sa poco, infatti, è che raffreddori e influenze persistono sin dall'alba dell'uomo ma conservano ancora molti misteri: non è ancora detto che non rappresentino un'autodifesa del sistema immunitario anziché un segno del suo indebolimento. Invece di notare un po' genericamente che «il caldo faccia calare i virus» (una frase che scientificamente non ha senso) si potrebbe cioè notare che d'estate calano i raffreddori e anche i Covid-19, e non per questioni di temperatura: uno dei luoghi al mondo in cui non si prendono mai malattie da raffreddamento, paradossalmente, è l'Antartide o l'Artide: fa un freddo boia, ma non c'è nessuno che possa contagiarti. È la ragione per cui le raccomandazioni di nonne e mamme (copriti che sennò ti ammali) non hanno senso se non per il mal di gola. In sostanza anche l'articolo di Nature, che è molto lungo, lascia intendere un futuro poco invitante che indica il modo migliore di prevenire tutte le pandemie, non solo il Covid-19: non viaggiare o farlo il meno possibile.

IL RAFFREDDORE. Va detto che esistono centinaia di virus che provocano sintomi respiratori simili a quelli di un comune raffreddore: e la maggior parte è calata in tutto il mondo. È successo anche per il cosiddetto virus sinciziale (Rsv) che in tutto il mondo causa il 5 per cento delle morti nei bambini sotto i cinque anni. In Australia, per dire, è calato del 98 per cento, anche se le scuole erano aperte. C'è un solo raffreddore che non si è fermato: quello comune, il «rinovirus», di cui esistono più di un centinaio di ceppi. Vari studi indicano che potrebbero fornire una parziale protezione incrociata contro il Covid-19: se fosse vero, si potrebbero studiare vaccini «universali» contro tutti i coronavirus, ma ci sono anche studi di segno contrario. Gli studiosi si sono piuttosto appassionati all'argomento, e nel complesso viene ritenuto «uno scenario molto probabile» che i comuni raffreddori aiutino contenere la diffusione del Covid-19. Ma è anche vero che i virologi sinora ne hanno sparate tante. La conclusione è agrodolce. Ammalarsi poco, forse, aiuta a non ammalarsi molto. In secondo luogo, smettere di vivere - isolarsi, non viaggiare, non frequentare - aiuta a non morire.

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 16 gennaio 2021. L'influenza stagionale non ha iniziato la sua consueta epidemia di infezioni, non ha nemmeno tentato di farlo, non ha messo a letto nessuno, e nessuno ne parla più, e soprattutto è riuscita politicamente a spazzare via in un colpo solo tutte le passate e dure polemiche sulle carenze nazionali del vaccino per contrastarla, anzi la sua sparizione silenziosa e imprevista ha creato addirittura sorpresa e sconcerto tra i virologi e gli epidemiologi, perché (per loro) l'assenza dei virus influenzali stagionali non è affatto una notizia così positiva come si potrebbe pensare, poiché se il virus non circola potrà essere difficile individuare il ceppo giusto contro cui produrre il prossimo vaccino. Scientificamente non si è trattato di una tregua intenzionale del virus influenzale di fronte alla pandemia in corso, né un cedere le armi di fronte a un nemico più forte come il Corona, bensì una resa militare con bandiera bianca di fronte alle rigide misure anti contagio assunte contro il Covid-19 in tutto il mondo, che lo hanno tenuto a distanza e drasticamente rallentato, fino ad arrestare la sua diffusione e quella di tutte le altre truppe di virus stagionali che si portava dietro.

GLI EFFETTI DELLE PROTEZIONI. La protezione con le mascherine, il distanziamento sociale, l' igiene delle mani, la limitazione degli spostamenti e dei viaggi internazionali, hanno impedito la circolazione di tutti gli agenti virali presenti o in arrivo, e mai come in questo periodo per la prima volta si è avuta l' opportunità di osservare come cambia la trasmissione virale in seguito all' adozione di specifiche misure sanitarie collettive per azzerarle a lungo termine. Tra gli scienziati c' è chi pensa che l' assenza dell' influenza stagionale sia un danno, che non sia in grado di assicurare quell' arsenale di difese immunitarie con cui poter respingere l' attacco di altri virus futuri e delle loro varianti, quelle che causano infezioni respiratorie e sindromi para-influenzali e i ricercatori temono che non sia un bene liberarci degli altri Coronavirus responsabili. Per esempio, del raffreddore, poiché in questi mesi è stata avanzata l' ipotesi di un loro ruolo protettivo importante nei confronti del loro perfido cugino Sars-Cov2 basato sul meccanismo dell' immunità crociata. È stato dimostrato infatti che il virus del raffreddore ha un effetto protettivo nei confronti del Covid-19 in quanto attiva la risposta dell' interferone, una componente del sistema immunitario che inibisce la riproduzione virale, ed un recente studio ha confermato che una persona affetta da infezione da rinovirus (raffreddore, para-influenza), ha il 70% in meno di probabilità di contrarre anche una forma leggera da Coronavirus, qualora ne venisse a contatto, rispetto a qualcuno che non ha i sintomi del raffreddore. Inoltre i virus responsabili dell' influenza hanno tutti una struttura particolare, ovvero un involucro lipidico (grasso) che li protegge, e che però può essere facilmente rimosso con l' uso di saponi e di igienizzanti, com' è probabilmente avvenuto in questi mesi, impedendo loro di imporsi, contagiare ed espletare la propria azione virale. Dall' inizio della stagione invernale, e dall' inizio della sorveglianza sanitaria, nessun virus influenzale è stato finora segnalato in Italia, e su 1.057 campioni analizzati ricevuti da diversi laboratori riferiti a sospetti casi clinici, nessuno è risultato positivo al virus influenzale, mentre 11 sono risultati positivi al Sars-Covid2.

IL VACCINO ANTINFLUENZALE. In Italia la campagna vaccinale antinfluenzale quest' anno era partita prima rispetto al passato, con un mese e più di anticipo, proprio per garantire un aiuto alla lotta contro il Coronavirus, ed evitare il tracollo invernale del sistema sanitario, e soprattutto, nonostante parte della popolazione richiedente si è trovata nell' impossibilità di ricevere il vaccino, il livello di incidenza del tipico malanno stagionale a tutt' oggi rimane molto al di sotto della soglia basale, una cosa mai vista prima, perché dell' influenza proprio non c' è traccia. La spiegazione più logica è che i sistemi precauzionali adottati per difendersi dal Corona avrebbero arginato ed evitato i malati di influenza, un dato accertato che sarà tenuto presente nel prossimo autunno, per evitare questa periodica epidemia, non priva di possibilità di complicanze, in alcune categorie di soggetti anche gravi. Anche perché, nonostante le perplessità degli scienziati sul danno immunitario da mancanza dell' influenza, in fatto di epidemie o pandemie, come quella del Covid ancora in atto, il popolo italiana ha già dato, e forse anche troppo.

·        Il Raffreddore.

Il futuro del Covid-19? “Diventerà un raffreddore da bambini”. Le iene News il 14 gennaio 2021. A sostenere questa tesi è uno studio pubblicato su Science: secondo i ricercatori, quando la maggior parte della popolazione sarà stata vaccinata, il coronavirus diventerà molto simile a un raffreddore che colpirà più facilmente i bambini sotto i 5 anni. Per arrivare a questo punto, però, potrebbero volerci anni. Poco più che un raffreddore, che potrebbe colpire più facilmente i bambini sotto i 5 anni: è questo il futuro del coronavirus? A sostenere la tesi è uno studio pubblicato sulla rivista Science e ripreso dal prestigioso New York Times. I ricercatori sostengono che oggi il Covid-19 sia così pericoloso anche perché del tutto sconosciuto al nostro sistema immunitario, ed è quindi in grado di sopraffarlo in determinate condizioni. Ma quando sempre più persone saranno entrare in contatto con il virus- tramite infezione o vaccinazione - questo non sarà più in grado di nuocere così tanto alle persone. Questa evoluzione - sempre secondo questo studio - porterà il virus a diventare endemico, più simile a un raffreddore, che colpirà soprattutto i bambini al di sotto dei cinque anni. Per arrivare a questa conclusione i ricercatori, guidati da Jennie Lavine della Emory University di Atlanta, hanno analizzato i sei virus appartenenti alla famiglia dei coronavirus che già circolano tra gli esseri umani: di questi, quattro causano forme simili al raffreddore e si diffondono molto rapidamente; due invece - la Sars e la Mers - causano sintomi molto più gravi ma si diffondono con molta più difficoltà. Secondo loro il Covid-19 è più simile ai primi quattro, che solitamente infettano per la prima volta gli esseri umani tra il terzo e il quinto anno d’età: da quel momento il virus è capace di reinfettare più volte la persona, ma causando pochi o nessun sintomo. L’idea dei ricercatori è che questo potrebbe essere il futuro anche del Covid-19. Una bella notizia, insomma, in un periodo costellato di paure e timori per una terzi ondata che sembra dietro l’angolo. Ma quanto ci vorrà perché questo avvenga? Qui la risposta è più difficile: secondo i ricercatori se ci si affidasse all’immunità di gregge acquisita tramite infezione, ci vorrebbero vari anni scanditi da moltissime vittime. Il vaccino però cambia le carte in tavola, e se le campagne di somministrazione a livello globale procederanno speditamente questo tempo potrebbe ridursi a circa un anno. Bisogna ricordare infatti che - probabilmente - i vaccini appena sviluppati non proteggono dal contrarre il virus ma solamente dai sintomi: insomma, eviteranno a moltissime persone di morire ma non fermeranno la diffusione del virus, che probabilmente resterà con noi per sempre anche se ridotto a un semplice raffreddore o influenza. Lo studio, ricorda il New York Times, presenta uno scenario che altri ricercatori definiscono “plausibile” ma non scontato. Ci sono infatti parecchie variabili che potrebbero cambiare il destino della pandemia, per esempio una mutazione del virus capace di ingannare il nostro sistema immunitario oppure una evoluzione verso una meno severa - ma comunque importante - forma simil influenzale che colpirebbe soprattutto d’inverno. A sostegno di questa tesi, invece, ci sarebbe l’esperienza di uno dei coronavirus che oggi causa un semplice raffreddore: secondo alcuni ricercatori la pandemia del 1889-90, la cosiddetta “influenza russa” che uccise circa un milione di persone nel mondo, fu causata dal virus OC-43. Grazie all’immunità acquisita dagli esseri umani tramite le infezioni, l’OC-43 si sarebbe evoluto in forma meno grave: oggi è considerato il responsabile di circa il 10% dei casi di raffreddore in tutto il mondo. A ogni modo questo studio rimane una testimonianza dell’importanza cruciale della vaccinazione, e una speranza per un futuro prossimo meno complicato.

Il (possibile) futuro del Covid: “Endemico come un raffreddore”. Federico Giuliani su Inside Over il 14 gennaio 2021. A quanto pare la pandemia di coronavirus non se ne andrà improvvisamente, da un giorno all’altro, allo stesso modo in cui è arrivata. In molti pensavano che, con l’arrivo di un vaccino, il Covid-19 sparisse nel giro di pochi mesi. A quanto pare, e secondo gli esperti, potremmo impiegare molto più tempo del previsto per liberarci definitivamente del Sars-CoV-2. Tra i problemi burocratico-logistici inerenti alla distribuzione dei vaccini, la lentezza delle campagne di vaccinazioni e le continue mutazioni del virus – quelle fin qui rilevate pare non influiscano sull’efficacia degli antidoti anti Covid -, dobbiamo armarci di pazienza e tanta organizzazione. In merito al futuro del coronavirus, è difficile fare previsioni esatte. Ci sono tuttavia più scuole di pensiero riassumibili, per comodità, in due schieramenti. Il primo: il Sars-CoV-2, al termine di una valida campagna di vaccinazione globale, smetterà di circolare fino a sparire dalla faccia della terra. Il secondo: mutazione dopo mutazione, il coronavirus si evolverà fino a diventare un virus sostanzialmente innocuo. Al punto di arrivare a provocare sintomi lievi o lievissimi, alla stregua di quelli generati da un normale raffreddore. Quest’ultima tesi è molto interessante. Ed è il cuore di un recente studio pubblicato su Science da Jennie Lavine, Ottar Bhornstad e Rustom Antia, ricercatori della Emory University e Penn State University, Stati Uniti.

L’evoluzione del Sars-CoV-2. L’ipotesi principale è che il Covid-19 possa diventare endemico, termine utilizzato per indicare una malattia costantemente presente o molto frequente in una popolazione o in determinato territorio. Proprio come accaduto a tantissimi altri coronavirus, con i quali conviviamo senza troppi problemi, nel giro di qualche anno potrebbe succedere la stessa, identica cosa anche al Sars-CoV-2. In particolare, l’infezione potrebbe iniziare a prendere di mira i bambini di età compresa tra i 3 e i 5 anni, salvo poi ripresentarsi in età adulta in una forma assai più attenuata (esattamente come altre malattie dell’infanzia). Nel report Immunological characteristics govern the transition of COVID-19 to endemicity si prende in considerazione proprio questa eventualità. La stessa, d’altronde, accaduta in passato ad altri tipi di coronavirus. I ricercatori hanno effettuato l’analisi dei dati immunologici ed epidemiologici (tra cui la trasmissibilità in caso di seconda infezione, suscettibilità alla reinfezione e attenuazione della malattia) di 6 diversi coronavirus umani: dalla Sars alla Mers, passando per altri quattro virus endemici.

Alta circolazione e sintomi modesti? Gli autori dello studio hanno ipotizzato che il tasso di letalità del Covid, una volta che il virus sarà diventato endemico, possa scendere al di sotto di quello dell’influenza stagionale. Sempre secondo il paper, adesso il Covid sarebbe agevolato dal fatto che il nostro sistema immunitario, non conoscendolo, non sarebbe allenato a combatterlo. In seguito alla vaccinazione e al numero sempre maggiore di persone infettate, gli esseri umani potrebbero tuttavia essere in grado di riconoscere la minaccia e silenziarne gli effetti nefasti. A un certo punto, le prede ideali del virus diventerebbero i bambini al di sotto dei cinque anni, in quanto non ancora immunizzati. Ma, per via della capacità di adattamento del loro sistema immunitario, questi non dovrebbero comunque contrarre forme aggressive di Covid. Sia chiaro, stiamo parlando di una ipotesi e di un virus che, al momento, continua a essere altamente pericoloso. Come se non bastasse, non sappiamo quanto tempo bisognerà aspettare prima che il Sars-CoV-2 diventi endemico. A detta dei ricercatori, le variabili da considerare sono due: la velocità di diffusione del virus e la campagna di vaccinazione. In definitiva, il Covid potrebbe diventare sempre meno mortale per via della maggiore velocità di trasmissione. Un aspetto, questo, che garantisce tra l’altro la sopravvivenza dello stesso agente patogeno.

Articolo di El Pais dalla Rassegna di stampa estera di EPR Comunicazione il 14 gennaio 2021. Gli esperti di evoluzione virale sostengono che è molto probabile che SARS-Cov-2 smetta di uccidere e produca solo sintomi lievi nei bambini - leggiamo su El Pais. Il mondo è appena entrato in una nuova fase della pandemia con l'inizio delle vaccinazioni di massa, da cui dipende molto di quello che succederà nei prossimi anni con il nuovo coronavirus. La maggior parte degli esperti ritiene che la SARS-CoV-2 non scomparirà mai, ma non deve essere per forza una cosa negativa. Quando la maggior parte della popolazione viene vaccinata, l'agente patogeno inizierà a svanire, producendo un'infezione asintomatica negli adulti e solo un leggero raffreddore nei bambini, secondo uno studio recentemente pubblicato su Science. Gli autori basano questa affermazione su un modello matematico che riproduce la diffusione del virus. Altri esperti indipendenti in evoluzione virale e immunologia sostengono le loro conclusioni. "Il nostro modello suggerisce che questa trasformazione richiederà da uno a dieci anni", ha detto a questo giornale Jennie Lavine, ricercatrice della Emory University (Stati Uniti) e prima autrice dello studio. L'arco di tempo esatto dipenderà dalla velocità con cui il virus si diffonde e dalla velocità della vaccinazione, spiega. Un fattore più complesso gioca anche un ruolo: per quanto tempo una persona è immune al Covid grave dopo essere stata infettata o aver ricevuto il vaccino. "Idealmente, la capacità di bloccare la malattia dovrebbe essere duratura, ma la capacità di trasmetterla dovrebbe essere più breve", dice Lavine. C'è un ultimo fattore: quante infezioni o dosi di vaccino saranno necessarie per costruire una forte immunità? Questa transizione segnerà il passaggio da un virus pandemico a uno endemico, il che significa che sarà sempre presente e può causare occasionali epidemie senza molta virulenza. Gli scienziati ritengono che la SARS-CoV-2 sia più simile ai quattro già noti coronavirus del raffreddore che ai due più virulenti, la SARS 2001 e il MERS 2012. In questo caso, quando la maggior parte della popolazione viene vaccinata, il virus non sarà più in grado di causare malattie gravi, in quanto i vaccini lo impediscono. Resta da vedere se le iniezioni impediscono anche la trasmissione del virus, che è meno probabile. In questo modo, gli unici che rimarranno vergini del virus saranno i bambini che nasceranno, ma avranno solo sintomi lievi e raffreddore. Questo è già il caso dei quattro coronavirus stagionali conosciuti. Sulla base di ciò che si sa sul resto dei coronavirus del raffreddore, i ricercatori stimano che la prima infezione nei bambini si verificherà tra i tre e i cinque anni di età. I bambini possono essere reinfettati negli anni successivi, ma i sintomi sarebbero sempre più lievi o assenti. "Questi risultati rafforzano l'importanza di continuare le misure di isolamento fino al completamento delle campagne di vaccinazione durante questa fase pandemica. Potrebbe essere necessario continuare la vaccinazione nella fase endemica", spiegano gli autori. Una delle chiavi di questo possibile futuro è la durata dell'immunità dopo l'infezione o la vaccinazione. Gli autori ritengono che entrambi proteggono da malattie gravi, ma forse non da una lieve reinfezione - la presenza del virus nell'organismo e la sua possibile trasmissione. La presenza del virus rafforzerebbe le difese dell'organismo, rendendolo più immune alle successive infestazioni dell'agente patogeno. L'emergere di varianti più contagiose, come quella del Regno Unito, potrebbe migliorare le cose, ha detto Lavine. Una variante che si diffonde più velocemente ma non è più letale abbasserà la mortalità. Inoltre, aumenterebbe l'immunità delle persone, poiché un'infezione asintomatica rafforzerebbe le difese. E infine manterrebbe il nostro sistema immunitario "aggiornato" con le ultime varianti del virus. Tutto questo potrebbe crollare se emerge una variante che causa una malattia più grave, mettendo tutte le persone non vaccinate a maggior rischio. Lavine spiega che, sulla base dei quattro coronavirus del raffreddore, non ci sono prove che questo possa accadere. "Non è impossibile, ma non abbiamo alcuna prova per ritenere che sia probabile", dice. "La cosa più ragionevole è che in questo decennio questo virus diventerà endemico e produrrà solo picchi stagionali in inverno", ha detto a questo giornale Mark Lipsitch, un epidemiologo dell'Università di Harvard. Nel maggio 2020, il suo team ha calcolato che continueranno ad esserci picchi di infezione da questo coronavirus almeno fino al 2024. Il ricercatore motiva la sua opinione. "L'impatto di questo virus sulla salute pubblica diminuirà drasticamente quando una delle due condizioni sarà soddisfatta. Il primo è che, come dice questo studio, l'immunità alla covata grave sarà di lunga durata e sarà anche rafforzata attraverso lievi reinfezioni, perché non c'è immunità totale. Il secondo è che c'è copertura del vaccino nelle persone più a rischio, in modo da ridurre notevolmente la mortalità. Credo che la prima cosa che succederà in tutto il mondo. I paesi sviluppati avranno coperto la vaccinazione in sei mesi o un anno e gli altri paesi qualche tempo dopo", spiega. In ogni caso, il lavoro si basa su un'altra ipotesi ragionevole ma non provata. La SARS-CoV-2 non è la stessa dei suoi quattro parenti del raffreddore e non si sa quanto dura l'immunità alla grave malattia che produce. "Anche se è pura speculazione, è possibile che le persone anziane non mantengano l'immunità alla SARS-CoV-2 così efficacemente come ai virus del raffreddore", ha detto Lipsitch. L'équipe di Cristina Calvo, primario di pediatria dell'ospedale La Paz di Madrid, studia da 14 anni le infezioni da coronavirus del catarro nei bambini. "I virus si adattano e diventano blandi oppure scompaiono perché non hanno più ospiti", spiega. "La cosa logica è che perdono la loro patogenicità e la loro letalità", aggiunge. "Questo virus è praticamente impossibile da debellare", spiega Toni Trilla, epidemiologo dell'Ospedale Clínic di Barcellona. "Sono d'accordo che in futuro questo virus assomiglierà più al coronavirus del raffreddore che alla SARS e al MERS", aggiunge. Il virus non scomparirà perché può sempre trovare rifugio in alcune persone o animali. Questo è simile a quello che sta già accadendo con l'influenza, il cui serbatoio è costituito da uccelli acquatici selvatici e che ritorna ogni inverno abbastanza cambiato da richiedere un nuovo vaccino. A volte l'influenza è stagionale e non molto grave e a volte può essere una variante pandemica, come quella che ha ucciso 50 milioni di persone nel 1918 e nel 1919. Questo coronavirus ha già dimostrato di passare dall'uomo agli animali domestici e agli animali da fattoria, come i visoni, e due gorilla dello zoo di San Diego sono stati recentemente individuati infettati da un visitatore, ricorda María Montoya, responsabile dell'immunologia virale del Margarita Salas Biological Research Center. Inoltre, il vaccino non protegge al 100%, quindi il coronavirus sarà sempre in grado di trovare delle crepe per passare. "Se la vaccinazione fallisce o se la seconda dose viene ritardata troppo a lungo, o se la seconda dose non viene somministrata, la protezione non è ottimale, quindi la persona infetta non può soffrire di malattia, ma può ospitare il virus", spiega. Un altro possibile serbatoio è costituito da persone immunodepresse, con difese indebolite, dove, come suggeriscono studi recenti, il virus può mutare e acquisire una certa resistenza ad alcuni anticorpi, le proteine del sistema immunitario che teoricamente gli impediscono di entrare nelle cellule per infettare. "È come quando le persone non prendono antibiotici per i giorni prescritti e si fermano a metà strada; stanno selezionando gli agenti patogeni che sopravvivono e possono diventare più resistenti ai trattamenti o ai vaccini", ha detto Montoya. Un altro aspetto molto difficile da prevedere è l'evoluzione di questo virus. La SARS-CoV-2 muta meno dell'influenza. Ciò significa che accumula meno cambiamenti nel suo genoma ogni volta che si copia in una cellula. Ma tenete presente che un singolo virus può produrre decine di migliaia di copie di se stesso utilizzando una singola cellula umana. E gli esseri umani hanno miliardi di cellule. A ciò si aggiunge il numero di persone infettate in tutto il mondo, oltre 90 milioni di persone confermate, ma probabilmente di più. Quindi, anche se muta poco, ha milioni di opportunità di farlo in ogni persona infetta. Finora il virus si è evoluto in modo naturale: ci sono stati pochi trattamenti efficaci o vaccini contro di esso. Sta ora iniziando una seconda fase della sua evoluzione caratterizzata dalla pressione che i vaccini eserciteranno su di essa. "Le varianti con mutazioni potenzialmente pericolose come quelle che si trovano nel Regno Unito o in Sudafrica diventeranno molto più numerose man mano che la vaccinazione prenderà piede e raggiungerà sempre più persone. Il virus muterà nel tentativo di sfuggire al sistema immunitario di coloro che sono stati vaccinati e appariranno molte varianti più complesse. Se il virus cambia troppo, allora i vaccini attuali potrebbero dover essere modificati", avverte Montoya. Ciò che abbiamo osservato finora ci permette di essere moderatamente ottimisti. Un recente studio ha dimostrato che il vaccino BioNTech può neutralizzare la variante britannica. La chiave è che il vaccino genera anticorpi e cellule della memoria per molte parti diverse della proteina delle spicule, che sporgono sulla superficie del coronavirus che serve per legarsi alle cellule umane, entrarvi e dirottarne i macchinari biologici per riprodursi. Anche se cambiano - mutano - uno o più pezzi di quella proteina, il sistema immunitario riconoscerà comunque il resto e sarà in grado di neutralizzare il virus. Un altro punto di incertezza è che questo coronavirus è geneticamente più simile ai virus virulenti della SARS e del MERS che a quelli del raffreddore. "I coronavirus altamente patogeni si differenziano da quelli lievi per il maggior numero di geni accessori", spiega Isabel Sola, virologa del Centro Nazionale di Biotecnologia (CSIC). "Questi geni spesso contribuiscono ad aumentare la virulenza, perché inibiscono la risposta immunitaria innata, la prima linea di difesa che prepara e promuove la risposta immunitaria adattiva, con anticorpi, e i linfociti T. È possibile che mentre questi geni rimangono nel virus, è più complicato che diventi un virus che causa lievi infezioni", avverte. È probabile che stiamo già assistendo alla nascita di un nuovo virus che non andrà mai via, ma che sarà infinitamente più gestibile. "È ancora impossibile conoscere il destino finale di questo coronavirus, ma è ragionevole suggerire che si unirà ai quattro coronavirus endemici che ci causano il raffreddore ogni anno", dice Miguel Hernán, epidemiologo di Harvard (USA) e consulente scientifico del governo. "È possibile, infatti, che questi coronavirus endemici fossero anche responsabili di piaghe o parassiti dell'antichità. Epidemie mortali allora e raffreddori scomodi adesso. Se l'endemicità è il risultato finale per le generazioni successive, prima vaccineremo tutti gli adulti, più vite salveremo in questa generazione", aggiunge.

Il Raffreddore. Da humanitas.it. Il raffreddore è un disturbo di origine virale associato a congestione nasale, naso che cola e starnuti. A questi sintomi si possono inoltre collegare mal di gola, tosse, mal di testa e altri piccoli fastidi, come dolori muscolari e febbre bassa. Più frequente durante l’inverno e nei mesi piovosi, il raffreddore può colpire facilmente quando ci si tocca il naso, gli occhi o la bocca con mani contaminate da uno dei numerosi virus che lo causano. L’infezione è contagiosa nei primi 2 o 3 giorni, mentre in genere smette di esserlo già dopo una settimana. Quali malattie si possono associare al raffreddore? Le patologie che si possono associare a raffreddore sono le seguenti: Allergie respiratorie, Bronchite, Dengue, Dermatite atopica, Fibrosi Cistica, Infezioni all’orecchio, Intolleranze alimentari, Mollusco contagioso, Pertosse, Polmonite, Rosolia, Sinusite.

Si ricorda che questo non è un elenco esaustivo e che sarebbe sempre meglio consultare il proprio medico di fiducia in caso di persistenza dei sintomi.

Quali sono i rimedi contro il raffreddore?

La maggior parte dei raffreddori si risolve da sola in pochi giorni. Per favorire la guarigione è importante bere molto e riposarsi. Eventualmente possono essere utili medicinali da banco (ad esempio dall’effetto decongestionante) che, sebbene non contribuiscano ad accelerare il processo di guarigione, possono aiutare a sentirsi meglio.

Con raffreddore quando rivolgersi al proprio medico?

Con raffreddore è bene rivolgersi al medico in caso di problemi di respirazione e se i sintomi peggiorano o non migliorano nell’arco di 7-10 giorni.

Raffreddore. PANORAMICA da aspirina.it.

Che cos’è il raffreddore? Il raffreddore è una delle patologie più diffuse, soprattutto nei mesi freddi. È estremamente contagioso, ma per fortuna non è una malattia grave. È causato da un'infezione virale che colpisce prevalentemente le alte vie aeree (naso, gola, trachea). La prevenzione è possibile, basta seguire semplici regole di igiene quotidiana. In rari casi può degenerare, quando trascurato o non curato bene, in polmonite e bronchite, colpendo le vie aeree più profonde (polmoni, bronchi).

Il raffreddore è un'infiammazione delle mucose che sono state "infettate" dai virus e i sintomi tipici sono: naso che cola, starnuti frequenti, sensazione di malessere generale, mal di gola.

Inoltre, soprattutto nei bambini, può coinvolgere anche i seni paranasali e le orecchie, con insorgenza di sinusite e otite. Qualche volta il raffreddore può essere confuso per influenza, poiché i sintomi di quest'ultima sono molto simili a quelli del raffreddore.

Si tratta, invece, di due patologie ben distinte:

l'influenza è causata da virus diversi da quelli del raffreddore, e si accompagna tipicamente a sintomi come febbre, mal di testa, dolori muscolari e sintomi respiratori (naso chiuso, tosse - con o senza catarro - o mal di gola).

il raffreddore è caratterizzato da sintomi comuni quali: naso che cola e congestione nasale, starnuti frequenti, sensazione di malessere generale e mal di gola, mai da febbre alta e dolori muscolari.

Le cause del raffreddore. Le cause principali del raffreddore sono i virus, in particolare i rhinovirus. L'abbondanza di ceppi virali responsabili dei disturbi da raffreddamento è una delle ragioni per le quali non saremo mai immuni dal raffreddore e non esiste un vaccino contro questa malattia. Il 2% della popolazione è portatore del virus del raffreddore senza però avere i sintomi tipici della patologia. Durante le epidemie sono in genere infettati fino all'80% dei bambini, infatti, questa parte della popolazione sembra essere la più soggetta a infezioni virali da rhinovirus. Il raffreddore è una patologia così comune perché si trasmette facilmente: le vie di contagio sono quasi infinite. I rhinovirus possono essere trasportati da un soggetto all'altro da mani “inquinate” o dall'aria che respiriamo, i virus possono arrivare sul nostro corpo e penetrare, soprattutto attraverso il naso, dando inizio all'infezione e, di conseguenza, al processo infiammatorio delle mucose respiratorie. Questo, nonostante siano presenti meccanismi di difesa che si trovano lungo le vie respiratorie, come il muco, che ricopre la parte interna del naso e il cui compito è quello di intrappolare particelle indesiderabili (compresi i germi) che potrebbero entrare nelle vie aeree, e come il sistema di ciglia vibratili, che contribuisce a eliminare le particelle nocive che sono state intrappolate nel muco. I virus del raffreddore si diffondono con estrema facilità sia per via aerea, sia per semplice contatto. Nel primo caso il virus è disperso nell'aria tramite le goccioline che si emettono starnutendo o tossendo; queste goccioline a loro volta possono essere inalate da altri individui “sani” che, così, si infettano; possono anche depositarsi su oggetti e superfici e lì sopravvivere per qualche ora, fino a quando capita di toccare tali superfici contaminate che infettano anche noi. Così facendo non facciamo altro che fungere da "ponte" per il passaggio dei virus che, in tal modo, possono raggiungere le nostre vie aeree e dare inizio all'infezione. Per prevenire questo fenomeno è opportuno fare molta attenzione all’ambiente che ci circonda, in inverno e in particolare a gennaio e febbraio, limitando così la diffusione del virus. Il sistema muco-ciliare del naso svolge la funzione fondamentale di purificare l'aria inalata durante la respirazione da particelle estranee: esse vengono intrappolate nel muco mentre il movimento delle ciglia determina la progressione del muco contaminato verso l'oro-faringe dove viene espettorato (attraverso la tosse) o deglutito. Quando un virus si deposita sulla mucosa delle narici ed entra in contatto con il sistema muco-ciliare che lo trasporta più in profondità, si instaura un processo infiammatorio dato dall'infezione virale delle mucose delle vie aeree del sistema respiratorio. Il virus si lega a specifici recettori che lo aiutano a entrare nella cellula da infettare e lì inizia a riprodursi a spese di quest'ultima. Alla fine, la cellula muore e libera altre particelle virali appena formate, che vanno a infettare altre cellule amplificando l'infezione. Bastano anche pochissime particelle virali per dare origine al processo infiammatorio che genera il comune raffreddore.

Sintomi raffreddore. I sintomi del raffreddore non sono causati direttamente dal virus, ma dal meccanismo di difesa del nostro corpo che, con l'aiuto del sistema immunitario, cerca di debellarlo. È per questa ragione che tanti germi diversi possono causare gli stessi sintomi.

La diagnosi del raffreddore è piuttosto semplice. I primi sintomi includono: Prurito e secrezioni a livello del naso, Starnuti frequenti, Gola irritata, Tosse, Raucedine, Difficoltà a respirare, Sensazione di ottundimento, Malessere generale.

Tuttavia, in alcuni casi questi sintomi sono comuni anche a diverse forme allergiche. In caso si sospetti la presenza di allergie, è bene rivolgersi al proprio medico.

STARNUTI FREQUENTI E NASO CHIUSO. Gli starnuti sono frequenti. Possono essere confusi con starnuti di origine allergica. Anche il naso tappato e/o che cola è comune. È il sintomo più evidente. Possono durare per un periodo abbastanza lungo, circa 3-4 giorni. In alcuni casi si consumano fino a 120 fazzolettini di carta!

MAL DI GOLA. Il mal di gola è un sintomo comune. La gola è arrossata e dà fastidio.

TOSSE E DOLORI AL PETTO. Tosse e dolori al petto durante la respirazione possono presentarsi in forma leggera. Tossire è doloroso.

In alcuni casi, specie se un comune raffreddore viene trascurato o curato male, può accadere che i batteri approfittino dell'indebolimento del nostro sistema immunitario causato dall'attacco dei virus, per colonizzare la gola oppure le orecchie, i seni paranasali o le vie aeree inferiori. In questi casi (rari negli adulti, ma più frequenti nei bambini e negli anziani), si ha la comparsa di malattie anche molto serie: mal di gola, otiti, sinusiti, bronchiti e polmoniti. Poiché le complicazioni sono molto frequenti nei bambini fino a un anno, si deve cercare di evitare che i piccoli vengano in contatto con altri bambini o con adulti con il raffreddore. Un comune raffreddore è, in genere, una malattia lieve i cui i sintomi scompaiono in una-due settimane e non sono mai repentini: di solito insorgono nel giro di 2-3 giorni dal contagio, in modo graduale. I sintomi sono dovuti principalmente alla risposta immunitaria del nostro organismo all'infezione. Quando una cellula nasale è infettata da un virus del raffreddore, il nostro organismo risponde attivando alcune parti del sistema immunitario e alcuni riflessi nervosi. Vengono liberate sostanze naturali, denominate mediatori dell'infiammazione (tra cui chinine, interleuchine e prostaglandine), che contribuiscono a proteggere il nostro organismo dall'infezione e da altri eventi nocivi. Una volta attivati dall'infezione, i mediatori infiammatori causano dilatazione dei vasi sanguigni (con versamento di liquidi al di fuori dei vasi) e aumento della secrezione di muco. Tutto questo si traduce in una congestione della mucosa nasale con abbondante produzione di muco, che poi inizia a fuoriuscire dal naso, unica via di sfogo. I mediatori infiammatori, inoltre, attivano i riflessi dello starnuto e della tosse e possono anche stimolare le fibre nervose deputate alla trasmissione del dolore (con comparsa, per esempio, di mal di gola).

Da sapere. Il meccanismo con il quale i virus del raffreddore ci infettano spiega anche come mai nella stagione fredda ci ammaliamo di più. Il freddo, infatti, non è per nulla l'agente scatenante della malattia, né rende più aggressivo il virus in questione, ma impedisce al nostro organismo di difendersi adeguatamente perché rallenta il movimento delle cellule ciliate e, di conseguenza, del muco, facilitando così la penetrazione dei virus del raffreddore: quando l'aria è troppo fredda, le ciglia non riescono a muoversi come dovrebbero e si creano le condizioni ideali per l'instaurarsi dell'infezione virale.

LUOGHI AFFOLLATI. Durante la stagione fredda si trascorre molto più tempo in ambienti chiusi, magari affollati, dove il virus riesce a trasmettersi con maggiore facilità. Il raffreddore è una delle malattie più contagiose finora conosciute, e stare in luoghi affollati facilita sicuramente il contagio da persona a persona: per questo i bambini che frequentano l’asilo nido e la scuola sono maggiormente soggetti al raffreddore: il virus si deposita facilmente sulla pelle delle mani e basta che il bambino si strofini gli occhi o le porti alla bocca per scatenare l’infezione.

STRESS. Così come non è il freddo a causare il raffreddore, non lo è neppure lo stress. Tuttavia lo stress e la mancanza di riposo, ancora di più delle basse temperature e dell'umidità, rende il nostro organismo più vulnerabile ai virus del raffreddore. Esiste una varietà di situazioni e di circostanze nelle quali il nostro sistema immunitario è in difetto, aumentando così il rischio di contrarre il raffreddore, ma, soprattutto, di incorrere nelle sue complicazioni. I neonati, per esempio, nelle prime 4 - 6 settimane di vita sono ad alto rischio per i raffreddori o altre infezioni perché il loro sistema immunitario è immaturo dal punto di vista funzionale. È vero che, quando nascono, i bambini sono ancora parzialmente protetti dagli anticorpi che hanno ricevuto dalla madre attraverso la placenta, ma ci sono molti germi dai quali non sono protetti. Anche gli anziani, soprattutto se in famiglia ci sono bambini, e le persone indebolite da patologie gravi, che alterano di per sé il sistema immunitario, o pazienti in chemioterapia o in terapia immunosoppressiva sono a elevato rischio di contratte il raffreddore e sviluppare complicanze. Innanzitutto, è bene ricordare che il raffreddore è causato da virus. Questo significa che, come per l'influenza e per tutte le malattie virali in genere, gli antibiotici non servono per curarlo, se non nel caso di complicazioni batteriche. Pertanto, prima di assumere un antibiotico è bene rivolgersi al medico che saprà valutare se è opportuna tale terapia. È possibile, anzi spesso consigliabile, specie nelle prime fasi dell'infezione, utilizzare farmaci antinfiammatori non steroidei (i cosiddetti Fans), come l'acido acetilsalicilico, che è un trattamento utile per ridurre lo stato infiammatorio delle mucose nasali e tutti i sintomi ad esso associati.

Esistono formulazioni specifiche che associano al principio attivo antinfiammatorio anche la vitamina C, utile per stimolare il sistema immunitario a svolgere la propria azione. Esistono anche prodotti e rimedi naturali che possono alleviare i sintomi collaterali del raffreddore. Per esempio il miele è un rimedio efficace per lenire il mal di gola e portare benessere alle alte vie respiratorie. Un altro consiglio utile è quello di bere molta acqua, succhi di frutta, o anche un tè caldo. Questo perché un organismo ben idratato è in grado di combattere meglio il virus del raffreddore. Non bisogna mai scordare poi di lavarsi spesso le mani per evitare il contagio ad altre persone. E per quanto riguarda l’alimentazione, per avere gli sperati benefici in termini di prevenzione e di riduzione della durata dei sintomi, la scienza da anni conferma l’importanza della frutta (soprattutto quella ricca di vitamina C) e della verdura. Seguire una dieta bilanciata può rinforzare il sistema immunitario. Eventualmente si può anche ricorrere a integratori multivitaminici.

Raffreddore comune. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere medico: leggi le avvertenze.

Raffreddore comune. Il raffreddore comune, o più semplicemente raffreddore, è una rinofaringite acuta infettiva virale causata solitamente da rhinovirus, più raramente da virus influenzali o altri. È un'affezione infettiva delle prime vie respiratorie e in particolare del naso e della gola, generalmente non grave; i suoi sintomi comprendono starnuti, produzione abbondante di muco, congestione nasale, catarro e mal di gola, tosse, mal di testa e sensazione di stanchezza. Si tratta della malattia umana più comune: infetta gli adulti in media 2-4 volte l'anno, e i ragazzi in età scolare fino a 12 volte l'anno; in talune popolazioni non è raro incontrare tassi di infezione superiori a 3 all'anno per persona. Il raffreddore comune è distinto dall'influenza, che è un'infezione virale più seria del tratto respiratorio, caratterizzata dall'insorgenza di ulteriori sintomi quali un rapido innalzamento della temperatura, brividi di freddo, dolori muscolari. Per quanto il raffreddore comune in sé non sia generalmente rischioso per la vita del paziente, le sue complicazioni, quali per esempio la polmonite, possono esserlo.

Storia. La malattia ha colpito l'uomo fin dall'antichità, anche se la causa del raffreddore comune è stata identificata solo nel 1950. I sintomi e il trattamento sono descritti nel papiro egiziano Ebers, il più antico testo di medicina esistente, scritto prima del XVI secolo a.C. Nel medioevo, la religiosa Ildegarda di Bingen (1098-1179) consigliava l'assunzione di Tanacetum vulgare nelle zuppe, nelle torte o con la carne, per curare tosse e raffreddore.Il nome "raffreddore comune" è entrato in uso, a partire dal XVI secolo, per la somiglianza tra i suoi sintomi e quelli dell'esposizione al freddo. Nel 1946 nel Regno Unito fu istituita dal Medical research council la Common cold unit (CCU) che nel 1956 scoprì il rhinovirus come agente eziologico del raffreddore. Nel 1970 la CCU dimostrò che il trattamento con interferone durante la fase di incubazione dell'infezione da rhinovirus protegge dalla malattia, ma nessun trattamento pratico è stato sviluppato. L'unità è stata chiusa nel 1989, due anni dopo aver messo a punto l'utilizzo di compresse di gluconato di zinco per la profilassi e per il trattamento del raffreddore da rhinovirus. Questo fu il solo trattamento di successo proposto nella storia del gruppo.

Epidemiologia. Il raffreddore comune è la malattia umana più frequente e colpisce tutte le popolazioni a livello mondiale: i National Institutes of Health statunitensi stimano che ogni anno circa un miliardo di persone se ne ammali; i bambini e i genitori, oltre al personale scolastico, presentano un rischio di infezione più elevato, probabilmente a causa dell'elevata densità di popolazione delle scuole e della facilità di trasmissione tra membri della stessa famiglia. La stagionalità delle epidemie, concentrate nella stagione invernale nelle aree temperate e durante le stagioni piovose nelle zone tropicali, si può giustificare dall'affollamento dei luoghi chiusi che favorisce la trasmissione dei patogeni e l'umidità dell'aria che facilita la sopravvivenza dei virus; tuttavia non tutti i virus del raffreddore presentano la stessa stagionalità: i coronavirus sono più frequenti in inverno, a differenza dei rhinovirus che si presentano maggiormente nella tarda primavera. Gli adulti hanno in genere da due a cinque infezioni ogni anno, mentre i bambini possono arrivare ad averne da sei a dieci (fino a dodici raffreddori all'anno per i bambini in età scolare); l'incidenza che si registra in inverno, durante i picchi epidemici, può arrivare fino a 6-7 episodi ogni 1000 persone al giorno. I tassi di infezioni sintomatiche aumentano negli anziani, a causa di un indebolimento del sistema immunitario. Secondo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, nei paesi in via di sviluppo le infezioni da raffreddore comune sono complicate dalle infezioni batteriche più frequentemente rispetto ai paesi industrializzati.

Impatto economico. L'impatto economico del raffreddore comune non è ben compreso in gran parte del mondo: negli Stati Uniti porta a 75-100 milioni di visite mediche ogni anno, che si stima costino 7,7 miliardi di dollari; gli statunitensi spendono 2,9 miliardi di dollari per farmaci da banco, e altri 400 milioni per farmaci su prescrizione per il sollievo dei sintomi[17]; più di un terzo delle persone che hanno fatto ricorso a un medico ha ricevuto una prescrizione di antibiotici, che però può comportare il fenomeno della resistenza. Si stima che circa 22-189 milioni di giorni di scuola vengano persi ogni anno a causa del raffreddore; come risultato, i genitori perdono 126 milioni di giorni lavorativi per rimanere a casa a occuparsi dei propri figli. Questo va aggiunto ai 150 milioni di giornate lavorative perse dai dipendenti che soffrono per un raffreddore, portando l'impatto economico totale a una perdita superiore ai 20 miliardi di dollari l'anno: ciò rappresenta il 40% del tempo lavorativo perso in totale negli Stati Uniti.

Eziologia. Coronavirus: è un gruppo di virus conosciuti per essere causa del raffreddore comune. Il raffreddore comune è un'infezione virale del tratto respiratorio superiore. Sono noti in totale oltre 200 virus associati al raffreddore, e spesso nell'infezione è coinvolta più di una specie virale. Il virus più comunemente responsabile è il rhinovirus (30-80% dei casi), un genere di Picornaviridae con 99 sierotipi noti; fra gli altri agenti eziologici virali vi sono il coronavirus (10-15%) e le Orthomyxoviridae (5-15%), virus parainfluenzali umani, il virus respiratorio sinciziale umano, l'adenovirus, l'enterovirus e il metapneumovirus. L'immunità di branco, generata da una precedente esposizione al virus del raffreddore, svolge un ruolo importante nel limitare la diffusione virale. Ciò si è potuto osservare nelle popolazioni più giovani che presentano maggiori tassi di infezioni respiratorie. Un sistema immunitario scarsamente efficiente è inoltre un fattore di rischio per la malattia. Anche la scarsità di sonno e la malnutrizione sono stati associati a un maggior rischio di sviluppare infezioni dopo esposizione al Rhinovirus; si ritiene che ciò dipenda dai loro effetti sulla funzionalità immunitaria. Una causa della malattia ben accertata è lo stress; infatti molti sintomi del raffreddore si verificano due o tre giorni dopo eventi emotivamente importanti, il tempo di ritardo nella comparsa dei sintomi è dovuto al fatto che il focolaio dell'infezione è preceduto da un corrispondente periodo di incubazione.

Patogenesi. Il raffreddore comune è una malattia del tratto respiratorio superiore. Il virus del raffreddore comune si trasmette tipicamente attraverso goccioline presenti nell'aria (aerosol), tramite il contatto diretto con oggetti o secrezioni nasali infette. Non è ancora stato stabilito quale sia tra queste vie quella di primaria importanza. I virus possono sopravvivere per periodi prolungati nell'ambiente e possono essere raccolti sulle mani delle persone e successivamente portati verso gli occhi o il naso, dove poi l'infezione può realizzarsi. La trasmissione è facilitata dalla vicinanza di molti bambini, caratterizzati da deboli difese immunitarie e da una scarsa igiene, che si verifica negli asili nido e nelle scuole; una volta contratta la malattia in questi ambienti, i bambini la possono trasmettere, a casa, agli altri membri della famiglia. Per quanto riguarda i viaggi in aereo, non vi è alcuna prova che il ricircolo dell'aria durante i voli con passeggeri conduca alla trasmissione del virus, tuttavia le persone sedute in prossimità degli impianti sembrano essere a maggior rischio. I raffreddori causati da Rhinovirus risultano più contagiosi durante i primi tre giorni dalla comparsa dei sintomi. Si ritiene che i sintomi del raffreddore comune siano principalmente correlati alla risposta immunitaria al virus. Il meccanismo di questa risposta è virus-specifica. Ad esempio, il Rhinovirus è tipicamente acquisito tramite contatto diretto; esso si lega al recettore umano ICAM-1 attraverso dei meccanismi sconosciuti per poi innescare il rilascio di mediatori infiammatori. Questi sono poi la causa dei sintomi e generalmente non sono correlati ai danni all'epitelio nasale. Il virus respiratorio sinciziale (RSV) invece viene contratto sia tramite contatto diretto, sia per inalazione di goccioline presenti nell'aria. Si replica poi nel naso e nella faringe prima di diffondersi nel tratto respiratorio inferiore, ma non causa danni all'epitelio. Il virus parainfluenzale umano produce tipicamente un'infiammazione del naso, della gola e dei bronchi. Nei bambini, quando riguarda la trachea, può produrre croup per via della piccola dimensione delle vie aeree.

Agenti atmosferici. Tradizionalmente vi è la teoria che un raffreddore possa essere preso in seguito a una prolungata esposizione al freddo, alla pioggia o a condizioni atmosferiche invernali; da ciò la malattia ha preso il nome. Se il ruolo del raffreddamento del corpo sia un fattore di rischio per il raffreddore comune è tutt'ora un aspetto controverso. Alcuni dei virus che causano il raffreddore comune sono stagionali e si presentano più frequentemente durante le stagioni fredde o umide; alcuni credono che questo sia dovuto principalmente a un aumento del tempo trascorso al chiuso, specialmente per i bambini che ritornano a scuola, tuttavia può anche essere correlato a cambiamenti nel sistema respiratorio che si traducono in una maggiore suscettibilità: la bassa umidità aumenta la possibilità di trasmissione virale, permettendo alle goccioline virali di disperdersi più lontano dalla fonte di contagio e di restare in sospensione nell'aria più a lungo. A sostegno della comune esperienza, che vorrebbe l'esistenza di un legame tra il freddo e l'insorgenza del raffreddore, depongono recenti studi che suggeriscono la possibilità di una diminuzione della risposta immunitaria al rhinovirus in presenza di basse temperature.

Complicanze. Eventuali complicazioni gravi, se si verificano, riguardano solitamente persone molto anziane, bambini piccoli e coloro che hanno un sistema immunitario poco efficiente o sono immunocompromessi. In taluni casi possono verificarsi infezioni batteriche secondarie con conseguenti sinusite, faringite, polmonite, bronchite e otite. Si stima che si verifichino sinusiti nell'8% dei casi e infezioni all'orecchio nel 30%. Nei soggetti già affetti da patologie a carico dell'apparato respiratorio, quali ad esempio asma e broncopatie croniche ostruttive (che comprendono l'enfisema polmonare e la bronchite cronica), il raffreddore comune può aumentarne i sintomi, peggiorando le condizioni generali del paziente.

Clinica. Segni e sintomi. Principali sintomi del raffreddore e loro percentuale di presentazione: Naso chiuso 95, Dolore ai seni paranasali

21, Naso ostruito 91, Brividi 18, Mal di gola 80, Mialgia 14, Starnuti 72, Rinorrea 12, Mal di testa 40, Febbre serotina 7, Malessere 39, Febbre mattutina 6, Lacrimazione 30, Linfoadenite cervicale 3, Tosse 25, Espettorazione 3, Raucedine 25. I sintomi tipici del raffreddore comprendono tosse, rinorrea, congestione nasale e odinofagia, talvolta accompagnati a dolori muscolari, affaticamento, cefalea e perdita di appetito. Alcuni virus che causano il raffreddore comune possono anche portare a infezioni asintomatiche. Il mal di gola è presente in circa il 40% dei casi e la tosse nel 50%, mentre il dolore muscolare si verifica in circa la metà delle infezioni. Negli adulti, la febbre non è generalmente presente, ma è comune nei neonati e nei bambini piccoli. La tosse è di solito lieve rispetto all'influenza. Mentre la presenza di tosse e febbre negli adulti indica una maggiore probabilità di influenza, vi è generalmente una grande somiglianza tra queste due condizioni. Il colore dell'espettorato o delle secrezioni nasali può variare dal giallo al verde e non presentare all'analisi microscopica la classe di agenti che ha causato l'infezione. Il raffreddore solitamente esordisce con stanchezza, infreddolimento, starnuti e mal di testa, seguiti in un paio di giorni da rinorrea e tosse. I sintomi tipici hanno il loro massimo due o tre giorni dopo l'insorgenza dell'infezione e di solito si risolvono in sette-dieci giorni, ma in alcuni casi possono permanere fino a tre settimane. Nei bambini, la tosse dura più di dieci giorni nel 35-40% dei casi e si protrae per più di 25 giorni nel 10%.

Diagnosi. La distinzione tra le diverse infezioni virali del tratto respiratorio superiore è basata sulla localizzazione dei sintomi. Il raffreddore comune colpisce principalmente il naso, a differenza della faringite e della bronchite che coinvolgono solitamente le vie aeree inferiori. Tuttavia, può esserci una significativa sovrapposizione e più aree possono essere coinvolte. Il raffreddore comune è spesso definito come la presenza di infiammazione nasale correlata a un variabile coinvolgimento delle vie aeree inferiori. L'autodiagnosi è frequente. L'isolamento del vero agente virale in questione è raramente eseguito e non è in genere possibile identificare il tipo di virus attraverso i sintomi.

Trattamento. Poster che incoraggia i cittadini a "consultare il proprio medico" per il trattamento del raffreddore comune a scopo di prevenzione dalla polmonite. Attualmente non esistono farmaci o altri rimedi che siano stati definitivamente dimostrati capaci di ridurre la durata dell'infezione. Il trattamento comprende quindi esclusivamente un approccio sintomatico. Misure utili possono essere il riposo, l'assunzione di liquidi per mantenere l'idratazione e gargarismi con acqua salata calda. Gran parte del beneficio del trattamento è comunque attribuibile all'effetto placebo.

Trattamento dei sintomi. I trattamenti che aiutano ad alleviare i sintomi includono l'assunzione di semplici analgesici e antipiretici come l'ibuprofene e il paracetamolo. È stato provato che i medicinali contro la tosse non sono più efficaci degli analgesici semplici e non sono raccomandati per l'uso nei bambini a causa della scarsa efficacia e per i loro potenziali effetti collaterali. Nel 2009, il Canada ha limitato l'utilizzo dei farmaci da banco per la tosse e il raffreddore nei bambini al di sotto dei sei anni, per via delle preoccupazioni riguardanti i possibili rischi e i non provati benefici. L'abuso di destrometorfano, un farmaco da banco per la tosse, ha portato al suo divieto in un certo numero di paesi. Negli adulti, la rinorrea può essere ridotta grazie all'assunzione di antistaminici di prima generazione. Tuttavia, il loro uso è associato a effetti indesiderati quali la sonnolenza. Gli antistaminici di seconda generazione, invece, non sembrano essere efficaci. I decongestionanti come la pseudoefedrina risultano essere utili, mentre gli spray nasali a base di ipratropio possono ridurre la rinorrea ma sono poco attivi sulla congestione nasale.

Antibiotici e farmaci antivirali. Gli antibiotici non hanno alcun effetto contro le infezioni virali e quindi non hanno alcuna efficacia contro i virus che causano il raffreddore comune. Tuttavia essi sono ancora frequentemente prescritti. Ciò avviene per vari motivi quali le aspettative dei pazienti, il desiderio dei medici di "fare qualcosa" e la difficoltà di escludere eventuali complicazioni che potrebbero essere sensibili agli antibiotici. Non vi sono farmaci antivirali efficaci per il trattamento causale del raffreddore comune, anche se alcune ricerche preliminari hanno dimostrato benefici per alcune molecole.

Trattamenti alternativi. Esistono molti trattamenti alternativi utilizzabili per il raffreddore comune, ma non vi sono sufficienti prove scientifiche per sostenerne l'uso della maggior parte di questi. Ad esempio, al 2010 non vi sono abbastanza evidenze per consigliare o sconsigliare il miele o l'irrigazione nasale. Uno studio ha suggerito che lo zinco, se preso entro 24 ore dalla comparsa dei primi sintomi, riduce la durata e la gravità del raffreddore comune nelle persone sane.[69] A causa delle differenze notevoli tra i diversi studi, ulteriori ricerche si rendono necessarie per stabilire come e quando lo zinco può essere efficace. L'effetto della vitamina C sul raffreddore comune, nonostante le ampie ricerche, appare deludente, con l'esclusione di alcune e limitate circostanze. Le prove circa l'utilità delle piante del genere Echinacea sono incoerenti.

Prevenzione. L'unica misura potenzialmente efficace per prevenire la diffusione del virus del raffreddore è l'adozione di precauzioni fisiche. Queste precauzioni comprendono in primo luogo il lavaggio delle mani e l'uso di mascherine protettive. In ambiente sanitario sono preferibilmente da utilizzare camici e guanti monouso. La quarantena non è una strategia attuabile poiché la malattia è molto diffusa e i sintomi non sono specifici. Allo stesso modo la vaccinazione non è facilmente attuabile, poiché vi sono moltissimi virus responsabili della malattia che oltretutto mutano rapidamente. Lo sviluppo di un vaccino ampiamente efficace è quindi molto difficoltoso. Lavarsi regolarmente le mani sembra essere efficace nel ridurre la trasmissione del virus del raffreddore, soprattutto tra i bambini. L'aggiunta di prodotti disinfettanti antivirali e antibatterici nel lavaggio mostra una certa utilità. Indossare mascherine protettive quando intorno vi sono persone infettate è una strategia ritenuta efficace. Tuttavia non vi sono prove sufficienti per ritenere che mantenere una maggiore distanza tra i soggetti sia un buon metodo di prevenzione. L'assunzione di dosi supplementari di zinco può essere efficace per ridurre il tasso di raffreddori. Invece la vitamina C non riduce il rischio o la gravità del raffreddore comune, anche se può ridurne la durata.

·        La Sars-CoV-2 e le sue varianti.

Che cos’è il coronavirus. Federico Giuliani su Inside Over il 25 febbraio 2020. All’origine dell’epidemia di polmonite che ha messo in ginocchio la Cina e allertato il mondo intero c’è il virus ribattezzato 2019 novel coronavirus, abbreviato nella dicitura 2019-n-Cov o Covid-19. La malattia è stata identificata per la prima volta nella città di Wuhan alla fine del dicembre 2019. In poche settimane decine e decine di persone sono state contagiate in tutto il Paese, mentre altre sono morte. Il misterioso morbo si è diffuso anche all’estero creando una psicosi collettiva.

L’origine del coronavirus. Il focolaio del nuovo coronavirus, almeno secondo quanto si sa fino ad ora, è stata rintracciata a Wuhan, una megalopoli di 11 milioni di abitanti situata nella provincia dello Hubei, nella Cina centrale. L’origine esatta è stata localizzata nel mercato ittico di Huanan – adesso chiuso – dove si vendevano, tra le altre cose, anche le carni di animali selvatici. I primi casi sono comparsi al termine dello scorso anno. Molti dei primi pazienti che avevano manifestato i sintomi dell’infezione avevano lavorato o visitato come clienti proprio il mercato all’ingrosso della città, in cui si potevano acquistare pesce, frutti di mare ma anche animali da allevamento, pollame e serpenti. A finire sotto la lente d’ingrandimento per la diffusione del nuovo coronavirus è finita una specialità della cucina di Wuhan: la zuppa di pipistrello della frutta. Per alcuni esperti potrebbe essere l’ipotetico intermediario sconosciuto della patologia fra uomo e virus. In altre parole, gli scienziati ritengono che gli ospiti naturali del coronavirus possano essere i pipistrelli, ma che tra loro e gli umani possa esistere un veicolo. Due le opzioni: la citata zuppa oppure i serpenti.

Il virus. L’agente patogeno è un coronavirus della famiglia a cui appartengono anche quello della Sars (la sindrome respiratoria acuta severa ) e la Mers (la sindrome respiratoria del M.O.). Il nome deriva dalle particolari punte a forma di corona presenti sulla superficie del virus. I coronavirus sono comuni in moltissime specie di animali anche se, in alcuni rari casi, possono effettuare una mutazione e infettare l’uomo, per poi diffondersi nella popolazione. Quando parliamo di un “nuovo coronavirus” intendiamo dire che siamo di fronte a un nuovo ceppo di coronavirus che non è mai stato identificato nell’uomo. Fino a oggi conoscevamo sei tipi di coronavirus umani, a cui si è aggiunto l’ultimo arrivato da Wuhan. Ecco la lista completa: 229E (coronavirus alpha), NL63 (coronavirus alpha), OC43 (coronavirus beta), HKU1 (coronavirus beta), e poi i più celebri, MERS-CoV (il coronavirus beta che causa la Middle East respiratory syndrome), SARS-CoV (il coronavirus beta che causa la Severe acute respiratory syndrome) e infine 2019 Nuovo coronavirus (2019-nCoV).

Sintomi e diagnosi. Proprio come altre malattie respiratorie, l’infezione da nuovo coronavirus può causare sintomi lievi oppure più severi, quali polmonite e difficoltà respiratorie. Raramente può essere fatale. Ricordiamo che le persone più suscettibili alle forme gravi sono gli anziani e quelle con malattie preesistenti, quali diabete e malattie cardiache. Il periodo di incubazione, cioè il lasso di tempo che intercorre fra il contagio e lo sviluppo dei sintomi clinici, varia tra i due e gli undici giorni, fino ad un massimo di 14 giorni. In caso di sospetto di Coronavirus è necessario effettuare esami di laboratorio per confermare la diagnosi.

Come avviene il contagio. I coronavirus umani si trasmettono da una persona infetta a un’altra mediante colpi di tosse, saliva, starnuti o attraverso contatti diretti. Un esempio? Stringere la mano a un paziente infetto e portarsela alle mucose. È rischioso anche toccare un oggetto o una superficie contaminati dal virus e poi portarsi le mani, non lavate, su naso, occhi o bocca.

Come si cura. Al momento non esistono vaccini per prevenire il nuovo coronavirus. Esiste tuttavia un test per identificarlo. Chi contrae la malattia viene trattenuto in isolamento negli ospedali o in casa per evitare il contagio. I sintomi generici sono trattati con i farmaci contro dolore e febbre o antibiotici. I medici consigliano ai pazienti infetti di bere molti liquidi e riposarsi.

Accorgimenti utili. Si possono seguire alcuni consigli per evitare di correre rischi e ridurre notevolmente l’eventualità di contrarre un virus del genere. Innanzitutto è fondamentale lavarsi spesso le mani con acqua e sapone o con soluzioni alcoliche per almeno una ventina di secondi. Meglio starnutire o tossire in un fazzoletto, girare con una mascherina e gettare sempre i fazzoletti utilizzati in un cestino chiuso; non toccare naso, occhi e bocca con mani sporche; ridurre al minimo i contatti ravvicinati con persone infette. Attenzione anche al cibo: evitare carne cruda o poco cotta così come frutta e verdura non lavata e bevande non imbottigliate. Stando alle indicazioni del ministero della Salute italiana, le malattie respiratorie non si trasmettono con gli alimenti, che comunque devono essere manipolati rispettando le buone pratiche igieniche ed evitando il contatto fra alimenti crudi e cotti. Sono tuttavia in corso vari studi per comprendere meglio le modalità di trasmissione del virus.

La diffusione del virus. Appare pressoché impossibile aggiornare in tempo reale le vittime e i contagi. Ci limitiamo a dire che il virus ha ormai contagiato l’intera e Cina e si è diffuso ben oltre la muraglia. L’Organizzazione mondiale della sanità ha registrato casi praticamente in tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti passando, ovviamente, per l’Asia, continente nel quale è collocato il focolaio principale. Oltre alla Cina, stando ai dati di wolrdometers.info, i Paesi più colpiti sono Corea del Sud (oltre 800 contagi e 8 morti), Italia (oltre 200 e 6 decessi) e Giappone (più di 150 e 1 vittima). Situazioni complicate anche a Singapore (90), Hong Kong (79 infettati e 2 morti) e Iran (61 contagiati e 12 morti).

L'identikit delle vittime. Dando uno sguardo ai dati anagrafici delle vittime colpite, la maggior parte di loro rientra nella categoria degli anziani o di pazienti con patologie pregresse, come il diabete e morbo di Parkinson.

Una ricerca condotta dai Centers for diseases control cinesi (Ccdc) su circa 44mila persone contagiate ha evidenziato che la maggior parte dei pazienti deceduti (il 14,8%) aveva più di 80 anni. La percentuale di decessi nella fascia compresa tra i 70 e i 79 anni è invece pari all’8%; da 60 a 69 si scende al 3,6%; da 50 a 59 all’1,3%; da 40 a 49 allo 0,4%; da 30 a 19 allo 0,2%.

Da “La Nazione” il 25 agosto 2021. Covid e serpente a sonagli, in apparenza non hanno nulla in comune. E invece, entrambi uccidono allo stesso modo. È un enzima presente anche nel veleno del serpente a sonagli il meccanismo chiave responsabile della mortalità da Sars-Cov2. A individuarlo sono stati i ricercatori dell'Università dell'Arizona, in collaborazione con la Stony Brook University e la Wake Forest University School of Medicine, autori dello studio pubblicato su Journal of Clinical Investigation. I ricercatori hanno analizzato campioni di sangue di due coorti di pazienti con Covid-19, una di 127 pazienti ricoverati presso la Stony Brook University tra gennaio e luglio 2020 e una seconda indipendente di 154 campioni di pazienti raccolti sempre dalla Stony Brook e Banner University Medical Center di Tucson tra gennaio e novembre 2020. I ricercatori hanno così scoperto che la circolazione dell'enzima fosfolipasi A2 gruppo IIA secreta, o sPLA2-IIA, può essere il fattore più importante responsabile della mortalità nei pazienti con Covid. L'enzima sPLA2-IIA ha caratteristiche simili ad un enzima presente nel veleno del serpente a sonagli, si trova in basse concentrazioni in individui sani e svolge un ruolo fondamentale nella difesa contro le infezioni batteriche. Secondo lo studio, il Covid-19 è stato letale nel 63% dei pazienti con infezione grave e livelli di sPLA2-IIA pari o superiori a 10 nanogrammi per millilitro. «Molti pazienti che sono morti di Covid-19 avevano alcuni dei livelli più alti di questo enzima che siano mai stati riportati», ha detto Floyd Chilton, che ha studiato l'enzima per oltre tre decenni ed è co-autore dello studio.

Vittorio Feltri, il mio amico coronavirus: "Perché il morbo assomiglia agli uomini, anzi forse è meglio". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 14 aprile 2021. Per gentile concessione del mensile «Arbiter» proponiamo l'articolo di Vittorio Feltri pubblicato sul numero di aprile. Le presentazioni innanzi tutto. Virus, questo è l'uomo. Uomo, questo è il virus. Ehi perché sorridete? Vi conoscete già? Il Coronavirus offre la possibilità di fare qualche considerazione semiseria sui massimi sistemi. Mettiamo da parte grafici, statistiche ed esperti, e riflettiamo su una cosa. Il virus punta a riprodursi. Perché? Per sopravvivere. Colonizza i suoi ospiti, dilaga nel corpo altrui, si fa trasportare qua e là fino a quando è possibile. Poi gli ospiti cedono, i corpi si spezzano. Se ne muoiono troppi, zac, il virus ha condannato anche se stesso. Se l'ospite è intelligente, e inventa sistemi difensivi efficaci, zac, l'ospite condanna a morte il virus.  Se il virus muta, e riesce a eludere l'efficacia dei sistemi difensivi, uno a uno e palla al centro, ricomincia la partita, vinca il migliore. È la questione delle varianti che abbiamo davanti agli occhi proprio in questi giorni. Il virus cerca di battere in fantasia il vaccino che ha iniziato a fare strage di Covid, specie in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. L'epidemia è diventata pandemia. A questo punto il virus ci ha preso gusto e non vuole mollare la presa per nessun motivo. Getty) A sin. la copertina del mensile «Arbiter» in edicola questo mese ( La volontà del virus è cieca. Lui è programmato per far quello, e lo fa con una certa insistenza: infetta ospiti. Non è cattivo né buono. Ha soltanto uno spiccato senso della necessità: vogliamo criticarlo per questo? Non è neppure auto-cosciente, per quello che ne sappiamo. È l'innocenza fatta virus. Non uccide per il piacere di farlo. È un effetto collaterale indesiderato. Se può evitare, evita. 

«CIAO, SONO TANIA». Il virus sembra davvero un virus digitale, quello che distrugge i computer, ruba i dati nei film, serve a far rapine, fa crollare le difese della Cia nei film, ti frega il numero della carta di credito, ti manda mail con scritto: "Ciao sono Tania e sono nei guai all'aeroporto del Burundi, mi spedisci 10 dollari per aiutarmi? Sei la mia unica speranza, ti prego". E tu pensi: ma chi è questa Tania? Non conosco alcuna Tania, e i soldi non glieli mandi... Il virus, quello reale, sembra una invenzione umana. È vero anche il contrario, molti sostengono che anche la nostra specie sia un virus con qualche cellula in più del solito. Arriviamo in un luogo, il pianeta Terra o in piccolo qualunque altro ecosistema, lo scopriamo, lo usiamo per i nostri scopi, che ruotano poi sempre intorno al nutrirsi, direttamente o indirettamente, e quando non c'è più niente da sfruttare, ne cerchiamo un altro. Uccidiamo senza problemi, le altre specie ma anche i nostri simili, e spesso questa azione non comporta una presa di coscienza superiore a quella di un virus nel corpo umano. Noi uccidiamo per necessità ma anche perché, in fondo, ci piace essere crudeli. Ciao, sono un essere umano e faccio cose terribili. Il virus neanche ci pensa, non può pensare. Ammazza per esuberanza, per eccesso di personalità. L'uomo ammazza per un sì o per un no, per ordine o per scelta, per passione o per ragionamento, per farsi bello con gli amici o per vendicare offese immaginarie e non ci vuole nemmeno una personalità particolare. Al limite una forte volontà. Dunque, signori, siamo forse arrivati a una conclusione neppure troppo sorprendente ma senz' altro interessante e vorrei aggiungere umiliante. La superiorità della nostra specie si dimostra presunzione. 

LA NUOVA FRONTIERA. L'uomo ha creato i virus digitali, replicando la natura. Ma chi ha creato l'uomo? E cosa è? Il virus, quello vero, potrebbe essere la versione "migliorata" dell'uomo, spogliata da ogni orpello, sollevata dal peso del libero arbitrio, finalmente in grado di valorizzare le sue qualità fondamentali e circolare senza falsi problemi di coscienza. Potremmo essere virus obsoleti, rallentati dai sentimentalismi, dai pensieri, dai dubbi. Oppure il contrario: potremmo essere la nuova frontiera del virus, grazie alla scienza, presto o tardi sbaragliamo la concorrenza; grazie all'intelligenza ci adattiamo alle condizioni più avverse; e grazie alla mancanza di pietà, affondiamo il colpo dove fa più male, anzi dove uccide. Come efficienza siamo messi bene e si può sempre migliorare. Tuttavia nulla è certo. Forse il nostro destino è essere debellati dagli anticorpi del pianeta-ospite, questa cellula appartenente al corpo dell'universo. Forse un altro virus, più efficiente, prenderà il nostro posto e riderà delle nostre città, organizzando la vita in un modo parassitario che non riusciamo a immaginare. Oppure... Forse partiremo per le stelle, e saremo un virus in viaggio verso ospiti ancora da scoprire, nella speranza, connaturata a ogni virus, di espanderci e conquistare. Coronavirus, qua la mano. In fondo siamo più simili di quanto pensassimo. Questo non vuol dire che ti lasceremo vincere, sai com' è, noi siamo più spietati e non accettiamo la concorrenza. Dunque preparati a essere sbaragliato. E ora, addio. Torna nel nulla da cui sei sbucato.

Covid, il dizionario degli orrori. Giuseppe De Lorenzo il 13 Aprile 2021 su Il Giornale. Da un anno a questa parte facciamo uso di un vocabolario composto da pochi termini così tanto ripetuti da diventare ormai indigesti. Un vero e proprio “dizionario degli orrori”, su cui vale la pena riflettere. "Parole, parole, parole". Cantava così Mina tanti anni fa e ancora oggi quella melodia appare più attuale che mai. Non ci sono solo gli ormai inflazionati “pandemia”, “lockdown”, “coprifuoco”, “Cts” o “variante”. Da un anno a questa parte facciamo uso di un vocabolario composto da pochi termini così tanto ripetuti da diventare ormai indigesti. Un vero e proprio “dizionario degli orrori”, su cui vale la pena riflettere. E un po’ scherzare.

A come Algoritmo

Forse non ce ne siamo accorti, ma ormai sono i numeri a gestire le nostre vite. Una Regione è gialla, arancione o rossa? Decide lui, il deus ex machina di ogni scenario. Un enorme calcolatore superscientifico e ultra testato, vanto dei nostri matematici. Unico problema: a volte sbaglia pure lui. E quando succede sono dolori.

B come Bergamo

Fonti (non) accreditate assicurano che Giuseppe Conte non sappia neppure dove si trova la città di Giorgio Gori. Forse è per questo che nell’epicentro della pandemia c’è andato solo mesi dopo la strage silenziosa, arrivando peraltro a notte fonda. Ferita sanguinante, ancora non rimarginata: i bergamaschi sono gente tosta, e non dimenticano.

C come Coronavirus e Covid

Praticamente la coppia del male. La metà dei politici, giornalisti, commentatori e scienziati ancora non riescono a distinguerli, benché siano concetti ben distinti. Facciamo chiarezza: il primo termine descrive la tipologia di virus (nel nostro caso Sars-CoV-2), il secondo la malattia da esso prodotta. Che poi non è che sia così difficile.

Piccolo appunto: con C sarebbe da citare pure la parola Congiunto. Ma la questione dei dpcm e della classificazione dei parenti sulla base del livello di affetto è talmente imbarazzante da far cadere ancora oggi le braccia. Meglio sorvolare.

D come Dita nel naso

Poveri bimbi. Per evitare di infettarsi ormai devono imparare prima del tempo a non fare le pulizie di Pasqua a suon di ditate. Altrimenti il rischio è di infettarsi e finire tutti i Dad. Per gli adulti invece l’epidemia è stata un vantaggio: con le mascherine ormai risulta impossibile fare figuracce stile Joachim Low.

E come “Eravamo quattro amici al BAR”

Praticamente ritrovarsi a fare aperitivo è diventato più rivoluzionario che organizzare l’assalto alla Bastiglia. Un vero gesto di ribellione. Una volta il barista chiedeva: “Aperol o Campari”? Ora: “Controlli tu che non arrivino gli sbirri?”

F come Farmaco

Racchiudiamo qui tutte le agenzie del farmaco nazionali, internazionali e galattiche. Dall’Ema all’Aifa, non stanno dando grande prova di sé. L’ente europeo sembra l’Italia del Rugby al 6 nazioni: ogni volta che c’è una gara per approvare un siero, l'Ema arriva sempre ultima. L’Aifa, invece, ha modificato il bugiardino dei vaccini con la stessa frequenza con cui si cambiano le mutande. Meritano entrambe il cucchiaio di legno.

G come Gomito

Un tempo utilizzato per rompere i denti a chi ci stava antipatico, ora si è trasformato nell’unico mezzo con cui salutare un conoscente. Al diavolo gli abbracci, banditi i due o tre baci sulle guance: poco importa se due malcapitati mentre si battono il gomito poi si scatarrano anche in faccia. L’importante è non darsi mai più la mano.

H come Hotel

sono il simbolo della creatività italiana. Tecnicamente sono chiusi, come buona parte delle strutture ricettive. Quelli però che hanno nelle vicinanze una Spa, una struttura termale o anche solo una vasca da bagno con l’acqua calda, restano aperti per sedute “detox”. Ne sa qualcosa Andrea Scanzi.

I come Idrossiclorochina: Non s’è ancora ben capito se riesce davvero a curare la Covid oppure no. Molti medici sul campo sostengono di sì, i virologi da salotto tv assicurano di no. Ma poi, in fondo, chi se ne frega? È sempre stata più una disputa ideologica che medica.

L come Lancet

La pandemia verrà ricordata come l’occasione in cui la più importante rivista scientifica del mondo è riuscita a pestare la più colossale delle cacche. Do you remember? Lancet pubblicò un articolo per sotterrare il "farmaco dei sovranisti", la clorochina, per poi scoprire che lo studio finito sulle sue pagine era pieno zeppo di dati farlocchi e mal interpretati. Una figuraccia cosmica.

M come Matrimoni

Piccola digressione personale. Sentita solidarietà a chi da due anni è costretto a rinviarlo (me compreso). E agli operatori del settore che da 24 mesi lavorano a spizzica e bocconi, senza uno straccio di certezza. Nel 2021 le feste di nozze si faranno? Io non l'ho ancora capito. Boh.

N come Negazionisti

Non fate i finti tonti. Tutti quanti almeno una volta siamo stati fieri e convinti negazionisti. Chi più, chi meno, ci siamo fatti abbindolare dall’altalena di dichiarazioni contrastanti. Da “è solo una influenza” a “ammazza come la peste”, ognuno di noi ha vestito anche solo per un momento i panni della signora che disse: “Non ce n'è Coviddi”.

O come Oms

Ce ne sarebbero di cose da scrivere e di errori da sottolineare. Due esempi su tutti: 1) il ritardo con cui ha dichiarato l’emergenza pandemica; 2) la solerzia con cui ci ha informato che le mascherine servivano a poco o niente. Il coronavirus farà da spartiacque per questa istituzione un po’ logora. Forse bisognerà rivederne il funzionamento e soprattutto il livello di indipendenza. Lo suggeriscono due episodi: 1) le due fallimentari missioni in Cina alla ricerca della verità sul virus, risultate in entrambi i casi più una gita al guinzaglio della Cina che una ricerca vera e propria; 2) lo scandalo che ruota attorno al ritiro del report scritto dai ricercatori di Francesco Zambon sulla risposta “caotica e improvvisata” dell’Italia al virus. Alcune mail fanno supporre che l’Organizzazione abbia vestito i panni della “foglia di fico” per le decisioni del governo, e che abbia fatto di tutto per evitarne i fastidi dopo la pubblicazione dello scomodo dossier. Non proprio il miglior modo per mostrarsi neutrali rispetto al Potere.

P come Piano pandemico

C’era o non c’era? Chi avrebbe dovuto aggiornalo? L’abbiamo attivato oppure no? Perché a febbraio hanno scritto un “piano segreto” da zero, dedicato al coronavirus, e poi l’hanno tenuto chiuso in un cassetto? Gli interrogativi sono così tanti che servirebbe un papiro per raccoglierli tutti. L’unica certezza è che di risposte, per ora, dalle istituzioni preposte ne sono arrivate davvero poche.

Q come Quesiti

Parola strettamente collegata a quanto detto poco fa. Per un anno abbiamo studiato, fatto ricerche, pubblicato report su un nemico piccolo, invisibile e bastardo. Eppure siamo ancora pieni zeppi di interrogativi senza soluzione.

R come Resilienza

Se facessimo un sondaggio, probabilmente scopriremmo che l’85% degli italiani non ha ancora ben chiaro il significato del termine. Il procuratore di questa parola è senza dubbio l’ex premier Conte, che l’ha utilizzata con più frequenza di quanto Mino Raiola faccia cambiare squadre a Ibrahimovic. Non credo che nell'utilizzare questo vocabolo l'Avvocato del popolo si riferisse all'accezione di "resistenza alla rottura dei materiali", ma alla “capacità di reagire di fronte alle difficoltà”. Ecco, magari ne abbiamo anche avuta di resilienza… ma ora credo che l’espressione con la R che più si addice allo stato d’animo degli italiani sia: “rottura di c…”.

S come Speranza

Questo termine ha due significati almeno. Il primo di solito viene associato al colore verde, tipo “la speranza di ripartire”, sentimento ormai soppiantato dall’illusione. Ci dicono sempre che si vede la luce in fondo al tunnel, eppure la fine non arriva mai: quanto è lunga ‘sta galleria?
L’altra accezione riguarda un cognome, quello del ministro della Salute. Non ci dilungheremo, ma certo il coronavirus ha dato all’esponente di Leu una visibilità insperata. Dopo il crollo del Conte II, per un misterioso bisogno di continuità è riuscito addirittura a conservare il posto nonostante le tante ombre e i non pochi errori. In pratica è l’unico ad averci guadagnato.

T come Trombosi

Sono il vero spauracchio della campagna di vaccinazione. La statistica dice che i casi sono pochi su milioni di milioni. In percentuale parliamo dello zero-virgola-nulla. Il rischio è di gran lunga inferiore alla probabilità che ognuno di noi ha di vincere al Superenalotto. Però la legge di Murphy è chiara: se una delle due cose deve accadere, non sarà quella che ti fa diventare ricco. Dunque uno si vaccinerà pure, ma una toccatina non guasta mai.

U come Utopia

Tecnicamente si tratta della "aspirazione che non può avere attuazione". Prendiamo in prestito la lettera per introdurre due espressioni pandemiche, intimamente legate all'Utopia. Ovvero "balconi" e "andrà tutto bene". Nel marzo scorso abbiamo cantato, ballato, giocato a tennis sui terrazzi col sorriso sulle labbra di chi era convinto che presto sarebbe finito tutto. Alla faccia. Un anno dopo siamo ancora qui, più rinchiusi che mai. Non sappiamo quando finirà, ma abbiamo un'unica incrollabile certezza: non è andato per niente bene. Nulla.

V come Vaxzevria

Direte: che è? Niente, solo il nuovo nome di AstraZeneca, il più vituperato dei vaccini. Sostenuto dai buona parte dei governanti europei, efficace a targhe alterne oggi l’80% domani il 90%, utilizzabile prima sotto i 55 anni, poi fino a 65, infine solo dopo 60, non sappiamo ancora se ti fa prendere coccoloni, né se funziona contro le centomila nuove varianti. Però è l’unica arma che ci rimane. E non è una buona notizia.

W come Wuhan

In teoria dovrebbe essere il focolaio originale, il bubbone da cui è uscito il pus virulento. Però ormai non possiamo essere certi neppure di questo. Di sicuro è il punto zero di questa tragica infinita storia. Che speriamo possa finire presto.

Z come Zanzarologo

Ricordate la querelle? Giorgio Palù che accusa Andrea Crisanti di essere poco più di uno zoologo, dunque non titolato a parlare di virus e contenimento dell’infezione. Lo usiamo come esempio per dedicare un pensiero ai vari Burioni, Galli, Pregliasco, Ricciardi, Bassetti, Capua, Viola e compagnia cantante. Metà della confusione e della suspense di questa pandemia ce l’hanno regalata loro: liti, dichiarazioni, previsioni rilasciate in tv e poi rapidamente smentite. Uno show di cui, credo, non sentiremo la mancanza.

Silvia Turin per il "Corriere della Sera" l'11 agosto 2021. Ci sono moltissime varianti del coronavirus, ma quelle su cui converge l'attenzione degli scienziati (e delle autorità sanitarie) si chiamano VOC (Variants Of Concern): letteralmente dall'inglese «varianti di preoccupazione». Sono 4: Alfa, Beta, Gamma e Delta. La «variante» è il nuovo codice genetico di un virus che ha acquisito una o più mutazioni. Nonostante le somiglianze, le varianti sembrano essere sorte in modo completamente indipendente una dall'altra. Le «vincenti» sono sempre state quelle più contagiose, rispetto a quelle maggiormente patogene, in linea con quello che è l'interesse primario del virus: replicarsi e diffondersi. Il 14 settembre 2020 nel Regno Unito è stata identificata la Alfa. Ora diffusa in 154 Paesi, è diventata prevalente in Europa, Usa, Canada e Giappone. Presenta 23 mutazioni, 8 nella proteina spike, che la rendono più trasmissibile, nell'ordine almeno del 50% in più. Le ricerche hanno evidenziano che è associata a una carica virale più alta, ma non sembra a maggiore gravità di malattia da Covid. L'efficacia dei vaccini in uso in Europa non è indebolita. La variante Beta è emersa in Sudafrica a settembre del 2020 e lì è rimasta sostanzialmente circoscritta. Condivide con la Alfa la mutazione N501Y. È meno trasmissibile dell'Alfa, ma tra tutte è ancora quella con una potenzialità di evasione immunitaria dal vaccino maggiore (a causa della mutazione E484K). L'efficacia dei vaccini cala con la Beta nel proteggere dalle infezioni, specie dopo 1 sola dose, ma rimane alta per tutti i vaccini riguardo alle ospedalizzazioni (dopo 2 dosi). Ad ottobre 2020 in Brasile è stata identificata la variante Gamma. Diffusa soprattutto in Sud America, è arrivata anche in Usa, Canada ed Europa, compresa l'Italia, ma non è stata in grado di imporsi. Contiene una costellazione unica di mutazioni, tra cui la N501Y, comune alla Alfa, e la E484K, comune alla Beta. Rispetto all'efficacia dei vaccini presenta una minima riduzione: si colloca tra la Alfa (che non provoca problemi di efficacia) e la Beta. A settembre 2020 in India è stata identificata la variante Delta che in Europa sta diventando prevalente. Contiene due mutazioni già note che per la prima volta compaiono insieme, E484Q (maggiore trasmissibilità) e L452R (parziale evasione immunitaria dai vaccini). Delta è circa il 50-70% più trasmissibile rispetto alla variante Alfa, che a sua volta era il 50% più trasmissibile del ceppo che abbiamo avuto in Europa lo scorso anno. Si monitorano sintomi leggermente diversi: mal di testa, mal di gola, naso che cola e febbre mentre tosse e perdita d'olfatto sono rari. In ordine crescente su una scala da 1 a 100 possiamo dire che, con la variante Delta, chi non è vaccinato ha zero di protezione, chi ha fatto una dose è protetto al 20-30%, chi è guarito al 60-70%, chi ha fatto due dosi di vaccino è al 70-80% e chi ha fatto la malattia e poi il vaccino probabilmente è al 90%. I vaccinati possono reinfettarsi (nell'ordine di circa il 12% di possibilità) ma non svilupperanno malattia grave. Possono essere contagiosi, ma meno, soprattutto se incontrano altri vaccinati. Le VOI (Variants Of Interest), le «varianti sotto osservazione» sono: Eta (identificata in Nigeria), Iota (diffusa a New York), Kappa (il lignaggio da cui deriva Delta) e Lambda, identificata in Perù, che sarebbe più contagiosa e potrebbe sfuggire parzialmente agli anticorpi dei vaccini: gli studi sono ancora incompleti.

Varianti virali. Pubblicato: issalute.it/ 08 Giugno 2021- Ultimo aggiornamento: 15 Luglio 2021.

INTRODUZIONE. I virus sono microorganismi semplici costituiti da un acido nucleico (DNA o RNA a seconda del tipo di virus) che contiene l'informazione genetica (patrimonio genetico) necessaria per la loro moltiplicazione e da un numero variabile di proteine, alcune presenti sull'involucro esterno (capside virale). Non sono autonomi e sono in grado di vivere e moltiplicarsi soltanto all'interno delle cellule dell'organismo che li ospita (ad esempio, l'uomo). Una variante si genera quando un virus, moltiplicandosi nell'organismo ospite, subisce una o più variazioni (mutazioni) nel suo patrimonio genetico (o genoma) che lo rendono diverso dal virus originario. Nella maggior parte dei casi, la mutazione non determina cambiamenti importanti nella struttura del virus e nelle caratteristiche dell'infezione. Tuttavia in alcuni casi la mutazione, o la combinazione di più mutazioni, possono conferire al virus "nuovo" (variante) una maggiore capacità di riconoscere le cellule da infettare e, quindi, una maggiore aggressività e velocità di diffusione. In altri casi, il virus modificato (mutato) può diventare resistente alla risposta del sistema di difesa dell'organismo (sistema immunitario) che si sviluppa durante l'infezione naturale o in seguito a vaccinazione.

Più raramente, e per particolari famiglie di virus, può accadere che le mutazioni presenti nella variante del virus conferiscano a quest'ultima la capacità di infettare un ospite diverso da quello abituale, passando, ad esempio, dall'animale all'uomo. Il SARS-CoV-2, responsabile dell'attuale pandemia, è un esempio di virus che è passato dall'animale all'uomo e continua a variare moltiplicandosi nella specie umana.

COME SI GENERA UNA VARIANTE.

FATTORI CHE FAVORISCONO LA COMPARSA DELLE VARIANTI. Le varianti dei virus si differenziano dal virus da cui originano per una componente piccolissima, meno dello 0,1%, del patrimonio genetico (genoma) virale. Ciò nonostante, alcune possono essere molto diverse nella loro capacità di infettare e nella gravità dei disturbi che causano rispetto al virus originario. Sui motivi che determinano lo sviluppo di una variante di un virus sono state avanzate diverse ipotesi:

infezione prolungata, se una persona non riesce a guarire da un'infezione, ad esempio perché ha un sistema immunitario compromesso (immunodepressione), il virus può evolversi (mutare) nel tempo all'interno della stessa persona. Un esempio è rappresentato dalla cosiddetta “Variante Corradino”, comparsa in una donna italiana immunodepressa rimasta positiva all’infezione per 5 mesi

elevato tasso di moltiplicazione (replicazione) e diffusione del virus, la probabilità di comparsa delle variazioni (mutazioni) cresce con l'aumentare della circolazione del virus. È il caso di SARS-CoV-2 che sta infettando la popolazione mondiale sprovvista di difese nei suoi confronti

pressione selettiva esercitata dalla risposta immunitaria, da farmaci o da vaccini, i virus sono sottoposti a una forte pressione selettiva (la risposta difensiva del sistema immunitario nei confronti del virus che cerca di riprodursi e di infettare altre cellule) che riguarda soprattutto le proteine dell'involucro esterno più esposte all'attacco del sistema immunitario. Sotto l'azione dei vaccini, o anche dei farmaci, che tendono a ridurre la sua moltiplicazione, è più probabile che quegli errori casuali (mutazioni) che danno al virus variato maggiori probabilità di resistere all'attacco degli anticorpi o all'azione dei farmaci antivirali, prendano il sopravvento. Questo risulta in un'accelerazione del naturale cambiamento (evoluzione) del virus.

VARIANTI E SALTO DI SPECIE. Il cambiamento nel patrimonio genetico, e quindi nelle proteine del virus, è talvolta così importante da generare un virus variato (variante) con caratteristiche completamente diverse da quello d’origine. Ne è un esempio la capacità di infettare le cellule di una specie diversa. Questo nuovo comportamento del virus variato è il cosiddetto "salto di specie" (in inglese spillover), ovvero un processo naturale per cui un virus (o un altro microorganismo) che normalmente infetta animali si modifica (muta) e diventa in grado di infettare, riprodursi e trasmettersi all'interno della specie umana. Di solito, questo fenomeno accade in seguito a un contatto prolungato tra l'uomo e l'animale portatore del virus originario. Più prolungata e ravvicinata è l'esposizione animale-uomo, più è probabile che variazioni (mutazioni) casuali nel patrimonio genetico del virus possano produrre una "variante" in grado di infettare l'essere umano. Il salto di specie si è verificato più volte nel corso degli anni ma soltanto per alcune famiglie di virus che hanno il codice genetico formato da acido ribonucleico (RNA) quali, ad esempio, i Coronavirus. Quando è avvenuto, il salto di specie ha provocato infezioni improvvise e invasive nella popolazione su scala mondiale (pandemie). È ciò che è accaduto recentemente con il nuovo Coronavirus SARS-CoV-2, responsabile della malattia chiamata COVID-19, ma anche in precedenza con i Coronavirus responsabili di SARS e MERS, rispettivamente nel 2003 e 2012. Un altro esempio di virus a RNA per i quali sono stati descritti salti di specie, sono i virus dell'influenza (Ortomixovirus). In questi virus, l'infezione contemporanea con rimescolamento (riassortimento) di virus umani e animali (di uccelli o suini) all'interno di uno stesso ospite, oppure la trasmissione diretta del virus animale all'uomo, sono i meccanismi descritti. Tale salto di specie è stato responsabile di diverse pandemie nel corso degli anni, tra cui le più famose sono la spagnola nel 1918, l'asiatica nel 1957, l'influenza di Hong Kong nel 1968 e l'ultima, la “suina” del 2009.

LE VARIANTI DEL VIRUS SARS-COV-2. Fin dall'inizio della pandemia causata dal virus SARS-CoV-2 sono state identificate centinaia di variazioni (mutazioni) del virus che non hanno, però, alterato sostanzialmente il tipo e la malattia causata. Da settembre-ottobre 2020 invece hanno cominciato a circolare varianti con caratteristiche cliniche diverse dal virus originario, dovute a mutazioni nella proteina Spike, presente sull'involucro esterno. Esse sono state inizialmente identificate con il nome del Paese in cui sono state isolate per la prima volta, e, più recentemente, con le lettere dell'alfabeto greco. Attualmente sono 11 le varianti di SARS-CoV-2 sotto osservazione, e di queste quattro destano maggiore preoccupazione (chiamate dagli esperti “Voc - Variants of concern”):

variante Alfa o inglese (B.1.1.7), isolata per la prima volta in Gran Bretagna a settembre 2020. Ha dimostrato una capacità di diffusione (trasmissibilità) più elevata del 50% rispetto al virus originario e con aumento della gravità della malattia, ma è ben riconosciuta dai vaccini esistenti. Si è rapidamente diffusa in tutto il mondo sostituendo la versione originaria del virus e attualmente è la variante dominante

variante Beta o sudafricana (B.1.351), isolata in Sud Africa a ottobre 2020, e in Europa a fine dicembre 2020, ha una trasmissibilità più elevata e minore sensibilità ai vaccini. La sua diffusione in Italia è molto bassa

variante Gamma o brasiliana (P.1), isolata per la prima volta nel gennaio 2021 in Brasile e Giappone, e subito dopo anche in altri Paesi, sembra anch'essa avere una maggiore capacità di diffondersi e una minore sensibilità ai vaccini. Inoltre, potrebbe essere responsabile delle nuove infezioni in persone che hanno già avuto un'infezione da SARS-CoV-2 e che hanno sviluppato un'immunità. La sua diffusione in Italia è diminuita nelle ultime settimane

variante Delta o indiana (B.1.617.2), identificata per la prima volta in India a inizio 2021. Presenta un'efficienza di trasmissione superiore del 50-60% rispetto alla variante Alfa. Al momento è la seconda variante per diffusione nel mondo e si ritiene che possa diventare il virus dominante, soppiantando la variante Alfa

C’è poi la variante Epsilon (B.1.427), isolata inizialmente in California, che al momento è presente in 44 Paesi, sebbene sia ancora poco diffusa in Europa (due soli casi rilevati finora in Italia). È attualmente inclusa nel gruppo delle varianti sotto osservazione (chiamate dagli esperti “Voi - Variants of interest”), in quanto presenta tre mutazioni nella proteina Spike che, secondo uno studio recente, sembrano renderla resistente agli anticorpi, sia quelli generati dal vaccino che quelli sviluppati nel corso dell'infezione naturale.

Le misure di contenimento in atto (distanziamento sociale), i dispositivi di protezione individuale (mascherine) e il lavaggio frequente delle mani sono comunque in grado di limitare il contagio. L'emergenza di nuove varianti rafforza ancora di più l'importanza di aderire rigorosamente alle misure di controllo sanitarie e comportamentali, anche per coloro che hanno già contratto l'infezione o che si sono vaccinati. 

VARIANTI E RESISTENZA AI VACCINI. Le proteine presenti sull'involucro esterno del virus sono quelle contro cui il sistema immunitario dell'organismo infettato scatena una risposta più forte producendo, ad esempio, anticorpi in grado di riconoscere il virus quando entra nell'organismo e di neutralizzarlo. L'obiettivo del vaccino è proprio quello di simulare un'infezione naturale scatenando la produzione di anticorpi e altri tipi di risposta per neutralizzare il virus appena entra nell'organismo o, comunque, prima che infetti molte cellule. Per questo, ad esempio, con i vaccini anti-COVID-19 attualmente in uso, o in sperimentazione, si introduce nel corpo umano la proteina Spike "preformata" oppure le istruzioni (ad esempio, l'RNA messaggero) per farla produrre da parte delle stesse cellule umane. Ma i vaccini costruiti basandosi sulla proteina del virus originario "non mutato" potrebbero non riconoscere le varianti del virus SARS-CoV-2 comparse successivamente. Diversi studi sono in corso per capire se i vaccini in uso sono efficaci contro le varianti. In base ai risultati dei primi studi, un ciclo completo di vaccinazione (prima e seconda dose) con i quattro vaccini approvati è in grado di conferire protezione nei confronti delle principali varianti circolanti. Non ci sono, al momento, evidenze sufficienti che i farmaci antivirali in uso o in sperimentazione per COVID-19 siano sempre efficaci nei confronti delle varianti. Un esempio di virus a RNA che variano rapidamente durante la loro moltiplicazione nella specie umana e che sono in grado di acquisire resistenza nei confronti dei vaccini, sono i virus che causano l'influenza (Ortomixovirus). La rapida evoluzione di questi virus, che determina cambiamenti nelle proteine dell'involucro esterno, li rende capaci di sfuggire all'immunità indotta nelle persone dalle precedenti infezioni o vaccinazioni. Per questo l'influenza si può prendere più volte nel corso della vita e ogni anno il vaccino deve essere aggiornato con le ultime varianti circolanti. Ci sono poi alcuni virus, come l'HIV-1 responsabile dell'AIDS, che cambiano (mutano) così rapidamente da non essere stato possibile, finora, lo sviluppo di un vaccino in grado di proteggere dall'infezione.

ESAMI PER RILEVARE LE VARIANTI. La comunità scientifica e le autorità regolatorie svolgono un attento controllo (monitoraggio) sui cambiamenti che avvengono nel tempo nei virus influenzali e, attualmente, nel nuovo Coronavirus SARS-CoV-2 e sull'efficacia dei vaccini esistenti nella protezione da eventuali nuove varianti del virus man mano che esse compaiono. Per potere distinguere se un'infezione è determinata da una variante di un determinato virus è necessario un esame specifico detto “sequenziamento”. Consiste in una lettura molto precisa dell'informazione contenuta nel patrimonio genetico del virus. Il sequenziamento è l'unico esame che permette di controllare la diffusione delle varianti ma può essere effettuato soltanto in centri specializzati. L'analisi delle varianti del SARS-CoV-2 viene effettuata su specifici gruppi di persone dai laboratori delle singole regioni sotto il coordinamento dell'Istituto Superiore di Sanità. Con l'aumento del numero dei sequenziamenti per monitorare la diffusione delle varianti virali sarà possibile evidenziare sempre più nuove varianti, non necessariamente preoccupanti o pericolose, e si potranno avere sempre più informazioni sull'evoluzione del virus.

Da corriere.it il 27 ottobre 2020. Nelle ore, convulse, che hanno preceduto la riunione d’emergenza dell’Organizzazione mondiale della Sanità di venerdì 26 novembre, dedicata alla nuova variante, la stragrande maggioranza degli esperti aveva pronosticato che il nome che le sarebbe stato conferito sarebbe stato «Nu», la lettera che segue la «Mu» nell’alfabeto greco. Come noto, dallo scorso giugno, le varianti di maggior preoccupazione del virus Sars-CoV-2 — il coronavirus che può scatenare la malattia chiamata Covid — prendono il nome dalle lettere dell’alfabeto greco. Fino a quel momento, le varianti venivano individuate dal nome del Paese dove erano state identificate per la prima volta: ma per evitare l’effetto-stigma (doppio: perché spesso il Paese che aveva sequenziato per primo una variante non era nemmeno identificabile come quello dove la variante era «nata»), l’Oms ha deciso di assegnare le lettere dell’alfabeto greco alle varianti cosiddette «di preoccupazione» (in inglese VOC, Variant of Concern) e «di interesse» (VoI, Variant of Interest) nell’ordine cronologico in cui sono state designate come potenziali minacce dall’Oms. In base a questo criterio, vennero nominate «Alpha» la «variante inglese» B.1.1.7, «Beta» è la «variante sudafricana», «Gamma» quella «brasiliana», «Delta» quella indiana. Gli scienziati continuano ad assegnare lunghe stringhe di lettere e numeri alle nuove varianti per le classificazioni in base al lignaggio: ma quando una variante viene classificata come VoC o VoI, «scatta» la denominazione con l’alfabeto greco. Dopo la «Delta», sono state classificate come VoC altre tre varianti: Lambda, Epsilon e Mu (tutte e tre VoI, «di interesse» e non «di preoccupazione»). Venerdì dunque sarebbe toccato alla lettera «Nu»: ma l’Oms ha deciso di saltarla. Non solo: l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha saltato anche la lettera successiva, la «Xi». La motivazione, come spiegato al Corriere dalla portavoce dell’Oms Margaret Harris, ha a che fare con due ragioni diverse. «Nu», ha detto Harris, «suona, in inglese, troppo simile a “new”, cioè nuova». Insomma: il mondo anglofono si sarebbe trovato nella situazione di sentire due suoni estremamente simili in una frase nella quale si parlasse della “nuova variante Nu” («The new Nu variant»), e «avrebbe pensato che si trattava solo di una nuova variante, non del nome di quella variante». Per Xi, la questione è diversa: «Xi», spiega Harris, «è un cognome estremamente comune. E le nostre linee guida impongono di non utilizzare nomi che possano danneggiare gruppi culturali, sociali, nazionali, regionali, professionali o etnici». In molti hanno fatto notare come il cognome Xi sia estremamente diffuso in Cina — Paese già al centro di enormi contese geopolitiche sull’origine del virus — e che, in particolare, sia quello del capo di Stato di quel Paese, il presidente Xi Jinping. In altre parole: chiamare la nuova variante «Variante Xi» avrebbe potuto generare un involontario contraccolpo mediatico «anti-cinese». Per questo, l’Oms ha deciso di optare per il nome «Omicron». Consapevole forse che anche questa scelta avrebbe potuto scatenare polemiche tra chi — come l’ex presidente Donald Trump — ha sempre considerato l’Oms troppo «filo-cinese». 

DA ALFA A OMICRON, TUTTE LE NUOVE VARIANTI SONO EMERSE IN PAESI A BASSA COPERTURA VACCINALE. Milena Gabanelli, Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" il 15 dicembre 2021. Ogni volta che viene identificata una nuova variante del Covid-19, e l'ennesima è l'Omicron, monta l'allerta delle autorità sanitarie. Ma cosa c'è dietro i ripetuti allarmi? Sono sempre giustificati? E perché - come stiamo vedendo in questi mesi - viene via via alzata l'asticella della percentuale di popolazione da vaccinare? Di certo, la formazione di varianti virali è un evento naturale proprio di tutti i virus, in particolare quelli con genoma a RnA come il Covid: le mutazioni genetiche sono alterazioni casuali nel genoma che avvengono in occasione della replicazione del virus all'interno delle cellule infette. Ma quando un virus crea copie di sé stesso si pongono tre tipi di problemi. Uno: la possibilità che sia più contagioso. Due: il rischio di una maggiore aggressività della malattia. Tre: l'eventuale capacità di reinfettare persone precedentemente immunizzate. L'origine porta la data del 5 gennaio 2020. È allora che i cinesi sequenziano l'intero genoma di un nuovo Coronavirus, che viene chiamato D614. Ma la diffusione è già in corso da qualche mese e il virus comincia a generare figli. Il 20 gennaio il primo mattone che cambia nella sequenza è questo: la D viene sostituita dalla G. Una modifica che gli dà maggiore contagiosità. Tutte le varianti sono figlie sue. Cosa succede in Italia Il 20 febbraio in provincia di Lodi viene identificato un grosso focolaio, e subito dopo in Val Seriana (Bergamo). Il Policlinico San Matteo di Pavia, che è il primo ospedale italiano a studiare le varianti, ne individua ben sette, tutte correlate allo stesso ceppo, ma con caratteristiche diverse: qualcuna più lenta, altre più veloci. Dagli studi effettuati dal matematico-epidemiologo Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler (Fbk) e dall'Istituto superiore di Sanità (Iss) emerge che, in assenza di misure di controllo del virus, in quel momento il numero medio di persone infettate da un contagiato (R0) va da 2,8 a 3,1. Nell'estate 2020 calano le restrizioni, si riprende a viaggiare, e in Italia vengono introdotte almeno una decina di varianti virali presenti in altri Paesi, a cui viene assegnata una sigla: B.1, B1.1, B.1.5 ecc., a seconda del Paese di origine. Poi, dall'autunno 2020, l'Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) e il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) cominciano a classificare le varianti e a tracciare le nuove mutazioni per vedere quanto possono essere refrattarie ai vaccini in fase di sperimentazione. Nel settembre 2020 nel Regno Unito viene identificata l'Alfa, nello stesso periodo in Sudafrica viene trovata la Beta, e a dicembre 2020 in Brasile è tracciata la Gamma. Varianti in circolazione nel 2021 Da gennaio ad aprile 2021 in Italia Alfa, Beta e Gamma circolano in contemporanea. Stimare il loro R0, dunque quanti ne contagia un infetto, è complicato sia perché non ci sono più le condizioni iniziali (popolazione tutta suscettibile al virus, non vaccinata e assenza di misure di controllo) sia perché i calcoli devono tenere conto della co-presenza di diverse varianti. Ma nonostante questi limiti, è possibile calcolare la maggior trasmissibilità di una variante rispetto alle altre. Sempre con l'aiuto dei dati di Merler e dell'Iss, vediamo cosa succede. L'Alfa ha un indice di trasmissibilità superiore da 1,45 a 1,66 volte rispetto al virus del 2020. Vuol dire che in assenza di misure di controllo un infetto può contagiare in media circa altre 4,5 persone. Da aprile 2021 la variante Alfa circola quasi esclusivamente in tutt' Italia (91,6%), senza però dare segni di bucare i vaccini. La variante Beta colpisce soprattutto in Alto Adige, ma data la sua scarsa diffusione non ci sono stime su un'eventuale maggiore trasmissibilità. Studi preliminari dicono, però, che potrebbe essere in grado di infettare persone precedentemente immunizzate. La Gamma si diffonde in particolare nelle regioni dell'Italia centrale (Lazio, Umbria, Toscana). Il suo potenziale livello di contagiosità è superiore di 1,03-1,56 volte rispetto al virus del 2020, vuol dire che in assenza di misure di controllo un infettato può contagiare in media circa altre 4,3 persone. Come la Beta, provoca un potenziale rischio di reinfezione. In termini di gravità, in generale, tutte si mostrano più aggressive rispetto al tipo di virus circolante nel 2020. A maggio 2021 arriva anche in Italia la Delta, già identificata a dicembre 2020 in India. Il suo indice di trasmissibilità è superiore da 1,33 a 2,1 volte rispetto alla variante Alfa. Dunque, in assenza di controlli un contagiato può infettare in media altre 6,75 persone. Da luglio 2021 la variante Delta diventa dominante (94%). La campagna vaccinale di massa Ognuna di esse produce a sua volta varianti e mutazioni. Da fine dicembre 2020, però, è iniziata la più grande campagna di vaccinazione globale, aumentando in modo progressivo le coperture immunitarie, almeno nei Paesi più ricchi. Conseguenza: Alfa e Beta, che erano le più brutte, si sono quasi estinte. Quella che circola oggi è ancora prevalentemente la Delta. Tutte le nuove varianti sono emerse in Paesi a bassa copertura vaccinale. L'Omicron In Sudafrica e Botswana la percentuale di popolazione vaccinata è del 20%, ed è lì che a novembre 2021 è stata sequenziata Omicron. È una variante con dentro 43 mutazioni, mentre per esempio la Delta ne aveva 8. Secondo Fausto Baldanti, direttore del Dipartimento di virologia del Policlinico San Matteo di Pavia, che osserva da inizio pandemia varianti e mutazioni, le 43 mutazioni di Omicron sono troppe rispetto alla struttura originale, e questo potrebbe non essere vantaggioso per il virus. In altre parole: per la popolazione non sarebbe problematico rispetto alle sue precedenti versioni. Lunedì c'è stato il primo infetto da Omicron sul territorio in Lombardia, a Legnano. Il laboratorio di virologia del Policlinico ha messo il virus in cultura. Una volta cresciuto in vitro, sarà messo a contatto con il siero di una persona vaccinata, e a quel punto si comprenderà a quale livello può interferire con il vaccino, e la differenza rispetto agli altri ceppi. Gli esiti si conosceranno fra una decina di giorni. Magari questa volta la sfanghiamo.

IL CIRCOLO VIZIOSO

Il problema di fondo resta: le varianti sono imprevedibili, e più circola il virus, più varianti nascono. Ciò rende necessarie coperture vaccinali più alte, proprio per ostacolarne la diffusione. La percentuale di popolazione da immunizzare aumenta con l'R0 in modo proporzionale in base a una formula matematica. Tenendo conto della velocità di diffusione, con l'R0 iniziale sarebbe stato sufficiente vaccinare grosso modo il 67% della popolazione. Queste coperture salgono al 78% con la variante Alfa e all'85% per la Delta. Le stime però non considerano che i vaccini non sono perfetti nel proteggere dall'infezione: contro la variante Delta l'efficacia con ciclo completo di due dosi è di circa l'80%, e va a diminuire dopo sei mesi. Quindi vuol dire che la percentuale di popolazione da vaccinare per arginare il virus si alza ancora. In conclusione: nessun singolo Paese è protetto, se i vaccini non arrivano e vengono somministrati a tappeto in ogni parte del mondo, poiché laddove le popolazioni sono poco immunizzate, varianti e mutazioni si moltiplicano e si esportano. Se poi, nei Paesi dove i vaccini ci sono, una fetta di popolazione non si immunizza, si innesca un circolo vizioso dal quale sarà difficile uscire.

L’ombra di una zoonosi inversa: così ha preso forma la variante Omicron. Federico Giuliani su Inside Over il 5 dicembre 2021. L’ultima variante del Sars-CoV-2, denominata Omicron, è stata rilevata qualche settimana fa in Sudafrica. Le sue caratteristiche sono ancora per lo più sconosciute. Ad oggi, ad esempio, non sappiamo se Omicron è in grado di “bucare” i vaccini anti Covid, se risulta più contagiosa del normale o se è in grado di generare forme più gravi della malattia nei pazienti infetti. Serviranno studi più approfonditi per rispondere a queste e altre domande. Nel frattempo, vale la pena soffermarci sul concetto stesso di variante, un concetto molto comune quando parliamo di virus. Già, perché ogniqualvolta un agente patogeno si trasmette da un organismo all’altro, quello stesso agente patogeno è chiamato ad adattarsi al nuovo ospite. Appare quindi evidente che tanto più frequentemente avviene la diffusione del virus e maggiore sarà la probabilità di assistere a mutazioni dello stesso.

Attenzione però, perché la maggior parte delle mutazioni non comporta particolari sviluppi nel comportamento del virus. Soltanto alcune di esse risultano particolarmente importanti. Nel caso del Sars-CoV-2 bisogna concentrare la nostra attenzione sulle mutazioni che coinvolgono la proteina spike, ovvero il determinante del virus che viene attaccato dagli anticorpi prodotti da un organismo in seguito a vaccinazione o infezione naturale. E qualora la proteina spike mutata dovesse risultare molto diversa dalla sua forma originale, gli anticorpi perderebbero la loro efficacia. Fin qui, gli esperti hanno rilevato in Omicron una trentina di mutazioni. Ma ci sono altri due aspetti interessanti da sottolineare, inerenti alle mutazioni della nuova variante di Sars-CoV-2 e alla sua possibile origine.

Come è nata la variante Omicron?

In merito all’origine di Omicron ci sono più ipotesi. Avendo milioni di genomi diversi rispetto alla forma “normale” di Sars-CoV-2, quasi sicuramente l’ultima variante si è sviluppata da una delle precedenti, Alfa o Delta. Secondo quanto riportato da Science, che cita la virologa Emma Hodcroft, Omicron potrebbe essere nata intorno alla metà del 2020 per poi essersi evoluta assieme alle altre varianti, senza che nessuno riuscisse ad accorgersene. Perché è complicato risalire a un parente stretto di B.1.1.529?

Gli esperti, come ha sottolineato il Corsera, hanno messo sul tavolo tre ipotesi: 1) Omicron si è diffuso in una popolazione con scarsa sorveglianza virale e nessun sequenziamento; 2) Omicron si è originato da un paziente immunodepresso incapace di sconfiggere il Covid; 3) Omicron è scaturito da una zoonosi inversa, ovvero essersi evoluto in una specie non umana per poi esser passata all’uomo soltanto in tempi recentissimi.

Per quanto riguarda la prima ipotesi, c’è chi sostiene che questo ceppo possa non essersi evoluto in Sudafrica ma altrove, magari in un altro Stato dell’Africa dove il tracciamento e la sorveglianza dei contagi sono pressoché inesistenti. La seconda ipotesi sottintende che le persone immunocompromesse potrebbero fungere da serbatoio per le varianti di Sars-CoV-2 ospitandolo per molte settimane, dandogli così modo e tempo di mutare. Non è quindi da escludere che Omicron possa essersi sviluppato in un paziente con infezione cronica.

Zoonosi inversa e mutazioni

Arriviamo alla terza ipotesi, la più interessante del lotto. In caso di zoonosi inversa, Omicron si sarebbe nascosto in qualche specie animale (forse i roditori). Lì avrebbe continuato a diffondersi, andando incontro a trasformazioni rilevanti prima di tornare all’uomo. Una prova deriverebbe da sette mutazioni di B.1.1.529, le quali consentirebbero alla variante di contagiare roditori. La comunità scientifica deve tuttavia chiarire molteplici dettagli. Detto in altre parole, è ancora presto per chiarire le origini di Omicron.

Vale però la pena soffermarsi su uno studio realizzato da Venky Soundararajan di Cambridge e pubblicato sul sito OSF Preprints. La ricerca (consultabile qui) si intitola Omicron variant of SARS-CoV-2 harbors a unique insertion mutation of putative viral or human genomic origin, e presenta una teoria molto interessante. La variante Omicron del virus che causa il COVID-19 potrebbe aver acquisito almeno una delle sue mutazioni raccogliendo un frammento di materiale genetico da un altro virus, forse quello che provoca il comune raffreddore. Questo particolare frammento aiuterebbe Omicron a eludere l’attacco del sistema immunitario umano; niente paura però, perché potrebbe significare che il virus è in grado di trasmettersi più facilmente, causando solo una malattia lieve o asintomatica. 

O come Omicron, la variabile che fa impazzire il mondo. Piccole Note l'1 dicembre 2021 su Il Giornale. Il mondo è impazzito per la variante omicron, che rischia di farlo collassare di nuovo verso duri lockdown. Abbiamo dedicato un’altra nota all’isteria che accompagna la pandemia fin dal suo esordio, che ovviamente si è ripetuta. La scoperta della omicron ha una tempistica davvero breve perché sia stata possibile analizzarla a fondo. Dell’11 novembre il primo caso in Botswana, che però potrebbe non aver destato particolare interessi date le tante varianti in circolo (dall'”alfa” alla “ni”…), poi, tre giorni dopo, i primi casi in Sudafrica: il che vuol dire che la comunità scientifica internazionale ha potuto lavorarci sopra poco e male, solo qualche giorno.

E però, sia Pfizer che Moderna sembrano già certi che il virus produce gravi danni (nonostante la sanità sudafricane fosse di avviso opposto), che i loro vaccini non fanno effetto e si dicono pronti ad aggiornarli.

Dubitare delle preoccupazioni adombrate dagli esponenti delle Big Pharma è lecito. Così Tedros Adhanom Ghebreyesus, capo dell’Oms “Non sappiamo ancora se la omicron sia associata a una maggiore trasmissione, a una forma di malattia grave, al rischio di reinfezione o se eluda i vaccini. Gli scienziati stanno lavorando per rispondere a queste domande”.

Anche l’Ema ritiene che sia presto per capire “se questa variante si diffonderà in modo significativo, causando ricoveri e fino a che punto possa eludere i vaccini” (Il Giornale).

Ci permettiamo aggiungere ciò che ha detto il ministro della Sanità israeliano, Nitzan Horowitz sulla omicron: “Siamo stati tra i primi a scoprila e isolarla. Il problema è sotto controllo. Non bisogna lasciarsi andare al panico o avere paura”.

Parole alle quali, però, ha aggiunto un particolare bizzarro, sintetizzato così su Timesofisrael: “Horowitz ha detto che in Sud Africa, le persone vaccinate hanno subito solo sintomi leggeri, indicando che i colpi sono efficaci contro la mutazione”.

In realtà, la sanità sudafricana ha parlato solo di sintomi lievi del virus, nulla specificando sulla differenza tra vaccinati e non.

D’altronde, il tasso dei vaccinati in Sudafrica è davvero basso, poco più del 20%, e immaginare che a essere contagiate siano state solo persone vaccinate è più che azzardato.

Ma al di là del particolare, resta che Horowitz accredita certa autorevolezza alle informazioni provenienti dalla Sanità sudafricana, negata, di fatto, da tanto mondo, che non le ha prese nemmeno in considerazione.

Val la pena sottolineare che le rassicurazioni di Horowitz sono importanti perché arrivano dal Paese al quale tutto il mondo accredita un efficace contrasto al Covid-19 e la cui rete di intelligence, anch’essa nota al mondo per la sua efficacia, sta collaborando attivamente con le autorità sanitarie.

Non solo Israele, sulla stessa linea le affermazioni del capo del dipartimento Malattie infettive dell’Istituto superiore di Sanità italiana, Anna Teresa Palamara, riprese dall’Ansa e rilanciate da Dagospia, che spiega come le informazioni provenienti dal Sudafrica “convergono nel dire che i contagiati da Omicron sono per lo più asintomatici o con forme non gravi di malattia”.

Un’idea condivisa, a quanto pare, da Anatoly Altshtein, il virologo capo della Gamaleya Research Institute of Epidemiology and Microbiology, cioè l’Istituto che ha prodotto il vaccino Sputnik, che ha affermato: “In questo momento ci sono ragioni per pensare che la variante Omicron potrebbe essere meno patogena”.

Dichiarazione alla quale ha aggiunto un particolare interessante: “Abbiamo osservato che la variante Omicron ha molte mutazioni, più della Delta. Più di trenta in un singolo gene della sua proteina spike. Sono troppe e ciò significa che il virus ha un genoma instabile. Di norma, questo tipo di agente infettivo diventa meno pericoloso, perché, nell’evoluzione, un numero schiacciante di mutazioni porta a un indebolimento della capacità del virus di causare malattie”.

Al di là dell’incerto futuro, resta che Pfizer e Moderna, come scritto sopra, sembrano scalpitare per produrre un nuovo e più adatto vaccino.

Finora Big Pharma ha di fatto dettato tempi e modi del momentum pandemico, da cui l’incertezza sulle rassicurazioni che pure abbiamo riferito. Difficile immaginare che, per una volta, il mondo possa andare in altra direzione da quella prospettata dalle Big Pharma, ma sperare non costa nulla. 

Ps. Dopo aver scritto la nostra nota, un articolo del Giornale sintetizzato così da Dagospia: Sulla Salute non si specula – L’Ema è furiosa con la casa farmaceutica Moderna che, alla comparsa della variante omicron e senza informazioni approfondite, si è lanciata in avanti sostenendo che i vaccini vadano aggiornati. Per l’Autority è solo “una strategia commerciale” – Prima di avere certezze, bisognerà aspettare almeno due settimane”. La guerra è iniziata.

Covid, il “giallo” del nome alla variante Omicron: ecco perché l'Oms ha saltato le lettere Nu e Xi. La Repubblica il 28 novembre 2021. L'Organizzazione mondiale della Sanità ha ribattezzato Omicron la nuova variante del Covid-19 scoperta nei giorni scorsi dalle autorità sanitarie del Sudafrica e già in via di diffusione anche in Europa. Dall'inizio della pandemia, l'Oms ha chiamato le varianti del virus assegnando loro di volta in volta una lettera dell'alfabeto greco. La prassi va incontro a ragioni di comprensione universale del termine utilizzato, ma mira anche a evitare che una forma patologica possa essere identificata con il Paese nel quale è stata isolata per la prima volta. La prassi dell'Oms, però, stavolta, ha subito per la prima volta una deroga: l'organismo dell'Onu ha infatti saltato le due lettere dell'alfabeto che erano "di turno" per l'assegnazione a nuove varianti: la Nu e la Xi. La "versione" del virus scoperta in Sud Africa, infatti, avrebbe dovuto essere chiamata Nu, a ruota della variante colombiana che era stata denominata Mu. Invece l'Oms ha saltato la Nu e anche la lettera successiva, la Xi. In assenza di spiegazioni ufficiali, inizialmente la decisione è finita al centro di un piccolo giallo che ha alimentato anche polemiche politiche nel momento in cui è parso che la lettera Xi fosse stata evitata per non offendere il presidente cinese Xi Jinping. In seguito, sollecitata dai media, l'Oms ha emesso un breve comunicato in cui ha spiegato le ragioni dell'esclusione delle due lettere. Nel caso della Nu, la lettera ha foneticamente troppa somiglianza con la parola inglese New e poteva generare equivoci. Quanto a Xi, la spiegazione dell'Oms, è che si è voluta evitare perché rappresenta un cognome diffuso e l'organizzazione è sempre molto attenta a scegliere per le nuove malattie dei nomi che non offendano "gruppi sociali, culturali, nazionali, regionali, professionali o etnici". I maligni hanno voluto rimarcare però che quel cognome molto diffuso in una regione non citata è però quello del presidente cinese Xi Jimping. "Se l'Oms ha così paura del Partito comunista cinese - ha twittato negli Usa il senatore repubblicano Ted Cruz - come possiamo pensare che denunceranno (i cinesi) la prossima volta che cercheranno di coprire una pandemia globale catastrofica?".

 "Puniti per aver isolato la variante" Il Sudafrica denuncia l'ipocrisia del Covid. Il Tempo il 27 novembre 2021. La circolazione del Covid in Africa è ancora oggetto di dubbi e perplessità: in molti casi mancano dati e diagnostica per capire la reale penetrazione del virus nel continente. Sono pochi i Paesi che lavorano costantemente su sequenziamento e tracciamento delle mutazioni del virus, come il Sudafrica, che dopo aver isolato la variante poi definita Omicron per tutta risposta si è visto isolato a livello globale. Una situazione che rischia di essere un deterrente a esporsi per altri Paesi.  Il Paese dell'Africa australe "è stato punito" per aver rilevato la variante Omicron del Covid-19, ha denunciato il governo sudafricano che ha espresso rammarico per la chiusura da parte di molti Paesi, tra cui l'Italia, degli ingressi e dei viaggiatori in partenza dal suo territorio. Il governo di Pretoria denuncia di essere strato "punito" per la qualità dei suoi scienziati che hanno rilevato la nuova mutazione che si teme possa essere più contagiosa, "invisibile" ai vaccini e potenzialmente potrebbe causare reinfezioni in soggetti guariti. "Questo ultimo giro di divieti sui viaggi equivale a punire il Sudafrica per il suo avanzato sequenziamento genomico e la sua capacità di rilevare nuove varianti più rapidamente. L’eccellenza scientifica dovrebbe essere applaudita e non punita", si legge nel comunicato stampa del governo. Un tema sollevato anche dall'ex ministro Lorenzo Fioramonti che proprio a causa della chiusura delle frontiere con molti Paesi è rimasto bloccato in Sudafrica dove si trovava per una serie di incontri del Forum Ambrosetti. "I Paesi che tracciano e sequenziano sono pochi, punire quei paesi che fanno attività scientifica rischia di diventare un disincentivo a condividere le informazioni. Qui sono molti risentiti dal fatto che non appena comunicata questa variante il mondo sembra aver loro voltato le spalle" ha detto Fioramenti a Radio 1 Rai. Intanto si contano i casi di variante sudafricana in Europa. C'è un sospetto in Germania, ha annunciato il ministro degli Affari sociali dell’Assia, Kai Klose. "La notte scorsa, sono state rilevate diverse mutazioni tipiche della Omicron in un viaggiatore proveniente dal Sudafrica", ha scritto su Twitter, come riporta Der Spiegel. La persona in questione, su cui si aspettano i risultati del sequenziamento per accertare la variante, è entrata in Germania dall’aeroporto di Francoforte. E dopo la prima paziente, in Belgio, in Olanda sono sbarcati sessantuno passeggeri, arrivati dal Sudafrica venerdì mattina all’aeroporto Schipol di Amsterdam, positivi al Covid. Si attendono le analisi per capire se si stratta di variante Omicron. 

Omicron, chiamata così per non offendere la Cina. Roberta Damiata il 27 Novembre 2021 su Il Giornale. La scelta di chiamare la variante Sudafricana Omicron, invece di "Xi", ha messo l'Oms al centro di molte polemiche su presunti favoritismi alla Cina. Soprattutto in materia di Covid. Se mai vi foste chiesti come vengono scelti i nomi delle numerose varianti che si sono affacciate dall'inizio della Pandemia, la risposta l'ha data l'Oms. Il criterio usato per evitare i nomi dei paesi dove erano state scoperte è stato quello di scegliere le lettere dell'alfabeto greco. Seguendo quest'ordine, la nuova variante Sudafricana avrebbe dovuto chiamarsi "Nu". Tanto che molti scienziati l'avevano già nominata così. Ha creato quindi molto stupore la scelta dell'Oms di chiamarla Omicron. In molti si sono chiesti perché, e a far luce sull'intera vicenda ci ha pensato il Telegraph, che in un lungo articolo ha spiegato le motivazioni, che sono più di ordine politico che scientifico. Da quanto si legge la lettera "Nu" si sarebbe potuta confondere con la parola inglese "new", e questo poteva essere un motivo comprensibile per evitare confusioni. Di logica però la lettera successiva da usare era la "Xi", ma una fonte interna all'Oms che ha parlato al Telegraph, ha raccontato che è stata subito scartata, perché la sua pronuncia ricordava troppo il nome presidente cinese Xi Jimping. Per evitare quindi un incidente diplomatico si è preferito passare ad Omicron, e questo per "non stigmatizzare un'intera regione". La cosa non è passata certo inosservata creando molto scompiglio sul web, dove non sono mancate pesanti ironie sia sulla scelta del nome, che sull'Oms. Su questo si è particolarmente concentrato il senatore americano Ted Cruz che ancora una volta ha accusato l'Organizzazione Mondiale della Sanità di sudditanza nei confronti della Cina. "Se l'Oms ha paura del partito comunista cinese, come possiamo fidarci che chiedano loro conto la prossima volta che cercheranno di nascondere una catastrofica pandemia globale?", ha scritto su Twitter.

L'Oms e le relazioni con la Cina

Il senatore non è però l'unico ad attaccare l'Oms, così come riportato da un'inchiesta dell'India Times, accusata più volte di aver avuto un occhio di riguardo per la Cina in materia di Covid. Questo a partire proprio degli albori, quando l'infezione era ancora limitata all'Asia. In quell'occasione aveva ripetutamente minimizzato la sua gravità, non lanciando un allarme a livello mondiale. Anche la scelta del nome Covid era lontana da quella fatta per la Mers, chiamata in questo modo dal posto di provenienza (Sindrome Respiratoria del Medio Oriente ndr).

Anche diversi paesi in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all'Australia hanno più volte affermato che l'Oms non è mai riuscito a ritenere responsabile la Cina della Pandemia, e a condurre un'indagine approfondita sulle origini del Covid. L'organo mondiale è stato anche accusata di non riconoscere Taiwan, che è indipendente dalla Cina, ma che Pechino considera una provincia rinnegata. La prova di questo nel marzo 2020, quando un consulente senior dell'Oms non ha risposto alla domanda di una giornalista, fingendo prima di non aver sentito e poi riattaccando la videochiamata. Una volta ripristinato il collegamento e riformulata nuovamente la questione su come Taiwan aveva contenuto il virus, la risposta è stata: "Beh, abbiamo già parlato della Cina", prima di concludere rapidamente.

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi.  

Variante Omicron, l'ex ministro Fioramonti: "Cosa sta succedendo davvero". Bomba sull'Italia, Speranza che dice? Libero Quotidiano il 27 novembre 2021. La nuova "variante sudafricana" terrorizza l'Europa e l'Italia. Ma non il Sudafrica. Ad assicurarlo, intervistato dal Corriere della Sera, è Lorenzo Fioramonti, ex ministro dell'Istruzione del governo Conte 2 in quota Movimento 5 Stelle che si era dimesso a tempo di record a poche settimane dalla sua nomina come protesta per i pochi fondi destinati a scuola e università. Piccolo particolare, non insignificante: in Sudafrica è di casa, essendo stato insignito nel 2012 a 35 anni della carica di docente di economia politica presso l'Università di Pretoria ed essendo direttore del Centro per lo studio dell'innovazione Governance (GovInn) dello stesso ateneo sudafricano. "C'è più panico in Italia e in Europa che qui", spiega al Corriere della Sera l'ex grillino, che si trova proprio in Sudafrica per partecipare al Forum Ambrosetti. Anche lui, come altri italiani, è bloccato nel Paese in seguito alla decisione del ministro della Salute Roberto Speranza di bloccare i voli di ritorno in Italia. "È una situazione assurda - denuncia il professore -. La situazione è tranquilla. Ieri c'erano 1.200 contagi e 20 morti. La nuova variante è la prima notizia dei tg, ma non c'è un clima da emergenza". Dall'ambasciata italiana in Sudafrica tutto tace: "Sarebbe dovuta essere qui anche la viceministro agli Esteri Marina Sereni ma all'ultimo ha cancellato la missione, credo per un caso di Covid in ambasciata. Ma trovo che questo blocco sia controproducente: punisce un Paese che sequenzia una variante, che invece è la cosa più importante da fare". Fioramonti non è solo: anche la squadra di rugby delle Zebre Parma è bloccata in Sudafrica. I giocatori resteranno in isolamento in albergo in attesa che i vertici della United Rugby Championship organizzi il charter per riportarli in Europa, probabilmente a Dublino. "Questa variante è già presente in Belgio - chiude polemicamente Fioramonti -: abbiamo forse bloccato i voli dal Belgio? È una reazione isterica, rovina l'economia e non serve a niente". E intanto si continuano a segnalare nuovi casi sospetti, dai 61 passeggeri positivi al Covid atterrati all'aeroporto di Amsterdam a un caso di "Omicron" in Repubblica Ceca e uno, possibile, in Germania.

L’ultima barzelletta dell’Oms: la nuova variante si chiama Omicron per non offendere la Cina. Robert Perdicchi sabato 27 Novembre su Il Secolo d'Italia. La ‘variante sudafricana’ del Covid è stata ribattezzata Omicron per non offendere la Cina. Rispettando l’ordine dell’alfabeto greco, criterio scelto dall’Oms per non stigmatizzare nessun paese, la nuova variante avrebbe dovuto chiamarsi “Nu”. Ma si rischiavano confusioni con la parola inglese “new”. La lettera seguente era a questo punto la Xi, ma ricordava troppo il presidente cinese Xi Jinping. Il Telegraph ha citato una fonte dell’Oms, secondo la quale si è preferito passare ad Omicron “per non stigmatizzare un’intera regione”. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità Xi è infatti un cognome molto comune e le linee guida interne “impongono di non utilizzare nomi che possano danneggiare gruppi culturali, sociali, nazionali, regionali, professionali o etnici”. Il salto di due lettere ha provocato qualche ironia sul Web. Il senatore americano Ted Cruz ne ha preso spunto per accusare ancora una volta l’Oms di sudditanza verso i cinesi. “Se l’Oms ha paura del partito comunista cinese, come possiamo fidarci che chiedano loro conto la prossima volta che cercheranno di nascondere una catastrofica pandemia globale?”, si è chiesto su Twitter, il senatore repubblicano.  Ecco l’elenco delle varianti finora indivduate e catalogate secondo l’alfabeto greco.

Alpha, variante inglese

Beta: sudafricana

Gamma: brasiliana)

Delta: indiana

Epsilon: individuta a marzo 2021 negli Usa, in circolazione da marzo 2020

Zeta: marzo 2021 in Brasile, in circolazione da aprile 2020

Eta: marzo 2021 in vari paesi, in circolazione da dicembre 2020

Theta: marzo 2021 nelle Filippine, in circolazione da gennaio 2021

Iota: marzo 2021 negli Stati Uniti, in circolazione da novembre 2020

Kappa: aprile 2021 in India, in circolazione da ottobre 2020

Lambda: agosto 2020 Perù, circola in 29 paesi

Da Adnkronos.com l'1 giugno 2021. Nome in codice: Alpha. Dietro questa lettera non si nasconde un agente segreto, ma la nuova “identità” della variante inglese di Sars-CoV-2 (B.1.1.7). La sudafricana (B.1.351) da oggi è Beta. La brasiliana (P.1) Gamma. Una delle sub-varianti di quella indiana (B.1.617.2) è Delta. Sono le nuove etichette assegnate dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che ha deciso di “ribattezzare” le varianti - sia quelle classificate come “preoccupanti” (Voc) che quelle d'interesse (Voi) - utilizzando le lettere dell'alfabeto greco. Motivo della scelta? Avere etichette «semplici, facili da citare e ricordare per le varianti chiave del virus che causa Covid-19», spiega l'agenzia Onu per la salute informando sulla novità. «Queste etichette sono state scelte dopo un'ampia consultazione e una revisione di molti potenziali sistemi di denominazione». L'Oms ha convocato un selezionato gruppo di partner di tutto il mondo per farlo, incluso esperti che si occupano di sistemi di denominazione esistenti, esperti di nomenclatura e tassonomia dei virus, ricercatori e autorità nazionali. «Queste etichette - viene precisato - non sostituiscono i nomi scientifici esistenti (ad esempio quelli assegnati dalle organizzazioni Gisaid, Nextstrain e Pango), che trasmettono importanti informazioni scientifiche e continueranno ad essere utilizzati nella ricerca».  Ma questi nomi scientifici, fa notare l'Oms, «possono essere difficili da pronunciare e ricordare e sono soggette a inesattezze nel modo in cui vengono riportate». Le lettere dell'alfabeto greco con cui vengono rinominate hanno anche un'altra missione: tentare di slegare la variante dalla localizzazione geografica. Proprio per la difficoltà di usare codici numerici, spesso «le persone ricorrono alla scelta di chiamare le varianti in base ai luoghi in cui vengono rilevate, il che è stigmatizzante e discriminatorio - osserva l'Oms - Per evitarlo e per semplificare le comunicazioni pubbliche, l'Oms incoraggia le autorità nazionali, i media e tutti ad adottare queste nuove etichette».

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 15 settembre 2021. Si chiama Mu e buca i vaccini anti Covid. Ma, per fortuna, sembra avere una capacità di diffusione inferiore rispetto alla variante Delta, che dovrebbe restare dominante a livello globale. Mu è l'ultima mutazione del virus censita dall'Organizzazione mondiale della sanità, che a fine agosto l'ha inserita nell'elenco delle cosiddette «varianti di interesse», cioè quelle da monitorare con attenzione, perché responsabili di focolai in singoli Paesi e perché presentano caratteristiche potenzialmente in grado di rendere il virus più trasmissibile e capace di eludere gli anticorpi. Senza, però, che ci sia ancora una conferma con indagini epidemiologiche, come succede per le varianti «di preoccupazione» (Alfa, Beta, Gamma e Delta). Mu, del resto, per ora non fa paura: ha una prevalenza globale intorno allo 0,5%, quasi nulla. È stata identificata per la prima volta a gennaio in Colombia, dove ora sarebbe responsabile di quasi il 40% dei contagi. Poi è arrivata in altri 43 Paesi, tra cui Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Ecuador, Canada e Regno Unito. In Italia sono stati registrati in tutto 79 casi, ma solo 4 nell'ultimo mese. Ad aprile, in provincia di Brescia, si era verificato un cluster che ha coinvolto sette persone, tutti viaggiatori arrivati dall'estero. Proprio i ricercatori degli Spedali civili di Brescia, con uno studio pubblicato a fine luglio sul Journal of Medical Virology, hanno evidenziato un calo dell'attività neutralizzante dei sieri dei vaccinati con Pfizer nei confronti della variante Mu: la protezione immunitaria sembra meno brillante rispetto al ceppo originario o alla variante Alfa. Un'altra ricerca dell'università giapponese di Kyoto ha concluso che Mu è «altamente resistente» sia ai sieri di persone vaccinate (sempre con Pfizer), sia ai sieri di persone guarite dal Covid. Gli ultimi dati preliminari (pubblicati il 7 settembre) dicono che Mu è due volte più trasmissibile del ceppo originario (la Delta, per fare un paragone, lo è fino a otto volte di più) e che elude gli anticorpi delle vecchie infezioni nel 37% dei casi. Ma, è bene sottolinearlo, sono dati di laboratorio, frutto di esperimenti in vitro, e non evidenze cliniche, legate al mondo reale, dove le variabili che entrano in gioco sono molteplici. Come numerose (21) sono le mutazioni di Mu, alcune localizzate sulla proteina Spike, tra cui almeno un paio ritenute pericolose: una (comune alle varianti Beta e Gamma) è responsabile della cosiddetta fuga immunitaria, l'altra rende il virus più aggressivo verso le cellule umane. «La variante Mu ha una costellazione di mutazioni, che suggerisce la possibilità di eludere determinati anticorpi - ha confermato spiegato il virologo consulente della Casa Bianca, Anthony Fauci -: va tenuta d'occhio, ma è lontana dal diventare dominante». Il punto è proprio questo, come spiega anche l'infettivologo Massimo Galli: «È vero che sembra più portata a sfuggire alla riposta immunitaria del vaccino, ma, per quanto perversa, non ce la farà in nessun modo a battere la variante Delta quanto a capacità di diffusione». Quindi, dobbiamo augurarci che Mu non prevalga, perché in quel caso «bisognerebbe aggiornare i vaccini e ci vorrebbero almeno due mesi», avverte il virologo Fabrizio Pregliasco. Insomma, la Delta ci sta creando problemi, ma in fondo conviene tenercela stretta. 

Cosa sappiamo della nuova variante. Cos’è la variante Mu, la nuova mutazione colombiana del Covid-19: allarme dell’Oms sulla “resistenza ai vaccini”. Redazione su Il Riformista il 2 Settembre 2021. Identificata per la prima volta in Colombia nel gennaio 2021, dove ad oggi una prevalenza del 39%, la variante Mu del virus Sars-Cov-2 è stata segnalata nel report settimanale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità lo scorso 30 agosto, e denominata con il lignaggio B.1.621. Si tratta dunque della quinta variante di interesse, o per meglio dire Voi, segnalata dopo l’emergere del virus dalla Cina: le altre cinque sono la Eta, Iota, Kappa e Lambda. Diverso invece il caso delle Voc, le varianti classificate come “preoccupanti”: tra queste ci sono le più ‘note’ Alpha (rilevata per la prima volta nel Regno Unito a settembre 2020) Beta (rilevata per la prima volta in Sudafrica nel maggio 2020) Gamma (rilevata per la prima volta in Brasile nel novembre 2020) e Delta (rilevata per la prima volta in India nell’ottobre 2020). Sebbene la prevalenza globale della variante Mu tra i casi sequenziati sia diminuita e sia attualmente inferiore allo 0,1%, “la prevalenza in Colombia (39%) ed Ecuador (13%) è costantemente aumentata”, spiega l’Oms nel suo bollettino sulla pandemia. L’Organizzazione mondiale della sanità a proposito della variante Mu sottolinea che “ha una costellazione di mutazioni che indicano potenziali proprietà di fuga immunitaria”. Non solo: dai dati preliminari sembrerebbe che la nuova variante possa eludere le difese immunitarie in modo simile alla variante Beta scoperta per la prima volta in Sud Africa, ma questa circostanza preoccupante dovrà essere confermata da nuovi e più estesi dati. Non a caso l’Oms nel suo bollettino specifica che “l’epidemiologia della variante Mu in Sud America, in particolare con la co-circolazione della variante Delta, sarà monitorata per i cambiamenti”. Oltre al Sud America, casi di infezione da variante Mu sono stati segnalati nel Regno Unito, in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone e a Hong Kong.

Dagotraduzione dal Guardian l'1 settembre 2021. L’Oms ha aggiunto un’altra versione del coronavirus alla sua lista di «varianti d’interesse» e l’ha denominata “Mu”. La variante, nota anche come B.1.621, è stata aggiunta il 30 agosto dopo che è stata rilevata in 39 paesi. Gli scienziati ne stanno studiando il gruppo di mutazioni, per capire se la rendono meno suscettibile alla protezione immunitaria che molti hanno acquisito. Nel suo bollettino settimanale sulla pandemia, l'OMS ha scritto che la variante Mu «ha una costellazione di mutazioni che indicano potenziali proprietà di fuga immunitaria». I dati preliminari suggeriscono che potrebbe eludere le difese immunitarie in modo simile alla variante Beta scoperta per la prima volta in Sud Africa, aggiunge il rapporto, ma il risultato deve essere confermato da ulteriori lavori. Secondo il bollettino settimanale dell'OMS sulla pandemia, la variante Mu “ha una costellazione di mutazioni che indicano potenziali proprietà di fuga immunitaria”. I dati preliminari suggeriscono che potrebbe eludere le difese immunitarie in modo simile alla variante Beta scoperta per la prima volta in Sud Africa, aggiunge il rapporto, ma ciò deve essere confermato da ulteriori lavori. La variante Mu è stata identificata per la prima volta in Colombia nel gennaio 2021. Da allora, sono stati registrati casi sporadici e alcuni focolai più grandi in tutto il mondo. Oltre al Sud America, sono stati segnalati casi nel Regno Unito, in Europa, negli Stati Uniti e a Hong Kong. Sebbene la variante rappresenti meno dello 0,1% delle infezioni da Covid a livello globale, potrebbe guadagnare terreno in Colombia ed Ecuador, dove rappresenta rispettivamente il 39% e il 13% dei casi di Covid. Scienziati e funzionari della sanità pubblica sono particolarmente ansiosi di sapere se la variante Mu è più trasmissibile, o causa malattie più gravi, rispetto alla variante Delta che è dominante in gran parte del mondo. «L'epidemiologia della variante Mu in Sud America, in particolare con la co-circolazione della variante Delta, sarà monitorata per rilevare i cambiamenti», dice il bollettino dell'OMS. Nel Regno Unito sono stati rilevati almeno 32 casi di variante Mu: il modello di infezione suggerisce che sia stato importata dai viaggiatori. Un rapporto del Public Health England (PHE) di luglio ha dichiarato che la maggior parte dei casi è stata trovata a Londra e in persone di 20 anni. Alcuni di quelli risultati positivi al Mu avevano ricevuto una o due dosi di vaccino contro il Covid. La variante Mu è stata aggiunta all'elenco delle varianti in esame di PHE a luglio. La designazione, che fa riferimento a Mu come VUI-21JUL-01, significa che la variante sarà monitorata per vedere come si comporta. Finora non ha destato allarme tanto quanto Alpha e Delta, che sono classificate come varianti più gravi di preoccupazione, in gran parte a causa della loro maggiore trasmissibilità ma anche per le preoccupazioni che eludano le difese immunitarie. Una valutazione del rischio della variante Mu rilasciata da PHE ad agosto ha evidenziato un lavoro di laboratorio che suggerisce che la variante è resistente almeno quanto la variante Beta all'immunità derivante dalla vaccinazione. Ma sono necessarie ulteriori prove da altri studi di laboratorio e casi reali della variante. L'entità della minaccia rappresentata dalla variante è altamente incerta e dipende dal fatto che i casi crescano sostanzialmente nelle settimane e nei mesi a venire, in particolare in presenza della variante Delta in rapida diffusione. «Al momento, non ci sono prove che VUI-21JUL-01 stia superando la variante Delta e sembra improbabile che sia più trasmissibile», afferma il rapporto, sebbene prosegua avvertendo: «La fuga immunitaria può contribuire a futuri cambiamenti nel crescita». Parte della preoccupazione per Mu deriva dalle particolari mutazioni che porta. Un cambiamento genetico, la mutazione P681H, si trova nella variante Alpha rilevata per la prima volta nel Kent ed è stata collegata a una trasmissione più rapida. Altre mutazioni, tra cui E484K e K417N, possono aiutare il virus a eludere le difese immunitarie, il che potrebbe dare alla variante un vantaggio rispetto a Delta man mano che l'immunità aumenta in autunno.

Dagotraduzione da The Jerusalem Post il 30 agosto 2021. Una nuova variante del coronavirus, chiamata C.1.2, è stata rilevata in Sudafrica e in un certo numero di altri paesi, e la preoccupazione è che possa essere più infettiva ed eludere i vaccini. È quanto emerge da un nuovo studio dell'Istituto nazionale per le malattie trasmissibili del Sudafrica e della Piattaforma per l'innovazione e il sequenziamento della ricerca di KwaZulu-Natal. Lo studio è in attesa di revisione paritaria. Gli scienziati hanno rilevato per la prima volta C.1.2 nel maggio 2021, scoprendo che discendeva da C.1, un fatto che gli scienziati hanno trovato sorprendente poiché C.1 era stato rilevato l'ultima volta a gennaio. La nuova variante è «mutata sostanzialmente» rispetto a C.1 ed è più lontana dal virus originale rilevato a Wuhan rispetto a qualsiasi altra variante di preoccupazione (VOC) o variante di interesse (VOI) rilevata finora in tutto il mondo. Sebbene rilevata per la prima volta in Sudafrica, il C.1.2 è stato successivamente riscontrato in Inghilterra, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Mauritius, Nuova Zelanda, Portogallo e Svizzera. Gli scienziati ritengono che il numero di sequenze disponibili di C.1.2 possa essere una sottorappresentazione della diffusione e della frequenza della variante in Sud Africa e nel mondo. Lo studio ha riscontrato aumenti consistenti del numero di genomi C.1.2 in Sud Africa su base mensile: questi sono passati dallo 0,2% dei genomi sequenziati a maggio all'1,6% a giugno e poi al 2% a luglio, aumenti simili a quelli osservati con il Ci delle varianti Beta e Delta. Gli scienziati hanno sottolineato che la combinazione delle mutazioni, così come i cambiamenti in altre parti, probabilmente aiutano il virus a eludere gli anticorpi e le risposte immunitarie, anche nei pazienti che sono già stati infettati con le varianti Alfa o Beta. Gli scienziati hanno aggiunto che è necessario ulteriore lavoro per comprendere l'esatto impatto di queste mutazioni e per vedere se danno alla variante un vantaggio competitivo rispetto alla variante Delta. Recentemente in Turchia il dottor Lütfi Çaml? aveva detto ai media di aver rilevato una nuova variante senza alcun collegamento con le altre, che aveva colpito circa il 50-60% dei positivi della provincia settentrionale di Rizza. Fino a mercoledì scorso, l'OMS aveva identificato quattro COV e quattro VOI. Fino a giovedì scorso, il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) ne aveva individuati rispettivamente cinque e sei. Un certo numero di altre varianti sono state designate per un ulteriore monitoraggio.

Varianti, dall’Alfa alla Delta: cosa sappiamo sulle mutazioni del Covid. Marco Della Corte il 10/07/2021 su Notizie.it. Le varianti del Covid-19 sono nove: tra queste si ricordano l'Alfa, la Delta e l'Epsilon. Qual è la più pericolosa? Le varianti Covid che circolano (o hanno circolato) in Italia sono nove. Tra queste ricordiamo l’Alfa, la Delta e l’Epsilon. La variante indiana risulta essere al momento quella più preoccupante: i dati riguardanti tale mutazione segnalano un aumento in Italia, in altri stati europei e nel resto del mondo. A certificare la presenza delle precitate nove mutazioni sono i dati della banca internazionale Gisaid ove sono depositate le sequenze genetiche ottenute nei paesi di tutto il mondo.

Varianti Covid dall’Alfa alla Delta: le mutazioni inglese e indiana.

La variante Alfa era stata identificata nel 2020 nel Regno Unito. Si tratta della variante più comune in Italia, anche se ultimamente risulta essere scesa dal 53,5 al 44,3% del totale delle sequenze depositate. Come informa Il Giorno, al momento viene tenuta sotto controllo la sua versione portatrice della mutazione E484K, la cui diffusione è in aumento.

La seconda variante più diffusa è la Delta. È stata scoperta in India ed è diffusa velocemente in circa cento paesi del mondo. Si tratta di una mutazione molto contagiosa. La sua efficienza è stimata tra il 50% e il 60%, superiore alla variante Alfa.

In Italia è una sorvegliata speciale, dove rappresenta il 27,2% delle sequenze depositate.

Varianti Covid dall’Alfa alla Delta: le mutazioni Gamma e Beta.

Parlando della variante Gamma essa è indicata con la sigla P.1. È stata scoperta in Giappone a inizio 2021, per poi essere identificata in Brasile. Ultimamente le sequenze depositate in Italia hanno avuto una diminuzione dal 7,3% al 4,3%.

Riguardo alla variante Beta, essa è stata scoperta in Sudafrica e ha una capacità di diffusione maggiore del 50% rispetto al Coronavirus originale, soprattutto tra i giovani.

Da quasi un mese in Italia non sono state depositate sequenze di tale mutazione.

Varianti Covid dall’Alfa alla Delta: Eta, Lambda ed Epsilon.

La Eta è una variante le cui sequenze sono state depositate in Italia solamente negli ultimi tempi. È stata scoperta in Nigeria. Corrisponde al circa 1,5% di sequenze depositate nel nostro paese.

Le sequenze della variante Lambda corrispondono allo 0,4%. È stata scoperta in Perù. Altre varianti, infine, che sono state segnalate in Italia, ma che mancano di sequenze genetiche recenti, sono la Epsilon (scoperta in California), la Iota (New York) e la Kappa (India).

Variante Delta quali sono i sintomi: cosa cambia, sintomi dopo il vaccino, la situazione in Italia. Debora Faravelli il 9 luglio 2021. Uno studio proveniente dal Regno Unito potrebbe aiutare a capire quali sono i sintomi di chi viene contagiato dalla variante Delta dopo aver ricevuto il vaccino: una delle caratteristiche della mutazione indiana è infatti quella di poter contagiare anche chi ha già ricevuto una dose di siero.

Variante Delta: i sintomi dopo il vaccino. I dati provengono dall’app ZOE Covid Symptom Study, un software che raccoglie tutte le informazioni segnalate dagli utenti inglesi registrati, circa 4,6 milioni, riguardo al Covid. Chi è positivo al coronavirus può inserirlo nell’applicazione e aggiungere i sintomi, indicando anche se si è stati a stretto contatto con una persona risultata positiva.

Variante Delta, i sintomi dopo il vaccino: cosa cambia. Analizzando le informazioni riportate dai cittadini, gli esperti hanno scoperto che tutti quelli che hanno contratto il virus nonostante fossero vaccinati hanno manifestato sintomi leggermente diversi da quelli comuni. In particolare mal di testa, naso che cola, starnuti, gola infiammata e perdita del gusto. Coloro che hanno già effettuato la pima dose di vaccino, si legge nello studio, hanno segnalati meno sintomi e in un periodo di tempo più breve rispetto a chi contrae il virus senza essere stato vaccinato. Il che suggerisce che chi si è contagiato dopo il vaccino si ammali meno gravemente e migliori più rapidamente.

Uno dei sintomi più frequente dai contagiati già vaccinati è lo starnuto. “Abbiamo notato che le persone che erano state vaccinate e poi sono risultate positive hanno più frequentemente segnalato gli starnuti come sintomo“, hanno infatti riferito gli autori della ricerca. Gli stessi consigliano dunque a chi starnutisce di frequente o manifesta uno degli altri sintomi indicati di verificare se è eventualmente positivo al coronavirus.

Variante Delta, i sintomi dopo il vaccino: la situazione in Italia. Secondo gli esperti, in particolare Giovanni Sebastiani dell’Istituto per le Applicazioni del Calcolo “Mauro Picone” del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Iac), la variante Delta potrebbe diventare dominante in tutta Italia intorno alla metà di luglio. In alcune aree, come il litorale laziale, lo è già. Di qui la necessità di accelerare il più possibile sule vaccinazioni. La mutazione in questione è già prevalente negli Stati Uniti, dove i centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (CDC) hanno rilevato che rappresenta il 51.7% dei nuovi positivi al coronavirus.

Perché la variante Delta è più contagiosa? Il risultato di uno studio in Cina sui motivi della contagiosità. Debora Faravelli il 29/07/2021 su Notizie.it. Un team di ricercatori cinesi ha svolto uno studio per spiegare perché la variante Delta è più contagiosa del ceppo originario del virus. Il Centro per la prevenzione e il controllo delle malattie della provincia di Guangdong in Cina ha realizzato uno studio per spiegare i motivi per cui la variante Delta del Covid, già diventata dominante in diversi paesi europei compresa l’Italia, è più contagiosa del ceppo originario.

Variante Delta più contagiosa: lo studio. L’analisi, ancora in pre-print e guidata guidato dall’epidemiologo Jing Lu, è stata condotta monitorando 62 persone in isolamento, tra le prime ad aver contratto la mutazione indiana nella Cina continentale. I ricercatori hanno quantificato la loro carica virale, ovvero la stima numerica delle particelle virali nell’organismo, ogni giorno per tutta la durata dell’infezione. Hanno poi confrontato i risultati con l’andamento dell’infezione di 63 soggetti che avevano contratto il Covid nel 2020, prima della diffusione delle varianti.

Variante Delta più contagiosa: carica virale mille volte superiore. Secondo i dati derivanti dallo studio, la variante Delta si riprodurrebbe all’interno dell’organismo in maniera nettamente maggiore rispetto al ceppo originario e anche più velocemente. Se, infatti, nelle persone positive alla variante, il virus è stato rilevato dopo quattro giorni dall’esposizione, normalmente chi ha contratto l’infezione nel 2020 aveva una media di sei giorni di incubazione. Inoltre alcuni soggetti contagiati dalla Delta possedevano cariche virali di mille volte superiori (fino a 1.260 volt) a quelle delle persone infettate dal ceppo originario.

Variante Delta più contagiosa: carica virale mille volte superiore. Secondo diversi scienziati, come Emma Hodcroft dell’Università di Berna in Svizzera e Benjamin Cowling dell’Università di Hong Kong, i dati relativi alla carica virale e ai ridotti tempi di incubazione spiegherebbero la trasmissibilità così elevata della variante rispetto alle altre mutazioni e al virus originario. La presenza di molte più particelle di virus nel tratto respiratorio faciliterebbe infatti di gran lunga i fenomeni di superdiffusione, ovvero la capacità di un soggetto di infettarne molti altri. E un’incubazione più rapida ostacolerebbe un efficace tracciamento dei contagi. Si tratta comunque di uno studio ancora in pre-print e sono necessari ulteriori studi condotti su ampie popolazioni di contagiati che confermino le differenze tra la variante Delta e il ceppo originario. Tra queste anche i diversi tipi di malattia causati dai due virus: non è infatti ancora chiaro se la variante Delta faccia ammalare più gravemente rispetto all’infezione di Wuhan.

Variante Delta, scoperta anche la Epsilon: "Più resistente agli anticorpi", dove si è già diffusa. Libero Quotidiano il 02 luglio 2021. Dopo la variante Delta, anche quella Epsilon è stata inserita nel gruppo delle mutazioni del virus SarsCoV2 che destano preoccupazione. La ricerca condotta dal biochimico Matthew McCallum dell’Università di Washington e pubblicata sulla rivista Science dà conto della nuova variante identificata per la prima volta in California: per fortuna è ancora poco diffusa in Europa, così come in Italia, dove sono stati rilevati soltanto due casi. Anche stavolta il sequenziamento si conferma una delle principali armi per tenere sotto controllo l’epidemia e contrastare la circolazione delle varianti in tempo. Stando a quanto emerso dall’analisi condotta da McCallum sulla base di 57 campioni, la variante Epsilon comprende tre mutazioni che la rendono più resistente sia agli anticorpi dei vaccini a Rna messaggero sia a quelli generati dall’infezione da SarsCoV2. Il primo caso di tale variante risale all’inizio del 2021 ed è stato riscontrato in California: a maggio invece risultava diffusa in almeno altri 34 Paesi, mentre nelle ultime quattro settimane sarebbe arrivata in 44. In Europa il maggior numero di casi legati a questa mutazione sono stati rilevati in Danimarca (37), Germania (10), Irlanda e Francia (7), Olanda e Spagna (5), Svizzera (4), Norvegia (3), Svezia, Finlandia e Italia (2), Belgio (1). 

Ora la variante Lambda fa paura. E’ già allarme rosso: sarebbe contagiosa e resistente ai vaccini. Marta Lima giovedì 5 Agosto 2021 su Il Secolo d'Italia. Uno studio giapponese accende una spia rossa sulla mutazione del Covid individuata per la prima volta in Perù. Era metà giugno quando l’Organizzazione mondiale della sanità annunciava la classificazione della variante Lambda del Covid, individuata per la prima volta in Perù nell’agosto 2020 e già presente in diversi Paesi in particolare latino-americani, come ‘variante di interesse’ (Voi). A ribadire la necessità di monitorarla e l’impegno dell’Oms in questo senso è l’epidemiologa Maria Van Kerkhove, esperta a capo del gruppo tecnico Oms per il nuovo coronavirus. Il tutto mentre uno studio giapponese, non ancora sottoposto a revisione tra pari, accende una ‘spia rossa’: la variante Lambda potrebbe creare problemi con i vaccini. 

La variante Lambda crea problemi ai vaccini. La sua proteina Spike, hanno osservato gli autori (scienziati dell’università di Tokyo e di diversi atenei nipponici) nel lavoro disponibile nella piattaforma ‘Biorxiv’, risulta altamente infettiva e questo viene attribuito alla presenza di due mutazioni in particolare. Una terza mutazione, però (RSYLTPGD246-253N, una delezione di 7 aminoacidi nel dominio N-terminale della Spike), sarebbe responsabile di evasione dagli anticorpi neutralizzanti. Insieme ad altre due (L452Q and F490S), conferirebbe resistenza all’immunità antivirale. “I nostri dati – avvertono gli esperti – suggeriscono che l’inserimento di questa mutazione è strettamente associato alla massiccia diffusione dell’infezione da variante Lambda in Sud America”. Lambda “è una delle varianti che l’Oms sta tracciando nel mondo – ha chiarito in questi giorni Kerkhove, ricordando il concetto anche su Twitter – E’ stata segnalata in più di 40 Paesi e quello che stiamo guardando in questo momento è quanto bene circola e quanto aumenta la trasmissione”. In questo momento però la Lambda non sembra “decollare, dopo che è stata segnalata in un Paese. Ci sono varie mutazioni nella proteina Spike e anche alcune delezioni di aminoacidi. Ogni cambiamento nel virus pone qualche minaccia al funzionamento del vaccino”, evidenzia l’esperta Oms.

Il caso del Cile, con l’aumento improvviso dei casi. Gli scienziati che firmano lo studio sulla variante in questione parlano di una certa “resistenza all’immunità indotta da vaccino” e sottolineano come Lambda abbia due caratteristiche fondamentali per un’efficiente diffusione e trasmissione nella popolazione umana. Gli esperti fanno notare che, “poiché la variante Lambda è classificata come variante di interesse, si potrebbe” essere indotti a “pensare che non sia una minaccia presente come le varianti di preoccupazione. Tuttavia, per via della resistenza relativa dimostrata, potrebbe causare infezioni ‘breakthrough'”, nei vaccinati. Gli studiosi ricordano anche il caso Cile, dove il tasso di vaccinazione è diventato in breve tempo relativamente alto (a giugno il 60% della popolazione vaccinabile aveva fatto almeno una dose). In questo Paese, dicono gli autori, “si è verificato un aumento di casi nella primavera del 2021, suggerendo che la variante Lambda è abile nello sfuggire all’immunità antivirale”. “In questo momento – osserva Kerkhove – abbiamo classificato la Lambda come variante di interesse a livello globale, ma questo non significa che sia meno importante. E’ una variante sulla quale abbiamo discusso attivamente e stiamo cercando di raccogliere attivamente il maggior numero di informazioni possibile da ogni fonte disponibile”.

Variante Lambda arrivata in Italia dal Perù, cosa sappiamo: sintomi, tasso di mortalità e diffusione. Debora Faravelli il 06/07/2021 su Notizie.it. Le caratteristiche della variante Lambda, identificata per la prima volta in Perù e attualmente diffusa in almeno trenta paesi. Oltre alla minaccia della variante Delta, rilevata per la prima volta in India, in Italia è stata rilevata anche la presenza della mutazione Lambda. Si tratta del ceppo precedentemente noto come C.37 identificato in Perù a dicembre dello scorso anno.

Variante Lambda: cos’è. Attualmente è presente in trenta paesi, tra cui Australia e Regno Unito, ed è considerata una delle più pericolose e con maggior capacità di diffusione. Basti pensare che quando fu inizialmente identificata i contagiati da questa variante erano soltanto uno ogni 200 ma già a marzo la diffusione era arrivata al 50% dei casi della capitale peruviana e oggi rappresenta oltre l’80% del totale. Si tratta di dati che indicano un’alta trasmissibilità che si sospetta essere addirittura maggiore di quella della variante Delta (a sua volta fino al 60% più contagiosa dei principali lignaggi in circolazione). Tra le sue potenziali caratteristiche, che andranno confermate da studi e analisi, potrebbe anche esserci un aumento della mortalità. Il Perù è infatti il paese con il più alto tasso di mortalità per Covid. Dall’inizio della pandemia si contano infatti oltre 2 milioni di contagi e 194 mila morti con circa 400 decessi al giorno. Considerando che il paese ha 32 milioni di abitanti, si può dedurre la gravità della situazione.

Variante Lambda: resiste al vaccino? Un recente studio in preprint condotto da scienziati dell’Istituto di Scienze Biomediche dell’Università del Cile che hanno condotto test di neutralizzazione sfruttando il plasma di pazienti immunizzati col vaccino cinese CoronaVac, hanno osservato che per la variante Lambda essa è risultata ridotta di 3,05 volte rispetto al ceppo originario, di 2,33 volte rispetto alla variante Gamma e di 2,03 volte rispetto alla variante Alfa. “I nostri dati mostrano per la prima volta che le mutazioni presenti nella proteina Spike della variante Lambda conferiscono fuga agli anticorpi neutralizzanti e una maggiore infettività”, hanno rilevato. Da ricordare comunque come la ricerca non sia ancora stata sottoposta a revisione paritaria e dunque pubblicata su una rivista scientifica.

Variante Lambda: perché è più preoccupante. La variante Lambda desta maggiore preoccupazione per la combinazione di sette mutazioni rilevate sulla proteina Spike del patogeno pandemico sfruttato per legarsi al recettore delle cellule umane, rompere la parete cellulare, riversare all’interno l’RNA virale e dare il via alla replicazione e dunque alla malattia. Quella che desta maggiore interesse negli scienziati è la mutazione di fuga immunitaria L452Q, molto simile alla mutazione L452R che secondo gli esperti è alla base della maggior contagiosità della variante Delta. Le altre sono G75V, T76I, del247/253, F490S, D614G e T859N. 

Dopo Delta e Kappa, spunta anche la variante Lambda. Alessandro Ferro il 6 Luglio 2021 su Il Giornale. Sequenziata per la prima volta in Perù, la variante Lambda crea preoccupazione nel Paese sudamericano che ha il più alto tasso di mortalità al mondo per Covid-19. Mentre si fanno i conti con la variante Delta che preoccupa per la tenuta dei vaccini e la maggiore contagiosità, dall'altra parte del mondo è stata rilevata per la prima volta la variante Lambda del Covid-19.

"Variante di interesse". Diffusa per la prima volta in Perù nel dicembre 2020 e scientificamente nota come C.37, da quel momento si è estesa 30 nazioni e 4 continenti (Europa, America, Africa e Oceania): gli scienziati la stanno studiando perché contiene un insieme "insolito" di mutazioni. Secondo un report dell'Oms, nei mesi di maggio e giugno ha rappresentato l'82% dei casi in Perù, il Paese sudamericano che ha il più alto tasso di mortalità al mondo. Discorso simile anche per il Cile che rappresenta quasi un terzo dei nuovi casi. L'Organizzazione Mondiale della Sanità l'ha definita una "variante di interesse" e viene monitorata anche dall'European Centre for Disease Prevention and Control, il Centro Europeo di Prevenzione e controllo delle Malattie, oltrechè dalle autorità sanitarie britanniche. Nessun caso, al momento, viene segnalato in Italia.

"I vaccini funzionano". Intanto, il Dipartimento per la Salute del Regno unito ha messo la variante Lambda sotto osservazione fra le Vui (variants under investigation) per alcune sue mutazioni rilevanti – L452Q and F490S – e per l’aumento dei casi associati a questa forma. Lambda ha un modello unico di sette mutazioni nella proteina spike che il virus usa per infettare le cellule umane. I ricercatori sono particolarmente incuriositi da una mutazione chiamata L452Q, simile alla mutazione L452R che si ritiene contribuisca all'elevata infettività della variante Delta. Attualmente in Italia non risultano casi registrati da collegare a Lambda dove rimane prevalente la variante Alfa con oltre il 74% dei contagi (che in assoluto sono in discesa), seguita da una buona fetta da attribuire a Delta, in aumento, con quasi il 23%. La buona notizia, però, è che i vaccini sarebbero efficaci anche contro questa nuova variante del Covid. "I risultati suggeriscono che i vaccini attualmente in uso rimarranno protettivi contro la variante Lambda e che la terapia con anticorpi monoclonali rimarrà efficace", scrivono i ricercatori Grossman School of Medicine della New York University. Come riporta News-medical, il documento di ricerca è disponibile sul sito Biorxiv mentre l'articolo è sottoposto a revisione paritaria.

Preoccupano le nuove varianti. L'emergere in corso di varianti di Sars-Cov-2 contenenti mutazioni che conferiscono una maggiore trasmissibilità o fuga immunitaria sta causando sempre più preoccupazione per l'immunità fornita da precedenti infezioni o vaccinazioni: a tal proposito, all'ordine del giorno si parla della variante Delta dove in Israele, primo Paese al mondo ad aver ripreso una vita quasi normale, fa paura. Domenica scorsa, infatti, si sono avuti 343 nuovi positivi numero che non si registrava dia3 mesi, a causa della diffusione della variante Delta salita dal 60% di due settimane fa al 90%: secondo il ministero della Salute israeliano, più della metà dei nuovi malati di coronavirus è vaccinata (51%) e solo 15 erano viaggiatori di ritorno. Ma poi c'è anche una "figlia" di Delta che è la sottovariante Kappa di cui ci siamo occupati poco tempo fa che, rispetto alla Delta, ha una mutazione che preoccupa per la facilità con cui potrebbe eludere gli anticorpi neutralizzanti dei vaccini e della precedente infezione. Il Prof. Francesco Broccolo, Docente di Microbiologia Clinica presso l’Università Milano-Bicocca e Direttore responsabile del laboratorio di Analisi Cliniche per Cerba, ha detto al Giornale.it che la sottovariante Kappa è la variante definita "Delta plus" perché ha in più una mutazione particolare che si vedeva già nella variante sudafricana che è la K417N. "Ha potenziato ulteriormente la trasmissibilità e l'escape, cioè la fuga dagli anticorpi neutralizzanti evocati sia da una precedente infezione naturale e sia dal vaccino. Ecco perché ci preoccupa, perchè ha un doppio ruolo: si trasmette ancor di più e sfugge ancor di più agli anticorpi prodotti dalla malattia precedente o dal vaccino. Ecco perchè sia la variante Delta che la Delta plus possono essere contratte da soggetti che hanno già avuto il Covid con la sudafricana, con la brasiliana o con la variante inglese". 

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.  

Varianti Covid, quali sono le 11 mutazioni finora individuate: 5 fanno paura. Asia Angaroni il 4 luglio 2021 su Notizie.it. Dalla variante Delta all'Alfa, fino alla Epsilon: finora sono state individuate 11 varianti di Covid-19, cinque fanno paura. Prima la variante inglese, ora la Delta: il diffondersi delle varianti del Covid preoccupano l’Italia e non solo: quali sono le mutazioni del coronavirus finora individuate?

Varianti Covid, quali sono le mutazioni. Se la scorsa primavera la variante inglese aveva aggravato la curva epidemiologica in Italia, comportando un brusco incremento dell’emergenza coronavirus, ora preoccupa il diffondersi della variante Delta, ex indiana, che è già stata riscontrata in 16 Regioni italiane.

11 le mutazioni del Covid-19 finora individuate. Sono cinque quelle che preoccupano maggiormente. Tutte le varianti sono state individuate già in decine di Paesi del mondo. L’ultima sequenziata è la variante Epsilon, che un articolo pubblicato sulla rivista Science, considera una delle più preoccupanti. In particolare, stando a quanto spiegato dagli esperti, spaventa la sua proteina Spike, con la quale il virus si aggancia alle cellule. Nel caso della variante Epsilon, la proteina Spike racchiude tre mutazioni, mostrandosi così più resistente agli anticorpi, sia a quelli sviluppati grazie al vaccino sia a quelli generati dall’infezione.

Varianti Covid, quali sono le mutazioni: la variante Alfa. La variante Alfa, più comunemente nota come “variante inglese”, è stata identificata nell’ottobre 2020 in Gran Bretagna. Nell’arco di poco tempo si è diffusa nel resto d’Europa e del mondo, rappresentando il ceppo predominante e sostituendo così quello originale. Da subito questa mutazione si è caratterizzata per la sua più rapida diffusione. Infatti, si trasmette con un’efficienza maggiore del 50% ed è ancora la variante dominante nel mondo. Resta monitorata la sua versione portatrice della mutazione E484K, la cui diffusione è in aumento. Secondo i dati aggiornati alle ultime quattro settimane, la sua diffusione in Italia è del 53,5%.

Varianti Covid, quali sono le mutazioni: la variante Beta. Quasi in contemporanea alla variante Alfa è stata individuata in Sudafrica la variante Beta. Anch’essa sembra diffondersi con un’efficienza maggiore del 50% rispetto al ceppo originario. In particolare, pare colpisca più facilmente i giovani ed sia fra loro più trasmissibile. Fortunatamente, in Italia non sono stati riscontrati casi nell’ultimo mese.

Varianti Covid, quali sono le mutazioni: la variante Gamma. Risalgono agli inizi del 2021 i primi casi di variante Gamma riscontrati in Giappone e poi in Brasile. Si tratta di una variante monitorata con attenzione a causa di tre mutazioni, indicate con le sigle: N501Y, E484K e K417T. Secondo gli ultimi aggiornamenti, nelle ultime quattro settimane la sua diffusione nel nostro Paese è stata del 7,3%.

Varianti Covid, quali sono le mutazioni: la variante Delta. Individuata in India, si è rapidamente diffusa in un centinaio di Paesi. La variante Delta, infatti, ha una diffusione tra il 50% e il 60% superiore rispetto alla variante Alfa. Molti esperti temono diventi il ceppo dominante, sostituendo la variante inglese. Due mutazioni derivanti dalla Delta (la B.1.617.2.1 e la B.1.617.2.3) sono molto meno aggressive. Al contrario, si guarda con attenzione alla versione AY.1, nata dalla Delta e ancora più rapida nel diffondersi.

Varianti Covid, quali sono le mutazioni: la variante Epsilon. La più preoccupante è la variante Epsilon, identificata per la prima volta in California e al momento poco diffusa in Europa. Tuttavia, resta un’osservata speciale. Finora sono solo due i casi rilevati in Italia.

Dal ceppo di Wuhan alle ultime varianti: le trasformazioni del Sars-Cov-2. Alberto Bellotto, Federico Giuliani su Inside Over il 6 marzo 2021. I virus sono organismi microscopici. Vengono chiamati nemici invisibili proprio perché sono subdoli. Riescono ad attaccare un organismo quando questo meno se lo aspetta e, in alcuni casi, sono pure in grado di scatenare pericolose pandemie. Come nel caso del Sars-CoV-2, rilevato per la prima volta nel dicembre 2019, a Wuhan, in Cina, ma chissà da quanto tempo in circolazione. Come e dove si è originato? Non lo sappiamo. Tre sono le opzioni più papabili: nella provincia dello Hubei, nei meandri del sud-est asiatico (la più probabile) o chissà in quale altro luogo. I virus sono quindi anche misteriosi. A maggior ragione se prendiamo in considerazione i virus animali che, di punto in bianco, e grazie a condizioni favorevoli, effettuano il salto di specie. La cosiddetta zoonosi, come ha spiegato nel dettaglio lo scrittore David Quammen nel fondamentale libro Spillover, uscito in Italia per Adelphi. In casi simili, se pensiamo ancora una volta alla pandemia di Covid-19, è pressoché impossibile risalire all’origine dell’infezione. Per maggiori informazioni chiedere all’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), fresca di una lunga missione a Wuhan per rimettere insieme le tessere del mosaico e fare luce sulla nascita del Sars-CoV-2. A distanza di un anno, gli scienziati non hanno ancora prove certe. È partito tutto da un pipistrello? È l’ipotesi più probabile. Ma per quale motivo l’infezione si è scatenata a Wuhan? Chi ha portato il virus nel cuore di una delle megalopoli più moderne della Cina? È assurdo pensare che uno dei pipistrelli presenti tra la Cambogia, il Myanmar, la Thailandia e il Vietnam sia riuscito a volare per 1.200 chilometri fino alla provincia dello Hubei. Molto più facile che sia stato un essere umano a trasportare la bestiola notturna fin lì. Oppure il pipistrello potrebbe aver infettato un altro animale, l’eventuale ospite intermedio, a sua volta responsabile del contagio umano. Quale animale intermedio? Magari un pangolino, o un altro animaletto della foresta entrato in contatto con il pipistrello infetto, poi raccolto da un uomo e portato in città in qualche mercato. Tutte le piste sono al vaglio degli esperti.

Mutazioni e sequenze genetiche. In ogni caso, un incipit del genere è doveroso per far capire al lettore come agiscono i virus. Sono esseri piccoli, come spiegato, ma talvolta possono rivelarsi molto intelligenti. D’altronde il loro obiettivo consiste nel riprodursi passando da un organismo all’altro. I virus più “stupidi” contagiano la vittima e finiscono per ucciderla, compromettendo la loro stessa esistenza; i “furbi”, invece, provocano sintomi e problemi, ma evitano tuttavia il decesso del corpo ospitante. Inoltre tutti i virus, infezione dopo infezione, si adattano all’ambiente circostante e vanno incontro a mutazioni fisiologiche. Facciamo adesso un piccolo passo indietro. L’Oms ha spiegato che nella fase iniziale dell’emergenza sanitaria, tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, a Wuhan circolavano già 13 ceppi differenti del Sars-CoV-2. Significa che il virus aveva avuto modo di contagiare un buon numero di persone, prima di andare incontro a trasformazioni naturali. Detto altrimenti, l’elevato numero di mutazioni di un agente patogeno indica che la sua diffusione è stata (ed è) alta. Anche se il tema della mutazione del nuovo coronavirus ha fatto irruzione al centro dell’opinione pubblica intorno a Natale, sono in realtà mesi che i ricercatori hanno a che fare con piccolissime ma continue trasformazioni del Sars-CoV-2. Come ha avuto modo di spiegare il New York Times, mentre si stava diffondendo in ogni continente, il nuovo coronavirus stava già modificando la propria sequenza genetica. Si trattava di modifiche impercettibili, che non hanno quasi mai alterato le sue caratteristiche tranne in un caso. Una trasformazione, stando a quanto ricostruito, avrebbe resto il patogeno più contagioso. La mutazione in questione è stata rinominata 614G, ed è stata individuata per la prima volta, lo scorso gennaio, nell’est della Cina. È lei, con ogni probabilità, ad aver consentito al virus di trasmettersi più rapidamente e provocare la pandemia. Pandemia, sia chiaro, si sarebbe scatenata in ogni caso, anche senza mutazioni; solo che lo avrebbe fatto in maniera molto più lenta e meno contagiosa.

Le trasformazioni principali del Sars-CoV-2. Districarsi nel labirinto di varianti del Sars-CoV-2 è un’impresa ardua. Innanzitutto è importante ricordare che le mutazioni genetiche che causano l’evoluzione di un virus possono manifestarsi in modo del tutto casuale. Dopo di che, queste mutazioni possono rendere il patogeno più o meno pericoloso, aumentarne la trasmissibilità, eludere il rilevamento da parte dei test, evitare le risposte immunitarie – perfino dei vaccini – e causare malattie in forme più gravi rispetto a quelle provocate dalla forma tradizionale del virus. Monitorare l’evoluzione del Sars-CoV-2, dunque, è un’attività fondamentale in proiezione futura.

Ma qual è l’albero genealogico del nuovo coronavirus? Gli esperti parlano, semmai, di alberi filogenetici, cioè un insieme di relazioni ipotetiche tra sequenze che mostrano come si è evoluto il virus nel corso del tempo. Nel nostro caso, tutto si fa partire con un campione iniziale prelevato a Wuhan e sequenziato nel gennaio 2020. Finora, come ha evidenziato l’Economist, sono state documentate circa 41mila mutazioni; solo una manciata rende tuttavia il virus più pericoloso, e sono quelle attualmente sotto i riflettori dei ricercatori. La citata mutazione D614G ha reso il virus più contagioso e lo ha fatto diffondere in tutta l’Europa. Ci sono, tra le tante altre, due ulteriori trasformazioni da tenere in considerazione: la E484K, che consente al virus di evitare, in parte, gli anticorpi, e la N501Y, associata a un aumentata trasmissibilità. La prima è prevalente in Brasile e Sud Africa, mentre la seconda è stata rilevata a dicembre in Gran Bretagna. Interessante, inoltre, notare la variante B.1.1.298, rinvenuta in Danimarca all’interno dei visoni. Da qui ai prossimi anni, gli esperti si aspettano migliaia di altre varianti. Bisogna essere preoccupati? Con il monitoraggio del virus, lo sviluppo di nuovi vaccini e la speranza, come sostenuto da vari studiosi, che il Sars-CoV-2 possa “indebolirsi” per assicurarsi una vita più lunga, non più di tanto. Fare previsioni è tuttavia un azzardo.

Cristina Marrone per il "Corriere della Sera" il 31 maggio 2021.

1 Che cosa è una variante? La variante è un virus che presenta un numero preciso di mutazioni rispetto al ceppo originario. Ci sono migliaia di varianti in circolazione fin dagli esordi della pandemia da coronavirus, ma la maggior parte sono «neutre» perché non portano un beneficio al patogeno. Altre potrebbero contenere caratteristiche più preoccupanti perché aumentano la trasmissibilità di Sars-CoV-2, la patogenicità (inducendo malattia più severa) o aggirano, almeno parzialmente, l'immunità acquisita in seguito ad un'infezione naturale o al vaccino.

2 Quali sono le varianti che più preoccupano? L'Organizzazione mondiale della Sanità e il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) elencano quattro varianti che destano preoccupazione, le cosiddette Voc (Variants of concern). Sono la variante inglese (B.1.1.7) oggi dominante in Europa; la sudafricana (B.1.351); la brasiliana (P.1), e il secondo ceppo dell'indiana (B.1.617.2). Altre otto varianti (tra cui la nigeriana e altri due ceppi dell'indiana) sono classificate di interesse (VOI). Esistono ipotesi scientifiche, ma ancora incerte, che potrebbero avere un impatto sulla trasmissibilità, gravità e immunità del virus. Sotto monitoraggio un'altra ventina di varianti.

3 Quali sono le caratteristiche? L'inglese e l'indiana hanno dimostrato di avere maggiore trasmissibilità; l'africana potrebbe indurre un parziale effetto di «immune escape» nei confronti di alcuni anticorpi monoclonali che potrebbe interessare anche una lieve riduzione dell'efficacia dei vaccini; non ci sono invece certezze che la brasiliana possa causare un elevato numero di reinfezioni come emerso in un primo momento. Tuttavia le varianti che si sono generate finora sono figlie naturali dell'adattamento del virus all'uomo e nessuna di esse è particolarmente rilevante nel rendere i vaccini approvati meno efficaci. Se non fermiamo la circolazione del virus (grazie alla vaccinazione) non possiamo però escludere che in futuro possa comparire un ceppo parzialmente resistente ai vaccini che tenderebbe a diffondersi anche in un mondo vaccinato. Ma al momento questa variante fortunatamente non c'è.

4 Quanto sono diffuse le varianti in Italia? L'ultimo report dell'Istituto Superiore di Sanità datato 18 maggio segnala che la variante inglese è ancora prevalente (88,1%), ma in calo rispetto al 91,6% del 15 aprile. Cresce la diffusione della brasiliana (al 7,3% rispetto al 4,5%). L' indiana è all'1% (identificata in 16 casi totali). Nigeriana e sudafricana sono sotto l'1%. La fotografia della diffusione delle varianti è tuttavia parziale perché l'Italia sequenzia solo l'1% dei casi rispetto all'8-10% del Regno Unito.

5 Perché si parla tanto di variante indiana? Perché contiene due mutazioni già note: la E484Q e la L452R che per la prima volta compaiono insieme. La prima aumenta la trasmissibilità di almeno il 50% secondo i primi dati disponibili. La seconda potrebbe conferirle il potere di aggirare l'effetto del vaccino.

6 Quanto è diffusa in Europa? Secondo la banca dati Gisaid la variante indiana è stata segnalata in modo sporadico in quasi tutti i Paesi europei. Più preoccupante la situazione del Regno Unito dove nell'ultima settimana sono stati registrati un quarto di contagi in più rispetto alla precedente e i casi di variante indiana (7 mila confermati) sono raddoppiati in sette giorni. Il ceppo indiano però, pur essendo molto contagioso, non sembra provocare malattia grave.

7 I vaccini ci proteggono dalle varianti? L'Agenzia europea per i medicinali afferma che tutti i quattro vaccini in uso in Europa sono efficaci contro le varianti, almeno per quanto riguarda la malattia grave. Studi sul ciclo completo di vaccinazione svolti in Israele e Qatar segnalano una buona risposta, seppur meno potente, dei vaccini Pfizer e Moderna anche nei confronti delle varianti più temute, in particolare la sudafricana. AstraZeneca sembra funzionare meno nei confronti della sudafricana, ma mancano dati consolidati. Ha destato preoccupazione una recentissima analisi della Public Health England che, pur evidenziando l'alta efficacia dei vaccini contro la variante indiana, ha segnalato come dopo una sola dose sia Pfizer sia AstraZeneca la protezione è solo del 33%. Tuttavia il Regno Unito in condizioni di emergenza ha scelto di ritardare la seconda dose per immunizzare più persone possibili. Non sappiamo se l'aumento di infezioni che stanno subendo gli inglesi sia dovuto all'arrivo della variante indiana o al fatto che sta finendo l'effetto della prima dose, che va sempre potenziata con la seconda. Al momento non ci sono evidenze che la variante indiana sfugga alle vaccinazioni standard, anche quelle ritardate di pochi giorni rispetto ai protocolli, come stiamo facendo in Italia.

Varianti pericolose. Report Rai PUNTATA DEL 19/04/2021di Manuele Bonaccorsi, Lorenzo Vendemiale, collaborazione di Edoardo Garibaldi, immagini di Matteo Delbò, montaggio di Andrea Masella e Riccardo Zoffoli. Manaus, capitale dello Stato di Amazonas, nel nord del Brasile. Qui ha origine la variante brasiliana, arrivata ormai praticamente in tutto il mondo e presente anche in Italia. A novembre gli abitanti della città pensavano di aver raggiunto l’immunità di gregge e di essere al sicuro, ma all’inizio dell’anno sono stati travolti da una nuova ondata di contagi, che ha fatto andare in tilt il sistema sanitario. La variante di Manaus, infatti, è in grado di reinfettare chi ha già gli anticorpi del Covid, sostengono gli esperti. E si è diffusa in tutto il Paese: oggi in Brasile si contano circa quattromila morti al giorno e gli ospedali sono pieni di pazienti gravi, anche giovani. Il Sudamerica rischia di diventare la fucina mondiale di nuove mutazioni del virus, che potrebbero anche ridurre l’efficacia dei vaccini attualmente a disposizione. Con un reportage esclusivo da Manaus e da San Paolo, le telecamere di Report racconteranno come si è sviluppata la variante in Brasile. E poi documenteranno come si è diffusa in Italia, grazie alla mancanza di controlli e soprattutto ai nostri ritardi nei sequenziamenti del virus.

PERICOLO VARIANTI Di Manuele Bonaccorsi e Lorenzo Vendemiale collaborazione Edoardo Garibaldi immagini di Matteo Delbò montaggio di Andrea Masella e Riccardo Zoffoli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che abbiamo capito è che la vaccinazione è necessaria per fermare la corsa del virus. Perché altrimenti muta e vengono delle varianti che potrebbero essere resistenti al vaccino. Ecco il nostro inviato Manuele Bonaccorsi è andato in quel Paese dove il virus sta correndo di più in questo momento: il Brasile con 3mila morti al giorno ha la curva, l’incidenza più alta di morti giornalieri. Un impatto sulla sanità che è impressionante. I medici che sono costretti a intubare i pazienti senza sedazione perché mancano i medicinali e addirittura nei cimiteri sono costretti a fare il turno di notte perché non sanno più dove seppellire i propri cari.

EDMAR BARROS - FOTOGIORNALISTA Seguimi, c'è una cosa che voglio farti vedere. Guarda questa sepoltura: è senza croce, perché la famiglia non aveva i soldi per pagarla. Non riusciranno più a ritrovarla, così… Il Covid è questo, lascia le persone in solitudine anche nei funerali. Possono entrare solo tre persone per famiglia. Spesso filmano la sepoltura col telefonino, per gli altri parenti, che sono rimasti fuori. Prima della seconda ondata qui c'era una foresta. È stata tagliata per seppellire le vittime del Covid.

EMANUELE BONACCORSI Quante morti ci sono stati in questa seconda ondata?

EDMAR BARROS - FOTOGIORNALISTA A gennaio e febbraio solo a Manaus, che ha 2 milioni di abitanti, ci sono state oltre 6mila morti. In due mesi più dei morti di tutto il 2020. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11: questi sono morti tutti lo stesso giorno, il 2 febbraio, quando a Manaus c'era carenza di ossigeno. È stato il picco della pandemia.

EMANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Manaus si trova al centro della foresta amazzonica, sulle rive del Rio Negro. Per arrivarci serve l'aereo, oppure 7 giorni di navigazione. Quando all'inizio dell'anno, qui arriva la seconda ondata del Covid la forza d'urto è tale da piegare il sistema sanitario. Gli ospedali si trovano senza ossigeno. I rifornimenti tardano ad arrivare e i malati di Covid vengono lasciati morire, abbandonati a se stessi, senza cure.

VIDEO SOCIAL Non c'è ossigeno e la gente sta morendo, per favore per l'amore di dio, aiutateci!

VIDEO ENER LAVAREDA Sono qua con mio papà, è l'una di notte, provo a farlo ricoverare nell'ospedale di Manaus. Mio padre è qui disteso nel sedile dietro. La sua saturazione è sotto 80, papà sta respirando con molta difficoltà. Non sappiamo che fare. È il terzo ospedale in cui andiamo, ma non ci sono letti. È così ovunque.

EMANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ener Lavareda ha vissuto in prima persona il collasso del sistema sanitario per il Covid. Ci accoglie nella sua piccola casa, alla periferia sud di Manaus.

ENER LAVAREDA Buongiorno, prego accomodatevi, questo è mio figlio, è in didattica online. Mio suocero, mia cognata, mia suocera. Tutto è cominciato a Capodanno. Ci eravamo riuniti in una fattoria della famiglia e subito dopo tutti hanno avuto il Covid. In un mese sono morti mia moglie, mio papà, mia nonna, mio cugino e lo zio di mia moglie. Cinque persone in tre diverse generazioni della famiglia. Ho passato 15 giorni cercando far ricoverare mio padre. È morto la mattina del 18 gennaio: ma mentre ero in obitorio mi hanno comunicato che era morta anche mia moglie. Sono tornato a casa, e dovevo e avvisare mia madre della perdita di mio papà, avvisare mio figlio e i miei suoceri della morte di mia moglie.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Eppure a Manaus, fino a dicembre, credevano che il peggio fosse passato. La prima ondata, la scorsa primavera, era stata così forte che, secondo uno studio pubblicato su Science, circa il 70% della popolazione avrebbe avuto già gli anticorpi del Covid. Tanto che c’era chi evocava ufficialmente l’ immunità di gregge.

MARCELLUS CAMPELO –SEGRETARIO ALLA SALUTE STATO DI AMAZONAS Dall'ultima settimana di dicembre abbiamo notato un aumento esponenziale del consumo di ossigeno. L'età media dei decessi si stava decisamente abbassando. E in generale le persone venivano ricoverate più a lungo, in condizioni più gravi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO È il segnale che qualcosa di inatteso sta accadendo. Il perché non lo scoprono in Brasile ma le autorità sanitarie giapponesi all’inizio di gennaio quando due cittadini di Manaus atterrano a Tokyo. Risultano positivi al tampone, e il virus che hanno in corpo viene sequenziato. È sensibilmente diverso dal virus di Wuhan, Il covid è mutato, e lo ha fatto in peggio. Si scopre così la variante di Manaus.

MARCELLUS CAMPELO –SEGRETARIO ALLA SALUTE STATO DI AMAZONAS L'incidenza della variante già a dicembre era del 52 per cento, a gennaio era salita al 91 per cento. Ma solo il 13 gennaio è stata pubblicata l'allerta nazionale.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La variante, specialmente, ha un caratteristica che mette la parola fine a ogni ipotesi di raggiungere l’immunità di gregge.

LUCAS FERRANTE - ISTITUTO NAZIONALE RICERCA DI AMAZONAS È dimostrato che chi ha avuto già il coronavirus potrebbe reinfettarsi. Non solo, il virus mutato ha una capacità di trasmissione almeno doppia e anche la carica virale è più alta.

MANUELE BONACCORSI Per quale motivo è nata proprio a Manaus?

LUCAS FERRANTE - ISTITUTO NAZIONALE RICERCA AMAZONAS Le nuove varianti nascono in territori dove non c’è un controllo adeguato della pandemia. Poiché il Brasile non ha la capacità di sequenziamento, ce ne siamo accorti troppo tardi, e ora abbiamo messo a rischio l'intero pianeta.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il virus dalla foresta amazzonica circola velocemente in tutto il Brasile, anche perché qui non c'è alcun limite allo spostamento tra stati. Con circa 3 mila morti al giorno oggi il Brasile è diventato l'epicentro globale del Covid. E il suo sistema sanitario è andato in tilt. I posti in intensiva sono pieni e alcuni medici hanno rivelato che mancano perfino i sedativi per i pazienti da intubare. San Paolo, 19 milioni di abitanti, è la più grande città del sudamerica. È la capitale economica del Brasile e per la sua ricchezza può vantare il miglior sistema sanitario dal Paese. Tuttavia anche Sao Paulo non ha retto l'ondata della variante.

BRAULIO ARAUJO – DIRETTORE PRIMO SOCCORSO – UNITÀ TABOÃO DA SERRA Questo è il primo centro a cui si rivolgono i pazienti Covid. Ma se la loro condizione peggiora non abbiamo il materiale necessario per intubarli, dobbiamo trasferirli in ospedale. Però da 18 ore non abbiamo posti liberi. Questa è l'area di internamento. Non posso farvi entrare è troppo pericoloso, qui circola il Covid.

MARIA DOLORES FIGUEIREDO – MEDICO PRIMO SOCCORSO - UNITÀ TABOÃO DA SERRA Il governo ha detto che il vaccino non serve, che la mascherina non serve, che il lockdown non serve. La situazione è peggiorata a causa loro.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il presidente Bolsonaro sin dall'inizio della pandemia si è distinto per aver minimizzato la gravità del Covid. E anche oggi continua a dire no al lockdown.

JAIR BOLSONARO - PRESIDENTE BRASILE – 7 APRILE 2021 Non accetto la politica di chiudere tutto. Il virus è qui per rimanere, è impossibile eradicarlo. Non ordinerò un lockdown nazionale.

LUIZ HENRIQUE MANDETTA - MINISTRO DELLA SALUTE BRASILE 2019-2020 Bolsonaro ha dato priorità all’economia rispetto alla salute. Avevo avvisato il presidente che senza lockdown avremmo avuto 180 mila morti in un anno.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Luiz Henrique Mandetta, medico, è l'ex ministro della salute del governo Bolsonaro. Nei primi mesi del 2020 aveva proposto stringenti misure di contrasto alla pandemia.

LUIZ HENRIQUE MANDETTA - MINISTRO DELLA SALUTE BRASILE 2019-2020 Lui si aspettava che mi dimettessi, ma ho resistito. Poi ha chiesto la mia sostituzione. Al mio posto ha nominato un altro medico. Ma dopo 20 giorni si è dimesso anche lui per lo stesso motivo. Alla fine alla Salute hanno messo un militare, proprio come lui, senza competenze.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nei grandi ospedali di San Paulo oggi la situazione è questa.

JAQUES SZTAJNBOK – DIRETTORE TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE EMÍLIO RIBAS Non abbiamo un solo letto libero in questo momento, non c’è, solo se qualcuno muore si libera. E per ogni letto che si libera ci sono 200, 300 persone che attendono. Lui ha 26 anni e non ha nessuna malattia pregressa. Riccardo quanto ha il paziente adesso?

INFERMIERE I valori sono stabili

JAQUES SZTAJNBOK – DIRETTORE TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE EMÍLIO RIBAS Da ieri è molto grave, in questo momento abbiamo visto qui pazienti sotto i 50 anni, sotto i 40 anni. E in genere sono in condizioni più gravi. È la caratteristica della nuova variante.

MANUELE BONACCORSI FUORICAMPO Il Covid mutato non colpisce più in prevalenza gli anziani. Secondi i dati del ministero della Salute di Brasilia, dall’inizio dell’epidemia si contano 852 vittime sotto i 9 anni. Oggi la metà dei posti di terapia intensiva in Brasile è occupata da malati sotto i 40 anni.

JAQUES SZTAJNBOK – DIRETTORE TERAPIA INTENSIVA OSPEDALE EMÍLIO RIBAS Quando hai molte persone con gli anticorpi, o perché hanno già avuto il Covid o perché vaccinate, se il virus continua a circolare in modo incontrollato, si ha un'enorme possibilità che nascano mutazioni, possono essere più gravi e resistenti agli anticorpi. Ed è ciò che è accaduto a Manaus. Qui in Brasile non abbiamo vaccini a sufficienza e non pratichiamo il distanziamento sociale. Rischiamo di diventare una grande incubatrice delle nuove varianti del virus. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La grande paura cioè è che le varianti siano in grado di ridurre l’efficacia dei vaccini. Il professor Madhi di Johannesburg ha scoperto che la variante sudafricana, che è molto simile a quella di Manaus, riduce l’efficacia del vaccino Astrazeneca.

SHAPIR MADHI – DIR. UNITÀ RICERCA VACCINI UNIVERSITA’ DI WITWATERSRAND - JOHANNESBURG Durante i trials, dopo che i partecipanti avevano ricevuto la seconda dose, ci sono stati 42 casi di infezione, il 90% era dovuto alla cosiddetta sudafricana. Il livello di efficacia del vaccino dunque era del 10% sui casi di Covid moderato. La variante risultava resistente agli anticorpi sviluppati dalla prima generazione di vaccini per il Covid.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In seguito a questa scoperta il Sudafrica ha ritirato dal mercato il vaccino Astrazeneca. In Israele hanno appena realizzato un altro studio in cui perfino il siero di Pfizer risulta meno efficace rispetto alla sudafricana. In Brasile uno studio della fondazione Fiocruz ha notato che la brasiliana sta continuando a mutare. In una forma che potrebbe risultare ancor più pericolosa per i vaccini.

FELIPE GOMES NAVECA – VICEDIRETTORE ISTITUTO FIOCRUZ – STATO DI AMAZONAS Negli ultimi due mesi abbiamo scoperto delle ulteriori preoccupanti mutazioni della variante brasiliana, che sono condivise con la variante sudafricana. Dobbiamo continuare a utilizzare i vaccini ma anche ad analizzare il virus perché non possiamo essere sicuri che saranno sempre efficaci fino a quando il virus continuerà a cambiare.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO In questo contesto, in Brasile la campagna vaccinale va avanti. Qui siamo a Manaus.

MANUELE BONACCORSI Che vaccino sta facendo?

DONNA Coronavac.

INFERMIERA È il vaccino cinese, lo diamo per ora agli operatori sanitari, questa è la seconda dose.

MANUELE BONACCORSI È sicuro che il vaccino funzioni sulla vostra variante? UOMO Al momento dobbiamo crederci e avere fede in Dio che tutto andrà bene.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Lo stesso governo cinese ammette che il vaccino Coronavac è uno dei meno efficaci, appena al 50,4 per cento secondo un recente studio svolto proprio in Brasile. Ma nel popoloso paese sudamericano non avevano molta scelta. Il Coronavac, insieme al siero di Astrazeneca, è l’unico fabbricato in casa. A stringere l’accordo coi cinesi è stato il governo dello Stato di San Paulo, tramite l'istituto pubblico Butantan. Questa è la sede: un parco scientifico e tecnologico che nasce dentro la metropoli.

TIAGO ROCCA –MANAGER SVILUPPO – ISTITUTO BUTANTAN L’accordo con i cinesi prevedeva la sperimentazione clinica in Brasile in cambio del trasferimento della tecnologia per installare una produzione nazionale.

MANUELE BONACCORSI Cosa vuol dire trasferimento tecnologico?

TIAGO ROCCA –MANAGER SVILUPPO – ISTITUTO BUTANTAN Butantan acquisisce tutte le competenze per produrre il prodotto, dalla formula, fino all'infialamento e al controllo di qualità.

MANUELE BONACCORSI Di chi è il brevetto del Coronavac?

TIAGO ROCCA –MANAGER SVILUPPO – ISTITUTO BUTANTAN Di Sinovac e Butantan. Il vaccino è anche brasiliano.

MANUELE BONACCORSI Dovete pagare royalties?

TIAGO ROCCA –MANAGER SVILUPPO – ISTITUTO BUTANTAN No, per la produzione e vendita in Brasile no.

MILLA CHRISTIE FRANÇA RIBEIRO– INGEGNERA - ISTITUTO BUTANTAN Una squadra di Butantan ha visitato la fabbrica in Cina e stiamo costruendo uno stabilimento molto simile qui a San Paolo. Qui produrremo i vaccini Coronavac. E quando usciremo dall’emergenza vogliamo produrre anche altri tipi di vaccini, qui, in questa fabbrica.

MANUELE BONACCORSI Come mai Butantan ha costruito questo rapporto proprio con la Cina, coi cinesi?

TIAGO ROCCA –MANAGER SVILUPPO – ISTITUTO BUTANTAN All'inizio della pandemia, siamo entrati in contatto con molte aziende che stavano sviluppando vaccini per il Coronavirus, ma solo Sinovac ha mostrato interesse a un'ipotesi di trasferimento tecnologico. Le altre non volevano trasferire la tecnologia.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Brasile usano il vaccino cinese, e si stanno attrezzando anche per fabbricarselo da soli. Peccato che sia quello che è meno efficace. Solo il 50 per cento contro il virus, contro soprattutto la variante brasiliana. Si costruiscono quello perché la Cina è stata l’unica a condividere con loro il brevetto. Noi abbiamo capito che le Big Pharma non sono in grado di produrre dosi per tutto il mondo. L’unica via se vogliamo contrastare la pandemia sarebbe quella di svincolarsi dal concetto di brevetto. A proposito noi di Report abbiamo pubblicato sul nostro sito i contratti che Pfizer e Moderna hanno stipulato con la Commissione europea, li potete trovare in questo momento. Ma insomma condividere una tecnologia o un brevetto con tutto il resto del mondo per sconfiggere la pandemia non è una questione solo umanitaria o di giustizia sociale, che sarebbero anche motivi sufficienti per poterlo fare, ma è l’unica strategia possibile per fermare una pandemia. Perché il virus altrimenti continua a correre, continua a mutarsi. È nelle cose della natura: non sappiamo prima se muta in peggio. E allora come se ne esce? Se ne esce intanto continuando a vaccinarsi, poi a impedire il passaggio del virus. E poi controllare costantemente. E non basta un tampone, ma ci vuole il sequenziamento dell’RNA del virus. Il futuro di un Paese sarà determinato da oggi in poi dalla sua capacità di sequenziare un virus. Anche perché esportare una variante dal cuore dell’Amazzonia al cuore dell’Italia è un battito di ali di farfalla.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Per chi proviene dal Brasile la legge prevede misure di sicurezza molto stringenti. Questo per evitare l’importazione della variante. Come possono essere aggirate però, lo spiegano due imprenditori che si recano Brasile almeno due volte al mese. E non hanno mai fatto la quarantena obbligatoria. Basta far scalo a Parigi.

 PASSEGGERI ANONIMI Noi non lo diciamo mai per non avere rotture di balle. Spezziamo il biglietto in due. Quando tu arrivi all’aeroporto e ti dicono da dove arrivi devi dire da Parigi. Tac!

MANUELE BONACCORSI Basta dichiarare: vengo dalla Francia.

PASSEGGERI ANONIMI Se no è un casino, passi per l’appestato di turno. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Scendo dall’aereo e mi dirigo verso controlli doganali delle autorità francesi.

UFFICIALE DI DOGANA FRANCESE Buongiorno, mi serve il passaporto.

MANUELE BONACCORSI Sì, questo è il passaporto.

UFFICIALE DI DOGANA FRANCIA Ok, va bene.

MANUELE BONACCORSI Grazie mille. Sono a Parigi all’aeroporto Charles De Gaulle, e sto uscendo all’esterno, da questo momento sono in territorio europeo, e nonostante provenga dal Brasile posso viaggiare in tutto il continente senza obbligo di quarantena. Sono passato dai controlli di sicurezza anche in questo caso nessuno ha detto niente.

STEWARD AIRFRANCE Buongiorno, grazie può andare.

MANUELE BONACCORSI Alle persone che erano davanti a me, con passaporto brasiliano, hanno chiesto il Pcr test, a me, passaporto italiano e biglietto Parigi-Roma, ovviamente non me l’hanno chiesto.

HOSTESS AIRFRANCE Lei è italiano?

MANUELE BONACCORIS Sì.

HOSTESS AIRFRANCE Ecco, compili questa, grazie.

MANUELE BONACCORSI È arrivata all’ingresso dell’aereo, l’autodichiarazione.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La compilo specificando che sono stato in Brasile, la consegno e finisce lì.

MANUELE BONACCORSI Aeroporto di Fiumicino, nessun controllo all’entrata dall’aereo.

MILITARE ITALIANO Covid test? Da dove vieni?

MANUELE BONACCORSI Da Parigi.

MILITARE ITALIANO Puoi andare.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Porgo al militare il test scritto in portoghese e mi fa passare. Sono libero di girare per l’Italia, se volessi.

MANUELE BONACCORSI Sto uscendo dall’aeroporto di Fiumicino. Io nonostante ciò rispetterò pedissequamente le norme previste dal decreto del Governo, ma è una mia scelta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vabbè. Questo accadeva a metà marzo. Abbiamo visto per chi volesse importare il virus perché non conosceva le regole o voleva aggirarle sarebbe stato possibile. Oggi invece lo è un po’ meno perché il ministro Speranza ha imposto almeno una quarantena di cinque giorni anche se rientri semplicemente dalla Francia. Che invece la scorsa settimana ha proprio chiuso i voli dal Brasile, dopo essere stata un po’ la pancia di quel cavallo di Troia del virus. Almeno così abbiamo visto. Però il nostro Manuele comunque quando è tornato di suo ha fatto il tampone, e si è sottoposto rigorosamente a 14 giorni di quarantena. Però probabilmente è in questo modo che la variante brasiliana si è diffusa anche in Italia, dal cuore dell’Amazzonia fino al cuore dell’Umbria, lago Trasimeno, in un piccolo paesino, Magione, dove a un certo punto si sono svegliati all’improvviso con 200 contagiati.

GIACOMO CHIODINI, SINDACO DI MAGIONE (PERUGIA) Nei primi giorni dell'anno un fenomeno di crescita che c’era stato tra Natale e Capodanno è diventato esplosivo, abbiamo superato i 200 casi.

MANUELE BONACCORSI Lei sa se nel suo territorio ci sono persone che hanno preso la variante brasiliana?

GIACOMO CHIODINI, SINDACO DI MAGIONE (PERUGIA) Io credo che non lo sapremo mai. Questo forse è una delle difficoltà dell'Umbria cioè non aver non essere riuscito a ricostruire l'origine, il paziente zero della variante brasiliana. MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La variante che reinfetta era in giro probabilmente da fine dicembre, come ci racconta la signora Monia, che non può riceverci a casa perché dopo mesi è ancora piegata dagli strascichi del Covid. Monia, con sua figlia e suo marito, aveva già avuto il Covid, lo scorso novembre, e credeva di essere immunizzata.

SIGNORA MONIA E invece niente. il 3 di gennaio mi è venuta la febbre. Però parlando con la dottoressa mi disse, non ti preoccupare, il Covid lo ha già avuto, sarà una semplice influenza. però non si abbassava di niente, febbre sempre alta. Fatto il tampone e sono risultata positiva un'altra volta. Il 10 mi hanno ricoverato su in camera intensiva. Anche mio marito e mia figlia anche sono risultati positivi.

MANUELE BONACCORSI Quindi tre su tre

SIGNORA MONIA Eh sì. Magari fatalità posso essere stata io, ma anche loro…

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Tre persone che già avevano avuto il Covid, nuovamente contagiate. Sembra la fotocopia di quanto stava avvenendo a Manaus. Ma il tampone della signora Monia non viene subito sequenziato. Non è l’unico segnale che qualcosa di strano sta accadendo. Come dimostra quel che in quei giorni avveniva tra i sanitari, in gran parte già vaccinati

MASSIMO D’ANGELO – COMMISSARIO EMERGENZA COVID REGIONE UMBRIA Ci sono stati casi di infezione in personale vaccinato, sì

MANUELE BONACCORSI Quanti?

MASSIMO D’ANGELO – COMMISSARIO EMERGENZA COVID REGIONE UMBRIA Oltre 200

MANUELE BONACCORSI Tra questi c'era anche qualcuno aveva preso la seconda dose

MASSIMO D’ANGELO – COMMISSARIO EMERGENZA COVID REGIONE UMBRIA Sì, 18 persone

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO I contagi in Umbria crescono senza sosta per tutto gennaio, in controtendenza con quel che accade nel resto d’Italia. All’inizio di febbraio il tracciamento va in tilt. Il 10 febbraio secondo i dati ufficiali ci sono in Umbria circa 7mila positivi, ma appena 10mila persone in isolamento. Poco più di una persona per infetto.

MANUELE BONACCORSI L'impressione è che non si stia facendo tutto questo gran contact tracing dalla lettura di questi dati. O c'è un errore?

MASSIMO D’ANGELO – COMMISSARIO EMERGENZA COVID REGIONE UMBRIA È stato strutturato un sistema con una piattaforma specifica per aumentare ulteriormente.

MANUELE BONACCORSI Ma non sono pochi 10mila monitorati?

MASSIMO D’ANGELO – COMMISSARIO EMERGENZA COVID REGIONE UMBRIA Sì e lo stiamo aumentando

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il contagio entra perfino nell’ospedale di Perugia. L’8 gennaio, al reparto di medicina interna scoppia un cluster: i contagiati sono due anziani che moriranno pochi giorni dopo. I tamponi finiscono nel laboratorio di Microbiologia dell’ospedale guidato dalla professoressa Mencacci.

ANTONELLA MENCACCI - DIRETTORE LABORATORIO MICROBIOLOGIA PERUGIA Ci sembrava strano che ci fossero dei pazienti che diventavano positivi durante il ricovero. Questa è una cosa che non ci potevamo spiegare. E quindi abbiamo inviato i campioni all'Istituto Superiore di sanità perché purtroppo noi non abbiamo un laboratorio di sequenziamento dedicato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Mencacci invia subito i tamponi a Roma ma solo il primo di febbraio giunge a Perugia il risultato del sequenziamento. È la conferma: si tratta di brasiliana. Nel frattempo la variante dilaga in ospedale, ci sono casi di Covid in molti reparti e la professoressa Mencacci invia altri 42 tamponi da sequenziare. Questa volta i risultati arrivano in pochi giorni, il 5 febbraio. 12 casi sono di brasiliana.

LORENZO VENDEMIALE cioè come si spiega questo ritardo che poi ha contribuito probabilmente alla diffusione del contagio.

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Questi campioni son stati processati da parte dell’Istituto proprio nella logica, nella logica di uno studio di ricerca sostanzialmente. Tenendo conto anche che poi di fatto la variante brasiliana è stata segnalata anche a livello internazionale a partire dall’11 gennaio e quindi da quel momento in poi si è attivato tutta una serie di attenzioni.

LORENZO VENDEMIALE Sì ma la domanda è se il risultato fosse arrivato prima secondo lei non si sarebbe contenuto il contagio della brasiliana in Umbria

SILVIO BRUSAFERRO - PRESIDENTE ISTITUTO SUPERIORE DI SANITÀ Per contenerla l’'unico modo che abbiamo indipendentemente dalla variante è quello di poter adottare tempestivamente delle misure di individuazione precoce dei positivi

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Invece le misure non sono tempestive. Eppure una circolare del Ministero datata 8 gennaio invitava tutti i laboratori a sequenziare con urgenza nelle aree dove c’erano casi di reinfezione o di vaccinati contagiati. Come appunto Perugia. Ma per l’Istituto superiore di sanità quei sequenziamenti non erano urgenti. E solo il 6 febbraio la Regione Umbria dichiarerà la zona rossa. Intanto la brasiliana conquista tutta la Regione. Di lì si espande nel Centro Italia, arriva a Chiusi, in Toscana, dove per difendersi decidono di fare uno screening di massa: tamponi a tutta la popolazione. E poi arriva nelle Marche, in Abruzzo, e infine sbarca nel Lazio. Qui il 20% degli infetti oggi ha la brasiliana.

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA Su 800 al giorno lei faccia il calcolo quanti ce ne sono in realtà, la variante è diffusa, è stradiffusa

MANUELE BONACCORSI Non tutte le persone che hanno un tampone positivo, il loro tampone viene poi sequenziato per scoprire la variante

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA No, non è possibile sequenziare tutto. Quello a cui si dovrebbe tendere sulla base delle indicazioni dello stesso ministero italiano sarebbe di sequenziare il 5 per cento di tutte le infezioni, sarebbe un 40-50 al giorno.

MANUELE BONACCORSI Quanti tamponi siete in grado di sequenziare oggi

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA Un'ottantina di campioni a settimana.

MANUELE BONACCORSI Poco più di 10 al giorno

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA Esatto

MANUELE BONACCORSI Quindi ancora diciamo abbastanza lontano

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA Va fatto, però fino a fino a quattro mesi fa se io dicevo mi servono mezzo milione di euro perché io devo implementare il piano sequenziamento mi ridevano dietro, mi dicevano tu sei scema.

MANUELE BONACCORSI Avete chiesto di aumentare?

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA Abbiamo chiesto, però se non succedeva questo la gente mi rideva dietro perché vuoi sequenziare? A chi a chi torna utile?

MANUELE BONACCORSI Un virologo lo sa che tornerà utile, prima o poi.

MARIA ROSARIA CAPOBIANCHI - DIRETTRICE LABORATORIO VIROLOGIA ISTITUTO SPALLANZANI - ROMA Lo sa il virologo. Ma secondo lei i soldi me li danno i virologi?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Per scoprire e fermare le varianti del virus i tamponi non bastano. È necessario il sequenziamento. Ma l’Italia su questo è indietro. Qui siamo al laboratorio dell’ospedale Sacco di Milano, dove c’è tutta l’apparecchiatura per estrarre l’RNA del virus

MANUELE BONACCORSI Voi quanti sequenziatori avete?

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO Attualmente tre.

MANUELE BONACCORSI Quanti tamponi si carica su ognuno di questi

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO Sui 48-60

MANUELE BONACCORSI Per ognuno?

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO Sì

MANUELE BONACCORSI Quindi voi volendo siete in grado di sequenziare 100 tamponi al giorno.

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO Sì, volendo sì.

MANUELE BONACCORSI E quanti ne sequenziate?

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO No, ne sequenziamo molti meno

MANUELE BONACCORSI E perché?

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO Perché non ci sono i fondi. Il procedimento è comunque costoso, più o meno sui 100 euro un genoma.

MANUELE BONACCORSI Col covid non c'è stato uno sforzo per aumentare la capacità di sequenziamento

ALESSIA LAI - RICERCATRICE OSPEDALE SACCO - MILANO Ci sono state parecchie donazioni, diverso è una sovvenzione di tipo statale

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Proprio per incrementare la capacità di sequenziamento in Gran Bretagna hanno istituito un consorzio con finanziamenti pubblici. Molte tra le varianti più recenti sono stato individuate qui, a partire dalla variante del Kent, la famosa variante inglese

RAVI GUPTA – PROFESSORE MICROBIOLOGIA ISTITUTO CAMBRIDGE Stavamo studiando un paziente affetto da un’infezione cronica, il suo virus aveva diverse mutazioni. Abbiamo inserito la sequenza nel database, e ci siamo accorti che le stesse mutazioni erano presenti in molti altri casi in giro per il Paese. Siamo rimasti scioccati.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il professor Ravi Gupta insegna microbiologia all’Università di Cambridge. È stato lui a trovare per primo la variante inglese

RAVI GUPTA – PROFESSORE MICROBIOLOGIA ISTITUTO CAMBRIDGE Il consorzio è stato decisivo, da soli non ce l’avremmo mai fatta. È un insieme di quasi 100 istituzioni diverse, pubbliche e private. Sequenziamo in maniera decentrata sul territorio, ma analizziamo tutti i risultati a livello centrale. Il segreto è questo.

LORENZO VENDEMIALE E in questo modo quanti sequenziamenti riuscite a fare?

RAVI GUPTA – PROFESSORE MICROBIOLOGIA ISTITUTO CAMBRIDGE Tra il 10 e il 20% di tutti i casi positivi

LORENZO VENDEMIALE Ma chi paga per tutto questo?

RAVI GUPTA – PROFESSORE MICROBIOLOGIA ISTITUTO CAMBRIDGE La maggior parte del budget viene dal governo, che ci ha messo 20 milioni di sterline. Per un progetto del genere ci vuole l’intervento dello Stato, senza è impossibile.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il 27 gennaio al Ministero della salute viene annunciata la nascita di un Consorzio italiano, proprio sul modello di quello inglese

SILVIO BRUSAFERRO, PRESIDENTE ISS - CONF STAMPA 27 GENNAIO 2021 Grazie al professor Palù, al viceministro Sileri, permettetemi anche un grazie ai nostri tecnici, al professor Caruso. Credo sia un bel momento del nostro Paese.

ANDREA CRISANTI – PROFESSORE MICROBIOLOGIA UNIVERSITA’ DI PADOVA Son persone che non hanno mai sequenziato e analizzato una sequenza in vita loro. Questa è una cosa tipicamente italiana, dove praticamente un gruppo di potere si mette d'accordo, ha un accesso privilegiato ai politici e improvvisamente viene costruito un consorzio.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ad avanzare la proposta del consorzio è il professor Arnaldo Caruso, presidente della società italiana di virologia LORENZO VENDEMIALE Ma il consorzio oggi esiste o no?

ARNALDO CARUSO - PRESIDENTE SOCIETA’ ITALIANA DI VIROLOGIA No al momento no. Però mi arrivano voci che si sta andando avanti

LORENZO VENDEMIALE Sì solo che anche le varianti vanno avanti, sono passati mesi dalla conferenza

ARNALDO CARUSO - PRESIDENTE SOCIETA’ ITALIANA DI VIROLOGIA Lo so, lo so, purtroppo c'è stato un governo che è caduto. i tempi della politica sono sempre meno veloci di un virus che corre per pandemia

MANUELE BONACCORSI Come è finita col consorzio del sequenziamento, lo avete lanciato a gennaio e non è partito?

PIERPAOLO SILERI – SOTTOSEGRETARIO SALUTE E’ stata lanciata la rete di laboratori che deve sfociare in un consorzio. Abbiamo una riunione credo proprio oggi, oggi pomeriggio

MANUELE BONACCORSI Come mai 3 mesi di tempo per entrare in fase operativa?

PIERPAOLO SILERI – SOTTOSEGRETARIO SALUTE Questo francamente lo sta chiedendo alla persona che per primo ha sollevato il problema e per primo ha cercato di risolverlo

ANDREA CRISANTI – PROFESSORE MICROBIOLOGIA UNIVERSITA’ DI PADOVA Bisogna sequenziare il più possibile, perché mentre vaccini vuoi essere sicuro che non selezioni varianti che ti sfuggono al vaccino

LORENZO VENDEMIALE Però non lo stiamo facendo

ANDREA CRISANTI – PROFESSORE MICROBIOLOGIA UNIVERSITA’ DI PADOVA No, macché. Quindi chiaramente stiamo prendendo un rischio, è ovvio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Perché noi poi alla fine siamo fatti così. la variante brasiliana incide in tutto il Paese solo per il 4% dei contagi Covid. Tuttavia ci sono delle punte preoccupanti nel nostro paese, il 32% in Umbria e il 20% nel Lazio. Ma sono stime perché non sequenziamento e quindi è difficile comprendere. Tanto per fare un paragone un po’ impietoso in Gran Bretagna, dove hanno capito il problema e grazie a questo hanno identificato immediatamente la variante più contagiosa, hanno investito negli ultimi tre mesi, sono stati 196mila tamponi. Noi solo 14mila. L’Istituto superiore di sanità ha detto che piano piano stiamo migliorando. Anche nella nostra pochezza comunque facciamo meglio di Francia e spagna. Però è chiaro che il problema per un Paese, una nazione, il suo destino sarà disegnato dalla capacità di sequenziare. In Gran Bretagna hanno deciso di investire 20 milioni di sterline sui sequenziamenti, negli Usa addirittura 1,7 miliardi di dollari. in Italia per ora zero. Ecco, noi siamo fatti così: annunciamo il consorzio, ma poi ci rendiamo conto che bisogna trovare i soldi.

La scoperta all’ASST Sette Laghi. Cos’è la variante “thailandese” del Covid identificata a Varese: è il secondo caso al mondo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 6 Marzo 2021. Una eccezionale scoperta scientifica che arriva dal laboratorio di Microbiologia dell’ASST Sette Laghi, l’ex azienda ospedaliera di Varese. Qui i medici guidati da Fabrizio Maggi hanno infatti identificato una rarissima variante descritta in un solo altro caso al mondo, in Thailandia. Che ci fosse qualcosa di diverso in uno dei tantissimi tamponi analizzati ogni giorno a Varese, i professionisti guidati da da Maggi lo avevano notato subito. Il sequenziamento dell’intera proteina spike, quella parte del Sars CoV-2 che prende contatto con le cellule da invadere, avevano rivelato infatti una struttura molecolare unica, diversa da tutte le altre, anche da quella delle altre varianti già individuate a Varese nelle settimane scorse, in alcuni casi per la prima volta in Italia. Maggi, che è anche titolare della cattedra di Microbiologia dell’Università dell’Insubria, e la sua equipe hanno studiato questa sequenza e formulato un’ipotesi. Ipotesi poi confermata dai colleghi del San Raffaele di Milano che, in poco tempo, hanno amplificato e ricostruito l’intero genoma del virus: quella identificata nel laboratorio dell’ASST Sette Laghi è una variante del virus riscontrata solo un’altra volta nel mondo, in un luogo molto lontano dall’Italia, in Thailandia, isolata in un viaggiatore di ritorno dall’Egitto. “L’identificazione di questa variante che ha solo un altro caso descritto al mondo è il risultato della collaborazione con i colleghi del San Raffaele, e in particolare con il professore Massimo Clementi e il professore Nicasio Mancini. Ma è anche il punto di partenza per nuovi studi e approfondimenti – spiega Fabrizio Maggi – In particolare, ora che l’intero genoma di questa variante del virus è stato ricostruito, potremmo capirne il significato biologico con studi in vitro e dimostrarne l’eventuale impatto clinico ed epidemiologico sulla popolazione”.

Se, da un lato infatti, la struttura molecolare di questa variante non sembra presentare caratteristiche che potrebbero ridurre l’efficacia dei vaccini, dall’altro mostra mutazioni genetiche tutte da studiare. Altrettanto interessante sarà ricostruire il percorso di questa variante, riscontrata in una paziente ricoverata all’Ospedale di Circolo. Nel laboratorio di Microbiologia dell’Ospedale di Varese, Maggi ha organizzato una équipe di professionisti dedicata al sequenziamento delle varianti del nuovo Coronavirus. Sono loro che si occupano di analizzare i tamponi e di studiare la struttura molecolare delle varianti, candidandosi come uno dei centri di riferimento di identificazione delle varianti del Sars CoV-2. I loro strumenti sono riconducibili a due tecnologie in particolare: una è quella che è stata battezzata dalla Fondazione Il Circolo della Bontà, che l’ha donata, ‘la Ferrari dei tamponi‘, del valore di oltre 80mila euro. L’altra è la macchina per il sequenziamento, già in uso nei Laboratori dell’ASST Sette Laghi. Ed è proprio quest’ultima tecnologia ad aver consentito negli ultimi mesi l’individuazione a Varese di tutte le varianti già note del nuovo Coronavirus, con il supporto della Direzione Sanitaria che, guidando con un’attenzione clinica mirata soprattutto alla prevenzione del contagio nei reparti covid dell’Ospedale di Circolo, ha anticipato alcune indicazioni in materia. “Ogni paziente per il quale vi è il sospetto o la certezza che sia portatore di una variante nuova potenzialmente più diffusiva o aggressiva del virus – spiega il Direttore Sanitario dell’ASST Sette Laghi, Lorenzo Maffioli –  viene immediatamente isolato anche da tutti gli altri pazienti covid e assistito con la massima attenzione da parte degli operatori nel setting più appropriato per le sue condizioni, osservando con precisione le norme interne di protezione individuale, anche a tutela del personale impegnato in questa attività”.

Quali sono le varianti covid pericolose che circolano in Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Febbraio 2021. Preoccupano le varianti del coronavirus che si stanno diffondendo in tutto il mondo, in Europa e anche in Italia. Alla terza settimana di un graduale incremento dell’evoluzione epidemiologica, come osservato dall’Istituto Superiore di Sanità, contribuiscono le varianti. Sono cinque al momento quelle che circolano in Italia: quella inglese, quella brasiliana, quella sudafricana, quella nigeriana e quella scozzese. Sotto controllo la situazione secondo il viceministro della Salute Pierpaolo Sileri. Proprio le varianti vengono imputate tuttavia come le responsabili dell’aumento esponenziale dei contagi nelle ultime settimane, soprattutto in centro Italia. La variante inglese dovrebbe diventare dominante nelle prossime settimane. Al momento interessa il 30, 35% dei casi. Un paio di settimane fa il dato era pari al 18%. Rappresenta oltre un terzo dei nuovi positivi in Toscana, in Puglia, in Emilia Romagna, in Molise e nelle Marche. Sarebbe più contagiosa, rispetto al ceppo circolato finora, di circa il 38%. I vaccini sarebbero tutti efficaci: da Moderna a Pfizer ad Astrazeneca. Più difficoltà avrebbe invece il farmaco AstraZeneca sulle varianti sudafricana e brasiliana. Massimo Ciccozzi, ordinario di epidemiologia all’università Campus Biomedico di Roma, in un’intervista al Corriere della Sera ha spiegato: “Quasi tutte hanno la mutazione sul gene che produce la proteina Spike usata dal virus per agganciarsi alle cellule umane. La variante cosiddetta inglese, la brasiliana, la sudafricana, una quarta sequenziata a Napoli, identificata per la prima volta in Nigeria. A Viggiù, in Lombardia, è stata sequenziata una variante scozzese. In un lavoro pubblicato su Lancet Infectious Disease col virologo Arnaldo Caruso abbiamo descritto un nuovo ceppo trovato a Brescia in un paziente oncologico che è poi guarito dal Covid-19. Questo episodio è interessante perché sarebbe la dimostrazione che il virus si è evoluto all’interno della persona infettata ed è cambiato”. Nessuna evidenza su una maggiore virulenza delle varianti: gli studi sono in corso. Improbabile, secondo Caruso. “Le varianti sono il sintomo di una circolazione troppo alta del virus. E questo significa dare all’agente patogeno che da un anno ci tiene sotto scacco l’opportunità di produrre altre mutazioni che prima o poi potrebbero compromettere il funzionamento dei vaccini. Non dobbiamo assolutamente permettere che questo accada. È una fase molto critica”. Prudenza espressa da Nicola Normanno, direttore del dipartimento di Ricerca traslazionale dell’Istituto Pascale di Napoli, dove è stata scoperta per la prima volta in Italia la variante cosiddetta nigeriana, che ha Lapresse ha dichiarato: “Di fatto, quello che si dovrà fare è continuare a sequenziare, monitorare le varianti. Sappiamo che ne arriveranno altre e non è detto che vengano dall’estero come in questo caso. Potranno nascere anche spontaneamente dai pazienti italiani. Dobbiamo entrare in un’ottica in cui questo è un virus che muta e, come muta il virus, noi dobbiamo aggiustare le armi diagnostiche e terapeutiche”. La variante cosiddetta nigeriana, riscontrata in un centinaio di casi in tutto il mondo finora, ha delle analogie con quella inglese e mutazioni riscontrate anche in quella sudafricana. Niente panico per il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri. “Credo che saranno necessarie zone di chiusura con la procedura di “stop&go” che ho sempre difeso. È chiaro che in questo momento ci sono delle aree rosse nel Paese che potrebbero essere estese con la diffusione delle varianti ma non credo che serva oggi un lockdown perché la situazione non è drammatica ma sotto controllo. Laddove le varianti corrono e aumentano i casi e i ricoveri sono necessarie chiusure, vedi Perugia. Le varianti ci sono ma non è detto che siano peggiorative, dobbiamo continuare il monitoraggio e proseguire con le vaccinazioni”, ha dichiarato ad AdnKronos a margine della cerimonia organizzata dall’Ordine dei medici di Roma in memoria degli operatori caduti per Covid-19, con una targa dedicata.

 Intervista. Varianti e vaccino a mRNA, risponde il professore Giulio Tarro. Zaira Bartucca il 20 Febbraio 2021 recnews.it. Varianti “normali” ed ibride, anticorpi monoclonali, danni, decessi e contro-indicazioni relativi all’assunzione di vaccini, sperimentazione e prevenzione. Tutte le domande che abbiamo rivolto al luminare e allievo di Albert Sabin. Nel corso di questa intervista – la seconda che facciamo al Professore Giulio Tarro – siamo stati messi di fronte a due evidenze.

La prima: che stavamo parlando con un medico che considera il paziente, la sua cura, la sua sopravvivenza e la sua Vita, come il centro della propria attività. Attenzione, perché a partire dalle mancate cure ai pazienti non covid di cui molti si sono resi colpevoli nel corso della prima fase, non si tratta più di un’ovvietà.

La seconda evidenza, è che un virus simile a tanti altri per caratteristiche e letalità, è diventato il lasciapassare per avviare la più grande sperimentazione di massa mai esistita per la somministrazione di una “terapia genica”, come l’ha recentemente definita lo stesso Tarro: tale è il cosiddetto vaccino a mRNA che, nei fatti, non sarebbe neppure un vaccino. Non contiene il virus (condizione che la medicina reputa necessaria affinché si parli di “vaccino”) ma viene comunque fatto passare per quello che non è. Il professore Tarro lo spiega molto bene per tutti – senza troppi giri di parole – qua e là nelle risposte.

E’ giusto saperlo, così come è giusto saperne di più sulla reale efficacia di questo preparato e sui rischi che si corrono ad assumerlo. Andiamo con ordine.

Volevamo capirne di più su queste varianti che stanno terrorizzando un po’ tutti. Cosa sono?

«Innanzitutto il virus quando entra in un nuovo organismo cerca di fare di tutto per sopravvivere. Non gli conviene distruggere l’organismo, ma stabilire una specie di patto di convivenza. E’ un patto biologico abbastanza importante».

Una particella piccola come il virus cosa può fare per stabilire il quieto vivere?

«Può fare qualcosa che da una parte non distrugge la cellula in cui è penetrata, e dall’altra gli permette di non essere distrutto dalle difese immunitarie dell’organismo. Il virus cerca quindi la possibilità di “variare”. Il fine è quello. La possibilità è legata agli stessi anticorpi che poi si formano, a cui lui cerca di sfuggire».

Quindi si adatta per sopravvivere?

«Esatto, è un patto biologico abbastanza fondamentale nell’ecologia totale, di tutti gli esseri».

E’ una cosa nuova che ci sia una variante di un virus o succede normalmente?

«Succede normalmente, anzi per esempio succede spesso con il virus influenzale, ma anche a livello delle famiglie virali c’è sempre questa possibilità».

Quindi niente di nuovo sotto il sole.

«No, assolutamente. D’altra parte si sta facendo tutto questo rumore adesso, ma nessuno ha detto che già a fine marzo, quando eravamo in piena epidemia, si era stabilita una variante che da aprile è stata prevalente e che già aveva sostituito la cosiddetta catena terminale, un aminoacido che poi era l’acido aspartico, con la glicina. Questo permetteva al virus di passare meglio nelle cellule. Non vuol dire comunque che fosse più virulento, più aggressivo o che desse fatti patologici maggiori».

Quindi non sono delle varianti così pericolose come si dice?

«No, l’unica “pericolosità” è questa, cioè rispetto al precedente si cambiano gli anticorpi».

Invece le varianti ibride cosa sono?

«Variante ibrida significa che c’è una parte di un virus e una di un altro. Per esempio i vaccini con vettore sono ibridi, possiamo anche parlare di chimere, ma siamo sempre là».

Per restare in tema di vaccini, molti manifestano preoccupazioni sul vaccino Pzer-Biontech e su quello di Moderna, perché sono a mRNA. Può spiegarci cosa vuol dire?

«Normalmente in qualsiasi cellula c’è la cosiddetta molecola della vita che è il DNA, poi su questo DNA in maniera speculare c’è un altro acido nucleico che si chiama RNA. Quest’ultimo porta le informazioni del DNA ai ribosomi, là dove si producono le proteine. Sono informazioni a RNA messaggero. Successivamente è possibile che intervenga un altro RNA messaggero, che sarebbe quello transfer. Se noi facciamo un nuovo vaccino utilizzando questo RNA messaggero, ovviamente a livello produttivo è relativamente più semplice rispetto a creare il vettore che dicevamo prima o un vaccino chimerico».

Alcuni medici che hanno manifestato preoccupazioni rispetto a questo meccanismo, nel senso che hanno evidenziato che i vaccini a mRNA vadano poi ad incidere sullo stesso DNA, provocando malattie anche pericolose. Lei è d’accordo con questa lettura?

«Non in questo modo semplice, perché già il bugiardino di questi vaccini parla del fatto che ci può essere anzitutto una certa sintomatologia. Per esempio mal di testa, mali articolari, muscolari, allergie come per tutti i vaccini. Non c’è solo l’mRNA, c’è anche altro materiale che viene somministrato. E poi dico la cosa forse più importante di questo aspetto: dobbiamo vedere in prospettiva. Ebbene, lo stesso bugiardino dice che questi vaccini possono provocare delle malattie auto-immuni.

Ecco, appunto.

«Questi vaccini poi non vengono consigliati in gravidanza, presumibilmente perché nella prima fase di sperimentazione non c’è stato modo di provarne gli effetti. E poi soprattutto si consiglia di far passare almeno due mesi da un eventuale concepimento».

Eppure sono già stati somministrati a molte donne e ragazze in età fertile.

«Si, questo è stato contrario a quello che bisognava fare , per esempio in Inghilterra hanno cominciato con gli anziani. Quando si è in età per così dire fertile, l’mRNA può potenzialmente integrarsi con le cellule. Escludere questo per principio non è giusto, perché bisogna proiettare il tutto nel tempo. Non c’è stato il tempo per provare. Io ho detto fin dall’inizio che questo RNA messaggero potrebbe addirittura simulare un altro RNA virus latente, oppure potrebbe fornire il codice proprio al nostro DNA, come accennava lei prima. Questi aspetti sembrano impossibili e vengono esclusi dai cosiddetti saccenti della biologia molecolare, ma proprio in questi giorni è uscito un lavoro dell’Università di Boston che ha dimostrato che questa cosa impossibile, è possibile. Si è dato così ragione a chi fin dall’inizio diceva che questo aspetto sperimentale che a questo punto è diventato pratico riguarda un po’ gli Ogm, gli organismi geneticamente modificati, che sono stati vietati proprio per i pericoli connessi al loro utilizzo».

Lei ha detto che questo aspetto da “sperimentale è diventato pratico”: cioè la somministrazione sta coincidendo con la sperimentazione umana? Siamo cavie? Vogliono modificare i nostri geni?

«Come per tutte le cose serve esperienza, a partire dall’Oms che ha detto che ci volevano diciotto mesi per avere un vaccino. Anche per campagne vaccinali precedenti, non è mai successo che un prodotto fosse immesso in commercio dopo pochi mesi. Il vaccino potenzialmente potrebbe essere efficace, ma potrebbe non essere sicuro».

Da questo punto di vista la preoccupano i decessi sospetti e le reazioni avverse che si stanno verificando e che sono stati enucleati in molti report?

«Si parla già di oltre ottomila danneggiati nella sola Italia. L’Italia per numero di danneggiati è al primo posto in Europa. Le altre Nazioni, Germania, Inghilterra, Spagna in particolare hanno un minor numero di casi. Anche negli Stati Uniti, dove sono stati prodotti questi vaccini a RNA messaggero, ci sono stati dei problemi. Sono state descritte varie situazioni: dall’ anafilassi, una risposta allergica forte, alle paralisi facciali. Nei soggetti fragili, inoltre, si è riscontrato l’aumento delle patologie sussistenti».

Considerando questi dati, non è pericoloso continuare con la somministrazione di massa? Non è dannoso pensare a meccanismi come il Green Pass o il Covid Pass che possono potenzialmente moltiplicare i danni?

Certo, i danni potenzialmente possono moltiplicarsi. Chi adotta queste misure lo fa senza avere un’esperienza e senza avere una proiezione. Poi, non puoi tornare indietro nel momento in cui danneggia la gente. Non so se rendo l’idea».

Da esperto: qual è il suo consiglio pratico per indirizzare chi ora si trova ai vertici decisionali?

«Ci sono altri vaccini che utilizzano un virus attenuato o un virus disattivato che evita l’insorgere di patologie e permette comunque al corpo di produrre gli anticorpi. Una cosa classica, diversa dal vaccino che ha scombinato tutto il panorama, che è quello a mRNA. Esistono controindicazioni dimostrabili a livello scientifico, e la somministrazione no a questo momento era stata limitata a prove per virus come Zika. La FDA che ha dato il nullaosta è riuscita a far passare dei motivi di emergenza. Ha parlato del 90-95% di efficacia, ma poi chi ha fatto i conti in tasca all’organismo è stato il professore Peter Doshi, esperto del Maryland che ha pubblicato sul British Journal of Medicine un editoriale. In pratica, se si esamina quello che è stato realmente presentato per avere l’approvazione, dunque tutti i soggetti coinvolti e il modo in cui erano stati controllati dopo la somministrazione, l’efficacia scende al 19-29%. Questo già pone un punto interrogativo. Si parla tanto di vaccini, di quello americano, cinese, russo, ma spesso ci si dimentica di un’ovvietà: non è detto che una persona abbia tutta questa necessità di vaccinarsi».

Lei dice bene perché dobbiamo considerare che tutto sommato, tenendo presenti anche i dati cinesi dell’inizio, l’81% delle situazioni è caratterizzato da un banale raffreddore febbrile.

«Solo in alcuni casi si parla di una fase critica della malattia. Come per tutte le malattie, prima si interviene e meglio è, e questo purtroppo non è stato fatto».

Quindi non serve chiudere l’Italia e non serve mettere in campo determinate misure perché si tratta di un virus simile all’inuenza, se preso in tempo?

«Certo, ma tenga presente che è una cosa importante. Anche l’influenza può provocare delle encefaliti o altre patologie di organo. Questo virus può anche provocare alterazioni a livello vascolare, quelle che erano sfuggite inizialmente non facendo le autopsie. E’ stato inutile dare ossigeno o intubare questi soggetti: bisognava dare l’eparina. Con il cortisone, un anti-inammatorio, si sarebbe poi evitata la tempesta dei mediatori linfocitari che sono quelli che intervengono nelle infiammazioni pesanti. Questo meccanismo non si verifica nei bambini, che non hanno una risposta alterata come quella dell’anziano».

Quindi per i bambini non dovrebbero preoccupare neppure le varianti che secondo alcuni dovrebbero impedire il ritorno a scuola?

«Assolutamente, né le varianti né altro, perché i bambini sani non hanno alcun problema . Oltre ai vaccini, è già partita la corsa agli anticorpi monoclonali».

Cosa sono?

«Tenga presente che l’anticorpo monoclonale era stato preparato per la prima SARS, però non era stato utilizzato perché l’epidemia era finita troppo presto, in sei mesi. L’anticorpo monoclonale si fa in culture di tessuto con la particella virale e poi si utilizzano questi anticorpi per la somministrazione. Per la SARS fu fatto utilizzando il furetto e poi i dati sono stati pubblicati nel 2004. Successivamente c’è stato bisogno di ricorrere agli anticorpi monoclonali e alla sieroterapia soprattutto per la MERS, la sindrome respiratoria del Medio Oriente, che aveva una letalità del 36%. L’istituto Pasteur ha dimostrato l’efficacia di questi anticorpi monoclonali, che avevano permesso la cura dei soggetti guariti. Si tratta in ogni caso di malattie che una volta che sono state inquadrate e diagnosticate, si possono curare».

Quindi non c’è bisogno di fare allarmismi: i soggetti sani reagiscono alle cure o sono protetti dal loro sistema immunitario.

«Esatto, e quando si parla di anticorpi monoclonali si parla di cure. Finalmente sono stati prodotti. La prima fase dell’epidemia, che è stata quella controllata dai cinesi, è stata gestita con la sieroterapia, che è la cosa migliore. Negli Stati Uniti la sieroterapia è stata utilizzata come prolassi per gli operatori sanitari che potevano entrare in contatto con potenziali pazienti contagiosi. Anche gli anticorpi monoclonali sono legati, come i vaccini, alle varianti. C’è la possibilità che l’anticorpo monoclonale non funzioni con una determinata variante, perché magari è stato concepito per una variante precedente».

Accetterebbe un ipotetico incarico all’interno del Cts?

«Nessuno l’ha mai interpellata. Purtroppo, diremmo. Beh, effettivamente io sono intervenuto nel ’73 nell’epidemia di Colera che si è verificata a Napoli. La cosa che mi dà più soddisfazione è però l’aver salvato i bambini di Napoli, nel ’79, isolando il virus sinciziale. Il male “oscuro” in questione era la bronchiolite. Ho scoperto la possibilità di intervenire a livello pediatrico: anche in quel caso i malati venivano mandati direttamente in rianimazione o intubati, con un peggioramento della situazione. Quando si è manifestato l’AIDS, sono stato tra i primi ad elaborare una metodica: si poteva così effettuare una diagnosi, prima del famoso e più gettonato test “Elisa”. I soggetti potevano essere trattati con il plasma, si poteva salvare e prolungare la loro vita. Da allora all’arrivo dei farmaci salvavita, nel ’97, passarono 14 anni. In tempi recenti per l’influenza aviaria e suina il Cotugno era al primo posto per numero di pazienti, perché venivano diagnosticati e curati subito».

Il suo è un curriculum invidiabile, non so lo è altrettanto quello di alcuni che sono sovraesposti mediaticamente. Possiamo dirlo tranquillamente. E’ la realtà delle cose. Allora noi ne approfittiamo per ottenere un consiglio per chi ci legge: come si può potenziare e migliorare il sistema immunitario – il migliore difensore dell’organismo – per essere più forti di fronte a possibili minacce esterne e per diventare più tranquilli di fronte al clima allarmista?

«Lei ha ragione, anche i cinesi lo scorso anno quando sono venuti in Italia con una loro delegazione hanno parlato del sistema immunitario e dell’assunzione di vitamina C. Non in milligrammi, ma in grammi. C’è poi l’importanza della Vitamina D, che è stata anche studiata in Piemonte per la sua efficacia in termini di prevenzione. Poi c’è la lattoferrina, sono tutte sostanze che vanno in aiuto del sistema immunitario. Dunque anche frutta, verdura e latte. L’anno scorso durante la nostra prima intervista ha consigliato anche l’attività sica: uscire, correre, camminare, evitando di stare chiusi in casa isolandosi fisicamente e mentalmente e distruggendosi da soli la salute. L’aria aperta è una medicina, ci aveva detto. Assolutamente si! Il virus non sta bene ai raggi ultravioletti del sole, che lo distrugge in pochi minuti. Al contatto col vento, con la brezza marina nelle giornate soleggiate, dove vuole che ci sia il virus?»

Cos’è la variante di New York del Coronavirus: l’allarme perché può indebolire l’efficacia dei vaccini. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Febbraio 2021. Gli scienziati l’hanno denominata B.1.526, ma i media l’hanno già ribattezzata “variante di New York”. È questa la nuova forma di Coronavirus che si sta diffondendo nella megalopoli americana, isolata da due team di ricerca della Caltech e della Columbia University, sempre negli Stati Uniti. “La nuova variante del virus si sta diffondendo rapidamente a New York City e porta una mutazione che potrebbe indebolire l’efficacia dei vaccini“, hanno detto i ricercatori, anche se i due studi prodotto fino ad oggi non sono stati ancora sottoposti a peer review, né pubblicati su una rivista scientifica. Questa nuova variante del virus è stata identificata la prima volta in campioni raccolti a New York a novembre e fino a metà febbraio rappresentava circa una sequenza virale su quattro del database condiviso dagli scienziati. Il fattore più pericoloso di questa nuova variante, come evidenzia anche il New York Times, è che conterebbe una mutazione che potrebbe aiutare il virus a schivare il sistema immunitario. Secondo Michel Nussenzweig, un immunologo della Rockefeller University, la scoperta dell’ennesima variante, forse più resistente al vaccino, “non è una notizia particolarmente felice”. Sempre Nussenzweig però, che non è stato coinvolto nelle nuove ricerche, spiega anche che sapere della sua esistenza “è importante perché forse possiamo fare qualcosa a riguardo”. Per fronteggiare l’emergenza Covid intanto gli Stati Uniti hanno annunciato l’estensione dello stato di emergenza oltre il primo marzo. “Il Covid 19 continua a causare significativi rischi alla salute pubblica e alla sicurezza del Paese. Per questo l’emergenza nazionale dichiarata il 13 marzo 2020 deve continuare a restare in vigore dopo l’1 marzo 2021”, recita una nota del governo. 

Altri comuni lombardi in Zona Rossa. Che cos’è la variante scozzese, la mutazione che ha messo in Zona Rossa Viggiù. Vito Califano su Il Riformista il 18 Febbraio 2021. Viggiù, comune in provincia di Varese, circa 5.200 abitanti, più vicina alla Svizzera che al capoluogo, si è diffusa la cosiddetta variante scozzese. È stata individuata nel laboratorio di microbiologia dell’Ospedale di Circolo di Varese. La mutazione è stata definita N439K. È stata osservata per la prima volta in Scozia nel marzo 2020. “Ma si tratta di un nome più giornalistico che virologico”, puntualizza Fabrizio Maggi, direttore dell’Ospedale Circolo. “Non si tratterebbe di una mutazione particolarmente pericolosa, ma ci sono indicazioni sul fatto che possa essere una variante più resistente di altre. Non tutte le varianti hanno un impatto biologico bisognerà studiarla per capire se ha effetti sulle vaccinazioni o sulle reinfezioni”. All’ospedale varesino erano state individuate anche le varianti brasiliana e sudafricana. A dare l’annuncio della cosiddetta mutazione scozzese il consulente della Regione Lombardia Guido Bertolaso. “Sembra che ci sia una variante delle varianti, nel senso che pare che la variante inglese sia ulteriormente mutata, tanto che stiamo parlando di variante scozzese in un paio di comuni della provincia di Varese”. I positivi emersi alla variante nel paesino sono stati 14, uno quello positivo alla variante inglese. Ieri è partito lo screening che continuerà fino a sabato. Circa 1.300 le persone tamponate oggi. Testati anche i guariti dal covid-19 che i vaccinati. Da ieri alle 18:00 il comune è in Zona Rossa come Bollate, Castrezzato e Mede. La scuola è chiusa, gli studenti in Dad. Sono almeno cinque le varianti in circolo in Italia, ha detto Massimo Ciccozzi, ordinario di epidemiologia all’università Campus Biomedico di Roma, in un’intervista al Corriere della Sera. “Quasi tutte hanno la mutazione sul gene che produce la proteina Spike usata dal virus per agganciarsi alle cellule umane – ha spiegato – La variante cosiddetta inglese, la brasiliana, la sudafricana, una quarta sequenziata a Napoli, identificata per la prima volta in Nigeria. A Viggiù, in Lombardia, è stata sequenziata una variante scozzese. In un lavoro pubblicato su Lancet Infectious Disease col virologo Arnaldo Caruso abbiamo descritto un nuovo ceppo trovato a Brescia in un paziente oncologico che è poi guarito dal Covid-19. Questo episodio è interessante perché sarebbe la dimostrazione che il virus si è evoluto all’interno della persona infettata ed è cambiato”. Nessuna evidenza su una maggiore virulenza delle varianti: gli studi sono in corso. Improbabile, secondo Caruso. “Le varianti sono il sintomo di una circolazione troppo alta del virus. E questo significa dare all’agente patogeno che da un anno ci tiene sotto scacco l’opportunità di produrre altre mutazioni che prima o poi potrebbero compromettere il funzionamento dei vaccini. Non dobbiamo assolutamente permettere che questo accada. È una fase molto critica”.

Covid, Campania: isolata variante mai descritta in Italia. Si chiama B.1.525, e fin qui aveva fatto registrare 32 casi in Gran Bretagna, e pochi contagi in Nigeria, Si chiama B.1.525, e fin qui aveva fatto registrare 32 casi in Gran Bretagna, e pochi contagi in Nigeria. Federico Giuliani, Martedì 16/02/2021 su Il Giornale. Non conosciamo né il suo potere di infezione, né altre sue caratteristiche. Una nuova variante del Covid-19, mai riscontrata prima d'ora in Italia, è stata individuata in Campania. Si chiama B.1.525, e fin qui aveva fatto registrare 32 casi in Gran Bretagna, e pochi contagi in Nigeria, Danimarca e Stati Uniti.

La nuova variante. La particolare mutazione del coronavirus è stata individuata nell'ambito di una ricerca dell'Istituto Pascale e dell'Università Federico II di Napoli. Il paziente infetto è un professionista rientrato da un viaggio in Africa. Dopo il tampone, è risultato positivo al Covid-19. Le analisi hanno subito fatto emergere l'inedita versione dell'agente patogeno, la quale rappresenta un vero e proprio punto interrogativo. Sono allo studio eventuali risposte negative all'azione anticorpale dei vaccini. Gli esperti brancolano tuttavia nel buio, visto che hanno a disposizione pochissime informazioni su cui basarsi. Il B.1.525 è molto simile alla variante inglese B117 e presenta una serie di mutazioni che non lascia dormire sogni tranquilli gli stessi scienziati. Tra queste, troviamo la mutazione E484K sulla proteina Spike, che si trova all'esterno del patogeno e che riveste un ruolo fondamentale per l'ingresso del virus nelle cellule. Una caratteristica del genere era stata rinvenuta anche nelle varianti sudafricane e brasiliane.

Rischi e pericoli. "La sequenza del campione giunta a noi dal Policlinico Federiciano - spiegano dall'istituto - ci ha subito insospettiti perchè non presentava analogie con altri campioni provenienti dalla nostra regione". In seguito a un confronto con il gruppo del Reparto Zoonosi Emergenti dell'Istituto Superiore di Sanità, il Policlinico ha avuto la conferma. Quella che avevano tra le mani era una variante descritta finora in un centinaio di casi in alcuni paesi europei ed africani, ma anche negli Stati Uniti. "Abbiamo immediatamente depositato la sequenza nel database internazionale GISAID ed avvertito le autorità sanitarie", hanno aggiunto le autorità della struttura. "Si tratta - ha dichiarato il presidente della Campania, Vincenzo De Luca - di una scoperta di straordinario valore scientifico, un risultato tempestivo e utilissimo, che conferma l'importanza di aver finanziato questi studi, la necessità dell'adozione di misure straordinarie nazionali da parte del Governo per non vanificare il programma di vaccinazioni che è pienamente in corso, e che rende ancor di più indispensabili le forniture dei vaccini necessari per fronteggiare l'epidemia".

Il caso dell'attaccante nigeriano. Pensavo fosse Osimhen e invece era un polverone: la variante napoletana del bomber. Vito Califano su Il Riformista il 17 Febbraio 2021. Se non fosse stato per il discorso de Presidente del Consiglio Mario Draghi al Senato sarebbe stata la notizia del giorno. Il coronavirus, un calciatore, il portatore della variante, mai vista prima peraltro in Italia, a Napoli. E l’attaccante in questione è Victor Osimhen, nigeriano, che al coronavirus era risultato positivo a gennaio scorso – nel frattempo è guarito, è tornato in campo, ha giocato titolare l’ultima in campionato contro la Juventus e domani sarà in Spagna per l’Europa League. E per un po’, la notizia di Osimhen portatore della variante, notizia del giorno lo è stata, apertura di siti e giornali, soprattutto locali, prima del fuoco di fila delle smentite. Ricorda un po’ la storia di Maurizio Sarri, ex tecnico della Juventus, e prima del Napoli guarda caso, e della sua strana polmonite. Contratta, ipotizzavano alcuni media, a luglio 2019 nella tournée in Cina, proprio lì dov’è esplosa la pandemia? Niente a che fare con il coronavirus, naturalmente. Tutto così ghiotto e succulento, in piena prima ondata di coronavirus, che comunque non si poteva mica lasciar cadere. Storia apparentemente diversa quella di Osimhen, il giocatore più pagato nella storia del Napoli, 70 milioni più 10 di bonus. Che in autunno si era curato in Belgio per un problema alla spalla e poi aveva festeggiato il suo compleanno, in Nigeria. Le immagini della festa, con il 22enne in mezzo ad altre persone, senza mascherina e senza distanze, aveva creato polemiche e imbarazzo anche in casa Napoli. Di ieri la notizia: l’Istituto Pascale e l’Università Federico II hanno isolato una variante mai tracciata in Italia; un centinaio di casi al mondo invece tra Regno Unito, Nigeria, Danimarca e Stati Uniti. Sconosciuta la trasmissibilità della B.1.525, com’è stata denominata. Stamattina la bomba: “È Victor Osimhen il professionista che ha consentito a Napoli, per la prima volta in Italia, l’individuazione della variante ‘B.1.525’ – si legge nell’articolo – è processando i tamponi del Napoli che Giuseppe Portella della Federico II ha individuato una sequenza anomala, mai vista prima, trasferita all’equipe del Pascale diretta da Nicola Normanno. Ufficialmente si tratta di dati sensibili che nessuno può ufficialmente confermare, si tratterebbe di una violazione della legge”, ha scritto Il Napolista, testata di “informazione e analisi politico calcistica” diretta da Massimiliano Gallo. Si leggeva sempre sullo stesso sito che “in queste ore, dopo la notizia dal Napolista, alcuni tifosi si sono scagliati contro Osimhen come se si trattasse di un untore. Comportamento molto frequente quando si tratta del coronavirus. È un atteggiamento incomprensibile. È grazie a Osimhen che la variante è stata individuata. Grazie a Osimhen e grazie prima alla Federico II – che processa i tamponi del Napoli – e soprattutto all’istituto di ricerca scientifica Pascale”. A seguire notizie sul direttore dell’Asl Napoli 1 Ciro Verdoliva a Castelvolturno, secondo Radio Punto Nuovo, e del sequenziamento del virus in tutti i casi di positività riscontrati nel club e nell’entourage. Il club azzurro ha risposto invece all’Ansa di non essere al corrente di approfondimenti sui tesserati del suo club e poi è arrivata ancora più secca la smentita dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II. “Si sottolinea che tutti i dati sanitari – fa sapere l’Azienda – sono sempre rigorosamente trattati nel pieno rispetto della tutela della privacy. L’Aou Federico II stigmatizza il comportamento di alcune testate giornalistiche che diffondono notizie prive di alcun fondamento lesive della professionalità dell’Azienda”. Si ipotizza che dietro lo scoop ci sia stata una soffiata, una fonte, forse una fuga di notizie che dovrebbero restare impermeabili. E va precisato che Il Napolista non ha stigmatizzato né il calciatore né la società né nessun altro: ha invece lodato il “colpo”, l’eccellenza sanitaria, “l’ulteriore conferma dell’eccellenza di Napoli, Città che, non si capisce per quale motivo, viene invece spesso descritta (dagli stessi napoletani) come una città che viva sempre secondo canoni folcloristici”. Resta invece aperto il dibattito – oltre i like, le visualizzazioni, la caccia all’untore, la stessa eccellenza osannata – sulla pubblicazione di un articolo che non può essere confermato – come ha scritto chiaro chiaro lo stesso giornale – trattandosi di dati sensibili. Pensavamo fosse una notizia e invece era un polverone.

De Luca: "Ora forniture di vaccini per non vanificare tutto". Napoli, scoperta eccezionale al Pascale: isolata variante covid simile a quella inglese. Redazione su Il Riformista il 16 Febbraio 2021. Un professionista di ritorno da un viaggio in Africa e che dopo il tampone risulta positivo al Covid 19. Fin qui la cronaca di una storia come tante raccontata nell’ultimo anno di pandemia, ma che diventa eccezionale grazie alla collaborazione tra i laboratori della Federico II e del Pascale. Giuseppe Portella della Federico II individua il caso altamente sospetto e in tempi rapidissimi l’equipe di Nicola Normanno del Pascale scopre una variante Covid mai descritta sinora in Italia. “Si tratta – ha dichiarato il Presidente della regione Campania Vincenzo De Luca – di una scoperta di straordinario valore scientifico, un risultato tempestivo e utilissimo, che conferma l’importanza di aver finanziato questi studi, la necessità dell’adozione di misure straordinarie nazionali da parte del Governo per non vanificare il programma di vaccinazioni che è pienamente in corso, e che rende ancor di più indispensabili le forniture dei vaccini necessari per fronteggiare l’epidemia”. “La sequenza del campione giunta a noi dal Policlinico Federiciano – spiega Normanno, ricercatore dell’Istituto dei tumori di Napoli – ci ha subito insospettiti perché non presentava analogie con altri campioni provenienti dalla nostra regione. Dopo un confronto con il gruppo del Reparto Zoonosi Emergenti dell’Istituto Superiore di Sanità abbiamo avuto la conferma che si tratta di una variante descritta finora in un centinaio di casi in alcuni paesi europei ed africani, ma anche negli Stati Uniti. Abbiamo immediatamente depositato la sequenza nel database internazionale Gisaid ed avvertito le autorità sanitarie”. Di questa variante non si conosce il potere di infezione né altre sue caratteristiche come accade per molte varianti rare del virus. Si chiama B.1.525, finora ne sono stati individuati soltanto 32 casi in Gran Bretagna, ma è stata trovata anche in Nigeria, Danimarca e Stati Uniti. La nuova mutazione è simile alla variante inglese, B117, e contiene una serie di mutazioni che destano allarme tra gli esperti, compresa la mutazione E484K sulla proteina Spike, che si trova all’esterno del virus e che gioca un ruolo importante per l’ingresso del virus nelle cellule. È allo studio un’eventuale resistenza del virus alla risposta anticorpale. “Ancora una volta 1+1=3” – dichiara il direttore generale del Pascale, Attilio Bianchi – La sinergia tra l’Istituto Pascale e la Federico II ci ha consentito questo importante traguardo scientifico. La lungimiranza del Presidente De Luca nel supportare il progetto di ricerca, l’ indiscusso valore dei nostri ricercatori, la forza del gioco di squadra ci permettono di guardare alle nuove sfide con sempre rinnovata fiducia”. E il direttore scientifico dell’Irccs partenopeo Gerardo Botti aggiunge: “Siamo particolarmente soddisfatti e orgogliosi di questo ennesimo risultato nell’ambito della ricerca sanitaria, generato da una collaborazione scientifica tra prestigiose istituzioni con un progetto di rete finanziato dalla Regione Campania. È l’ennesima conferma del valore dei nostri ricercatori e, ancora una volta, della necessità di condividere le competenze per raggiungere traguardi così importanti per la salute di ogni cittadino, e non solo del nostro territorio”. Il laboratorio di virologia dell’azienda ospedaliera universitaria Federico II, diretto dal prof Portella, ha selezionato, sulla base di diversi elementi di interesse clinico e altri parametri di tipo virologico, una serie di tamponi risultati positivi perché fossero sottoposti ad attività di sequenziamento in collaborazione con l’istituto dei tumori Pascale di Napoli con cui è in corso da tempo un’intensa attività di collaborazione scientifica. “Plaudo al lavoro di questi ricercatori chiamati a contribuire alla lotta contro il covid e sottolineo l’importanza dell’integrazione fra ricerca ed assistenza – dice Anna Iervolino, direttore generale dell’azienda universitaria – Dalla capacità di individuare tempestivamente le varianti del virus dipende anche la possibilità di adottare misure di contenimento appropriate ed idonee ad evitare una nuova ondata pandemica che rischia di riaccendere la pressione sugli ospedali e sui reparti covid”.

"C'è una variante a Milano. Perché è diversa dalle altre..." A Milano è stata sequenziata una nuova variante del virus: la buona notizia è che non rende più pericoloso il Covid. "Non incide sulla proteina Spike e non ha nessuna influenza sui vaccini". Alessandro Ferro, Venerdì 12/02/2021 su Il Giornale.  Una nuova variante del Coronavirus è stata scoperta da ricercatori italiani dell'Università Statale di Milano diretti e coordinati dal Prof. Pasquale Ferrante, virologo e Direttore sanitario della struttura Istituto Clinico Città Studi, su due medici ammalatisi con il Covid. Stavolta, però, c'è una notizia positiva perché si tratta di una variante "buona", ben diversa da quelle più contagiose e che stanno mettendo a dura prova anche la campagna vaccinale. Lo studio è appena stato pubblicato su una rivista specializzata per essere sottoposto a revisione paritaria. La scoperta è di grande interesse perché, questa mutazione, potrebbe influire sulla risposta immunitaria da parte dell’organismo umano nei confronti del virus. In esclusiva per ilgiornale.it abbiamo intervistato il Prof. Ferrante, che ci ha spiegato nel dettaglio di cosa si tratta e quali sono i nuovi scenari che si aprono.

Prof. Ferrante, lei ed il suo staff avete scoperto una nuova variante del virus.

"Abbiamo provveduto ad isolare diversi virus da pazienti e dal personale sanitario dell'Istituto Clinico Città Studi di Milano, sede universitaria dove io lavoro. Una volta isolati, abbiamo fatto l'analisi di sequenza e, proprio su due medici dell'ospedale, abbiamo trovato due virus diversi dagli altri in modo molto sostanziale perché hanno la mutazione in una proteina che si chiama Orf-6".

Di cosa si tratta?

"In entrambi i virus isolati abbiamo scoperto una cosa interessante: c'è la modifica di una sola base nucleotidica, i nucleotidi sono le basi che costituiscono l'Rna del virus. Questa mutazione altera la sequenza nucleotidica in modo molto importante perché determina quello che chiamiamo scientificamente 'stop codon', dopo la mutazione la proteina non è più sintetizzata. In altre parole, la proteina Orf-6 che in tutti gli altri virus è composta da 61 aminoacidi, nel nostro caso ne ha 56. Sembra una cosa piccolissima ma è molto interessante".

Cos'è la proteina Orf-6?

"Orf-6 è una proteina accessoria o regolatoria: è accessoria perché non compone il virus. Ciò significa che in questo virus non c'è perché non ha una funzione strutturale. Viene prodotta quando il virus entra nelle cellule ed interagisce con il sistema immunitario dell'ospite, regolandolo in modo positivo o negativo. Ce l'hanno anche tanti altri virus: l'Hiv è piena di proteine regolatorie perché deve cercare di combinare la propria voglia di moltiplicarsi con la situazione della cellula, interagiscono con dei messaggi molecolari. In questo caso, Orf-6 è in grado di interagire con l'interferone, specialmente quello di tipo 1 che governa la prima risposta immunitaria alle infezioni".

Piccola parentesi: è proprio l'interferone, come abbiamo recentemente documentato sul nostro giornale che regola la maggiore o minore intensità della malattia: ci sono quelli che si ammalano gravemente perché ne producono poco o non ne producono per nulla; viceversa, i "resistenti" al virus potrebbero essere quelli che hanno questo "scudo" molto attivo che funge da barriera. In ogni caso, è la genetica di ognuno di noi che fa la differenza rispetto a questa e tante altre malattie.

Alla luce di questo, che idea vi siete fatti?

"La nostra idea è che questa proteina mutata possa alterare le abituali capacità di Orf-6 quando non è mutata. Adesso ci troviamo davanti alla possibilità di studiare se questa proteina regola in eccesso o riduce la produzione dell'interferone. Sars-Cov-2 è presente in una forma molto simile nei pipistrelli: come fanno ad avere questo virus senza mai ammalarsi? Perché hanno una franca riduzione dell'interferone. La riduzione della risposta immunitaria li rende, in qualche modo, indenni alla malattia".

Come siete riusciti a fare questo tipo di lavoro di sequenziamento del Covid-19?

"Come tanti altri gruppi, durante la prima ondata della pandemia abbiamo iniziato a studiare il virus mettendo a punto dei sistemi per "coltivarlo", averlo cioè vivente nella sua originalità che permette di fare esperimenti di quasi ogni tipo come quelli in vitro e sulle cellule. Abbiamo un laboratorio di massima sicurezza e quando, con il mio staff, lavoriamo con questo virus vivo e pericolosissimo, siamo protetti e possiamo lavorare liberamente".

Che scenari apre questa scoperta?

"Pensiamo che la nostra scoperta ci potrà aiutare a capire se questo accade anche negli esseri umani. Dobbiamo lavorare in vitro mettendo a confronto il virus con e senza la mutazione di Orf-6 mettendoli in coltura su cellule di una certa importanza come i macrofagi, cellule che entrano in gioco nel danno che fa il virus. Il nostro obiettivo è di riuscire a dimostrare che questa variante non fa niente oppure se aiuta le cellule a sopravvivere riducendo il numero di citochine evitando la famosa 'tempesta di citochine'. Insomma, gli scenari sono tantissimi ma dipenderà dalla capacità di portare avanti le nostre idee ed il founding (finanziamento, nrd) della ricerca: i governanti dovrebbero fare un piano sulla ricerca".

Cosa propone per la ricerca?

"Mettere a disposizione, ad esempio, 50 milioni l'anno per permettere a tutti i ricercatori di operare su tutti gli aspetti del virus: quelli che lavorano sulla spike, sulla proteina Orf-6 piuttosto che Orf-8, sugli enzimi virali che saranno fondamentali per sconfiggere il virus nei prossimi mesi. È questo il messaggio, è fondamentale finanziare una ricerca aperta, non si possono finanziare soltanto i vaccini o gli anticorpi monoclonali. L'emergenza si combatte nell'immediato ma pensando anche al futuro".

Quali sono le principali differenze con le varianti in circolazione, ovvero l'inglese, la sudafricana e la brasiliana?

"Volendo essere cautelativi, stiamo parlando di una proteina che si trova in una zona del genoma vicino alla spike ma, allo stesso tempo, abbastanza lontana. Ciò che sappiamo oggi ci porta a dire che questa variante non incide sull'organizzazione della proteina di Spike. Non incidendo su questa, non ha nessuna influenza sull'eventuale resistenza ai vaccini, non è un fattore di preoccupazione. È una variante che ci permette di studiare la patogenesi ma ha poco a che vedere con la maggiore diffusione del virus".

Questa variante potrebbe mettere a rischio l'efficacia dei vaccini?

"No, al momento non mette al rischio l'efficacia dei vaccini. Esula dalle preoccupazioni che tutti abbiamo sulla possibilità che le tre varianti citate prima, cioè l'inglese, la brasiliana e la sudafricana, possano essere una sfida per i vaccini. È fuori da questo contesto".

Come accennava prima, perché è importante studiare la patogenesi di questo virus.

"Una cosa che mi intrisce e mi fa stare male è che ancora oggi, dopo un anno dall'inizio della pandemia, continuiamo ad avere un numero altissimo di morti e non sappiamo perché muoiono: è importante studiare gli aspetti patogenetici per capire cosa succede nel corpo di questi soggetti oltre al virus".

È l'ennesima prova che è importantissimo sequenziare il virus nel nostro Paese come accade già in Inghilterra. A che punto siamo?

"In Italia abbiamo accelerato, d'ora in avanti tutto ciò che è necessario sequenziare verrà sequenziato: sono state emanate delle regole per cui tutti i pazienti con un tampone positivo che arrivano al pronto soccorso e sono stati in Brasile, Inghilterra, Sudafrica oppure a contatto con persone che sono state in quei Paesi, verrà mandato ai centri di riferimento nei quali si provvederà a sequenziarli per mettere in evidenza le varianti e fare una mappatura per vedere quanto sono diffusi. Inoltre, se una persona vaccinata con le due dosi dovesse sviluppare un'infezione da Covid, è un altro di quei casi in cui bisognerà cercare le varianti: se il vaccino non mi ha protetto, una delle possibili spiegazioni è che si tratti di una variante".

Coronavirus, è allarme varianti ma l'Italia è ultima in Europa per tracciamento. Le Iene News il 10 febbraio 2021. In tutto il mondo è altissimo l’allarme per la diffusione delle varianti brasiliana e sudafricana del coronavirus, per il timore che i vaccini siano meno efficaci. Per evitare problemi è fondamentale tracciarne la diffusione, ma l’Italia è il paese che “fa meno rilevazione dell’Ue”. Intanto i primi casi sono stati individuati da Nord a Sud, mentre la discussione è focalizzata sulle prossime riaperture. In tutto il mondo è altissima l’allerta per le varianti del coronavirus. A fare paura adesso non è soltanto quella inglese, responsabile dell’esplosione dei casi che ha portato il Regno Unito in un lungo lockdown invernale: brasiliana e sudafricana sono le minacce numero, soprattutto perché portano in dote il rischio che sfuggano ai vaccini. Varianti che è fondamentale tracciare e isolare subito, per evitare che si diffondano in zona finora poco interessate dalle mutazioni, e su cui purtroppo l’Italia sta facendo davvero poco. Andiamo con ordine: l’allarme è particolarmente alto in Sud Africa. Il governo ha deciso di sospendere la somministrazione del vaccino AstraZeneca, dopo che da uno studio preliminare è emersa una significativa riduzione dell’efficacia del prodotto nel prevenire i casi lievi e moderati di coronavirus. Una riduzione legata alla variante sudafricana e che, almeno sembra dalle prime analisi, non intaccherebbe l’efficacia del vaccino nel prevenire i casi gravi o potenzialmente letali. Non ci sono ancora studi sull’efficacia dei vaccini attualmente disponibili sulla variante brasiliana, ma si sa già che quest’ultima - al pari di quella inglese - è più contagiosa della versione originale e potrebbe contagiare anche chi ha già contratto il “coronavirus di Wuhan”. Dunque per tutti i paesi che hanno iniziato la campagna vaccinale la priorità è diventata evitare la circolazione di queste varianti, per non rischiare di compromettere l’immunizzazione della popolazione. Molti paesi - tra cui l’Italia - hanno bloccato i voli per il Regno Unito, il Brasile, il Portogallo e altri stati per diminuire i possibili punti d’ingresso del virus. Altri, tra cui la Germania e il Regno Unito, hanno optato per un lockdown duro al fine di evitare del tutto la circolazione del virus mutato. Purtroppo però in Italia le varianti sono già arrivate. A preoccupare è soprattutto la situazione dell’Umbria, tornata quasi interamente in zona rossa: lì stanno circolando contemporaneamente la variante inglese e quella sudafricana. In Liguria, nella provincia di Bergamo e in quella di Bolzano sono invece stati registrati casi della variante inglese, così come nelle città di Palermo, Chieti, Pescara, Macerata, Ancona, Cuneo e Vercelli. In provincia di Varese invece circola la variante brasiliana. Sono questi i maggiori focolai in Italia attualmente attivi, ma purtroppo il nostro paese si scontra con un grave problema: identifica pochissimo le varianti che circolano. E così non sappiamo quante persone siano effettivamente contagiate dalle mutazioni del coronavirus, né quanto queste siano diffuse. Noi di Iene.it ne avevamo parlato qualche settimana fa con il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, che ci aveva detto: “Serve investire in ricerca genomica: in Italia si fanno i tamponi e i test antigenici, ma la determinazioni delle varianti viene fatta solo in alcuni laboratori. Non c’è una mappatura precisa della diffusione delle varianti”. Al momento dell’intervista però le varianti non erano praticamente state ancora individuate nel nostro paese. Oggi però la diffusione delle mutazioni è cambiata, ma la nostra capacità di tracciarle apparentemente no. A confermalo è stato lo stesso professor Bassetti in una intervista rilasciata pochi giorni fa all’AdnKronos: “La cosa più importante è che siamo il Paese in Ue che fa meno rilevazione di sequenziamenti: 1 su 1.000 positivi, mentre ci sono Paesi che ne fanno 40-50 e la Danimarca arriva a 150 su 1.000 positivi. Non si può pensare di parlare delle varianti senza sapere che cosa sta succedendo nel nostro Paese. Non abbiamo un'idea chiara su questo problema perché non si è adeguatamente investito sui laboratori per il sequenziamento genetico. Alcune strutture lo fanno molte altre no". Insomma, l’Italia è in grave ritardo nella mappatura della varianti del coronavirus. E il pericolo di una terza ondata spinta da queste mutazioni è altissimo. Come risolvere il problema? "Servono risorse per fare una mappatura quotidiana: tutti i laboratori devono inviare un certo numero di campioni e devono mandare i risultati al ministero della Salute che poi deve elaborare una mappa della circolazione delle varianti nel Paese. C'è urgenza su questo tema e stiamo perdendo molto tempo". Complice la crisi di governo che paralizza il nostro paese ormai da un mese, infatti, sembra proprio che nessun progresso sia stato fatto in questo campo. In Emilia Romagna e Umbria, addirittura, si sospetta la circolazione di almeno una tra variante inglese e brasiliana, ma la scarsità di laboratori attrezzati a individuarle non ha ancora permesso di stabilire con esattezza se e quale mutazione stia circolando. Siamo sicuri di essere pronti a riaprire palestre, piscine, bar e ristoranti alla sera?

Triste primato dell’Italia: in ritardo nei sequenziamenti. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 5 febbraio 2021. Dopo la paura scatenata dal Sars-CoV-2 adesso le attenzioni sono puntate sulle sue varianti. L’anno terribile del 2020 si è concluso con la scoperta di quella inglese, ma ce ne sono altre. Secondo gli studiosi le mutazioni del virus durante una fase epidemiologica possono arrivare ad essere migliaia, per questo motivo appare necessario studiare approfonditamente i comportamenti dell’agente patogeno. Sequenziare il virus è la parola d’ordine, ma l’Italia sembra indietro.

Le varianti fino ad ora individuate. Studiare le varianti del Sars-CoV-2 , la loro contagiosità e gli effetti che provocano all’uomo, anche in vista dell’utilità dei vaccini, è uno tra gli impegni della scienza. Da diversi mesi gli esperti del settore sono al lavoro per capire quali sono e come possono manifestarsi le mutazioni del virus per offrire risposte certe e rapide alla tutela della popolazione. Fino alla fine del 2020 le varianti individuate sono state tre. A spiegarle su InsideOver è Antonio Cascio, virologo e primario di Malattie Infettive del Policlinico “Paolo Giaccone” di Palermo: “Nel Regno Unito – spiega il professore – è emersa una nuova variante di SARS-CoV-2 (nota come 20I / 501Y.V1, VOC 202012/01 o B.1.1.7) con un numero insolitamente elevato di mutazioni. Da allora questa variante è stata rilevata in numerosi paesi in tutto il mondo, inclusi Stati Uniti, Canada e Italia”. Se questa è stata la prima variante individuata e che ha sollevato non poche preoccupazioni, ecco che poi ad accrescere il timore sono arrivate le altre due varianti: “In Sud Africa– dichiara il professor Cascio – un’altra variante di SARS-CoV-2 (nota come 20H / 501Y.V2 o B.1.351) è emersa indipendentemente dalla B.1.1.7. Questa variante condivide alcune mutazioni con B.1.1.7. I casi attribuiti a questa variante sono stati anche rilevati al di fuori del Sud Africa”. “In Brasile – conclude il primario del Policlinico di Palermo – è emersa una variante di SARS-CoV-2 (nota come P.1) ed è stata identificata in quattro viaggiatori brasiliani, che sono stati testati durante lo screening di routine all’aeroporto di Haneda, in Giappone. Questa variante ha 17 mutazioni uniche, di cui tre nel dominio di legame del recettore della proteina spike”.

L’importanza del sequenziamento. Il sequenziamento del Sars-CoV-2  è una delle attività più importanti che consente di conoscere meglio il virus e soprattutto le sue varianti. Questo lo hanno capito sin da subito in Regno Unito, in Nuova Zelanda e in Australia. In questi Paesi si è investito in tempi rapidi sul sequenziamento del genoma per evitare nuovi focolai. La genomica in questo momento gioca un ruolo importante per prevenire una nuova ondata dovuta alle varianti. Uno studio pubblicato nel 2017 su “Frontiers in microbiology” conferma proprio che grazie alla genomica i focolai risultano rimanere circoscritti. Il lavoro svolto sin da subito dalla scienza in queste Nazioni ha portato a dei risultati molto importanti. Nello Stato di Victoria, in Australia,  ad esempio, grazie al sequenziamento del virus è stato possibile individuare l’origine di un focolaio che, diversamente, avrebbe portato fuoripista. Qui, come sottolineato sulla rivista Nature da Claire Watson, si credeva infatti che un operatore sanitario avesse contratto il virus all’interno dell’ospedale ed invece no: l’uomo era stato infettato nel corso di un evento sociale a cui aveva preso parte. Quanti errori saranno stati commessi  in tutto il mondo e di cui non ne avremo mai conoscenza? Proprio per questo motivo il sequenziamento è uno strumento necessario per portare avanti la lotta contro il virus. Mentre all’estero lo studio va avanti e la lotta per debellare il coronavirus cerca di aumentare il passo, in Italia cosa accade? A che punto sono gli studi?

L’esempio inglese. Quando l’incubo del coronavirus è arrivato in Gran Bretagna, una delle prime decisioni prese dalla comunità scientifica d’oltremanica ha riguardato il mettere in rete tutti i laboratori di analisi del Paese. L’obiettivo era creare un database in grado di fornire le informazioni più utili sul comportamento del virus e sull’origine dei focolai. Per questo già a marzo era attivo il “Cog-Uk”, ossia il Covid-19 Genomics UK Consortium. Si tratta di un consorzio, finanziato con uno stanziamento iniziale di 20 milioni di Sterline da parte del governo, al cui interno medici, studiosi e analisti ogni giorno condividono una mole importante di dati provenienti dalle ricerche sul Sars Cov 2. A partire dal sequenziamento dei genomi. Così come riportato dallo stesso sito di Cog-Uk, al 3 febbraio nei laboratori del Regno Unito sono stati sequenziati 236.665 virus. Questo ha permesso di scoprire informazioni vitali per comprendere il cammino dell’epidemia nel Paese. Ad esempio, al mese di settembre grazie ai dati sui sequenziamenti, sono stati scoperti almeno 1.300 diversi ceppi virali. Tra questi anche quelli comprendenti la cosiddetta variante inglese, la cui origine è stata in tal modo scovata e per la quale si è potuto lanciare uno specifico allarme. L’esempio inglese mostra l’importanza di puntare sul sequenziamento dei virus e sugli studi approfonditi sul suo comportamento. Comprendere cosa circola sul territorio è alla base di tutti i programmi di prevenzione.

Italia profondamente indietro. Se nel nostro Paese la preoccupazione sull’arrivo delle varianti del virus è molto alta, è proprio perché non si conosce molto bene quanto sta accadendo sul fronte epidemiologico. A confermarlo è il dottor Antonio Cascio: “Avremmo dovuto investire di più sui laboratori in cui è possibile eseguire il sequenziamento del virus – ha affermato il professore – sarebbe auspicabile che all’Istituto Superiore di Sanità pervenissero nel più breve tempo possibile i risultati dei sequenziamenti dei diversi laboratori periferici in maniera che l’evoluzione dell’epidemia possa essere meglio interpretata ed eventuali alert possano essere diffusi in maniera tempestiva se necessario”. I numeri parlano chiaro: così come dichiarato su IlGiornale.it dal professor Marco Falcone, fino a dicembre “in Italia è stato sequenziato solo l’1%” dei virus”. Soltanto nelle ultime settimane si sta cercando di correre ai ripari. Il 27 gennaio è nato sull’esempio inglese un consorzio di laboratori di analisi, il cui compito è quello di approfondire le indagini epidemiologiche sul Sars Cov 2: “Se non approfittiamo di un’emergenza per costruire su questa, non abbiamo appreso niente”, ha commentato in quell’occasione il presidente dell’Aifa Giorgio Palù. Il problema però adesso è arrivare a recuperare i ritardi. Occorre capire quanti ceppi virali circolano in Italia, quanti di questi nascondono delle varianti scoperte o non ancora scoperte. Un lavoro importante, partito a quasi un anno di distanza dai primi casi accertati di coronavirus.

CORONAVIRUS COVID-19: SCOPERTA IN ITALIA UNA NUOVA MUTAZIONE DEL VIRUS. Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 9 febbraio 2021. L’ultima mutazione del coronavirus non riguarda la proteina Spike, usata dal patogeno per agganciarsi alle cellule e avviare la duplicazione all’interno dell’organismo. Una nuova variante è stata individuata dai ricercatori dell’università Statale di Milano, coordinati da Pasquale Ferrante, Serena Delbue ed Elena Pariani, in collaborazione con l’Istituto Clinico di Città Studi. In questo caso la modifica della struttura del virus ha riguardato la proteina accessoria Orf-6, che manca di sei aminoacidi. Questa alterazione, si legge nello studio pubblicato sulla rivista scientifica Emerging microbes & Infections (Temi), non riguarda direttamente le capacità infettanti di Sars Cov-2 ma può essere un fattore in grado di cambiare i meccanismi patogenetici della malattia Covid-19. Dal momento che il ruolo di questa proteina nel corso della replicazione virale è quello di modulare la risposta immunitaria dell’ospite, interferendo con la produzione degli interferoni, la sua modificazione potrebbe avere conseguenze sulla diffusione del virus nell’organismo umano infettato e sull’evoluzione clinica della malattia. Questa osservazione sottolinea l’importanza del monitoraggio di tutte le mutazioni che il coronavirus accumula, anche di quelle che coinvolgono le regioni regolatorie, ad oggi meno studiate, ma che costituiscono più della metà del genoma virale. I ricercatori ritengono che nell’attuale scenario, caratterizzato da notevoli incertezze riguardo alla patogenesi del Covid, la variante con Orf-6 troncata rappresenti un utile strumento per gli studi in vitro relativi alla modulazione della risposta immunitaria innata, che potranno evidenziare possibili diversi meccanismi patogenetici e suggerire lo studio di nuove strategie terapeutiche. Questa ricerca conferma l’importanza dell’analisi approfondita delle diverse varianti, generate da singole mutazioni introdotte casualmente dal patogeno, che gli consentono – talvolta – di eludere le naturali difese dell’organismo. A destare inquietudini, in particolare, è l’eventuale riduzione dell’efficacia dei vaccini, proprio mentre la campagna di immunizzazione è entrata nel vivo in Italia e in Europa. «Non si può negare che l’elemento varianti sia preoccupante – ha commentato ad “Agorà” su Rai 3 il virologo Massimo Galli del Sacco di Milano – A quanto pare anche la risposta al vaccino sarebbe meno valida di quanto auspichiamo, quindi è necessario fare in modo che non si diffondano nell’ambito del nostro Paese». Per farlo, ha avvertito, «bisogna individuarle con un sistema efficiente di valutazione e mobilitarsi tutte le volte che qualche focolaio suggerisce che c’è un problema in atto, poi prendere i provvedimenti». Lo stesso Galli, intervenendo durante il webinar “Pandemia Covid-19, vaccini e Parkinson” organizzato dalla Fondazione Limpe per il parkinson onlus, non ha escluso la possibilità di cambiare in corsa i vaccini per fronteggiare proprio le mutazioni. «Mi auguro – ha concluso – che così non debba essere e che soprattutto non debba essere nel primo periodo perché questo rallenterebbe tutta la campagna vaccinale in corso». Buone notizie arrivano, in ogni caso, sul fronte della variante inglese – una delle più diffuse in Europa – che non avrebbe maggiore capacità di veicolazione fra i minori, come paventato in un primo momento. «Ci sono ancora molti studi in corso, ma al momento non sembra che la variante inglese abbia come target specifico i bambini, non li infetta in maniera particolare rispetto agli altri – sostengono le faq pubblicate sul sito dell’Iss – Fino a questo momento le varianti più preoccupanti non sembrano causare sintomi più gravi in nessuna fascia di età la malattia si presenta con le stesse caratteristiche e i sintomi sono gli stessi di tutte le altre varianti del virus».

 (ANSA-AFP il 27 gennaio 2021)  La variante del Covid-19 individuata per la prima volta in Gran Bretagna è stata rilevata finora in 70 Paesi, 10 in più nell'ultima settimana. Lo ha reso noto l'Oms nel suo ultimo aggiornamento epidemiologico. La variante sudafricana è presente in almeno 31 Paesi, 8 in più in una settimana. Ancora un'altra variante, scoperta in Brasile, si è diffusa in 8 Paesi. (ANSA-AFP).

La Variante Francese. (ANSA il 21 gennaio 2021) "Fiammate" locali di contagi - che esplodono in modo esponenziale in alcune zone della Francia - alimentano negli ultimi giorni l'ipotesi di una nuova variante sconosciuta del Covid-19, più contagiosa di quelle osservate finora nel Paese. Nell'ospedale di Compiègne, a nord di Parigi, sono 160 i pazienti contagiati e la cosiddetta variante inglese, subito sospettata, è stata esclusa dalle analisi. Analogo fenomeno è stato registrato nel sud-ovest, nel centro e nell'est dove in diversi ospedali si registra una media di contagi molto più alta di quella nazionale. Nell'ospedale di Compiègne, oltre ai degenti, si sono contagiati 75 membri del personale, medico e paramedico, portando il totale dei contagi a cifre toccate soltanto nella prima ondata. La direttrice dell'ospedale, Catherine Latger, ha detto alla radio Europe 1 che "la variante inglese non è stata individuata" nelle analisi dei contagiati: "Abbiamo chiesto nuove analisi per verificare la presenza di nuove varianti non identificate", ha aggiunto.

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 17 gennaio 2021. Sarebbero due le varianti brasiliane del virus Sars-CoV-2 che fanno paura al mondo. Ieri il ministro della Salute italiano Roberto Speranza ha firmato un' ordinanza che fino al 31 gennaio blocca i voli in partenza dal Brasile e vieta l' ingresso in Italia di chi negli ultimi 14 giorni vi è transitato. Chi è già arrivato in Italia deve sottoporsi al tampone. «È fondamentale - ha detto Speranza - che i nostri scienziati possano studiare approfonditamente la nuova variante». Mutazioni che secondo Wendy Barclay, direttrice del National Virology Consortium britannico, sono due e almeno una è molto virulenta. L' allarme ha spinto il premier Boris Johnson a chiudere i collegamenti aerei con l' intera America Latina e anche con il Portogallo. Manaus, culla almeno di una delle due varianti, è al collasso. La capitale dell' Amazzonia, porta d' ingresso alla foresta tropicale, era già stata colpita duramente dalla prima ondata, fra aprile e maggio, quando mancarono pure le bare per seppellire i morti. Ora è a corto d' ossigeno per tenere in vita i contagiati, che aumentano giorno dopo giorno. Aerei militari hanno evacuato negli ultimi giorni decine di pazienti verso altri Stati brasiliani e portato a Manaus nuove scorte di bombole e respiratori. Potrebbero, però, non essere sufficienti. E c' è una corsa contro il tempo per salvare 61 neonati prematuri. L'intero stato di Amazonas è in crisi, conferma un comunicato di Medici senza frontiere (Msf) che ha inviato concentratori di ossigeno e generatori: «Gran parte dei malati gravi di Covid-19 vengono trasferiti nella capitale, Manaus, dove gli ospedali sono pieni». La città, che ha un solo collegamento stradale, ma diretto in Venezuela, è allo stremo. «È una isola nel mezzo della selva amazzonica - ha ammesso il ministro della Salute brasiliano, Eduardo Pazuello -. Brasilia è la città più vicina, a tre ore di volo». Le foto e i video girati negli ospedali mostrano decine di persone «in fila» per ottenere un posto letto. In mancanza di ossigeno, i più gravi vengono ventilati manualmente. Secondo alcune testimonianze, i medici stanno operando come in «uno scenario di guerra» e devono scegliere chi curare e chi lasciare morire. «Mancano monitor, ossimetri, ventilatori, alcuni pazienti vengono curati sul pavimento», denuncia Sandro André, presidente del consiglio sanitario locale. In un video diventato virale, un' infermiera supplica: «Non c' è più ossigeno in reparto e molti stanno agonizzando. Se qualcuno ne ha in casa lo porti qui». Ironia della sorte, ha risposto all' appello il Venezuela, in preda a una crisi umanitaria che ha spinto milioni di persone a emigrare, ma che ha inviato ossigeno al vicino lungo i 1.000 km che collegano il confine a Manaus. L' Amazzonia è la regione più colpita del Brasile, che a sua volta è lo Stato con il record di contagi, dopo gli Stati Uniti (oltre 208.000 morti e circa 8,4 milioni di contagi). «Non si può prevedere cosa succederà con questo nuovo ceppo», ha ammesso il vicepresidente Hamilton Mourao, finito sotto accusa perché avrebbe ignorato gli avvertimenti lanciati sia dal governo di Amazonas sia dei fornitori d' ossigeno. E nel Paese cresce la protesta anche contro il presidente «negazionista» Jair Bolsonaro, accusato di aver sottovalutato la pandemia. Manaus è la quintessenza del lato oscuro del Brasile, una sorta di avamposto della civiltà. Raggiungibile solo via fiume o aerea, è la «capitale» dei minatori e dei bordelli, sede di un teatro costruito nella Belle Epoque da un italiano e poi celebrato nel film Fitzcarraldo . Qui la legge è difficile da imporre. E la salute pure. I malati di Covid-19 aumentano e sono sempre più gravi. «Il 60% ha bisogno di ossigeno, la settimana scorsa solo il 30% dei ricoverati lo necessitava», svela Msf. L' aspetto più inquietante è la mancanza di dati certi sul contagio nelle comunità indigene: l' ingresso dei virus nei villaggi sparsi lungo i molti fiumi che solcano la regione è da sempre la miccia di stragi silenziose.

Luigi Ippolito per il "Corriere della Sera" il 23 gennaio 2021. Boris Johnson lancia l'allarme: la variante inglese del coronavirus uccide di più. L'esempio fatto dai consiglieri scientifici del governo britannico è quello dei sessantenni: se in quella fascia di età, con la variante «tradizionale», soccombono 10 persone ogni 1000 contagiati, con la variante inglese ne muoiono 13-14. Questo vuol dire una letalità più alta del 30-40 per cento. Finora si riteneva che la variante del Covid individuata per la prima volta nel sud dell'Inghilterra, fosse solo più contagiosa del 70 per cento: ma ora si scopre che è anche più pericolosa. La buona notizia arriva però dal fronte dei vaccini: funzionano anche con la variante inglese. E dunque Londra spinge sull'acceleratore dell'immunizzazione di massa, in una disperata corsa contro il tempo rispetto al diffondersi dei contagi: a ieri in Gran Bretagna erano state vaccinate circa 5 milioni 400 mila persone, con un record di 400 mila iniezioni nelle precedenti 24 ore. Continua invece a segnare il passo la campagna vaccinale in Europa: la Ue aspettava cento milioni di dosi del vaccino di AstraZeneca nel primio quadrimestre dell'anno, ma la compagnia avrebbe informato Bruxelles che non arriverà a fornirne neanche la metà. Solo 31 milioni, secondo quanto ha riferito alla Reuters un funzionario europeo. Nel campo delle varianti, a destare più preoccupazione sono la sudafricana e la brasiliana, entrambe già presenti in Gran Bretagna: queste ultime sembrano essere più resistenti ai vaccini. Non si diffondono però più velocemente e dunque il governo di Londra spera di contenerle: anche per questo sono allo studio nuove misure di controllo degli ingressi dall'estero. Johnson non esclude il blocco totale delle frontiere. L'epidemia sembra aver raggiunto il picco e ci sono i primi segnali che cominci a rallentare: segno che il lockdown introdotto il 6 gennaio sta funzionando. Ma il numero dei ricoverati in ospedale resta altissimo, con l'80 per cento di pazienti in più che al momento del picco della prima ondata ad aprile.

Le caratteristiche delle tre varianti del Covid più diffuse. Federico Giuliani su Inside Over il 23 gennaio 2021. Il Sars-CoV-2 sarà pure un virus misterioso, del quale non si conoscono ancora le origini spaziali e temporali, ma si comporta proprio come tutti gli altri suoi colleghi. Se l’obiettivo degli agenti patogeni è quello di diffondersi il più possibile, saltando da un organismo all’altro così da replicarsi all’infinito e non estinguersi, allora, per loro, sarà fondamentale stabilire un equilibrio accettabile con gli ospiti colpiti. In altre parole, i virus più “intelligenti” – cioè quelli che, a distanza di secoli, continuano a circolare – dovranno diventare “più buoni”. Pena: l’uccisione di tutti gli ospiti contagiati e, di riflesso, la morte dello stesso virus. Detto altrimenti: un virus che vorrà avere la chance di continuare a sopravvivere, dovrà fare in modo di non uccidere gli organismi che andrà a contagiare. Quindi, con il tempo, infezione dopo infezione, il patogeno intelligente diventerà meno pericoloso, mentre l’ospite più resistente. Non solo: per assicurarsi un futuro roseo, il nostro virus dovrà imparare a replicarsi contagiando altre persone o animali. Giusto per fare un esempio, i virus che colpiscono gli ospiti creando sintomi lievi, escogitando modi per infettare altri soggetti, sono intelligenti; infatti, non fanno morire il loro bersaglio e, al tempo stesso, riescono a diffondersi. I virus stupidi, al contrario, finiscono per uccidere l’ospite compromettendo ogni possibilità di ulteriore contagio.

Mutazioni e trasformazioni. Per diventare meno pericoloso, un virus deve quindi andare incontro a trasformazioni. Queste mutazioni, continue ma il più delle volte irrisorie al punto da non alterare il comportamento dell’agente patogeno, in alcuni casi possono dare vita a varianti degne di rilievo. Nel caso del Sars-CoV-2, sono state rilevate varianti più contagiose rispetto alla versione tradizionale. Come ha evidenziato il New York Times, fin dalla sua prima diffusione nel pianeta, il nuovo coronavirus stava già modificando la propria sequenza genetica per adattarsi agli ospiti. Solo che i media hanno iniziato a focalizzare la loro attenzione sulle varianti poche settimane fa, in concomitanza con la comparsa della cosiddetta variante inglese del Sars-CoV-2. “Sembra causare un innalzamento della mortalità“, ha recentemente dichiarato il primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, riferendosi alla variazione del coronavirus che sta minacciando l’Uk. Eppure, i dati scientifici in realtà non vanno in questa direzione, e ancora parlano di maggiore contagiosità ma non di maggior letalità. Bisogna, dunque, temere le varianti del coronavirus? Da un punto di vista tecnico, le trasformazioni che rendono il virus più contagioso potrebbero creare problemi nella gestione dell’epidemia, con più infetti e strutture ospedaliere sotto stress. Ma un virus più contagioso, se non dovesse modificare la mortalità, potrebbe addirittura “alleggerire” la pericolosità della malattia e contribuire a rendere la popolazione più resistente all’agente patogeno. Secondo uno studio pubblicato su Science, il Sars-CoV-2 potrebbe addirittura diventare endemico e raggiungere un tasso di letalità addirittura inferiore rispetto a quello dell’influenza stagionale.

Le varianti da tenere d’occhio. Come sottolineato dall’Agi, da quando il Sars-Cov-2 ha fatto la sua comparsa sono state registrate migliaia di varianti del virus. Sono però tre, in particolare, quelle scoperte nell’ultimo periodo che hanno destato non pochi timori da parte della comunità scientifica. Partiamo dalla vitata variante inglese. Si chiama B.1.1.7 e, a detta degli scienziati, si sarebbe originata nel Sud-Est dell’Inghilterra, a settembre. Le alterazioni che caratterizzano questa variante sarebbero almeno 23, 14 delle quali localizzate sulla proteina spike, la “chiave d’ingresso” del virus nella cellula. I primi dati indicano che questa variante è probabilmente più contagiosa, ma non più virulenta. E sembra possa essere neutralizzata dagli attuali vaccini anti Covid. Passiamo, poi, alla variante sudafricana, la versione 501.V2 di Sars-CoV-2, individuata a ottobre. Come indica il nome, è si è diffusa in Sud Africa. A metà novembre, 501.V2 rappresentava il 90% dei genomi sequenziati dagli scienziati sudafricani. Come per la variante inglese, anche questa sembrerebbe essere più contagiosa ma non più pericolosa. Nel complesso la variante conta 21 mutazioni, nove delle quali concentrate nella spike. Anche in questo caso, gli esperti concordano sul fatto che i vaccini anti Covid dovrebbero essere efficaci. Arriviamo infine alla variante brasiliana, la B.1.1.28 riscontrata più recentemente in un caso di reinfezione. Nella seconda infezione i sintomi della donna sono peggiorati. Questa variante contiene mutazioni preoccupanti: una, in particolare, cambierebbe la forma della proteina spike all’esterno del virus in un modo che potrebbe renderla meno riconoscibile al sistema immunitario rendendo più difficile il compito degli anticorpi. Si sta studiando se questa variante possa rendere inefficaci gli attuali vaccini.

Un coronavirus, cinque (altre, n.d.a.) varianti. Ecco le mutazioni che preoccupano il mondo. Elena Dusi il 5 gennaio 2021 su La Repubblica. La proeina spike (al centro) e alcune delle sue mutazioni, nei riquadri. La spike è la punta della corona all'esterno del coronavirus. Dal ceppo inglese a quello sudafricano, dal virus lombardo al "cluster 5" emerso nei visoni. Ecco tutti i cambiamenti che Sars-Cov-2 ha accumulato, circolando per un anno in oltre 80 milioni di persone. Col tempo è diventato più contagioso. Il timore è che metta a repentaglio vaccini e anticorpi monoclonali su cui puntiamo per mettere alle spalle la pandemia. Replicandosi, il coronavirus muta. Quando crea una nuova copia del suo Rna, a volte commette degli errori. Pur avendo un sistema di "correzione di bozze" efficiente, le sviste avvengono sempre. "Con un calcolo approssimativo, diciamo che fa una mutazione per ogni persona che contagia" spiega Roberto Amato, ricercatore del Sanger Institute di Cambridge, il centro principale che in Gran Bretagna si occupa di sequenziare 10mila coronavirus a settimana. Una variazione su 30mila basi genetiche può sembrare molto poco. "Tanto più che la stragrande maggioranza delle mutazioni è insignificante" spiega Amato. Ma a volte basta un minimo cambiamento per trasformare la faccia del virus. Una mutazione può far variare, anche di poco, la proteina spike sulla superficie esterna del virus usata come chiave per penetrare nelle nostre cellule. "In quel caso il virus ottiene un vantaggio evolutivo. Il nuovo ceppo comincia a diffondersi più degli altri". Il processo è imprevedibile. "Le mutazioni sono casuali. È come se ogni volta il virus estraesse un biglietto della lotteria. Quasi sempre perde. Ma una volta ogni tanto vince il jackpot". Con 83 milioni di persone contagiate nel mondo, dall'inizio della pandemia, di biglietti della lotteria Sars-Cov-2 ne ha estratti veramente tanti. Ecco tutte le mutazioni che si sono propagate tanto da essere state osservate in laboratorio.

D614G - Tredici volte più veloce del virus di Wuhan. È stata la prima mutazione importante, in un punto della proteina spike utile per legarsi alle nostre cellule. È stata notata a fine febbraio in Nord Italia e si è diffusa in modo rapidissimo. A Houston è stato misurato che a marzo era presente nel 71% dei virus analizzati. Ad aprile era già salito in cattedra, con il 99,9% dei campioni targati D614G. Messo in laboratorio a contatto con delle cellule, il virus mutato ha mostrato di essere fino a 13 volte più rapido nella replicazione rispetto al virus originario di Wuhan. È considerato uno dei motori della seconda ondata, assai più violenta della prima. D614G non rende il coronavirus anche più letale per l'organismo umano. La proporzione delle vittime rispetto ai contagiati resta costante. Ma aumentando i contagiati, purtroppo abbiamo visto aumentare anche i decessi.

B.1.1.7 - La variante inglese che resiste anche al lockdown. Per noi è la variante inglese, per gli inglesi "la nuova variante". Riporta un numero altissimo di mutazioni contemporanee: ben 23, di cui 14 sulla proteina spike. Finora su un singolo virus (quello mutato nei visoni) ne erano state riportate al massimo 4. Il primo caso risale al 20 settembre ma Londra ha lanciato l'allarme il 14 dicembre. Desta due tipi di paure. La prima è che la spike, mutando molto, la faccia franca di fronte ai nostri anticorpi, prodotti sia dalle persone guarite che da quelle vaccinate. Questo rischio però non sembra ancora concreto (c'è forse più preoccupazione per gli anticorpi monoclonali). Il secondo allarme nasce dal fatto che una mutazione (nella posizione detta "501" della spike) è nota per aumentare la contagiosità del virus. E in questo i numeri dei contagi in Gran Bretagna, sembra confermare le previsioni fosche. Da giorni infatti il paese è abbondantemente al di sopra dei 50mila casi quotidiani. Il numero delle infezioni è in aumento soprattutto nelle zone dove il ceppo B.1.1.7 è diffuso, nel sud-est del paese. Uno studio dell'Imperial College attribuisce alla variante un aumento dell'indice di replicazione R tra 0,4 e 0,7 e in effetti, nonostante il lockdown, in questi giorni, nella Gran Bretagna sudorientale l'indice R resta superiore a 1. Il ceppo è stato trovato in altri 33 paesi del mondo, dagli Usa al Giappone all'Australia, passando anche per l'Italia. Da noi non esiste un monitoraggio genetico particolarmente attento e non sappiamo quanto la variante inglese si stia diffondendo in questi giorni. Non sembra causi forme di Covid più gravi, ma come per D614G, all'aumentare dei contagi purtroppo aumentano anche i decessi. Anche le notizie sulla diffusione nei bambini sono confuse. I contagi in Gran Bretagna sono aumentati nelle fasce d'età sotto ai vent'anni, ma per un periodo in alcune regioni le scuole sono rimaste aperte nonostante il lockdown.

N501Y - La variante sudafricana e l'allarme per i vaccini. In Sudafrica, altro paese dove i contagi sono rampanti, una nuova variante del coronavirus è stata osservata a fine ottobre nella regione del Capo, accompagnata da un numero rampante di contagi e da una carica virale più alta. Le persone contagiate con N501Y, cioè, albergano quantità superiori di virus nelle loro vie aeree rispetto a quelli contagiati con altri ceppi del coronavirus. La mutazione è sulla posizione 501 della spike ed è analoga a quella della variante inglese. Ma non sappiamo se si sia sviluppata in Sudafrica indipendentemente o se sia arrivata a bordo di un aereo.

Oltre alla mutazione in posizione 501, il ceppo sudafricano ne ha diverse altre concentrate sulla spike. Simon Clarke, microbiologo dell'università di Reading, ha dichiarato alla Reuters che per quanto riguarda i vaccini "le mutazioni aggiuntive sulla spike destano inquietudine". Anche il ministro della Salute inglese Matt Hancock lunedì si è detto preoccupato per l'efficacia delle iniezioni. Ugur Sahin, il fondatore dell'azienda tedesca BioNTech che ha messo a punto il vaccino di Pfizer, ha detto di aver già iniziato i test per verificare l'efficacia del suo prodotto sulle nuove varianti. Ci vogliono però alcune settimane per capire le caratteristiche di un nuovo virus in laboratorio.

N501T - anche in Italia trovato il virus potenzialmente più contagioso. A Brescia una mutazione nella posizione 501 della spike era emersa già ad agosto. Il virus ha subito una variazione leggermente diversa rispetto ai ceppi inglese e sudafricano, ma che potrebbe ugualmente averlo reso più contagioso. La mutazione è stata trovata da Arnaldo Caruso dell'università di Brescia e da Massimo Ciccozzi del Campus Biomedico di Roma in un paziente immunodepresso con una malattia molto lunga (si è contagiato ad aprile e il tampone è diventato negativo a novembre) rimasto sempre asintomatico. Non ci sono test di laboratorio in corso per verificare se la mutazione aumenti la contagiosità.

Cluster 5 - la variante dei visoni. In Nord Europa il coronavirus si è diffuso fin dalla primavera negli allevamenti di visoni. Questi animali sono suscettibili alla malattia come noi e negli stabilimenti vivono ammassati in spazi ristretti. Milioni di replicazioni negli animali hanno prodotto una versione del virus con quattro mutazioni, che poi è stata trasmessa all'uomo.

Ad agosto il nuovo ceppo è stato identificato negli animali e a ottobre la Danimarca ha trovato alcune centinaia di persone con la "versione del visone" (chiamata in gergo tecnico cluster 5). Le autorità sanitarie del paese hanno lanciato l'allarme sull'efficacia del vaccino, ma anche degli anticorpi delle persone guarite, ordinando la soppressione di 17 milioni di visoni allevati. Successivi studi hanno ridimensionato il rischio per la nostra immunità, né sembra che il cluster 5 si sia propagato con numeri importanti fra gli uomini. Ma i visoni sono stati il primo campanello d'allarme: ci si è accorti che il virus stava mutando, e che il problema andava monitorato con attenzione.

·        Il contagio.

All'aperto, in casa, negli ospedali: la verità sul contagio del virus. Ignazio Riccio il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. L’Arpa Piemonte, in collaborazione con il laboratorio di virologia molecolare del polo universitario San Luigi Gonzaga di Orbassano, ha pubblicato due importanti ricerche. Il Covid-19 si diffonde maggiormente al chiuso, in particolare nelle abitazioni private e nei luoghi dove non c’è un’adeguata areazione. Nelle strutture ospedaliere, anche in quei reparti dove i pazienti ricoverati hanno una carica virale alta, il virus fa meno danni, poiché il ricambio d’aria è gestito in maniera impeccabile. All’aperto, invece, ci sono pochissime possibilità, mantenendo la distanza, di ammalarsi di Coronavirus. Il centro regionale di biologia molecolare di Arpa Piemonte, in collaborazione con il laboratorio di virologia molecolare e ricerca antivirale del polo universitario San Luigi Gonzaga di Orbassano, ha pubblicato i risultati di due importanti studi effettuati a campione nel territorio piemontese. Le ricerche hanno analizzato le emissioni nell’aria del virus Sars Cov-2 da parte di pazienti con una carica virale nota. Le persone contagiate si sono esercitate a respirare, parlare o leggere a una distanza di un metro e mezzo da un apparecchio di rilevazione. L’esperimento ha evidenziato che il virus si può diffondere nell’aria, tramite le goccioline di saliva, le secrezioni respiratorie e salivari ben oltre lo spazio di sicurezza indicato dagli esperti. Un’altra verifica, come riporta il quotidiano La Stampa, ha permesso di monitorare l’aria all’interno degli ospedali del Piemonte. La scoperta è stata molto incoraggiante, poiché ha confermato una minore presenza del virus nei luoghi al chiuso dove il sistema di areazione funziona alla perfezione. I reparti di terapia intensiva, nonostante la presenza di pazienti con Covid-19, sono quelli dove il virus circola meno nell’aria. Nelle abitazioni private, al contrario, le concentrazioni di sars Cov-2 si sono rilevate più consistenti, fino a 40-50 copie genomiche del virus al metro cubo di aria. Questi valori risultano fortemente influenzabili dalle frequenze di ricambio d’aria e dal numero di soggetti positivi presenti nelle abitazioni, oltreché dallo sviluppo dei sintomi più comuni della malattia (tra cui principalmente la tosse secca). Le tecniche di campionamento messe in campo dall’Arpa Piemonte si sono avvalse dei seguenti sistemi: un impattatore centrifugo in grado di accelerare il flusso d’aria aspirato alla velocità del suono, diminuire le perdite per evaporazione, mantenere l’infettività e l’integrità delle particelle virali trasferendole direttamente in una soluzione di trasporto adeguata; un campionatore a basso volume per il filtraggio dell’aria su filtri in Ptfe, materiale che garantisce la massima capacità di cattura delle particelle virali di dimensioni comprese tra 10 e 900 nanometri; un campionatore ad alto volume per il filtraggio dell’aria su filtri in fibra di vetro o quarzo, in grado di aspirare l’intero volume di una stanza in meno di un’ora.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere 

I "superman" del Covid: ecco perché non si ammaleranno mai. Alessandro Ferro il 5 Novembre 2021 su Il Giornale. Fattori genetici ma anche immunità preesistente: ecco perché il 10% della popolazione non si ammalerà mai al Covid-19. Un esperto spiega quali sono i meccanismi. Dopo quasi due anni di Covid-19, gli studiosi di tutto il mondo stanno cercando di capire (analizzando) come mai una parte della popolazione mondiale non si ammalerà mai con il Sars-Cov-2, nemmeno in presenza di familiari o contatti prolungati con gente positiva al virus.

Quali sono le evidenze

La materia, delicata, è oggetto di analisi da uno studio coordinato dall'Università di Melbourne e dalla Fondazione per la ricerca biomedica dell'Accademia di Atene. Un primo stralcio si può leggere sulla rivista specializzata Nature Immunology. "Le infezioni da Sars-Cov-2 mostrano un'enorme variabilità interindividuale, che va da infezioni asintomatiche a malattie potenzialmente letali", scrivono i ricercatori, sottolineando come il 20% dei casi Covid gravi (chi finisce in terapia intensiva) sono dovuti a "variazioni congenite e autoanticorpi diretti contro gli interferoni di tipo I (IFN)" mentre sono tutt'ora sconosciuti i fattori genetici e immunologici che fanno resistere all'infezione.

Ecco il segreto dei resistenti

Intere famiglie con il virus, anche se magari asintomatici o lievemente sintomatici, ed un convivente totalmente immune. Ma come è possibile? Intanto la genetica. "Abbiamo proposto una strategia per il reclutamento e l'analisi genetica di individui che sono naturalmente resistenti all'infezione del virus", sottolineano i ricercatori, che sono già al lavoro per comprendere i meccanismi che "causano la resistenza congenita all'infezione". I meccanismi attraverso i quali i superman del virus riescono a non contagiarsi sono due: il primo si chiama "immunità preesistente": "alcune persone, ad esempio, hanno resistito al Covid perché avevano contratto una precedente infezione dovuta ad altri Coronavirus", ha affermato a Repubblica il Prof. Matteo Baldanti, virologo del San Matteo di Pavia. Praticamente, essere stati infettati precedentemente con un virus della stessa famiglia conferisce protezione anche nei confronti del Sars-Cov-2. Lo stesso professore racconta che, da un campione di sangue prelevato tre anni prima, ha scoperto di aver contratto un Beta Coronavirus chiamato HKU1 che lo ha reso immune al Covid-19 perché si tratta di due virus "parenti".

Il secondo motivo è, come anticipato, dovuto alla genetica, più che altro a tratti genetici che risultano "essere poi favorevole nei confronti della nuova infezione. Ad esempio, individui che hanno una densità di recettori Ace2 e Trmpss (proteine) più bassa risulterebbero meno infettabili. Oppure può accadere che alcuni soggetti abbiano sia una variazione genetica che protegge dal Covid", aggiunge Baldanti. Ma come si fa a sapere se si è super immuni o no? È quasi impossibile a meno che non si facciano ricerche come quella del prof e del suo campione di sangue. Ad oggi, gli immuni naturali al virus sono stimati nel 10% circa.

La risposta dall'Hiv

Per scoprire la "tempra" dei resistenti al Covid si può fare riferimento all'Hiv-1: perchè alcuni lo contraggono ed altri no? I ricercatori hanno scoperto che avere più o meno recettori di un certo tipo fa aumentare o diminuire la resistenza a questa malattia. "Sulla stessa linea - sottolineano - proponiamo una strategia per identificare, reclutare e analizzare geneticamente individui che sono naturalmente resistenti all'infezione da Sars-Cov-2".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Perché il Covid si è diffuso più rapidamente in alcune città rispetto ad altre. Federico Giuliani su Inside Over il 28 settembre 2021. Per quale motivo alcune metropoli sono state travolte dalla pandemia di Covid in maniera brutale, mentre lo stesso fenomeno non si è verificato, con la stessa intensità, all’interno di altri centri urbani? Non è un caso che Milano sia stata colpita più di Monaco di Baviera, Manchester, Friburgo o Southampton. E la colpa, a differenza di quanto si possa pensare, non è affatto da imputare all’atteggiamento mostrato dai cittadini, magari poco ligi nel rispettare i provvedimenti presi dalle autorità, tra cui indossare la mascherina o mantenere il distanziamento sociale. La spiegazione, come hanno cercato di ricostruire gli studiosi del Centro per la pianificazione urbana dello Zhejiang, in Cina, è ben diversa, e coincide con la forma urbana di ogni singola città. Nello studio intitolato Role of urban planning characteristics in forming pandemic resilient cities, e pubblicato su Pubmed, vengono analizzati nel dettaglio gli aspetti che agevolerebbero la violenta diffusione del contagio in determinate città a discapito di altre.

I fattori che contano (e il caso di Milano). Lo studio cinese ha preso in esame 30 città europee, tra cui tre italiane: Milano, Torino e Genova. Ebbene, il capoluogo lombardo sarebbe stato particolarmente vulnerabile al Covid, soprattutto nei primi mesi dell’emergenza sanitaria, a causa di un mix formato da diversi fattori. Innanzitutto, la maggiore o minore trasmissione del Sars-CoV-2 tra gli abitanti di un centro urbano dipenderebbe niente meno che dalla struttura della metropoli. In particolare, le città europee considerate sono state suddivise in tre famiglie a seconda della loro struttura: lineare, a griglia o radiale. In quest’ultimo caso – emblematico di Milano – le città presenterebbero una migliore connessione interna, un aspetto che agevolerebbe la diffusione incontrollata del virus. Secondo alcune stime, infatti, in quel di Milano più del 40% degli spostamenti avverrebbe mediante il trasporto pubblico. Sappiamo da altri studi che, durante i primi mesi della pandemia, l’utilizzo dei suddetti mezzi di trasporto è stato uno dei fattori che più ha inciso sulla diffusione del coronavirus. Non tanto perché sia più facile infettarsi al loro interno, quanto per l’incessante movimento di ingenti quantità di persone, ed è proprio il movimento il principale meccanismo che consente al virus di propagarsi in ogni dove. Insomma, il virus è riuscito a circolare più velocemente e facilmente nelle città in cui la popolazione ha fatto un grande utilizzo dei mezzi di trasporto. Ma non è finita qui, perché bisogna anche considerare il collegamento del singolo centro urbano con le aree più lontane, tanto a livello regionale che internazionale. Più il reticolato delle connessioni infrastrutturali era fitto, e più il virus è stato in grado di contagiare persone, che a loro volta hanno contagiato altre persone in un circolo pressoché infinito.

I fattori che non contano. Strano ma vero. Due fattori che, stando al medesimo studio cinese, influirebbero solo in forma minore sulla diffusione del virus in una città sono il numero di abitanti e la densità abitativa della stessa. La riprova arriverebbe dal confronto tra metropoli con indicatori tra loro molto simili, le quali hanno fatto registrare una trasmissione del Sars-CoV-2 assai differente. Londra e New York hanno dovuto fare i conti con tassi di diffusione enormi se paragonati ai valori rilevati a Hong Kong, Seul e Singapore. Al contrario, conta più dei due fattori citati, ma sempre meno dei trasporti, la presenza di aree sovrappopolate. “La diversità riscontrata nelle varie caratteristiche urbane è, in larga misura, correlata al fatto che alcune città sono più vulnerabili di altre”, si legge nello studio. “La connettività all’interno delle città attraverso il trasporto pubblico è risultata essere il possibile fattore principale di questo studio, ed è seguita dalla dimensione della popolazione e dalla densità. Anche la morfologia urbana sembra contribuire a tale epidemia. Sia le città radiali che quelle a griglia sono associate a tassi di infezione più elevati rispetto alle città lineari”, hanno quindi concluso gli autori del paper.

Covid: i sette sintomi che (tutti insieme) predicono l’infezione e rendono necessario il tampone. Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2021. Un nuovo studio dell’Imperial College di Londra su più di un milione di persone ha scoperto che ci sono segnali da Covid che — quando compaiono insieme — danno positività al tampone nel 70-75% dei casi. L’indicazione per le linee guida. Quali sintomi dovrebbero spingermi a fare un tampone per diagnosticare un’eventuale infezione da Covid-19? Sono sette principali e ci devono essere tutti insieme. O meglio, se sono tutti presenti, la probabilità di avere esito positivo al tampone per il coronavirus è del 70-75%.

Lo studio e i dati. Lo ha stabilito una ricerca appena pubblicata sulla rivista PLOS Medicine condotta da studiosi dell’Imperial College di Londra su 1.147.345 volontari con dati raccolti in 8 cicli di test condotti tra giugno 2020 e gennaio 2021 nell’ambito dello studio «Real-time Assessment of Community Transmission-1» (REACT-1). I risultati dei tamponi effettuati su queste persone sono stati confrontati con i sintomi che si erano (eventualmente) manifestati una settimana prima del test con la PCR.

Le linee guida e i sette sintomi. Sette sintomi, cioè perdita o cambiamento dell’olfatto, perdita o cambiamento del gusto, febbre, tosse persistente, brividi, perdita di appetito e dolori muscolari sono stati associati — quando percepiti insieme — a tampone positivo. I primi 4 di questi sintomi sono attualmente utilizzati nel Regno Unito per determinare l’idoneità per ricevere un tampone. «Al fine di migliorare i tassi di positività al tampone molecolare e di conseguenza di migliorare il controllo della trasmissione del virus, proporremmo di estendere la lista dei sintomi usati come triage a tutti e 7 i sintomi che abbiamo identificato», affermano gli autori. Il pericolo, continuano gli scienziati, è che «molte persone con Covid non verranno testate — e quindi non si autoisoleranno —- perché i loro sintomi non corrispondono a quelli utilizzati nelle attuali linee guida sulla salute pubblica per aiutare a identificare le persone infette». La difficoltà di diagnosi del coronavirus ci accompagna dall’inizio della pandemia: i sintomi sono spesso gli stessi di altre forme influenzali. «Comprendiamo che sono necessari criteri di test chiari e che includere molti sintomi che si trovano comunemente in altre malattie (come l’influenza stagionale) potrebbe rischiare che le persone si autoisolino inutilmente. Spero che i nostri risultati sui sintomi più diffusi contribuiscano a ottimizzare il rilevamento delle persone infette», concludono da Londra.

Distinguere il Covid dai malanni stagionali. Mentre lo scorso anno le sindromi simil-influenzali erano quasi assenti, complici le numerose quarantene scolastiche e i lockdown che si sono susseguiti in zona rossa, per quest’autunno si prevede una maggiore circolazione di virus, come sta succedendo con il virus respiratorio sinciziale (RSV), bronchioliti, polmoniti o altri virus respiratori. Come distinguere i sintomi? L’unico modo certo per fare una diagnosi differenziale è eseguire il tampone, ma, per decidere se eseguirlo, ci si può aiutare con l’elenco di questi sintomi, proprio perché in genere, se i sintomi si presentano singolarmente (solo raffreddore, solo febbre, solo vomito e diarrea) è verosimile che siamo di fronte a malanni di stagione. Ne abbiamo parlato con il dottor Gianvincenzo Zuccotti, direttore del reparto Pediatria all’ospedale Buzzi di Milano, in un focus sui bambini nell’articolo linkato. Le differenze tra persone, però, possono essere notevoli e l’arrivo della variante Delta ha anche leggermente modificato la frequenza dei sintomi e la combinazione: più a carico dell’apparato respiratorio superiore come mal di gola, naso che cola e mal di testa e raramente anosmia.

·        I Test. Tamponi & Company.

Sara Bettoni per il "Corriere della Sera" il 21 dicembre 2021. Segno di riconoscimento: la fila fuori dalla porta. Sempre più lunga, man mano che si avvicina il Natale e i numeri dei contagi lievitano. Così si distingue la farmacia che fa tamponi anti-Covid da quella che ha scelto di tenersi al di fuori del girone pandemico, ottenendo così una buona dose di stress (e di incassi) in meno. Dalla Lombardia al Lazio, dalla Campania al Piemonte, la ricerca degli ultimi regali si mescola a quella dei test. La caccia non sempre è fruttuosa. «La richiesta è aumentata dal 15 ottobre, quando il green pass è diventato obbligatorio per lavorare, e ancora di più dal 6 dicembre, col debutto del super green pass - dice Annarosa Racca, alla guida di Federfarma Lombardia -. Alcuni colleghi hanno abolito le prenotazioni per stare al passo con le esigenze dei cittadini». Altri hanno le agende piene fino a gennaio. Le farmacie sono il punto di riferimento per i non vaccinati che devono ottenere la certificazione verde, i dubbiosi che vogliono una certezza in più prima di incontrare amici e parenti. Un tampone antigenico, 15 euro e la risposta arriva nel giro di una decina di minuti. In coda anche tanti studenti con un compagno di classe positivo: hanno diritto all'analisi gratuita negli hub pubblici, ma spesso preferiscono quella a pagamento sotto casa. A Milano è un'impresa ardua prenotare un appuntamento prima del 2022. A Torino i farmacisti hanno macinato 28 mila test solo ieri mattina, 46 mila nel weekend contro i 42 mila del fine settimana precedente. In Veneto dal 15 ottobre a oggi la media è di 330 mila bastoncini analizzati a settimana. A Roma, dove fino a qualche giorno fa si riusciva a trovare posto, i farmacisti compassionevoli alzano la saracinesca mezz' ora prima per accogliere i clienti disperati. In Campania, secondo l'Anci, già a novembre si spendevano 756 mila euro al giorno per l'esecuzione di molecolari e antigenici. Figuriamoci ora. Che fare, dunque, di fronte alle file interminabili sotto le croci verdi? La prima reazione è il passaggio ai test fai-da-te, benedetti dalle recenti parole del governatore del Veneto Luca Zaia. «Per le feste, pranzi e cene, anche per i nuclei familiari diversi che si riuniscono a cena, che sono estranei da un punto di vista epidemiologico, consigliamo se possibile di fare un test rapido, che sarà anche contestato ma è meglio che senza» ha detto venerdì scorso, accompagnando l'invito con una dimostrazione pratica in diretta (esito: negativo). Nel giro di qualche giorno gli scaffali di farmacie e supermercati sono stati svuotati e pure a Milano sta diventando difficile procurarsi i cotton fioc che rintracciano il virus. «Esauriti. Prossime forniture dopo Natale» spiega un presidio della periferia Ovest. Un altro dell'area Sud parla di vendite passate da poche decine a 300-400 al giorno. Altro inghippo, gli auto-test non sono validi per il tracciamento delle autorità sanitarie. Per confermare il risultato positivo tocca mettersi alla ricerca di un laboratorio. Tanto più che questi prodotti possono non essere affidabili, come sottolineano alcune strutture del Lazio. Da qui la seconda tendenza: l'aumento dei tamponi molecolari fatti in via privata. Costano di più, bisogna avere pazienza per conoscerne l'esito - da qualche ora a due giorni -, ma danno più certezze rispetto all'antigenico. Il Centro Medico Santagostino, con sedi a Milano, a Bergamo e a Bologna, registra una crescita della domanda di questo tipo di servizio nelle ultime settimane, di pari passo con la risalita della curva epidemica. Il test veloce, invece, rimane la strada preferita per ottenere il green pass. La pressione è forte anche sulle strutture pubbliche e private accreditate, a cui vengono indirizzati i contagiati e i loro contatti stretti per i test gratuiti. Nel Milanese e nel Lodigiano circa il 90 per cento delle disponibilità viene saturata. In Veneto si sono allungati i tempi per ricevere i risultati. Il sistema per ora regge, ma la fatica si sente.

Diodato Pirone per il Messaggero il 28 dicembre 2021. Gettonatissimo come regalo del Natale 2021. Soggetto ad un accaparramento che neanche la farina durante una guerra. Desiderato da decine di migliaia di italiani in fila davanti alle farmacie e agli hub. Non c'è dubbio: è il tampone rapido l'oggetto must delle vacanze di fine anno. Per lo più viene fatto in farmacia anche se è un'impresa che costa ore d'attesa e in alcune Regioni ormai si prendono appuntamenti a sei giorni. Ma va molto di moda anche quello fai da te che si trova, o meglio si trovava prima dell'esaurimento scorte, in alcuni supermercati.

C'È CHI NE APPROFITTA I prezzi? Non ne parliamo. Qui e là qualcuno se ne approfitta, come con le mascherine nel marzo-aprile del 2020, ma in genere il prezzo calmierato di 15 euro (8 per i minori) resiste anche se in tanti al farmacista ne chiedono qualcuno fai da te da portare a casa. Se ne trovano infine su internet ma nella maggior parte dei casi di qualità non certificata, cioè pessima. Ma vale davvero la pena dannarsi l'anima per un tampone rapido? A giudicare da quello che dicono gli esperti proprio no. Per la semplice ragione che questo strumento non fa bene il proprio mestiere di cacciatore di Sars CoV-2. Per due motivi. Primo: il tampone rapido, anche quello di ultima generazione, nei primi giorni dell'eventuale contagio non intercetta il virus. Secondo: i test antigenici (altro nome dei rapidi) che danno esiti sbagliati, positivi o negativi che siano, oscillano intorno al 40% del totale. Non a caso proprio nelle ultime ore è emerso un caso clamoroso di falso negativo che riguarda il conduttore televisivo Nicola Savino: due giorni fa ha fatto di mattina un rapido risultato negativo e, sentendosi poco bene, nel pomeriggio un molecolare che ha dato esito positivo. L'episodio è stato raccontato pubblicamente dal cantante Jovanotti con la seguente sintesi:«Questi rapidi non è che siano così efficaci».

FRETTA INUTILE È oramai dimostrato che dopo un contatto sospetto (per più di 15 minuti) è di fatto inutile precipitarsi a farsi infilare un lungo cotton fioc nel naso per un test, antigenico o molecolare che sia. Come è noto da mesi, infatti, nei primi due giorni il virus non è rilevabile. Poi, dal terzo giorno, diventa rintracciabile solo per i tamponi molecolari e solo successivamente dopo 72 ore, circa anche per quelli rapidi, che però come detto possono fare cilecca. A complicare questo scenario la variante Omicron ha aggiunto un'ultima pennellata: la velocità di replicazione del virus è rapidissima, e dunque un contagiato che potrebbe ricevere un test negativo la mattina potrebbe risultare positivo nel pomeriggio o comunque poche ore dopo. Si tratta di elementi provati da innumerevoli studi. Citiamo per tutti uno degli ultimi, pubblicato sulla rivista Future virology, effettuato su un campione di 332 pazienti: ha confermato che il rapido sbaglia nel 40% dei casi. Già ma cosa dicono gli esperti? «La verità è che molti italiani usano il test rapido come la coperta di Linus, per avere una sensazione di sicurezza. Ma il test non previene: ti puoi contagiare un minuto dopo aver controllato l'esito del tampone», sospira l'epidemiologo Pierluigi Lopalco. Che prosegue: «Occorre ancora una volta muoversi con intelligenza: usare la mascherina il più spesso possibile e fare i molecolari quando ci si vuole togliere davvero il dubbio. Gli antigenici possono avere un ruolo quando si cerca il virus a strascico per esempio in una scuola o su un luogo di lavoro affollato». La gran parte dei medici, infine, sconsiglia vivamente il tampone fai-da-te, quello fatto in casa, innanzitutto perché non tutti utilizzano il bastoncino con perizia e poi perché il risultato del test resta riservato. In sostanza se l'esito è positivo con questo strumento è poi la singola persona che decide di mettersi in isolamento, come prescritto dalla legge, oppure no. 

Stefania Chiale per il "Corriere della Sera" il 3 dicembre 2021. Si chiamano Max e Berla, sono due pastori tedeschi di due anni e mezzo, mai utilizzati per altre attività di ricerca e oggi specializzati nell'individuazione di persone infette da Covid-19. Il risultato è frutto di una sperimentazione iniziata ad aprile e ancora in corso tra l'università degli Studi di Milano, l'Arma dei carabinieri e l'ospedale Sacco. I risultati (i primi in Europa) potrebbero, se il comando generale desse parere favorevole all'impegno delle unità cinofile in questo ambito, offrire uno strumento straordinario nelle situazioni dove vi sia afflusso di grandi masse di persone, come concerti, manifestazioni, aeroporti o stadi. 

LA COLLABORAZIONE 

La scorsa primavera l'università degli Studi di Milano e l'Arma dei carabinieri hanno sottoscritto un protocollo di collaborazione per l'impiego di cani del Centro cinofili carabinieri di Firenze nell'individuazione di soggetti affetti da Covid-19. La fase esecutiva del progetto è stata affidata al laboratorio di microbiologia, virologia clinica e diagnostica delle bioemergenze del Sacco diretto dalla professoressa Maria Rita Gismondo e al Comando interregionale carabinieri Pastrengo. «Questo è il risultato intermedio di una collaborazione tra istituzioni - ha commentato ieri Gismondo presso il Comando provinciale dei carabinieri di Milano -: parlo a nome dell'università e dell'ospedale Sacco che ha ospitato la sperimentazione. Entrambe felicissime della collaborazione con l'Arma dei carabinieri».  

LA SPERIMENTAZIONE 

Come si è svolta la sperimentazione dal punto di vista scientifico? «L'ospedale Sacco - ha spiegato la direttrice - ha fornito delle garze impregnate di sudore prelevato a malati di Covid ricoverati nel reparto di malattie infettive, ovviamente assicurando un percorso di totale sicurezza sia per gli operatori che per i cani». Quindi «gli operatori hanno addestrato i cani a riconoscere le garze dei pazienti positivi distinguendoli da quelli negativi e dopo, mirabilmente, i cani sono diventati più efficienti dei nostri stessi strumenti: prima ancora che il tampone di un paziente fosse dichiarato positivo il cane l'aveva già individuato come soggetto positivo al Covid sedendosi accanto». Escludendo ovviamente «una sostituzione agli strumenti che abbiamo, è auspicabile nel futuro poter usare i cani anti-Covid come supporto ovunque vi siano ingressi di masse di persone», ha commentato Gismondo, sottolineando che «è la prima volta che si hanno questi risultati in Europa».  

L'IMPRINTING OLFATTIVO 

Da aprile a ottobre sono stati utilizzati 427 campioni di sudore, appartenenti a 127 pazienti, di età compresa tra i 21 e gli 86 anni, il 54% di sesso femminile e il 46% di sesso maschile. I cani hanno individuato i positivi, a prescindere dal sesso e dalla carica virale: il loro impiego si è focalizzato sulla individuazione e memorizzazione dello specifico odore da ricercare. Quindi è seguita la fase di dissociazione degli altri odori presenti nel campione. Realizzata la fase dell'imprinting olfattivo dei due cani, si è passati alle prove su individui positivi al Covid-19, tutti volontari, presso l'hub tamponi del Sacco.  Quest' ultima fase è stata particolarmente utile perché superava il contesto addestrativo simulato per evidenziare già uno scenario reale. I cani hanno un numero di recettori olfattivi che è 40-45 volte superiore rispetto a quello umano. «Il principio per cui il paziente possa alterare il suo odore è presente in tantissime malattie - spiega ancora Gismondo -: avevamo una quasi certezza che potesse accadere anche col Covid, ma bisognava sperimentare che il cane potesse distinguerlo». Ora sappiamo con certezza che può farlo.

Test rapidi anti-Covid inaffidabili, lo studio del Ceinge accusa: “Un risultato su due è errato, sono da evitare”. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2021. Mentre il governo Draghi potrebbe modificare e ridurre la validità dei tamponi per ‘spingere’ i cittadini alla vaccinazione, con un calo a 48 ore per quello molecolare e a 24 ore per l’antigenico, un nuovo studio italiano mette sotto accusa l’affidabilità dei test rapidi. Test tra i più usati per avere un risultato rapido, ideali ad esempio per effettuare screening di massa su una popolazione ridotta, ma che da tempo erano finiti nel mirino degli esperti per la loro scarsa affidabilità. A bocciare il loro impiego è Andrea Crisanti, professore ordinario di microbiologia all’Università di Padova, che ricorda come i testi rapidi antigenici utilizzati nel ‘suo’ Veneto “si lasciano sfuggire tre positivi ogni dieci, con una percentuale di falsi negativi che si attesta al 30%”. Ma un nuovo studio italiano, condotto dalla Task force Coronavirus attiva al Centro di biotecnologie avanzate Ceinge di Napoli, aggiunge altri dati che evidenziano la scarsa affidabilità del test rapido, peggiorandone il quadro: “Dà al test rapido una sensibilità pari al 50%, ossia riesce a identificare un caso positivo su due, e i test salivari, sia quello molecolare classico sia quello antigenico rapido, mostrano una sensibilità compresa fra il 20% e il 30%”. Lo studio di cui parla Crisanti è appunto quello del Ceinge di Napoli, riportato oggi da Repubblica. Una ricerca che ha interessato pazienti Covid positivi in diverse fasi della malattia ricoverati presso i reparti dedicati dell’Aou Federico II. Nella relazione firmata dai responsabili del laboratorio della Task force coronavirus, Ettore Capoluongo, Giuseppe Castaldo e Massimo Zollo, viene evidenziato come i test rapidi antigenici “per ora non offrono sufficienti garanzie in termini di percentuale di casi positivi identificati”. Il loro impiego, spiega il Ceinge di Napoli, “sarebbe assolutamente da evitare, soprattutto se il prelievo oro-naso-faringeo venisse effettuato da personale medico non adeguatamente addestrato, se i test venissero eseguiti al di fuori del contesto di un laboratorio, da parte di professionalità non esperte nella interpretazione del dato e dei possibili errori metodologici, e senza un adeguato programma di controllo di qualità che il laboratorio comunemente esegue”. A bocciarne l’impiego era stato nei giorni scorsi anche Walter Ricciardi, consulente del ministro della Salute Roberto Speranza, che individuava nei test rapidi “il punto debole” della strategia anti-Covid del governo italiano. Il tampone antigenico rapido “nel migliore dei casi non certifica la positività almeno del 30% dei soggetti” e quindi “è il tallone d’Achille del Green pass”. Per questo secondo Ricciardi, intervenuto a ‘The Breakfast Club’ di Radio Capital, la soluzione per convincere le persone a vaccinarsi potrebbe essere “irrigidire le misure per il rilascio del Green pass”.

I due indagati sfruttavano anche la manodopera di quattro minorenni. Truffa dei tamponi rapidi. Nella fabbrica 30mila test sequestrati e quattro minorenni a lavoro. Redazione su Il Riformista il 23 Agosto 2021. Bastava cambiare il bugiardino dalla lingua inglese a quella italiana e le oltre 30mila confezioni dei tamponi rapidi originariamente destinati al mercato olandese sarebbero state vendute nel mercato illegale di Roma. In un capannone privato in località Monte Casale nel Comune di Rignano Flaminio un uomo di 39 anni e una donna di 72 sfruttavano la manodopera di 38 persone, tutte italiane, compresi quattro minorenni, per trasformare tamponi destinati al mercato olandese con foglietto esplicativo scritto in inglese in prodotti da commercializzare invece sul mercato italiano semplicemente sostituendo il documento in lingua italiana. All’operazione hanno preso parte i carabinieri della compagnia di Bracciano insieme con il Nas dell’Arma che hanno perquisito la struttura e identificato tutte le persone. I due indagati per “tentata frode in commercio di tamponi rapidi per l’individuazione Covid-19”, insieme a un 44enne, sono anche accusati di aver impiegato manodopera abusiva e peraltro di minore età. Si indaga ora per scoprire i canali di vendita sul territorio romano e nazionale dei tamponi visto che ne sono stati sequestrati più di 17mila ancora con bugiardino in olandese e altri 12.000 già pronti in italiano. Inoltre sono stati trovati sacchi pieni di altri foglietti in inglese.

Il nuovo Covid-test salivare pronto in un'ora. "Costa 15 euro, è preciso come i molecolari". Antonio Caperna il 9 Agosto 2021 su Il Giornale. Facile da usare, fornisce risultati che possono essere letti da una app. Ha identificato i pazienti positivi nel 96% dei casi e quelli sani nel 95%. La scelta del nome racchiude già l'obiettivo da raggiungere: Scherlock vuole scoprire il «colpevole» di questa pandemia. Il dispositivo diagnostico, creato dai ricercatori del Wyss Institute for Biologically Inspired Engineering dell'Università di Harvard, del Massachusetts Institute of Technology (Mit) e del General Hospital e Children's Hospital di Boston si chiama, infatti, «miScherlock» ed è basato sul metodo Crispr, che consente di testare entro un'ora la propria saliva per il coronavirus e anche le varianti. Facile da usare, fornisce risultati che possono essere letti e verificati da un'App per smartphone. Nella sperimentazione ha individuato con successo 3 diverse varianti di Sars-CoV-2 e può essere rapidamente riconfigurato per rilevarne di nuove come la Delta. Altra peculiarità innovativa - e non poteva essere diversamente viste le prestigiose strutture di ricerca - è che il dispositivo può essere assemblato con una stampante 3D e con componenti disponibili per circa 15 dollari ma con il riutilizzo dell'hardware si riduce il costo dei singoli test a 6 dollari ciascuno e con la diffusione si punta ad appena 3 dollari. Quindi test della saliva per niente invasivi, facili da fare a casa ed economici. «Con miSherlock si elimina la necessità di trasportare i campioni dei pazienti in una postazione di analisi centralizzata così si semplificano notevolmente le fasi di preparazione dei campioni, offrendo a pazienti e medici un quadro più rapido e accurato, fondamentale durante una pandemia in evoluzione», afferma Elena de Puig, del Mit e coautrice dello studio pubblicato su Science Advances. Per la diagnostica il team ha puntato su un particolare metodo (Specific High sensitivity Enzymatic Reporter unLOCKing: Sherlock), ovvero forbici molecolari di CRISPR: si taglia l'Rna del virus in una regione specifica (nucleoproteina), conservata in più varianti del coronavirus. Quando le forbici molecolari (un enzima chiamato Cas12a) si lega e taglia con successo il gene della nucleoproteina, vengono tagliate anche le sonde di Dna a singolo filamento, producendo un segnale fluorescente. Inoltre sono stati creati anche altri test per scoprire le mutazioni alfa, beta e gamma. «Bisogna tenere presente molti passaggi nella diagnosi del virus, dalla conservazione del campione e la protezione del rischio di infezione dell'operatore fino all'estrazione e amplificazione - evidenzia Xiao Tan, del Massachusetts General Hospital - inoltre la saliva non trattata presenta varie sfide a cominciare dagli enzimi, che degradano varie molecole, producendo un alto tasso di falsi positivi». Per questo i ricercatori hanno aggiunto alla saliva sostanze chimiche, riscaldando il campione per 3 minuti e incorporato una membrana porosa, per intrappolare l'Rna sulla sua superficie. Infine per integrare la preparazione del campione di saliva e la reazione Sherlock in un'unica diagnostica, il team ha progettato un semplice dispositivo alimentato a batteria con due camere: una di preparazione del campione riscaldata e una camera di reazione non riscaldata. Facendo passare il campione salivare da una camera all'altra, grazie all'ausilio di un filtro si ottiene la reazione e compare un segnale fluorescente. I ricercatori hanno testato il loro dispositivo diagnostico su campioni clinici di saliva di 27 pazienti Covid e 21 sani e hanno scoperto che miSherlock ha identificato correttamente i pazienti positivi il 96% delle volte e quelli senza la malattia nel 95% dei casi. Infine la scelta di aggiungere un'App per l'interpretazione automatizzata e la refertazione da remoto, nasce proprio dal desiderio di toccare fasce di popolazione con risorse limitate ma dove è disponibile comunque un servizio di telefonia mobile anche in aree lontane e difficili da raggiungere. Antonio Caperna

Da blitzquotidiano.it il 31 maggio 2021. Sugli scaffali dei supermercati arriva anche il tampone antigenico, in vendita come è già avvenuto per i prodotti per la sanificazione e le mascherine. Andando a fare la spesa sarà quindi possibile comprare il tampone antigenico da utilizzare poi da soli a casa. Massimo 3 tamponi a scontrino e risultato in 10-15 minuti.

In quali supermercati si può comprare il tampone antigenico. Come riporta Il Corriere della Sera il tampone antigenico si può comprare nei supermercati Coop. In Toscana per esempio, alla Unicoop di Firenze, i kit sono in vendita già da alcuni giorni. Il limite massimo di acquisto di 3 pezzi per scontrino è previsto anche da Esselunga dove si possono acquistare sia gli autotest sierologici Covid-19 sia tamponi rapidi antigenici. Dalla Coop all’Esselunga, il kit in vendita al supermercato è un tampone nasale del tutto simile a quello che viene effettuato in farmacia. È necessario inserire il tampone nel naso e poi sottoporlo a un reagente per avere nel giro di pochi minuti una diagnosi di negativo o non negativo. Il test antigenico rileva l’infezione in corso e il risultato si ottiene in 10-15 minuti.

Anche nei centri Esselunga. Nella newsletter di Esselunga è specificato ai clienti che, attualmente, i self test sierologici non sono disponibili nei negozi laESSE e nei negozi Esselunga di Milano viale Papiniano, viale Piave, viale Tibaldi; di via Manfredini a Piacenza; di via Verdi a Parma; di via Gentile a Montecatini; di via Milanesi a Firenze. Nei negozi di Coop Alleanza 3.0, invece, sono in vendita autotest sierologici Covid-19 esclusivamente nei Corner Salute.

L. De Cic. per “il Messaggero” il 7 maggio 2021. Per vendere i test sierologici al doppio della tariffa calmierata, c' è chi spacciava il prezzo gonfiato per quello fissato dalla Pisana. Come a dire: se il costo di listino è alto, la colpa è della Regione. Tutto falso. «Per il test qualitativo, il prezzo dell' esame è di 45 euro, come stabilito dalla Regione Lazio per evitare fenomeni speculativi», si leggeva ancora ieri, con sprezzo del pudore, sul sito di un laboratorio di analisi del Torrino. Anche se la vera tariffa regionale, per il sierologico, è di 20 euro. Meno della metà. L' assessorato alla Sanità del Lazio ha già avviato un' indagine. E ha messo nel mirino 10 centri privati. Le segnalazioni sono state spedite ai carabinieri del Nas, che da tempo tengono d' occhio le oscillazioni anomale dei prezzi dei tamponi. Solo nelle ultime due settimane, i militari hanno messo a segno oltre 30 blitz tra farmacie e laboratori. Tra le irregolarità venute fuori, c' è anche una rivendita che non chiedeva documenti ai pazienti. Una scorrettezza molto pericolosa, perché così facendo, si è scoperto, sono stati annotati nei registri nomi falsi. Fossero stati positivi, sarebbe stato impossibile rintracciarli. I test Covid dai privati sono stati sdoganati a ottobre. L' iniziativa ha avuto il merito di allargare l' offerta in un momento in cui i drive-in delle Asl, da soli, erano in sovraccarico, con tempi d' attesa record. Per evitare una giungla di offerte, la Regione ha deciso subito di calmierare le tariffe: 20 euro per il sierologico, 22 per il tampone antigenico. La maggior parte dei centri ha rispettato i parametri, ma alcune strutture se ne sono infischiate. All' inizio il gioco al rialzo interessava principalmente i tamponi rapidi. Ora invece le speculazioni si concentrano sui sierologici, il prelievo che individua gli anticorpi. «Le richieste sono in aumento, molti cittadini chiedono il sierologico prima di fare il vaccino, per sapere se hanno avuto il Covid, oppure dopo, per vedere se si sono immunizzati», spiegano dall' Unità di crisi del Lazio. Qualcuno ha fiutato il business ed è arrivato a piazzare un sierologico a 82 euro. Quattro volte tanto rispetto alla tariffa massima. È un caso limite? No. Almeno altri 9 centri sono stati segnalati dalla Pisana per anomalie sui costi. Un laboratorio di San Giovanni offre il test degli anticorpi a 55 euro. Stesso prezzo in un centro d' analisi sulla Flaminia. Una clinica a Villa Gordiani vende il sierologico a 45 euro. È una materia delicata, i confini sono labili dal punto di vista prettamente legale. La Regione, dall' estate scorsa, ha stabilito un prezzo massimo, ma 4 giorni fa il Tar ha dato ragione a un manipolo di strutture che aveva fatto ricorso: «Stabilire il costo di una prestazione privata s' inserisce nella libertà di concorrenza», hanno sentenziato i giudici. La Pisana ha già annunciato appello al Consiglio di Stato. Per l' assessore alla Sanità, Alessio D' Amato, «offrire un test a 82 euro è un furto, speculare sul virus è vergognoso».

Covid, inchiesta sul business dei tamponi: De Luca denuncia "Repubblica". Alessio Gemma su La Repubblica il 17 aprile 2021. Il presidente della Regione presenta alla Procura una querela per quattro servizi pubblicati sul nostro giornale dal 5 al 17 aprile 2020. Da quelle notizie è partita l'indagine che ha portato alle perquisizioni e agli avvisi di garanzia per i vertici dell'Istituto Zooprofilattico e di Ames. L'inchiesta giornalistica non riguardava né il suo ruolo, né la sua persona. Ma il presidente della Regione si è sentito offeso dalla ricostruzione della vicenda, tuttora non chiara, che riguardava il via ai tamponi per i privati, e i rapporti tra Istituto Zooprofilattico (Izsm) e Ames: ed ha deciso di querelare Repubblica. Per il governatore, l'edizione napoletana di questo giornale avrebbe diffamato la Regione che lui "rappresenta". Ed ha presentato alla Procura querela per quattro servizi firmati dall'inviata Conchita Sannino, pubblicati dal 5 al 17 aprile del 2020. Al centro dei "pezzi" incriminati, soprattutto, l'inchiesta sul business dei tamponi per il Covid che ha fatto luce sui rapporti tra l'istituto pubblico di Portici e il centro laboratorio di polidiagnostica specialistica di Casalnuovo. Si tratta degli stessi elementi acquisiti subito dopo la pubblicazione dalla Procura di Napoli. Che - nello stesso aprile 2020 - ha aperto l'indagine per accertare l'esistenza di eventuali reati. Poco dopo, gli inquirenti inviano carabinieri e finanzieri ad acquisire carte nei vari siti. Ad agosto, l'ufficialità dei primi nomi sotto inchiesta. Vengono iscritti nel registro degli indagati: il direttore generale dell'Izsm, Antonio Limone, diventato nel frattempo responsabile del Piano screening tamponi di tutta la Campania; il responsabile del laboratorio Ames Antonio Fico, e un consulente factotum dello stesso Izsm, Pellegrino Cerino. Reato ipotizzato: turbata libertà degli incanti. Il presidente De Luca si è sentito danneggiato - stando alla sua querela - non dai nodi sull'utilizzo di funzioni e denaro pubblico, ma dalla questione sollevata dal quotidiano. Per De Luca, "tutta l'inchiesta giornalistica ruota intorno ad accuse esplicite, destituite di fondamento, evocative di scambi di favori e pratiche collusive avvenute con la complicità della Regione". A quell'approfondimento, il governatore attribuisce "una lesione dell'onore e della reputazione dell'ente che lo scrivente (De Luca, ndr) rappresenta". Un passo indietro. Era il 5 aprile 2020, piena emergenza, quando Repubblica accendeva i riflettori sul bando della Soresa, centrale degli acquisti regionali, per trovare centri privati che aiutassero la sanità pubblica a processare tamponi. Un bando "sprint", aperto per una notte e basta. E proprio mentre la Regione apre ai privati per i test sul Covid, Repubblica rivela che lo Zooprofilattico, regionale, già si serviva in quel momento di un laboratorio esterno: Ames, Casalnuovo. Ad Ames lo Zooprofilattico aveva trasferito macchinari, e vi lavorava personale del pubblico con quello del privato. Come era stato selezionato Ames? Quali procedure seguite? Con quali vidimazioni, visto che il Cotugno, centro unico di certificazione, non ne era informato? Repubblica mostrava anche che tra l'istituto di Portici ed Ames esisteva un rapporto precedente per le analisi su Terra dei fuochi. Con tanto di contratto sottoscritto in quelle ore, di 750 mila euro, relativo però alla vecchia gara sui test dell'inquinamento: in cui era stata infilata una clausola sui tamponi urgenti per il Covid-19. Nei servizi sotto accusa veniva dato spazio, in distinti spazi, a Limone e Fico. Alla fine sarà proprio Ames, tra gli altri, ad aggiudicarsi il bando per i tamponi. Per inciso: nel Decreto rilancio, solo l'estate scorsa, un emendamento durante la conversione in legge ha aperto all'opzione di rapporti pubblico- privati per i tamponi, sotto la guida del pubblico. "La ricostruzione capziosa degli eventi - scrive De Luca - costituisce un'aggressione gratuita ed estremamente lesiva dell'onore e della reputazione dell'ente regionale, perché consegna a tutti coloro che hanno seguito l'evento - acquisendolo come rispondente al vero - un dato infondato e costruito ad arte per sostenere la campagna denigratoria condotta dal quotidiano la Repubblica ". Nell'esposto, il governatore fornisce la versione dei fatti che non aveva fornito in interviste. "È bene chiarire - si legge - come tra l'attività di analisi dei tamponi affidata dalla Regione allo Zooprofilattico e il contratto sottoscritto da tale ente con la Ames, in forza di un bando europeo e di procedure legittime e trasparenti, non vi sia alcun collegamento, trattandosi di indagini cliniche aventi tutt'altro scopo". Ancora: "Il centro di Portici, tra i dieci Istituti Zooprofilattici italiani, è una eccellenza nel campo sanitario ed è stato individuato dalle autorità regionali in una fase critica dell'emergenza per eseguire i test sui pazienti, alleggerendo il carico ospedaliero per le sue indiscusse competenze, che non necessitano di ulteriori certificazioni". Perché allora l'Istituto di Portici avrebbe dovuto a sua volta chiedere aiuto ad Ames? Scrive De Luca: "Poiché la necessità di processare un elevato numero di tamponi richiedeva l'immediato reperimento di ulteriori locali con determinate caratteristiche, senza gravare ulteriormente sulla spesa pubblica, la Ames, che disponeva di una struttura adeguata, la offriva gratuitamente all'istituto Zooprofilattico, che iniziava l'attività con il proprio personale". E l'inchiesta, ovviamente, continua.

Raffaella Polato per “l’Economia - Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. Loro sono quelli che il mondo conosceva, e noi no. Li abbiamo scoperti (poco) quando è scoppiata la pandemia a Wuhan e i cinesi hanno chiamato qui, Brescia, per poter fare i tamponi. Anche allora comunque non ci abbiamo fatto troppo caso. Il Covid-19 non era ancora arrivato in Italia, nessuno immaginava che avrebbe travolto il pianeta, a molti il fatto che Pechino chiedesse aiuto a una piccola-media impresa lombarda sembrò solo curioso. Non avevamo capito che dietro la nota di colore c'era un'eccellenza assoluta. Se pure avessero voluto, gli uomini di Xi Jinping non avrebbero potuto rivolgersi a nessun altro perché nessun altro fa (faceva: dopo hanno iniziato a copiare) quel che fa la Copan. Aveva spedito fuori mercato tutti i produttori anni prima, brevettando una tecnologia di «raccolta e trasporto», chiamiamola così, dei campioni da analizzare infinitamente più precisa, sicura, esente dal rischio di contaminazioni. Perciò, quando quello che avevamo scambiato per un virus solo un po' più cattivo di un'influenza è dilagato in una strage senza confini, Brescia è in un certo senso diventata il centro della guerra di tracciamento. Le armi per rilevare e seguire il Covid le producevano loro e solo loro: il gruppo fondato nel 1979 da Giorgio Triva, trasformato e proiettato verso la leadership internazionale dai figli Daniele e Stefania, guidato oggi dal tandem Stefania-Giorgio jr, figlio di Daniele, l'uomo delle intuizioni geniali scomparso nel 2014. Quella morte avrebbe potuto segnare magari non la fine della Copan, ma di un processo di sviluppo a colpi di innovazione. Non è successo: Daniele ha lasciato all'azienda, dal primo dei ricercatori all'ultimo degli operai, un Dna che è poi lo stesso della sorella e del figlio. È questo, ad aver consentito al gruppo di far fronte all'enorme pressione di un mondo che, messo in ginocchio dalla pandemia, fino all'anno scorso non avrebbe saputo dove altro bussare. «Prima», la Copan produceva 200 milioni di tamponi l'anno. Nel 2020 è arrivata al miliardo. Nel 2019 aveva ricavi per 141 milioni. Nel 2020 è salita a 280. Da quel momento, nell'immaginario dei non addetti ai lavori è diventata «l'azienda che "tampona" il pianeta». Lo è, evidentemente: se ha quadruplicato la produzione, raddoppiando i dipendenti e «girando» no stop sette giorni su sette, è stato per non lasciare indietro nessuno. Però è anche molto altro, e molto di più. Per restare alle suggestioni: potrebbe benissimo comparire in un copione di Csi o in una trama di Jeffery Deaver, tra Lincoln Rhyme e Amelia Sachs. Presente la raccolta prove sulle scene del crimine? E quanto chi investiga sia ossessionato dal pericolo che vengano contaminate? Ok. Nella vita reale, è Copan uno dei nomi cui si rivolgono il nostro Ris, ma anche Scotland Yard, la Gendarmerie francese, l'Fbi. Da Brescia hanno mandato i loro prodotti a Parigi dopo il massacro del Bataclan, in Provenza per il disastro German Wings, in Germania per l'identificazione di un misterioso serial killer che poi si è scoperto (grazie a loro) non esistere proprio. Questo per dire quel che dovrebbe essere ovvio: anche «l'azienda dei tamponi Covid», del Covid avrebbe fatto felicemente a meno. Era già, a prescindere, un'eccellenza globale. E già aveva conti da «Impresa Champions»: l'analisi L'Economia-ItalyPost, che tra tutte le nostre Pmi seleziona (ormai per il quarto anno) le mille con i migliori parametri di crescita, redditivita, solidità patrimoniale, elencava Copan tra i «Campioni» fin dalla prima edizione. La prossima la confermerà. Non c'entra l'effetto-virus e non c'entra l'eccezionalità del 2020: i conti sotto esame sono quelli tra il 2013 e il 2019 (ultimi bilanci completi al momento dell'analisi). Il gruppo che nel 2020 ha raddoppiato il fatturato, più che triplicato il margine operativo lordo (da 29 a 90 milioni: il 33% dei ricavi), moltiplicato da 15 a 45 milioni l'utile netto, alle spalle aveva comunque un lungo trend di sviluppo. Nei sei anni analizzati aveva già raddoppiato il giro d'affari, raggiunto una redditività industriale vicina al 23%, continuato a investire in modo massiccio «con le nostre sole forze», per dirla con l'orgoglio di Stefania e Giorgio Triva. Non avrebbero peraltro bisogno di sottolinearlo: con un patrimonio netto 2019 di 163 milioni, quindi persino superiore al giro d' affari, e con una «cassa» in attivo per 42 milioni un anno fa e addirittura per 80 nel 2020, solidità e autonomia finanziaria sono evidenti. Il fatto è che gli utili, qui, vengono totalmente reinvestiti. La famiglia lo fa da sempre, da quando Giorgio il fondatore iniziò con un piccolo laboratorio di bicchierini di plastica per uso biomedicale. A maggior ragione è diventato importante dopo, quando Daniele e Stefania cercarono una nicchia di mercato superspecializzata e la trovarono nella «preanalitica». Significava spostarsi nei territori della batteriologia, biologia molecolare, virologia, automazione, intelligenza artificiale, scienze forensi. Voleva dire «farsi in casa» persino i macchinari: non ne esistevano. Ma è così che è nato un altro ramo di business: oggi a Brescia si costruisce anche per vendere. Ed è allo stesso modo, per le stesse ragioni, che la linea «reinvestimento totale dei profitti» è la base della «visione condivisa al 100%», oggi, da Stefania e da Giorgio jr. Lo dicono insieme, lei da presidente, lui da strategic project manager. Del resto, l'ultima prova di quanto «renda» rimettere in circolo le risorse l' hanno avuta proprio nell' anno Covid. Ricorda Stefania: «Eravamo gli unici a produrre il tampone, siamo stati travolti. Abbiamo "chiamato alle armi" l' azienda e tutti hanno risposto, perché sapevano quanto fosse importante e perché noi siamo così: una squadra, il cui pilastro sono le persone della produzione». Le quali però, ovviamente, non potevano fare più di tanti miracoli. Né sarebbe stato sufficiente moltiplicare i turni, concentrare tutto il personale sulla «linea Covid», lavorare 24 ore al giorno per sette giorni su sette, cancellare ferie e festività. Perciò i dipendenti sono raddoppiati: solo a Brescia, 500 assunzioni hanno portato il totale a 1.100, con le sedi all'estero si arriva a quota 1.600. In parallelo, ed è ovvio, andavano raddoppiati gli spazi: è stato fatto nello stabilimento italiano, quello appena avviato a Porto Rico è stato potenziato «in corsa», in California se n'è costruito uno ex novo seguendolo da remoto. Totale investimenti: 50 milioni. Timori che, passata l'emergenza e in un mercato non più privo di competitor, si rivelino soldi neppure ammortizzabili: pochi. Stefania e Giorgio sanno bene che «per fortuna da questo tunnel usciremo ma, se "visione" è guardare avanti e se è vero che con i virus avremo comunque sempre più a che fare, beh, si spera che questa pandemia ci abbia insegnato quanto sia importante "tracciarli" subito». Nel caso, i Triva sono pronti. È una promessa, naturalmente, ma quale credibilità si siano conquistati lo dice - oltra alla loro storia , agli altri investimenti in programma, ai nuovi prodotti in arrivo - un dettaglio dello sbarco nella californiana Carlsbard. Là sì, c'è qualcuno da cui hanno accettato un «contributo» per finanziare e far nascere la fabbrica. Sta a Cupertino. Di nome fa Apple.

Curiosità. Ecco le squadre di cani addestrati per rintracciare il Covid: “Sono animali infallibili”. Elisabetta Panico su il Riformista il 12 Marzo 2021. Si ritiene che i cani abbiano fino a 300 milioni di recettori olfattivi, molto più degli esseri umani, permettendogli un senso dell’olfatto superiore a qualsiasi altra specie. Le razze come Golden Retriever, Labrador, Pastori tedeschi e Pastori belgi, vengono spesso addestrate per diventare cani poliziotti. Questi cani, infatti, vengono utilizzati dalle forze dell’ordine per fiutare droghe, esplosivi o addirittura recuperare cadaveri. In questo periodo di pandemia, i cani poliziotto, stanno venendo addestrati anche per rilevare il Covid-19. A El Salvador, infatti, la polizia sta usando aromi artificiali simili al sudore di una persona infettata. Un addestratore canino della polizia anti-narcotici ha detto che “non è facile, perché i ceppi di Covid-19 sembrano cambiare molto. Ma quelli noti sono stati sintetizzati e gli pseudo-aromi sono stati estratti per l’addestramento“. Secondo l’addestratore, presto i cani andranno a “lavorare” in aeroporti, frontiere, bus e una volta individuata una persona probabilmente infettata, verrà avviato un protocollo di biosicurezza evitando il contatto con più persone possibili. In Cile, nella capitale Santiago, è stata dispiegata una squadra della Police Canine Training School. Gli studi hanno accertato che i cani possono rilevare la presenza del virus anche nelle persone asintomatiche. A Miami la rilevazione di Covid-19 è stata affidata ai cani durante le partite di basket; in Europa gli addestratori hanno confermato un tasso di successo del 95% e l’ente britannico di beneficenza Medical Detection Dogs spera che in un futuro i cani riusciranno a sentire anche altri odori di malattie come ad esempio il cancro. Un addestratore della K9 Company del governo statale di Veracuz, in Messico ha detto: “Sono animali infallibili. Non si sbagliano mai. Gli esseri umani si sbagliano“.

Cluster ombra e finti positivi: quanto incidono gli errori sulle chiusure? Il maxi focolaio della Scala non è un caso isolato. Che percentuale di errore c'è nei tamponi molecolari? E come influisce sulle chiusure? Giuseppe De Lorenzo Andrea Indini - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. Un'intera famiglia bloccata in casa. Il tampone molecolare di uno dei tre figli, il più grande, è risultato positivo al Covid-19. Tutti in quarantena, dunque. Sanno già cosa significa perché due di loro, il padre e il secondogenito, ci sono già passati da quell'inferno: contagiati entrambi lo scorso autunno, durante la seconda ondata di epidemia. Eppure, a questo giro, qualcosa non torna. E così qualche ora dopo l'esito, essendo l'infetto ancora completamente asintomatico, decidono di ripetere il tampone. Il risultato, questa volta, è di segno opposto: negativo. Cosa succede se è il tampone a sbagliare? Se il positivo è, in realtà, un falso positivo e quindi negativo? Cosa succede se la percentuale di questi errori non sono casi isolati ma finiscono per incidere percentualmente sul bollettino quotidiano e quindi sulle scelte del Comitato tecnico scientifico e del governo?

Il cluster fantasma. Il caso emblematico di questo problema è il focolaio fantasma scoppiato a inizio mese al Teatro alla Scala di Milano. Iniziato tutto il 21 febbraio. Una ballerina sta male: i sintomi sono quelli del Covid e un test molecolare lo conferma. Tre giorni dopo tutti i ballerini vengono controllati ma l'esito è negativo. Il 26 un nuovo giro di screening fa emergere un secondo caso e i vertici decidono di sospendere le attività del corpo di ballo. Salta così la registrazione dello spettacolo Omaggio a Nureyev che avrebbe dovuto essere trasmesso in streaming la domenica successiva. In realtà, la ballerina risultata positiva si negativizza nel giro di breve e così la preccupazione rientra. Per poco, però. Perché la settimana successiva sono punto e a capo e i numeri sono quelli di un maxi focolaio. Solo nel corpo di ballo i positivi sono, infatti, trentaquattro. Tra quelli che finiscono in quarantena c'è chi non nasconde la propria incredulità per l'esito. "Non ce n'è uno che sta male - ci dice - è possibile che siano tutti asintomatici". E poi il dubbio: "Come è possibile che, con tutti i controlli a cui ci sottopongono e con le regole ferree che seguiamo, sia esploso un cluster del genere da un giorno con l'altro?". Le domande rimbalzano nella testa dei ballerini costretti a stare a casa in quarantena. Anche all'ospedale Sacco, che sta seguendo il caso, vogliono vederci chiaro e così predispongono un altro test molecolare per tutti quanti. E questo ribalta l'esito: sui 45 artisti, che erano risultati positivi, ben 44 sono negativi. Niente maxi cluster.

Un errore umano? "Come è possibile un errore così esteso?", si chiede uno dei falsi positivi della Scala che ora può tornare a mettere il naso fuori di casa. "Si è trattato di un errore umano o c'è qualcosa che non va con i tamponi?". La voce che corre nei corridoi è che ci siano stati problemi con i reagenti. Difficile stabilirlo. Ci penserà l'università di Padova a cui è stato inviato l'intero dossier. Ma la domanda è più che lecita. Anche perché quello del teatro milanese non è certo un caso isolato. Anche sul set di House Gucci, il film diretto da Riddley Scott che ha portato Lady Gaga e Adam Driver a girare in Italia, i test hanno rivelato essere negativi alcuni casi che inizialmente erano risultati positivi.

I rischi sul monitoraggio. C'è un primo fattore da considerare. Il falso focolaio alla Scala è stato scoperto perché i ballerini sono stati sottoposti a una sfilza di tamponi in serie. Non tutti i cittadini, però, possono godere di simile trattamento. Stando alla circolare del ministero della Salute, il protocollo prevede solo per i test antigenici risultati positivi un ulteriore controllo con test molecolare proprio per evitare il rischio di falsi positivi o falsi negativi. Non è previsto, invece, nel caso di tampone molecolare: su quello si è sempre stati certi del risultato, il ministero lo considera il "gold standard", per cui il test di controllo viene fatto solo dopo alcuni giorni di quarantena (che variano se si è sintomatici o asintomatici) per permettere il rientro in società. Il problema non è tanto o non solo l'effetto che questi "errori" procurano ai singoli malcapitati. Restare inutilmente in casa è un dramma tutto sommato superabile. Diverso il discorso se il buco lo si osserva su larga scala. L'analisi del rischio su cui si basano le scelte del governo su zone bianche, rosse e gialle, infatti, poggia le sue fondamenta proprio sui tamponi risultati positivi. Da qualche tempo, per volere del ministero della Salute, nel calderone entrano sia gli antigenici rapidi che i molecolari. Sui primi non pochi (tra cui Crisanti) ritengono abbiano un margine di errore troppo alto. Ma fino ad ora nessuno aveva mai messo in dubbio la precisione dei tamponi classici. Il fatto è che se un caso come quello della Scala si ripetesse in altre situazioni, a scricchiolare potrebbe essere tutto l'impianto sull'analisi del rischio. Gli indicatori sulla trasmissione del contagio, su cui si basa il monitoraggio della cabina di regia, riguardano tra le altre cose: l'aumento dei casi rispetto alla settimana precedente; l'Rt maggiore o minore di uno; l'aumento dei focolai. Tutti fattori che dipendono direttamente dalla "qualità" dei dati dei tamponi: se nel calderone finiscono pure i falsi positivi, magari non riscontrati, che cosa succede? Lo stesso dicasi per l'analisi della reslienza territoriale. In questo caso a entrare in gioco, tra le altre cose, c'è anche l'aumento della percentuale di positività al tampone. Un dato che potrebbe essere invalidato dai falsi positivi, visto che si cerca di tenere fuori il "retesting" degli stessi soggetti (quello che, però, alla Scala ha permesso di trovare l'errore). Va detto che l'Iss valuta i numeri dopo alcuni giorni dalla loro raccolta, proprio per evitare errori di questo tipo. Ma il caos sulla zona rossa in Lombardia, dove l'algoritmo dell'Iss si è inceppato sovrastimando l'Rt, insegna che in situazioni epidemiologiche di questa portata la perfezione è una chimera. C'è pure un'altra questione da tenere a mente. Il prossimo Dpcm potrebbe prevedere che in caso di un'incidenza superiore a 250 casi ogni 100mila abitanti, i territori colpiti verranno fatto passare in automatico in zona rossa. Essere allora sicuri al 100% che i tamponi molecolari non facciano scherzi è fondamentale. Anche per la salute dell'economia.

Tagadà, fine del dramma-Covid per Tiziana Panella: "Liberata prima del previsto", il caso che la dice lunghissima sui tamponi. Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Un ritorno a sorpresa, prima del previsto, per Tiziana Panella a Tagadà, il programma di approfondimento politico che conduce nel pomeriggio di La7. Ferma ai box da parecchi giorni, in quarantena per un contatto con un positivo al coronavirus. E quando sarebbe potuta tornare in studio, ecco un altro contatto e una nuova quarantena: "Come il gioco dell'oca, si riparte dal principio", aveva commentato con amarezza comunicando al suo pubblico il secondo forfait consecutivo. Ma oggi, giovedì 11 marzo, eccola tornare a Tagadà. "Sono qua inaspettatamente, mi hanno liberata qualche giorno prima", ha commentato con un sorriso stampato in faccia. Isolamento fiduciario terminato prima del previsto, tagliato di qualche giorno: prende il posto di Alessio Orsingher, che la aveva sostituita nelle ultime due settimane. Dunque, il ringraziamento ai collaboratori: “Sono qua inaspettatamente, nel senso che mi hanno liberata qualche giorno prima. Cosa è accaduto? Per me questa è un’avventura per me molto istruttiva", ha spiegato. Dunque, largo alle spiegazioni. La Panella ha ricordato l'intera vicenda e come era arrivata alla seconda quarantena, dopo aver scoperto la positività anche della sua collaboratrice domestica, Maria. "Abbiamo ricominciato la quarantena e poi, due giorni fa, facciamo un tampone molecolare di controllo a domicilio e scopriamo invece che siamo tutti negativi. Quindi siamo stati liberati. Il che significa che il tampone di Maria era un falso positivo. Quante possibilità ci sono che possa succedere? Pochissime, però è successo a noi", ha concluso la Panella. Peccato che, al contrario di quanto abbia detto, i falsi positivi o negativi con i tamponi molecolari siano un fenomeno all'ordine del giorno.

Covid, molti scanner per la febbre non sono affidabili. Fiammetta Cupellaro su La Repubblica il 5 marzo 2021. Negli Stati Uniti i ricercatori hanno scoperto che i dati venivano elaborati da un algoritmo di compensazione della temperatura. I produttori: si difendono: "Nessuna manipolazione". TUTTI in fila per misurare la febbre prima di entrare in ufficio, a scuola o in aeroporto. Un gesto quello di avvicinare la fronte ai termoscanner (che nel caso degli aeroporti sono anche a distanza) ormai entrato nella vita quotidiana al tempo di Covid-19. Una sorta di checkpoint contro i focolai di contagio da Sars-CoV2. Ma quanto sono affidabili? Non particolarmente, visti i risultati di una ricerca che arriva dagli Stati Uniti sugli scanner utilizzati nei grandi uffici e pubblicata sul Journal of Biomedical Optics. Uno studio condotto sui termoscanner gestiti della società IPVM, una delle più grandi, ha portato la Food and Drug Administration ad accertare “un uso improprio di questi dispositivi che potrebbe portare a misurazioni imprecise e presentare rischi per la salute pubblica”. Molti dispositivi - infatti - utilizzavano software non in grado di intercettare una persona con la febbre.

L'algoritmo di compensazione. I dubbi dei ricercatori sono sorti quando si è visto che sette scanner utilizzati nello stesso ufficio per misurare la temperatura corporea di decine di persone in pochi istanti davano esiti improbabili: a molti di loro, che sfilavano uno dietro l’altro, veniva rilevata la stessa temperatura, oppure era troppo bassa. Si è così scoperto che il sistema era poco affidabile: venivano infatti utilizzati sensori a basso costo che inviavano le informazioni ad un software che "compensava" le imprecisioni. A normalizzare la lettura delle  temperatura corporea infatti ci pensava una sorta di “algoritmo di compensazione”. Così sono passate centinaia di persone in condizioni di salute a rischio, anche con la febbre. “Tutto questo rimette in discussione l’utilità di questi dispositivi come strumenti idonei allo screening  per la misurazione della febbre e ora c'è un rischio per la salute pubblica” ha detto Conor Healy,  uno degli autori dello studio. I risultati della ricerca sono stati contestati dalle aziende produttrici che si difendono affermando che “non c’è stata alcuna manipolazione della lettura dati” ma che i sistemi utilizzano una tecnologia altamente sofisticata in grado di “auto-calibrarsi”. Ha spiegato Larry Reed, amministratore delegato della ZKTeco che produce un sistema di immagini termico-facciale: "Gli scanner sono progettati non  in modo di distorcere i risultati, ma di tenere presente fattori ambientali che possono invece minacciarne l'affidabilità. Ad esempio, in una calda giornata in Arizona i dipendenti potrebbero entrare in ufficio con una temperatura che fa scattare l’allarme, ma in realtà, non hanno uno stato febbrile”. In Italia i ternoscanner sono di due tipi: quelli più economici che costano al massimo un centinaio di euro e che vengono usati da ristoranti, parrucchieri e in generale da chiunque voglia misurarsi la febbre. Tra questi anche quelli definiti "a pistola". Poi, ci sono i macchinari simili a metal detector presenti nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti e gestiti direttamente dalle forze di polizia: ad alcuni bisogna accostare il viso ad uno schermo e sono definiti "a totema". Tutti comunque funzionano sullo stesso principio: la termografia a infrarossi. All’interno c’è una termocamera sensibile alla radiazione infrarossa che permette di creare "mappe di temperatura" di ciò che sta inquadrando. Le termocamere hanno un sensore che misura la temperatura della pelle.

Irma D’Aria per lastampa.it il 15 febbraio 2021. Ed ecco il colpo di scena: il test salivare, negletto, dai più considerato un "meglio che niente" si rivela a sorpresa non solo più facile e meno invasivo ma - ed è questa la novità -  più sensibile del tampone naso-faringeo. Soprattutto nei soggetti asintomatici e in chi ha una forma lieve di Covid-19. L’ultimo studio arriva dall’Università di Singapore ed è stato appena pubblicato su Nature. In Italia si usa da tempo in via sperimentale ma i risultati dell'università di Padova da soli basterebbero a dare il via ad un loro impiego su larga scala. Tutti i dipendenti con risultati positivi alla saliva, infatti, sono stati sottoposti entro 24 ore al tampone nasofaringeo, e i test hanno avuto una concordanza nel 98% dei casi.

Lo studio. I ricercatori dell’Università di Singapore hanno reclutato 200 lavoratori migranti di cui 149 da un dormitorio pubblico e 51 in una struttura assistenziale in cui alloggiavano soggetti positivi al Covid19 che, però, non necessitavano di cure ospedaliere, ma solo di isolamento e controlli medici. Tra i 149 migranti del dormitorio, 45 avevano già una malattia respiratoria acuta e 104 erano asintomatici (ma in stretto contatto con soggetti positivi). Per la raccolta di campioni, ai partecipanti è stato chiesto di inclinare leggermente la testa all'indietro, schiarirsi la gola e il naso e poi sputare la saliva in una provetta. I campioni sono stati analizzati con la metodica del PCR e anche con il sequenziamento di nuova generazione (NGS) per una ulteriore conferma. I test salivari sono risultati positivi nel 62% dei casi contro il 44,5% di quelli naso-faringei e il 37,7% di quelli nasali auto-somministrati. Risultati che fanno sperare nella possibilità di poter avere a breve la disponibilità di questi test molto più pratici: “Questo studio - spiega Paolo D’Ancona, epidemiologo dell’Istituto Superiore di Sanità - fornisce nuove evidenze sul fatto che la saliva è un’ottima alternativa se non addirittura una scelta migliore rispetto ai campioni raccolti con tamponi nasofaringei che sono sicuramente più scomodi e fastidiosi.  Ma la cosa più importante è che - almeno in base ai dati raccolti in questo studio - la saliva ha mostrato di avere una sensibilità maggiore soprattutto sugli asintomatici e sui soggetti che hanno preso l’infezione in forma lieve”.  Qualche limite la ricerca di Singapore ce l’ha: “In primo luogo - precisa D’Ancona - si tratta di una popolazione di giovani adulti che non sono rappresentativi di tutta la popolazione e poi bisogna tener conto del fatto che la saliva è una bio-miscela complessa e la sua composizione varia in base al ‘sito’ e alla modalità di prelievo, ecco perché bisogna standardizzare il metodo di raccolta e l’esecuzione del test”. Intanto, da Padova arrivano altre conferme da uno studio pubblicato dalla International Federation of Clinical Chemistry and Laboratory Medicine, organizzazione mondiale che promuove l’eccellenza nella medicina di laboratorio per una migliore assistenza sanitaria a livello internazionale. Qui - tra ottobre e dicembre 2020 - 5579 dipendenti dell’Università hanno aderito alla sperimentazione (tasso di adesione 86%), per un totale di 19.850 campioni salivari che sono stati valutati con tecnica molecolare (rRT-PCR) per Sars-Cov-2. A differenza della sperimentazione di Singapore, nello studio italiano la saliva è stata auto-raccolta tramite una provetta che contiene un batuffolo di cotone che viene masticato per almeno un minuto al mattino prima di far colazione. Un metodo decisamente più semplice e meno fastidioso. “Il programma basato sull'auto-raccolta di campioni salivari e test molecolare - spiega Mario Plebani, direttore del Dipartimento interaziendale di Medicina di Laboratorio dell’Azienda Ospedale-Università di Padova che ha coordinato la sperimentazione - si è rivelato uno strumento affidabile, ben accettato ed efficace per individuare Sars-CoV-2 in soggetti asintomatici. La raccolta effettuata dai ricercatori di Singapore - continua Plebani - è meno affidabile perché non è standardizzabile e dipende da tanti fattori soggettivi. Oltretutto, c’è la possibilità di contagiare l’ambiente e le persone che sono vicine mentre lo stantuffo da masticare è più sicuro”. Questo metodo, oltre a consentire l’immediato tracciamento e contenimento dei contatti, ha evitato un'ulteriore diffusione di virus nella comunità, creando così un'isola protetta”. Infatti, con questa strategia è stato possibile identificare altri tre dipendenti positivi, che sono stati immediatamente isolati, impedendo così lo svilupparsi di focolai all’interno dell'Università.

Concordanza del 98%. Nell’arco di tre mesi, sono stati identificati 62 campioni positivi, con una frequenza dello 0,31%. Tutti i dipendenti con risultati positivi alla saliva sono stati sottoposti entro 24 ore al tampone nasofaringeo: i test hanno avuto una concordanza nel 98% dei casi. Il paziente con test salivare positivo ma nasofaringeo negativo presentava una bassa carica virale. “Lo studio - spiega Plebani - ha dimostrato come la saliva auto-raccolta permetta di superare il collo di bottiglia legato alla raccolta di campione nasofaringeo, procedura più invasiva e indaginosa, mantenendo l'accuratezza diagnostica”. Ma perché il tampone salivare è più sensibile? “Perchè il primo luogo dove il virus attecchisce - risponde Plebani - è il cavo orale. Solo a distanza di tempo si ritrova anche a livello nasale. Questo significa che con il salivare c’è la possibilità di rilevare il virus anche quando la carica virale è bassa, cioè proprio quando è importante rilevarla per fare un buon programma di sorveglianza e prevenzione”.

Dal laboratorio alla pratica clinica. Insomma, i risultati in laboratorio e sul campo ci sono. Ma allora perché i tamponi salivari ancora non sono stati ‘sdoganati’? Mancano ancora le autorizzazioni istituzionali mentre in Francia, per esempio, si utilizzano già da tempo e il Ministero della salute ha annunciato che da domani saranno effettuati 300mila test salivari a settimana con priorità per i bambini e gli studenti. Intanto, si studia ancora per velocizzarli perché anche i salivari vengono analizzati con la metodica del Pcr (quella del test molecolare): “Stiamo valutando anche un metodo antigenico ad alta sensibilità che può darci il risultato di 100 campioni in un’ora”, annuncia a Salute il professor Plebani. “Quindi, se dovessero accettare almeno per una parte di comunità di passare ai test salivari saremo in grado anche di sostenere lo sforzo e garantire numeri più alti”.

 Il grande affare dei tamponi dei miracoli finisce in procura: esposto di Verdi e sindacati. Dopo l’articolo dell’Espresso sugli appalti per i test anti Covid di terza generazione, lanciati dal Veneto e consigliati poi anche dal ministero della Sanità, arrivano due denunce. E Rezza riscrive la circolare. Antonio Fraschilla e Andrea Tornago su L'Espresso il 17 febbraio 2021. Due esposti alle procure competenti per chiedere approfondimenti dopo l’inchiesta dell’Espresso sui mega appalti per i tamponi di terza generazione, quelli ad «immunofluorescenza a lettura microfluidica», lanciati prima dal Veneto e poi rilanciati in tutto il Paese con una strana circolare del ministero della Salute, datata 8 gennaio, che li equipara ai tamponi molecolari con la formula: «Sembrano mostrare risultati sovrapponibili». Il tutto nonostante i dubbi di molti esperti, a partire dal professore Andrea Crisanti e dal virologo Francesco Broccolo. Come ha ricostruito l’Espresso il big sponsor per questo tipo di test rapidi è il braccio destro del governatore del Veneto Luca Zaia sul fronte dell’emergenza Covid 19, Roberto Rigoli. Ad ottobre il Veneto lancia questi test e fa acquisti da una ditta, la principale produttrice e distributrice in Italia, per una cifra intorno ai 4 milioni di euro. L’8 gennaio il dipartimento Prevenzione del ministero della Salute con una circolare firmata da Giovanni Rezza equipara il test veloce di ultima generazione a quello molecolare in base ad un parere dell’Associazione microbiologi clinici italiani. Vicepresidente di questa associazione è lo stesso Roberto Rigoli. A supporto di questa tesi vengono citati due studi, uno dei quali è stato supportato dalla stessa azienda che li produce. Ma l’Espresso ha scoperto anche altro nell’inchiesta sul grande affare di questi tamponi. Il caso adesso arriva anche alle procure competenti. Il coordinatore nazionale dei Verdi Angelo Bonelli e la consigliera regionale del Veneto di Europa Verde Cristina Guarda in uno nota scrivono: «In relazione all’articolo pubblicato sul settimanale L’Espresso dal titolo "Nord Test - Tamponi e milioni" annunciano che presenteranno un esposto alla competente procura della Repubblica affinché apra un’inchiesta per valutare e quindi approfondire i fatti descritti nell’articolo e se siano stati commessi eventuali reati. Riteniamo doveroso che al più presto sia fatta chiarezza su un tema così delicato: l'emergenza sanitaria non deve creare vuoti nei processi di controllo e certificazione scientifica di strumenti e presidi legati alla pandemia». Anche Maria Teresa Turetta, segretaria del sindacato Cub, annuncia un esposto: «Stiamo preparando un esposto alla magistratura per capire con quale iter autorizzativo la Regione Veneto abbia deciso di adottare i test rapidi che poi sono stati impiegati anche nel resto d’Italia. Ci chiediamo su quali basi scientifiche sia stata fatta questa scelta, quali siano gli importi complessivi degli appalti e se il tutto si sia svolto in modo regolare e imparziale, nell’interesse della collettività. Chiederemo anche di far luce su quanto raccontato nelle ultime inchieste dell’Espresso sui test rapidi». Nel frattempo il 16 febbraio Rezza ha corretto un po’ il tiro e firma una seconda circolare nella quale di fatto consiglia di utilizzare questi test rapidi al posto dei molecolari solo in casi di emergenza. Scrive Rezza: «D’altro canto, data la sensibilità analitica non ottimale di diversi test antigenici attualmente disponibili, è consigliabile confermare la negatività di test antigenici eseguiti su pazienti sintomatici o con link epidemiologico con casi confermati di Covid-19. Questa necessità è rafforzata dalla possibile circolazione di varianti virali con mutazioni a carico della proteina N, che è il principale antigenetargetutilizzato in questo tipo di test. Si ribadisce comunque che, in caso di mancata pronta disponibilità di test molecolari, o in condizioni d’urgenza determinate dalla necessità di prendere decisioni di sanità pubblica in tempi rapidi, si può ricorrere per la conferma a test antigenici, quali appunto i test antigenici non rapidi (di laboratorio), i test antigenici rapidi con lettura in fluorescenza e quelli basati sumicrofluidica con lettura in fluorescenza».  

Alessia Marani e Francesco Pacifico per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 28 marzo 2021. Avrebbero dovuto contribuire a rendere le scuole, soprattutto le primarie, più sicure e a prova di contagio. Per questo la Regione, sulla scia di quanto intrapreso anche in Veneto, aveva approntato un bando per ordinarne kit per un equivalente di quasi cinque milioni di euro, dopo averne annunciato già a settembre e poi a gennaio di quest' anno un utilizzo di massa. Invece, alla lunga, i test salivari non si sono rivelati così affidabili o, comunque, sono stati superati in corsa dai rapidi antigenici che si sono mostrati più efficaci nelle risposte e di più rapida analisi in laboratorio. Dopo l'avvio della gara a dicembre, l'apertura delle offerte pervenute (in realtà da una sola azienda la Fujirebio, multinazionale giapponese con sede italiana a Pomezia) a gennaio, a metà febbraio è stata sancita l'aggiudicazione per l'approvvigionamento di 600mila kit dal valore ciascuno di 8 euro per un impegno di spesa complessivo di 4,8 milioni. Ma tre giorni fa nella consueta riunione settimanale tra unità di crisi regionale anti-Covid e Ufficio scolastico regionale, nel discutere della riapertura di materne, elementari e medie in vista del ritorno del Lazio in zona arancione, è arrivata la doccia gelata: i salivari non saranno più impiegati per valutare la positività o meno dei piccoli alunni, nessuno screening massiccio verrà dunque effettuato con i test che, stando almeno ai programmi di qualche mese fa e dopo un percorso di validazione terminato a dicembre allo Spallanzani, avrebbero dovuto costituire l'arma principale per tutelare la sicurezza dei bimbi delle materne e dei piccoli alunni di elementari e medie in alternativa ai più invasivi e fastidiosi tamponi nasali. Erano stati i pediatri, infatti, a chiedere test diversi per i bambini più piccoli per il pericolo di possibili microlesioni nell'apparato nasale e, comunque, per i più piccoli sarebbe stato più semplice e simile a un gioco masticare il chewing gum su cui lasciare le particelle salivari da mandare poi in laboratorio per l'analisi. Ma è proprio su questa procedura che, fin dagli utilizzi sperimentali, si sono palesate le pecche. Innanzitutto i campioni di saliva repertati rischiano di asciugarsi in tempi molto rapidi e di arrivare nei laboratori con carica non sufficiente per essere esaminata. Non tutte le scuole hanno, di fatto, la logistica adatta per prelevare il chewing gum e portarlo a brevissimo giro di posta nel centro analisi che, tra l'altro, deve essere a disposizione immediata degli istituti. Non solo. Se è vero che masticare una specie di gomma o bagnare un batuffolino di cotone per un bambino può essere più facile, è pure vero che, in corso d'opera, si è dovuto per esempio raccomandare ai genitori di non lavare i denti o evitare di bere acqua prima del test. Nella saliva, infine, ci sono meno antigeni, quindi per questo si rischiano tanti falsi negativi. Tant' è che all'inizio di dicembre, per esempio, all'istituto per l'infanzia Giovanni Paolo II di Civitavecchia, su sessanta test effettuati appena sei erano risultati «analizzabili» in laboratorio rendendo inutile la prova. Secondo il cronoprogramma iniziale, nel Lazio i salivari se ne sarebbero dovuti utilizzare circa 150mila al mese arrivando a un primo screening di massa per 600mila allievi. Il bando, infatti, comprendeva una fornitura per 4 mesi iniziali. Ma ora se alle scuole non saranno distribuiti in massa, l'acquisto sembrerebbe sproporzionato all'uso reale. La Regione fa sapere, intanto, che i test saranno comunque usati quando si presenteranno dei casi nelle scuole, soprattutto quelle dove ci sono bambini più piccoli, in caso di adulti con disagi refrattari al tampone nasale e che i kit sono stati già consegnati alle Asl.

Dal Veneto di Zaia al ministero della Salute, il grande affare del tampone dei miracoli. Benedetto dal governatore della Lega un nuovo test anti-covid promette una risposta in 10 minuti e affidabilità come il molecolare. Big sponsor è il superesperto Rigoli già socio del distributore italiano. Ma non mancano i dubbi degli esperti. Antonio Fraschilla e Andrea Tornago su L'Espresso il 12 febbraio 2021. In Italia è partita la corsa al tampone dei miracoli, un affare da milioni di euro. Un test veloce, con risposta in dieci minuti, che avrebbe la stessa sensibilità, e quindi la stessa sicurezza sul risultato, di un tampone molecolare. Il nome magico di questo esame è «test a immunofluorescenza con lettura in microfluidica». E a sostenere che sia affidabile come il molecolare è il ministero della Salute, con una circolare che accredita questa equiparazione con una semplice locuzione: «Sembrano mostrare risultati sovrapponibili». Il tutto basandosi su un parere dell’Associazione microbiologi italiani, che a sua volta poggia su studi in parte sostenuti da chi questi test li produce. Su tutte, una sola azienda, un colosso inglese nel settore sanitario che in Italia ha come braccio operativo una società veneta che in questi mesi di seconda ondata si è aggiudicata appalti dalle Regioni per più di 28 milioni di euro. Un intreccio di storie, pareri, circolari, sperimentazioni che parte dal Veneto, arriva a Roma e adesso si dispiega in tutto il Paese, con le Regioni invitate di fatto dai funzionari del ministero ad acquistare questo test rapido di nuova generazione. Il la ai mega appalti per l’esame a immunofluorescenza lo ha dato il Veneto di Luca Zaia grazie al superesperto scelto dopo la rottura con il professor Andrea Crisanti, l’ingombrante «padre» del modello Veneto ormai dimenticato dai vertici regionali. Il nuovo spin doctor di Zaia è un medico di Treviso, Roberto Rigoli, primario microbiologo dell’ospedale cittadino. Che è anche vicepresidente proprio dell’Associazione microbiologi italiani. Adesso, però, dopo la circolare del ministero, c’è chi pone più di un dubbio sulla reale equiparazione dei due test, e alcune Regioni si rifiutano di fare acquisti senza un chiaro e adeguato supporto scientifico: in ballo c’è l’efficacia del test e quindi del controllo dell’epidemia, ma anche gli appalti da decine e decine di milioni di euro banditi o già conclusi dalle Regioni.

ZAIA E IL MUSK DEL NORDEST. Il lancio in grande stile dei tamponi a immunofluorescenza si tiene il 2 ottobre scorso durante una conferenza stampa del governatore del Veneto Luca Zaia, ospite il dottore Rigoli, che il governatore ha soprannominato «l’Elon Musk del Nordest» paragonandolo al visionario fondatore di Tesla. Il ruolo chiave che gli ha assegnato Zaia è quello di «coordinatore delle unità operative di microbiologia del Veneto». Lui, «l’uomo dei tamponi rapidi», quel giorno siede sorridente alla destra del governatore leghista in qualità di pioniere e innovatore della diagnostica sul Covid-19. Rigoli è il medico che ha introdotto in Italia, dopo averli sperimentati in Veneto, i test rapidi antigenici. A sottoporsi al tampone di prova, davanti ai giornalisti, è Zaia in persona. In pochi minuti riceverà il risultato grazie al dispositivo della ditta Lumiradx, una delle aziende che in quel momento era in corsa per l’aggiudicazione di un appalto da 148 milioni che vedeva coinvolte il Veneto e altre sei Regioni: quel 2 ottobre la procedura di gara era ancora aperta ma tutte le telecamere finiscono per inquadrare solo lo strumento venduto in Italia dal braccio operativo dell’azienda inglese, la Biomedical Service con sede a Scorzè, in provincia di Venezia. Tre giorni dopo quella dimostrazione Rigoli, in qualità di coordinatore delle microbiologie del Veneto, partecipa alla seduta riservata del seggio di gara per «verificare l’idoneità delle offerte tecniche» presentate dalle ditte concorrenti. In una riunione successiva della commissione, il 12 ottobre, Rigoli, con un parere, propone tra l’altro di comprare i test dagli operatori «in grado di garantire consegne in tempistiche ricomprese entro 7 giorni». Alla fine ad aggiudicarsi la commessa più importante, nel lotto relativo ai test rapidi con strumentazione di lettura, è la Biomedical Service a cui vengono assegnati ordinativi per 4,5 milioni di euro, a cui si aggiungeranno poi altri 2,3 milioni in una fase successiva. Il 18 novembre scorso, mentre in Veneto e nel resto d’Italia esplodono i contagi e i morti per coronavirus, le Regioni indicono un secondo appalto da 257 milioni per acquistare test rapidi: e Biomedical Service si aggiudica anche in questo caso grosse commesse fino a superare complessivamente l’importo di 28 milioni di euro.

VECCHIE CONOSCENZE. Di certo c’è che sono poche le aziende oggi in grado di produrre e commercializzare questi nuovi test. E la definizione letterale di «immunofluorescenza microfluidica» per i suoi prodotti è una delle prerogative della multinazionale inglese Lumiradx, società fondata da Ron Zwanziger e da un gruppo di manager esperti in diagnostica rapida che gravitavano intorno alla galassia della farmaceutica Abbott. Presidente e amministratore delegato della filiale italiana di Lumiradx, la Biomedical Service, è l’imprenditore veneziano Eddo Vanin. Un manager esperto in commercializzazione di prodotti medicali che è stato per un decennio, fino al 2018, a capo della divisione test rapidi della Abbott in Italia, la Abbott Rapid Diagnostics. Vanin è un ex socio del microbiologo Rigoli proprio nella Biomedical Service: il medico trevigiano è stato accomandante (un socio senza poteri di gestione che partecipa però agli utili dell’azienda) di Biomedical Service Sas fino al gennaio del 1988. Poi le loro strade si sono separate: Vanin ha proseguito la carriera imprenditoriale, Rigoli invece è diventato medico dell’Ulss di Treviso e ha ceduto la sua quota ad altre persone. L’emergenza Covid-19 però oggi li vede di nuovo fianco a fianco, ciascuno nel suo ruolo: l’imprenditore e il medico pubblico. Prima sul fronte dei tamponi molecolari: è la stessa Biomedical sul suo sito a spiegare di aver «messo a punto un sistema automatizzato» per implementare i tamponi molecolari per il Covid-19 «in collaborazione con l’unità operativa complessa di microbiologia dell’Ulss 2 Marca Trevigiana», diretta da Rigoli. Poi nel campo dei test rapidi di nuova generazione. Rigoli si dice sereno e aperto alla massima trasparenza: «Io conosco i rappresentanti di tutte le ditte», dice all’Espresso. «Vanin è stato in classe con me alle superiori. Quando eravamo studenti abbiamo lavorato insieme, poi ognuno ha preso la sua strada. Lo conosco ma ho cercato sempre di essere corretto. Abbiamo lavorato insieme nella Biomedical Service negli anni ’80, poi io ho deciso di dedicarmi completamente a fare il medico. Il 25 gennaio 1988 ho intrapreso la carriera ospedaliera e venduto le quote». Sulla conferenza del 2 ottobre e l’utilizzo del macchinario della Lumiradx a gara ancora in corso Rigoli precisa: «Abbiamo portato da Zaia anche i dispositivi delle altre ditte in gara. Ma il macchinario di Menarini non si poteva trasportare perché era troppo grosso e il dispositivo di Arrow aveva bisogno di essere attaccato alla corrente, dunque non lo abbiamo acceso. Il Lumiradx va invece a batterie. Io comunque non sono in commissione di gara, ho partecipato all’organizzazione mettendo i parametri riportati dall’Istituto superiore di sanità, ma non ho assegnato il punteggio».

DAL VENETO A ROMA. Ai test di «terza generazione» lanciati dal Veneto crede all’inizio dell’anno anche il ministero della Salute. L’8 gennaio il direttore del dipartimento Prevenzione, Giovanni Rezza, firma una circolare nella quale di fatto consiglia l’utilizzo di questo nuovo tipo di test rapido: «I test di ultima generazione a immunofluorescenza con lettura in microfluidica», si legge nella circolare, «sembrano mostrare risultati sovrapponibili ai saggi di Rt-Pcr (i tamponi molecolari, ndr)». A sostegno di questa tesi, Rezza cita il passaggio letterale del documento licenziato il 4 gennaio 2021 dell’Associazione microbiologi clinici italiani (Amcli): «Indicazioni operative su quesiti frequenti alla diagnosi molecolare». Un parere recepito dal ministero in tempi record, appena quattro giorni dopo. Nel dettaglio l’associazione dei microbiologi di cui Rigoli è vicepresidente fa riferimento a due studi: «Drain e altri» del 2020 e una pubblicazione sull’Ecdc del novembre scorso. Il primo è una ricerca proprio sul kit della Lumiradx, anche se in fondo al testo si legge: «This work was supported by Lumiradx Ltd». Il secondo studio parla in generale di restrizioni sui test antigenici. Rezza spiega così la circolare: «È stato un compromesso tra il nostro gold standard, il molecolare, e la direzione presa dalle Regioni che fanno molti test antigenici. E poi ci siamo basati su quel parere dell’Amcli. Ora abbiamo intenzione di aggiornare la circolare coinvolgendo per un parere diverse società scientifiche».

I DUBBI DI ESPERTI E REGIONI. Alcune Regioni non hanno voluto acquistare i nuovi test rapidi. Francesca Di Gaudio, responsabile del Centro regionale qualità laboratori della Sicilia e docente di Biochimica all’Università di Palermo dice: «Non abbiamo acquistato i kit di nuova generazione in quanto questa dicitura “microfluidica” dettata dalla circolare ministeriale è posseduta da un’unica ditta che è Lumiradx, che la vende ad un prezzo molto elevato rispetto ad altro materiale sempre in immunofluorescenza. L’ultima aggiudicazione in Sicilia di un test simile è stata fatta a 3 euro, mentre il prodotto Lumiradx costa 15 euro». Nel frattempo anche gli esperti avanzano dubbi sull’equiparazione di tamponi molecolari e dei rapidi a immunofluorescenza: «Non c’è alcuna evidenza scientifica in merito, gli studi a supporto non ci sono ancora o quanto meno non sono pubblicati, trovo singolare che il ministero in base ad un parere di una associazione abbia diramato quella circolare», dice il professore Andrea Crisanti, direttore del dipartimento di microbiologia e virologia dell’ospedale-università di Padova. «Chiedete al professore Francesco Broccolo se questi test sono efficaci o meno», ribatte Rigoli. Il virologo Broccolo lo scorso 11 gennaio rilascia una intervista all’Ansa proprio sulla circolare del ministero: «I test a immunofluorescenza con lettura in microfluidica hanno una sensibilità di poco inferiore, circa 5-10 volte, al tampone, ma il limite è che questi test cercano l’antigene legato al Covid-19 e sappiamo che la nuova variante ha mutazioni e rischiamo di avere problemi con falsi negativi. In pratica un test del genere sarebbe andato bene in febbraio-aprile, ma adesso rischia di non essere affidabile, andrebbe continuamente modificato per rilevare anche le nuove mutazioni». Ma la macchina partita ad ottobre in Veneto è ormai lanciata in tutto il Paese. Appalti per milioni di euro sono stati già aggiudicati e altri, per altrettanti milioni e milioni di euro, lo saranno a breve.

DAGONEWS il 27 gennaio 2021. Pechino sta usando tamponi anali per testare i suoi residenti, un metodo che secondo gli esperti è più accurato e aumenta le possibilità di rilevare il coronavirus. Per raccogliere il campione di acido nucleico, il tampone deve essere inserito a circa 2-3 centimetri nel retto e va ruotato più volte. Dopo aver completato il movimento due volte, il tampone viene estratto prima di essere posizionato in modo sicuro all'interno di un contenitore. L'intera procedura richieda circa 10 secondi. La capitale cinese ha iniziato a utilizzare i tamponi anali più frequentemente durante un test drive di massa dopo che un bambino di nove anni è risultato positivo al virus la scorsa settimana. Secondo i media statali, più di 1.000 dipendenti e studenti della scuola del giovane paziente infetto sono stati sottoposti a una serie di test sugli acidi nucleici, inclusi i tamponi anali. Dal 17 gennaio, più di tre milioni di residenti in tre distretti di Pechino sono stati tamponati nel tentativo di arginare il contagio. I tamponi anali sono utilizzati in Cina dallo scorso anno, ma il metodo è utilizzato principalmente nei centri di quarantena a causa delle ovvie “difficoltà” di esecuzione. Li Tongzeng dell'ospedale Beijing You'an ha affermato che il coronavirus sopravvive più a lungo nell'ano o negli escrementi rispetto ai campioni prelevati dai tamponi faringei e nasali: «Abbiamo scoperto che alcuni pazienti asintomatici tendono a riprendersi rapidamente. È possibile che non ci siano tracce del virus nella gola dopo tre o cinque giorni. Il virus dura più a lungo nel tratto digerente e negli escrementi del paziente, rispetto a quelli prelevati nelle vie respiratorie. Se conducessimo tamponi anali aumenterebbe il tasso di positività dei pazienti e ridurremmo la possibilità di una diagnosi sbagliata».

Da adnkronos.com il 28 gennaio 2021. Così il portavoce capo della Commissione Europea Eric Mamer ha risposto, durante il briefing con la stampa a Bruxelles, alla domanda se la Commissione intenda raccomandare l'utilizzo di tamponi Covid per via rettale, che sono utilizzati in alcune città cinesi. Tamponi anali per le persone a maggior rischio Covid, l'Ue li raccomanderà? I test per appurare il contagio da Sars-CoV-2 "sono una prerogativa degli Stati membri. L'unica cosa che abbiamo fatto" come Commissione Europea "è raccomandare alcuni test esistenti e chiedere un certo livello di coordinamento" ha detto il portavoce capo della Commissione Europea Eric Mamer rispondendo, durante il briefing con la stampa a Bruxelles, alla domanda se la Commissione intenda raccomandare l'utilizzo di tamponi Covid per via rettale, che sono utilizzati in alcune città cinesi e che avrebbero un minor margine di errore rispetto ai test effettuati per via orale o nasale. "Fare test è competenza degli Stati membri - ha aggiunto il portavoce per la Salute Stefan de Keersmaecker - abbiamo presentato una proposta di raccomandazione che è ora in Consiglio. Per quanto riguarda gli aspetti scientifici, ci affidiamo molto ai consigli degli scienziati e lasciamo quindi al mondo scientifico valutare qual è il miglior approccio", ha concluso.

Un nuovo test cambia tutto: "La saliva predice il Covid". Un nuovo studio potrebbe cambiare tutto: i test sulla saliva sarebbero più efficaci dei nasofaringei. "Si può predire l'evoluzione della malattia", affermano i ricercatori. "Nuovi approcci terapeutici, scoperta non da poco". Alessandro Ferro, Sabato 23/01/2021 su Il Giornale. Se ne era parlato nei mesi scorsi ma poi tutto è caduto nel dimenticatoio o meglio, i risultati ottenuti non erano stati così convincenti. Adesso, però, sembra che la situazione sia destinata a cambiare: un nuovo studio ha messo in luce che i test sulla saliva possono essere ancora più efficienti dei tamponi nasali riuscendo a predire la gravità della malattia causata dal Covid-19.

Cosa dice lo studio. "Abbiamo scoperto che la carica virale della saliva era significativamente più alta in quelli che hanno manifestato un aumento della gravità della malattia e mostrava una capacità superiore rispetto alla carica virale rinofaringea come predittore di mortalità nel tempo", hanno scritto i ricercatori della Yale University in uno studio pubblicato su Medrxiv e condotto su 154 pazienti nei quali hanno confrontato la carica virale presente sia nella saliva che nel muco nasofaringeo. I pazienti sono stati suddivisi in gruppi differenti in base alla quantità di virus (bassa, media e alta) e, infine, sono stati confrontati questi dati con la gravità dei sintomi che i pazienti hanno sviluppato in seguito. Un'analisi completa ha rivelato che una forte carica virale presente nella saliva era associata ad una maggiore gravità della malattia. Questa carica virale è stata associata a molti marcatori infiammatori Covid-19 ed a citochine di risposta immunitaria di tipo 1. In pratica, i ricercatori hanno visto che l'evoluzione della malattia è stata scoperta dai test sulla saliva e non da quelli con il tampone nasofaringeo.

Differenze con il tampone. Secondo le conclusioni dello studio, quindi, il test della saliva potrebbe predire meglio l’esito della malattia rispetto al classico tampone perché, secondo quanto sostenuto dai ricercatori, "riflette soltanto la replicazione virale del tratto respiratorio superiore, fondamentale per la trasmissione del coronavirus, ma non di quello inferiore, la chiave della gravità della malattia. La saliva può rappresentare meglio ciò che sta accadendo nel tratto respiratorio inferiore”, spiega l'immunologa giapponese Akiko Iwasaki, capo della ricerca, precisando che "le ciglia che rivestono il tratto respiratorio spostano naturalmente il muco dai polmoni alla gola, dove si mischia con la saliva", si legge sulla rivista scientifica Galileonet. Questi risultati sono ancora preliminari e, quindi, non sufficienti a dimostrare. I risultati sono ancora preliminari e sufficienti a dimostrare quante probabilità ha una persona con un’elevata carica virale della saliva di sviluppare gravi forme della malattia: serviranno ulteriori ricerche per poter confermare questi nuovi dati.

"Nuovi approcci terapeutici". "È un articolo che deve essere ancora valutato e revisionato, non è definitivo. Tuttavia, anche se il numero dei pazienti studiati non è molto alto, ci offre un'interpretazione innovativa della patologia: per la prima volta, su un sito che solitamente non viene testato come quello della saliva, la carica virale può diventare un marcatore del virus per prevedere quanto sarà grave la malattia da Covid-19. Da un punto di vista prognostico e dell'approccio terapeutico potrebbe cambiare le cose": è quanto ha detto in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Marco Falcone, ricercatore di Malattie Infettive all'Università di Pisa, in forza all'Unità operativa dell'Aoup e membro del consiglio direttivo della Simit (Società italiana di malatti infettive e tropicali). Quali applicazioni? Quindi, se questi test salivari daranno gli esiti sperati, si potrebbe aprire la strada a nuovi approcci all'infezione da Sars-Cov-2. In che modo? "Chi ha un'alta carica sulla saliva potrebbe iniziare una terapia antivirale indipendentemente dalle condizioni del paziente", afferma il Prof. Falcone, che riporta l'esempio del remdesivir, il farmaco che viene somministrato soltanto in base al grado di compromissione della funzione respiratoria ma non è approvato per tutti i pazienti. "Potrebbe valere, quindi, il grado di carica virale sulla saliva, sarebbe utile - aggiunge - Oppure potrebbe aprire la strada alla cura con gli anticorpi monoclonali somministrati precocemente: ad esempio, si potrebbero usare anche se il malato non ha grandi sintomi ma ha un'alta carica virale sulla saliva, stessa cosa per la cura con il plasma iperimmune. Insomma, questo dato potrebbe avere una valenza sia nel prevedere la prognosi che modificare l'approccio terapeutico", ci dice il ricercatore. L'importanza degli anticorpi. Quello che viene fuori da questo studio è la correlazione tra la carica virale nella saliva e la produzione di anticorpi: più si riduce la carica virale, più rapidamente si producono anticorpi e più rapidamente si guarisce. E c'è anche un rapporto tra alcuni marcatori di infiammazione che si dosano nel sangue dei malati. "Viceversa, il tapone nasofaringeo non ha una grossa correlazione con la clinica: abbiamo pazienti totalmente asintomatici che rimangono positivi anche per mesi, pazienti che sono gravemente sintomatici che magari hanno un tampone con una carica virale non particolarmente elevata. Non vi è correlazione tra la carica e la gravità", afferma. E lo stesso discorso vale anche per il sangue: quando il virus viene rilevato non c'è correlazione tra la carica virale e la gravità della malattia. "Se la saliva diventasse un sito da cui si può prevedere l'evoluzione del Covid, sarebbe un'informazione molto rilevante".

Il test sulla saliva in 6 minuti. Cambierà la lotta al Covid-19? Test salivari, saranno il futuro? In realtà, alcuni test salivari rapidi esistono già ma sono test antigenici, non molecolari. In pratica non ti dicono quanta carica virale c'è e, quindi, come potrà evolvere la malattia. Questa nuova ricerca, però, potrebbe spalacare le porte a nuovi approcci terapeutici. "Serviranno test molecolari su saliva per identificare non soltanto positività o negatività ma per quantificare la carica: un dato molto alto che superi un certo limite potrebbe essere la spia di un paziente che può sviluppare una forma di Covid più grave e deve essere ospedalizzato tempestivamente oppure ricevere un certo tipo di trattamento. Avere un sito facilmente prelevabile come la saliva, che correla con l'evoluzione clinica del Covid, sarebbe una scoperta non da poco", ci dice il Prof. Falcone.

Differenza test rapidi e molecolari. L'argomento è ormai di uso e consumo quotidiano: il ministero della Salute ha inserito, nel bollettino che emana quotidianamente, anche la conta dei test rapidi che hanno fatto abbassare l'indice di positività. Come mai? "Mentre il tampone molecolare viene prescritto dal medico di base quando, generalmente, c'è un motivo, i test rapidi sono disponibili anche senza prescrizione. Probabilmente tante persone lo fanno anche in assenza di sintomatologia, ecco perché si abbassa la percentuale", ci ha spiegato. Ma c'è qualcosa che non sappiamo e differenzia enormemente le due tipologie di test: "I test rapidi hanno un metodo diverso, non verificano la presenza dei geni del virus ma soltanto gli antigeni di alcune proteine del virus, sono molto più semplici. Non richiedono il laboratorio di virologia come il tampone molecolare - afferma il ricercatore - In un primo momento i test rapidi sono stati poco presi in considerazione per la scarsa affidabilità, quelli di seconda generazione hanno una tecnica più evoluta con una precisione superiore al 90% molto simile al molecolare". Inoltre, è molto interessante sapere che questi test rapidi funzionano bene soprattutto in presenza di un alto livello di circolazione del virus come avviene in questo momento in Italia ed in Europa. Se la circolazione del virus cala, contemporaneamente, si abbassa anche l'affidabilità dei test rapidi e si dovrebbe tornare soltanto al molecolare. "Questo significa che i test rapidi hanno un valore adesso che c'è un'epidemia abbastanza diffusa ma se vogliamo fare uno screening in un periodo con poca circolazione del virus la performance cala e bisogna tornare al molecolare. In questo momento hanno una buona performance ma non sono test molecolari, non hanno la stessa affidabilità", conclude Falcone.

Le sperimentazioni nel mondo. A partire dalla prossima settimana, i dipendenti di Air New Zealand saranno invitati a partecipare ad uno studio di rilevamento del Covid-19 con campioni di saliva per vedere se è un metodo efficace e più semplice per rilevare il virus rispetto all'attuale test con tampone nasofaringeo. Lo studio è stato recentemente approvato dal Comitato Etico Nazionale per la Salute e la Disabilità del Ministero della Salute (ESR) della Nuova Zelanda. L'ufficiale medico capo di Air New Zealand, il Dott. Ben Johnston, afferma che la compagnia aerea è desiderosa di indagare su come rendere il processo di test il più semplice, facile e confortevole possibile per il suo equipaggio, i piloti e il personale dell'aeroporto, che vengono testati regolarmente. "Questo studio ci avvicinerà di un passo all'analisi dell'efficacia del test della saliva che migliorerebbe notevolmente l'esperienza per la nostra gente", afferma su una rivista specializzata neozelandese. Lo studio durerà da due a tre mesi e si svolgerà insieme al tampone nasofaringeo esistente. L'ESR confronterà l'accuratezza della saliva e del normale rinofaringe nei suoi laboratori. Stessa cosa accade anche in Canada: un nuovo studio ha scoperto che il test della saliva è efficiente quanto il test nasale. Come riportato da CtvNews, la pubblicazione è appena avvenuta sulla rivista specializzata Jama Internal Medicine. "I ricercatori hanno scoperto che l'accuratezza diagnostica dei test di amplificazione dell'acido nucleico della saliva (NAAT) era simile a quella del tampone nasofaringeo NAAT, specialmente in ambito ambulatoriale", si legge nel comunicato. A questo punto non resta che vedere cosa accadrà nelle prossime settimane, in Italia e nel mondo: diremo addio ai tamponi nasali? Speriamo di dire addio, quanto prima, al Coronavirus.

·        Quarantena ed Isolamento.

Cristina Marrone per corriere.it il 31 agosto 2021. Quando un paziente Covid ha maggiore probabilità di diffondere il virus? Gli scienziati stanno cercando di rispondere alla domanda dall’inizio della pandemia ed è stato piuttosto evidente fin dagli esordi il ruolo degli asintomatici come veicolo di contagio. Se con la Sars è stato piuttosto semplice bloccare la trasmissione del virus dal momento che solo chi manifestava sintomi era contagioso (e isolabile), con Sars CoV-2 le cose sono andate in modo del tutto diverso: il contagio arriva in modo inconsapevole anche dai pre-sintomatici, ma è più difficile isolare persone che, pur contagiate, stanno bene e manifesteranno i sintomi più avanti, a distanza di ore o di giorni. 

I giorni pericolosi. Ora un grande studio pubblicato su Jama Internal Medicine e condotto da Leonardo Martinez, ricercatore della Boston University School of Public Health (BUSPH) ha messo in luce che le persone infette dal virus sono più contagiose due giorni prima e tre giorni dopo l’esordio dei sintomi. La ricerca ha inoltre scoperto che gli individui infetti avevano maggiori probabilità di essere asintomatici se erano stati contagiati da un caso primario (la prima persona infetta di un focolaio) anch’esso asintomatico. 

Asintomatici e presintomatici. I ricercatori hanno studiato 9000 contatti stretti di un gruppo di 730 pazienti indice contagiati nella provincia cinese di Zhejiang da gennaio 2020 ad agosto 2020. Per contatti stretti sono stati inclusi contatti familiari (definiti come individui che vivevano nella stessa famiglia o che hanno cenato insieme), colleghi di lavoro, persone in ambienti ospedalieri. I ricercatori hanno monitorato gli individui infetti per almeno 90 giorni dopo il risultato positivo del tampone per distinguere tra casi asintomatici e presintomatici.

Lo studio. Gli esperti hanno studiato i tempi con cui gli individui di queste reti sociali risultavano a loro volta positivi al virus ed è emerso che in gran parte i contagi avvenivano quando il contatto con la persona infettata avveniva poco prima o subito dopo la comparsa in quest’ultimo di sintomi riconoscibili. Tra i casi primari l’89% ha sviluppato sintomi lievi o moderati, l’11% era asintomatico e nessuno ha sviluppato sintomi gravi. I familiari e i colleghi dei casi primari hanno avuto tassi di infezione più elevati rispetto agli altri contatti stretti. E i contatti stretti avevano maggiori probabilità di contrarre il Covid-19 dall’individuo infetto primario quando erano esposti poco prima e poco dopo l’esordio dei sintomi. «I nostri risultati suggeriscono che i tempi di esposizione sono importanti per la trasmissione del virus, e questo fornisce ulteriore evidenza del fatto che i test rapidi e la quarantena dopo che qualcuno è stato male sono un passo cruciale per controllare l’epidemia» ha spiegato l’autore del lavoro Leonardo Martinez.

Estratto dell’articolo di Enzo De Fusco e Cristian Valsiglio per 24plus.ilsole24ore.com il 30 agosto 2021. Se la legge impone ai lavoratori la quarantena di 10 giorni (per i non vaccinati) o di sette giorni (per i vaccinati) impedendogli di andare a lavorare e senza accompagnare questa disposizione con il riconoscimento di un ristoro, la conseguenza è che la stessa legge li priva della retribuzione. L’imprenditore, infatti, non ha alcuna responsabilità economica per questo periodo, in quanto si realizza il principio dell’impossibilità sopravvenuta a ricevere la prestazione da parte del lavoratore indipendentemente dalla sua volontà. La conseguenza è che l’unico a rimetterci è il dipendente che perde una retribuzione che può arrivare fino a 461 euro netti per ciascuna quarantena, fatta salva la buona volontà da parte delle imprese di venire incontro al disagio dei lavoratori riconoscendo loro volontariamente delle somme, peraltro, soggette a contributi e Irpef. (…)

RE per “il Giornale” il 30 agosto 2021. Potrebbe presto tornare l'indennità di malattia per i lavoratori che, a seguito di un contatto con un malato Covid, sono obbligati alla quarantena. «Ne parleremo al prossimo Consiglio dei ministri. Penso che possiamo affrontare la questione e risolverla», ha annunciato ieri il ministro del Lavoro, Andrea Orlando. Lo scorso 6 agosto l'Inps aveva infatti comunicato che non se ne sarebbe più potuta fare carico, appunto per mancanza di fondi. «Avevamo segnalato la questione nell'ultimo scostamento, purtroppo non si sono trovate tutte le risorse necessarie. Io credo che nel frattempo siano maturate le condizioni perché alcune risorse impegnate in altre direzioni possano essere utilizzate in questo senso», ha proseguito ieri il ministro. «Credo che ci possa essere una risposta se tutto il governo sarà d'accordo, abbiamo una valutazione assolutamente favorevole a consentire che la quarantena sia considerata una malattia e che non gravi sui lavoratori e sulle imprese». Sempre dal palco della Festa dell'Unità di Modena, lo stesso Orlando non ha però rinunciato a ridare fuoco alle polveri nei confronti del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, sul nervo scoperto del dl anti-delocalizzazioni peraltro ancora in fase di elaborazione. «Purtroppo in Italia si può licenziare con Whatsapp e non lo dico io ma due sentenze di due Corti di appello diverse in Italia che dicono che per formalizzare una procedura di licenziamento è sufficiente fare arrivare una notifica di carattere telematica», ha proseguito Orlando. Nei giorni scorsi Bonomi aveva invece negato con forza tale possibilità. Per Orlando non è una questione «di bon ton» ma «di carattere sostanziale. Se io chiudo e me ne vado e faccio trovare la serranda chiusa creo un problema a un territorio. Con un po' di tempo e con un confronto invece ci si può anche organizzarsi e limitare i danni. Nessuno vuole sanzionare chi se ne vuole andare, siamo in una società di mercato e nessuno è contro la libertà di impresa, ma il punto è come te ne vai». Il dl anti-delocalizzazioni, su cui il governo deve ancora trovare la quadra, potrebbe prevedere una serie di penalizzazioni per le aziende che chiudono e licenziano in modo selvaggio, come irrorare salate sanzioni o l'inserimento in una black list. Un approccio che era stato fortemente criticato da Bonomi, che aveva accusato Orlando di perpetuare una «propaganda anti-impresa».

Andrea Cuomo per “il Giornale” il 14 agosto 2021. Una nota dell'Inps, la 2842, pubblicata sul sito dell'istituto la scorsa settimana, il 6 agosto, e passata per giorni quasi inosservata, rischia di rovinare le ferie al lavoratore che accidentalmente sia stato sottoposto a quarantena per contatti con un positivo. L'isolamento, che prima era parificato alla malattia e quindi «pagato» dall'Inps, ora non lo è più. E la misura, si badi, è retroattiva. Una sporca faccenda di soldi. L'Inps aveva stanziato 663,1 milioni di euro per le tutele richiamate dall'articolo 26 del decreto legge numero 18 del 17 marzo 2020, varato in fretta e furia nei primi giorni della pandemia. Tutele che riguardano «la validità, ai fini del riconoscimento dell'indennità previdenziale per l'anno 2020, delle certificazioni attestanti la quarantena con isolamento fiduciario redatte dai medici curanti anche nei casi in cui non sia stato possibile reperire alcuna indicazione riguardo al provvedimento emesso dall'operatore di sanità pubblica». Questa norma era una sorta di tana libera tutti: chiunque presentasse un certificato del proprio medico era considerato in malattia e beneficiava quindi di tutti i vantaggi collegati a questo status. Ma «il legislatore attualmente non ha previsto, per l'anno 2021, appositi stanziamenti volti alla tutela della quarantena di cui al comma 1 dell'articolo 26 in commento» e quindi «salvo eventuali interventi normativi, l'istituto non potrà procedere a riconoscere la tutela previdenziale per gli eventi riferiti all'anno in corso». Fanno eccezione i cosiddetti lavoratori fragili, per i quali «si procedere ugualmente a riconoscere la prestazione nel limite degli importi stanziati» per l'anno 2020. E per l'anno 2021 si attingerà a uno specifico stanziamento pari a 282,1 milioni di euro, che permetterà un riconoscimento della prestazione soltanto per gli eventi fino al 30 giugno 2021. Per i mesi successivi, e fino al 31 ottobre 2021, gli stessi lavoratori fragili potranno continuare a lavorare «in modalità agile, anche attraverso l'adibizione a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria o area di inquadramento». Uscendo dalla giungla del burocratese, l'effetto di questa notiziola è che l'ente diretto da Pasquale Tridico non riconosce più le quarantene dei lavoratori dal 1° gennaio 2021 come malattia ai fini del trattamento economico, sia per quanto riguarda l'indennità previdenziale sia per quanto riguarda le contribuzioni figurative. Questo a meno che il governo non ci metta una pezza con un decreto che stabilisca ex post la copertura economica, misura che l'Inps ha più volte sollecitato presso i ministeri dell'Economia e del Lavoro. Senza successo. Chiunque sia stato a casa negli ultimi sette mesi e mezzo perché aveva un figlio positivo o aveva frequentato una persona poi risultata contagiata, credendosi al sicuro perché si era fatto fare un certificato medico, rischia quindi di vedersi contabilizzare il periodo di assenza come ferie oppure decurtare lo stipendio, fino a quasi la metà di una mensilità nel caso rientrasse nei casi in cui la quarantena richiesta fosse di quattordici giorni (il numero è stato progressivamente ridotto e attualmente è di sette giorni per chi ha completato il ciclo vaccinale da almeno quattordici giorni e possa esibire un tampone antigenico o molecolare negativo). Un caos postumo, che potrebbe creare molti problemi da settembre, quando gli uffici torneranno a riempirsi dopo le ferie agostane e i contagi presumibilmente continueranno ad aumentare. Non cambia nulla invece per il lavoratore che contragga il Covid-19. «Le indicazioni ricevute la ministero del Lavoro e delle Politiche sociali - si legge nella comunicazione firmata dal direttore generale dell'istituto Gabriella Di Michele - autorizzano l'istituto a procedere al riconoscimento della tutela della malattia secondo l'ordinaria gestione».

Tutto quello che c'è da sapere su quarantena e isolamento. Quanto dura la quarantena da Covid per i vaccinati e non, le nuove regole del Ministero. Elena Del Mastro su Il Riformista il  13 Agosto 2021. Con il numero di vaccinati che aumenta e la variante Delta che si diffonde, il Ministero della Salute ha aggiornato le misure di quarantena e isolamento. La circolare è stata firmata l’11 agosto e prevede novità per i vaccinati che hanno avuto contatti con casi Covid.

Vaccinati che hanno avuto contatti stretti con casi Covid confermati. I contatti asintomatici ad alto rischio (contatti stretti) di casi con infezione da SARS-CoV-2 identificati dalle autorità sanitarie, se hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni, possono rientrare in comunità dopo un periodo di quarantena di almeno 7 giorni dall’ultima esposizione al caso, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare o antigenico con risultato negativo. Qualora non fosse possibile eseguire un test molecolare o antigenico tra il settimo e il quattordicesimo giorno, si può valutare di concludere il periodo di quarantena dopo almeno 14 giorni dall’ultima esposizione al caso, anche in assenza di esame diagnostico molecolare o antigenico per la ricerca di SARS-CoV- 2. I contatti asintomatici a basso rischio di casi con infezione da SARS-CoV-2 identificati dalle autorità sanitarie, se hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni, non devono essere sottoposti a quarantena, ma devono continuare a mantenere le comuni misure igienico-sanitarie previste per contenere la diffusione del virus, quali indossare la mascherina, mantenere il distanziamento fisico, igienizzare frequentemente le mani, seguire buone pratiche di igiene respiratoria, ecc.

Cosa si intende per contatto a basso rischio. Per contatto a basso rischio, come da indicazioni ECDC 2 si intende una persona che ha avuto una o più delle seguenti esposizioni:

– una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso COVID-19, ad una distanza inferiore ai 2 metri e per meno di 15 minuti;

– una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio aula, sala riunioni, sala d’attesa dell’ospedale) o che ha viaggiato con un caso COVID-19 per meno di 15 minuti;

– un operatore sanitario o altra persona che fornisce assistenza diretta ad un caso COVID-19 oppure personale di laboratorio addetto alla manipolazione di campioni di un caso COVID-19, provvisto di DPI raccomandati;

– tutti i passeggeri e l’equipaggio di un volo in cui era presente un caso COVID-19, ad eccezione dei passeggeri seduti entro due posti in qualsiasi direzione rispetto al caso COVID-19, dei compagni di viaggio e del personale addetto alla sezione dell’aereo/treno dove il caso indice era seduto che sono infatti classificati contatti ad alto rischio.

Non vaccinati o vaccinati che non hanno completato il ciclo che hanno avuto contatti con casi Covid confermati. I contatti asintomatici ad alto rischio (contatti stretti) di casi con infezione da SARS-CoV-2 da variante VOC non Beta sospetta o confermata o per cui non è disponibile il sequenziamento, identificati dalle autorità sanitarie, che non hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni, possono rientrare in comunità dopo un periodo di quarantena di almeno 10 giorni dall’ultima esposizione al caso, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare o antigenico con risultato negativo. Qualora non fosse possibile eseguire un test molecolare o antigenico tra il decimo e il quattordicesimo giorno, si può valutare di concludere il periodo di quarantena dopo almeno 14 giorni dall’ultima esposizione al caso, anche in assenza di esame diagnostico molecolare o antigenico per la ricerca di SARS-CoV- 2. I contatti asintomatici a basso rischio di casi COVID-19 confermati da variante VOC non Beta sospetta o confermata o per cui non è disponibile il sequenziamento, identificati dalle autorità sanitarie, che non hanno completato il ciclo vaccinale da almeno 14 giorni, non devono essere sottoposti a quarantena, ma devono continuare a mantenere le comuni misure igienico-sanitarie previste per contenere la diffusione del virus, quali indossare la mascherina, mantenere il distanziamento fisico, igienizzare frequentemente le mani, seguire buone pratiche di igiene respiratoria, ecc.

I positivi al Covid quando possono uscire dall’isolamento? Le persone asintomatiche risultate positive, possono rientrare in comunità dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni a partire dalla data di prelievo del tampone risultato positivo, al termine del quale risulti eseguito un test molecolare o antigenico con esito negativo. Le persone sintomatiche risultate positive, possono rientrare in comunità dopo un periodo di isolamento di almeno 10 giorni dalla comparsa dei sintomi accompagnato da un test molecolare o antigenico con riscontro negativo eseguito dopo almeno 3 giorni senza sintomi (non considerando le alterazioni dell’olfatto e del gusto). In caso di riscontro di ulteriore positività al test diagnostico eseguito dopo 10 giorni dalla comparsa dei sintomi o dal tampone risultato positivo negli asintomatici, è consigliabile ripetere il test dopo 7 giorni (17° giorno).

Casi positivi a lungo termine. Per i casi positivi a lungo termine che continuano a risultare positivi al test molecolare o antigenico, in caso di assenza di sintomatologia da almeno 7 giorni si può interrompere l’isolamento al termine del 21° giorno. Le autorità sanitarie raccomandano particolare cautela nell’applicazione di tale criterio nei soggetti immunodepressi, in cui il periodo di contagiosità può risultare prolungato e di prevedere un test diagnostico molecolare o antigenico per stabilire la fine dell’isolamento di tutte le persone che vivono o entrano in contatto regolarmente con soggetti fragili e/o a rischio di complicanze.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        I Sintomi.

Il Covid attacca il fegato: ecco cosa accade. Alessandro Ferro il 15 Maggio 2021 su Il Giornale. Il virus può attaccare anche in fegato: è questa la scoperta dei ricercatori del Papa Giovanni XXIII di Bergamo assieme a colleghi americani. "C'è un legame tra danno epatico, coagulopatia ed endoteliopatia". Il Covid-19 attacca anche il fegato: per la prima volta al mondo, l'Università di Yale e l'ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo hanno dimostrato come il virus possa interessare anche la ghiandola più grande del corpo umano.

Cosa dice lo studio. I risultati di questa dimostrazione scientifica sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Hepatology, una delle più prestigiose riviste al mondo di gastroepatologia. La collaborazione tra i ricercatori dell'ateneo americano e l'ospedale bergamasco ha permesso, per la prima volta, di analizzare e soprattutto riprodurre il meccanismo patologico con cui il coronavirus causa un danno del fegato nei malati di Covid-19. Questo studio conferma il ruolo-chiave della citochina IL-6 e della endoteliopatia, cioè l'infiammazione delle pareti dell'endotelio che riveste i vasi sanguigni, responsabile del danno epatico associato a forme gravi e mortali di Covid-19. Il virus Sars-Cov-2 induce, cioè, le cellule dell'endotelio dei vasi sanguigni che irrorano il fegato a produrre una proteina chiamata interleuchina IL-6 che in situazioni normali agisce con funzione di regolazione dei processi immunitari. Quando la sua produzione è sregolata ed eccessiva può portare a stati infiammatori anomali. Nel caso del Covid-19, questa tempesta porta allo stato infiammatorio (endoteliopatia) e alla coagulazione del sangue all'interno dei vasi.

I risultati dalle autopsie. Come riportato dalla struttura ospedaliera bergamasca, per arrivare a questi risultati sono stati valutati i campioni istologici (cioé i test di laboratorio al microscopio su tessuti organici) di fegato relativi a 43 pazienti deceduti all'ospedale di Bergamo nella primavera del 2020: le autopsie sono state effettuate nella città lombarda durante la prima ondata pandemica dal Direttore del dipartimento di Medicina di laboratorio, Andrea Gianatti, e dal collega anatomopatologo, Aurelio Sonzogni. Si tratta, al momento, del primo studio mai pubblicato su modello animale che coinvolge il più grande campione numerico di tessuti umani provenienti da pazienti deceduti per infezione da Covid-19. "I marcatori dell'attivazione delle cellule endoteliali e delle piastrine - ha spiegato Aurelio Sonzogni dell'Anatomia patologica dell'Asst Papa Giovanni XXIII - hanno indicato un legame tra danno epatico, coagulopatia ed endoteliopatia. La citochina IL-6, attraverso un processo detto di trans-segnalazione, provoca l'aumento di anticoagulanti (fattore VIII, vWF) e infiammatori. Si genera anche un aumento delle piastrine nelle cellule dell'endotelio". I risultati sono stati inviati ai colleghi americani di Yale che hanno confermato "quanto abbiamo ipotizzato", aggiunge Sonzogni.

Cosa si sapeva l'anno scorso: i danni "indiretti" sul fegato. In precedenza, uno dei più grandi studi clinici ad aver valutato il rapporto tra danno al fegato e Sars-Coc-2 aveva rilevato che su 2.273 pazienti il 45% aveva un danno epatico lieve, il 21% moderato e il 6,4% grave. I pazienti con danno epatico acuto erano a maggior rischio di ricovero in terapia intensiva (69%), intubazione (65%), terapia renale sostitutiva (33%) e mortalità (42%). Il ruolo dell'infiammazione delle cellule endoteliali era già stato ipotizzato ma, nel caso del fegato, non era mai stato dimostrato su tessuto. Anche noi del giornale, a maggio 2020, avevamo intervistato in esclusiva il Prof. Massimo Colombo, Direttore del Centro Humanitas di Rozzano per la Ricerca Traslazionale in Epatologia e presidente della Fondazione Internazionale del Fegato con sede a Ginevra, il quale ci aveva detto (clicca qui per l'intervista completa) che una percentuale compresa fra il 14 ed il 53% di tutti i pazienti con Covid-19 presentano "alterazioni epatiche segnalate da incrementi nel siero di transaminasi, gamma Gt e spesso di bilirubina". Alla domanda su come si potesse individuare la presenza del Covid sul fegato, il Prof. Colombo aveva risposto che non erano state identificate particelle virali nel fegato di infetti Covid-19, a dimostrazione di come il virus agisse anche in modo "indiretto" e come la ricerca, in un solo anno di pandemia, abbia fatto ulteriori passi da gigante.

Cosa è cambiato adesso. Infatti, precedenti studi sul Covid-19 si erano focalizzati soprattutto sulla coagulopatia, cioè sull'aumento delle complicanze trombotiche e microvascolari generate dalla risposta infiammatoria del sistema immunitario e derivante dalla tempesta di citochine indotta dal virus Sars-CoV-2. Nessuno studio aveva analizzato direttamente il danno sui campioni di fegato correlandolo ai dati clinici. Adesso, la ricerca degli scienziati italiani e statunitensi torna a pone l'accento sul ruolo dell'endoteliopatia come causa principale di danno epatico rispetto alla coagulopatia, proprio perché sarebbe la causa di quest'ultima. Così, secondo gli autori dello studio, l'identificazione precoce dell'endoteliopatia e le strategie terapeutiche per ridurre la sua accelerazione infiammatoria, potrebbero migliorare il trattamento di malattia da Covid-19 grave. "Dal Papa Giovanni arriva ancora una volta un contributo allo sforzo collettivo della comunità scientifica internazionale per conoscere e quindi combattere in maniera efficace questa malattia - ha commentato Fabio Pezzoli, direttore sanitario dell'Asst Papa Giovanni XXIII - Ringrazio i nostri professionisti per il rigore scientifico e la serietà con cui stanno affrontando la sfida rappresentata da questo nuovo virus". 

Cristina Marrone per il "Corriere della Sera" il 14 aprile 2021.

1 Ci sono differenze nei sintomi d' esordio rispetto alla prima ondata?

«All' inizio della pandemia gli indizi che ci guidavano per identificare Covid erano febbre, tosse, affanno. Adesso i pazienti ci segnalano nei primi giorni della malattia più che altro una sensazione generale di malessere, mal di testa, nausea e, più raramente, diarrea». Ad affermarlo è Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di Medicina generale e delle Cure primarie (Simg).

2 Sono dunque cambiati i segnali del contagio?

Le sindromi simil-influenzali rappresentano la caratteristica peculiare di Covid-19, in particolare in questa fase pandemica in cui sono i più giovani a essere colpiti dal virus. «Febbre, non per forza alta, ma soprattutto spossatezza, quest' ultima che perdura anche a lungo, sono i sintomi che osserviamo più di frequente nei pazienti curati a domicilio» continua Claudio Cricelli. «Vediamo anche meno pazienti con tosse» aggiunge Ovidio Brignoli, vicepresidente Simg.

3 Possono cambiare i sintomi con l'età?

«Certamente. I giovani tendono ad avere una difesa immunitaria più forte, si ammalano meno e in genere manifestano sintomi leggeri, simili all' influenza - sottolinea il presidente Cricelli -. Pochi si ammalano di polmonite (molto più frequente negli anziani) e di solito si risolve velocemente. Non è Covid-19 ad essere cambiato, ma essendo ora più diffuso nella classe di età più giovane sono più frequenti sintomi tipici di chi viene curato a casa e non ha bisogno di terapie ospedaliere».

4 Sono più frequenti i sintomi gastrointestinali?

Pier Luigi Bartoletti, vicesegretario nazionale della Federazione dei medici di medicina generale (Fimmg) segnala un aumento dei sintomi gastrointestinali come dolori addominali, vomito o diarrea. In realtà si tratta di manifestazioni già evidenziate all' inizio della pandemia, in particolare tra bambini e adolescenti, e ora sono proprio le persone più giovani ad infettarsi con maggiore frequenza. Un piccolo studio italiano su pazienti dell'ospedale di Crema, in Lombardia, pubblicato nell'agosto scorso su British Medical Journal Gut , segnala che il 10% dei pazienti ricoverati ha manifestato diarrea, nausea, vomito o dolore addominale all' esordio della malattia e anche prima dei sintomi respiratori. «I sintomi gastrointestinali sono dominanti solo nel 5% dei casi, ma tra pazienti ricoverati nel reparto Covid almeno il 30% manifesta anche diarrea, vomito o nausea» conferma Marco Daperno, gastroenterologo all' ospedale Mauriziano di Torino. «Nella prima ondata le cose erano simili, ma ce ne siamo accorti un po' dopo perché travolti dall' emergenza».

5 La perdita di gusto e olfatto è ancora così diffusa?

L'alterazione o la perdita temporanea di gusto e olfatto sembrano essere meno frequenti sulla base di osservazioni cliniche ma non ancora supportate da studi su vasta scala. Pier Luigi Bartoletti dice: «Sapori e odori continuano a essere ben riconoscibili anche tra chi contrae Covid-19 tra i nostri pazienti romani». Ovidio Brignoli conferma da Brescia: «Perdita di gusto e olfatto sembrano spariti. Nessun paziente ci ha più segnalato questo problema».

6 Le varianti hanno portato sintomi diversi?

«Le varianti, quella inglese per quanto riguarda l'Italia, hanno contagiato molto di più le persone più giovani ma non ci sono evidenze che causino sintomi differenti» dice Brignoli. Secondo uno studio pubblicato due giorni fa su Lancet dal King' s College di Londra, con l' arrivo della variante B.1.1.7 non sono stati trovati cambiamenti nella tipologia dei sintomi e nella durata della malattia.

Graziella Melina per "Il Messaggero" il 24 marzo 2021. Per stare alla larga dal Covid meglio non saltare le ore di sonno. Secondo gli scienziati della Johns Hopkins University di Baltimora, infatti, le persone che soffrono di insonnia o di stress lavorativo hanno maggiori probabilità di contrarre l'infezione. Lo studio dei ricercatori americani, pubblicato su Bmj Nutrition Prevention & Health, ha coinvolto 2.884 operatori sanitari di Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti. Analizzando i 568 soggetti che hanno contratto l'infezione, il responso non ha lasciato dubbi: il 24%, ossia uno su quattro, aveva difficoltà a dormire la notte, rispetto al 21%, ossia uno su cinque, degli operatori che invece non erano stati infettati.

LO STRESS. A dimostrazione del fatto che il sonno è un toccasana c'è poi un altro dato: per ogni ora in più di sonno notturno recuperato, secondo gli scienziati la possibilità di ammalarsi scende del 12%. Nel rischio di infettarsi non è poi secondario il burnout, cioè lo stress lavorativo: circa il 5,5% degli operatori sanitari che si erano contagiati ne soffriva rispetto al tre per cento di quelli che non si sono ammalati. «La maggior parte dei medici internisti - ricorda Stefania Basili, ordinario di Medicina interna dell'Università La Sapienza di Roma - sono stati e sono ancora molto coinvolti nella pandemia. Portare avanti un lavoro così pesante e alienante, lavorando dentro un reparto Covid, espone maggiormente alla malattia causata dal Sars-Cov-2 ma anche a un semplice raffreddore». A rendere più vulnerabili è poi la mancanza di sonno. «Il ritmo circadiano sonno veglia è fondamentale nel nostro organismo - sottolinea Basili - sia per quanto riguarda il cortisolo, ma anche per tutta la parte immunologica. Se non si mantiene questo ritmo probabilmente si alterano alcune forme di protezione tra cui quelle collegate ai linfociti. Durante questa pandemia, gli operatori sanitari sono stati notte e giorno dentro gli ospedali, saltando anche i festivi e il riposo notturno». I fattori di stress, come spiega Alberto Siracusano, direttore di Psichiatria e psicologia clinica del Policlinico Tor Vergata di Roma «tendono a indebolire le difese immunitarie. Trovarsi in condizioni particolarmente affaticanti e preoccupanti porta a un grave stress. L'ansia, poi, è una delle principali caratteristiche presenti negli operatori sanitari. Ecco perché bisogna aver rispetto dei turni di lavoro, il sovraccarico diventa una modalità disattentiva di per sé, ma è causa di rischi anche per chi viene curato». Senza dimenticare che lo stress spesso porta a sottovalutare i pericoli del contagio. «La stanchezza fisica e il cosiddetto burnout legato alla gestione dei pazienti Covid - mette in guardia Claudio Mastroianni, vice presidente della Società italiana di malattie infettive e tropicali - potrebbe determinare un calo dell'attenzione soprattutto nell'utilizzo delle precauzioni. Potrebbe succedere insomma che dopo un anno di duro lavoro, 12 ore al giorno, possano esserci giornate in cui l'operatore magari salta qualche misura di sicurezza. Come noto, le situazioni stressanti possono comportare un aggravio dei rischi di contagio». Durante le situazioni di stress, precisa Roberto Giacomelli, direttore di Immunologia clinica e reumatologia del Policlinico universitario Campus Biomedico di Roma, «il sistema nervoso libera molecole che hanno la capacità di alterare e potenzialmente deprimere la risposta immunitaria. Viceversa, un normale equilibrio psicofisico garantisce la perfetta risposta del sistema immunitario».

SITUAZIONI SPECULARI. Riuscire a vincere l'insonnia sarebbe già un buon punto di partenza. «La deprivazione del sonno, quando per esempio una persona dorme poco per scelta o perché va a letto tardi ma non dorme abbastanza - ribadisce Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie - è una causa nota di stress. Ma c'è poi la situazione contraria, ossia quando una persona non riesce a dormire proprio a causa dello stress o di uno stile di vita sregolato. Si tratta di due situazioni speculari da non sottovalutare, perché producono progressivamente un indebolimento dell'organismo e questo aumenta il rischio di contrarre un'infezione».

I 6 segni sulla nostra pelle che annunciano il contagio da Covid. Covid colpisce anche la pelle: sono sei i segnali "d'allarme" che possono metterci in guardia da un'eventuale infezione. Gli esperti: "Possibilità di muoversi in anticipo ed aiutare nella diagnosi precoce della malattia". Alessandro Ferro - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. Oltre ai classici sintomi respiratori, in alcune circostanze Covid-19 appare ben visibile anche a occhio nudo: sono i segni che può lasciare sulla pelle.

Cosa dice lo studio. Una ricerca italiana condotta con il supporto della Società Italiana di Dermatologia medica, chirurgica, estetica e delle Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST) ha dimostrato che sarebbero sei i disturbi cutanei che potrebbero indicare la presenza del virus e che suggeriscono l’opportunità di sottoporsi a un tampone. Lo studio è stato pubblicato sul Journal of the American Academy of Dermatology ed ha visto partecipare 200 persone infettate dal Covid in tutta Italia e curate in 21 ospedali diversi per scoprire se ci fossero sintomi dermatologici correlati alla malattia e se potessero essere connessi ad una maggiore o minore gravità dell'infezione.

Ecco i sei segnali. A tutti i partecipanti sono state richieste numerose informazioni cliniche che hanno spaziato dalla gravità del Covid alla presenza o meno di altre malattie fino alla durata delle manifestazioni cutanee: i risultati dell’analisi dimostrano che i segni che il virus lascerebbe sulla pelle sono soprattutto sei: i più frequenti riguardano lesioni eritematose o simili al morbillo (presenti nel 27% dei casi), seguiti da geloni (25%) e manifestazioni simili alla varicella (16%); in percentuali minori ma certificate si piazzano orticaria (13%), vasculite (11%) ed ecchimosi (3%). Ma quanto duranto questi segnali sulla pelle? "La durata media delle lesioni cutanee è stata di dodici giorni, per i geloni si arriva a ventidue giorni», spiega il coordinatore dello studio, il Prof. Angelo Valerio Marzano, Direttore della Scuola di Specializzazione in Dermatologia e Venereologia dell’Università di Milano in un'intervista rilasciata al Corriere.

Differenze con malattia lieve o grave. I geloni sono stati la manifestazione più frequente tra i giovani asintomatici "mentre tutti gli altri segni cutanei erano collegati a una forma più o meno severa. Due studi internazionali precedenti hanno dato per assodato che le lesioni della pelle più gravi fossero correlate a una forma più grave di Covid-19, stabilendo quindi una proporzione diretta tra sintomi cutanei aggressivi e severità dell’infezione" ,afferma Marzano, specificando però che secondo gli ultimi dati non c'è una correlazione diretta tra la gravità della manifestazione cutanea e quella della malattia. "Invece è confermato il nesso tra aumento dell’età e aumento della severità della malattia", aggiunge. Secondo i dermatologi della SIDeMAST, sarebbe opportuno prestare molta attenzione anche alla pelle e sottoporsi ad un tampone nel caso in cui comparissero uno o più segni sopra descritti. "La nostra pelle potrebbe metterci in guardia e avvisarci preventivamente su quello che accade nell’organismo, dando la possibilità di muoverci in anticipo e aiutando nella diagnosi precoce della malattia, che può anche contribuire a evitare possibili ulteriori contagi", afferma Ketty Peris, presidente SIDeMAST.

Quali sono i meccanismi? Lo studio, però, non fa luce su quali siano i meccanismi per cui il virus si manifesta anche a livello cutaneo: per questa risposta dovremo attendere ulteriori studi e passi in avanti della ricerca. "Il nostro lavoro non si esaurisce qui - conclude Marzano - Stiamo scrivendo un progetto che verrà inviato al Ministero della Ricerca. L’obiettivo è contribuire a una sempre più approfondita conoscenza della malattia per far sì che la comunità scientifica possa sconfiggerla nel più breve tempo possibile".

Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 26 luglio 2021. I contagi aumentano, non i ricoveri. Il sistema sembra reggere, come nel Regno Unito, tenendo conto che in Italia la variante Delta ha cominciato a penetrare due settimane dopo e che sul piano della somministrazione delle dosi si sta recuperando terreno. Continuerà così? In un grande ospedale come il policlinico Gemelli, che ha creato un grande Covid-Hospital attivo da marzo 2020, per ora non ci sono segnali di rialzo. Roberto Bernabei, archiatra di papa Francesco, capo dipartimento di geriatria e presidente dell'associazione Italia Longeva, compie un'ideale visita dei pazienti: «Un terzo sono gli stessi "protagonisti" delle prime ondate epidemiche, gli ultra 75enni. La metà di loro sono stati ricoverati per problemi legati alla vecchiaia e, una volta sottoposti a tampone, si è scoperto che avevano anche il Covid, seppure in forma lieve o asintomatica. A portarli da noi sono stati il diabete, lo scompenso cardiaco e le patologie croniche, non il Sars-CoV-2. L'altra metà non era vaccinata». I restanti due terzi sono «giovani positivi sotto i 42 anni, rigorosamente non vaccinati. Anche fra loro non ci sono state vittime però qualcuno si è fatto un bel giro della morte, come lo chiamo io. Terapie pesanti a base di cortisone ed eparina, alti flussi di ossigeno, un paio sono finiti in terapia intensiva. Mi domando il senso di andare incontro a questa esperienza che potrebbero evitare con due semplici gesti. La doppia dose di vaccino». I preparati anti-Covid potrebbero risparmiare a questa platea di persone in salute almeno 10 giorni di una malattia infettiva che può lasciare strascichi. Bernabei mette in guardia: «Non sempre è una passeggiata. Guarisci e poi non sai se ti porterai dietro qualche noia, anche lieve». L'Istituto superiore di sanità ha appena pubblicato un rapporto sul Long Covid, malattia dei guariti dal virus che a distanza anche di due mesi dal tampone negativo accusano una serie di postumi persistenti. Sono stati contati circa 200 sintomi a carico di diversi organi. L'esperienza del Gemelli sta facendo scuola: «Abbiamo aperto il primo day hospital dedicato al Long Covid, diretto dal professor Francesco Landi. C'è una lista d'attesa lunga fino a novembre. Ecco perché insisto tanto: il virus non bisogna prenderlo, punto e basta. Non conosciamo ancora bene gli effetti a distanza dell'infezione». Forse ad alimentare la falsa certezza che prendere il Covid non sia così grave è il modello di calciatori che una volta guariti tornano in campo. Casi che non fanno testo: «Tanti rientrano in gioco in tempi brevi, tanti invece stentano a riprendersi, come in una lunga convalescenza. Non voglio allarmare, però è sciocco non fare prevenzione». Da geriatra, Bernabei vive con maggior tranquillità l'attuale fase dell'epidemia. Non regge il paragone con la precedente: «Non c'è sicuramente l'allarme di prima. Qualche caso di reinfezione negli anziani vaccinati può esserci, ma capita per tutte le vaccinazioni, in percentuali anche superiori». Le immagini dei cortei no-vax, tutti assembrati e senza mascherina, fanno temere un riflesso sull'Rt, già in risalita, e in più ci sono le segnalazioni di focolai nelle località di vacanza. «È assurdo che nemmeno l'evidenza dell'effetto straordinario delle vaccinazioni, l'altrettanto evidente effetto dannoso del Covid 19, anche nei giovani, convincano questa gente ad avere comportamenti civili, di rispetto. Non riesco a credere che l'ideologia e i pregiudizi nei confronti della scienza siano più forti della realtà. Mai come oggi abbiamo dati incontrovertibili. Il vaccino salva la vita. Il virus può spegnerla o rovinarla». Italia Longeva spinge da sempre sull'importanza delle vaccinazioni negli over 65. Anche quest'anno vengono raccomandati l'antinfluenzale, anti-pneumococco (responsabile di una forma di polmonite) e anti herpes zoster. 

Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 22 luglio 2021. C'è una ragione in più per vaccinarsi e non concedere tregua al virus della pandemia. Evitare i danni dell'infezione che possono sopraggiungere anche dopo uno-due mesi dalla guarigione «clinica» (la negatività al tampone) e perdurare diverse settimane. È il Long Covid, malattia a sé stante. Strascico, a volte invalidante, di quella originaria. Il riconoscimento ufficiale in Italia è attestato dal primo rapporto pubblicato il 1 luglio dall'Istituto superiore di sanità, coordinatore il geriatra Graziano Onder. Il decreto Sostegni-bis di maggio ha introdotto un'esenzione specifica per questa nuova «voce». Il servizio sanitario riconosce ai pazienti la gratuità di esami specifici. Secondo uno studio inglese il 10 per cento dei guariti, dopo quattro settimane dal tampone negativo, soffrono di questa condizione che a due mesi tarpa le ali e impedisce la piena ripresa al 5 per cento dei guariti dalla sindrome respiratoria data dal Sars-CoV-2. In Italia parliamo di almeno 200-400 mila persone. «Le stime sono provvisorie - spiega Onder -. Dipende dal fatto che non ci sono criteri diagnostici definiti. Molto è legato al tipo di infezione. I più esposti al rischio di sviluppare Long Covid sono ex malati passati attraverso forme gravi, anziani, persone con altre patologie, le donne. Non sono esclusi del tutto coloro che hanno avuto sintomi lievi sebbene le probabilità siano minori». L'obiettivo principale del rapporto è uniformare i trattamenti e creare una rete di follow up, vale a dire mantenere il controllo di questa platea di persone negli anni. Il virus Sars-CoV-2 è nuovo e così anche le conoscenze sull'eredità che lascia. «Soprattutto era urgente stabilire i criteri per identificare i pazienti e gestirli in modo ottimale», aggiunge Nicola Petrosillo, uno dei revisori del lavoro, oggi responsabile del servizio controllo infezioni al Campus Biomedico di Roma. Il Long Covid è una sindrome cronica, esito dalla tempesta infiammatoria accesa dal Covid-19. Declino cognitivo (il cosiddetto brain flog descritto dagli inglesi, annebbiamento cerebrale) problemi vascolari, cardiaci, respiratori, neurologici, renali, dermatologici sono alcune delle conseguenze dirette. Alle quali si aggiungono ansia, depressione, senso di affaticamento, distacco dalla vita. L'elenco si allunga fino a oltre 200 sintomi su dieci organi. Recenti studi internazionali hanno aggiornato la lista dei contraccolpi clinici, descrivendo casi di Long Covid a 35 settimane «dalla risoluzione biologica» dell'infezione, cioè dalla negativizzazione. In ogni caso il Long Covid può rendere difficile il ritorno al lavoro delle persone in attività. «Le manifestazioni cliniche - scrivono gli autori del rapporto - sono molto variabili e non esiste un consenso sulle caratteristiche. I segni sono vari e possono presentarsi sia singolarmente sia in diverse combinazioni. Possono essere transitori o intermittenti, cambiare la loro natura nel tempo o essere costanti». In generale, più grave è stata la malattia acuta e maggiore è l'entità dei sintomi. Ma «si è osservato che il Long Covid può accompagnare anche persone che in fase acuta hanno accusato unicamente sintomi lievi come febbre, tosse, spossatezza». Il risultato è che il paziente stenta a tornare allo stato di salute precedente l'infezione acuta. Colpiti anche i bambini pur se molto raramente. «L'approccio con questi malati deve essere multidisciplinare, personalizzato, modulato tenendo conto della varietà delle condizioni». Il primo punto di riferimento dovrebbe essere il medico di famiglia cui spetta valutare l'opportunità di approfondimenti in centri dedicati alla sindrome. Alcune Regioni hanno già individuato percorsi di «post guarigione». Così Emilia-Romagna, Abruzzo, Toscana, Liguria. E stanno nascendo centri specializzati. Il primo a descrivere il Long Covid è stato Francesco Landi che al Policlinico Gemelli ha organizzato un day hospital per i post Covid. Il coordinatore del team è il geriatra, ma per essere sottoposti a una valutazione a tutto campo (visita pneumologica, reumatologica, gastroenterologica, otorinolaringoiatrica, neurologica e psichiatrica) non c'è limite d'età. In campo pediatrico, la bussola è l'ospedale pediatrico Bambino Gesù.

Da "ilmessaggero.it" il 12 marzo 2021. Dai dolori muscolari a pulsazioni e pressione irregolari, ma soprattutto uno stato di profonda stanchezza. Questi sintomi sono tipici di chi soffre del cosiddetto 'long Covid', che non riesce a guarire, ma ricordano molto quelli di un'altra patologia, la sindrome da fatica cronica, tanto che molti ricercatori, a partire dal direttore del Niaid Anthony Fauci, stanno suggerendo un legame tra i due fenomeni. L'ultimo studio in ordine di tempo a ipotizzare una connessione è stato pubblicato su Frontiers in Medicine da alcuni ricercatori del Karolinska Institue e dell'università di Uppsala, e afferma che alcuni pazienti rimangono più a lungo in terapia intensiva perché si scatenano gli stessi meccanismi biologici alla base della malattia.

La ricerca. In particolare, spiegano gli autori, la sindrome post Covid in chi è stato in terapia intensiva sarebbe causata dalla soppressione di un ormone prodotto dalla ghiandola pituitaria, da un 'circolo vizioso’ tra infiammazione e stress ossidativo delle cellule e da una bassa funzionalità di un ormone della tiroide, problemi già osservati in chi ha la fatica cronica. «Date le similarità - concludono gli autori - una collaborazione attiva tra i ricercatori esperti nelle cure in terapia intensiva e nella fatica cronica potrebbe portare a esiti migliori in entrambe le situazioni». Il legame tra il Covid e la stanchezza cronica è ipotizzato da diversi ricercatori, soprattutto per quello che riguarda il cosiddetto 'long Covid', il fenomeno per cui i pazienti continuano ad avere sintomi, fra cui proprio la fatica cronica è uno dei più diffusi, per molti mesi dopo la malattia. Negli Usa il National Institute of Health, riporta il sito Medscape, sta per far partire due ricerche specifiche sui pazienti post Covid sul tema, e anche in Canada e in Gran Bretagna si stanno studiando pazienti con Covid cronico, soprattutto per capire i meccanismi comuni alle due patologie.

Il parere dell'oncologo. Il problema della stanchezza si era presentato anche in alcuni pazienti che avevano avuto la Sars, spiega l'oncologo Umberto Tirelli, ex primario dell'Istituto Nazionale dei Tumori di Aviano e direttore della Clinica Tirelli Medical Groupm specializzata nella fatica cronica, e in generale buona parte dei pazienti la sindrome si scatena dopo un'infezione. «Anche Anthony Fauci, Direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, ha speculato che molti pazienti hanno sviluppato una condizione molto simile a quella che si chiama Encefalomielite Mialgica/Sindrome da Fatica Cronica (Me/Cfs). Questa patologia - spiega l'esperto - si può sviluppare anche dopo altre malattie infettive, per esempio la mononucleosi, la malattia di Lyme, l'influenza, ed è stata osservata anche in pazienti che avevano avuto la Sars. Negli Usa si stima vi siano circa 2 milioni di persone affette da Me/Cfs secondo la National Academy of Medicine, in Italia circa 500mila persone. Effettivamente in questo momento, anche presso la nostra Clinica abbiamo un numero consistente di pazienti affetti da fatica cronica post Covid, a cui applichiamo gli stessi protocolli usati per la fatica cronica».

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 15 febbraio 2021. Non solo tosse, febbre e perdita di gusto o olfatto: il Covid potrebbe causare altri sintomi a cui si dovrebbe prestare attenzione. In Inghilterra, uno studio su più di 1 milione di persone ha rilevato che brividi, perdita di appetito, mal di testa e dolori muscolari potrebbero essere una spia di avvenuto contagio. Avere uno qualsiasi di questi sintomi o in combinazione con quelli classici, è stato associato al Covid. Covid, più sintomi mostrano le persone più probabile essere positivi. Più sintomi mostravano le persone, più era probabile che risultassero positive. I risultati sono stati ottenuti da test con tampone e questionari raccolti tra giugno 2020 e gennaio 2021 nell’ambito dello studio React condotto dall’Imperial College London. Nel Regno Unito, in presenza di uno dei sintomi classici, le persone attualmente sono esortate a fare un test. I ricercatori hanno affermato che sulla base dei risultati ottenuti, se tutti i soggetti idonei fossero testati, i test attuali coprirebbero circa la metà di tutti i casi di Covid sintomatici. Paul Elliott, direttore del programma React presso l’Imperial College London, ha dichiarato: “Questi nuovi risultati indicano che molte persone con Covid-19 non verranno testate e dunque non si autoisoleranno poiché i sintomi non rientrano in quelli segnalati nelle attuali linee guida sulla salute pubblica”. “Siamo consapevoli che includere molti sintomi comuni ad altre malattie come l’influenza stagionale potrebbe comportare il rischio di un inutile autoisolamento”.

Covid, più sintomi più test. Così si scoprono più persone contagiate. “Spero che i risultati sui nuovi sintomi possano far trarre vantaggio al programma di test, così da identificare più persone contagiate”. Lo studio ha rilevato che i sintomi di Covid variavano in base all’età. Mentre i brividi erano comuni a tutti, il mal di testa era presente nei bambini e negli adolescenti. La perdita di appetito era più comune negli adulti, mentre i dolori muscolari sono stati riscontrati tra i 18 e 54 anni. Tra i 5 e 17 anni, rispetto agli adulti, c’era minore probabilità di sintomi come febbre, tosse persistente e perdita di appetito. La ricerca ha inoltre scoperto che la variante inglese (nota anche come variante del Kent) presenta una serie di sintomi leggermente diversi. Gli scienziati hanno confrontato i sintomi segnalati a gennaio – quando la variante è diventata dominante – con quelli riportati a novembre e dicembre. A gennaio, la perdita dell’olfatto non era così comune rispetto alla fine del 2020, ma la tosse è stata segnalata più di frequente. Joshua Elliott, della School of Public Health dell’Imperial College London, ha affermato: “Con il progredire della pandemia e l’emergere di nuove varianti, è essenziale continuare a monitorare come il virus colpisca le persone così che i programmi di test soddisfino le mutevoli esigenze”. “Ci auguriamo che i risultati contribuiscano a fornire indicazioni per i test e lo sviluppo di sistemi che potrebbero aiutare a identificare le persone che, in base ai sintomi, dovrebbero sottoporsi al test”.

Con le varianti Covid cambiano i sintomi: dal mal di testa ai brividi. Asia Angaroni su Notizie.it lil 12 febbraio 2021. Preoccupano le varianti del Covid-19: secondo i dati emersi in un ultimo studio cambiano i sintomi, come brividi e perdita di appetito. Dopo i ministri Boccia e Speranza, anche le Regioni chiedono di prolungare la chiusura dei confini regionali fino al 5 marzo, data in cui termina il Dpcm attualmente in vigore. L’obiettivo è mantenere l’equilibrio raggiunto con le limitazioni adottate finora ed evitare l’esodo verso le città in cui lunedì 15 febbraio apriranno le piste da sci. I governatori di Regione chiedono la riapertura di palestre, cinema e teatri e c’è anche chi punta sull’apertura serale dei locali e dei ristoranti. Intanto però le varianti del Covid-19 spaventano anche l’Italia: dopo l’Umbria, dove Perugia e altri comuni sono in zona rossa, è allerta anche in Lombardia. La Fondazione Gimbe ha già espresso la sua preoccupazione e anche Walter Ricciardi dichiara: “Le varianti esploderanno a fine marzo”. Inoltre, secondo un nuovo studio condotto dall’Imperial College di Londra, le varianti del Covid hanno cambiato i sintomi della malattia.

Varianti del Covid-19: i sintomi. Brividi, perdita di appetito, mal di testa e dolori muscolari sarebbero altri sintomi del Covid-19, che si manifestano affianco a quelli più consueti come perdita dell’olfatto e del gusto, febbre e tosse persistente. “Questi nuovi risultati suggeriscono che molte persone con Covid-19 non vengono sottoposte a test – e quindi non si autoisoleranno – perché i loro sintomi non corrispondono a quelli utilizzati nelle attuali linee guida sulla salute pubblica per aiutare a identificare le persone infette”. Così ha dichiarato il Professor Paul Elliott, direttore del programma REACT all’Imperial.

I cambiamenti dei sintomi. Lo studio, commissionato dal Department of Health and Social Care e svolto in collaborazione con l’Imperial College Healthcare NHS Trust e Ipsos MORI, ha rivelato variazioni nei sintomi a seconda dell’età. I brividi si potrebbero manifestare a qualsiasi età. Al contrario, il mal di testa sembra coinvolgere soprattutto i giovani di età compresa tra 5 e 17 anni. La perdita di appetito riguarda in particolare persone tra i 18 e i 54 anni, ma anche quelle con età superiore ai 55 anni. Anche i dolori muscolari compaiono soprattutto nelle persone di età compresa tra 18 e 54 anni. I bambini tra 5 e 17 anni infetti presentano meno probabilità di avere febbre, tosse persistente e perdita di appetito rispetto agli adulti. “Siamo consapevoli della necessità di criteri di verifica chiari e che l’inclusione di molti sintomi che si trovano comunemente in altre malattie come l’influenza stagionale potrebbe rischiare che le persone si autoisolino inutilmente. Spero che i nostri risultati sui sintomi più informativi significano che il programma di test può trarre vantaggio dalle prove più aggiornate. E così si aiuta a identificare più persone infette”, ha aggiunto il professor Paul Elliott, direttore del programma presso l’Imperial. La ricerca ha attestato che l’insorgere delle varianti ha apportato variazioni nella manifestazione dei sintomi. In particolare, secondo lo studio, si sarebbe assistito all’aumento della percentuale di persone risultate positive con tosse persistente. Al contrario, sembrano diminuire i casi di perdita di olfatto. “Con il progredire dell’epidemia e l’emergere di nuove varianti, è essenziale continuare a monitorare come il virus colpisce le persone in modo che i programmi di test soddisfino le mutevoli esigenze”, ha precisato il dott. Joshua Elliott, della School of Public Health dell’Imperial College di Londra. Quindi ha aggiunto: “Ci auguriamo che i nostri dati aiuterà a fornire indicazioni per il test e lo sviluppo di sistemi che potrebbero aiutare a identificare meglio le persone che dovrebbero fare un test Covid-19 in base ai loro sintomi”.

Asia Angaroni. Nata a Varese, classe 1996, è laureata in Comunicazione. Collabora con Notizie.it.

Da "blitzquotidiano.it" il 9 febbraio 2021. La anosmia o perdita dell’olfatto, tra i più comuni sintomi del Covid-19, potrebbe causare anche un calo del desiderio sessuale. E’ quanto emerge da uno studio americano pubblicato sul Journal of Sexual Medicine e  rilanciato dal Daily Mail. 

Lo studio: olfatto e desiderio legati. Rischi anche per anosmia da Covid? Nello studio i ricercatori sottolineano lo stretto legame che c’è tra olfatto e desiderio sessuale, evidenziando come l’odorato giochi un ruolo fortissimo nell’attrazione. Già alcune ricerche precedenti avevano notato il nesso tra disordini dell’odorato e difficoltà nella vita sessuale. In questo studio, condotto su un campione di oltre duemila adulti americani di oltre 65 anni, i ricercatori hanno indagato gli effetti della perdita di olfatto sul desiderio e la soddisfazione sessuale nelle persone avanti con l’età. 

Il legame tra olfatto e desiderio sessuale. Da alcuni test e questionari è emerso che una diminuzione dell’olfatto negli adulti era associata ad “un calo del desiderio sessuale e ad una minore soddisfazione emotiva, ma non ad un decremento dell’attività sessuale o del piacere fisico”. “Il nostro studio dimostra che un calo delle funzioni olfattive può avere effetti sul piacere sessuale negli adulti anziani”, ha spiegato l’autore dello studio, Jesse K. Siegel, dell’Università di Chicago. “Di conseguenza per migliorare la salute sessuale i medici dovrebbero anche affrontare eventuali perdite di olfatto”. Come ha spiegato al Mail il dottor Jayant Pinto, dell’Università di Chicago, il sistema olfattivo è legato a centri del cervello che permettono l’esperienza del piacere. “Queste connessioni sono antiche ed in origine dovevano permettere di distinguere attraverso l’olfatto le sostanze chimiche dell’ambiente nocive, come per esempio gli alimenti tossici da evitare. La sessualità è essenziale per la riproduzione e anche questa dipende da uno stimolo sensoriale. E l’associazione che abbiamo trovato potrebbe segnalare che queste due vecchie parti della fisiologia del nostro sistema nervoso sono collegate”, ha spiegato Pinto. 

Covid, occhio a questo sintomo: ora è il più tipico della malattia. Ecco come riconoscere il vero, primo, campanello d'allarme dopo il contagio da Coronavirus. Fate molta attenzione a questo sintomo particolare...Redazione Money.it, Giovedì 28/01/2021 su Il Giornale. Mentre gli occhi del mondo sono puntati sulla campagna vaccinale, che procede tra ostacoli, ritardi e polemiche sugli effetti collaterali del vaccino, gli esperti sciolgono un nodo cruciale per molti e svelano il sintomo inequivocabile del Covid che consente di distinguerlo dall’influenza. Anche se i sintomi tipici delle due infezioni vengono spesso confusi perché simili, ci sono dei campanelli d’allarme a cui prestare particolare attenzione. Uno dei sintomi più caratteristici dell’infezione da Sars-Cov-2 è la perdita dell’olfatto (anosmia). Anche in caso di influenza stagionale e forte raffreddore il paziente può non sentire gli odori, ma c’è una differenza da tenere a mente: con il Covid le vie respiratorie sono libere e il naso non cola. Secondo un nutrito gruppo di esperti, quindi, la perdita dell’olfatto è un sintomo tipico prettamente del Covid-19 che non c’entra con la classica congestione nasale, ma si manifesta come sintomo neurologico in relazione al fatto che il virus attacca il nervo e il bulbo olfattivo per poi proseguire la sua strada verso il cervello. Il professor Alexander Wieck Fjaeldstad, docente specializzato in olfatto e gusto presso l’Università di Aarhus ha chiarito che la perdita dell’olfatto ha raggiunto un punteggio di 80 su 100 nella valutazione dei cambiamenti chemosensoriali e per questo motivo costituisce un sintomo tipico del Covid-19. Un simile risultato lo hanno raggiunto anche gli esperti dell’University College di Londra: su un campione di 600 pazienti affetti da anosmia osservati, infatti, l’80% di questi era positivo al Covid-19, mentre il 40% dei pazienti positivi presentava la perdita dell’olfatto come unico sintomo. Infine, è da sottolineare come la perdita dell’olfatto possa perdurare fino a 40 giorni dopo la guarigione.

Da blitzquotidiano.it il 25 gennaio 2021. Scoperto un nuovo sintomo del coronavirus, si tratta della lingua da Covid che provoca ulcere, gonfiore e macchie bianche in bocca. Un fenomeno osservato in parecchi pazienti ma ovviamente l’associazione al Covid non è automatica visto che le ulcere e la glossite (questo tipo di infiammazione della lingua) possono essere anche provocate da altro. Tanti positivi hanno avuto delle reazioni cutanee, dopo aver contratto il virus. In particolare, dalle analisi del King’s College di Londra, risulta che il 21% dei pazienti ha notato sintomi dermatologici. Tra questi anche la glossite, che finora era passata inosservata.

Lingua da Covid, cosa dicono le analisi. Si era visto che il Covid poteva provocare orticaria, qualcosa di simile alla varicella o ai geloni e nei bambini anche la sindrome di Kawasaki. Cioè una infiammazione di alcuni vasi sanguigni che si traduce in arrossamenti di occhi e labbra ed eruzioni cutanee. Tim Spector, epidemiologo del King’s College, ha postato una foto sul suo profilo Twitter per rendere meglio l’idea di cosa si intende per “lingua da Covid”. Spector ha scritto che “una persona su cinque con Covid presenta sintomi non comuni che non figurano nell’elenco ufficiale della Public Health England, come sfoghi cutanei. Si sta assistendo a un aumento del numero delle lingue da Covid e di strane ulcere alla bocca. Se avete strani sintomi o anche influenza o stanchezza restate a casa”.

Lingua da Covid, la glossite può durare anche per mesi. Numerose malattie infettive possono causare la glossite ma dal momento che, come dimostrano gli approfondimenti degli esperti può anche essere sintomo di Covid, laddove si noti qualcosa di anomalo nella propria bocca è consigliabile segnalarlo al proprio medico.

La ricerca sui sintomi del Covid. I ricercatori dell’Anglia Ruskin University hanno invece esaminato i dati di 83 pazienti con Covid. Hanno scoperto che i sintomi più diffusi erano tosse secca (66%), febbre (76%), spossatezza (90%) e perdita dell’olfatto/gusto (70%). Ma osservando più in dettaglio i sintomi legati agli occhi hanno scoperto che il 18% aveva sofferto di fotofobia, il 17% aveva prurito agli occhi e il 16% aveva occhi irritati. Quest’ultimo sintomo era significativamente più alto nel corso dei principali sintomi di Covid. L’81% aveva riferito di aver manifestato i problemi agli occhi a due settimane di distanza da altri sintomi Covid. Su cinque pazienti, quattro hanno affermato che i problemi legati agli occhi sono durati meno di due settimane e non vi era alcuna differenza tra genere maschile e femminile.

La congiuntivite uno dei sintomi del Covid. I rapporti hanno indicato che il Covid può causare infezioni agli occhi come, ad esempio, la congiuntivite. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) la segnala come uno dei sintomi meno comuni del coronavirus. I ricercatori italiani dell’Istituto nazionale per le malattie infettive hanno scoperto che il Covid poteva essere presente negli occhi di una persona fino a 21 giorni dopo i primi sintomi. Gli scienziati hanno scoperto che una donna di 65 anni aveva occhi rossi e infetti prima ancora che si manifestassero i classici segni del coronavirus. Il team che ha curato la paziente ha iniziato a tamponare gli occhi della donna, prelevando campioni del suo liquido oculare quasi quotidianamente.

·        I Postumi.

Quanti postumi lascia il Covid? Uno studio ne ha censiti 203 in 10 organi diversi. Elena Dusi su La Repubblica il 17 luglio 2021. Dalla Gran Bretagna lo studio più ampio sui sintomi del long Covid, che colpisce a tutte le età. Spossatezza e mancanza di fiato sono gli strascichi più diffusi, ma una percentuale altissima di guariti (l'85%) soffre di problemi cognitivi e neurologici, dalla perdita di memoria alla mente offuscata. Il Covid è complicato. Questi numeri lo dimostrano: chi guarisce può avere postumi associati a 203 sintomi diversi, distribuiti in 10 organi, 66 dei quali capaci di durare anche 7 mesi dopo la guarigione dall’infezione. La sindrome del “long Covid”, che taglia le forze e il respiro anche a chi è guarito, è uno degli aspetti più infidi del coronavirus.

Coronavirus, prendere il sole dopo essere guariti? "Gravi rischi per la pelle", l'allarme dei dermatologi. Libero Quotidiano il 16 giugno 2021. Chi è guarito dal Covid deve stare più attento all'esposizione solare quest'estate. Prendere troppo sole, infatti, potrebbe aggravare le manifestazioni cutanee che in alcuni casi si osservano con l'infezione causata dal Sars CoV-2. L'invito alla cautela arriva dagli specialisti dell'Istituto dermopatico dell'Immacolata di Roma-Ircss. "Il contagio da Covid può presentarsi anche con manifestazioni della pelle associate ai diversi stadi dell'infezione. Le più frequenti sono l'orticaria, un'eruzione simile a quella del morbillo o della varicella, geloni, livedo reticularis e la vasculite", ha spiegato al Messaggero il dermatologo Luca Fania. A fare attenzione, però, non devono essere solo i guariti, ma anche i vaccinati: anche a loro potrebbero capitare reazioni cutanee, orticaria oppure eritemi. Sarebbe importante, poi, utilizzare alcuni semplici accorgimenti. "Le persone che hanno queste manifestazioni cutanee dovranno esporsi gradualmente al sole. Quindi bisogna evitare gli orari critici. Occorre indossare indumenti a manica lunga. Ma soprattutto bisogna ricordarsi sempre che le creme solari da utilizzare sono solo quelle ad alta protezione", ha sottolineato Fania. Le creme, inoltre, non andrebbero usate solo in spiaggia. Il fattore di protezione solare 30 o anche superiore deve essere applicato ogni volta che ci si espone ai raggi Uv, e quindi anche quando si esce di casa. Secondo i dermatologi, poi, per difendersi ancora meglio dai raggi solari è consigliabile ricorrere anche alla fotoprotezione sistemica. Si tratta dell'assunzione "per via orale di sostanze che vanno dalle vitamine ai minerali, dai polifenoli ai carotenoidi, dotati di proprietà fotoprotettive e anti-fotocancerogene". In ogni caso, i dermatologi consigliano di sottoporsi - prima di andare in vacanza - ad un controllo di routine, per esaminare per esempio i nei presenti sulla pelle o altre lesioni cutanee sospette. 

Graziella Melina per “Il Messaggero” il 20 giugno 2021. Proteggersi dalla eccessiva esposizione al sole quest' anno assume una valenza in più. Se è vero, infatti, che le raccomandazioni sui comportamenti da adottare per far sì che il sole diventi un nostro alleato valgono per tutti, una attenzione particolare va posta per chi si è ammalato di Covid. L'esposizione al sole, infatti, potrebbe aggravare le manifestazioni cutanee che in alcuni casi si osservano con l'infezione causata dal Sars CoV-2. Il monito arriva dagli specialisti dell'Istituto dermopatico dell'Immacolata di Roma-Ircss che, in collaborazione con l'Idi-Farmaceutici, promuovono una campagna di prevenzione, SorrIDI al sole, per sensibilizzare sulla fotoprotezione solare specifica per la prevenzione dei tumori cutanei. «Il contagio da Covid - spiega Luca Fania, dermatologo dell'Idi e coordinatore dell'ambulatorio tumori cutanei non melanocitari - può presentarsi anche con manifestazioni della pelle associate ai diversi stadi dell'infezione. Le più frequenti sono l'orticaria, un'eruzione simile a quella del morbillo o della varicella, geloni, livedo reticularis e la vasculite». Non solo. Può capitare anche che chi si vaccina abbia reazioni cutanee, orticaria oppure eritemi. Per tutti, raccomandano gli esperti dell'Idi, l'esposizione al sole va limitata se non addirittura evitata per diverse settimane. Dopodiché, è bene che si utilizzino alcuni semplici accorgimenti. «Le persone che hanno queste manifestazioni cutanee - sottolinea Fania - dovranno esporsi gradualmente al sole. Quindi bisogna evitare gli orari critici. Occorre indossare poi indumenti a manica lunga. Ma soprattutto bisogna ricordarsi sempre che le creme solari da utilizzare sono solo quelle ad alta protezione». Come spiegano all'Idi, la cosiddetta fotoprotezione topica consiste, in sostanza, nell'uso di filtri fisici che contengono polveri naturali, ossia ossido di zinco o biossido di titanio. Queste sostanze sono in grado di riflettere o diffrangere le radiazioni ultraviolette (Uv). I filtri chimici, invece, riescono ad assorbire le Uv durante un'esposizione al sole. Le creme, però, non vanno usate soltanto quando si sta sulla spiaggia. Il fattore di protezione solare 30 o anche superiore deve essere applicato ogni volta che ci si espone ai raggi Uv, e quindi anche quando si esce semplicemente di casa. Per rafforzare la difesa dai raggi solari, secondo i dermatologi, è consigliabile eventualmente ricorrere anche alla fotoprotezione sistemica. Che consiste nell'assunzione «per via orale dalle vitamine ai minerali, dai polifenoli ai carotenoidi, dotati appunto di proprietà fotoprotettive e anti-fotocancerogene. È possibile così aumentare la protezione naturale della pelle contro gli effetti dannosi delle radiazioni Uv e prevenire sia la carcinogenesi che l'invecchiamento foto-indotto». Meglio però evitare il fai da te. Prima di andare e in vacanza e quindi di esporsi al sole, i dermatologi consigliano di sottoporsi ad un controllo di routine, per esaminare per esempio i nei presenti sulla pelle o altre lesioni cutanee sospette. Secondo i dati dell'Associazione Italiana Registri Tumori, l'incidenza del carcinoma basocellulare è aumentata del 10% all'anno, con un carico di prevalenza paragonabile a quella di tutti i tumori. Sebbene presentino una mortalità estremamente inferiore rispetto a quella del melanoma, se trascurati questi tumori cutanei negli anni possono comportare complicazioni per il paziente. In genere, le neoplasie della pelle insorgono su aree cutanee cronicamente esposte come la testa e il collo, oppure il dorso delle mani e il tronco. I soggetti più a rischio, se non protetti, sono quelli che svolgono attività lavorative e hobby all'aperto. Ecco perché gli specialisti dell'Idi invitano a non sottovalutare il benessere della pelle. Senza però allarmarsi se si intravede una macchia inconsueta. Grazie alla ricerca scientifica, oggi è possibile anche una prevenzione farmacologica per alcuni tumori cutanei. «Esiste una terapia orale con nicotinamide, ossia una delle forme di vitamina B3 - spiegano - che allo stato attuale è uno dei farmaci che ha dimostrato la riduzione dei tumori cutanei non melanocitari». Si tratta di un farmaco raccomandato per la prevenzione, appunto. E, come precisa Fania, «può essere prescritto per il trattamento in pazienti sottoposti ad asportazione di almeno due carcinomi basocellulari o squamo cellulari».

Covid, viaggio tra i guariti "immaginari": "Effetti in tutto l'organismo anche senza sintomi". Stefano Costantini su La Repubblica il 20 aprile 2021. Nel padiglione del Gemelli riservato al day hospital post-Covid. Matteo Tosatto, a capo dell'equipe medica: "Troviamo tracce ovunque. Sono passati da qui oltre mille e cento pazienti a distanza di mesi perdurano o insorgono varie patologie". Nell'altra dimensione, quella di chi il Covid lo ha già avuto, si accede da una porta laterale del Columbus, il padiglione che l'ospedale Gemelli ha dedicato alla cura del virus. Un hub, come si usa dire. Ovvero qui dentro sono concentrate tutte le attività: dai ricoveri alle vaccinazioni fino al day hospital post virus per quelli che, come vedremo, sono più o meno guariti.

Sergio Harari per il "Corriere della Sera" il 13 aprile 2021. Non si vede ancora la fine della pandemia che già un altro peso, non meno imponente, si affaccia all'orizzonte, quello dei cosiddetti «long Covid», ovvero degli effetti a lungo termine dell'infezione su chi ha superato la fase acuta. Un recente studio pubblicato sul British Medical Journal presenta dati sui quali sarà bene riflettere per tempo e con attenzione. Nella ricerca inglese sono stati messi a confronto 47.780 soggetti dimessi per Sars-CoV-2 dagli ospedali di quel Paese durante la prima ondata con la popolazione generale, bilanciando per età, sesso, etnia e vari fattori di rischio. I risultati sono preoccupanti: il 29,4% dei pazienti ospedalizzati per Covid ha avuto entro 140 giorni dal primo almeno un altro, successivo, ricovero, e di questi il 12,3% è deceduto. Non solo, il rischio di sviluppare problemi respiratori in chi era stato ricoverato una prima volta per Covid rispetto alla popolazione generale era moltiplicato per 6 (il 30% dei dimessi ha sviluppato disturbi polmonari), quello di sviluppare diabete per 4,8, problemi importanti cardio-vascolari per 4,8, di sperimentare malattie renali di 1,5 e epatiche di 0,3. I danni non erano circoscritti solo a chi aveva più di 70 anni, anche i più giovani pagavano un caro prezzo all'infezione virale. E questo non è l'unico studio che segnala numeri e percentuali di questo tipo; sebbene quelli pubblicati in precedenza si riferissero a casistiche numericamente meno importanti, i dati non erano significativamente diversi. In una recente indagine effettuata su 1.775 veterani americani che erano stati ricoverati per Covid-19, è risultato che il 20% è andato incontro a un secondo ricovero e il 9% di questi è deceduto entro due mesi dalla dimissione. Un'altra ricerca statunitense ha documentato come chi ha subito un ricovero per questa malattia virale abbia un rischio molto aumentato di sviluppare problemi renali, diabete, ictus, embolie polmonari, miocarditi e altro ancora. L'insieme delle nostre attuali conoscenze conferma quindi che il Sars-CoV-2 non causa danni solo ad alcuni organi come i polmoni ma è una vera e propria malattia sistemica che coinvolge tutto l'organismo e che le ripercussioni possono registrarsi anche a distanza di settimane e mesi dal superamento della fase più acuta. E tutto questo limitandosi solo ai malati che hanno avuto un ricovero, senza considerare tutti quelli che hanno sviluppato la malattia in forma più lieve e si sono curati a domicilio ma del cui futuro di salute nulla ancora sappiamo. Infatti sono ancora pochissimi gli studi sugli effetti a lungo termine dell'infezione su questa popolazione. Un interrogativo di salute che potrebbe avere importanti ripercussioni, considerate le decine di milioni di casi registrati in tutto il mondo. Ci aspetta quindi una grande sfida che sarà rappresentata dalla presa in carico di tutti questi pazienti, dal loro screening e dalla diagnosi precoce delle possibili manifestazioni post-Covid. La nostra sanità nazionale, anche per affrontare questa nuova realtà, necessita di finanziamenti molto significativi (non si sente più discutere del Mes come ha ricordato Ferruccio de Bortoli), di una nuova organizzazione, e di una adeguata e tempestiva programmazione, senza le quali pagheremo tutti un elevato prezzo di salute.

SENZA TREGUA - DOCUMENTARIO RAI SUL LONG COVID. Dagospia il 26 marzo 2021. L’11 marzo 2020 l’OMS ha dichiarato ufficialmente la pandemia di Coronavirus. A un anno di distanza, in coincidenza con la candidatura al Premio Nobel per la Pace 2021 del personale sanitario italiano - il primo nel mondo occidentale ad aver affrontato un’emergenza sanitaria senza precedenti - RAI Documentari presenta Senza Tregua, l'onda lunga del covid, un racconto in presa diretta su come questo evento epocale abbia segnato in modo indelebile le nostre vite, lasciandoci impotenti di fronte ad un nemico invisibile che non si riesce ancora a sconfiggere. “Senza Tregua, l'onda lunga del covid", scritto da Catia Barone con la regia di Leonardo Lo Frano, affronta l’eredità del COVID-19, un capitolo incerto e in buona parte sconosciuto anche al mondo medico-scientifico, raccontando in presa diretta le vite dei “long-covid”, i reduci del Coronavirus, che continuano a soffrire nonostante siano guariti dal virus. La stessa OMS ha annoverato tra le priorità la comprensione della gestione clinica dei pazienti post covid e del mistero dei postumi duraturi dell’infezione da coronavirus: sintomi inaspettati, complicazioni, disturbi neurologici, fino al blocco degli arti e a gravi disfunzioni renali. Raccontati nelle storie di Antonio Mastrogiacomo, 36 anni, mai ricoverato e negativizzato a dicembre, che a distanza di mesi non riesce a stare in piedi, vittima di una perenne stanchezza invalidante; di Morena Colombi, che dopo aver contratto una forma lieve di Covid ha continuato ad avere sintomi e dolori e ha fondato un gruppo Facebook per confrontarsi con altri guariti con effetti collaterali duraturi, che oggi conta migliaia di iscritti. E ancora Gianfranco Lamberti, medico fisiatra ricoverato per 4 mesi, che ha rischiato di rimanere tetraplegico e si è ripreso solo dopo una lunga riabilitazione; Rita Avanzini, 72 anni, ammalatasi ai reni dopo un periodo in terapia intensiva e una lunga degenza in ospedale dovuti al Covid, oggi costretta a dipendere dalla dialisi. Ritorna anche Franco Pugliese, già protagonista di “Senza respiro”, il primo medico vaccinato a Piacenza che coordina le squadre dei “vaccinatori”. Con la speranza di tornare alla normalità, anche se la cronaca di oggi lascia l’amaro in bocca. Sono solo alcune delle tante storie di chi è guarito dal virus ma si trova ad affrontare una nuova difficile sfida. Come testimoniano i medici del Columbus Covid Hospital del Policlinico Gemelli di Roma, il primo in Italia ad aver attivato il monitoraggio dei pazienti dimessi e ancora sofferenti. Tra loro, gli psichiatri stanno riscontrando anche disturbi da stress post-traumatico, come i reduci di guerra o le vittime di un attacco terroristico.

«Senza Tregua, l’onda lunga del Covid», il documentario sui reduci del Coronavirus. CorriereTv il 26 marzo 2021. L’11 marzo 2020 l’OMS ha definito il Coronavirus una pandemia. A un anno di distanza, in coincidenza con la candidatura al Premio Nobel per la Pace 2021 del personale sanitario italiano - il primo nel mondo occidentale ad aver affrontato un’emergenza sanitaria senza precedenti - RAI Documentari presenta Senza Tregua, l’onda lunga del covid, un racconto in presa diretta su come questo evento epocale abbia segnato in modo indelebile le nostre vite, lasciandoci impotenti di fronte ad un nemico invisibile che non si riesce ancora a sconfiggere. “Senza Tregua, l’onda lunga del covid”, scritto da Catia Barone con la regia di Leonardo Lo Frano, affronta l’eredità del COVID-19, un capitolo incerto e in buona parte sconosciuto anche al mondo medico-scientifico, raccontando in presa diretta le vite dei “long-covid”, i reduci del Coronavirus, che continuano a soffrire nonostante siano guariti dal virus. La stessa OMS ha annoverato tra le priorità la comprensione della gestione clinica dei pazienti post covid e del mistero dei postumi duraturi dell’infezione da coronavirus: sintomi inaspettati, complicazioni, disturbi neurologici, fino al blocco degli arti e a gravi disfunzioni renali.

Depressione, dolori al torace e rischio ictus. Chi guarisce dal virus non esce dall'incubo. La sindrome "Long Covid" colpisce tutto il corpo. E può durare per mesi. Antonio Caperna - Gio, 25/03/2021 - su Il Giornale. Il coronavirus lascia una traccia nelle persone anche quando il tampone è ormai negativo. Si moltiplicano, infatti, i casi di malessere a distanza di settimane, che possono interessare ogni parte del corpo, tanto che gli specialisti si stanno interrogando se metter in piedi strutture adatte per il cosiddetto «Long Covid». È quanto emerge da una revisione di più studi, realizzata dalla prestigiosa Columbia University, secondo la quale è il momento di avere «Centri Covid-19 dedicati con un approccio multidisciplinare». Nel nostro Paese ci sono diversi esempi già attivi in questo senso e si richiede un sistema standardizzato e reso fruibile a tutti indipendentemente dall'area di residenza. I ricercatori americani hanno scoperto che nel 20% dei casi resta il dolore toracico anche a 6 settimane di distanza dal contagio, così come possono manifestarsi malattie non scoperte precedentemente a cominciare dal diabete e, in molti giovani, dalle aritmie. Il tutto è non sempre correlato alla gravità dell'infezione. Il battito irregolare può portare a ictus, insufficienza cardiaca e danni di lunga durata al cuore. Si tratta di gravi complicazioni che, nel caso proprio di ictus e infarti, posso esser legati a coaguli di sangue, causati da una persistente risposta immunitaria nei vasi sanguigni. È quanto affermano i ricercatori della LKCMedicine, Nanyang Technological University di Singapore. «Durante le fasi iniziali dell'infezione, Sars-CoV-2 può attaccare il rivestimento dei vasi sanguigni e innescare infiammazione e una risposta immunitaria», spiega la dottoressa Florence Chioh. I ricercatori hanno raccolto il sangue di persone dopo un mese dall'infezione e hanno scoperto che, rispetto agli individui sani, c'era nel sangue il doppio delle cellule danneggiate dei vasi sanguigni e ancor di più nelle persone diabetiche e ipertese. Inoltre hanno trovato molte proteine infiammatorie e un alto numero di cellule T, quindi «un sistema immunitario iperattivo, la probabile causa di danni ai vasi sanguigni, osservati in alcuni Long-Covid. Questo può causare «perdite» nei vasi sanguigni con aumento del rischio di coaguli di sangue. Pertanto i pazienti dovrebbero esser seguiti anche dopo l'infezione, per identificare i casi ad alto rischio», conclude la ricercatrice. Invece tra i sintomi neurologici più comuni a distanza di tempo ci sono il mal di testa, formicolii, annebbiamento e la ben nota perdita di gusto e olfatto, secondo quanto affermano i ricercatori della Northwestern Medicine in uno studio, pubblicato su «Annals of Clinical and Translational Neurology», dove l'85% riferisce di solito 4 sintomi contemporaneamente. E tra i malesseri duraturi non di carattere neurologico più comuni ci sono mancanza di respiro, dolore al torace, fatica, insonnia e depressione.

Covid, la sindrome Mis-C sviluppata dai bambini contagiati dal virus. Ilaria Minucci su Notizie.it il 5 aprile 2021. I bambini contagiati dal Covid possono sviluppare una iper-infiammazione multisistemica nota come sindrome Mis-C, simile alla malattia di Kawasaki. I bambini di età compresa tra i 3 e i 12 anni che hanno contratto il coronavirus possono sviluppare una iper-infiammazione multisistemica che compromette il funzionamento di svariati organi. L’infiammazione può manifestarsi dopo tre o quattro settimane dall’avvenuto contagio e può evidenziarsi anche nei soggetti positivi al Covid risultati, però, asintomatici. L’iper-infiammazione multisistemica che può colpire i bambini infettati dal SARS-CoV-2 tra i 3 e i 12 anni è nota, in ambito medico, con la dicitura “Mis-C”. Secondo quanto dichiarato dal dottor Francesco La Torre, referente della sindrome in Puglia, la Mis-C “simula lamalattia di Kawasaki ma è molto più aggressiva”. Lo specialista, infatti, ha precisato che la malattia compromette il cuore dei pazienti nel 60% dei casi diagnosticati, rendendo indispensabile il ricovero dei piccoli in terapia intensiva. Il dottor La Torre, inoltre, ha dichiarato che in Italia, sinora, sono stati individuati “130 casi di bambini con la sindrome ‘Mis-C’ e il 30% di loro è finito in terapia intensiva ma, fortunatamente, la mortalità è pari a zero”. In Puglia, i casi di Mis-C totalmente registrati su territorio regionale sono stati pari a 21 con due ricoveri in terapia intensiva. L’esperto pugliese, infine, ha sottolineato anche che “purtroppo l’età di chi si ammala si sta abbassando” e che il rischio di un incremento dei pazienti affetti da Mis-C appare sempre più alto e plausibile a causa del progressivo aumento deicontagi provocati dalla circolazione del Covid. La sindrome Mis-C può essere riconosciuta dai genitori dei più piccoli e distinta dalla sindrome di Kawasaki analizzando i sintomi riscontrati nei propri figli. Tra i sintomi che differenziano le due malattie e che devono allertare i genitori spingendoli a rivolgersi al medico di famiglia, vi sono dolori addominali, infiammazione del cavo orale, febbre persistente, macchie sul corpo e congiuntivite. A questo proposito, il dottor Francesco ha spiegato: “Riconoscere la Mis-C precocemente ci permette di intervenire prima che la malattia colpisca organi importanti come il cuore. Questa sindrome, infatti, prevede il trattamento con immunoglobuline e poi con il cortisone, per tre giorni, prima di procedere con la somministrazione del farmacobiologico Anakinra”.

Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it

"Kawasaki e polmoniti devastanti". Quel "long Covid" dei bimbi. Oltre la metà dei bambini colpiti dal Covid ha manifestato almeno un sintomo anche dopo 120 giorni dalla malattia. "Le varianti li stanno colpendo particolarmente, fare in fretta con i vaccini". Alessandro Ferro - Mar, 23/03/2021 - su Il Giornale. Anche se si ammalano di meno, il Covid nei bambini può avere risvolti di una certa gravità sia per la malattia in sé ma, soprattutto, per gli strascichi che l'infezione può lasciare tanti mesi dopo dalla guarigione.

"Long Covid": ecco lo studio italiano. Infatti, quello che gli specialisti chiamano "Long Covid" (cioè sintomi a lungo termine) colpisce anche la fascia d'età pediatrica (fino ai 14 anni) ed i restanti giovani fino ai 18 anni. I bambini affetti da questa problematica sono molto più numerosi di quanto si pensi: in tal senso, il primo studio che presenta evidenze di "Long Covid" è stato condotto in Italia dal Policlinico Gemelli di Roma tra marzo e novembre 2020 ed i risultati non sono affatto positivi. Infatti, ben il 52,7% ha manifestato almeno un sintomo 120 giorni dopo o più dopo la diagnosi (clicca qui per il lavoro originale). "A nostra conoscenza, questo è il primo studio che fornisce prove di Long Covid nei bambini. Più della metà ha riportato almeno un sintomo persistente anche dopo 120 giorni dal Covid-19, con il 42,6% indebolito da questi sintomi durante le attività quotidiane. Sintomi come affaticamento, dolori muscolari e articolari, cefalea, insonnia, problemi respiratori e palpitazioni erano particolarmente frequenti, come descritto anche negli adulti", scrivono i ricercatori.

Kawasaki e polmoniti, cosa sta accadendo. Anche se è vero che, in proporzione, i bambini si ammalano meno rispetto ad adulti ed anziani, in chi sviluppa l'infezione i segni possono essere duraturi nel tempo con sintomi di "Long Covid" come negli adulti. "I bambini si ammalano di meno rispetto agli adulti ed è un dato di fatto ma si ammalano e sapevamo che sarebbero stati, nel tempo, specie per la seconda e terza ondata, gli untori del domani. il virus circola all'interno delle scuole ma soprattutto all'interno delle famiglie, sono i nuclei familiari ad infettare il bambino e viceversa", afferma in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Giuseppe Mele, pediatra e Presidente della Società Italiana Medici Pediatri (SIMPE) che lancia l'allarme per quanto sta avvenendo tra i più piccoli. "La sintomatologia non è molto estesa ma i pochi dati a nostra disposizione dicono due cose: tra maggio e giugno 2020 c'è stato un aumento esponenziale delle sindromi di Kawasaki e sindromi simili. Si conosce ancora poco su quella sindrome e le sue origini ma una delle ipotesi è il Coronavirus", afferma Mele. La sindrome di kawasaki ha un andamento stagionale (primavera-estate) e colpisce i piccoli vasi come trombi e coronarie. Questa malattia rimane per tutta la vita ed i bambini sono seriamente compromessi nella loro situazione clinica. E poi, le varianti stanno facendo aumentare esponenzialmente i contagi e la malattia anche nei più piccoli. "La sintomatologia può essere estremamente complessa ed importante: le varianti stanno particolarmente colpendo i bambini e non solo in maniera paucisintomatica o sintomatica ma anche con sintomi piuttosto severi, con polmoniti interstiziali anche devastanti. Tutta la sintomatologia deve essere rivalutata, sia per quanto riguarda l'incidenza che la virulenza del Covid nei confronti della popolazione infantile. Questo è importante".

"Bambini con polmoniti interstiziali devastanti". Con il Prof. Mele siamo tornati sullo studio del Gemelli in cui oltre la metà dei bambini tra 6 e 16 anni che contraggono il virus ha almeno un sintomo che dura più di 120 giorni e, tra questi, ben il 42,6% ha sintomi che compromettono lo svolgimento delle attività quotidiane. "Le varianti stanno colpendo maggiormente anche questa fascia d'età in maniera abbastanza imponente: anche il bambino ha polmoniti interstiziali devastanti con polmoni che riducono la loro funzionalità", afferma. Il virus li colpisce ed i sintomi a lungo termine si sono rivelati piuttosto complessi: "Mi riferisco non soltanto a mal di testa, febbricola, dolori muscolari o problemi gastrointestinali ma anche a problemi della normale attività quotidiana: disturbi della concentrazione, disturbi della memoria, disturbi di apprendimento e disturbi legati al sonno: tanti bimbi stanno cominciando ad avere insonnia, un po' per paura ed un po' per il virus. Non abbiamo una fotografia molto chiara ma questo è quello che stiamo riscontrando".

Chi guarisce ha ancora i sintomi. È allarme per il "long Covid". "Variante inglese il vero pericolo". Ma qual è la percentuale dei bambini che finiscono in un ospedale pediatrico? "I dati non li abbiamo ma l'incidenza non è altissima: per il momento è bassa ma bisogna vedere quanto incidono le varianti rispetto al virus iniziale. In questo senso, la variante inglese ha inciso sicuramente molto di più sulla popolazione infantile. Non avrebbe avuto senso chiudere le scuole se così non fosse: bisogna prendere provvedimenti per la sintomatologia che sta diventando sempre più importante. Parliamo di organismi in evoluzione, quale sarà il loro neurosviluppo e l'incidenza sulla fertilità di questi bambini? È un'evoluzione che non possiamo permetterci il lusso di aspettare per capire cosa potrebbe avvenire", sottolinea il Prof. Mele.

"Bambini esclusi dall'immunità di gregge". Il vero problema è che i trials clinici per i vaccini sono generalmente condotti da 18 anni in su: soltanto l'azienda Moderna ha iniziato da pochissimo alcune sperimentazioni nella fascia d'età dai 6 mesi agli 11 anni. È ovvio che a breve termine non ci sarà nessun vaccino disponibile per gli 0-18 anni. Cosa potrà accadere alla luce anche delle varianti? "Può comportare problemi seri, stiamo creando un'immunità di gregge solo ed esclusivamente per alcune fasce d'età: i bambini sono esclusi dall'immunità di gregge quando, invece, la ricerca dovrebbe accelerare i suoi processi in funzione della sperimentazione clinica nella fascia pediatrica. Sarebbe come dimenticarsi di una fetta importante della popolazione, l'immunità di gregge si crea quando tutta la popolazione viene vaccinata e non soltanto una fetta, altrimenti rischiamo che il virus circoli soltanto in determinate fasce che possono trasmettere varianti o altro", denuncia il Presidente della SIMPE. "L'immunità di gregge si conquista se c'è il 95% della popolazione vaccinata, così si debella un virus, in quel caso c'è un'immunità vera". "Bisogna fare in fretta". Altro che 75-80%, "magari si riuscisse a fare", afferma Mele, ma la sua idea di immunità di gregge è chiara. "Quando l'Oms ci dice che per il morbillo si deve arrivare ad una soglia del 95-96%, significa che sono quelle le soglie giuste e corrette, altrimenti sarà difficile ottenere la vera immunità di cui tanto si parla. Il 75% sarebbe auspicabile in questo momento ma, ripeto, rimane una fetta importantissima di popolazione che non viene vaccinata". Tutelare l'infanzia per tutelare tutti, è questo il grido di dolore della Società Italiana dei Medici Pediatri."Chiediamo che si faccia in fretta: la popolazione esclusa dalla ricerca deve essere immediatamente, e con urgenza, ripresa da questo punto di vista. Altrimenti, tutti quei sintomi incideranno e non poco sul neuro-sviluppo del bambino. Non possiamo aspettare a lungo".

Protocolli e cure: cosa fare. Quali sono le cure che i pediatri danno ai bambini sintomatici ma che, fortunantamente, possono rimanere a curarsi in casa? "Ci sono dei protocolli, cerchiamo di agire sulle linee di indirizzo che ci stanno inviando perché una cura chiara e precisa non esiste. La terapia prevede antinfiammatori come il paracetamolo, ibuprofene e, a volte, anche il cortisone ma non in prima battuta perché riduce le difese immunitarie. Va dato se l'infiammazione progredisce soprattutto a livello bronchiale". Ruolo molto importante lo svolge anche una particolare vitamina oggetto di dibattito nei mesi scorsi (qui un nostro pezzo). "Come pediatri, agiamo molto sulla prevenzione: in questo senso, l'utilizzo della vitamina D che non è esclusiva soltanto del primo anno di vita ma va estesa anche agli anni successivi, male non fa visto e riduce le infezioni respiratorie. Accanto a questa, ci sono tutte le terapie di supporto per i disturbi del sonno, i disturbi comportamentali e supporto psicologico". Mascherine e distanziamento. La mascherina rimane sempre uno strumento molto efficace anche in pediatria. "L'appello è di continuare a metterla e non abbassare la guardia", ci dice il pediatra. Accanto a quella, distanziamento e misure precauzionali vanno mantenute anche tra i più piccoli, ed in questa stagione Covid hanno fatto sparire un'infezione stagionale. "L'influenza quest'anno non c'è praticamente mai stata, è la prima volta che si verifica un fenomeno di questo genere grazie proprio all'utilizzo di queste misure di distanziamento. La mascherina va utilizzata e viene indossata senza alcun problema dal terzo-quarto anno in poi". Infine, un cenno alle cure primarie: il presidente della SIMPE chiede che venga rivisitata in funzione della pandemia: "non più al centro soltanto il bimbo con le sue attenzioni, fulcro del nostro agire quotidiano, ma la comunità al centro delle nostre attenzioni. Spostare un processo di cura che è differente come impostazione e come organizzazione stessa", conclude.

Carla Massi per "Il Messaggero" il 13 marzo 2021. Sono più di due milioni e mezzo in Italia ma, incredibile, non riescono a farsi vedere e sentire. L'immenso frastuono della pandemia non lascia spazi per altre voci. Anche se arrivano dalle persone che sono state colpite dal Covid-19. Persone che si sono ammalate, forse ricoverate e poi dimesse una volta che i test hanno dato risultato negativo. Si potrebbe parlare di ex pazienti, di guariti. Loro, però, dicono che non è così. Perché anche a distanza di dieci-dodici settimane dagli ultimi esami devono ancora fare i conti con un rosario di sintomi. Parliamo di affaticamento, fiato corto, dolori articolari, tachicardia, vuoti di memoria, perdita della concentrazione, ansia, depressione. Oggi, questi pazienti, vengono ufficialmente definiti Long Covid. «I segni della malattia non ci hanno abbandonato, il sistema sanitario sì», racconta Leila, amministratrice del gruppo Facebook Long Covid/COVID-19 Italia. È uno dei tanti gruppi social nati per riunire gli ex pazienti che, oltre l'infezione, hanno un dramma in comune: il non essere ascoltati e creduti. Piuttosto, spesso, accusati di esagerare. Solo in pochi ospedali - in prima fila Toscana, Lombardia e Liguria ma non solo - si sta cominciando a pensare a questi nuovi pazienti. A creare degli ambulatori ad hoc con medici che sappiano seguirli. Al Policlinico Umberto I di Roma dai primi di febbraio è aperto un percorso di follow-up gratuito per pazienti pediatrici, che hanno avuto una infezione da Sars-CoV2, nell'ambulatorio di Pneumologia pediatrica diretto dal professor Fabio Midulla. Nello stesso ospedale sono in programma corsi di aggiornamento sui Long Covid. Proprio per assicurare le giuste risposte e un monitoraggio multidisciplinare ai guariti è partito a Roma, al Policlinico Universitario Gemelli un servizio di Day hospital post-Covid. «Si tratta - spiega Francesco Landi, direttore dell'Unità complessa di Riabilitazione e Medicina Fisica del Policlinico Universitario Gemelli fra i responsabili del Day hospital - di un servizio dedicato ai pazienti che sono stati colpiti dal virus. Qui si ripete il tampone e si programmano varie visite specialistiche. E test come l'elettrocardiogramma, gli esami per valutare le condizioni di fegato e reni e la capillaroscopia per valutare la salute vascolare. Dopo due giorni, una visita pneumologica, una otorinolaringoiatrica per gusto e olfatto, una gastroenterologia e una oculistica. E non dobbiamo sottovalutare l'impatto psicologico». L'Oms ha presentato un documento sul Long Covid (uno su dieci continua a non stare bene dopo oltre 12 settimane) nel quale spiega che la malattia può comprendere sintomi sovrapposti, tra cui dolore toracico e muscolare generalizzato, affaticamento, mancanza di respiro e disfunzione cognitiva, infiammazione persistente, trombosi, mal di testa, depressione, febbre ricorrente, perdita dell'olfatto. Le parole del direttore dell'Organizzazione per l'Europa, Hans Kluge: «Oggi facciamo luce sul fatto che, in alcuni pazienti, la disabilità che segue l'infezione si protrae per mesi con gravi conseguenze sociali, economiche, di salute e sul lavoro. Il peso è reale e importante. Purtroppo, alcuni malati sono trattati con incredulità o mancanza di comprensione». Quindi, gli ex pazienti non esagerano. Michele Vitacca, direttore del Dipartimento Pneumologia Riabilitativa degli Istituti Clinici Scientifici Maugeri di Pavia, spiega che la ripresa, nel post Covid, si basa su tre pilastri. «Il primo è il recupero respiratorio ovvero andare a riaprire e dilatare, con farmaci, dispositivi e ginnastica respiratoria, gli spazi degli alveoli polmonari che sono stati compressi. Il secondo è la rieducazione motoria per recuperare dei semplici movimenti. Dal letto alla poltrona, dal camminare alla cyclette aumentando pian piano l'attività così da rieducare i muscoli e ridurre la desaturazione di ossigeno durante l'attività fisica. Il terzo riguarda l'aspetto neurologico e mentale perché il Covid lascia quella che viene definita sindrome post traumatica da stress, che colpisce memoria e psiche, ma le terapie comportamentali aiutano il recupero e il reinserimento sociale». Uno studio del Maugeri di Pavia e ha esaminato 140 pazienti sottoposti a un percorso di riabilitazione: già dopo tre settimane è stato notato un miglioramento significativo nel 75% dei casi. Circa un terzo dei malati ricoverati per forme gravi di Covid-19, inoltre, continua a soffrire di disturbi come depressione, ansia, insonnia e sindrome da stress post-traumatico a tre mesi dalle dimissioni. Come indica la ricerca, su 226 pazienti con età media di 58 anni, coordinata da Francesco Benedetti, dell'Ospedale San Raffaele di Milano, pubblicato sulla rivista Brain, Behavior and Immunity. È emerso che il 36% dei ricoverati per una forma grave di Covid, riportava sintomi clinici, ansia, depressione e insonnia, a tre mesi dalle dimissioni. «I dati - precisa Benedetti - confermano la stretta relazione tra risposta del sistema immunitario, stato infiammatorio e persistenza dei sintomi depressivi». I primi segni del cambiamento cominciamo a vederli. Nel sito della Regione Toscana troviamo 50 pagine dedicate ai percorsi diagnostici da seguire. Capitolo per capitolo ecco tutti i sintomi elencati: dai disturbi dell'apparato respiratorio, cardiovascolare, neurologico ai problemi renali. Primi passi per una nuova organizzazione dell'assistenza. Ancora iniziative sporadiche. Che potrebbero lasciare spazio ad una generalizzata cura fai-da-te o a chi, nell'improvvisazione dell' emergenza, offre soluzioni non corrette. E, forse, anche molto costose. Nel gruppo Facebook Noi che il Covid lo abbiamo sconfitto ma ora combattiamo i suoi effetti collaterali assicurano che è vietato dare consigli farmacologici. Si possono scambiare solo esperienze e racconti. Obiettivo dei social: farsi ascoltare dai medici. Attraverso una raccolta di firme su Change.org viene chiesto al governo di avere assistenza e tutela sanitaria adeguata.

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 9 febbraio 2021. La pandemia in corso ha cambiato la nostra vita, stravolto le nostre abitudini e modificato la nostra mentalità, inducendoci a pensare in modo diverso, e siccome sognare equivale a pensare di notte, il Coronavirus ha cambiato anche i nostri sogni, incidendo con la sua azione nefasta addirittura sul nostro inconscio. Quando si verificano eventi di forte impatto psicologico, che perdurano nel tempo diventando una costante nella quotidianità, essi rendono le giornate inquietanti, alimentando i sentimenti negativi come ansia, tristezza e paura, e tutto ciò che si immagazzina da svegli senza essere elaborato, il cervello tenta di scaricarlo la notte insieme a tutte le emozioni difficili accumulate, alleviandone l' intensità e la carica emotiva con una preziosa funzione, quella di spegnere lo stress, un veleno per la serenità e la salute mentale. Tutti stiamo affrontando tempi spaventosi e senza precedenti, con una prospettiva futura profondamente incerta sotto tutti i punti di vista, ma coloro che vivono la pandemia come un perenne pericolo mortale accusano disturbi del sonno, e la maggior parte della popolazione sta sperimentando la fase onirica con sogni più sorprendenti, più vividi e realistici, dovuti al fatto che, essendosi la vita sociale ridotta, con isolamenti e azioni ripetitive nel domicilio, la notte si attinge più spesso ai vecchi ricordi, alle memorie pregresse, sognando persone conosciute nel passato, o familiari deceduti da tempo, che appaiono più giovani e sani, anche se non sempre rassicuranti. Le preoccupazioni quotidiane controllate di giorno infatti, emergono e penetrano nel sonno prendendo vita nella dimensione onirica, trasformandosi spesso in incubi ricorrenti, insorgenti di sovente in chi è coinvolto in prima persona in situazioni epidemiologiche particolarmente pericolose, come chi vive nell' epicentro della pandemia, medici, operatori sanitari o soccorritori, ma anche chi ha subito un licenziamento o sta affrontando una grave crisi economica o lavorativa.

CARICA EMOTIVA. In circostanze normali al risveglio i sogni appaiono confusi e raramente vengono ricordati, ma questa condizione fisiologica però sta cambiando durante la pandemia, poiché le persone ricordano non uno ma più sogni fatti nella notte, soprattutto quelli con carica emotiva inquietante o spaventosa. Gli incubi che si verificano durante il sonno Rem (rapid eye movement), per esempio, arrivano a svegliare il soggetto in uno stato di angoscia, disturbando la ripresa del riposo notturno, e tali manifestazioni sono accompagnate da agitazione intensa, paura, rabbia e tristezza, insieme ad altre emozioni sgradevoli che la medicina inquadra come "funzioni disforiche". Tali incubi tendono a presentarsi nelle prime ore dell' alba, dopo una notte già tormentata da sogni cupi, e si contraddistinguono per il fatto che il soggetto ricorda vividamente il contenuto e i dettagli del sogno al risveglio, ed anche se di norma l' evento onirico è breve, di circa 4-15 minuti, spesso dopo l' episodio traumatico egli non è più in grado di riaddormentarsi. Inoltre prima di svegliarsi il paziente emette qualche suono, o si muove involontariamente, fino a manifestare segnali che indicano l'attivazione del sistema nervoso autonomo, come palpitazioni, sudorazione eccessiva, rigidità muscolare, crampi o respiro accelerato. Gli incubi rientrano nel gruppo delle "parasonnie", ovvero perturbazioni non patologiche del sonno, e si verificano prevalentemente durante i percorsi di stress, e in questo periodo sono favoriti soprattutto dall' aumentato consumo di antidepressivi, sonniferi e narcotici, come pure dalla esagerata assunzione di alcol, tutte condizioni che sono state registrate in allarmante aumento in questi mesi di pandemia. Di norma durante il sonno vengono prodotte proteine, chiamate citochine, che ci aiutano a combattere le infiammazioni, e vengono sintetizzati anticorpi, utilissimi a strutturare la risposta immunitaria e a mantenere sincronizzato il nostro ritmo cicardiano. La quarantena e il distanziamento sociale, insieme ad un brusco cambio dei nostri ritmi di vita, hanno inoltre ridotto la nostra esposizione alla luce naturale, che ha una funzione indispensabile per mantenere l' orologio biologico ed il ritmo sonno-veglia, per cui sono aumentate ansia e depressione con ripercussioni importanti sia qualitative che quantitative sul riposo notturno. Le persone più inquiete caratterialmente e psicologicamente riversano nei sogni le sensazioni di ansia e di paura, di rabbia o risentimento, e molti studiosi attribuiscono la vividezza dei loro sogni al caos emotivo e fisico che stanno vivendo. In tempo di Covid infatti, i sogni elaborano le situazioni difficili ed impegnative che si affrontano da svegli, ma ciò che viene trasportato nella fase onirica non sempre riesce a sciogliere la carica emotiva delle esperienze diurne. I sogni inoltre sono collegati alla memoria, ed il cervello li produce spesso per codificare e ricostruire i ricordi, ma quando avviene una riduzione del sonno Rem, e quindi una conseguente diminuzione dei sogni più vividi e reali, diminuisce anche la capacità di comprendere e contrastare le emozioni complesse, facilitando l' insorgere di disturbi neuropsichici. La lunga durata del lockdown, la paura legata ai contagi, la frustrazione delle ridotta libertà, la noia, i pregiudizi, oltre alle perdite economiche, del lavoro e della vita piena, hanno quindi alterato il mondo dei sogni, rendendoli più disturbati, più stressanti e inquietanti.

ALTERAZIONI DELL'UMORE. Ma la cosa più preoccupante è che il dormire poco e male ha fatto aumentare moltissimo le diagnosi del “disturbo bipolare”, una condizione psichiatrica caratterizzata da gravi alterazioni dell' umore, con alti e bassi ricorrenti, insorgenti in soggetti che manifestano momenti di estrema euforia ed eccitazione, alternati a gravi episodi depressivi, attribuiti erroneamente dai pazienti alle ondulazioni ormonali anziché ad uno squilibrato funzionamento cerebrale, cosa che provoca profondo disagio, clinicamente significativo, labilità affettiva con compromissione dell' attività personale, sociale, e lavorativo, e di conseguenza con sogni tormentati. E tutti questi effetti collaterali dell' epidemia da Sars-Cov2 sono stati registrati in maggioranza nelle persone che non sono state infettate dal Coronavirus, che lo hanno sempre evitato temendolo costantemente, percependolo ogni giorno ed ogni ora come un pericolo incombente alle loro spalle, e che si sono sentite in ansia perpetua, poiché coloro che hanno invece contratto l' infezione e che sono finite ricoverate nei reparti Covid non hanno avuto nemmeno il tempo di affondare nella fase onirica, impegnati com' erano a combattere la malattia del secolo per salvarsi la vita. Anche senza sognare.

Quegli effetti del Covid da non sottovalutare. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo, su Inside Over l'1 febbraio 2021. Da quando il Sars-CoV-2 è entrato a far parte delle nostre vite, da un punto di vista mediatico le attenzioni sono state concentrate sugli studi relativi alla prevenzione. Sotto quest’ultimo aspetto, i risultati raggiunti grazie alla ricerca scientifica si sono concretizzati dando le prime risposte di difesa contro il virus. Tuttavia c’è anche un altro aspetto su cui la ricerca si è concentrata, ossia quello relativo alle complicazioni sorte dopo aver contratto la malattia. A che punto sono gli studi su questo fronte?

Quei fattori preoccupanti. Nella vita quotidiana capita più o meno a tutti di avvertire i sintomi influenzali tipici di stagione, ma ormai la paura di contrarre il nuovo coronavirus e il senso di responsabilità sono così alti da indurci al test laringo faringeo per precauzione. O si torna a casa tranquilli di non aver contratto la malattia o, nei casi peggiori, con un esito di positività al virus. In quest’ultimo caso scatta l’allerta e l’attenzione su quei sintomi che pur non manifestandosi nei primi giorni, potrebbero insorgere all’improvviso in quelli successivi. Oltre ai malesseri che il paziente avverte con sintomi evidenti, potrebbero emergere altre complicazioni, come quelle al sistema cardiocircolatorio. “È ormai noto come l’infezione da SARS-CoV-2 non causi solo polmonite virale ma abbia importanti ripercussioni sul sistema circolatorio”. Ad affermarlo su InsideOver è l’angiologo e cardiologo Giovanni Alongi, esperto in patologie venose che prosegue: “I numerosi dati scientifici recenti, contrariamente a quanto si pensava all’inizio della pandemia, suggeriscono che questo virus si manifesta con effetti sistemici e con un rischio trombotico sia arterioso che venoso dei piccoli e dei grossi vasi. Questi effetti sono paragonabili ad «una tempesta di coaguli di sangue» e un recente studio americano ha evidenziato come uno stato di ipercoagulabilità è presente in circa il 50% dei soggetti che si ammalano di Covid-19”.

Polmoni – trombosi: qual è il nesso? Sulla base  delle conseguenze che subisce il sistema circolatorio sorge spontanea una domanda e cioè quale sia la relazione tra il problema ai polmoni e il problema della trombosi causati dal Sars-Cov-2. A fare chiarezza ancora una volta è il dottor Alongi spiegando che “lo stato di ipercoagulabilità dovuto al rilascio massivo dei mediatori dell’infiammazione porta sia all’insorgenza di microembolie a livello delle arterie polmonari, sia a trombosi venosa profonda che può degenerare con un embolia polmonare. Le microembolie e le trombosi sono improvvise – precisa l’esperto in patologie venose – ed è quindi opportuno intervenire prima possibile con i corretti dosaggi di anticoagulanti”. Quello che accade dunque nel corpo delle persone che vengono colpite in modo grave da questo virus rende necessaria la continuità della ricerca scientifica portata avanti fino ad oggi. Gli studi nell’ambito della prevenzione e della cura del Sars-CoV-2 devono ora più che mai andare di pari passo.

L’importanza della ricerca scientifica. Da quando il virus è apparso in Cina, subito il mondo scientifico si è mosso per capire le conseguenze sulla salute dei pazienti. Del resto, la materia riguardante i coronavirus costituisce un mondo ancora tutto da esplorare. Fino al 2002, quando cioè si è sviluppata l’epidemia di Sars, questa famiglia di virus veniva ritenuta responsabile sull’essere umano solo dei comuni raffreddori. Si credeva che, al contrario, le conseguenze fatali fossero solo sugli animali. Per questo è apparso subito essenziale capire il comportamento del nuovo coronavirus apparso sul finire del 2019 nel wet market di Wuhan. Se da un lato la polmonite atipica e i problemi respiratori sono risultati elementi comuni con le più recenti epidemie, dall’altro le complicazioni legate all’apparato cardiocircolatorio hanno destato crescenti perplessità. La ricerca su questo fronte si è sviluppata in modo molto rapido. Anche perché era importante capire con quanti e quali mezzi intervenire sui primi pazienti: “La ricerca scientifica è di fondamentale importanza per stabilire l’efficacia di un farmaco – conferma Giovanni Alongi – ma anche, come spesso è accaduto per il Covid-19, per decretare l’inutilità di altre terapie”. I riflettori della comunità scientifica in tal senso, si sono accesi soprattutto sull’uso dell’Eparina: “I ricercatori della Mount Sinai School of Medicine, ma anche molti centri Italiani – ha proseguito Alongi – hanno riferito che i pazienti ricoverati con Covid-19 sottoposti a ventilazione meccanica che avevano ricevuto Eparina hanno avuto una mortalità inferiore rispetto a quelli non scoagulati”. Le ricerche stanno proseguendo in molti laboratori di tutto il mondo. È una vera e propria corsa contro il tempo per acquisire, in primo luogo, quanti più dati possibili.

“Essenziale continuare a seguire i pazienti”. C’è un altro aspetto dell’attuale pandemia spesso poco sottolineato. Riguarda l’importanza di seguire i guariti dal Covid anche a distanza di tempo. Una necessità che sta emergendo proprio con l’evoluzione degli studi e delle ricerche sulle conseguenze della malattia sull’apparato cardiocircolatorio: “Secondo le raccomandazioni della American Society of Hematology – dichiara Giovanni Alongi – è consigliabile iniziare il prima possibile la terapia anticoagulante in pazienti con Covid-19 e continuarla anche dopo le dimissioni dall’ospedale”. “Allo stesso tempo – ha proseguito il medico –  è importante seguire ulteriormente questi pazienti anche dopo la completa ripresa e mantenere un monitoraggio clinico ed EcocolorDoppler Venoso nel tempo per escludere possibili recrudescenze”. Le conseguenze sulla salute delle persone colpite dal Covid, potrebbero quindi manifestarsi anche a distanza di tempo dalla guarigione. Una circostanza che apre un altro delicato tema: l’importanza cioè di non considerare i guariti come soggetti oramai fuori dalla necessità di essere seguiti una volta dimessi dagli ospedali.

Covid-19: così attacca il nostro cervello. Paola Emilia Cicerone il 29 gennaio 2021 su La Repubblica. Mal di testa. Alterazioni di gusto e olfatto Difficoltà cognitive. Stato confusionale protratto. Ecco cosa succede quando Sars-CoV 2 colpisce il cervello. Con rischi seri. Anche tra chi è stato colpito da Covid in forma non grave, sono in molti a lamentare stanchezza o “brain fog”, un senso di confusione che rende difficile concentrarsi o lavorare. E poi ci sono il gusto e l’olfatto che scompaiono o si alterano: ageusia, disgeusia, anosmia o disosmia. Sintomi diffusi e inquietanti che mostrano come l’infezione da Sars-CoV 2 non colpisca solo le vie respiratorie, ma anche il sistema nervoso. Senza dimenticare le possibili conseguenze neurologiche di alcuni effetti del virus, come l’infiammazione e l’aumentato rischio di trombosi. Sono temi su cui i ricercatori si stanno interrogando dalla comparsa dell’epidemia, con tutte le difficoltà dovute allo stato di emergenza. Ma già i primi studi realizzati a Wuhan evidenziavano complicazioni neurologiche in circa un terzo dei pazienti trattati. «Il problema è che molti dati sono disomogenei ed estremamente variegati», spiega Alessandro Pezzini, professore associato di Neurologia dell’Università di Brescia, tra gli autori di alcuni dei primi studi sul tema, pubblicati su Nature Reviews Neurology. In alcuni lavori la percentuale dei disturbi neurologici supera il 60%, in altri si ferma intorno al 4-7%. Tra le ragioni di questa disparità, gli esperti sottolineano la difficoltà di raccogliere dati in una situazione di emergenza assoluta, in cui la salute del paziente e la sicurezza degli operatori e delle strutture sono prioritarie. «Il che spesso ha portato, per esempio, a limitare l’esecuzione di esami neurologici come risonanze magnetiche, elettromiografie o rachicentesi nei pazienti ammalati di Covid», spiega Pezzini. Oltretutto si tratta di dati che si riferiscono a pazienti ospedalizzati, raccolti in genere in forma retrospettiva. «Senza dimenticare – prosegue il neurologo – che bisogna capire cosa s’intende per disturbo neurologico: in alcuni casi i sintomi più leggeri o aspecifici non sono stati registrati, in altri, invece, lo sono stati».

SISTEMA NERVOSO E INFIAMMAZIONE. Un po’ di chiarezza dovrebbe arrivare da uno studio osservazionale promosso dalla Società Italiana di neurologia in 45 strutture italiane: «In parallelo con la Società europea di Neurologia, saranno registrate le possibili complicanze neurologiche dovute a Covid, seguendo i pazienti fino a giugno 2021», spiega Pietro Cortelli, ordinario di Neurologia all’Università di Bologna. Obiettivo: capire le conseguenze degli squilibri di cui può essere vittima il sistema nervoso durante l’infezione: «La risposta infiammatoria, per esempio, può essere una reazione momentanea, in risposta a un evento, e in questo caso è un fenomeno adattativo che si risolve in poco tempo, un po’ come l’aumento momentaneo della pressione se ci emozioniamo», spiega il neurologo. Se invece l’infiammazione non si disattiva, diventa patologica, e può avere conseguenze drammatiche: «Si tratta di quella tempesta di citochine di cui si è molto parlato, e le cui conseguenze sono state analizzate da un articolo sul New England Journal of Medicine», prosegue Cortelli. Senza dimenticare che l’infiammazione è controllata dal sistema nervoso centrale: è l’ipotalamo a determinare la reazione dell’organismo, con un meccanismo simile a quello che si attiva di fronte a uno stress cronico. In altre parole, «un danno al sistema nervoso interferisce anche con i meccanismi con cui l’organismo controlla la malattia», ricorda Cortelli. «Conosciamo ancora poco il rapporto tra neurologia e immunologia, ma sono proprio questi processi che spiegano perché organismi diversi reagiscano in modo così diverso all’infezione».

SENSO DI CONFUSIONE. E che il sistema nervoso c’entri qualcosa è ormai certo, anche se le cose sono più complesse di quanto sembri. I primi sintomi a far pensare a un coinvolgimento neurologico sono le alterazioni dell’olfatto e del gusto, «ma forse il sintomo più diffuso, a volte anche più della febbre, è il mal di testa», spiega Cortelli. «Un mal di testa che si protrae nel tempo, insolito anche per chi soffre abitualmente di questo disturbo». Molto diffusa anche la cosiddetta “brain fog”, una forma di confusione più o meno grave che va da un affaticamento persistente con difficoltà di memoria e concentrazione, a un vero e proprio disorientamento cognitivo, fino a seri disturbi della vigilanza e al coma. «Spesso si sente parlare di delirio, che è una traduzione impropria di “delirium” e si riferisce a uno stato confusionale, non a un delirio di tipo psicotico», ricorda Cortelli. Sintomi che possono essere espressione di un’encefalopatia, una compromissione delle funzioni cerebrali che può avere diversi livelli di gravità, o di encefalite, ossia un’infiammazione dell’encefalo. In realtà, non sappiamo nemmeno in quanti casi il virus raggiunga effettivamente il cervello. «Si è pensato che la strada più diretta potesse essere il nervo olfattorio, visto che in molti casi c’è una compromissione dell’olfatto, ma non abbiamo conferme», spiega Pezzini. Perché i disturbi si presentano in forma molto variabile, e anche perché non abbiamo la certezza che il virus sia localizzato proprio in queste cellule, visto che potrebbe raggiungere il sistema nervoso centrale per altra via, per esempio attraverso il sangue. Un chiarimento importante potrebbe arrivare dalle autopsie che per mesi, però, non sono state eseguite, per ragioni di sicurezza: «È un problema che adesso speriamo di superare – spiega Cortelli – ma da uno studio su dieci casi emerge che solo in uno di questi il virus è stato trovato nel parenchima cerebrale, e si trattava di un soggetto molto compromesso, mentre nei tessuti cerebrali di altri pazienti, che pure avevano manifestato sintomi neurologici, tra cui diminuzione dell’olfatto, il virus non era presente».

GLI EFFETTI A LUNGO TERMINE: GLI STUDI.  In più, non è facile stabilire quanto i disturbi dipendano da un’azione diretta del virus, e quanto dalle manifestazioni cliniche della malattia, come l’insufficienza respiratoria o i problemi di coagulazione. «Saperlo ci permetterebbe di capire come trattarli, e porrebbe essere utile per valutare eventuali conseguenze neurologiche nel lungo periodo», sottolinea Pezzini.Lo sguardo dei ricercatori è già rivolto al futuro, per cercare di capire se la malattia possa avere effetti sul sistema nervoso, anche in tempi medio lunghi. Per esempio, se possano verificarsi casi di demenza o di sindrome di Guillain Barrè – una malattia dei nervi che si manifesta con astenia muscolare acuta – come conseguenze dell’infezione. Per capirlo ci vorranno anni, anche se è già stato pubblicato uno studio su un potenziale legame con il morbo di Parkinson. «Non è insolito che un’infezione virale provochi disturbi neurologici», ricorda Cortelli. «Ci sono dei possibili precedenti, tra cui forse l’encefalite letargica di cui parla Oliver Sacks in Risvegli». Quello che sembra emergere dai primi dati italiani è che i pazienti già affetti da malattie neurologiche, tra cui l’ictus, hanno un tasso di mortalità e disabilità più alto rispetto a soggetti meno fragili. Più difficile, invece, indagare il rapporto tra ictus e infezione: in Lombardia lo studio multicentrico Strokovid ha mostrato una maggiore severità di ictus nei pazienti Covid, legata forse alle alterazioni della coagulazione innescate dal virus o all’anomala attivazione del sistema infiammatorio. Questo potrebbe anche determinare una maggiore incidenza di eventi nei pazienti colpiti dall’infezione, «ma ci sono anche dati che vanno in direzione opposta», ricorda Pezzini. «Un fenomeno in cui sicuramente gioca un ruolo importante la resistenza dei pazienti a recarsi in ospedale in caso di disturbi apparentemente non gravi».

DAGONEWS il 16 gennaio 2021. «I polmoni di un paziente Covid sono peggiori di quelli di un fumatore». A parlare è la dottoressa Brittany Bankhead-Kendall, chirurgo traumatologo del Texas, che da marzo cura pazienti che hanno contratto il coronavirus. «Tutti sono così preoccupati per la questione della mortalità e questo è terribile. Ma tutti i sopravvissuti e le persone che sono risultate positive al test, questo sarà il problema». Secondo Bankhead-Kendall tutti i pazienti che lei ha curato avevano delle terribili lastre, anche se non mostravano alcun sintomo: se, infatti, tutti i sintomatici avevano delle lastre ai polmoni che mostravano cicatrici, lo stesso valeva per il 70-80% degli asintomatici. «Ci sono ancora persone che dicono “Sto bene, non ho problemi”, ma quando guardi la loro radiografia ti accorgi che non è così come dimostra l’immagine di un polmone normale, quello di un fumatore e quello di un paziente covid messo a confronto. Non sappiamo cosa succederà, ma la radiografia ci dice che questi pazienti avranno problemi in seguito».

Chi guarisce ha ancora i sintomi. È allarme per il "long Covid". La sindrome "long Covid" colpisce i guariti anche mesi dopo la fine della malattia: da gusto e olfatto alla depressione, ecco quali sono i sintomi e le cure che si stanno per mettere a punto. Alessandro Ferro, Venerdì 22/01/2021 su Il Giornale. Dal maledetto Covid-19, in alcune occasioni, non si guarisce del tutto neanche quando si è guariti: significa che il virus lascia in eredità pesanti strascichi nell'organismo di chi è stato colpito dall'infezione anche a distanza di alcuni mesi dalla fine della positività.

Dove colpisce "long Covid". Poco tempo fa ci siamo occupati di due studi, uno francese e l'altro americano, che hanno confermato conseguenze neurologiche a lungo termine anche da chi è stato colpito dal virus soltanto in maniera lieve: i sintomi più frequenti hanno riguardato strascichi sulle capacità mentali con perdita di memoria e difficoltà di concentrazione. È quella che gli studiosi chiamano "sindrome long Covid" che può durare anche alcuni mesi causando affaticamento, mancanza di respiro, perdita di gusto e olfatto. Cosa dicono i primi studi. Un'importante ricerca pubblicata sulla rivista britannica Bmj Journals è stata condotta su 384 individui ricoverati in ospedale con la malattia ed ha mostrato come il 53% di essi sia rimasto senza fiato durante una valutazione di follow-up uno o due mesi dopo, con il 34% che ha avuto la tosse ed il 69% ha riferito di avere un'affaticamento. Lo studio più recente, però, è quello appena pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet su 1.733 pazienti con Covid dimessi da un'ospedale cinese a Wuhan, epicentro della pandemia. Ebbene, sei mesi dopo l'insorgenza della malattia, il 76% di loro ha riportato almeno un sintomo che persisteva: il più frequente era relativo ad affaticamento e debolezza muscolare. Inoltre, più del 50% presentava anomalie al torace indipendentemente dalla gravità della malattia. Questi risultati sono coerenti con quelli di piccoli studi precedenti che riportavano anomalie di diffusione radiologica e polmonare persistenti in una proporzione considerevole di pazienti colpiti dal virus anche tre mesi dopo la dimissione dall'ospedale.

"Gusto e olfatto compromessi per mesi". "Oltre ai sintomi neurologici già citati, anosmia (non sentire gli odori) e geusia (quando non si sentono i sapori) sono una conseguenza a lungo termine del Covid abbastanza importante perché persistono anche dopo tanti mesi. Recentemente ho incontrato un paziente per un follow-up e da marzo ad oggi, dopo quasi un anno, non ha recuperato alcuna capacità di sentire gli odori ed i profumi", ha detto in esclusiva per ilGiornale.it il Prof. Marco Falcone, ricercatore di Malattie Infettive all'Università di Pisa, in forza all'Unità operativa dell'Aoup e membro del consiglio direttivo della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali). Quindi, uno dei primi campanelli d'allarme quando si contra il virus, purtroppo, può rimanere anche mesi dopo dalla guarigione. "È legato ad un danno diretto del virus sulle cellule nervose che regolano l'olfatto e, purtroppo, molti danni possono essere irreversibili. Potrebbe essere che, ad alcuni di questi malati, possano avere questo tipo di conseguenza", aggiunge il ricercatore.

Danni ai polmoni. Come ormai sappiamo, l'organo che in assoluto il Covid danneggia maggiormente sono i polmoni con le relative polmoniti interstiziali nelle forme più gravi. In un approfondimento degli scorsi mesi abbiamo intervistato uno pneumologo (qui l'intervista integrale) che ci ha spiegato come sia a rischio la mucosa dei bronchi dove il virus si attacca provocando una reazione infiammatoria comune anche ad altri virus respiratori ma, in questo caso, molto più forte. L'entità della reazione infiammatoria può dar luogo a forme leggere di bronchite o broncopolminiti senza particolari complicanze respiratorie, oppure può portare a broncopolmoniti interstiziali, che colpiscono i "muri" dell'albero respiratorio.

Covid-19, scoperta la causa dei danni ai polmoni. Il problema, però, può persistere anche dopo la guarigione ed i polmoni potrebbero rimanere compromessi a lungo termine. "Abbiamo delle conseguenze anche livello polmonare, alcuni pazienti sviluppano la 'sindrome restrittiva' in cui il polmone va incontro ad una fibrosi: la polmonite, quando è particolarmente grave, provoca una cicatrizzazione in alcune aree del polmone. La conseguenza è che il polmone non si espande più in maniera corretta. Alcuni con polmoniti gravi, che sono stati intubati ed hanno avuto una gravissima forma respiratoria, possono avere una funzionalità respiratoria minore rispetto a quanto avessero prima del Covid", ci ha detto il ricercatore.

Stanchezza cronica. Una delle sindromi più comuni osservate su ex pazienti Covid è la stanchezza, un affaticamento che può durare tanti mesi indipendentemente dalla gravità della malattia. Ad un primo studio pubblicato su Nature su 143 persone dimesse da un ospedale di Roma che ha rilevato come il 53% aveva riportato stanchezza ed il 43% aveva mancanza di respiro, in media, due mesi dopo l'inizio dei sintomi, se n'è aggiunto un altro molto significativo pubblicato sulla rivista scientifica Plos One dove oltre la metà dei partecipanti ha riportato un affaticamento persistente alcuni mesi dopo i sintomi iniziali della malattia. La causa scatenante di tutto, però, ancora non si conosce. "Questa sindrome non è stata ancora capita: il motivo per cui alcuni pazienti continuino a manifestare questa profonda stanchezza anche dopo mesi dalla malattia non si sa. Gli studi stanno cercando di capire se esistono alterazioni, di qualsiasi natura, che possano giustificare questa situazione", ci ha detto Falcone. C'è da dire che questi pazienti sono da considerarsi ormai ex malati perché, dal punto di vista clinico, sono considerati sani nonostante la profonda stanchezza che li accompagna da mesi. "Alcuni hanno difficoltà a riprendere l'attività lavorativa ma quale sia il meccanismo di base è complicato da dire. Alcuni studiosi ipotizzano una forte componente psicologica che influenza lo stato delle cose".

Depressione post-Covid. Se ne parla in maniera poco diffusa ma una fetta della popolazione italiana ha sofferto, e non poco, il confinamento dei mesi iniziali. Per i positivi al virus costretti all'isolamento, è stato ancora più difficile superare la malattia, tant'è che si è sviluppata una sindrome depressiva post-Covid. "È un altro sintomo a lungo termine: molte persone, sia tra chi è predisposto a soffrire di questi disturbi ma anche tra chi non lo è, hanno sviluppato una forma depressiva dovuta alla malattia ma anche verso le restrizioni e confinamento dei mesi scorsi. Molti sono stati confinati in una stanza per 1-2 mesi perché ammalate e positive - ci ha detto Falcone - Il trauma è anche di natura psicologica e si è associato a forme piuttosto gravi tant'è che in Italia ci sono stati alcuni suicidi legati a questo motivo. Le visite negli ambulatori di psichiatria sono aumentate come forma depressiva post-Covid". Stress, timore della malattia, chiusura in casa e lockdown, indipendentemente dalla malattia, sono stati vissuti da molta gente come un forte trauma che ha poi sviluppato questo tipo di sindrome. Ma c'è anche un problema sociale, non indifferente, che ha portato all'esclusione chi è stato infettato. "Aver avuto il Covid porta, le persone che stanno intorno, a considerarlo infetto: anche all'interno della famiglia la persona può sentirsi esclusa. Ci sono delle implicazioni psicologiche importanti su una malattia del genere: è importante, per questo motivo, che venga mantenuta la privacy dei malati e tutte le informazioni di salute altrimenti si possono mettere in atto dei comportamenti di esclusione non giustificati".

Esistono cure? Guariti dal malattia ma con i sintomi post-Covid ancora ben presenti: cosa può fare questa categoria di persone? Esistono delle cure? "Alcuni centri di neurologia stanno studiando quali potrebbero essere le soluzioni ad anosmia e geusia sperando che cellule così delicate come quelle che regolano sapori e odori non siano state compromesse inevitabilmente; la sindrome depressiva viene curata con farmaci, terapia e psicoterapia mentre la fibrosi polmonare è l'aspetto un po' più critico. Sono in corso alcuni studi da esperti del settore per capire come evitare l'evoluzione fibrotica: ad oggi, il cortisone ed i corticosteroidi dovrebbero essere efficaci nel limitare questa evoluzione", sottolinea il Prof. Falcone. "Il Covid rimane, ahinoi, una patologia ancora tutta da scoprire: alcune conseguenza a lungo termine non siamo ancora in grado di capirle, è una malattia nuova che si sta studiando in questo momento".

·        La Reinfezione.

Positivi dopo la prima dose, cosa fare con il vaccino: i chiarimenti del Ministero. Debora Faravelli il 10/09/2021 su Notizie.it. Gianni Rezza ha firmato una circolare per chiarire come devono comportarsi i cittadini che risultano positivi dopo la prima dose di vaccino. Il Ministero della Salute ha diffuso una circolare contenente alcuni chiarimenti per i soggetti che risultano positivi al Covid dopo aver effettuato la prima dose di vaccino spiegando chi deve sottoporsi anche alla seconda e chi può dire completato il ciclo di immunizzazione. Il testo differenzia due casi: chi si è contagiato entro due settimane dalla vaccinazione e chi invece è risultato positivo dopo 14 giorni. Nella prima eventualità il Ministero indica di completare il ciclo vaccinale con la seconda dose, che va effettuata entro sei mesi dal contagio. Nel secondo caso invece la schedula vaccinale è da intendersi completata in quanto l’infezione stessa è da considerarsi equivalente alla somministrazione della seconda dose. La circolare precisa però che l’eventuale somministrazione di una seconda dose non è comunque controindicata. La stessa cosa vale anche per i soggetti guariti, in precedenza non vaccinati, che hanno ricevuto una sola dose di vaccino dopo l’infezione. Il documento si conclude affermando che “l’esecuzione di test sierologici, volti a individuare la risposta anticorpale nei confronti del virus, non è indicata ai fini del processo decisionale vaccinale“.

Michele Bocci per “la Repubblica” il 17 agosto 2021. Un'estate con il virus. Quest' anno i casi di infezione sono stati più di quelli della stagione passata, quando nei mesi caldi si è assistito a un crollo delle nuove positività. Dal 22 giugno al 16 agosto del 2020 le Regioni hanno infatti trovato 15 mila infetti e quest' anno nello stesso periodo quasi 190 mila. La differenza l'ha fatta la variante Delta, che ha iniziato a circolare proprio nel giugno scorso. È molto più contagiosa del coronavirus di Wuhan, che era diffuso dodici mesi fa., «E da quel punto di vista è andata meglio di altri Paesi, come il Regno Unito e la Spagna, che hanno visto molti più casi giornalieri di noi a causa della variante», spiega Roberto Battiston, professore di fisica all'Università di Trento che da mesi studia l'andamento dell'epidemia. «Di questo dobbiamo ringraziare il vaccino. È tutto merito suo se non abbiamo avuto i numeri degli altri. E noi subito prima dell'arrivo della Delta eravamo riusciti a far scendere la curva». Adesso continua la salita dei nuovi casi ma con un tasso di crescita molto inferiore a quello di luglio. Nella settimana che si è conclusa domenica, le Regioni hanno scoperto 44.335 nuovi positivi contro i 41.097 dei sette giorni tra il 2 e l'8 agosto. L'incremento è del 7,8%, più o meno identico a quello precedente. Siamo molto lontani dai tassi del mese scorso, che hanno superato il 100%, cioè hanno visto il raddoppio dei positivi in una settimana. L'Italia è in una fase di crescita non particolarmente accentuata. «Vediamo una prima indicazione di attenuazione della curva - dice Battiston - e anche in questo caso dobbiamo ringraziare il vaccino. Ora ci aspettiamo che inizi una riduzione dei casi ed è ragionevole pensare che in questo il Green Pass obbligatorio giocherà un ruolo importante. Gli effetti della misura comunque li capiremo tra una decina di giorni». Un calo del numero dei contagi sarebbe importantissimo in vista di settembre, quando con la riapertura delle scuole gli esperti si aspettano che la circolazione torni ad aumentare, anche se si sta lavorando per vaccinare il più possibile i ragazzi tra i 12 e i 18 anni consentendo l'accesso diretto agli hub. «Non è facile fare previsioni su settembre - dice ancora Battiston - Speriamo intanto nell'effetto Green Pass e andiamo avanti più veloce possibile, come Bersaglieri, con la vaccinazione. Se riuscissimo a fare 150 mila prime dosi al giorno, in un mese arriveremmo a 4,5 milioni, cioè coinvolgeremmo quasi la metà delle circa 11 milioni di persone ancora scoperte, oltre a chi ha tra 0 e 11 anni». Se tra i casi di quest' anno e quelli dell'anno scorso c'è un'enorme differenza, visto che sono stati oltre 12 volte in più, lo stesso non si può dire dei ricoveri. E questo è un altro effetto della vaccinazione. Visto che i più coperti sono gli anziani e i fragili, l'infezione riguarda persone giovani, che più difficilmente finiscono in ospedale. L'anno scorso si erano toccato un minimo di 748 (il primo agosto) e un massimo di 2.462 (il 21 giugno) ricoveri al giorno nel periodo considerato e quest' anno i due dati sono 1.242 (il 15 luglio) e 3.738 (ieri). Sono più alti ma in proporzione molto meno rispetto ai nuovi casi. Non arrivano nemmeno al doppio.

Da "leggo.it" il 5 agosto 2021. Dopo un anno, la “paziente 1” di Bologna torna positiva. Bianca Dobroiu, la modella di origine rumena 24 enne, lo scorso giugno rimase positiva per 80 giorni. E adesso la variante Delta, a distanza di 14 mesi dal primo contagio, ha colpito anche lei. «Quando ho riletto per l’ennesima volta “esito positivo” sono rimasta senza parole. Ho letto e riletto un milione di volte quelle maledette otto lettere, non ci potevo credere», racconta. Bianca sta «malissimo - racconta a Il Fatto Quotidiano - Ho gli stessi sintomi dell’anno scorso. Febbre a 39 e mezzo, dolori, mal di testa da tre giorni. Oggi mi è venuto anche il raffreddore e la tosse. Spero di non passare ancora 3 mesi confinata nella mia stanzetta/prigione e soprattutto di non finire ancora in ospedale perché quei giorni sono stati spaventosi».  Sulla paura spiega. «Da una parte ne ho molta, dall’altra provo a sdrammatizzare e a non pensarci. Tento sempre di essere ottimista. Onestamente mi sento anche un po’ in colpa, perché sono stata ingenua a non vaccinarmi in queste settimane. Perché? Avevo fatto il sierologico poche settimane fa e avevo ancora anticorpi, quindi mi sentivo tranquilla. Non si parla mai di reinfezioni o di persone che si ammalano per la seconda volta, quindi o sono io decisamente sfortunata o c’è proprio un buco nell’informazione». Lei non è contraria al vaccino. «Assolutamente no. Tutta la mia famiglia è vaccinata. Se potessi tornare indietro lo farei subito. Evidentemente questi test sierologici non sono così attendibili, oppure sono io ad essere particolarmente sfortunata». Come abbia fatto a riprendere il virus non lo sa. «Non ne ho idea, forse a Riccione la settimana scorsa, ma chi può dirlo con certezza? La cosa strana è che sono sempre stata attenta, mettevo la mascherina anche in auto. Mia madre è paranoica e sempre in allarme: lavati le mani, disinfettati, usa la mascherina, mantieni il distanziamento, togliti le scarpe. Insomma ho sempre fatto molta attenzione, eppure rieccoci qui». «Beh sì certo, a qualche festa sono andata ma non abbracciavo sconosciuti senza pormi il problema. Sicuramente però l’illusione di essere protetta dagli anticorpi mi faceva stare tranquilla. Inoltre sono quasi sempre andata in locali dove all’ingresso veniva richiesto il tampone negativo, quindi anche da quel punto di vista ero ingenuamente serena. Da “paziente 1 di Bologna”, a “paziente 1” della nuova ondata di coronavirus, forse. «Temo di sì. Io sono sana, sto bene, ho 24 anni, non ho patologie di nessun tipo. Sembra davvero che il Covid si sia affezionato a me, o peggio questa nuova variante non guarda davvero in faccia a nessuno, nemmeno a chi ha già avuto la malattia». Infine l'appello ai giovani: «Vaccinatevi e smettetela di dire stupidaggini. Il vaccino è l’unica soluzione per uscire da questo incubo».

Boom di casi e niente immunità di gregge: cosa insegna il caso islandese. Federico Giuliani su Inside Over il 6 agosto 2021. L’Islanda, uno dei Paesi con il più alto numero di persone vaccinate contro il Covid-19 al mondo, ha dovuto fare i conti con un recente boom di nuovi contagi. Messa così, la notizia potrebbe sembrare preoccupante, al punto da spingere i lettori a farsi mille domande. Ad esempio: come è possibile che i casi siano schizzati alle stelle in un’isola dove praticamente tutti i cittadini sono immunizzati contro il Sars-CoV-2? Per caso i vaccini non servono a niente? La realtà è più complessa delle paure. Innanzitutto partiamo dai dati sulle vaccinazioni. Al 30 luglio, in Islanda risultava completamente vaccinato, ovvero con un ciclo completo, il 75% della popolazione; esisteva poi un 4,3% parzialmente vaccinato, cioè in attesa di ricevere la seconda dose. Numeri del genere dovrebbero far dormire sogni tranquilli e scongiurare ipotetiche serrate, lockdown o altre politiche restrittive. È effettivamente così, anche se il governo islandese ha da poco adottato misure light per regolamentare ristoranti e locali. Il motivo è da ricollegare proprio all’incremento di contagi che ha travolto l’isola, portando la media giornaliera dalle zero infezioni del 19 luglio alle 158 del 31 luglio. La popolazione islandese oscilla attorno alle 350mila unità, e dunque cifre del genere avrebbero dovuto far suonare subito campanelli d’allarme. Anche perché il famoso indice Rt (quante persone contagia un infetto) è salito a 1,58 (simile all’Italia), superando la fatidica soglia di 1. Ebbene, nonostante tutto questo, la situazione è perfettamente sotto controllo.

Controllare il virus. Per quale motivo la situazione è sotto controllo? Basta leggere gli altri dati. A fronte dell’esponenziale aumento dei nuovi contagi, le ospedalizzazioni, gli ingressi nelle terapie intensive e i decessi sono sostanzialmente rimasti stabili (12 ricoveri e nessuna vittima dalla fine di maggio). I vaccini hanno dunque fatto il loro dovere. In ogni caso, è appurato che anche i vaccinati possono trasformarsi in bersagli del virus; tuttavia, la probabilità che costoro possano contrarre forme gravi del Sars-CoV-2 è drasticamente ridotta. Tornando al caso islandese, la logica conseguenza di quanto avvenuto a Reykjavík e dintorni è che più la popolazione è protetta dal coronavirus coi vaccini, più aumentano le possibilità che possano verificarsi casi tra gli immunizzati. Certo è che il virus ha dimostrato di colpire molto di più i non vaccinati islandesi che non il restante 75% dei cittadini sottoposti a ciclo vaccinale completo. L’obiettivo del governo, dunque, non è più quello di cercare l’immunità di gregge (in teoria, con questi numeri, l’Islanda avrebbe dovuto già ottenerla), quanto di controllare l’agente patogeno nel vero senso della parola. Emblematiche le considerazioni di Thorolfur Gudnason, capo epidemiologo del Paese che, come riferito dai media islandesi, ha spiegato in un briefing che le vaccinazioni, pur avendo ridotto il tasso di malattie gravi dovute al Covid, non hanno portato l’immunità di gregge che gli esperti speravano. A causa della diffusione della variante Delta, non avrebbe dunque più alcun senso fissare un limite di copertura nella popolazione.

Le indicazioni che arrivano dall’Islanda. I contagi in Islanda sono saliti a fronte dell’elevato numero di vaccinati. Quali indicazioni possiamo ricavare dal caso islandese? La più importante: i vaccini non servono a sradicare completamente il virus ma a evitare che gli immunizzati possano contrarre forme gravi dello stesso, con il rischio di finire in ospedale o addirittura morire. L’altra indicazione: poiché anche i vaccinati possono infettarsi, ha poco senso continuare a parlare di immunità di gregge. La terza considerazione riguarda il modus operandi per gestire una situazione del genere. Il governo islandese non ha fin qui scelto di adottare alcun pugno duro. Niente lockdown o limitazioni, ma giusto un paio di misure per tenere la situazione sotto controllo. Qualche esempio? Bollino rosso per gli assembramenti di oltre 200 persone; uso obbligatorio della mascherina, tanto al chiuso che negli spazi aperti, se non c’è possibilità di mantenere il distanziamento sociale di almeno un metro; ristoranti e club dove si serve alcol devono chiudere alle 24 e possono accettare ordini fino alle 23. Tutto sommato, considerando lo scenario islandese, dove è difficile trovare locali aperti dopo le 22, si tratta di misure leggere. Ma a che cosa è dovuto l’aumento dei nuovi casi? Si ritiene che l’arrivo sull’isola di molti turisti (soltanto a giugno ne sono sbarcati 42mila, su una popolazione, ricordiamolo, di 350mila unità) possa aver contribuito a diffondere il virus, nonostante le autorità locali richiedano, per entrare nel Paese, la vaccinazione completa da 14 giorni o tampone più quarantena per chi non è immunizzato.

Variante Delta, il dramma di Guido Crosetto: "Contagiato dopo doppia dose Pfizer, sono stato malissimo". Libero Quotidiano il 05 agosto 2021. "Se mi faccio delle domande mi danno del no-vax". È questa la drammatica conclusione a cui è arrivato Guido Crosetto che di prima mattina, dal suo account Twitter, ha raccontato la sua personalissima esperienza con il vaccino contro il Covid-19. "A grande richiesta. Ho fatto 2 dosi Pfizer. Seconda l’11/4. Dopo mesi, con anticorpi, ho preso la variante Delta. Sono stato malissimo. Poiché diabetico e cardiopatico, mi hanno fatto monoclonali. Sono guarito. Non avrò GP per settimane. Se mi faccio domande, mi danno del novax". Immediata la replica di Roberto Burioni. Il virologo, che evidentemente si è sentito chiamare in causa, ha cinguettato: "Non sappiamo cosa significhi il 'sono stato malissimo' di Guido Crosetto, ma il fatto che una persona a rischio come lui sia qui a porsi domande (legittime) potrebbe essere possibile grazie all’efficacia del vaccino, e grazie al fatto che non è un novax". Insomma, come a dire che senza il vaccino con la variante Delta l'imprenditore non sarebbe sopravvissuto.  Ed ecco che è arrivato anche l'intervento del fondatore di Fratelli d'Italia, che ha spiegato all'esperto qualche dettaglio in più sulle sue condizioni: "Il mio tweet serve per informare che ci si può ammalare (anche se non so in che percentuali) anche vaccinati e con anticorpi e poi che i monoclonali (con me, non so con altri) hanno funzionato benissimo. Poi anche sulle contraddizioni e disfunzioni del GP". E infatti a confermare lo stato di salute di Crosetto ci pensano gli stessi studiosi che non negano, seppur remoti, i casi di contagio post-vaccino. Dunque non ci sono sono gli effetti collaterali del siero. 

Da liberoquotidiano.it il 6 agosto 2021. Guido Crosetto minaccia querela. Destinataria Selvaggia Lucarelli. Il motivo è da far risalire alla replica della giornalista alla dichiarazione del fondatore di Fratelli d'Italia che aveva annunciato di essere stato male dopo il doppio vaccino contro il coronavirus. Ecco la risposta della Lucarelli: "L’unica domanda che dovrebbe porsi un diabetico-obeso-cardiopatico che sopravvive al Covid da vaccinato è: 'se non fossi stato vaccinato sarei qui a twittare?'". Immediata la replica del diretto interessato che passa dalle parole ai fatti: "Da due settimane ho un nuovo approccio con chi insulta, minaccia o diffama, su Twitter: passo tutto ad un avvocato specializzato e cerco di aiutare il Bambin Gesù, il Gaslini ed altri Ospedali, strappando più soldi possibile ai leoni da tastiera". L'avvertimento è dunque chiarissimo: "Intanto questa vediamo se possiamo utilizzarla per farle pagare qualche euro per un ospedale. Così, perché mi sono stufato di essere diffamato da persone come lei". E ancora, ricondividendo il tweet della Lucarelli: "Me lo sono chiesto, perché sarebbe importante saperlo, per tutti. Normale che lei, Lucarelli, si interessi alla mia guarigione solo per “insultare”. Ringrazio tutti, lo Spallanzani, i Dott. Antinori e Vaia, la sanità laziale e mio amico Prof. Di Perri. Giusto ieri l'imprenditore aveva annunciato sui social il dramma vissuto. "A grande richiesta. Ho fatto 2 dosi Pfizer - scriveva -. Seconda l’11/4. Dopo mesi, con anticorpi, ho preso la variante Delta. Sono stato malissimo. Poiché diabetico e cardiopatico, mi hanno fatto monoclonali. Sono guarito. Non avrò GP per settimane. Se mi faccio domande, mi danno del novax". Oppure insultano, a seconda di chi c'è dietro ai cinguettii.

I casi sono pochi e i sintomi molto blandi. Vaccinati positivi al Covid, lo studio: “Il virus si ferma nel naso e solo per pochi giorni”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 2 Agosto 2021. La variante Delta continua a preoccupare tutto il mondo. Anche chi è vaccinato con doppia dose perchè può capitare che vengano contagiati ugualmente. Ma questo non scredita affatto l’efficacia dei vaccini. Secondo alcuni studi infatti se tra i guariti dal Covid il rischio di reinfezione è molto basso, per i vaccinati la probabilità di contagiarsi è circa del 12%. Numeri che grazie al vaccino restano dunque molto bassi e comunque in quel caso i sintomi sono molto blandi. Secondo il dossier del Centers for disease and control prevention citato dal Washington Post, la variante Delta è contagiosa come la varicella e le infezioni dei vaccinati aumentano, ma negli Stati Uniti sono 35mila su 162 milioni, pari allo 0,021%. Numeri dunque anche qui molto bassi. Dagli studi in corso emerge la qualità e la durata dell’eventuale e rara infezione nei soggetti vaccinati con due dosi. Un’indagine in corso all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma mostra che su 2.900 vaccinati circa 40 si sono infettati (1,5%). “Stiamo osservando che in questo 1,5% di vaccinati la presenza del virus rimane confinata al naso e rinofaringe (il retro del naso), mentre i polmoni sono liberi — spiega Carlo Federico Perno, direttore della Microbiologia e virologia al Bambino Gesù intervistato dal Corriere della Sera—. Questo avviene perché, dopo il vaccino, nei polmoni sono già presenti le difese contro Sars-CoV-2, mentre nel naso no. Però la reazione immunitaria, nei vaccinati, è rapidissima anche nel naso: entro breve tempo le difese arrivano e nel giro di 2-3 giorni riescono a abbattere la carica virale fino ad eliminare il virus”. “Quindi – continua Perno – il vaccinato in rari casi può infettarsi e, in un ulteriore sottogruppo, avere una carica virale alta, esattamente come i non vaccinati. La differenza è che, mentre un non vaccinato resta infetto e quindi contagioso per diversi giorni (e può ammalarsi gravemente), il vaccinato ha ‘a disposizione’ solo un breve tempo (1-2, massimo 3 giorni) per trasmettere ad altri l’infezione e inoltre è molto raro che si ammali con sintomi gravi. Questa scoperta cambia completamente gli elementi fondanti del dibattito su vaccinati e non“. “La percezione che si ha è che i soggetti vaccinati abbiano una negativizzazione più rapida rispetto ai non vaccinati e questo potrebbe indicare che il periodo di contagiosità sia inferiore — aggiunge Massimo Andreoni, direttore di Infettivologia al Policlinico Tor Vergata di Roma —. Il vaccinato tende ad ammalarsi meno di Covid e sappiamo che un paziente tende a essere contagioso più a lungo rispetto a un soggetto che si infetta semplicemente, come appunto un vaccinato che si può infettare ma non sviluppa malattia grave”. Quanto alla carica virale dei vaccinati, continua l’esperto, “bisogna vedere quale è il tempo in cui si determina, quindi la carica virale dei primi giorni dal contagio può essere uguale a un non vaccinato, ma poi il vaccinato tende a ridurre più rapidamente la carica virale rispetto all’altro”. Questo, conclude Andreoni, “è comunque un argomento che dovrà essere ulteriormente indagato”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi. 

Draghi: “I vaccinati non contagiano”. La Federazione dei medici lo smentisce: “Fake news”. Luisa Perri lunedì 26 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi ha sparato una bufala colossale sul vaccino, che è passata sotto silenzio: “I vaccinati non sono contagiosi”, ha detto il premier in conferenza stampa in occasione della presentazione del Green pass.

Draghi e la bufala dei vaccinati non contagiosi. La gaffe di Draghi è stata pressoché ignorata da tutti (o quasi). Solo il giornale Open di Enrico Mentana ha avuto il coraggio di riferire correttamente il fatto. Avete letto commenti indignati o allarmati? Muti i Burioni e Crisanti di turno. Zitto il ministro Speranza. Silenti i vertici dell’Iss. Non uno straccio di virologo che abbia detto a Draghi quello che non viene risparmiato a Meloni, Salvini e ad altre personalità della vita politica o sociale, quando parlano del Covid. Non tutti i leader di governo sono così fortunati. Per alcune frasi sul Covid, il presidente americano Donald Trump è stato censurato, bannato, bloccato e segnalato. Sia da Twitter che da Facebook.

Che cosa ha detto il premier? «Il Green Pass è una misura con cui gli italiani possono continuare ad esercitare le proprie attività, a divertirsi e andare al ristorante, a partecipare a spettacolo all’aperto o al chiuso con la garanzia, però, di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose. In questo senso è una misura che, nonostante abbia chiaramente delle difficoltà di applicazione, è una misura che dà serenità, non che toglie serenità. Grazie».

La Fnomceo smentisce Draghi sui vaccinati. Da quando è scoppiata la pandemia, la Federazione dei medici ha allestito una task force che fornisce chiarimenti ai giornalisti e ai cittadini. Interpellati dal Secolo d’Italia, alla nostra precisa domanda: “I vaccinati che hanno completato il ciclo vaccinale possono contagiare?”. La risposta smentisce categoricamente il premier. 

Il caso dei positivi sull’Amerigo Vespucci dove sono tutti vaccinati. «La risposta è sì: una persona vaccinata può infettarsi e contagiare – spiegano dalla Fnomceo, l’Ordine nazionale dei medici, tramite il team di dottoremaeveroche, il sito anti fake- news rivolto a medici e cittadini -. Tuttavia, come dimostra il recente caso dell’Amerigo Vespucci, il vaccino riduce moltissimo entrambi questi rischi. Non solo tutti i casi sono stati lievi o asintomatici – cosa che potrebbe essere anche legata all’età – ma soprattutto l’infezione non si è diffusa oltre un ristretto numero di persone, una ventina su oltre trecento. E questo nonostante si trattasse di una comunità chiusa».  Andrebbe ricordato che il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump ha avuto i suoi interventi censurati per dichiarazioni ritenute “inesatte” e “fuorvianti”. Per Draghi, invece, i solitamente solerti censori dei Social si sono improvvisamente distratti. Zuckerberg & c. inizieranno a “segnalare” anche le conferenze stampa di Palazzo Chigi?

Dagotraduzione dalla Nbc il 28 luglio 2021. I Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie degli Stati Uniti martedì hanno pubblicato nuove linee guida raccomandando l'uso di maschere per interni in aree con alti tassi di trasmissione dopo che nuovi dati hanno suggerito che gli individui completamente vaccinati non stanno solo contraendo il Covid-19, ma potrebbero potenzialmente infettare altri. Il direttore del CDC Rochelle Walensky ha affermato che studi recenti hanno dimostrato che gli individui vaccinati che vengono infettati da Covid hanno la stessa carica virale dei non vaccinati, rendendo possibile la diffusione del virus ad altri. Sulla base di tale scoperta, Walensky ha affermato che il CDC raccomanda anche a tutti i bambini delle scuole di indossare maschere in autunno. «Stiamo vedendo ora che è effettivamente possibile che può trasmettere ulteriormente, ed è questa la ragione del cambiamento", ha detto Walensky. Dopo l'annuncio, lo staff della Casa Bianca ha iniziato a indossare maschere e il vicepresidente Kamala Harris ne ha indossata una durante un evento martedì pomeriggio in cui ha invitato più americani a farsi vaccinare per ridurre la diffusione del virus. «Le persone hanno bisogno di essere vaccinate, questo è l'unico modo per risolvere questa cosa, a nessuno piace indossare una maschera. Fatevi vaccinare», ha detto Harris. La Casa Bianca ha poi affermato che avrebbe richiesto a tutti coloro che si trovano nella Casa Bianca e nei suoi uffici di indossare maschere a partire da mercoledì. Nel frattempo, il medico curante del Campidoglio, Brian Monahan, ha notificato martedì agli uffici della Camera che sarebbero state necessarie «maschere per il viso filtranti ben adattate, di grado medico» all'interno degli edifici degli uffici della Camera e dell'edificio del Campidoglio. Ha inviato una lettera simile al leader della maggioranza al Senato Chuck Schumer, DN.Y., e al leader della minoranza Mitch McConnell, R-Ky., raccomandando ai senatori e al personale di indossare una maschera al chiuso a Capitol Hill in risposta alle nuove linee guida sulle maschere del CDC. I funzionari dell'amministrazione sostengono ancora che i vaccinati rappresentano una percentuale molto piccola di trasmissione, che si verifica principalmente tra le persone non vaccinate. Walensky ha affermato che la decisione di chiamare un ritorno all'uso della maschera non è stata presa alla leggera e che spera che sarà temporanea, fino a quando i ranghi dei vaccinati non aumenteranno e la quantità di virus in circolazione nella comunità non diminuirà. «Non è una notizia gradita che il mascheramento farà parte della vita delle persone che sono già state vaccinate», ha detto Walensky. «Questi nuovi dati pesano molto su di me, questa nuova guida ha pesato molto su di me e volevo solo trasmettere che questa non è stata una decisione presa alla leggera». La guida arriva dopo un dibattito interno tra i funzionari sanitari: se rispondere a questi risultati semplicemente informando il pubblico su di essi o raccomandando ulteriori restrizioni, incluso il ritorno all'uso uniforme della maschera interna sia per gli individui vaccinati che per quelli non vaccinati. I funzionari dell'amministrazione hanno lottato negli ultimi giorni su come rispondere al crescente numero di infezioni da Covid e ricoveri tra coloro che sono completamente vaccinati, nonostante le pressioni degli esperti di sanità pubblica per rimettere in atto le raccomandazioni sulle mascherine. Gran parte dell'agenda interna di Biden punta a far superare la pandemia al Paese e a spostare l'attenzione su altre priorità, come le infrastrutture e i diritti di voto. «L'annuncio odierno del CDC – e cioè che nuove ricerche e preoccupazioni sulla variante delta portano il CDC a raccomandare un ritorno al mascheramento in alcune parti del paese - è un altro passo nel nostro viaggio per sconfiggere questo virus. Spero che tutti gli americani che vivono nelle aree indicate dalla guida del CDC la seguirà. Lo farò sicuramente quando viaggerò in queste aree», ha detto Biden. All’interno dell’amministrazione la preoccupazione sul ritorno dell’obbligo di mascherina è stata forte: il fatto di poter circolare anche senza è stato un grande incentivo alla vaccinazione.  Il segretario stampa della Casa Bianca Jen Psaki ha detto lunedì che il presidente seguirà tutte le linee guida del CDC sull'uso delle maschere quando si recherà nei luoghi in cui sono raccomandate. Mentre i vaccini Covid hanno portato a un forte calo di nuove infezioni, decessi e ricoveri, numerosi studi hanno scoperto che sono meno efficaci contro la nuova variante delta che ora rappresenta la stragrande maggioranza delle infezioni negli Stati Uniti. Data l'infettività della variante, alcuni esperti di salute ora mettono anche in dubbio l'efficacia delle maschere di stoffa standard e chiedono che le maschere come la KN95 siano raccomandate per l'uso indoor per tutti, in particolare tra gli anziani e gli immunocompromessi. Uno studio ha scoperto che le persone infette dalla variante delta trasportavano 1.000 volte il virus rispetto ai ceppi precedenti. Nonostante una spinta negli ultimi due mesi da parte dell'amministrazione Biden per aumentare il numero di persone vaccinate, il numero di vaccinazioni giornaliere si è stabilizzato a circa 500.000 al giorno e Biden deve ancora raggiungere il suo obiettivo del 4 luglio di ottenere il 70% degli adulti almeno parzialmente vaccinato. Non è noto quanto siano diffuse le infezioni tra i vaccinati negli Stati Uniti. Il CDC ha dichiarato a maggio che smetterà di monitorare il numero di infezioni nelle persone vaccinate, a parte i casi in cui una persona completamente vaccinata è stata ricoverata o è morta. Walensky ha detto lunedì che l'agenzia ha monitorato gruppi specifici per le infezioni rivoluzionarie e che presto riporterà i dati. Finora i dati limitati portano i medici a valutare alla cieca il rischio che la nuova variante rappresenta per i loro pazienti. La scorsa settimana in Israele i ricercatori hanno pubblicato dati che mostrano come il vaccino Pfizer-BioNTech abbia un efficacia del 39% contro la prevenzione dal contagio della variante delta, e del 91% nel prevenire malattie gravi. «È una politica molto miope non raccogliere quei dati perché temono che vengano interpretati erroneamente da persone che pensano che i vaccini non funzionino», ha affermato Christopher Murray, direttore dell'Institute for Health Metrics and Evaluation presso il Università di Washington. «Essenzialmente ci sta rendendo un po' ciechi di fronte a ciò che sta realmente accadendo». Ma nonostante la mancanza di dati dal CDC, le prove aneddotiche sono diffuse, con casi di alto profilo di gruppi di individui completamente vaccinati che vengono infettati - come un gruppo di democratici della legislatura del Texas, un funzionario della Casa Bianca, un gruppo di New York Yankees e un atleta olimpico. Michael Osterholm, direttore del Centro per la ricerca sulle malattie infettive dell'Università del Minnesota, ha affermato di essere particolarmente preoccupato per il numero crescente di casi in cui sta sentendo parlare di gruppi di individui vaccinati che vengono infettati. Il CDC ha affermato che i dati indicano che i vaccinati non possono diffondere il virus ad altre persone vaccinate, ma Osterholm ha affermato che i gruppi di casi tra i vaccinati suggeriscono il contrario. In un cluster di oltre 200 casi a Provincetown, nel Massachusetts, il 70% dei casi positivi al Covid dal 1° luglio sono stati tra individui vaccinati, ha dichiarato il responsabile della città Alex Morse in un'intervista a MSNBC. Una piccola percentuale di coloro che sono completamente vaccinati continua anche a essere ricoverata in ospedale e muore a causa del virus, in particolare nelle aree che vedono un'impennata dei casi della variante delta. Al Texas Medical Center di Houston, il 10% degli oltre 250 pazienti Covid ricoverati è stato vaccinato, ha detto un portavoce dell'ospedale. A Las Vegas, secondo il Southern Nevada Health District, a luglio l'11% dei ricoveri per Covid era stato di persone completamente vaccinate. Un portavoce del sistema sanitario dell'Università del Kansas ha dichiarato il 15 luglio che il 16% dei pazienti ricoverati erano persone completamente vaccinate. I funzionari ospedalieri hanno aggiunto, tuttavia, che coloro che sono vaccinati hanno meno probabilità di essere in terapia intensiva o morire, e quasi tutti coloro che sono stati ricoverati dopo le vaccinazioni avevano gravi condizioni di base. A livello nazionale, il CDC ha monitorato oltre 4.000 casi di persone completamente vaccinate ricoverate in ospedale con sintomi di Covid al 19 luglio, in aumento del 9% rispetto alla settimana precedente. L'agenzia ha affermato che un totale di 849 persone vaccinate sono morte, di cui 58 nella settimana del 12 luglio, secondo i dati riportati al CDC dai dipartimenti sanitari locali.

Laura Cuppini per il "Corriere della Sera" il 28 luglio 2021.

Professor Abrignani, chi è vaccinato contro il Covid può comunque infettarsi e trasmettere l'infezione?

«Premesso che il rischio zero in medicina non esiste e che sta circolando una variante estremamente contagiosa, la Delta, la vaccinazione riduce in modo impressionante sia il rischio di ospedalizzazione e morte, che il numero di contagi. Dunque anche le possibilità di trasmettere il virus: se non sono positivo, non posso infettare altre persone». 

Sergio Abrignani è professore ordinario di Patologia generale all'Università Statale di Milano e direttore dell'Istituto nazionale di genetica molecolare «Romeo ed Enrica Invernizzi», oltre che membro del Comitato tecnico-scientifico per l'emergenza.

Di che percentuali stiamo parlando?

«Nelle fasi più pesanti della pandemia, sia in Italia che in Gran Bretagna c'era un morto ogni 50 infettati, ora - a 6 mesi e mezzo dall'inizio della campagna vaccinale e con una variante super diffusiva divenuta predominante - in Gran Bretagna si stima circa un morto ogni 500 infettati. Il ciclo completo di vaccino Pfizer (due dosi) protegge all'88% da malattia grave e morte e tra il 65 e il 90%, secondo gli ultimi dati inglesi, dal rischio di contagiarsi e quindi trasmettere l'infezione. Pensiamo a un ambiente chiuso con uno o più positivi: se i presenti sono tutti vaccinati se ne infettano nel peggiore dei casi 65 su 100, se non sono vaccinati la percentuale può salire al 100 per cento. La variante Delta ha un R0 stimato di 5-8 (i soggetti che può contagiare un positivo), il ceppo di Wuhan aveva un R0 di 2,5 e la variante Alfa è a 4-5». 

I no vax sostengono che nei giovani gli effetti collaterali dei vaccini possono superare i benefici. È così?

«No, è fondamentale che gli under 40 si vaccinino, per vari motivi: proteggere sé stessi, i propri cari (soprattutto se fragili) ed evitare che il virus continui a circolare. Nell'ultimo mese l'età media dei nuovi contagi è 27 anni e il 24,8% dei casi ha riguardato la fascia 0-18 anni. Lasciare un'intera fetta di popolazione non vaccinata può portare allo sviluppo di nuove varianti». 

Quanto incide la fascia under 18 nel superamento della pandemia?

«In Italia i ragazzi tra i 12 e i 17 anni - oggi vaccinabili con Pfizer - sono circa 3 milioni. Un bacino molto vasto per l'infezione. Inoltre i rischi legati a Covid nei bambini non sono pari a zero: in questo anno e mezzo i morti tra 0 e 19 anni sono stati 28, secondo dati dell'Iss. Con i vaccini possiamo evitare che se ne aggiungano altri. 

I minori con fragilità sono per fortuna pochi (pensiamo per esempio ai pazienti oncologici), ma non dimentichiamo che in Italia circa un bambino su dieci è obeso (9,4%) e l'obesità rappresenta uno dei fattori di rischio per le forme gravi di Covid. Non solo. In molte famiglie ci sono persone che, seppur vaccinate, non sono protette. Basti pensare ai tanti pazienti in chemioterapia o che assumono farmaci immunosoppressori. Vaccinare un figlio o un nipote significa ridurre drasticamente le probabilità che un padre o un nonno fragili finiscano in ospedale per Covid con altissimi rischi di morte».

Anche per i bambini i benefici della vaccinazione superano i rischi?

«Certamente. Da Israele sono arrivati dati su casi di miocarditi nei giovani vaccinati, poi confermati dai Centers for disease control and prevention (Cdc) statunitensi. Si è visto che c'è un legame con il vaccino Pfizer, ma si tratta di eventi lievi che si risolvono in pochi giorni.

Nessun ragazzo è morto a causa del vaccino Covid mentre, come vediamo per esempio in Indonesia, il virus uccide anche in quelle fasce di età. Secondo un'analisi dei Cdc, un milione di dosi di vaccino Pfizer possono, nella fascia 12-29 anni, evitare 23.500 casi di Covid, circa 1.500 ricoveri, 211 ingressi in terapia intensiva e 12 decessi. Il tutto a fronte di un rischio di 43-52 casi di miocardite. Che la bilancia penda dalla parte del vaccino è evidente».

Perché alcuni Paesi, come la Gran Bretagna, consigliano la vaccinazione solo ai minori fragili?

«In Gran Bretagna è stato autorizzato l'uso del vaccino Pfizer negli adolescenti ed è fortemente consigliato per i minori a rischio. Questo può dipendere dal fatto che nel Paese è stato vaccinato con doppia dose più del 70% della popolazione. Se aggiungiamo i guariti (circa il 10%), si comprende come sia stata già raggiunta un'immunità diffusa che consente di tenere sotto controllo contagi, ricoveri e decessi. La Gran Bretagna ha iniziato la campagna vaccinale prima di noi. In Italia dobbiamo procedere a pieno ritmo proteggendo tutte le fasce di età per evitare che la situazione torni a peggiorare». 

Il vaccino è l'arma vincente per sconfiggere il virus?

«Sì, non possiamo confidare nella stagionalità o nell'esaurimento naturale dell'infezione. Pensiamo alla polio: la malattia è stata debellata in quasi tutto il mondo grazie al vaccino. A livello globale abbiamo superato i 3 miliardi e mezzo di dosi somministrate contro Covid. Gli eventi avversi sono stati limitati, pensiamo alle trombosi rare collegate ai vaccini a vettore virale per le quali le Agenzie regolatorie hanno cambiato la destinazione per fasce di età. Quelli a mRna hanno mostrato un'efficacia e una sicurezza di altissimo livello e si sta studiando un loro possibile utilizzo anche nei bambini under 12». 

Perché anche i vaccinati devono fare la quarantena? E quanto sono contagiosi? Silvia Turin su Il Corriere della Sera il 19/7/2021. Il punto sugli studi e le regole con l’avanzata della variante Delta. L’infettività dipende dalla carica virale: essere completamente vaccinati la abbassa e ci rende meno contagiosi. Boris Johnson è stato «costretto» all’isolamento proprio alla vigilia della fine di tutte le restrizioni in Inghilterra: il primo ministro è stato infatti raggiunto dall’avviso di obbligo di quarantena a causa di una riunione avuta venerdì con il ministro della Sanità, Sajid Javid, risultato positivo al coronavirus pur essendo completamente vaccinato, come d’altronde lo è Boris Johnson. In Gran Bretagna la quarantena scatta se si viene «segnalati» dalla app di tracciamento del Covid e attualmente oltre mezzo milione di cittadini comuni in tutta l’Inghilterra è costretto a isolarsi perché ha avuto contatti con persone contagiate.

Ha senso isolarsi dopo un contatto a rischio per una persona completamente vaccinata? 

«Non ha senso con le varianti precedenti, perché i vaccini proteggono anche dall’infezione. Con la variante Delta il rischio di infettarsi è più alto, tuttavia il virus si replica meno proprio perché c’è il vaccino, infatti le persone che si sono vaccinate o non sviluppano sintomi o fanno una forma lievissima di malattia, proprio perché hanno una bassa carica virale e quindi, nella stragrande maggioranza dei casi, sono anche non contagiose», spiega l’immunologa Antonella Viola.

Qual è l’orientamento rispetto alla quarantena in Usa ed Europa? 

«I Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) Usa sono stati i primi a dire che le persone vaccinate non sarebbero state testate, non sarebbero andate in quarantena e potevano non usare la mascherina. In Europa la comunicazione non è stata così chiara e ogni Paese ha fatto da solo. In Italia c’è ancora l’obbligo di quarantena, che però non è possibile pensare di mantenere nel tempo», dice Viola.

C’è una differenza di rischio con chi avesse fatto solo una dose? 

Ci sono dati da Israele che dicono che già una dose fa abbassare la carica virale: nei vaccinati positivi è stata misurata una riduzione fino a 4 volte (per le infezioni che si sono verificate 12-28 giorni dopo la prima dose). «Le cariche virali ridotte suggeriscono una minore infettività, però per prudenza, quando diciamo che non è necessario fare la quarantena, ci riferiamo a soggetti completamente vaccinati» , specifica l’immunologa.

Un vaccinato positivo quanto è contagioso per gli altri?

Ci sono una serie di studi che hanno analizzato la variante Alfa e hanno dimostrato che le possibilità che un vaccinato possa contagiare sono bassissime. Con la variante Delta non ci sono ancora dati pubblicati, ma sono in corso gli studi. Anthony Fauci, il consulente medico della Casa Bianca, ha dichiarato essere «un’ipotesi ragionevole» che le persone completamente vaccinate positive abbiano «molto meno» virus nelle vie aeree rispetto alle persone non vaccinate con infezioni asintomatiche. «Quello che vediamo è che le persone vaccinate non si infettano allo stesso modo e nella gran parte dei casi non hanno sintomi. Questo significa che la carica virale è bassa e hanno una possibilità inferiore di contagiare gli altri». La pecca di questo tipo di studi è che una persona vaccinata sarà testata molto meno e, se anche fosse positiva sarebbe facilmente asintomatica e quindi, ancora una volta, sottoposta meno a tamponi.

Può dipendere anche dal tipo di vaccino con cui sono stato immunizzato? 

«Sì, è possibile che ci siano dei vaccini che abbiano una maggiore capacità di offrire immunità neutralizzante nelle vie aeree e quindi di bloccare meglio la replicazione virale», osserva l’esperta.

Cosa dobbiamo fare con la variante Delta con le regole su quarantena e mascherine?

«Dobbiamo dare un segnale chiaro a chi ha fatto le due dosi: sarei per togliere la quarantena, tuttavia dobbiamo dire alle persone vaccinate che la situazione è cambiata. Con la variante Delta è bene che, quando si trovano con persone non vaccinate, usino mascherina e distanziamento perché potrebbe esserci un rischio, seppure bassissimo, di contagiarle e farle ammalare», conclude la specialista. 

Covid, Vidal contagiato dopo essere stato vaccinato: il centrocampista cileno è ricoverato in ospedale. Asia Angaroni l'1/06/2021 su Notizie.it. Arturo Vidal, giocatore dell'Inter, è stato ricoverato dopo la positività al Covid. "A chi può, chiedo di vaccinarsi", dice il centrocampista cileno. Dopo la soddisfazione per la vittoria del campionato con la maglia neroazzurra, Arturo Vidal è volato in Cile per giocare con i suoi compagni la Copa America. Tuttavia, il centrocampista è già fermo a causa del Covid: risultato positivo al virus, Vidal è stato ricoverato. Era stato vaccinato tre giorni prima, ma ora è risultato positivo al coronavirus: Arturo Vidal è stato ricoverato dopo la positività al test. Il centrocampista cileno è rimasto isolato per 72 ore nel ritiro della nazionale che a Santiago del Estero incontrerà l’Argentina per le qualificazioni ai prossimi Mondiali di Qatar 2022. Il giocatore ha manifestato una “sindrome febbrile dovuta a tonsillite”. Venerdì 28 maggio era stato vaccinato con i suoi compagni di Nazionale. Per il momento il suo impegno accanto a La Roja si ferma e deve pensare a riprendersi. Una nota ufficiale della squadra comunica: “Arturo è stato ricoverato e isolato dal gruppo per più di 72 ore come misura preventiva di una grave tonsillite pleurica”. In Cile l’emergenza Covid-19 continua a fare paura. Nel Paese si registrano circa 6000 contagi al giorno e dall’inizio della pandemia si contano 29.000 vittime per 1,3 milioni di contagi complessivi. “Felice con il vaccino”, scriveva Arturo Vidal sul suo profilo Instagram, condividendo i suoi scatti. Solo pochi giorni dopo però, ha comunicato ai fan la sua positività al Covid-19. “Sfortunatamente il controllo di oggi ha dato esito positivo al Covid”, ha scritto su Instagram. Ha spiegato che è la conseguenza di un contatto avuto “con un amico asintomatico”. Questa volta non potrà scendere in campo con la Nazionale, comunica Vidal, ma “sosterrò i miei compagni con tutta la mia forza”. Poi ha sottolineato: “Mi riprenderò presto per poter vestire nuovamente La Roja de Todos”. Nel suo post su Instagram, Vidal ha ringraziato i medici che “stanno curando tutti noi cileni che stiamo combattendo contro questa terribile pandemia”. Quindi ha ribadito: “E chiedo per favore che chi può vaccinarsi lo faccia”. Dopo aver fatto sapere ai tifosi di essere risultato positivo al virus, Vidal ha ricevuto l’affetto e l’incoraggiamento di amici e sostenitori cileni, interisti e non solo. Non si fermano i messaggi di supporto per il centrocampista, che dai fan sta ricevendo tanta forza per guarire presto dalla malattia. “Che peccato, forza king”, si legge tra i commenti su Instagram. Ma anche: “Rimetti presto fratello” e “Un forte abbraccio, guarisci presto”.

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 31 maggio 2021. Quattro nuovi sintomi del Covid a cui prestare attenzione dopo essere stati vaccinati poiché, seppure i casi siano pochi, è possibile essere contagiati. A segnalare i 4 sintomi, diversi da quelli chiave del coronavirus originario presenti nelle linee guida, sono gli scienziati del King’s College London. Contagio anche dopo vaccino, i sintomi da non sottovalutare. Chi si è vaccinato ed è comunque risultato positivo, ha riportato la difficoltà a respirare, mal d’orecchie, ghiandole ingrossate ma su tutti prevaleva un sintomo: gli starnuti. Quest’ultimo era il più diffuso, il 24%, tra le persone vaccinate con meno di 60 anni. Lo studio ha inoltre scoperto che i vaccinati contro il virus avevano meno probabilità di riportare i sintomi classici del coronavirus. Le persone esaminate, avevano il 70% in meno di probabilità di avere la febbre e il 55% in meno di probabilità di provare affaticamento, rispetto a chi non era stato vaccinato. Nel Regno Unito, lo studio ha esaminato migliaia di persone nel utilizzando l’app ZOE Covid Symptom Study. Dai risultati è emerso che su 1,1 milione di utenti, dopo la prima dose di vaccino, 2.400  – dunque lo 0,2% – erano rimasti contagiati. Su mezzo milione di persone esaminate, 187 erano risultate positive alcune settimane dopo la seconda dose.

Ecco perché chi è stato vaccinato si può infettare. Alessandro Ferro il 3 Maggio 2021 su Il Giornale. Due donne, che avevano effettuato la vaccinazione completa con Pfizer e Moderna, si sono comunque ammalate. La spiegazione dei ricercatori. Reinfettarsi dopo aver completato le due dosi di vaccino? Purtroppo può accadere, anche se è molto raro, e la colpa è delle varianti del Covid-19 che abbassano (in parte) l'efficacia dei vaccini.

Le evidenze su due donne. Uno studio della Rockfeller University di New York pubblicato sul New England Journal of Medicine ha descritto due casi di reinfezione da Covid in due donne precedentemente vaccinate con due dosi, rispettivamente di Moderna e Pfizer, e con la seconda dose somministrata più di due settimane prima del test positivo. C'era tutto il tempo, quindi, per poter sviluppare gli anticorpi contro la malattia. Lo studio ha preso in esame 417 persone vaccinate all'interno della comunità universitaria ed è stato evidenziato che la prima donna, paziente sana di 51 anni e senza fattori di rischio, ha ricevuto la prima dose il 21 gennaio scorso e la seconda il 19 febbraio. Dopo 19 giorni ecco i primi sintomi: mal di gola, congestione e mal di testa hanno fatto scoprire la positività al Covid-19 che è sparita senza lasciare traccia dopo una sola settimana, ed è questa l'unica buona notizia. L'altra donna, di 65 e anch'essa senza fattori di rischio, aveva ricevuto la prima dose il 19 gennaio e la seconda il 9 febbraio. Dopo poco più di un mese, il 16 marzo, ha lamentato affaticamento, congestione e mal di testa: il giorno dopo è risultata positiva il Covid ma i sintomi sono durati tre giorni scomparendo il 20 marzo.

"Le varianti destano preoccupazione". "Le varianti emergenti della sindrome respiratoria acuta grave Coronavirus 2 (SARS-CoV-2) destano preoccupazione clinica", scrivono i ricercatori, che aggiungono come "queste osservazioni indicano un potenziale rischio di malattia dopo la vaccinazione riuscita e la successiva infezione con il virus variante". Il sequenziamento del genoma ha rivelato che una delle due donne ha contratto la malattia con la mutazione E484K presente nella variante sudafricana (non a caso tra le più temute) e l'altra con la mutazione S477N che si è diffusa a New York dal mese di novembre. Tra l'altro, test precedenti avevano dimostrato come le due donne avessero sviluppato un titolo anticorpale molto elevato a seguito della vaccinazione ma che, in questo caso, non è bastato a coprirle del tutto.

Perchè ci si può infettare dopo le vaccinazioni? Sottolineando come questi casi siano estremamente rari e come, grazie alla vaccinazione, la malattia sparisce in poco tempo lasciando pochissime tracce, è possibile infettarsi dopo le due dosi di vaccino semplicemente perché lo dice la matematica e lo dicono gli studi: i trials clinici condotti da Pfizer e Moderna, probabilmente i vaccini più efficaci fino a questo momento nella lotta al Coronavirus, dicono che hanno una protezione del 95%. Questo numero significa che, su 100 persone, 95 saranno protette e 5 no anche se sviluppano (o non sviluppano) gli anticorpi. Ed è quello che è accaduto alle due donne, sfortunate, che fanno parte di quel 5% della popolazione per la quale il vaccino può non coprire dal virus e dalle sue varianti. Purtroppo è la casistica e la statistica: non si fosse reinfettato nessuno, la loro protezione sarebbe stata del 100% ma così non è.

"Necessario fare il richiamo". "Queste osservazioni non minano in alcun modo l'importanza degli sforzi urgenti compiuti a livello federale e statale per vaccinare la popolazione statunitense. Forniscono inoltre supporto agli sforzi per promuovere un nuovo richiamo del vaccino (oltre a un vaccino pan-coronavirus) per fornire una maggiore protezione contro le varianti", scrivono i ricercatori riferendosi alla campagna vaccinale degli Stati Uniti ma il messaggio vale per tutti: bisogna programmare un richiamo del vaccino per mettere in sicurezza dalle varianti e fare un richiamo anticorpale (fondamentale) per chi si è vaccinato 5 mesi fa. Come ci siamo occupati recentemente (qui il nostro pezzo) anche in Italia sono segnalati i primi casi di infezione sul personale sanitario vaccinato a gennaio per gli stessi motivi che hanno fatto infettare le due donne americane, ovvero che i vaccini non sono infallibili e per questo sarà fondamentale ripetere la vaccinazione.

"Servono strategie". "L’idea che potremmo non avere più necessità di test nel mondo post-vaccino probabilmente non è accettabile in questo momento. Per quanto ne sappiamo attualmente, anche le persone completamente vaccinate che sviluppano sintomi respiratori dovrebbero prendere in considerazione di sottoporsi al test per Covid-19, e dovrebbero fare lo stesso in caso di esposizione a individui con infezione nota", hanno scritto nel commento al loro studio gli scienziati coinvolti. "Durante questo periodo critico, i nostri dati supportano la necessità di mantenere livelli di strategie di mitigazione, inclusi test seriali su persone asintomatiche, pubblicazione aperta e analisi di database di vaccinazioni e infezioni e sequenziamento rapido della SARS -CoV-2 RNA ottenuto da una varietà di persone ad alto rischio", concludono.

Chi è vaccinato è al sicuro dal contagio? Come fare per capire se l'iniezione ha funzionato. Elena Dusi su La Repubblica il 25 aprile 2021. Il test sierologico fa capire se si sono formati gli anticorpi contro il Covid, ma con alcuni caveat. Su una cosa però gli esperti sono d'accordo: chi si è immunizzato potrebbe eventualmente contagiarsi, ma molto raramente ha una malattia grave. Negli Stati Uniti i decessi dei vaccinati sono stati uno su un milione. Fatto il vaccino, raggiunta la tranquillità? Contagiarsi dopo l'immunizzazione in realtà non è impossibile. Secondo i dati ufficiali la protezione dei due vaccini a Rna (Pfizer e Moderna) è del 95%, di AstraZeneca del 70% e di Johnson&Johnson del 66%. Come fa, chi ha ricevuto una di queste iniezioni, a sapere se ricade nella frazione fortunata? Il test sierologico è l'unica guida, ma non sempre basta ad avere una risposta certa. Tantomeno a questo esame si può chiedere quale sarà la durata della protezione. Chi è curioso di sapere se ha sviluppato anticorpi contro il coronavirus dopo il vaccino può dunque fare un sierologico. Ma non del tipo "pungidito", come quelli che si trovano normalmente in farmacia, usano una goccia di sangue presa dal polpastrello e assomigliano ai test di gravidanza. "Servono test che misurino la quantità di IgM e IgG" spiega Massimo Clementi, virologo dell'università Vita-Salute del San Raffaele di Milano. Le Ig sono gli anticorpi, ma non tutti sono capaci di bloccare il coronavirus. "In teoria per sapere se siamo protetti dovremmo cercare un particolare tipo di anticorpi: quelli neutralizzanti". Sono gli unici in grado di rendere inerme Sars-Cov2. "Ma per misurarli serve un test molto complesso, al di là della portata dei normali laboratori di analisi". Per osservare se un anticorpo neutralizza il coronavirus occorre metterlo a contatto con il coronavirus vero e proprio. Servono dunque laboratori con livelli di biosicurezza alti, autorizzati a operare con microrganismi pericolosi. Un'alternativa è usare pseudovirus sintetizzati artificialmente: non rischiosi perché incapaci di infettare, ma non certo più facili da costruire. Test di questo tipo sono riservati ad alcuni istituti di ricerca e vengono svolti per scopi scientifici. In fondo poi non sono nemmeno necessari, per chi si è semplicemente vaccinato: le normali Ig sono comunque considerate un buon indicatore del livello di protezione. "Il loro valore, dopo il vaccino, è raramente nullo. Si tratta di un'eventualità eccezionale" spiega Sergio Abrignani, professore di immunologia dell'università di Milano. "Un certo numero di anticorpi viene prodotto praticamente sempre. Una possibilità più concreta è invece che ce ne siano, ma non molti. Esiste una zona grigia in cui non siamo sicuri se il numero di anticorpi presenti sia sufficiente a proteggere dal contagio". All'incertezza della scienza fa però da contraltare un'osservazione fatta nella vita reale, che questa volta ci porta una buona notizia: "Anche chi si infetta dopo il vaccino, difficilmente sviluppa una malattia grave" spiega Clementi. "E quello che noi vogliamo evitare - aggiunge Abrignani - sono proprio i casi gravi e le morti. I contagi possiamo tollerarli. Sappiamo che il coronavirus non scomparirà, ma quando smetterà di uccidere cesserà di essere l'emergenza che è oggi". Per quanto riguarda la protezione da  ricoveri, terapie intensive e decessi, anche AstraZeneca e Johnson&Johnson hanno mostrato valori molto alti, tra l'80 e il 90%, vicini a Pfizer e Moderna. "Chi ha fatto il vaccino è immune, non avrei troppe preoccupazioni in proposito" conferma Clementi. "Può darsi che il virus entri in contatto con le mucose delle vie aeree, nelle quali il vaccino non induce la formazioni di anticorpi. Può anche darsi che lì si replichi un po'. Ma nel momento in cui entrano in azione le difese indotte dall'immunizzazione, la malattia è destinata a fermarsi. Gli inglesi hanno vaccinato moltissimo, usando AstraZeneca, in molti casi senza aver neppure somministrato il richiamo. Eppure da loro la mortalità è crollata". Gli Stati Uniti hanno misurato l'efficacia dei vaccini dopo aver immunizzato con entrambe le dosi 75 milioni di persone. I contagi sono stati 5.800, i ricoveri 396 e i decessi 74: uno su un milione. E' la conferma che pur non essendo efficaci al 100%, le iniezioni possono rendere Sars-Cov2 un virus pressoché inoffensivo. Anche chi si è ammalato parecchi mesi fa può usare il test sierologico per seguire l'andamento degli anticorpi nel tempo, misurandone il graduale declino. "Il calo di anticorpi è normale, sia per l'infezione naturale che per i vaccini. Questi ultimi però danno mediamente una risposta migliore e più uniforme rispetto al contagio" spiega Clementi. "Io per esempio sono stato vaccinato con Pfizer dal mio ospedale a gennaio. Potrò andare in vacanza ad agosto in tranquillità? Su questo non c'è certezza. I dati di Moderna parlano di un'efficacia che va avanti per almeno 10 mesi. Ma la durata della copertura è un tema che resta da capire fino in fondo". Né gli anticorpi sono la fine della storia. Anche quando svaniscono, come è normale che avvenga col tempo, il sistema immunitario potrebbe mantenere una memoria capace di proteggere l'organismo. Ma qui le conoscenze sono ancora rarefatte. Né esistono test di routine capaci di misurare questa memoria. Tracce di immunità sono state ritrovate l'anno scorso in persone che avevano contratto il primo coronavirus della Sars, quello del 2003. Ma sarebbero state sufficienti a impedire un nuovo contagio? E' una domanda che non ha risposta. E chi si ritrova a zero, nel conteggio degli anticorpi? "Può capitare ad esempio se nelle settimane precedenti al vaccino sono state seguite terapie cortisoniche, o in chi è immunodepresso" spiega Clementi. Non è ancora ufficialmente ammessa, in questi casi, la possibilità di un'ulteriore iniezione. "Ma dal punto di vista immunologico - suggerisce Abrignani - potrebbe avere senso riprovare con un vaccino diverso. Quello Novavax in arrivo in estate usa ad esempio la tecnica delle proteine ricombinanti, accompagnate da sostanze dette adiuvanti che danno una sorta di scossa al sistema immunitario, per indurlo a mettersi al lavoro e produrre anticorpi". Che i vaccini di oggi non siano gli ultimi della nostra vita, d'altra parte, è molto probabile. Il calo naturale degli anticorpi nel tempo o la diffusione di nuove varianti ci costringeranno - è prevedibile - a ripetere periodicamente l'iniezione anti-Covid. "E' vero che i vaccini attuali coprono anche la variante inglese" spiega Clementi. "Ma se dovessi aver bisogno di un richiamo, sarebbe opportuno farlo con un vaccino adattato al ceppo britannico, quello prevalente oggi". Tra mutazioni e richiami, arriverà poi un giorno - nessuno sa quando - in cui il sistema immunitario avrà imparato a tenere a bada questo nemico che oggi è nuovo, e per questo tanto difficile da trattare, e in cui il virus si sarà adattato al nostro organismo, trovando una nicchia al suo interno senza bisogno di ucciderci. Cosa che di sicuro non piace a noi, ma che non conviene nemmeno a lui.

"Rischiano maggiormente gli over 65". Ci si può ammalare due volte di Covid? Lo studio inglese su 90 volontari contagiati apposta. Rossella Grasso su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Una volta contratto il Covid è possibile ammalarsi nuovamente? L’esperienza di oltre un anno di pandemia testimoniano che non è così frequente ma nemmeno impossibile. Gli scienziati stanno ancora studiando il fenomeno come in Danimarca dove il team di ricerca dello dello Statens Serum Institut di Copenhagen sta analizzando la cosiddetta “Immunità protettiva” da Covid-19, ovvero il grado di protezione che l’infezione conferisce al corpo umano nei confronti di una seconda reinfezione. Il team ha analizzato il risultati dei tamponi effettuati durante la prima ondata (da marzo a maggio 2020) confrontandoli con quelli della seconda (da settembre a dicembre 2020). “Abbiamo riscontrato che la protezione nella popolazione è dell’80% o superiore nelle persone di età inferiore ai 65 anni, ma di circa il 47% nelle persone di età pari o superiore ai 65 anni” scrivono gli autori della ricerca, i cui risultati completi sono stati pubblicati sulla rivista scientifica The Lancet. Dunque la possibilità di reinfettarsi è più alta nelle persone più avanti con l’età. Il motivo è da ricercare nel sistema immunitario, che si evolve con l’età, “senescenza immunitaria”. “Questi cambiamenti influenzano il sistema immunitario innato e adattativo, oltre che il coordinamento delle risposte immunitarie, facendo sì che le persone più anziane siano più suscettibili alle malattie infettive emergenti. Inoltre, la riduzione di cellule T naïve è stata associata all’invecchiamento e a peggiori risultati di Covid-19”, scrivono gli autori dello studio. Per questo motivo gli Stati hanno reputato fondamentale partire dalla vaccinazione dei più anziani. Dallo studio emerge anche un’altra informazione: “Non abbiamo identificato nulla che indichi che la protezione contro la reinfezione diminuisce entro sei mesi dall’infezione” ha aggiunto Daniela Michlmayr, ricercatrice dello Staten Serum Institute e coautrice dello studio. “La nostra ricerca – ha concluso l’autore corrispondente, il professor Steen Ethelberg dello Staten Serum Institute – conferma ciò che molti altri studi sembravano suggerire: la reinfezione da Covid-19 è rara nelle persone giovani e sane, ma gli anziani corrono un maggiore rischio di reinfezione”.

Lo studio di Oxford su 90 volontari contagiati apposta. Per capire meglio la dinamica del secondo contagio l’Università di Oxford ha annunciato un controverso esperimento su 90 volontari che hanno già contratto il Covid. Si chiama Human Challenge e prevede di reinfettare apposta i volontari con il Covid 19. Uno studio che fa discutere perché l’infezione da Covid è ritenuta molto pericolosa. Già in precedenza erano state avviate challenge di questo tipo ma con virus più deboli. I ricercatori intendono capire se c’è una dose di virus necessaria a reinfettare una persona e quanto influiscono le varianti. Particolare attenzione è posta sulla variante sudafricana e brasiliana perché proprio in Brasile e Sudafrica si sono riscontrati più casi di reinfezione. Lo studio punta a capire anche se la seconda infezione potrebbe avere caratteristiche diverse, ad esempio presentandosi in forma più lieve. I volontari scelti hanno tra i 18 e i 30 anni, la categoria meno a rischio di complicanze. Si procederà prima all’iniezione nel naso di piccole dosi di virus per capire qual è la quantità minima in grado di causare una reinfezione. I volontari vivranno in isolamento in laboratorio per 17 giorni e per questo riceveranno un rimborso di 5.800 euro. In caso di infezione saranno curati con anticorpi monoclonali. L’idea di avviare questo studio è ancora controversa ma i passi avanti fatti nella lotta al Covid potrebbero convincere gli scienziati a procedere. Nell’attesa di avere dati certi però bisogna rimanere prudenti: per questo motivo è indispensabile indossare sempre la mascherina anche per chi ha già contratto il Covid o si è vaccinato.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Vaccinati e contagiosi? Per alcuni sì; per alcuni no!

Chi si vaccina è contagioso? Ecco cosa dicono gli studi. Secondo quanto riferito dall’ex direttore esecutivo dell’Ema, da uno studio condotto negli Stati Uniti emergerebbe che nel 90% dei casi il soggetto vaccinato non infetta. Valentina Dardari - Mar, 30/03/2021 - su Il Giornale. Un primo dato molto importante riguardante i vaccini sarebbe emerso da uno studio condotto negli Stati Uniti sul personale sanitario. Guido Rasi, ex direttore esecutivo dell'Agenzia europea del farmaco e docente di microbiologia all'università di Roma Tor Vergata, intervenendo alla trasmissione Agorà in onda su Rai Tre ha spiegato che “nel 90% il vaccinato non infetta. E se infetta", avendo una carica virale "molto molto bassa, dà un'infezione lieve e quasi sempre asintomatica”. Una notizia degna di nota sulla capacità dei vaccini anti-Covid di riuscire a proteggere non solo la persona dalla malattia, ma anche gli altri dal rischio di infezione. Questa è tra l’altro una delle domande più ricorrenti da quando sono in uso i vaccini per combattere il virus, ovvero se chi si sottopone a vaccinazione può ancora essere un pericolo per gli altri cittadini. Come riportato da La Stampa, fin dai primi studi gli esperti hanno spinto verso la cautela. Infatti, inizialmente gli studi si erano concentrati soprattutto sulla capacità del vaccino di prevenire la malattia sintomatica. Raramente erano stati indirizzati a studiare l’infezione o la trasmissibilità. Gli esperti si erano basati solo su dati pre-clinici per asserire che i vaccini a mRna avrebbero potuto probabilmente bloccare anche l’infezione. Ma non vi erano comunque dati certi. Intanto, la vaccinazione di massa che è già avvenuta sia in Gran Bretagna che in Israele, può aiutare a rispondere al quesito. Secondo quanto emerso da questi due Paesi, tutti i vaccini al momento in uso ridurrebbero in modo sostanziale la mortalità, i ricoveri e le infezioni. Le vaccinazioni hanno ridotto la diffusione del Covid, andando quindi a interrompere la catena dei contagi e, almeno quelle a mRna a bloccare in modo efficace l’infezione asintomatica. Per quanto riguarda invece quelle basate su adenovirus, ci sarebbero comunque evidenze che la trasmissione del virus sia bloccata. Quindi, si potrebbe ben pensare che chi è vaccinato non contagia. Naturalmente, come ci sentiamo ripetere ormai da mesi, nessun vaccino è efficace al 100% e qualche eccezione potrebbe esserci. Comunque, l'agenzia federale degli Stati Uniti "Center for Disease Control and Prevention" che si occupa di dare le linee guida in materia di sanità pubblica, ha recentemente aggiornato i protocolli che riguardano le persone vaccinate. Negli Usa chi ha già ricevuto anche la seconda somministrazione di siero, in caso di contatti con persone positive, può evitare sia di sottoporsi ai tamponi che di mettersi in quarantena. L’Europa starebbe lavorando a un passaporto vaccinale che dia la possibilità di muoversi senza problemi da un Paese membro all’altro. Anche in Italia chi ha terminato l’iter di vaccinazione potrebbe non essere costretto a eventuali tamponi e quarantene. In questo modo si potrebbero far ripartire anche le attività che più di altre hanno sofferto la pandemia, come le palestre, i teatri e i cinema.

I vaccinati non sono contagiosi. "E l’immunità dura due anni". Copertura del 90% dopo la seconda dose. Rasi, ex presidente Ema: i dati recenti spingono all’ottimismo. Alessandro Malpelo su Quotidiano Nazionale il 31 marzo 2021 - Circola in queste ore un dato che evidenzia la capacità dei vaccini anti-Covid di fornire un doppio scudo protettivo: oltre a difenderci dalle conseguenze letali e invalidanti dell’esposizione al virus Sars-Cov-2 si dimostra capace di interrompere la catena dei contagi. Si è visto infatti che il rischio di contrarre l’infezione, nella popolazione sottoposta a vaccino mRna, tipo Pfizer o Moderna, risulta ridotto del 90% dopo due dosi, essendo già dell’80% dopo una singola dose. Lo studio è stato condotto dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) su 3.950 medici e infermieri vaccinati negli Stati, monitorati per 13 settimane a partire da dicembre. Servono almeno due settimane, dopo la somministrazione di ciascuna dose di vaccino, per sviluppare anticorpi protettivi. Questi anticorpi (e in tempi successivi la risposta immunitaria mediata per via cellulare) impediscono al virus di agganciarsi alle cellule, infettarle e moltiplicarsi. Quindi difendono organi e apparati, e impediscono al tempo stesso al virus di passare da un ospite all’altro. Niente a che vedere con previsioni fatte a tavolino o su colture cellulari in laboratorio, qui parliamo di misurazioni svolte sul campo. Ora sappiamo che la vaccinazione spezza anche l’effetto domino, quel balzo che permette il passaggio dell’agente infettivo da un soggetto a un altro perpetuando la pandemia. Dunque, partendo dal fatto che la profilassi sbarra la strada alla famigerata sindrome Covid-19, e a parte una ovvia variabilità individuale, quanto a lungo si protrae l’immunizzazione conferita dal vaccino anti-Covid? Guido Rasi, professore di microbiologia all’Università di Roma, Tor Vergata, è ottimista: “Evito sempre di fare previsioni – ha affermato l’ex presidente dell’Ema, agenzia europea dei medicinali – ma da immunologo azzardo l’unica, che spero di non sbagliare: secondo me la protezione dura un paio d’anni. E sono l’unico a sostenerlo, quindi spero di non pentirmi”. Sulle stime relative alla durata dello scudo vaccinale si valuta di mese in mese: “Ad aprile dell’anno scorso abbiamo avuto i primi vaccinati” negli studi clinici, ha spiegato Rasi, e ora “siamo arrivati a un anno. Ogni mese aggiorniamo i dati, e speriamo di continuare così”. Ovvia la considerazione, non possiamo dire a priori con assoluta certezza quanto a lungo si protrarrà l’effetto del vaccino, perché siamo solo all’inizio della storia.

Immuni, ma contagiosi: ecco perché la mascherina serve anche ai vaccinati. Fabio Di Todaro su La Repubblica il 25 marzo 2021. Secondo la comunità scientifica internazionale dovremo osservare ancora a lungo le regole anti-Covid: dalla protezione di naso e bocca fino al distanziamento. NO agli incontri in ambienti chiusi con persone non appartenenti allo stesso nucleo famigliare. Nessuna deroga al distanziamento sociale, da “rafforzare” in ragione della maggiore contagiosità della variante inglese di Sars-CoV-2. E massimo rispetto dell’indicazione a lavarsi frequentemente le mani, in particolare prima di portarsele al volto. Se si è tra i “fortunati” che si sono già sottoposti alla vaccinazione contro Covid-19, le misure anti-contagio da rispettare non cambiano di una virgola. Le indicazioni fornite dai governi partono dalle evidenze portate alla luce dalla comunità scientifica. Sebbene siano in fase di consolidamento le prove che alcuni vaccini (quelli a mRna) proteggano anche dal contagio, la vaccinazione non deve essere vissuta come lo spartiacque oltre il quale è possibile abbassare la guardia nei confronti della pandemia. A maggior ragione se si è stati sottoposti soltanto alla prima iniezione. Il richiamo giunge dalle colonne del British Medical Journal. Punto di partenza è l’esperienza del Regno Unito, in cui oltre la metà degli adulti ha già ricevuto almeno una dose del vaccino contro Covid-19. Ma anche dove l’Agenzia della Salute Pubblica ha evidenziato un “aumento notevole” delle infezioni negli over 70 che avevano ricevuto nei giorni precedenti la prima dose del vaccino AstraZeneca. Un dato confermato anche in Israele, dove l’incidenza giornaliera è quasi raddoppiata nella prima settimana successiva alla vaccinazione. Evidenze che hanno indotto i sanitari dei due Paesi a sospettare che, una volta intrapreso il percorso di immunizzazione, i cittadini rischiano di abbassare la guardia nei confronti del virus. “Le statistiche che giungono sia dal Regno Unito sia da Israele ci dicono che, dopo la prima iniezione, ci sono maggiori probabilità che le persone incontrino persone non appartenenti al proprio nucleo famigliare, spesso in cassa e riducendo il distanziamento sociale”, è il monito lanciato da James Rubin, docente di psicologia dei rischi per la salute all’University College di Londra, attraverso il British Medical Journal. In calce all’articolo, oltre alla sua, la firma di altri tre sanitari (Julii Brainard, Paul Hunter e Susan Michie). Unanime la richiesta: aumentare i messaggi per evidenziare i rischi legati a questi comportamenti. Anche se non è possibile conoscere con certezza le origini di questi aumenti dei contagi, è ragionevole pensare che alla base ci sia un allentamento delle misure di prevenzione del contagio. Un qualcosa che non è al momento possibile permettersi, considerando che “lo sviluppo dell'immunità completa può richiedere fino a tre settimane”, ricorda Rubin. Senza trascurare che, come tutti i farmaci, anche i vaccini contro Covid-19 potrebbero in alcuni casi non rivelarsi efficaci. Secondo gli esperti, un luogo e un momento opportuni per rimarcare l’importanza di rispettare la triade dei comportamenti anti-contagio sono rappresentati proprio dai centri in cui le persone si recano per vaccinarsi. I vaccini anti-Sars-CoV-2 attualmente disponibili conferiscono una protezione che va dal 60 per cento di AstraZeneca (dopo la prima dose) a oltre il 90 per cento nel caso dei farmaci sviluppati da Pfizer-Biontech e da Moderna. Questo vuol dire che, anche dopo la doppia vaccinazione, c'è una quota di persone che può ammalarsi, una volta entrata in contatto con il virus. Trattandosi di un virus che si trasmette per via respiratoria, altamente contagioso, è necessario continuare a indossare le mascherine, rispettare il distanziamento sociale e lavare frequentemente le mani. Sebbene tutti i vaccini praticamente azzerino la possibilità di sviluppare una forma grave di Covid-19, adottare queste precauzioni è fondamentale per ridurre la circolazione del virus nella comunità e proteggere coloro che vaccinati non lo sono ancora. A partire - naturalmente - dalle persone più fragili. 

Immuni ma pericolosi: ecco perché la mascherina serve anche ai vaccinati. Anche chi è vaccinato può essere contagioso, cioè può trasmettere il virus, seppure per un periodo di tempo molto più breve rispetto a un non vaccinato. Andrea Casadio su editorialedomani.it il 20 marzo 2021. Cosa succede quando una persona si vaccina? Succede che il vaccino addestra e prepara i linfociti B e linfociti T del nostro organismo ad affrontare il virus vero. Quando il coronavirus vero penetra all’interno del nostro organismo si trova già di fronte questi linfociti pronti ad aggredirlo e ad ucciderlo. Così, in breve tempo - poche ore o al massimo pochi giorni - tutte le copie del virus vengono eliminate, e noi non sviluppiamo alcuna malattia o solo sintomi lievissimi. Insomma chi è vaccinato può ancora infettare gli altri, anche se per un tempo brevissimo.

Chi è vaccinato contro il Covid è contagioso, cioè può trasmettere lo stesso il virus? In altre parole, anche chi è vaccinato deve portare la mascherina - che come è noto blocca la diffusione del virus – oppure deve restare confinato a casa qualora sia entrato in contatto con qualcuno positivo?

La risposta è sì: anche chi è vaccinato può essere contagioso, cioè può trasmettere il virus, seppure per un periodo di tempo molto più breve rispetto a un non vaccinato. Per capire perché ciò possa accadere bisogna spiegare il meccanismo di azione del coronavirus.

COME ENTRA DENTRO DI NOI IL CORONAVIRUS. Il Sars-Cov-2 entra nel nostro organismo per via aerea attraverso il naso e la bocca, arriva nei polmoni e qui, attraverso la sua proteina spike (spina) si lega ai recettori ACE-2 sulla membrana delle cellule dei nostri alveoli polmonari, penetra dentro di esse, si replica generando nuove copie del virus che riempiono la cellula fino a farla scoppiare, poi i nuovi virus prodotti invadono le cellule vicine, e così via, distruggendo a poco a poco le pareti degli alveoli. Questo danno cellulare progressivo richiama nei polmoni un gran numero di cellule immunitarie – mastociti, granulociti, macrofagi, ecc - che cominciano a secernere sostanze chiamate citochine, le quali attirano in loco altre cellule immunitarie che fagocitano cellule morte e virus, e che rilasciano altre citochine le quali richiamano altre cellule, e così via. Chi è più fortunato o ha un sistema immunitario più efficiente - come spesso accade nei giovani – riesce ad eliminare in breve tempo il virus dal suo organismo e non si ammala neppure oppure si ammala solo lievemente: per tutto questo periodo può contagiare gli altri attraverso i droplet, cioè le goccioline emesse quando parliamo, o respiriamo, che contengono copie del virus.

Chi ha un sistema immunitario meno efficiente -come chi è più avanti negli anni – combatte il coronavirus in maniere meno energica, in lui l’infezione può durare molto più a lungo, e per tutto il tempo resta contagioso. Le cellule del suo sistema immunitario iniziano a combattere il virus nei polmoni secernendo una “tempesta di citochine”, che richiamano in massa ancora altre cellule, le quali provocano una super-infiammazione polmonare dove viene distrutto tutto, cellule degli alveoli e virus. E’ come se il suo sistema immunitario sparasse bombe a mano a casaccio, che oltre a uccidere il virus provocano danni diffusi al suo polmone. Solo in un secondo tempo, cioè circa 10-15 giorni dall’inizio dell’infezione, entrano in campo altre cellule del sistema immunitario più raffinate e più efficienti: i linfociti B, che producono anticorpi contro il coronavirus, e i linfociti T, che cominciano con precisione ad ucciderlo. Fino a quando ogni esemplare del virus non è stato ucciso e distrutto dai linfociti B e T, questa persona può infettarne altre. Così, chi è malato di Covid, può contagiare gli altri per giorni, settimane, a volte per mesi.

COSA CAMBIA DOPO IL VACCINO. Cosa succede quando una persona si vaccina? Succede che il vaccino - che in pratica è una copia falsa e inoffensiva del virus vero, una specie di sparring partner - addestra e prepara i linfociti B e linfociti T del nostro organismo ad affrontare il virus vero, e perciò, quando il coronavirus vero penetra all’interno del nostro organismo si trova già di fronte questi linfociti pronti ad aggredirlo e ad ucciderlo. Così, in breve tempo - poche ore o al massimo pochi giorni - tutte le copie del virus vengono eliminate, e noi non sviluppiamo alcuna malattia o solo sintomi lievissimi. Per questo motivo, se viene infettato dal coronavirus chi è vaccinato resta portatore del virus per un tempo limitato – ore, o al massimo pochi giorni - e comunque assai più breve rispetto a chi non è vaccinato, che può diffondere il virus per settimane o addirittura per mesi. Insomma, chi è vaccinato può infettare gli altri, anche se per un tempo brevissimo, e per questo deve indossare lo stesso la mascherina perché potrebbe essere entrato in contatto col virus ed essere un portatore senza saperlo, perché non ha sviluppato i sintomi, essendo vaccinato. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, raccomanda ai vaccinati di portare sempre la mascherina. Per essere ancora più chiari: una persona vaccinata potrebbe ospitare qualche copia del coronavirus all’interno delle sue vie aeree senza saperlo, e quindi con il respiro o con uno sternuto potrebbe infettare altri, pur se per un tempo limitatissimo. Il sistema immunitario di chi è vaccinato non funziona come una specie di contraerea, che appena vede il virus all’orizzonte, bum!, lo uccide prima che quello faccia in tempo di attaccarsi alle cellule della nostra bocca o del nostro naso. Il coronavirus entra all’interno delle sue vie aeree, nella bocca e nel naso, e qui magari comincia a infettare qualche cellula e a proliferare, ma viene in breve tempo circondato e ucciso dai linfociti e non riesce a diffondersi ai polmoni. In un tempo breve, ma non subitissimo. Ecco: per tutto questo tempo anche un vaccinato infetto dal virus è contagioso e può trasmetterlo ad altri. IL CONTAGIO È QUESTIONE DI PROBABILITÀ. Quel che è certo è che il vaccino diminuisce enormemente la probabilità che un individuo infettato dal virus lo possa trasmettere ad altri. Il contagio è una questione probabilistica. Una persona infetta dal coronavirus lo trasmette attraverso le goccioline emesse quando parliamo o  quando respiriamo, e più alto è il numero di copie del virus all’interno del suo naso e più a lungo il virus resta nel suo corpo, e maggiore è la probabilità che egli infetti altri. Per mesi gli scienziati si sono chiesti se i vaccini attualmente disponibili, oltre a portare praticamente a zero la probabilità che una persona sviluppi un Covid grave, cosa che è ormai sicura, potessero anche interrompere la trasmissione del virus. I primi dati sono molto confortanti. Nei paesi dove è già stata vaccinata buona parte della popolazione, come in Israele, la trasmissione del virus si è praticamente interrotta. Perché se uno ospita il virus all’interno del suo corpo in piccolo numero e per un tempo più breve, a poco a poco l’epidemia si soffoca e alla fine si spegne: un motivo in più per vaccinarci tutti, e alla svelta.

ANDREA CASADIO. È medico, giornalista e autore tv. Ex docente universitario ed ex ricercatore di neuroscienze alla Columbia University di New York, ha partecipato agli studi sulla memoria che hanno permesso a Eric Kandel, capo del laboratorio, di ottenere il premio Nobel per la Medicina nell'anno 2000. Ha collaborato come inviato e autore televisivo a varie trasmissioni (Turisti per caso, Sciuscià, Velisti per caso, Annozero, Servizio pubblico, Piazzapulita).

Marino Longoni per "Italia Oggi" il 31 marzo 2021. Chi avrebbe detto, un anno fa, che dopo dodici mesi saremmo stati ancora allo stesso punto? Siamo ancora in lockdown, usciamo con le mascherine, evitiamo gli assembramenti e leggiamo ogni giorno, con ansia, i dati sulla diffusione del Coronavirus. L'unica differenza è che adesso si sta cominciando, lentamente, a vaccinare. Ma c'è un problema, che si cerca di tenere sottotraccia. Probabilmente la vaccinazione dovrà essere ripetuta per qualche anno, chissà per quanti. Perché l'efficacia del vaccino non è permanente ma, al momento, si presume non superi i 9/12 mesi. E in un periodo così breve non si farà in tempo a debellare la pandemia. Quindi, tra pochi mesi, i primi vaccinati non saranno più coperti e dovranno ripetere il vaccino, come si fa ogni anno con l'influenza. Poi c'è il problema delle varianti, che non è detto i vaccini attuali siano sempre in grado di coprire: la cosiddetta variante sudafricana, per esempio, non è coperta dal vaccino Astrazeneca. E' quindi prevedibile che anche i vaccini debbano essere adeguati per seguire lo sviluppo dell'epidemia, così come avviene con le normali influenze. Silvio Garattini, presidente dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs lo ha detto chiaro: «Dobbiamo essere preparati all'ipotesi che ci sia bisogno di fare i vaccini anti-Covid ogni anno, come accade per l'influenza». Pochi giorni fa, in un incontro riservato con gli investitori, i vertici di Pfizer hanno previsto che sarà necessario un terzo richiamo per fare fronte al moltiplicarsi delle varianti del virus e che dal 2022 il vaccino anti-Covid diventerà di routine come quello anti influenzale. Forse non è un caso se il presidente della commissione europea Ursula von der Layen ha parlato del nostro tempo come dell'inizio dell'era delle pandemie. E d'altra parte l'introduzione del passaporto vaccinale, già operativa in Cina e di prossima introduzione in Europa, non avrebbe senso se l'epidemia dovesse essere debellata in pochi mesi e senza la previsione di una vaccinazione ripetuta per diversi anni. E' invece lo strumento ideale (come avviene per gli animali domestici) per certificare una condizione sanitaria in modo continuativo. Non illudiamoci, non ci liberemo del Covid-19 nemmeno nel 2021.

Cristina Marrone per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. Quanto dura l'immunità naturale al Covid? Quanto a lungo gli anticorpi prodotti dall' organismo dopo aver incontrato Sars-CoV-2 sono in grado di proteggerci da una reinfezione? Secondo un nuovo studio in valutazione per la pubblicazione sulla rivista Nature condotto a Vo' Euganeo, in Veneto, da Andrea Crisanti, microbiologo dell' Università di Padova, gli anticorpi naturali persistono almeno 9-10 mesi. Non solo. Chi tra i guariti della prima ondata è stato esposto in modo diretto nel corso della seconda ondata a Covid-19 non si è ricontagiato. L' indagine ha coinvolto 125 residenti a Vo' Euganeo e frazioni (88 positivi al tampone nel febbraio 2020, gli altri risultati positivi al test sierologico durante i controlli di maggio). «Quello che abbiamo visto è che gli anticorpi, per lo più neutralizzanti, restano in circolo fino a 10 mesi, senza sostanziali differenze nel titolo anticorpale tra sintomatici e asintomatici e neppure tra classi di età» sintetizza Crisanti,che ha collaborato con i colleghi dell' Imperial College di Londra. Lo studio sembra dunque suggerire che esiste una «barriera protettiva» piuttosto duratura per chi ha incontrato Sars-CoV-2, anche per chi non ha mostrato sintomi. Vo' Euganeo rappresenta un caso-studio dall' inizio della pandemia. Non solo perché ha registrato la prima vittima di Covid in Italia, ma anche perché i suoi 3.200 abitanti sono stati testati a più riprese con tamponi e analisi sierologiche. In questo ultimo «giro» di test svolto a novembre, a differenza delle precedenti occasioni hanno partecipato solo i 125 residenti che nel maggio scorso, all' esito del prelievo venoso, avevano manifestato la presenza di anticorpi contro Covid, con l' infezione risalente a febbraio-marzo. «Come c' era da aspettarsi gli anticorpi dopo nove mesi diminuiscono, pur restando piuttosto elevati - aggiunge il professore - ma l' aspetto interessante e soprattutto rassicurante è che 18 persone sono state esposte a positivi a Sars-CoV-2 durante la seconda ondata perché condividevano la casa o avevano rapporti stretti: nessuno di loro si è riammalato. Sappiamo con certezza che queste persone sono entrate di nuovo in contatto con il virus perché il livello dei loro anticorpi è aumentato, come se avessero fatto il richiamo del vaccino, ma non si sono ammalate, e questa è un' ottima notizia». L'aumento della produzione di anticorpi significa che chi si è infettato ed è guarito è in qualche modo protetto. «Ma il virus per poter stimolare le risposte anticorpali di queste persone - dice Crisanti - si è moltiplicato un po', non sappiamo quanto, ma sicuramente ha avuto una fase di replicazione che non ha portato alla malattia, ma che ha causato un' infezione transitoria asintomatica, perché altrimenti non si sarebbe stimolata la risposta immunitaria». In questa fase si è contagiosi? È una di quelle domande che non ha ancora una risposta e serviranno ulteriori indagini. La durata dell' immunità (naturale e indotta dai vaccini) è una delle domande più dibattute che ancora non ha risposte definitive e univoche. Capirne i meccanismi è però di fondamentale importanza per pianificare le campagne di vaccinazione, anche con eventuali richiami, e per riprendere una vita normale. Alcuni studi parlano di immunità naturale di 3-5 mesi, altri, più numerosi, si spingono a 8-9 mesi. È chiaro che più passa il tempo, più potremo avere informazioni precise anche se conta molto la risposta del singolo individuo. Attenzione, non tutti quelli che contraggono l' infezione sviluppano anticorpi neutralizzanti. Come spiega l' immunologa Antonella Viola, docente di Patologia all' Università di Padova «secondo uno studio effettuato in Cina solo il 40% delle persone sieropositive, che hanno cioè generato anticorpi contro Sars-CoV-2, produce anticorpi in grado di bloccare il virus».

Anticorpi Covid, quanto durano? Fino a 8 mesi secondo uno studio di ISS-San Raffaele. Debora Faravelli il 13/05/2021 su Notizie.it. Una ricerca condotta su 162 pazienti Covid ha mostrato quanto durano gli anticorpi prodotti dopo l'infezione: la protezione può durare fino a 8 mesi. Uno studio condotto dall’Ospedale San Raffaele di Milano e dall’Istituto Superiore di Sanità ha cercato di verificare quanto durano gli anticorpi neutralizzanti del virus nei pazienti risultati positivi e poi guariti: i risultati hanno mostrato come, indipendentementedalla gravità della malattia, l’età dei pazienti o la presenza di altre patologie, la loro permanenza dura fino ad 8 mesi. La ricerca è stata condotta seguendo nel tempo 162 pazienti positivi (di cui il 67% maschi e con un’età media di 63 anni) che si sono recati al Pronto Soccorso della struttura ospedaliera milanese durante la prima ondata della pandemia. Gli studiosi hanno raccolto i primi campioni di sangue a marzo e aprile 2020 e gli ultimi a novembre dello stesso anno. Diversi i sintomi presentati dai pazienti durante la malattia così come le loro condizioni: il 57% ai tempi soffriva infatti di un’altra patologia oltre al Covid, tra cui ipertensione (44%) e diabete (24%). Dei soggetti analizzati, 134 sono poi stati ricoverati mentre gli altri hanno ricevuto subito le dimissioni. Gli scienziati hanno notato che la presenza degli anticorpi neutralizzanti, pur riducendosi nel tempo, è risultata molto persistente durante il periodo di analisi. A otto mesi dalla diagnosi erano infatti solo tre i pazienti che non mostravano più positività al test indipendentemente da età, sintomi presentati durante la malattia e presenza di altre patologie. Il 79% dei malati arruolati ha prodotto questi anticorpi entro le prime due settimane dall’inizio dei sintomi. Lo stesso studio ha mostrato che chi non riesce a produrli entro quel tempo è a maggior rischio di contrarre la malattia in forma grave. “I pazienti incapaci di produrre anticorpi neutralizzanti entro la prima settimana dall’infezione andrebbero identificati e trattati precocemente in quanto ad alto rischio di sviluppare forme gravi di malattia“, ha spiegato la coordinatrice della ricerca Gabriella Scarlatti.  Dai dati analizzati i ricercatori hanno anche verificato che la riattivazione degli anticorpi pre-esistenti per i coronavirus stagionali (come quelli del raffreddore) non costituisce un ostacolo per la produzione degli anticorpi specifici per il Covid. Il prossimo passo sarà capire se le risposte efficaci date dalla formazione di anticorpi dopo l’infezione si mantengono anche con la vaccinazione e contro le nuove varianti circolanti.

Melania Rizzoli per "Libero quotidiano" il 30 marzo 2021. Tutti coloro che si sono ammalati per primi all’inizio della pandemia, ovvero dal marzo 2020, e che sono poi guariti dal Covid19, hanno sviluppato una immunità naturale di almeno 9/10 mesi dalla data di guarigione, e in questo lungo periodo sono rimasti protetti per tutto il tempo grazie agli anticorpi naturali che si sono sviluppati a seguito dell'infezione virale. Quindi aver avuto la malattia garantisce una protezione da una eventuale reinfezione pari ad almeno 9/10 mesi, tranne rarissimi casi, anche se questo limite viene considerato dalla scienza provvisorio e temporale, poiché la durata del l'immunità é ancora da verificare e si capirà solo a fine anno se tale limite potrà essere esteso a 12 mesi od oltre. Avendo a che fare con una nuova patologia, di cui conosciamo ormai sintomi ed effetti, non è passato ancora abbastanza tempo per vedere che cosa accade a lungo termine dopo aver contratto malattia, ma è sicuro che gli anticorpi restano a vigilare nel sangue del paziente perlomeno per tutto il periodo di osservazione che c'è stato finora a disposizione. L'immunità artificiale invece - quella che viene indotta dal vaccino, per intenderci - nei soggetti che non hanno mai avuto contatti con il Coronavirus appare addirittura più robusta ed efficace di quella naturale, ma pure in questi casi, a causa della scarsità dei dati a disposizione, prevederne l'esatta durata non è ancora possibile, anche se le premesse per una memoria immunologica piuttosto duratura ci sono tutte, e non è affatto detto che si debba ripetere dopo un anno la somministrazioni del vaccino per scongiurare un nuovo contagio.  Gli esami sierologici di sorveglianza hanno evidenziato una graduale e fisiologica diminuzione dei livelli di anticorpi specifici pochi mesi dopo l'infezione da Sars-Cov2, il che non significa una diminuzione della protezione, poiché milioni di linfociti (globuli bianchi) si trasformano in "cellule della memoria" di lunga vita, le quali sono in grado di attivarsi immediatamente in caso di ulteriore contatto con il Corona, rispondendo più velocemente ed efficacemente contro l'agente patogeno, impedendogli dunque di sviluppare la malattia. Questo accade sia con l'immunità naturale che con quella indotta vaccinale, ed è peraltro proprio su questa "memoria immunologica" che si fondano le speranze di una immunità lunga e duratura al Coronavirus. Secondo molti studi, infatti, questo meccanismo difensivo sarebbe in grado di proteggere le persone addirittura per molti anni, dal momento che è stato dimostrato che laddove gli anticorpi specifici contro il Covid non erano più rilevabili nel sangue, a mesi di distanza dall'infezione - un calo considerato comunque fisiologico - la presenza delle cellule linfocitarie difensive, quelle che "ricordano" o "riconoscono" il virus, considerate cellule vigili e protettive, non tendeva affatto a diminuire. Comunque sia, non è il momento di abbassare la guardia, perché i risultati scientifici sostengono che anche le persone con pregressa infezione da Sars-Cov2 , indipendentemente se siano state sintomatiche o meno, debbano essere vaccinate, a distanza di almeno tre mesi ed entro i sei mesi dalla stessa, anche se la possibilità di reinfezione risulta ridotta dell'83 per cento, tenendo presente che la risposta immunitaria dei vaccini a mRna, Pfizer e Moderna, inizia dopo due settimane dall'inoculazione della prima dose, mentre per il vaccino Astrazeneca la protezione inizia dopo tre settimane dalla prima somministrazione, e per tutti questi tre tipi di vaccini è necessaria la seconda dose al fine di ottenere una risposta ottimale e completa. È importante ricordare a coloro che si sentono in sicurezza dopo la vaccinazione, che la somministrazione del farmaco protegge chi lo riceve dalla malattia virale, ma non è sicuro che protegga dal contagio, per cui anche chi è vaccinato, se dovesse entrare in contatto con un soggetto positivo al Covid, deve adottare le stesse misure preventive valide per chi non è ancora vaccinato, ovvero sostenere i 10/14 giorni di quarantena, a prescindere dal tipo di siero preventivo ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione. Ad oggi quindi è ancora difficile prevedere esattamente quanto possa durare l'immunità al Covid19 , naturale o indotta che sia, e quanto alto sia il livello di protezione dall'infezione e dal contagio, nonostante, dai pochi dati finora a disposizione, sembra che ci siano ottime premesse per una risposta immunitaria lunga e duratura. Sperèm.

"Da pochi mesi ad anni". Ecco nuovi studi sulla durata degli anticorpi. Diversi studi appena pubblicati mostrano la variabilità degli anticorpi in ognuno di noi. I fattori determinanti sono due: il ruolo delle cellute T (di lunga memoria) e la gravità della malattia contratta. Alessandro Ferro - Lun, 29/03/2021 - su Il Giornale. Da pochi giorni a decenni: è questo il nuovo responso degli scienziati sulla durata degli anticorpi a seguito dell'infezione causata dal Covid-19.

Cosa dice lo studio. Quando si dice "ogni giorno esce uno studio diverso" è proprio vero ma non deve essere visto come qualcosa di negativo: il virus Sars-Cov-2 fino ad un anno fa non esisteva, è normale che ci siano nuove evidenze e scoperte da parte degli addetti ai lavori. Noi, con loro, stiamo imparando a conoscere questo maledetto virus in tutte le sue sfaccettature. In questo caso ci occupiamo di immunità: per quanto tempo si è protetti? Una nuova analisi dimostrerebbe che gli anticorpi viaggiano a velocità diverse e, di conseguenza, ogni soggetto sviluppa un'immunità anticorpale variabile. La ricerca, appena pubblicata sulla rivista The Lancet Microbe, ha rilevato che i pazienti guariti con bassi livelli di anticorpi neutralizzanti possono ancora essere protetti dalla reinfezione se hanno un’immunità robusta sotto forma di cellule T, quelle che per intenderci hanno una sorta di "memoria a lungo termine".

"Cambiano da persona a persona". "Le dinamiche di risposta anticorpale neutralizzante nei pazienti che hanno recuperato da Covid-19 variano notevolmente e la previsione della longevità immunitaria può essere determinata con precisione solo a livello individuale", scrivono i ricercatori, che hanno seguito 164 pazienti ed analizzato il loro sangue nell'arco temporale da sei a nove mesi dopo la malattia per vedere quante tracce di anticorpi fossero rimaste. Da qui, come riportato dal Corriere, hanno creato un algoritmo per prevedere l'andamento degli anticorpi nel tempo.

5 diverse casistiche. I ricercatori hanno sistemato le persone in cinque gruppi diversi a seconda della durata dei loro anticorpi: il primo gruppo, chiamato "negativo" era composto da chi non ha mai sviluppato una quantità di anticorpi rilevabili e comprendeva l'11,6%; il secondo, chiamato "in rapida diminuzione", comprendeva il 26,8% dei pazienti con livelli alti ma diminuiti molto rapidamente; al terzo posto il gruppo "lentamente calante" con il 29% dei partecipanti che ha mantenuto un buon numero di anticorpi sei mesi dopo l'infezione. Il gruppo "persistente", invece, ha mostrato piccoli cambiamenti nei livelli di anticorpi fino a tre mesi (il 31,7%). Infinte, un gruppo minoritario (solo l'1,8%) ha mostrato un aumento significativo degli anticorpi neutralizzanti durante convalescenza tardiva e per questo chiamati "a risposta ritardata".

Cosa significa. "Questo studio mostra che la longevità degli anticorpi neutralizzanti funzionali contro Sars-CoV-2 può variare notevolmente ed è importante un monitoraggio a livello individuale" ha affermato il professor Wang Linfa, co-autore dello studio. "Questo nostro lavoro potrebbe avere implicazioni per la longevità dell’immunità dopo la vaccinazione", ha aggiunto. Secondo lo studio, anche i pazienti del "gruppo negativo" avrebbero una forte immunità dei linfociti T sei mesi dopo l’infezione. Questo significa che si può essere protetti a lungo grazie a questi leucociti. "Tuttavia, la presenza dell’immunità dei linfociti T fornisce la speranza di una protezione a lungo termine che richiederà più studi e tempo per la conferma delle prove epidemiologiche e cliniche".

Immunità a lungo termine. Un altro studio del La Jolla Institute for Immunology della California e pubblicato a fine gennaio su Science Immunology, derscirive il ruolo dei linfociti T nei soggetti colpiti durante dal Covid che potrebbero sviluppare un'immunità più marcata a lungo termine grazie, sempre, a queste cellule di lunga memoria necessarie per combattere la reinfezione: gli studiosi hanno paragonato gli anticorpi nei pazienti con infezione lieve rispetto a quelli con malati gravi, per i quali la risposta è stata molto più intensa. E non dimentichiamoci dello studio italiano, di prossima pubblicazione, in cui il Prof. Crisanti ed il suo staff (qui il nostro pezzo) abbiano visto che, mediamente, gli anticorpi durerebbero fra i 9 e i 10 mesi. Insomma, non saranno i primi né gli ultimi, di studi e ricerche ne avremo tanti altri nel prossimo futuro. Tutti questi contributi saranno importanti per mettere un punto, defitinivo, sulla pandemia mondiale.

Articolo di "El Pais" per la rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 19 marzo 2021. In Danimarca, il test PCR per il coronavirus è gratuito e disponibile per tutti i cittadini, che abbiano sintomi o meno. Questo e il passare del tempo hanno permesso di realizzare il più grande studio fino ad oggi sul rischio di reinfezione. Il lavoro mostra che molto meno dell'1% di coloro che sono stati infettati durante la prima ondata lo hanno fatto di nuovo nella seconda. La ricerca conferma anche che l'immunità naturale dura almeno sei mesi senza indebolirsi significativamente. Tuttavia, la protezione sembra essere più bassa tra coloro che hanno più di 65 anni – scrive El Pais. Diversi studi erano già stati pubblicati sul rischio che una persona infettata potesse infettarsi di nuovo. Quasi tutti hanno dato percentuali inferiori all'1%, ma si trattava di studi con un piccolo numero di persone o un periodo di tempo limitato. Tuttavia, i ricercatori dello Statens Serum Institute (SSI), il centro danese per il controllo delle malattie, hanno approfittato del massiccio schema PCR istituito dal governo danese per determinare quanti di coloro che si infettano lo fanno di nuovo. E non è un piccolo campione: da poche centinaia di PCR che potevano fare a febbraio, sono passati a testare il 10% di 5,8 milioni di persone a settimana. Entro il 31 dicembre 2020, la fine dello studio, più di due terzi della popolazione aveva fatto almeno un test e la metà dei danesi ne aveva fatti due o più. La ricerca, appena pubblicata sulla rivista medica The Lancet, mostra che lo 0,65% di coloro che sono risultati positivi durante la prima ondata (da febbraio a maggio) hanno avuto un CRP positivo di nuovo durante la seconda ondata (da settembre a dicembre). Il campionamento tra due ondate è stato progettato per stabilire una distanza di almeno tre mesi tra l'infezione e la reinfezione. Questo riduceva il rischio che una persona presumibilmente reinfettata fosse in realtà una persona infetta che era ancora positiva settimane dopo il primo test. Per inciso, non hanno rilevato alcun caso di tripla infezione. L'epidemiologo dell'ISS Steen Ethelberg, autore principale dello studio, dice in una nota che il suo lavoro conferma "ciò che altri hanno suggerito: la reinfezione con il Covid è rara tra le persone sane e giovani, ma gli anziani sono a maggior rischio di reinfezione". Infatti, avendo non solo l'identità di coloro che hanno avuto il PCR e il loro risultato, ma anche quando hanno avuto i test successivi, sono stati in grado di stimare che la protezione si mantiene intorno all'80% per almeno sei mesi. Tuttavia, hanno osservato che questa percentuale è scesa al 47% tra coloro che hanno più di 65 anni. Ethelberg spiega come hanno calcolato la protezione che l'immunità acquisita avrebbe offerto con la prima infezione: "Abbiamo guardato coloro che sono stati testati durante la prima ondata, in primavera, e l'abbiamo confrontato con come hanno fatto nella seconda ondata, sia quelli che sono risultati positivi che quelli che sono risultati negativi. Cioè, abbiamo contato quanti sono risultati positivi tra coloro che erano già risultati positivi e li abbiamo confrontati con quelli che sono risultati negativi nella prima ondata". Hanno visto che nel gruppo che non aveva avuto l'infezione in precedenza, sono risultati positivi cinque volte di più in autunno. "Questo ci dà una differenza di tasso dello 0,195 e una protezione (immunità osservata) dell'80,5%", precisa in una e-mail. L'epidemiologo danese riconosce che il suo studio potrebbe contenere alcuni pregiudizi che distorcono le percentuali di reinfezioni che hanno osservato. Per esempio, coloro che sono risultati positivi già nella prima ondata potrebbero essere meno interessati a un secondo PCR, "credendosi immunizzati". Ma questo sarebbe compensato da coloro che, dopo essere risultati positivi, hanno potuto allentare le misure di protezione. Entrambe le possibilità sarebbero neutralizzate, riducendo il loro impatto sui risultati complessivi. Gli autori dello studio hanno condotto analisi specifiche per confermare la validità delle loro conclusioni. In uno di essi, hanno esaminato i test a cui si sono sottoposti più di 15.000 operatori sanitari e sociali. Essendo un gruppo così esposto, hanno assunto una maggiore frequenza di CRP. Infatti, la mediana tra loro è di 10 test. Nonostante questa maggiore esposizione, il tasso di reinfezione è stato dell'1,2%, poco meno del doppio di quello della popolazione generale. E la protezione stimata era dell'81,1%. Inoltre, in una rianalisi hanno messo nello stesso sacco tutti i danesi che hanno avuto due o più test (2,5 milioni di persone) senza differenziare tra prima e seconda ondata. Questo include anche quelli infettati durante i mesi estivi. La percentuale di persone re-infettate almeno tre mesi dopo la prima infezione è dello 0,48%. Per quanto riguarda la protezione stimata, è di nuovo vicina all'80%, anche se rimane sotto la metà tra gli anziani. La dottoressa Daniela Michlmayr, anche lei dell'ISS e coautrice dello studio, dice che non c'è nulla che indichi che "la protezione contro la reinfezione diminuisce entro sei mesi dall'avere avuto il Covid. Cita anche che i virus correlati, come quelli che hanno causato le epidemie di SARS e MERS nel primo decennio del secolo, hanno conferito l'immunità per due o tre anni. Ma, nota Michlmayr, "è necessario un monitoraggio continuo del Covid per capire i suoi effetti a lungo termine sulle possibilità che i pazienti si re-infettino". L'epidemiologo di ISGlobal Quique Bassat considera queste percentuali molto alte. "Siamo partiti dall'idea che era improbabile che coloro che erano stati infettati lo diventassero di nuovo". Ma crede che molti di questi casi possano essere in realtà dovuti alla "positività PCR persistente, non ci si infetta o si ha una bassa carica virale, ma si è ancora positivi". Infatti, in uno studio che hanno condotto la scorsa estate a Barcellona hanno visto una significativa "coda di positività", con pazienti che risultano positivi due o tre mesi dopo essere stati infettati. I professori dell'Imperial College di Londra Rosemary Boyton e Daniel Altmann scrivono un commento sullo studio nello stesso numero di The Lancet in cui concludono: "Tutti questi dati ribadiscono, se fosse necessaria una conferma, che la speranza di immunità protettiva alla SARS-CoV-2 dalle infezioni naturali potrebbe non essere sufficiente e che la soluzione duratura è un programma di vaccinazione universale con vaccini altamente efficaci".

Fasano, 43 contagiati in una Rsa: avevano ricevuto già tutti il vaccino. Ad aver contratto il virus sono 33 ospiti e 10 componenti dello staff, sono tutti asintomatici. La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Febbraio 2021. Sono 43 le persone positive al Coronavirus nella Residenza socio sanitaria 'Sancta Maria Regina Pacis' a Fasano (Brindisi) in cui sia gli ospiti sia gli operatori erano già stati sottoposti alla vaccinazione completa: il richiamo era stato effettuato lo scorso 4 febbraio. Ad aver contratto il virus sono 33 ospiti e 10 componenti dello staff. Secondo quanto comunicato dall’amministrazione comunale, i contagiati sono asintomatici e in buona salute. Il primo caso di positività è stato registrato l’8 febbraio, quando una anziana si è recata in ospedale per altre motivazioni e dal tampone obbligatorio è risultata positiva. Due giorni fa è invece morto un anziano per complicanze legate al Covid. «Aver completato il percorso di vaccinazione sta consentendo, fino a questo momento, un decorso della malattia sereno e senza complicazioni particolari», dice il sindaco Francesco Zaccaria. Un ulteriore screening di tamponi è previsto fra circa 10 giorni. Intanto la struttura è stata suddivisa in tre parti: un’area Covid, un’area sospetti Covid (dove si trovano gli ospiti che hanno avuto contatti stretti con i positivi), e un’area "Covid Free".

Coronavirus, a Roma tre medici positivi dopo il vaccino: "Anche loro portatori di Covid?" Libero Quotidiano il 10 febbraio 2021. Tre medici a Roma sono risultati positivi al coronavirus nonostante il vaccino. "Si tratta di tre sanitari vaccinati e contagiati, ma non necessariamente contagiosi - ha spiegato Massimo Andreoni, virologo del Policlinico Tor Vergata -. Erano asintomatici, li abbiamo trovati positivi casualmente, durante i controlli per il cluster in un reparto. Questo dimostrerebbe il fatto che anche i vaccinati potrebbero essere portatori del virus, ma occhio agli allarmismi: il vaccino sicuramente protegge dalla malattia, si sapeva, non per forza dall’infezione". Al momento, inoltre, si pensa che la positività al Covid dopo il vaccino non comporti alcun tipo di contagiosità. Tuttavia, non ci sarebbero ancora prove scientifiche sufficienti a dimostrarlo. Ecco perché è necessario continuare a tenere alta l'attenzione. A tal proposito il ministero della Salute ha stabilito - in videoconferenza con le Regioni - che anche chi ha ricevuto il vaccino dovrà stare in quarantena in caso di contatti stretti con un positivo. La certezza scientifica che con il vaccino non si sia contagiosi non c'è. Come spiega il Messaggero, infatti, anche chi riceverà la seconda dose del vaccino, dovrà poi restare isolato, in caso di contatto con un positivo. Ad oggi il protocollo prevede dieci giorni di quarantena con un tampone molecolare alla fine del periodo. Nel caso in cui il test dovesse risultare ancora positivo, l'isolamento si prolungherebbe fino alla completa negativizzazione. 

Lorenzo De Cicco per "Il Messaggero" il 10 febbraio 2021. Non si sfugge alla quarantena nemmeno con il vaccino anti-Covid in corpo. Almeno per ora. Chi ha già ricevuto il siero al completo, cioè dopo la prima e la seconda puntura, dovrà comunque rimanere confinato in caso di contatti con un positivo. Quindi dieci giorni di isolamento, poi un tampone molecolare di controllo. E, in caso di positività, ancora quarantena fino al test negativo. La linea è stata indicata dal Ministero della Salute alle Regioni in video-conferenza: «Al momento, al vaccinato si applicano gli stessi provvedimenti di un non vaccinato», è stato annunciato ai governatori. Che hanno appena iniziato a mettere in pratica il nuovo approccio. A fare da apripista, il Lazio, dove in un ospedale fuori Roma 3 medici immunizzati sono risultati positivi, a sorpresa, al tampone per il Covid-19. Scoperti per caso, dopo i controlli per un focolaio in corsia. Data la delicatezza della questione, si è attivata la Società italiana di malattie infettive. Spiega il direttore scientifico Massimo Andreoni, virologo del Policlinico Tor Vergata: «Si tratta di tre sanitari vaccinati e contagiati, ma non necessariamente contagiosi. Erano asintomatici, li abbiamo trovati positivi casualmente, durante i controlli per il cluster in un reparto. Questo dimostrerebbe il fatto che anche i vaccinati potrebbero essere portatori del virus, ma occhio agli allarmismi: il vaccino sicuramente protegge dalla malattia, si sapeva, non per forza dall'infezione». E appunto essere positivi da vaccinati non significa essere «infettivi», è un tema spinoso, che gli esperti stanno approfondendo in queste settimane. «Sono fiducioso - riprende Andreoni - che i vaccini sin qui autorizzati siano in grado di bloccare anche la diffusione del virus e che presto questo dato sarà accertato. Ma per il momento è fondamentale mantenersi cauti». Evitare imprudenze. Quindi quarantena anche per chi ha ricevuto la doppia iniezione intramuscolo di Pfizer o Moderna, se poi ha avuto contatti a rischio con un infetto. La linea della cautela è quella sposata dal Ministero della Salute. E la sta già applicando la Regione Lazio, dove dal vaccine-day del 27 dicembre hanno ricevuto almeno una dose del siero anti-virus in 250 mila (soprattutto medici e infermieri, più 27 mila ultra-ottantenni). In 112 mila hanno ottenuto il richiamo, in tutta Italia sono 1.178.838 persone. Qualcuno ha incrociato situazioni rischiose, dopo. «L'opportunità di mettere o meno in quarantena i vaccinati è un tema chiave dei prossimi mesi, quando la platea dei richiamati si allargherà», evidenzia Pier Luigi Bartoletti, il responsabile delle Uscar (unità speciali di assistenza) del Lazio. «A volte purtroppo chi ha appena avuto il vaccino commette qualche disattenzione». La famosa guardia che si abbassa. E infatti: mentre parla, Bartoletti riceve la chiamata di un collega dei Castelli romani. «La segretaria dell'ambulatorio, vaccinata - gli racconta - è stata a contatto con un positivo. Che fare?». «Quarantena, poi tampone fra dieci giorni», prescrive il capo dell'Uscar. «Per ora l'indirizzo è questo, aspettando che dagli studi scientifici emergano elementi certi». Che ancora non ci sono, come conferma Roberto Cauda, ordinario di Malattie infettive all'Università Cattolica del Sacro Cuore e direttore dell'Unità operativa di Malattie infettive al policlinico Gemelli. «In linea teorica - dice il professor Cauda - i vaccini proteggono sia dall'infezione che dalla malattia. Ma gli organismi internazionali, Fda ed Ema, hanno approvato i dossier presentati dalle industrie farmaceutiche concentrandosi sulla protezione dalla malattia. Quando diciamo che un preparato è efficace al 95%, parliamo della malattia, non della prevenzione dell'infezione». Ecco perché la quarantena anche da immunizzati è la scelta «più prudente da seguire in questa fase». Il punto, sottolinea il docente di Malattie infettive della Cattolica, «è che finora non abbiamo evidenze scientifiche importanti sull'argomento, anche se qualche studio c'è, per esempio in Israele, su migliaia di persone vaccinate con Pfizer: lì si è visto che non andavano incontro a infezioni. Ma sono ancora osservazioni spot». Poco per derogare alle regole basilari anti-pandemia. «Anch'io sono vaccinato - conclude Cauda - ma uso la mascherina, per la protezione individuale certo, ma anche per le varianti, un lato oscuro su cui speriamo si faccia luce presto». I tamponi positivi dei vaccinati, nel Lazio, saranno «sequenziati», a caccia dei ceppi mutati del virus.

Covid, infermiere positivo per la seconda volta dopo mesi: morto a 64 anni. Notizie.it l'08/02/2021. Un infermiere di Salerno, già risultato positivo al Covid marzo, ha contratto l'infezione per la seconda volta ed è morto. Dramma a Salerno, dove un infermiere è morto dopo aver contratto il coronavirus per la seconda volta: in pensione da poco, l’uomo era risultato positivo ma asintomatico durante la prima ondata. Ora la malattia non gli ha lasciato scampo. Matteo Bevilacqua, questo il nome della vittima, era un infermiere del 118 dell’ospedale Ruggi di Salerno e risiedeva nella frazione Aiello di Baronissi. A marzo aveva preso l’infezione risultando il primo positivo del suo comune e il secondo nella valle dell’Irno. All’epoca riuscì a sconfiggerla da asintomatico rimanendo in isolamento domiciliare per meno di un mese senza bisogno di un ricovero. Una volta negativo aveva ripreso le sue normali attività per poi andare in pensione. A gennaio invece il Covid lo ha colpito nella forma più aggressiva, costringendolo ad una ospedalizzazione in seguito al peggioramento del quadro clinico. Già dai primi giorni Bevilacqua aveva infatti avvertito problemi respiratori e per giorni la sua città è rimasta in apprensione sperando in una ripresa. Poi la triste notizia, data dal sindaco Gianfranco Valiante. Queste le sue parole, dopo aver sottolineato che si tratta della tredicesima vita spezzata dal Covid nella cittadina: “Il coronavirus non ci lascia scampo. È purtroppo deceduto all’ospedale Da Procida di Salerno un altro nostro concittadino, il signor Matteo Bevilacqua, residente alla frazione Aiello. Aveva superato nella scorsa primavera un primo contagio, ma la seconda infezione, contratta alcune settimane or sono, non gli ha risparmiato la vita. Le condoglianze più sentite alla compagna e alla famiglia tutta“.

Covid e vaccino, quante probabilità ci sono per chi è guarito di ricontagiarsi? Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Dataroom de Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2020. A oggi, in Italia, i guariti ufficiali dal Covid-19, cioè coloro a cui è stata diagnosticata la positività al virus e poi la sua scomparsa, superano il milione. Il 61% coinvolge la popolazione nell’età più produttiva (dai 20 ai 59 anni), il 26% dai 60 anni in su, il 13% dai 19 anni in giù. Il 51,5% femmine, il 48,5% maschi. Tutte queste persone possono essere considerate immuni?

Calano gli anticorpi, ma resta la memoria. Numerosi studi ormai concordano: quando si contrae il Covid, il 93% dei contagiati produce gli anticorpi neutralizzanti (del Fante et al., Transfusion 2020) . La loro funzione è quella di impedire al virus di penetrare nelle cellule. Ciò succede tra i 6 e i 20 giorni dal contagio (Quan-Xin long, Nature Communication 2020) e il meccanismo è questo: dopo l’infezione si attivano i linfociti B che producono gli anticorpi IgM, IgG e IgA. Un loro sottoinsieme (IgG e IgA) è quello che poi riesce a rendere innocue le nuove particelle virali. Gli anticorpi neutralizzanti, a loro volta, si accompagnano all’attivazione delle cellule killer (linfociti T), specializzate nel riconoscere e nel distruggere il virus (Cassaniti et al., in preparation-confidential). Tutta questa spiegazione è utile a capire perché, quando il Covid attacca, la risposta immunitaria è doppia (linfociti B e T). Una volta superata l’infezione, nelle settimane o nei mesi successivi, gli anticorpi calano: non c’è più il virus, non c’è più bisogno di loro. Nell’organismo però restano le cellule memoria, pronte a intervenire in caso di necessità. L’ipotesi che il calo di queste «difese» esponga quindi a un nuovo ricontagio viene smentita.

Le mutazioni osservate. Il parallelo che spesso viene fatto con l’influenza può essere fuorviante: in questo caso il fatto che ci riammaliamo non è dovuto al calo degli anticorpi, ma alla mutazione molto frequente del virus, e che il sistema immunitario non riconosce più le varianti mutate. Il Covid-19, anche se è un virus simile a quello dell’influenza, sembra avere un genoma più stabile e la risposta che genera il sistema immunitario è verso più frammenti delle proteine virali e non uno solo. Infatti le mutazioni osservate finora (e, forse, anche la nuova variante inglese, almeno fino a prova contraria) non sono associate a un cambio di severità della malattia. (…) le mutazioni finora osservate finora (…) non sono associate a un cambio di severità della malattia. Tutti gli studi finora dimostrano che si produce una risposta immunitaria che dura nel tempo. A quantificare con più precisione questo «tempo» c’è il recentissimo studio svolto in collaborazione tra il Policlinico San Matteo di Pavia e il Karolinska Institute di Stoccolma: le cellule memoria persistono per almeno 6-8 mesi dall’infezione (Sherina N . et al.). Considerando che la malattia è esplosa poco meno di un anno fa, questo è il tempo massimo di osservazione possibile ad oggi, ma potrebbe essere ben più lungo.

Tutti gli studi finora dimostrano che si produce una risposta immunitaria che dura nel tempo. Probabilità di ricontagio: 1,8%. Vuol dire che chi è guarito dall’infezione non si reinfetta più? No, perché in medicina il 100% non esiste, inoltre in questo caso siamo di fronte a una malattia troppo recente. Ma sappiamo almeno quante sono le probabilità di contagiarsi di nuovo? La risposta arriva dagli esiti preliminari dello studio appena ultimato dal dipartimento di Virologia del Policlinico San Matteo, insieme agli ospedali di Piacenza e Lecco, e che al momento è quello numericamente più corposo. Hanno osservato tutto il loro personale sanitario, verificato quanti operatori si sono ammalati durante la prima ondata e quanti si sono reinfettati nel corso della seconda. Su 9.610 operatori sottoposti al test sierologico a maggio sono risultati positivi in 1.460 (15,2%). Di questo gruppo, da giugno a oggi, si sono ricontagiati in 27 (1,8%), di cui 18 in modo asintomatico. Degli 8.150 risultati invece negativi al test si sono contagiati in 540 (6,6%).

La protezione naturale è più elevata. Le informazioni che ci arrivano da questo studio sono principalmente tre. La prima è che, vista la differenza altamente significativa dal punto di vista statistico nei contagi tra i due gruppi, il rischio di infezione per chi non è entrato in contatto con il Covid è circa del 350% superiore rispetto a chi l’ha già contratto. La seconda dimostra che la falla è scattata durante le vacanze estive, poiché all’interno dello stesso contesto protetto (e dove tutti erano stati sottoposti a controlli), l’infezione si è riscontrata al rientro dalle ferie o in contesti familiari, creando di conseguenza qualche focolaio nell’ospedale. La terza è la più importante: la protezione naturale di un guarito è più elevata di quella garantita dai vaccini che stanno uscendo. La loro efficacia massima dichiarata è intorno al 95%. Tradotto: se mi sono già ammalato ho l’1,8% di probabilità di ricontagiarmi, con il vaccino il 5%. Va detto che nessuna vaccinazione di massa dà una copertura totale, per esempio quella contro il morbillo arriva al 98%, quelle influenzali vanno dal 70 all’80%, proprio a causa delle mutazioni più frequenti.

Vaccinare i guariti per ultimi. Questi studi supportano, dunque, l’ipotesi di vaccinare per ultimi i guariti, che aumentano di giorno in giorno. Nel frattempo chi si è ammalato e poi è guarito può muoversi in una zona rossa senza rischiare una multa, esibendone la certificazione? La domanda non è banale. Al momento non c’è una definizione univoca di «guarito». Il bollettino di oggi, che li calcola in circa 1,3 milioni di persone, include sia chi si è negativizzato, sia chi è stato dimesso dall’ospedale (dunque è clinicamente guarito, ma potrebbe essere per un breve periodo ancora positivo e contagioso). Invece la circolare del ministero della Salute del 12 ottobre aggiorna le indicazioni su durata e termine dell’isolamento che riguarda i casi di infezione documentata. In questo caso «guarito» vuol dire potenzialmente non più contagioso. Per gli asintomatici dopo 10 giorni dalla comparsa della positività; i sintomatici dopo 10 giorni, di cui almeno 3 giorni senza sintomi; per entrambi serve il test negativo. I casi positivi a lungo termine possono invece uscire dopo una settimana senza sintomi (eccezion fatta per gusto e olfatto), ad almeno 21 giorni dalla loro comparsa. In nessuno dei casi la guarigione è equiparata all’immunità.

Al momento non c’è una definizione univoca di guarito. Più libertà per guariti e vaccinati? Gli studi del Policlinico San Matteo possono essere un passo importante – se confermati anche su un campione di popolazione generale – per considerare la possibilità per i «guariti», e tutti quelli che via via si vaccinano, di andare per esempio all’estero per lavoro senza essere sottoposti poi a quarantena, o di spostarsi da una regione all’altra anche per motivi personali, senza rischiare una multa? Consentirebbe al sistema di iniziare a ripartire, senza attendere la cosiddetta immunità di gregge. La via più semplice potrebbe essere quella di esibire la certificazione del test di positività e negatività o dell’avvenuta vaccinazione. Fermo restando, anche per loro, l’obbligo inderogabile di osservare in pubblico le regole di protezione e distanziamento. Per evitare il caos e perché siamo sempre in terra incognita. Per fare questo ci vuole ovviamente una norma e avrebbe senso cominciare a pensarci subito.

Nei prossimi mesi (se non settimane) sappiamo già che ci saranno altre strette. Nei prossimi mesi (se non settimane) sappiamo già che ci saranno altre strette: se si considerassero margini per questa fetta di popolazione, il peso sarebbe almeno in parte attenuato. Sarebbe inoltre uno stimolo per le Regioni a darsi da fare nell’organizzazione efficiente delle vaccinazioni, e un incentivo a prenotarsi per gli scettici. Un tema che ancora nessun Paese sta affrontando; non solo, alcuni nemmeno contano il numero dei «guariti». La Francia su 2,3 milioni di contagiati da febbraio a oggi ne dichiara guariti 180 mila, perché conta solo i dimessi dagli ospedali. La Spagna ha smesso di contarli dal 18 maggio. I numeri della Gran Bretagna non sono disponibili. La Germania li calcola in base a un algoritmo del Koch Institut, che stima «il numero dei casi risolti considerando le informazioni sull’insorgenza della malattia e sulle dimissioni degli ospedali. Il 19 dicembre erano 1,1 milioni.

Covid, il rischio di infettarsi per la seconda volta è molto basso. Notizie.it il 17 gennaio 2021. Lo sostiene uno studio inglese. La possibilità di contrarre il virus due volte è bassa. Un’efficacia che non sarebbe diversa a quella del vaccino. Quali sono le possibilità di contrarre il Coronavirus due volte? Secondo uno studio britannico denominato Siren le possibilità sarebbero alquanto basse. Nel corso dell’indagine è stato rilevato infatti come su un totale di circa 20mila operatori sanitari il rischio di contrarre il virus per una seconda volta sarebbe inferiore dell’83% almeno per i 5 mesi successivi al primo contagio. “Ora sappiamo che la maggior parte di coloro che hanno avuto il virus e hanno sviluppato anticorpi sono protetti dalla reinfezione, ma questa protezione non è totale e non sappiamo ancora quanto duri”, ha dichiarato la docente dell’imperial college di Londra Susan Hopkins e citata dal secolo XIX. Il rischio di rimanere contagiati una seconda volta al virus è molto bassa. Lo sostiene il Siren uno studio britannico che ha eseguito un’indagine su circa 20 mila lavoratori nel settore sanitario. Ciò che è stato rilevato da questo studio è alquanto significativo. I soggetti che si sono prestati allo studio si sono sottoposti periodicamente al test sierologico al fine di rilevare se ci siano o meno gli anticorpi contro Covid-19. Un altro punto centrale dell’indagine è quello di capire se oltre alla possibilità di rimanere contagiati una seconda volta, è possibile anche trasmetterlo. Su questo punto la docente dell’Imperial College Susan Hopkins è chiara: “Crediamo che le persone possano ancora essere in grado di trasmettere il virus. Ciò significa che anche chi crede di avere già avuto la malattia e di essere protetto, può essere rassicurato sul fatto che è altamente improbabile che svilupperà gravi infezioni ma c’è ancora il rischio che possa contrarre l’infezione e trasmetterla ad altri”.

Almeno sei mesi di immunità per i guariti da Covid. L'organismo conserva la memoria del virus e gli anticorpi prodotti sono più "potenti". Francesca Angeli, Martedì 19/01/2021 su Il Giornale. Immuni per sei mesi, forse anche un anno. La ricerca su Sars Cov2 progredisce e cerca risposte su quello che è un punto cruciale per potersi davvero ritenere liberi rispetto al rischio di nuove ondate dell'epidemia di Covid19: se e per quanto si acquisti una immunità sterilizzante dopo aver contratto la malattia. Buone notizie arrivano da una ricerca appena pubblicata dalla rivista Nature: uno studio coordinato dal gruppo della Rockefeller University di New York guidato da Michel Nussenzweig. Sono stati presi in esame 87 individui che erano stati contagiati dal Covid e successivamente guariti. É quindi emerso che i livelli dei linfociti B della memoria immunitaria sono rimasti costanti per tutto il periodo considerato nella ricerca. Questo significa in sostanza che l'organismo di chi è stato infettato da Sars Cov2 è in grado di dare una risposta rapida ed efficace in caso di reinfezione. Dunque anche se il livello degli anticorpi si riduce la memoria del coronavirus resta e dunque anche una forma di difesa. Nel mirino dei ricercatori le cellule B della memoria immunitaria che ricordano il virus e che dunque sono in grado di «avvertire» il sistema immunitario affinché produca gli stessi anticorpi in caso di reinfezione. Una prima verifica è avvenuta negli animali e ora ci sono dati sovrapponibili anche per l'uomo come è emerso dall' esperimento della Rockefeller University, condotto su 87 persone che avevano avuto una diagnosi confermata di Covid-19 dopo 1,3 mesi e dopo 6,2 mesi dall'infezione di SarsCoV2. Dunque anche se gli anticorpi neutralizzanti si riducono nel tempo, il numero di cellule B della memoria resta invariato. Queste cellule producono inoltre anticorpi più potenti di quelli originari e più resistenti alle mutazioni della proteina Spike, che il virus utilizza per aggredire le cellule umane. Di recente anche uno studio condotto dall'Istituto di Immunologia di La Jolla in California, ha verificato la presenza di una memoria difensiva nell'organismo delle persone che si sono ammalate di Sars-Cov2. Fino a otto mesi dopo aver contratto l'infezione, la gran parte delle persone guarite conserva sufficienti cellule immunitarie per scongiurare un eventuale secondo contagio. Mentre gli anticorpi e i linfociti T tendono a diminuire lievemente nel tempo, i linfociti B invece crescono di numero.

“Immunità per almeno sei mesi nei pazienti guariti dal Covid-19”, lo studio su Nature. Redazione su Il Riformista il 18 Gennaio 2021. Tra i guariti da Covid-19 l’immunità al Sars-CoV-2 può durare almeno sei mesi. A metterlo nero su bianco una ricerca pubblicata sull’edizione online della prestigiosa rivista scientifica Nature a cura del gruppo di scienziati di Michel Nussenzweig della Rockefeller University di New York. Come evidenziato da un’analisi condotta dai ricercatori su 87 persone precedentemente contagiate dal coronavirus, i livelli di cellule B della memoria specifiche, ovvero quelle che ‘restano’ nell’organismo dopo una malattia e che in caso di nuova esposizione all’agente patogeno possono produrre anticorpi, sono rimasti costanti durante tutto il periodo di studio. Osservando gli oltre 80 pazienti con diagnosi confermata di Covid-19 a distanza di 1,3 e 6,2 mesi dall’infezione, i ricercatori della Rockefeller University hanno potuto notare come “sebbene l’attività degli anticorpi neutralizzanti diminuisca nel tempo, il numero di cellule B della memoria rimane invariato”. Non solo. Altra notizia positiva emersa dallo studio è che “gli anticorpi prodotti da queste cellule memoria sono più potenti rispetto agli anticorpi originali, e possono essere più resistenti alle mutazioni nella proteina Spike” che media l’ingresso del virus nelle cellule bersaglio. La presenza delle cellule B “suggerisce che le persone potrebbero essere in grado di produrre rapidamente potenti anticorpi neutralizzanti dopo una reinfezione da Sars-CoV-2”.

·        Gli Immuni.

Anticorpi stabili sette mesi dopo il virus. Ma il passaporto verde dura nove mesi. Antonio Caperna l'8 Agosto 2021 su Il Giornale. La scoperta potrebbe avere ripercussioni sulla scadenza del green pass e avere ricadute anche sul dibattito in corso sulla terza dose di vaccino. Barcellona. Arriva dalla Spagna una nuova scoperta sulla protezione anti Covid dell'organismo, che potrebbe avere ripercussioni anche sulla scadenza del green pass e nel dibattito sulla terza dose. Il Barcelona Institute for Global Health (ISGlobal), un'istituzione sostenuta dalla Fondazione «la Caixa», in collaborazione con la Clinica Ospedaliera di Barcellona ha scoperto, infatti, che i livelli di anticorpi IgG contro la proteina spike rimangono stabili, o addirittura aumentano, sette mesi dopo l'infezione, secondo uno studio di follow-up in una coorte di operatori sanitari. I risultati, pubblicati su Nature Communications, supportano anche l'idea che gli anticorpi preesistenti contro i comuni coronavirus del raffreddore potrebbero proteggere dal Covid. Il team guidato dalla dottoressa Carlota Dobaño, ricercatrice ISGlobal, ha analizzato campioni di sangue di 578 partecipanti, prelevati in quattro diversi momenti tra marzo e ottobre 2020 presso la Clinica Ospedaliera (studio SEROCOV). È stata utilizzata la tecnologia Luminex per misurare, nello stesso campione, il livello e il tipo di anticorpi IgA, IgM e IgG contro 6 diversi antigeni SARS-CoV-2 e la presenza di anticorpi contro i quattro coronavirus, che causano il raffreddore comune nell'uomo. Lo studio, che ha ricevuto finanziamenti dalla rete europea per l'innovazione EIT Health, ha anche analizzato l'attività neutralizzante degli anticorpi in collaborazione con i ricercatori dell'Università di Barcellona. Ad eccezione degli anticorpi IgM e IgG contro il nucleocapside (N), il resto degli anticorpi IgG (compresi quelli con attività neutralizzante) è rimasto stabile nel tempo, confermando i risultati di altri studi recenti. «Piuttosto sorprendentemente abbiamo persino visto un aumento degli anticorpi IgG anti spike nel 75% dei partecipanti dal quinto mese in poi, senza alcuna prova di riesposizione al virus», afferma Gemma Moncunill, co-autrice senior dello studio. Nessuna reinfezione è stata osservata nella coorte. Secondo i ricercatori questi dati possono esser estrapolati anche alle persone vaccinate, benché gli anticorpi dopo la malattia dipendano da vari fattori: «I vaccini ottimizzano notevolmente la risposta immunitaria - evidenzia l'esperta - Da quanto sappiamo finora, gli anticorpi generati dopo la vaccinazione sono molto più resistenti e duraturi di quelli post infezione. Per questo motivo si raccomanda che le persone, che hanno già superato la malattia, ricevano almeno una dose del vaccino, per avere una risposta immunitaria più robusta». Lo studio ha ricadute anche sulla scelta della terza dose, che vede per ora la Spagna in una fase interlocutoria. «In questo momento non abbiamo alcuna prova che sia necessaria almeno per tutta la popolazione - sottolinea MoncunillC- L'unica eccezione potrebbe essere quella più suscettibile, come le persone immunodepresse o gli anziani. In questi casi, le due dosi somministrate finora potrebbero aver generato una risposta più scarsa di quanto si pensasse». Per quanto riguarda gli anticorpi contro i coronavirus umani del raffreddore (HCoV), i risultati dello studio suggeriscono che potrebbero conferire una protezione crociata contro l'infezione o la malattia da Covid. Le persone che sono state infettate da SARS-CoV-2 avevano livelli più bassi di anticorpi HCoV. Inoltre, gli individui asintomatici avevano livelli più elevati di IgG e IgA anti-HCoV rispetto a quelli con infezioni sintomatiche. «Sebbene la protezione crociata da parte dell'immunità preesistente ai comuni coronavirus del raffreddore debba ancora essere confermata sostiene la dottoressa Dobaño - ciò potrebbe aiutare a spiegare le grandi differenze nella suscettibilità alla malattia all'interno della popolazione». Antonio Caperna

Da blitquotidiano.it il 31 maggio 2021. Chi ha avuto il Covid, anche forma lieve, è immune per sempre? Al momento una risposta certa non c’è ancora e si stanno valutando diversi casi. Però le persone che hanno contratto il Covid in maniera lieve hanno ancora una forte risposta anticorporale dopo un anno dalla malattia. I ricercatori della Washington University di St Louis hanno infatti condotto un nuovo studio, che smentisce la teoria di inizio pandemia secondo cui gli anticorpi scomparivano rapidamente una volta superato il virus. “Lo scorso autunno ci sono state segnalazioni secondo cui gli anticorpi diminuivano rapidamente dopo l’infezione e i media hanno interpretato ciò nel senso che l’immunità non era di lunga durata”, ha detto l’autore dello studio Ali Ellebedy, professore associato di patologia e immunologia. “Ma questa è un’interpretazione errata dei dati - spiega -. È normale che i livelli di anticorpi scendano dopo un’infezione acuta, ma non scendono a zero, si stabilizzano”.

Gli anticorpi contro il Covid dopo 11 mesi. Secondo quanto riportato dai ricercatori sono state trovate cellule che producono anticorpi 11 mesi dopo i primi sintomi da Covid. “Queste cellule vivranno e produrranno anticorpi per il resto della vita delle persone. Questa è una prova forte per un’immunità di lunga durata”, spiega ancora Ellebedy. Dopo l’infezione le cellule immunitarie di breve durata vengono generate rapidamente per produrre un’ondata precoce di anticorpi protettivi. Quando le cellule immunitarie muoiono, i livelli di anticorpi diminuiscono. Ma il nostro corpo tiene in vita un insieme di queste cellule anche dopo l’infezione. La maggior parte migra nel midollo osseo, ed è lì che gli scienziati le hanno trovate nei pazienti esaminati.

Lo studio sul Covid e l’immunità. Per lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, i medici hanno esaminato 77 partecipanti che avevano casi lievi di Covid, solo sei dei quali ricoverati in ospedale. I volontari hanno fornito campioni di sangue ogni tre mesi, escluso il primo prelievo effettuato un mese dopo il primo test positivo. Il team afferma che mentre sembra che le persone con casi medi di Covid-19 possano avere una protezione per tutta la vita, è possibile che quelle con casi gravi abbiano una protezione inferiore.

Dagotraduzione dal DailyMail il 30 maggio 2021. Le persone che hanno contratto il Covid in maniera lieve hanno ancora una forte risposta anticorporale dopo un anno dalla malattia. I ricercatori della Washington University School of Medicine di St Louis hanno condotto un nuovo studio, che smentisce la teoria di inizio pandemia secondo cui gli anticorpi scomparivano rapidamente una volta superato il virus. «Lo scorso autunno, ci sono state segnalazioni secondo cui gli anticorpi diminuivano rapidamente dopo l'infezione ... e i media hanno interpretato ciò nel senso che l'immunità non era di lunga durata», ha detto l'autore dello studio Ali Ellebedy, professore associato di patologia e immunologia, medicina e microbiologia molecolare alla Washington University. «Ma questa è un'interpretazione errata dei dati. È normale che i livelli di anticorpi scendano dopo un'infezione acuta, ma non scendono a zero; si stabilizzano». «Qui, abbiamo trovato cellule che producono anticorpi 11 mesi dopo i primi sintomi. Queste cellule vivranno e produrranno anticorpi per il resto della vita delle persone. Questa è una prova forte per un'immunità di lunga durata». Dopo l'infezione, le cellule immunitarie di breve durata vengono generate rapidamente per produrre un'ondata precoce di anticorpi protettivi.  Quando le cellule immunitarie muoiono, i livelli di anticorpi diminuiscono. Ma il nostro corpo tiene in vita un insieme di queste cellule, chiamate plasmacellule a lunga vita, anche dopo l’infezione. La maggior parte migra nel midollo osseo, ed è lì che gli scienziati le hanno trovate nei pazienti esaminati. Per lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, sono stati esaminati 77 partecipanti che avevano casi lievi di COVID-19, solo sei dei quali sono stati ricoverati in ospedale. I volontari hanno fornito campioni di sangue ogni tre mesi, escluso il primo prelievo effettuato un mese dopo il primo test positivo. Il team afferma che mentre sembra che le persone con casi medi di Covid-19 possano avere una protezione per tutta la vita, è possibile che quelle con casi gravi abbiano una protezione inferiore. «Potrebbe andare bene in entrambi i casi», ha detto in una dichiarazione il primo autore, il dottor Jackson Turner, un istruttore di patologia e immunologia presso la Washington University. «L'infiammazione gioca un ruolo importante nel COVID-19 grave e un'infiammazione eccessiva può portare a risposte immunitarie difettose. Ma d'altra parte, il motivo per cui le persone si ammalano spesso è perché hanno molti virus nel loro corpo e avere molti virus in giro può portare a una buona risposta immunitaria. Quindi non è chiaro».

"Immuni per tutta la vita". Ecco lo studio che cambia tutto. Alessandro Ferro il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. Una ricerca americana dimostra come un certo numero di anticorpi possa rimanere per sempre dopo aver contratto il Covid-19: la "chiave" sta nel midollo osseo. Ecco cosa dicono i ricercatori. È la domanda del momento: quanto dura l’immunità dopo aver avuto il Covid o dopo essersi vaccinati? Sei mesi, otto mesi, un anno o più di un anno? Un gruppo di ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis ha appena annunciato su Nature la notizia che tutti speravamo: le difese immunitarie indotte dall’infezione (e con molta probabilità anche dai vaccini) durano molto a lungo, forse anche per tutta la vita.

Cosa dice lo studio. La cosa importante, da sottolineare, è che vale anche per le persone che hanno contratto il Covid in forma lieve o asintomatica, quindi la stragrande maggioranza della gente. Questo nuovo studio smentisce, quindi, la teoria di inizio pandemia secondo la quale gli anticorpi scomparivano rapidamente una volta superato il virus. "Lo scorso autunno ci sono state segnalazioni secondo cui gli anticorpi diminuivano rapidamente dopo l'infezione ... e i media hanno interpretato ciò nel senso che l'immunità non fosse di lunga durata", ha detto l'autore dello studio, Ali Ellebedy, Professore associato di patologia e immunologia, medicina e microbiologia molecolare alla Washington University. Come detto, la ricerca appena pubblicata su Nature (qui il link) fa ben sperare: lo studio ha esaminato 77 partecipanti che avevano casi lievi di Covid-19, sei dei quali sono stati ricoverati in ospedale. I volontari hanno fornito campioni di sangue ogni tre mesi, escluso il primo prelievo effettuato un mese dopo il primo test positivo.

Gli anticorpi non scendono a zero, "si stabilizzano". Secondo il quotidiano inglese Daily Mail che ha raccolto maggiori informazioni, i ricercatori hanno anche affermato che se le persone con casi medi di Covid-19 possano avere una protezione per tutta la vita, è possibile che quelle con casi gravi abbiano una protezione inferiore. "Potrebbe andare bene in entrambi i casi", ha dichiarato il primo autore dello studio, il Dott. Jackson Turner, istruttore di patologia e immunologia presso la Washington University, specificando come sia normale che i livelli di anticorpi scendano dopo un'infezione acuta "ma non scendono a zero, si stabilizzano. Qui, abbiamo trovato cellule che producono anticorpi 11 mesi dopo i primi sintomi. Queste cellule vivranno e produrranno anticorpi per il resto della vita delle persone. Questa è una prova forte per un'immunità di lunga durata". Dopo l'infezione, le cellule immunitarie di breve durata vengono generate rapidamente per produrre un'ondata precoce di anticorpi protettivi e quando le cellule immunitarie muoiono, i livelli di anticorpi diminuiscono. Il nostro corpo, però, tiene in vita un insieme di queste cellule, chiamate plasmacellule a lunga vita, anche dopo l’infezione. La maggior parte migra nel midollo osseo, ed è lì che gli scienziati le hanno trovate nei pazienti esaminati.

Il ruolo fondamentale del midollo osseo. In sostanza, la risposta immunitaria al Covid-19 potrebbe somigliare a quella di altre infezioni che procurano un’immunità prolungata. Non era affatto strano pensare che l'infezione da Sars-CoV-2, come quasi tutte le altre infezioni virali, innescasse lo sviluppo delle plasmacellule del midollo osseo. Alcuni studi precedenti avevano però suggerito che le infezioni di Covid con sintomi gravi interrompevano la produzione di queste cellule mentre j altre ricerche avevano lanciato il sospetto che il livello di anticorpi scendesse velocemente fino a scomparire del tutto dopo la guarigione. "L'infiammazione gioca un ruolo importante nel Covid-19 grave e un'infiammazione eccessiva può portare a risposte immunitarie difettose. Ma d'altra parte, il motivo per cui le persone si ammalano spesso è perché hanno molti virus nel loro corpo e avere molti virus in giro può portare a una buona risposta immunitaria. Quindi non è chiaro". Guai a cantare vittoria, però: se è vero che quest'ultimo studio fornisce ottime speranze per la scomparsa, nel lungo periodo, del Covid, va precisato che la ricerca americana è stata pubblicata in una versione non ancora sottoposta a revisione ed è stata condotta su un numero ristretto di individui, soltanto 77 persone. Il risultato, quindi, dovrà essere confermato da ulteriori studi su un campione più ampio anche se il sospetto di una protezione duratura è fondato su una nuova e piacevole scoperta.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Un’idea per liberarci dai fanatici del lockdown. Andrea Amata il 3 Aprile 2021 su nicolaporro.it. Il professor Luca Richeldi, direttore di Pneumologia all’Ospedale Gemelli di Roma e componente del Comitato tecnico scientifico, ha recentemente dichiarato che coloro che si vaccinano al 90% non sono infettivi. Il restante 10% di probabilità nel trasmettere il virus ammanta la medicina di un grado di incertezza che attesta l’inaccessibilità al rischio zero, imponendo una strategia di convivenza con l’insidia del contagio. D’altronde il governo di Mario Draghi si genera dall’esigenza di riconoscere la pari dignità della crisi economica rispetto a quella sanitaria, con quest’ultima che sta egemonizzando la gestione dell’emergenza pandemica. Se l’ex banchiere centrale vuole adempiere al suo mandato originario dovrebbe accelerare il processo che affranchi i cittadini dalle catene opprimenti delle chiusure indiscriminate, che ci vincolano nella mobilità e ci inibiscono le interazioni fisiche. Per giugno dobbiamo raggiungere non l’immunità “di” gregge, ma l’immunità “dal” gregge per liberarci dalla irragionevole passività e sottomissione ai fanatici del lockdown che si identificano nel ministro Roberto Speranza. Pertanto, si proceda a somministrare la salvifica dose a tutte le categorie a rischio, come gli over 70 e le persone affette da patologie, dimodoché i vaccinati non saranno infettivi nei confronti dei non vaccinati. Quest’ultima porzione di cittadini, al netto della componente più fragile messa al sicuro dalla profilassi vaccinale, è statisticamente irrilevante alla letalità del Covid. Dunque, si agisca per salvare la stagione estiva, rinunciando al paternalismo blaterante degli inetti e applicando misure compatibili con il ritorno alla normalità. Andrea Amata, 3 aprile 2021

I 5 motivi per cui l'immunità di gregge è (forse) impossibile. Scienziati ed esperti di tutto il mondo sono molto dubbiosi sul raggiungimento dell'immunità di gregge, che dipende da molti fattori. "Ci vorrà molto tempo", "Il virus rimarrà per anni": ecco il parere di tre esperti che abbiamo intervistato. Alessandro Ferro - Sab, 03/04/2021 - su Il Giornale. La corsa mondiale alla vaccinazione anti-Covid si fa ogni giorno più intensa, forte e veloce, mai visto una sforzo collettivo così ampio per immunizzare la popolazione, abbattere il rischio di infezione e uscire dall'incubo. Nonostante questo, se è vero che tre indizi fanno una prova, ce ne sono almeno cinque per cui sarà molto difficile, se non impossibile, raggiungere la tanto sospirata immunità di gregge.

Quali sono le motivazioni?

Anche con gli sforzi di vaccinazione in pieno vigore, la soglia teorica per sconfiggere Covid-19 sembra essere fuori portata: molti scienziati hanno puntato l'asticella di immunizazzione di gregge intorno al 60-70% tramite vaccinazioni o passata esposizione al virus. Ma, con la pandemia che ormai è entrata nel suo secondo anno di vita, il pensiero è iniziato a cambiare. Epidemiologi ed esperti hanno raggruppato i loro dubbi in 5 macro-aree: 1) non è chiaro se i vaccini prevengano la trasmissione; 2) la somministrazione del vaccino non è uniforme in tutto il mondo; 3) nuove varianti cambiano l'equazione dell'immunità di gregge; 4) l'immunità potrebbe non durare per sempre; 5) i vaccini potrebbero cambiare il comportamento umano. L'approfondimento di queste cinque tematiche, pubblicata su Nature con il parere di numerosi esperti mondiali, non fa ben sperare.

5 punti determinanti.

Innanzitutto, il punto numero uno è chiaro: non è ancora stato dimostrato se, il vaccinato, possa trasmettere o meno il virus. "L'immunità di gregge è raggiungibile soltanto se abbiamo un vaccino che blocca la trasmissione. Se non lo facciamo, l'unico modo per ottenere l'immunità della popolazione è dare il ​​vaccino a tutti", afferma una biologa da Washington. Siamo 7 miliardi, mancano le dosi per l'Italia e decine di Paesi oltre a decine di altri problemi logistici: come si potrà mai raggiungere questo obiettivo? Il secondo punto riguarda, proprio, l'uniformità della vaccinazione: Israele e l'Inghilterra sono ad ottimo punto ma i Paesi africani? E il Sud-America? Non solo: tutta la popolazione pediatrica non ha ancora un vaccino. Come si può pensare, quindi, di debellare il virus con tutta questa diversità? Il terzo problema riguarda le varianti, alcune delle quali più trasmissibili rispetto al ceppo originario e più resistenti ai vaccini. Quello che sta accadendo in Brasile è didattico: una ricerca pubblicata su Science ha dimostrato che il rallentamento del Covid nella città di Manaus tra maggio e ottobre 2020 potrebbe essere stato attribuito agli effetti dell'immunità del gregge. Secondo alcune stime, la prima ondata doveva essere sufficiente per portare la popolazione alla soglia dell'immunità di gregge ma, a gennaio, Manaus ha visto un'enorme rinascita di casi dopo l'emergere di una nuova variante nota come P.1, la variante brasiliana. "A gennaio, il 100% dei casi a Manaus sono stati causati da P.1", dicono gli esperti locali. Il quarto punto è uno dei più importanti: quanto dura l'immunità, sia dopo l'infezione naturale che con la vaccinazione? Nel primo caso, è scientificamente dimostrato che la variante brasiliana faccia reinfettare; nel secondo, gli scienziati sono divisi tra 6 e 10 mesi anche se è stato detto, più volte, che la risposta anticorpale è individuale. Con queste incertezze, è logico pensare che una sola vaccinazione comunque non basti, motivo per cui, se il virus resiste da qualche parte nel mondo, così come è partito da Wuhan la prima volta non è escluso che possa ripartire da un altro luogo. Ultimo punto, il quinto, il cambiamento del comportamento umano dopo la vaccinazione. "Man mano che più persone vengono vaccinate, aumentano le loro interazioni e questo cambia l'equazione di immunità di gregge che dipende, in parte, dal numero di persone esposte al virus. Il vaccino non è a prova di proiettile: immaginiamo che un vaccino offra una protezione del 90%: se prima del vaccino hai incontrato al massimo una persona ed ora, con i vaccini, incontri dieci persone, sei tornato al punto di partenza", afferma l'epidemiologa Lauren Ancel Meyers, direttore esecutivo dell'Università del Texas.

"Ci vorrà tempo..." "L'immunità di gregge non è possibile raggiungerla in modo sereno ma con estrema difficoltà e dopo molto tempo", afferma in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Mario Umberto Mondelli, Professore Ordinario di Malattie Infettive all'Università di Pavia e Direttore dell'Unità Complessa di Malattie Infettive e Immunologia del Policlinico San Matteo, al quale abbiamo chiesto un suo punto di vista su questa benedetta immunità di gregge. "Non so se potrà essere come per la rosolia che, raggiunto l'85-90% della popolazione coperta, è quasi scomparsa. Qui abbiamo a che fare con un virus che trova sempre il modo per sopravvivere al meglio. Dobbiamo imparare a convivere con questo virus, magari sarà come quello dell'influenza in cui ogni anno ci saranno vaccini aggiornati per le nuove varianti e ci si dovrà rivaccinare ogni anno. Tutti hanno dimostrato che, in media, la protezione non dura più di nove mesi", ci dice il Prof. E poi, questo aspetto va visto a livello globale, non nazionale perché non si tratta di epidemia ma di pandemia: Africa e Paesi in via di sviluppo saranno gli ultimi ad essere vaccinati, perché "c'è anche un aspetto logistico di catena del freddo, di come mantenere i vaccini e come distribuirli sul territorio. Sarà una bella sfida anche in termini di costi: le case farmaceutiche dovranno renderli gratuiti o farli costare pochi centesimi, altrimenti continenti come l'Africa non potranno mai essere controllati da questo punto di vista - afferma Mondelli - Ci saranno sacche di Paesi molto poveri in cui sarà pericoloso viaggiare e verrà consigliato di fare un richiamo della vaccinazione prima di recarsi lì: ad esempio, quando sono andato in Pakistan, unica nazione al mondo in cui c'è ancora la poliomelite endemica, dopo 50 anni dalla vaccinazione ho dovuto fare un richiamo per sviluppare gli anticorpi. L'importante è che la maggior parte del mondo sia protetta e sotto controllo".

"Il virus rimarrà per anni". Quindi, se ad esempio il virus continuerà a vivere in Estremo Oriente, Africa o Sud America, quella italiana si potrà considerare o no immunità di gregge? "A livello globale no, in Italia si potrà dire di averla raggiunta quando non avremo più casi o ne avremo pochissimi ma questo non vuol dire che il virus sarà stato eliminato dalla faccia della Terra, rimarrà e lo farà per parecchi decenni prima di averne ragione, sarà molto difficile riuscire a coprire la popolazione mondiale", afferma l'infettivologo. La soluzione è quella di un Public healt globale, cioè Salute pubblica globale, non possiamo dimenticarci che dai nostri vicini potrebbe ancora esserci il virus. "Attraversando il Mediterraneo abbiamo situazioni come la Libia, fuori controllo dal punto di vista politico figuriamoci da quello sanitario. Sacche endemiche saranno a pochi passi da noi: pensi alla poliomelite, il primo vaccino è stato introdotto alla fine degli anni '50 e, ancora oggi, ci sono dei Paesi che sono endemici per questa malattia. Sarà sicuramente la prossima malattia infettiva ad essere eliminata ma ci vorrà ancora un po' di tempo".

"Impossibile prevederlo". "È possibile che l'immunità di gregge, così come è intesa, sia difficile da raggiungere per un'infezione di questo tipo, acuta e che circola molto velocemente. La caratteristica a cui si arriverà è quasi impossibile prevederla: ci sono state epidemie, sempre da coronavirus, che sono scomparse dalla mattina alla sera senza preavviso ed altre che sono rimaste come virus endemici", afferma per ilgiornale.it il Prof. Massimo Clementi, Direttore del Laboratorio di Microbiologia e Virologia dell'Ospedale San Raffaele di Milano. Quale sarà l'esito di questa battaglia che si sta combattendo? "Tutte queste varianti sono la testimonianza che il virus sta soffrendo, soffre perché non trova più quelle praterie che trovava prima e deve cambiare per diffondersi. Come finirà? Non lo so. Io penso che, alla fine, avremo un virus poco patogeno, che circolerà poco nella popolazione e la maggior parte della gente sarà già immune". Se, da un lato, il Prof. Clementi è ottimista, dall'altro è preoccupato per la lentezza nella vaccinazione, vero punto debole che sposta sempre più in là l'immunità di gregge. "Il tempo che stiamo impiegando per immunizzare una parte consistente della popolazione è troppo: il Vax-day è stato a dicembre tra Natale e capodanno. Dal 27 dicembre ad oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta, di vaccini pochi...".

"Sbagliato credere di aver bisogno soltanto del vaccino". In riferimento a quanto riportato da numerosi esperti e scienziati sui cinque punti pubblicati su Nature, abbiamo chiesto un parere anche allo scienziato italiano Silvio Garattini, farmacologo, presidente e fondatore dell'Istituto di ricerche farmacologiche "Mario Negri" di Milano. "Spingono tutto al peggior scenario possibile: l'immunità di gregge, per essere tale, ha bisogno di raggiungere una certa percentuale, le varianti possono incrinare quest'immunità. Ma poi, fin quando non saranno vaccinati tutti, c'è sempre la possibilità che l'infezione si diffonda nuovamente", afferma il Prof. Garattini, che prevede un richiamo necessario dopo che si saranno concluse le prime vaccinazioni ma, soprattutto, l'importanza di una cura che adesso, ancora, non c'è. "Saremo vaccinati in modo duraturo dopo la seconda dose e dopo un certo periodo. È per questo che avremo bisogno anche di un altro apporto: i farmaci, che agiranno impedendo lo sviluppo della malattia. Anche se saranno vaccinati tutti ma una variante comincia ad incrinare il sistema, se avremo dei farmaci che agiscono direttamente contro il virus potremo tenergli testa perché eviteremmo lo sviluppo della malattia. Credere che soltanto con il vaccino risolveremo tutto è sbagliato: anche da vaccinati bisognerà mantenere le stesse regole di sicurezza: lei o lui sono protetti ma non è detto che non possano infettare gli altri".

L'immunità di gregge rimane, quindi, "una cosa possibile ma è multifattoriale, non dipende soltanto dal vaccino: quello che manca è un intervento attivo, un lavoro educativo avviene se c'è un'azione continua anche attraverso i social network, oggi fonte primaria d'informazione per tanti giovani. Bisognerebbe che il governo non dicesse soltanto di stare attenti ma metta in piedi una campagna vaccinale schierando le persone in cui il pubblico ha fiducia. Questo ci aiuterebbe ad evitare 400 morti ogni giorno riducendo la circolazione del virus".

Claudia Giammatteo per businessinsider.com il 29 marzo 2021. Vivono, mangiano e dormono insieme a familiari malati. Lavorano ogni giorno a stretto contatto con persone positive. E non vengono contagiati. È l’incredibile fortuna degli “immuni”, i cosiddetti “resistenti” al COVID-19, protetti da una barriera invisibile che non si ammalano, né si infettano. Come è possibile? È proprio quello che sta cercando di capire uno studio internazionale condotto dal genetista italiano Giuseppe Novelli, direttore del Laboratorio di Genetica Medica dell’Università di Roma Tor Vergata in collaborazione con 250 laboratori mondiali coordinati dalla Rockefeller University di New York. La posta in gioco è alta, spiega Novelli a Business Insider: «Vogliamo fare chiarezza  su come questo virus operi e che tipo di risposta immunitaria inneschi per sviluppare terapie più efficaci. È l’ultimo, ma decisivo passo che la scienza può compiere».

La fortuna (e la sfortuna) scritta nei geni. Mentre prosegue il drammatico corso di una pandemia che, secondo i dati diffusi dall’Health Emergency Dashbord dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ha prodotto 124 milioni di casi confermati, circa 2.734.373 vittime, e che vede l’Italia al settimo posto per numero di contagi (3.419.616) e al quinto per numero di decessi (105.879), c’è un dato  che da mesi toglie il sonno agli scienziati: perché non tutti reagiscono al coronavirus allo stesso modo? Perché alcuni si ammalano e  necessitano di ricovero e ventilazione meccanica invasiva, mentre altri sono del tutto asintomatici?

«Il nostro studio è nato proprio dall’insolita risposta che presentano alcuni individui al SARS-CoV-2 – rivela Novelli –. Ci sono dei fattori di rischio che si associano ad un decorso clinico più severo, come l’età e la presenza di ulteriori comorbidità, tra cui il diabete o l’insufficienza renale, ma da soli non bastano a giustificare questa ampia variabilità nella risposta clinica».

Quindi?

«Con il tempo ci siamo resi che alcuni individui, nonostante fossero fortemente esposti al contagio, non soltanto non sviluppavano alcuna sintomatologia, ma risultano negativi sia alla ricerca del virus mediante tampone nasofaringeo, che degli anticorpi su siero. Come se fossero naturalmente immuni all’infezione».

Bingo. Superdotati contro il virus. E poi?

«Il passo successivo è stato reclutare soggetti di entrambi i sessi e di qualsiasi età risultati apparentemente immuni al virus, che hanno avuto un contatto ravvicinato e prolungato con familiari infetti  senza mai positivizzarsi. Per chi rientra nei criteri di selezione basta un prelievo di sangue, da cui poi è estratto il DNA. Grazie alle moderne tecniche di sequenziamento è possibile leggere la nostra “libreria genetica” lettera per lettera e individuare varianti del DNA che possano conferire questa particolare immunità alle infezioni».

E proprio l’analisi di quella “libreria genetica” ha spalancato l’ipotesi tuttora al vaglio: un malfunzionamento genetico potrebbe rendere alcuni individui predisposti a produrre un surplus di interferone e, quindi, resistenti al contagio da virus SARS-CoV-2.

«Gli interferoni di tipo I e III sono le molecole chiave della risposta immunitaria» conferma lo scienziato italiano «quando le nostre cellule entrano in contatto con un virus, si attivano dei meccanismi di allerta che portano alla produzione di interferone che funge da “molecola segnale”, si lega specifici recettori cellulari ed è in grado di attivare la risposta antivirale. Questo avviene principalmente grazie a geni specifici, i cosiddetti ISGs (Interferon Stimulated Genes)». 

A mettere i ricercatori sulle giuste tracce è stato, paradossalmente, lo studio sui decorsi più severi di  Covid 19, pubblicato lo scorso ottobre sulla rivista “Science”, secondo cui il 15% delle mortalità sarebbe legato ad un difetto genetico che, in questo caso specifico, impedisce o limita la produzione degli interferoni di tipo I (IFN). Immunità ed estrema vulnerabilità, secondo gli autori dello studio, sono i due lati della stessa medaglia.

«Così come esistono varianti in alcuni geni che possono portare allo sviluppo di un quadro molto più severo,  esistono alterazioni genetiche in grado di conferire una sorta di protezione alle infezioni».  

Dagli immuni speranze di guarigione dei malati. Lo studio internazionale ha un obiettivo ambizioso: sviluppare farmaci monoclonali e antivirali più efficaci contro il coronavirus. Ma la strada è lunga.

«Ad oggi ancora non esiste una terapia standardizzata e di comprovata efficacia per il COVID-19 » sottolinea amaro Novelli. «Dal punto divista farmacologico si  sono tentate diverse strade, come ad esempio l’idrossiclorochina o il Lopinavir/ritonavir, che, però, non si sono dimostrate efficaci nel ridurre il tasso di mortalità o di necessità di ventilazione invasiva. Identificare con precisione i meccanismi di resistenza  permetterebbe di aprire l’orizzonte a nuove strategie terapeutiche».

Una cosa è certa: l’immunità naturale non è una novità. La storia ci fornisce numerosi esempi di meccanismi di resistenza su base genetica alle infezioni virali. Un esempio tra i più discussi e conosciuti è quello del recettore CCR5 per il virus dell’HIV: alcuni individui, portatori di una variante non funzionante del recettore CCR5, risultano naturalmente resistenti all’infezione. Un altro esempio è quello del gene FUT2. Mutazioni inattivanti questo gene conferiscono una resistenza ad i  più comuni virus  responsabili della gastroenterite acuta. Capire questi meccanismi è di fondamentale importanza.

Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” l'1 febbraio 2021. Perché nella stessa famiglia un congiunto si ammala di Covid-19, e addirittura muore, mentre gli altri componenti del nucleo familiare non si contagiano o al massimo risultano positivi senza presentare alcun sintomo? È uno dei grandi misteri che ancora circondano il morbo cinese tuttora in gran parte sconosciuto, sul quale la scienza sta indagando da mesi, perché scoprire questo "quid" potrebbe essere la chiave per sconfiggere la pandemia che ha stravolto le vite umane del mondo intero. Fino ad oggi, a seconda dei dati epidemiologici, la popolazione è stata divisa in sani, malati, guariti e deceduti, senza classificare la componente elevatissima di soggetti infetti ma senza sintomi, vista la complessità di individuare nella loro totalità questa parte di individui. Gli asintomatici infatti, possono essere definiti soggetti che a breve si ammaleranno in minima quantità rispetto a quelli che invece rimarranno perfettamente sani o senza segni di infezione, i quali non possono essere definiti malati nemmeno se ospitano il virus, non essendo chiaro se siano o no una fonte ineludibile di contagio, e questi fortunati individui scientificamente sono stati classificati come "tolleranti al Sars-Cov2" perché appunto tollerano la vicinanza del Coronavirus senza infettarsi, oppure in caso di contatto non sviluppano la malattia virale, dimostrando di essere capaci di convivere tranquillamente con il virus letale che solo in Italia ha mietuto in un anno fino ad oggi oltre 88mila vittime. Non sono note le ragioni per cui molte persone sviluppino questa "tolleranza", ma è chiaro che non è solo una questione di anticorpi, di geni o di gruppi sanguigni, perché coloro che evitano il virus nonostante siano stati a contatto stretto con un contagiato, risultano dotati della capacità di mediare con l'intruso, scendendo continuamente a patti con esso, invece di scatenare e sviluppare risposte immunitarie e infiammatorie violente, quelle che poi favoriscono gli importanti "danni collaterali" che hanno causato la morte di migliaia di pazienti. È stato dimostrato infatti che ad uccidere il paziente non è direttamente il Coronavirus, bensì la sproporzionata reazione messa in atto dal sistema difensivo per reagire contro l'estraneo, che incendia le cellule con una drammatica risposta infiammatoria che alla fine sfugge al controllo danneggiando irreparabilmente gli organi vitali fino a spegnerli. In seguito a tale certezza la prospettiva della ricerca è attualmente orientata non tanto a "come combattere il Coronavirus", bensì a "come aumentare la tolleranza ad esso", spostando quindi l'attenzione scientifica dalla virologia ai meccanismi di biologia cellulare e biochimica nell'interazione tra l'ospite uomo e l'agente patogeno, virale o batterico che sia. I soggetti più esposti ad un eccesso di reazione infiammatoria sono notoriamente quelli tra i 70 e gli 80 anni, i più colpiti durante la pandemia, proprio perché "meno tolleranti" alle tempeste flogistiche (tempeste di citochine), come pure coloro che sono risultati affetti da sovrapposte patologie metaboliche e coardiovascolari (diabete, ipertensione, coronaropatie, obesità, vasculiti) tutte condizioni nelle quali la risposta infiammatoria risulta funzionalmente imprecisa, violenta e pericolosa. Mentre dopo i 90 anni il sistema di attivazione dell'infiammazione rallenta notevolmente, in alcuni casi crolla del tutto, diventando poco o affatto sensibile agli insulti flogistici, cosa che spiegherebbe perché numerosi centenari evidenziati dalle cronache, pur contagiati, sono sopravvissuti egregiamente al Covid-19. Negli adolescenti e nei bambini invece, la risposta immunitaria antinfiammatoria si attiva molto rapidamente di fronte a un'infezione, addirittura sconfiggendola nel giro di poche ore, e sebbene essa sia ancora immatura negli infanti, risulta più forte ed efficace che negli adulti nei confronti delle flogosi. È stato ampiamente dimostrato infatti, che le nostre cellule riconoscendo il virus come estraneo, per combatterlo attivano l'infiammazione, per cui oggi la scienza è orientata, anziché ad inseguire il Corona, a tentare di controllare la risposta infiammatoria nei soggetti in cui diventa eccessiva, cercando un modo per indurre un vero e proprio suicidio controllato di tali cellule con tutto il loro carico virale, con conseguente spegnimento dell'infiammazione potenzialmente letale, il meccanismo con il quale hanno, per esempio, agito le terapie a base di anticorpi monoclonali, che hanno guarito rapidamente molti pazienti con grave polmonite virale, compreso l'ex presidente Usa Trump. In questo modo si potrebbe ambire a riprodurre, in tutte le persone ammalate, quel perfetto attacco al virus evitando lo sviluppo di sintomi o danni collaterali, capacità che oggi appartiene solo ai fortunati "tolleranti".

Occhio alla pancia. Studi scientifici inoltre, da tempo concordano sul fatto che un'alimentazione corretta è già metà della terapia, poiché in decenni di vacche grasse l'eccesso di cibo ingerito dalle popolazioni ha favorito l'insorgere e la diffusione su larga scale delle malattie metaboliche e cardiovascolari succitate, concausa della incapacità di controllo delle infiammazioni, per cui ridurre gli apporti calorici è imperativo, visto che le persone obese che hanno contratto il Coronavirus hanno avuto il 113% in più di probabilità di essere ricoverate, il 76% di finire in terapia intensiva e il 48% in più di morire. In attesa dei vaccini contro il Corona per ora non ci resta quindi che continuare a rispettare le note misure di contenimento, e in attesa di trovare il modo di "convivere con il virus" o diventare "tolleranti", evitiamo di stare in casa a cucinare e mangiare senza sosta, poiché il rapporto tra l'alimentazione eccessiva e non corretta con un aumento dell'infiammazione di base è ormai certa, come è certo che il sovrappeso e l'obesità spalancano le porte del nostro corpo a molte gravi malattie, compreso il Covid19, casomai lo si incontrasse. riproduzione riservata.

"La chiave è in una molecola". Ecco chi non si ammala di Covid. La differenza tra i più suscettibili e chi non si ammala mai sta principalmente in una molecola che funge da barriera contro il virus. "L'immunità innata è importantissima". Ecco cosa hanno scoperto. Alessandro Ferro, Domenica 31/01/2021 su Il Giornale. Più passa il tempo, maggiori sono le conoscenze sul Covid-19. In questa occasione non tratteremo vaccini, terapie o farmaci ma la suscettibilità di ogni individuo nel contrarre la malattia. È stato scoperto che una piccola percentuale di persone ha una sorta di immunità naturale dal Coronavirus, una specie di corazza come i supereroi che li protegge dall'infezione.

Di cosa si tratta. La scoperta fatta da molti ricercatori parla anche italiano ed è sensazionale: alla base dei contagi, tra i tanti fattori, sono determinanti il Dna (codice genetico) e l'interferone, considerata la prima barriera tra noi ed il virus. "Gli individui che mancano di IFN (interferoni,ndr) specifici possono essere più suscettibili alle malattie infettive", si legge sulla ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Science e considerata tra le 10 maggiori scoperte scientifiche del 2020. Ma procediamo per gradi: sono sempre maggiori le segnalazioni di coppie o intere famiglie in cui una persona si ammala, il coniuge ed i figli prestano aiuto e soccorsi condividendo lo stesso appartamento ma non si ammalano mai pur non indossando alcun dispositivo di sicurezza. Come è possibile? "Durante le infezioni sono diversi i fattori che influenzano la suscettibilità all'infezione e ne condizionano il decorso clinico: sa benissimo che nel Covid abbiamo gli asintomatici, i lievi sintomatici, i moderati gravi ed i gravissimi", afferma al giornale.it il Prof. Giuseppe Novelli, genetista del Policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano, capogruppo del team italiano degli scienziati di Tor Vergata insieme ad un gruppo di oltre 250 laboratori in tutto il mondo il cui coordinatore principale è il professor Jean Laurent Casanova della Rockfeller University di New York. "Se il virus è lo stesso, cos'è che fa la differenza? È l'ospite, la persona. Non è soltanto la genetica in senso stretto ma anche fattori quali l'età, malattie concomitanti, l'obesità, questi sono i fattori di rischio principali. Oltre a questi, abbiamo le varianti genetiche rare, ognuno di noi è diverso e risponde in maniera diversa all'infezione", ci dice Novelli.

La risposta è nel Dna. "Abbiamo cominciato a vedere che le differenze genetiche bisogna cercarle nel Dna delle persone", sottolinea il genetista. Oltre a Tor Vergata, a livello mondiale sono nati dei consorzi internazionali, cioè studi molto grandi tra popolazioni diverse perché sono necessari grandi numeri. "Per prima cosa abbiamo studiato i casi gravi: in una curva ci sono gli estremi e quelli che stanno in mezzo. Gli estremi sono quelli più interessanti perché la genetica si focalizza sugli estremi per trovare le differenze", afferma il Prof. Novelli. Il loro oggetto di studio si è focalizzato inizialmente sui pazienti estremamente gravi, le persone che finivano in terapia intensiva o quelle che poi sono morte trovando uno dei risultati più importanti dello scorso anno, citato anche dalla rivista Nature e, come detto, pubblicato su Science. Ma di cosa si tratta?

Ecco i più esposti. "Cosa abbiamo trovato? Il 10-12% dei malati gravi di Covid ha delle differenze gentiche nella produzione dell'interferone, la prima molecola di difesa che produciamo quando ci infettiamo. La prima linea di difesa non sono gli anticorpi, sono le molecole che cercano di neutralizzare o bloccare il virus", ci spiega Novelli. L'interferone è conosciuto da oltre 30 anni e non serve soltanto per il Covid ma è un antivirale generico. Il team di ricerca si è accorto che le persone che si ammalavano più gravemente non producevano interferone, "mancava la prima linea di difesa chiamata "immunità innata", ed è importantissima: se è difettosa, è chiaro che il virus vive e trova terreno fertile". La scoperta apre la strada a trattamenti personalizzati: potranno essere selezionati gli individui che hanno questo difetto e trovare delle terapie mirate anche a base di interferone. Il gruppo sanguigno. "Tanti altri stanno cercando differenze genetiche di suscettibilità più o meno gravi: francesi e tedeschi hanno visto che il gruppo sanguigno 0 è più frequente in quelli che sono più resistenti ad ammalarsi mentre il gruppo A appartiene a quelli più suscettibili", spiega il Prof. Novelli. Della differenza sui gruppi sanguigni ci occupammo qualche mese fa con un pezzo della collega Dardari. Tra i fattori di rischio, però, il gruppo sanguigno conferisce un rischio basso. "Anche se è una bella scoperta serve a poco, l'obesità e l'età costituiscono un rischio maggiore".

Errori congeniti della produzione e dell'amplificazione di IFN di tipo I dipendenti da TLR3 e IRF7. Ecco i "resistenti": il Covid "scappa via". La cosa più significativa, però, va oltre. "Ci siamo accorti che oltre a queste 4-5 categorie ce n'è un'altra che potremmo definire dei resistenti, e sono quelle persone che sicuramente sono state esposte, quindi a contatto, con persone che hanno la malattia ma risultano negative al test". I ricercatori pensano che si tratti di un cluster di individui resistenti i quali, pur essendo stati fortemente a contatto con la persona positiva al virus molto a lungo nel tempo come nel caso di un familiare o un coniuge e senza l'uso delle mascherine, non solo non si sono ammalati ma non hanno nemmeno preso il virus perché non sono asintomatici. "Si è dimostrato che c'è stata un'esposizione certa, il test molecolare ed il sierologico sono risultati negativi oltre a tutta una serie di criteri che servono ad identificare bene queste persone chiamate resistenti. Ne stiamo raccogliendo tanti in giro per il mondo per analizzarli geneticamente, mettere insieme i dati e vedere cosa viene fuori", afferma Novelli. "Variabilità individuale". Come è possibile, da cosa dipende questa immunità? "È il bello della genetica, è quella che si chiama variabilità individuale delle persone che non è stata scoperta per il Covid ma esiste anche per molte altre malattie infettive come la tubercolosi, la lebbra, l'Aids. Ma è la nostra fortuna, si immagini se fossimo tutti uguali tra di noi, arriva il virus e ci fa fuori tutti".

"Stiamo studiando il Dna". Lo studio deve ancora stabilire quali e quanti geni sono interessati in questo processo e quanto sono frequenti, cioè qual è la frequenza in popolazioni diverse, ancora non si sa. Per cominciare a studiare il Dna delle persone è stata necessaria l'autorizzazione del comitato etico: una volta ottenuta, si valutano alcuni criteri per includere o meno i pazienti. "Dal prelievo di sangue studiamo tutto il Dna e vediamo le differenze tra loro e quelli che si ammalano, abbiamo tutte le categorie e le mettiamo a confronto. Lo studio acquista senso con migliaia e migliaia di casi messi insieme. Lo stiamo realizzando in collaborazione con il Bambin Gesù di Roma", ci dice Novelli, che sottolinea come sia importante valutare attentamente etnie e razze per trovare differenze come il caso dell'Aids. "Nell'Aids c'è un gene chiamato CCR5, è un gene particolare che conferisce resistenza. Questo gene è molto più frequente in Africa e meno in Europa e potrebbe aiutare a capire perché in Africa si ammalano di più". Ecco la suscettibilità genetica. Tutti noi abbiamo geni che danno una suscettibilità maggiore o minore, bisogna capire quali sono questi geni. "A cosa serve questo studio che stiamo facendo? A tre cose: stratificare le persone che si ammalano di più, cioè suddividerle ad alto rischio, rischio intermedio e basso rischio; ad un approccio importante verso la terapia personalizzata, oggi non abbiamo farmaci ma li avremo, ci sono almeno 384 studi clinici sul Covid per quanto riguarda farmaci antivirali, alcuni di questi potrebbero funzionare su alcuni gruppi e non su altri; infine, la terza ragione è che, scoprire quali sono i geni di resistenza, potrebbe portare allo sviluppo di nuovi farmaci come succede per l'Aids", ci spiega Novelli. Qual è il "peso dei geni". Il vaccino non serve a curare, serve per far prevenire la malattia a chi è sano. Ma chi si ammala? Anche i geni hanno un "peso", una loro importanza specifica che dà rischi maggiori o minori di prendere l'infezione con differenze abissali. "Ci sono quelli che danno un maggior rischio e sono considerati "pesanti": con rischio 1, ad esempio, significa che quelli con l'obesità hanno un rischo in più rispetto ad un altro, in questo caso il doppio; il gruppo sanguigno conferisce un rischio di 0,23 rispetto ad uno, quindi è poco. L'interferone, invece, conferisce un peso intorno a 10, dieci volte in più, che è tantissimo", conclude Novelli.

 “I vaccinati potrebbero comunque trasmettere il coronavirus”: ecco cosa dicono gli esperti. Le Iene News il 25 gennaio 2021.  Il numero due dei consulenti del governo inglese ha ricordato: “Le persone vaccinate contro il coronavirus potrebbero comunque trasmetterlo a chi non è stato immunizzato”. Ecco che cosa sappiamo finora sull’efficacia dei vaccini e cosa ne pensano gli esperti italiani e internazionali. “Le persone vaccinate contro il coronavirus potrebbero comunque trasmetterlo a chi non è stato immunizzato”: l’avvertimento arriva da Jonathan Van Tam, numero due dei consulenti del governo inglese contro la pandemia. Un allarme che non è nuovo e che spaventa soprattutto per i prossimi mesi, quando una parte della popolazione sarà vaccinata ma la grande maggioranza no.

Cosa sappiamo finora, e cosa dicono gli esperti? E’ davvero possibile che i vaccinati trasmettano comunque il coronavirus? Partiamo dall’inizio: come ricorda il New York Times i prodotti di Pfizer e Moderna - quelli attualmente approvati - sono stati testati per capire quante persone vaccinate sviluppassero il Covid-19. Questo però non esclude la possibilità che queste persone possano contrarre il virus in forma asintomatica e trasmetterlo ad altri. I trial dei vaccini, finora, non hanno testato quante persone abbiano contratto il coronavirus pur senza sviluppare i sintomi. Quando si parla di “efficacia al 95%” ci si riferisce infatti alla capacità del vaccino di impedire lo sviluppo di sintomi medi e gravi. Le ricerche sulla capacità di impedire la trasmissione del virus sono ancora in corso. “Un sacco di persone pensano che una volta vaccinate potranno levarsi le mascherine”, ha dichiarato Michal Tan, immunologo dell’università di Stanford. “E’ cruciale che la indossino ancora, perché potrebbero essere ancora contagiosi”. Un’opinione che è stata condivisa in passato anche da Ilaria Capua, direttrice del One Health Center of Excellence dell’università della Florida: “Il vaccino protegge dalla malattia. Ma, da vaccinato, posso andare in giro come se fossi sicuro al 100%? La risposta è no. La vaccinazione, infatti, è efficace contro la malattia, ma contro l’infezione non lo è al 100%”, aveva dichiarato a novembre, quando ancora non c’erano vaccini approvati contro il coronavirus. E anche il professor Andrea Crisanti dell’università di Padova si era espresso in maniera simile: “Non sappiamo se le persone protette dal vaccino magari diventano poi dei portatori sani. Questo non è stato verificato”. Non è comunque certo che le persone vaccinate possano ancora infettare gli altri: ci sono studiosi, come l’immunologo Akiko Iwasaki dell’università di Yale, secondo cui “quando si sviluppa una forma di immunizzazione con il vaccino, anche la capacità di infettare diminuisce”. Insomma, non sappiamo ancora se le persone vaccinate siano davvero capaci di trasmettere il virus ad altri. E’ probabile che lo si scoprirà solamente quando una fetta consistente della popolazione sarà vaccinata, e dunque ci saranno dati a disposizione sull’eventuale cambiamento nella circolazione del virus: “Questi discorsi sono teorie, ma noi abbiamo bisogno di dati”, ha detto il virologo John Moore del Weill Cornell Medicine in New York. In attesa di averli, è fondamentale che tutti continuino a indossare la mascherina e rispettare il distanziamento sociale.

La scienza studia il caso. Immuni “per natura”, quelli che non si infettano anche se vivono con un positivo. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Gennaio 2021. Lui si ammala un anno fa, pensa sia polmonite e la moglie gli sta accanto per aiutarli nelle cure, senza infettarsi. Soltanto mesi dopo scopriranno, tramite un test sierologico, che quella polmonite era Covid e che solo uno dei due ha sviluppato gli anticorpi. La storia di Valeria Fabbretti e Alessandro Antonini, coppia di Terni che vive a Milano e raccontata oggi da Il Messaggero, fa discutere e rilancia il tema della cosiddetta “immunità per natura”, ovvero dell’immunità non ‘fornita’ dal vaccino. Com’è possibile che tra persone che vivono e dormono insieme uno si infetta e l’altro no? Il dubbio è che vi sia un gene che rende alcune persone resistenti, col dibattito che si fa spazio tra gli scienziati. Di casi come quello di Valeria e Alessandro ne sono stati segnalati svariati in più parti del mondo, tanto da spingere ad indagare 250 laboratori, coordinati dalla Rockfeller University di New York. “Quando c’è una pandemia i fattori in gioco sono il patogeno, l’ospite e l’ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l’infezione – spiega a Il Messaggero Giuseppe Novelli, genetista del policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano – Noi ci siamo concentrati sulla seconda. Studiamo il dna delle persone, facciamo correlazione statistica in base all’età e al sesso. Se il virus è lo stesso allora è chiaro che la differenza la fa l’ospite. Questo accade sempre, con tutte le infezioni”. Novelli spiega che il suo team di ricerca si è concentrato prima sui malati gravi, scoprendo che “esiste un 10-12 per cento di casi che hanno una caratteristica genetica particolare, non riescono cioè a produrre interferone che è la prima molecola di difesa. Sulla base di questa esperienza ci siamo chiesti se ci sono differenze genetiche in quelli che noi chiamiamo i “resistenti”, cioè persone che quando convivono con un soggetto che è certamente positivo non solo non si ammalano, ma non si infettano nemmeno”. Altra risposta viene fornita quindi da Roberto Luzzati, professore di malattie infettive dell’Università di Trieste: “L’immunità non è data solo dagli anticorpi – spiega al quotidiano romano – esiste anche l’immunità cosiddetta cellulare”. Per questo è fondamentale studiare i linfociti: “Noi abbiamo la cosiddetta immunità cellulo-mediata nella quale entra in gioco il sistema immunitario cellulare che poi è quello che mantiene la memoria nel tempo, molto più a lungo degli anticorpi che possono anche scomparire”. Essendo un tema ancora da analizzare a fondo, per convivere con una persona risultata positiva ed evitare di contagiarsi restano ovviamente validi i consigli suggeriti da mesi a questa parte: indossare la mascherina, frequente igienizzazione delle mani e distanziamento sociale anche all’interno delle mura domestiche.

Graziella Melina per ilmessaggero.it il 25 gennaio 2021. Dopo un anno di pandemia e milioni di contagiati, restano ancora nell’ombra i casi di chi sembra inattaccabile dal Sars Cov 2. Valeria Fabbretti e Alessandro Antonini, una coppia originaria di Terni ma di stanza a Milano, ne sono un esempio. Lui un anno fa si ammala, ma pensa sia polmonite, lei gli sta accanto per accudirlo, ma senza infettarsi. La conferma arriva mesi dopo con un test sierologico. Antonini risulta positivo, Fabbretti no. Come si possa spiegare la capacità di alcuni individui di resistere al contagio è presto per dirlo. Ma gli scienziati che stanno studiando questi casi un’idea ce l’hanno già. «Quando c’è una pandemia i fattori in gioco sono il patogeno, l’ospite e l’ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l’infezione - premette Giuseppe Novelli, genetista del policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano - Noi ci siamo concentrati sulla seconda, che è fondamentale. I primi mesi dell’infezione ci siamo accorti che ci sono gli asintomatici, i moderati lievi, i casi gravi. Ma se il virus è lo stesso allora è chiaro che la differenza la fa l’ospite. Questo accade sempre, con tutte le infezioni». Ecco che il team degli scienziati di Tor Vergata, insieme ad un gruppo di oltre 250 laboratori in tutto il mondo coordinati dalla Rockfeller University di New York stanno provando a sbrogliare la matassa. «Studiamo il dna delle persone, facciamo correlazione statistica in base all’età e al sesso. Ci siamo prima concentrati sui malati gravi - racconta Novelli - e abbiamo scoperto che esiste un 10-12 per cento di casi che hanno una caratteristica genetica particolare, non riescono cioè a produrre interferone che è la prima molecola di difesa. Sulla base di questa esperienza ci siamo chiesti se ci sono differenze genetiche in quelli che noi chiamiamo i “resistenti”, cioè persone che quando convivono con un soggetto che è certamente positivo non solo non si ammalano, ma non si infettano nemmeno». A pesare sull’infezione ci sono poi diversi fattori di rischio. «Abbiamo trovato almeno una cinquantina di geni che oggi danno più o meno una suscettibilità ad ammalarsi - spiega Novelli - Ma non basta, perché ciò può essere scientificamente valido, ma deve essere clinicamente utile. Bisogna capire in sostanza se questi geni hanno un peso. Ce ne sono alcuni che regolano l’interferone e hanno un ruolo maggiore, altri come i gruppi sanguigni che hanno un peso molto minore, inferiore anche all’età e all’obesità. Bisogna studiarli tutti». Per poter far parte del gruppo dei soggetti che verranno esaminati nello studio dell’Università di Tor Vergata occorre dimostrare di avere alcuni specifici requisiti. Le persone che vogliono partecipare verranno richiamate e sottoposte ad una prima selezione telefonica. «Abbiamo un protocollo approvato dal nostro comitato etico - precisa Novelli - In molti ci stanno scrivendo per poter partecipare. Ma dobbiamo avere la certezza che abbiano i requisiti, che abbiano fatto per esempio tutti i test per il Covid». Ma non è semplice capire se davvero si è immuni al virus basandosi soltanto sul risultato di un test. Come sottolinea Roberto Luzzati, professore di malattie infettive dell’Università di Trieste, «l’immunità non è data solo dagli anticorpi. Esiste anche l’immunità cosiddetta cellulare». Per scoprirla è necessario indagare i linfociti. «Noi abbiamo la cosiddetta immunità cellulo-mediata nella quale - evidenzia Luzzati - entra in gioco il sistema immunitario cellulare che poi è quello che mantiene la memoria nel tempo, molto più a lungo degli anticorpi che possono anche scomparire. Sulla durata dell’immunità che deriva dagli anticorpi, sappiamo in effetti ancora relativamente poco. Secondo gli ultimi studi, dopo l’infezione gli anticorpi dovrebbero essere presenti almeno 6-8 mesi, o forse di più». A trarre in inganno sulla presunta resistenza al virus potrebbe poi essere anche il test effettuato. «Ricordiamo che alcuni tamponi hanno una sensibilità di circa il 70 per cento, quindi un 30 per cento lo perdiamo - ricorda Luzzati - Si aggiunga poi che gli asintomatici sono circa il 50 per cento dei soggetti e rappresentano il tallone di Achille di questa pandemia».

·        Positivi per mesi?

Positivi per mesi? Ecco la verità sul dna. Alessandro Ferro l'1 Giugno 2021 su Il Giornale. Due ricercatori hanno ipotizzato che, in alcune e rare occasioni, il Covid possa integrarsi con il Dna umano. "Il virus non entra nel nostro Dna, non accade e non è vero": ecco cosa ci ha spiegato un esperto genetista. Una delle tesi più controverse e criticate che tenta di spiegare perché alcune persone, seppur raramente, risultano positive al Covid-19 per diversi mesi, è stata pubblicata sulla rivista Science e la risposta ha creato non poche polemiche: il virus riuscirebbe ad integrarsi nel nostro Dna.

Cosa dice lo studio. Rudolf Jaenisch, biologo esperto di cellule staminali, e Richard Young, esperto di regolazione genica del Massachusetts Institute of Technology, hanno trovato nuove prove a sostegno dell'ipotesi che frammenti genetici del virus potrebbero integrarsi nei nostri cromosomi e restare lì anche dopo molto tempo dalla fine dell'infezione: la persona, però, rimarrebbe positiva al tampone molecolare ma senza essere contagiosa. "Ora abbiamo prove inequivocabili che le sequenze del coronavirus possono integrarsi nel genoma", afferma Jaenisch sulla ricerca (qui il link originale). La prima volta che i due scienziati hanno pubblicato la loro teoria è stata a dicembre scorso sul sito di pre-stampa BioRxiv, scatenando un polverone di polemiche all'interno della comunità scientifica. I critici, infatti, ritengono che questa ipotesi alimenti il timore infondato che i vaccini contro Covid-19 a base di Rna messaggero possano in qualche modo alterare il Dna umano.

"Non accade e non è vero, ipotesi assurda". Questi studiosi avrebbero trovato prove che il virus sia capace di intrecciarsi al nostro Dna. Ma è davvero cosi? "Questa è un'ipotesi assurda, non accade e non è vero. Anzi, è esattamente l'opposto, non dobbiamo metterla così. Loro hanno trovato tracce di frammenti del virus in un'analisi ibrida ma non possono andare a vedere il nostro Dna", ha dichiarato in esclusiva per ilgiornale.it il Prof. Giuseppe Novelli, genetista del Policlinico Tor Vergata di Roma e Presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano, che ci ha spiegato che si tratta di un artefatto creato in laboratorio con un costrutto artificiale del virus e frammenti di Dna delle cellule umane di alcune autopsie di gente deceduta a causa del Covid. "Li hanno presi ed analizzati ma, ripeto, è un articolo molto criticato anche se il lavoro è stato svolto da uno scienziato serio", aggiunge.

Ecco perché il virus non entra nel Dna. Quindi smentisce che particelle del Covid possano entrare nel nostro Dna? "È impossibile, te lo assicuro", incalza il genetista, che ci spiega ancora più chiaramente perché ciò non accade e non può materialmente accadere. "Il virus non entra nel nostro Dna perché il Dna è il nucleo ma il virus entra nel citoplasma della cellula, sono due meccanismi diversi e lui rimane lì, non ha bisogno di entrare nel nucleo. C'è una barriera fisica che gli impedisce di entrare al contrario del vaccino degli adenovirus, motivo per cui si pensa che possa causare delle trombosi". In pratica, i due scienziati hanno fatto queste ricerche per giustificare il fatto che ci siano alcune persone che per tanti mesi si trascinano la malattia, il famoso "Long Covid". Però qual è il motivo per cui tanta gente ha effetti che durano mesi se il virus non entra nel Dna? "Questa è un'ipotesi che loro hanno fatto per vedere se si ha ancora il virus. Per adesso si può osservare soltanto facendo un tampone. Dopo molto tempo, però, vediamo persone che anche se guarite e con un tampone negativo, ogni tanto spunta fuori qualche positivo ma senza essere infettivo o ammalato. Da qui l'ipotesi che tracce del virus fossero rimaste nel nostro organismo o nel nostro Dna, questa è la loro ipotesi di lavoro", ci dice Novelli.

Il Covid non è come l'Hiv. Su queste basi, i ricercatori hanno approfondito con meccanismi di analisi se frammenti del virus rimanessero nel Dna ma anche all'interno dello studio si possono evidenziare alcune cose che non tornano. "L'articolo, infatti, non dice da nessuna parte che il virus si può integrare nel Dna, non è così come invece può accadere per il virus Zoster o per l'Hiv, ad esempio. Quelli sono virus che vengono veramente integrati nel Dna e poi vengono attivati, ma per intero. Nel caso del Covid si tratta di frammenti, pezzettini probabilmente recuperati che si ritrovano, hanno osservato soltanto questo. Ma non che il virus si integri nel Dna, su questo siamo certi che non succede", sottolinea il genetista per fugare il campo da ogni dubbio. In maniera tecnica e dettagliata, frammenti del Covid possono essere utilizzati dal alcune sequenze del nostro Dna ma un virus ad Rna, per integrasi davvero, dovrebbe avere un enzima che lo aiuti a fare questo lavoro che si chiama "trascrittasi inversa" ma nelle nostre cellule non c'è. "Loro dicono che in alcune condizioni si può attivare come avviene nel caso delle cellule tumorali. Il loro assurto è che si tratti di qualche caso di trascrittasi inversa che può avvenire con qualche meccanismo raro ma in ogni caso non porta il virus, utilizza pezzettini del virus e li porta dentro. È questa la mia ipotesi". I casi di Long Covid, quindi, non sono causati dal virus che entra nel nostro Dna. "No, semmai il virus ha creato uno strato infiammatorio molto grave e cronico che dura nel tempo", sottolinea Novelli.

Vaccini con adenovirus: ecco perché non modificano (neanche loro) il Dna. I più attenti, qualche riga sopra, avranno letto che, durante la chiacchierata con il Prof., si sia parlato dei vaccini anti-Covid, in particolare quelli di AstraZeneca, Johnson&Johnson e Sputnik V, che utilizzano la piattaforma ad adenovirus che è stata costruita per entrare nel nucleo del Dna. Attenzione, però: ciò non significa che modifichino il codice genetico, nessun vaccino provoca qualcosa del genere. In un periodo come questo, seppur gli scettici siano messi sempre di più all'angolo (per fortuna), è bene non dare adito ad alcun fraintendimento. "I vaccini non cambiano il Dna, assolutamente no: gli adenovirus di Astrazeneca, J&J e Sputnik sono virus fatti di Dna e portano dentro l'informazione per costruire la proteina Spike per produrre gli anticorpi. Per fare questo, il Dna deve entrare per forza nel nucleo per essere trasformato in Rna, uscire dal nucleo e diventare proteina, è un passo obbligatorio". Adenovirus-nucleo-citoplasma-proteina è il ciclo, altrimenti non si costruisce la Spike. "I vaccini di Pfizer e Moderna, invece, non hanno bisogno di questo passaggio, vanno direttamente nel citoplasma e diventano proteina", ci dice Novelli. Alcuni ricercatori tedeschi (qui il nostro articolo) hanno ipotizzato e studiato invece che, quando l'adenovirus entra dentro il nucleo per essere trasformato, invece di una Spike ne produce di più. Le nuove evidenze portano a dire che sia questo il motivo per cui si sono avute le rarissime trombosi con vaccini a vettore virale. "Invece di produrre una cosa ne produce due o di più e l'ipotesi è che, in questo modo, il nostro organismo viene stimolato maggiormente ma soltanto in alcune e rare persone, altrimenti capiterebbe con tutti. Probabilmente scatena una reazione molto forte che può portare alla trombosi venosa dei vasi, ma il Dna non c'entra nulla", conclude l'esperto.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        Gli Untori.

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 21 agosto 2021. Dopo gli squilli a vuoto delle Asl, scattano le denunce. I positivi irreperibili, quelli che dopo il tampone rapido staccano il cellulare per sfuggire alla quarantena (e per salvare le vacanze), allarmano le Regioni. I casi si moltiplicano, dal Lazio alla Puglia, dalla Campania all'Emilia Romagna. Solo in Veneto ne hanno contati 783: tutti contagiati, tutti spariti dai radar. A Roma le segnalazioni sono oltre 250 da inizio agosto. Chi governa la sanità regionale ha dato un input chiaro agli esperti del tracciamento: denunciate. «Chi è consapevole di essere positivo e si sottrae alla quarantena va incontro a un rischio penale», ha messo in chiaro ieri Alessio D'Amato, l'assessore alla Sanità del Lazio, dopo che il caso è stato sollevato dal Messaggero. «Omettere i dati nella consapevolezza di essere positivi significa avvantaggiare il virus e questo sicuramente può dare adito a una colposità». Ai microfoni della Rai, il braccio destro di Zingaretti ha spiegato che quello degli infetti irrintracciabili «è un fenomeno che ci preoccupa perché rende difficile il contact tracing, fondamentale per ridurre i contagi». Per schivare l'isolamento e mettere in salvo le ferie, c'è chi ha fornito numeri di cellulare falsi, chi ha annotato sul modulo del test indirizzi inventati. La maggior parte, semplicemente, non ha mai risposto alle chiamate delle Asl. Quasi tutti si rendono irreperibili dopo il tampone rapido in farmacia, senza mai presentarsi in ospedale o al drive-in per il molecolare. L'unico test che vale a livello diagnostico e che fa scattare ufficialmente la quarantena. Non sempre però i medici si accontentano della segreteria telefonica. Spiega il governatore dell'Abruzzo, Marco Marsilio: «Violare l'isolamento da contagiati è un atto estremamente grave, per questo da parte delle nostre Asl c'è la massima severità, ogni caso è stato denunciato alle forze dell'ordine e sarà così in futuro». L'Asl dell'Aquila ha già spedito 2 segnalazioni alla Questura. «Ma dopo l'intervento della Polizia, in genere queste persone collaborano», ha raccontato il direttore dell'unità di Epidemiologia dell'Asl Abruzzo 1, Enrico Giansante.  Cosa rischia chi viola la quarantena? Solitamente una sanzione amministrativa, che va dai 400 ai 3mila euro. Ma l'assessore alla Sanità della Puglia, Pier Luigi Lopalco, ipotizza «il reato di epidemia colposa, perché se non si rispetta l'isolamento, sapendo di essere positivi, c'è un articolo apposito del codice penale». Solo nel Salento, l'azienda sanitaria locale ha denunciato 20 positivi-fantasma in queste settimane. «Abbiamo una convenzione ad hoc con le forze dell'ordine - riprende Lopalco - gli agenti ci aiutano a rintracciare i positivi che non si presentano. Stiamo parlando di un comportamento molto pericoloso: se viene meno il tracciamento, salta il controllo del focolaio epidemico. È un atto contro i propri affetti, ma anche contro la comunità». In Veneto non sono mai stati rintracciati 783 positivi, da ottobre 2020 ad agosto 2021. «Sicuramente all'interno c'è una quota di stranieri», spiega Manuela Lanzarin, l'assessore alla Sanità di Zaia. «Un non reperibile ogni 560 contagiati è un numero tutto sommato contenuto, ma i nostri uffici hanno comunque il mandato di chiamare tutti. Anche se qualcuno non risponde, magari per disattenzione. O volontariamente».

Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 20 agosto 2021. Numeri di telefono falsi, indirizzi inventati di sana pianta oppure, senza industriarsi troppo, la banale irreperibilità dello squillo a vuoto. Nel campionario dei furbi Covid, ecco una nuova fattispecie. Decisamente pericolosa: i contagiati irreperibili. Positivi, ma irrintracciabili. Imboscati per salvare la vacanza. Inseguiti dalle Asl a colpi di chiamate senza risposta. Solo a Roma e provincia se ne contano 250 da inizio agosto. «Nell'Asl Roma 3 abbiamo avuto 160 casi», racconta Stefania Iannazzo, professione: cacciatrice del virus, a capo del Sisp (Servizio di igiene e sanità pubblica). «Noi ne abbiamo avuti 50», confida il direttore del Sisp dell'Asl Roma 1, Enrico Di Rosa.

Identikit: «Sono soprattutto persone che fanno il test rapido in farmacia e poi, quando ottengono il referto positivo, staccano il telefono, per evitare di fare il molecolare di conferma. L'unico tampone che vale a livello diagnostico per dichiarare la positività al Covid». Provano a scansare la quarantena e andare in ferie come nulla fosse, sperando di cavarsela con un «non lo sapevo». Non sempre i controlli sono stringenti, tutt' altro, soprattutto nelle grandi città. Quando le Asl segnalano i nomi, poi si rischia una sanzione amministrativa (dai 400 ai 3mila euro). Ma qualcuno si è ritrovato i poliziotti sotto casa. Sull'isola di Capri, l'Asl Napoli 1 non è mai riuscita a trovare 30 positivi. «Tutti avevano fatto il test in farmacia», spiega Lucia Marino, la direttrice del dipartimento di Prevenzione. Nel Salento, altri 20 sono spariti dai radar. «Qui però chiamiamo subito le forze dell'ordine, non si può pensare di farla franca», mette in chiaro Alberto Fedele, direttore della Prevenzione dell'Asl di Lecce. «Abbiamo denunciato anche qualcuno che al telefono ci ha risposto, ma dal rumore di sottofondo si capiva che era al mare». «In ogni caso - aggiunge Pier Luigi Lopalco, l'assessore alla Sanità della Puglia - teniamo nella nostra banca dati anche i nomi dei positivi al test rapido». A Rimini, mecca della movida romagnola, nelle ultime settimane l'Ausl ha chiamato 4 volte i vigili urbani perché i contagiati erano introvabili. «Sono principalmente i ragazzi a mostrarsi reticenti, vogliono godersi le vacanze racconta il capo dell'ufficio d'Igiene, Franco Borgognoni Le prime difficoltà nascono col tracciamento: quando troviamo un positivo e gli chiediamo di fornirci i nomi di chi ha incontrato nelle ultime 48 ore, spesso risponde di non avere visto nessuno. Sono rimasto in casa per due giorni', cose così». La famosa vita monastica della riviera. 

IN VIAGGIO A Bologna l'azienda sanitaria locale ha scoperto che un turista positivo, sotto isolamento, era andato a svacanzare a Firenze. «L'hanno trovato le forze dell'ordine», racconta Paolo Pandolfi, direttore del dipartimento di Sanità pubblica. In Abruzzo, l'Asl dell'Aquila ha spedito 2 segnalazioni alla Questura, sempre per persone infettate che non rispondevano ai sanitari del contact tracing. «Dopo l'intervento della Polizia, in genere collaborano dice il direttore dell'unità operativa di Epidemiologia dell'Asl Abruzzo 1, Enrico Giansante Più dei test rapidi, che alla fine sono controllati e inseriti nel circuito regionale, ci preoccupa la diffusione dei test fai-da-te». I kit che si acquistano in farmacia e si eseguono in casa, in solitaria, spesso di nascosto. «Gli esiti di questi esami sono fuori da qualunque radar. Chissà quanti sono i contagiati che non l'hanno detto a nessuno, per non perdere la vacanza». Già a fine luglio, a Roma, Federfarma ha fatto sapere che quei test erano andati esauriti. E molti farmacisti, anche per una scelta etica, si sono rifiutati di rimetterli in commercio, proprio per l'impossibilità di monitorare gli infetti. A Ragusa, la Confesercenti ieri ha scritto al prefetto, denunciando l'aumento esponenziale del ricorso ai test fai-da-te. «Chi è positivo al Covid non si autodenuncia all'Asp - scrive l'organizzazione - per evitare la quarantena e andare in giro per la città a contagiare il prossimo, un gesto criminale».

I TRUCCHI Alle prese con la quarta ondata, gli esperti delle Asl fanno quello che possono. «Di solito, quando il positivo è irreperibile spediamo una segnalazione al commissariato di zona riprende Iannazzo, a capo dei contact tracer dell'Asl Roma 3 Ma molti sono turisti, vanno in farmacia e poi fuggono. C'è chi mette sul modulo del test un numero di cellulare sbagliato. Altri scrivono indirizzi falsi: proprio poche ore fa cercavamo un bed & breakfast che si è rivelato inesistente. Qualcuno alla fine risponde alla telefonata, ma ci dice: tranquilli, sono sicuro di essere un falso positivo. Auto-diagnosi, a occhio». La maggior parte, semplicemente, scarta la chiamata. «Proviamo anche 2-3 volte - conclude Di Rosa, il dirigente dell'Asl Roma 1 - ma dall'altro capo del telefono tutto tace». 

Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 20 agosto 2021. In Italia, secondo i dati ufficiali, ci sono 128mila persone positive. Per fortuna, solo il 3,1 per cento è ricoverato in ospedale. In realtà, il numero di coloro che sono infetti è molto più alto. Difficile fare una stima, se si guarda all'esperienza del passato si può ipotizzare che in totale siano almeno a 200mila, ma le basi per sostenerlo non sono solide.

DIFFUSIONE Sia chiaro, gli esperti si sbilanciano solo sul dato totale: formalmente in Italia le persone che hanno superato l'infezione sono 4,2 milioni, ma almeno il doppio, attorno a 8-9 milioni, sono stati positivi, perché in tanti non lo hanno saputo, erano asintomatici e non sono mai stati intercettati dal tampone. Quella percentuale di sommerso fu estremamente più alta a inizio pandemia, poi è gradualmente diminuita perché il tracciamento è stato potenziato e il numero di tamponi eseguiti è aumentato. Oggi, però, la fetta degli asintomatici che non risultano nei dati ufficiali potrebbe essere di nuovo cresciuta, come ha denunciato, tra gli altri, nei giorni scorsi il professor Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive al Policlinico Gemelli di Roma («in agosto c'è stata una diminuzione significativa dei test eseguiti, in questo modo molti positivi non li intercettiamo»). Ma ci sono anche altre ragioni. La prima è che c'è una parte di persone non vaccinate che teme una sorta di «stigma sociale». Racconta il professor Massimo Andreoni, primario di Malattie infettive al Policlinico Tor Vergata di Roma: «Magari hanno dei sintomi lievi, febbre e tosse. Evitano però di andare a fare il tampone per non essere riconosciuti come coloro che ingenuamente hanno rifiutato il vaccino e poi si sono presi il Covid. Questa tipologia di persone, si aggiunge ai molti che, pur avendo la certezza di essere stati a lungo in contatto con positivi, evitano il test perché non vogliono poi accettare di restare in quarantena». Infine, c'è chi esegue l'antigenico e poi sfugge al molecolare o, ancora, c'è chi ricorre al test fai da te ma in caso di esito positivo non lo comunica all'autorità sanitaria. Tutte queste persone rientrano nei positivi consapevoli che però decidono, sconsideratamente, di restare nell'ombra, rischiando da una parte un peggioramento della malattia, dall'altra di fare circolare il virus. «Poi però - racconta Andreoni - c'è tutta una fetta di popolazione che ha il virus da asintomatico, ma è inconsapevole, non lo sa. Partiamo da un dato: la variante Delta ha un R con zero tra 6 e 8, quindi una facilità di contagio molto più alta anche rispetto alla variante inglese. Corre soprattutto tra i giovani e i giovanissimi, ma nella stragrande maggioranza dei casi, anche se non sempre, in quelle fasce di età non ci sono sintomi o sono molto leggeri». In questi giorni l'Istituto superiore di sanità ha verificato che un nuovo positivo su 4 ha meno di 19 anni, ma è quasi certo che vi sono tantissimi ragazzi di quell'età che sono stati contagiati e non lo sanno. Di per sé non è un grosso problema, perché in questo modo sviluppano una immunità naturale.

INCOGNITE Di cosa si tratta? Varie ricerche hanno dimostrato che la percentuale di reinfezione - persone che si contagiano dopo che hanno superato, nei mesi precedenti, la malattia o l'infezione stessa - è estremamente bassa. Secondo uno studio pubblicato su Jama a maggio e realizzato da sette ricercatori (José Vitale, Nicola Mumoli, Pierangelo Clerici, Massimo De Pascale, Isabella Evangelista, Marco Cei e Antonino Mazzone) che hanno esaminato i dati di alcuni ospedali lombardi, «i casi di reinfezione sono rari», su 1.579 pazienti, dopo 230 giorni, solo in 5 si sono reinfettati, lo 0,31 per cento. Altre ricerche ipotizzano che la protezione degli anticorpi, per un anno, per chi ha superato l'infezione è altissima, al 95 per cento. Dunque, banalmente si potrebbe concludere che gli asintomatici inconsapevoli sono persone che non rischieranno più di contagiarsi questo autunno. «Ma una forte circolazione del virus - avverte Andreoni - aumenta anche la possibilità che possano infettarsi le persone più a rischio, dai cinquant'anni in su. Se fossero tutti protetti dal vaccino, non sarebbe un problema. In Italia, però, abbiamo ancora più di 4 milioni di non vaccinati over 50».

Covid: perché i positivi nascondono di esserlo. Irma D'Aria su La Repubblica il 25 febbraio 2021. La vergogna, la paura dello stigma sociale può indurre a non comunicare di essere rimasto contagiato al virus. Un meccanismo di autoprotezione. I consigli della psicoterapeuta. Spargitore di virus, assassino, bugiardo, incosciente. Così è stato considerato Cortland Cronk, un ragazzo canadese di 26 anni, positivo al Covid su cui è stato fatto anche un Meme che lo “dipingeva” come un Grinch. Ha ricevuto anche delle minacce tanto che è fuggito dalla sua città natale, Saint John e si è trasferito a Victoria, una città all'estremità opposta del paese, a 3.600 miglia di distanza. Insomma, alla paura di ammalarsi di Covid si aggiunge quella di essere oggetto dello stigma. E’ il Covid-shaming che spinge molte persone a non comunicare la propria positività al virus. 

L’etichetta dell’untore. Il ragazzo, che è un agente di commercio, ha contratto il Covid durante i suoi spostamenti di lavoro e ha raccontato al New York Times che la gente si comportava nei suoi confronti come se avesse preso di proposito il Covid. “Ho ricevuto centinaia di minacce di morte al giorno. Persone che mi dicevano che avrei dovuto essere lapidato pubblicamente", dichiara il ragazzo. Molti cittadini canadesi pensavano che si trattasse solo di una trovata pubblicitaria per dare un ammonimento a chi infrange palesemente le regole, mettendo a rischio le vite degli altri. Alcuni pensano addirittura che in Canada dovrebbero stabilire delle norme più ferree non solo multando chi infrange le norme di sicurezza anti-Covid, ma rendendo pubblici i loro nomi.

Lo stigma e le pandemie. Storicamente, lo stigma e il sentimento della vergogna hanno accompagnato le varie pandemie. “Durante la peste in Europa, il popolo ebraico divenne un comodo capro espiatorio. Nel corso dell'epidemia di colera in Gran Bretagna nel 19° secolo, furono accusati gli irlandesi della classe operaia”, ha spiegato al New York Times, David Barnes, professore associato presso l'Università della Pennsylvania che studia la storia delle malattie infettive e delle epidemie. Più di recente, gay e haitiani sono stati stigmatizzati durante l'epidemia di Aids negli Stati Uniti. Lo stigma di oggi riguarda il Covid. E, infatti, i gruppi di Facebook sono pieni di storie di persone etichettate come potenziali vettori e che raccontano come siano esclusi dalle riunioni di famiglia e segnalate alle autorità sanitarie pubbliche.

Esorcizzare la paura di ammalarsi. La storia di Cortland Cronk è accaduta in Canada ma in realtà capita un po’ ovunque perché la vergogna è un sentimento che si presenta come una sorta di reazione di fronte allo stigma: “Chi giudica l’altro, il Covid -positivo e lo addita come una sorta di untore, mette in atto un meccanismo per esorcizzare il problema e allontanare da sé stesso la malattia”, spiega la psicologa e psicoterapeuta Maria Beatrice Toro, direttrice della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia (Scint). “Accade da sempre in varie situazioni da ‘shaming’, pensiamo per esempio all’Aids o al tema dell’omosessualità, ma nel caso del Covid c’è anche l’idea che si tratti di qualcosa che possiamo controllare e che genera a sua volta la convinzione che chi se l’è preso abbia sbagliato qualcosa, magari non seguendo le regole”, prosegue l’esperta. Ammettere che invece non si tratta di irresponsabilità del soggetto significa prendere coscienza che non possiamo controllare del tutto il rischio del contagio: “Questa consapevolezza mette una grande ansia, per questo qualcuno, anziché essere solidale con chi si è ammalato, trova più comodo fare l’untore”, sottolinea Toro che di recente ha pubblicato il libro Oltre la pandemia, Come superare (bene) ansia, rabbia e stress (Morellini Edizioni).

I rischi dello stigma sulla diffusione del virus. Chi prova vergogna per essersi ammalato di Covid tenta di autodifendersi mettendo in atto strategie come l’occultamento della sua positività al virus. Ma la conseguenza di questa strategia di difesa può ricadere proprio sulla condizione di contenimento della pandemia perché la gente non dichiara la propria positività per paura di essere giudicata male. Ecco perché è importante chiedere aiuto ad uno psicologo o psicoterapeuta per gestire la situazione.

Covid-positivi: come difendersi. Una persona che si ammala di coronavirus - anche se asintomatica - deve poter concentrare tutte le sue energie sulla guarigione senza doversi anche preoccupare dello stigma. “Non dobbiamo tradire noi stessi negando quello che ci sta succedendo altrimenti si rischia di interiorizzare lo stigma e poi se si cede alla tentazione di mentire negando la propria positività, questa bugia lavorerà a livello inconscio logorando psicologicamente il soggetto”. Come reagire, però, di fronte a chi ci allontana o ci teme perché magari, anche una volta guariti, sospetta di noi? “Prendiamola come una grande occasione per pesare la qualità delle nostre relazioni: una persona che ci allontana con la scusa dello stigma forse non è un buon amico. Quindi, non ci lascia soli ora: in effetti eravamo soli anche prima ma non ne eravamo consapevoli”.

Quei positivi irreperibili: è allarme sul tracciamento. La denuncia del direttore della Sanità della Regione Veneto Luciano Flor: “Vanno puniti, rischiano di infettare altre persone”. Ignazio Riccio, Martedì 05/01/2021 su Il Giornale. Spesso non rispondono al telefono o, peggio, forniscono numeri telefonici falsi per non essere rintracciati durante il periodo di quarantena. Il fenomeno è denunciato al Corriere del Veneto dal direttore della Sanità della Regione Luciano Flor. Non si tratta di episodi isolati, purtroppo sono in molti, positivi al Covid-19 o in attesa del responso del tampone in isolamento fiduciario, che per sfuggire alle rigide restrizioni imposte dal Governo si rendono irreperibili.“C’è la chiara volontà di eludere l’obbligo di restare a casa – dichiara al quotidiano veneto il direttore Flor – e di sottrarsi al controllo del servizio sanitario, col rischio di infettare altre persone”. L’obiettivo è stanare i “furbetti” con l’emanazione di provvedimenti specifici, ma non è semplice superare gli ostacoli di natura giuridica. Una sanzione esiste già nella normativa prevista dal Governo: l’ammenda che va dai 500 a mille euro, con conseguente segnalazione in Procura, scatta nel momento in cui il contagiato o la persona in isolamento fiduciario viene beccata fuori casa. Se non risponde al telefono non si può intervenire, poiché non si può provare che la persona interessata non sia nella propria abitazione, impossibilitata a ricevere la chiamata. Quello del Veneto è un caso limite, scoperto dalle istituzioni per il numero consistente di persone indisciplinate, ma, anche se non ci sono prove, è evidente che questa pratica accade in ogni parte d’Italia. Un modo di fare che evidenzia, ancora una volta, come per molti non sia chiara la situazione di emergenza che si sta vivendo in tutto il mondo per la pandemia da Coronavirus. “Stiamo studiando una possibile sinergia tra i Comuni e le forze dell’ordine – continua il direttore della Sanità del Veneto - a cui già i Servizi d’igiene trasmettono i nominativi e gli indirizzi degli infetti”. Ciò significa che se il telefono continua a squillare a vuoto, i vigili urbani o i carabinieri potrebbero recarsi in tempi veloci a casa della persona irreperibile e verificare l’eventuale trasgressione. “Abbiamo non decine – spiega Flor – ma centinaia e centinaia di casi in tutte le province di persone che si rendono non rintracciabili e ciò non è ammissibile”.

·        Morti per o morti con?

Da agi.it l'1 novembre 2021. In meno di due anni di pandemia, i decessi legati al Covid-19 nel mondo hanno raggiunto la quota dei cinque milioni. Il conteggio è della Johns Hopkins University, che riporta esattamente 5.000.425. A livello globale, il Covid-19 è ora la terza causa di morte nel mondo, dopo le malattie cardiache e l'infarto. Gli Stati Uniti guidano la triste classifica delle vittime da Covid con oltre 745 mila decessi. 

Da blitzquotidiano.it il 16 novembre 2021. Perché alcune persone muoiono di Covid e altre sopravvivono? Secondo gli scienziati è dovuto in gran parte ai geni. L’Oxford University ha individuato un segmento di DNA che impedisce alle cellule polmonari di combattere il virus. Il gene, chiamato LZTFL1, raddoppia il rischio di morire a causa del Covid. Secondo lo studio, più di un europeo su sei potrebbe avere questo gene. Situazione ancora più grave per le persone con un patrimonio genetico dell’Asia meridionale: ad avere LZTFL1 sarebbe il 62 per cento. Gli scienziati tuttavia sottolineano che il gene non è l’unico motivo. Circa il due per cento delle persone con antenati afro-caraibici aveva il genotipo a rischio più elevato, dimostrando che il legame genetico non poteva spiegare del tutto i tassi di mortalità più elevati riportati per le comunità etniche di colore e minoranze che vivono nel Regno Unito. Tra queste comunità ci sono molti altri fattori importanti che si ritiene contribuiscano a tassi di mortalità più elevati. Ad esempio, hanno maggiori probabilità di contrarre il Covid perché lavorano in posti di lavoro pubblici e vivono in famiglie multigenerazionali. Il co-conduttore dello studio James Davies ha dichiarato: “Chi ha il genotipo ad alto rischio e si ammala di una forma grave di Covid, con il genotipo a rischio più basso avrebbe avuto la probabilità del 50% di evitarla”.  Gli esperti hanno affermato che il gene probabilmente impedisce alle cellule che rivestono le vie aeree e i polmoni di rispondere correttamente al virus. 

E i vaccini?

Ma lo studio, pubblicato su Nature Genetics, ha scoperto che il gene non altera la funzione delle cellule immunitarie. Per questo motivo, il team ritiene che i vaccini elimineranno il rischio aggiuntivo. Davies, che durante la pandemia ha lavorato come consulente del SSN britannico in medicina di terapia intensiva, ha dichiarato: “L’effetto è nei polmoni e ciò significa che le persone con il genotipo ad alto rischio risponderanno al vaccino e non avranno problemi”.

Quei 28 milioni di anni che il virus ci ha rubato. Antonio Caperna il 7 Novembre 2021 su Il Giornale. Il "costo" in 31 Paesi evoluti nel 2020. Il Covid si è portato via nel 2020 oltre 28 milioni di anni di vita in più del previsto in 31 paesi a reddito medio-alto e alto. Ad eccezione di Taiwan, Nuova Zelanda, Danimarca, Islanda, Norvegia e Corea del Sud, tutti hanno avuto più morti premature del previsto, con un tasso più elevato negli uomini rispetto alle donne (17,3 milioni contro 10,8). I numeri più alti riguardano Russia, Stati Uniti e Bulgaria. E' quanto afferma uno studio, pubblicato l'altro giorno sul British Medical Journal, a firma di un team di ricercatori dell'Istituto Max Planck per la ricerca demografica di Rostock in Germania, del Laboratorio internazionale per la popolazione e la salute, della Scuola superiore di economia della National Research University di Mosca, del Centro di ricerca sul diabete all'Università di Leicester nel Regno Unito e delle tre maggiori università del mondo, ovvero Cambridge e Oxford in UK e Harvard in USA. In Italia «il Covid ha spazzato via più di un milione e mezzo di anni di vita, se ragioniamo in questo modo ci rendiamo conto del disastro che ha provocato- evidenzia Andrea Crisanti, direttore del Dipartimento di Microbiologia dell'Università di Padova- 3.800 è il numero dei morti» per Covid «che non avevano co-morbilità quindi non erano diabetici, non avevano ipertensione, non avevano tumori o altre situazioni di questo genere. Però noi non dobbiamo guardare a quel numero - prosegue - ma agli anni di aspettativa di vita che il Covid ha tolto a persone che avevano 75 anni e forse l'ipertensione ma che sarebbero vissuti altri 5 o addirittura 10 anni. Oggi - conclude - una persona di 65 anni col diabete e l'ipertensione o in sovrappeso ha un'aspettativa di vita anche di 15 anni. Se si prende il Covid nel 60-70% dei casi il virus lo uccide». Comprendere l'impatto completo della pandemia richiede non solo il conteggio dei decessi in eccesso (differenza tra il numero osservato e previsto di morti per tutte le cause), ma anche l'analisi di quanto siano prematuri tali decessi. Gli anni di vita persi misurano sia il numero di decessi che l'età in cui si verifica, rendendolo una valutazione più dettagliata dell'impatto del Covid sulle popolazioni. Confrontando l'aspettativa di vita osservata e gli anni di vita persi nel 2020 con quelli che ci si aspetterebbe in base alle tendenze storiche nel 2005-19 in 37 Paesi (Italia compresa) a reddito medio-alto e alto si è arrivati alla conclusione che gli anni di vita in eccesso persi a causa della pandemia nel 2020 sono stati più di 5 volte superiori (2.510 per 100mila) rispetto a quelli associati all'epidemia di influenza stagionale nel 2015 (458 per 100mila). Il più alto calo dell'aspettativa di vita (in anni) è stato in Russia (-2,33 negli uomini e -2,14 nelle donne), negli Stati Uniti (-2,27 negli uomini e -1,61 nelle donne) e Bulgaria (-1,96 negli uomini e -1,37 nelle donne). Antonio Caperna

Il nuovo Cts lavora nell'ombra. Nessun verbale online, alla faccia della trasparenza. Il Tempo l'11 maggio 2021. Comitato nuovo, abitudini vecchie. Come quella alla scarsa trasparenza. Già perché il Comitato tecnico-scientifico (Cts) che supporta il governo di Mario Draghi nella gestione dell'emergenza Covid fornendo le indicazioni scientifiche che, almeno in teoria, dovrebbero stare alla base delle misure contro la diffusione del Covid, è stato rinnovato il 16 marzo scorso con una nuova squadra guidata da Franco Locatelli, presidente del Consiglio superiore di Sanità del ministero della Salute, che ha preso il posto dell'ex coordinatore Agostino Miozzo. Ma la pubblicazione dei verbali delle riunioni in cui si discute del futuro degli italiani sul sito della Protezione civile è ferma al 12 marzo, ultimi lampi del primo Cts. Dopo le pressioni sulla divulgazione dei resoconti ci eravamo abituati a un ritardo di trenta-quaranta giorni tra lo svolgimento delle riunioni degli esperti e la pubblicazione dei resoconti. Ma qui si attende ancora il verbale della prima riunione e siamo ben oltre i tempi visti finora. Non è escluso che ci siano difficoltà tecniche e di "avvio" delle operazioni di segreteria, ma certo che la pubblicazione dei verbali ferma a marzo rappresenta un passo indietro notevole nella trasparenza dell'azione del Cts. Il nuovo Cts varato dopo la nascita del governo Draghi è formato da 12 componenti: il coordinatore è Locatelli, come portavoce è stato scelto invece Silvio Brusaferro, presidente dell'Istituto superiore di Sanità. Partecipano al Cts, Sergio Fiorentino (segretario), Giuseppe Ippolito, Cinzia Caporale, Giorgio Palù, Giovanni Rezza, Fabio Ciciliano, Sergio Abrignani, Alessia Melegaro, Alberto Giovanni Gerli, Donato Greco.  

Covid e pandemia dei non vaccinati, le bugie sono dannose e ingrossano il popolo no vax. Franco Bechis su Il Tempo il 06 novembre 2021. Il coordinatore del Cts, professore Franco Locatelli, ieri in conferenza stampa ha voluto platealmente sposare la tesi del ministro della Salute tedesco, Jens Spahn, secondo cui oggi saremmo in presenza di una “pandemia dei non vaccinati”. L'affermazione non è lontana dalla verità anche in Italia, perché è vero che la maggioranza dei ricoverati in terapia intensiva e dei decessi nell'ultimo mese secondo il bollettino Iss è effettivamente di non vaccinati. In terapia intensiva per Covid sono finiti in tutto 474 italiani dai 12 anni in su, e di questi 332 erano non vaccinati (70%), 128 avevano ricevuto due dosi di vaccino e 14 una sola dose. Sui decessi il confronto è ancora più risicato: fra il 3 settembre e il 3 ottobre sono stati in tutto 1.012 e di questi 511 erano di non vaccinati (50,49%), 461 di vaccinati con ciclo completo e 40 di vaccinati con una sola dose. Nella categoria degli ultraottantenni per altro il 57,5% dei decessi (337 ) è stato fra vaccinati a ciclo completo, il 3,8% (22) è stato fra vaccinati con una sola dose e solo il 38,7% (227) risultava del tutto non vaccinato. Sempre fra gli ultraottantenni nei 30 giorni indicati dal rapporto Iss non sono stati tantissimi per fortuna i ricoveri in terapia intensiva: in tutto 66. Ma il 68,2% di ultraottantenni finiti in terapia intensiva aveva doppia dose di vaccino da tempo, e solo il 30,3% non risultava vaccinata. Che la pandemia sia solo di non vaccinati è una verità dunque molto parziale visti questi numeri, e con i dati italiani la tesi di Spahn andrebbe presa molto a spanne. Dal professore Locatelli ci saremmo attesi spiegazioni su questi numeri che un po' inquietano, essendo lui lo scienziato, perché noi non sappiamo il motivo per cui i numeri delle ospedalizzazioni, dei ricoveri in terapia intensiva e purtroppo anche dei decessi fra completamente vaccinati sia diventato con il passare del tempo sempre meno irrilevante. Per gli ultraottantenni la spiegazione potrebbe essere quella che abbiamo già avanzato da queste colonne: puramente matematica. I vaccini hanno una protezione dal virus del 90%, quindi per il 10% dei vaccinati è come se quelle fiale non funzionassero del tutto o comunque parzialmente. Sopra quell'età hanno chiuso il ciclo vaccinale 4,3 milioni di italiani. Il 10% di loro significa quindi 430 mila italiani su cui il vaccino non ha avuto l'effetto protettivo che c'è stato fra tutti gli altri. Sono vaccinati, ma è come se non lo fossero. I veri non vaccinati ultraottantenni sono invece 240 mila, quasi la metà dei vaccinati con ciclo completo su cui le fiale però non hanno funzionato a dovere. E' ovvio che contagi, ospedalizzazioni, terapie intensive e purtroppo anche decessi capitino di più nel gruppo dei vaccinati che in quello dei non vaccinati. Ma per tutti gli altri sono gli scienziati a dovere dare spiegazioni: la protezione del vaccino sta scemando con il passare del tempo ed è per questo che è necessaria la seconda dose? La protezione dichiarata si è rivelata inferiore alle previsioni? O ci sono anche qui spiegazioni matematiche anche se meno evidenti? La scelta del nostro Cts ieri rappresentato dal professore Locatelli- che per altro è fra i pochi a essere definito scienziato, avendo uno dei più alti h-index in Italia, è stata quella di negare la realtà, per non doverla spiegare. Il coordinatore del comitato tecnico scientifico che assiste il governo ha affermato sicuro che dai rapporti Iss risultano “zero ricoveri in terapia intensiva di vaccinati completi dai 59 anni di età in giù”. Bisognerebbe apporre il timbro “Fake News” su queste parole, perché non sono vere. I rapporti Iss settimanali degli ultimi 140 giorni dicono che al di sotto dei 59 anni di età ci sono stati 44 ricoveri di vaccinati a ciclo completo in terapia intensiva Covid al di sotto dei 59 anni e che di questi 4 sono stati di pazienti fra 12 e 39 anni. Pochi, molti meno di quelli dei non vaccinati. Ma non zero. E dobbiamo dire che nello stesso periodo sono morti di Covid 3 vaccinati con prima e seconda dose che avevano meno di 39 anni e 29 vaccinati completi che avevano fra 40 e 59 anni. Numeri piccoli, per fortuna, lontanissimi da quelli cui siamo stati abituati nei periodi peggiori della pandemia. Sono numeri che per altro confermano che con il vaccino la protezione dal virus è notevolmente più alta e il rischio di ammalarsi gravemente notevolmente ridotto rispetto ai non vaccinati. Perché allora negarli e dire zero quando zero non è? Si pensa di tranquillizzare di più la popolazione così e di spingerla meglio a fare la terza dose del vaccino? Ecco, non sarà il mestiere del professore Locatelli fare il comunicatore, ma posso assicurare che ogni piccola bugia su queste cose si trasforma in un macigno che poi non levi dalla strada manco con le gru. Dire zero quando invece qualche decina di casi c'è stata è come buttare benzina sul fuoco delle paure o delle contrarietà ideologiche verso quei vaccini. Grazie alla conferenza stampa di ieri da domani quel fuoco scoppierà con fiamme più alte di prima.

Morti per covid: solo il 2,9% non aveva patologie pregresse; il 67,7% ne aveva 3 o più. Diego Torre venerdì 22 Ottobre 2021 su vocecontrocorrente.it. E’ appena uscito il nuovo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SARS-CoV-2 in Italia. Finalmente l’Istituto, dopo quasi due anni dall’esplosione del virus, è riuscito a completare lo studio su (soltanto) 7910 dei 130.000 italiani che hanno lasciato questo mondo da inizio pandemia. Decisamente un po’ pochini, dopo tanto tempo ci aspettavamo di più; ma sufficienti per dare un quadro statisticamente significativo. Almeno così ritiene l’Istituto, tanto che ne ha formulato e pubblicato il report.

Il rapporto riguarda persone che hanno avuto necessità di ricovero, è sul sito dell’Istituto e chiunque può leggerlo. Riportiamo le cifre dei pazienti affetti da patologie preesistenti, ovvero diagnosticate prima di contrarre il covid: 230 pazienti (2,9% del campione) ne presentavano 0 (zero), 902 pazienti (11,4%) ne presentavano 1, 1.424 pazienti (18,0%) ne presentavano 2 e 5.354 (67,7%) presentavano 3 o più patologie.

In sintesi dei 7910 ben 6788 pari al all’85.7% avevano almeno 2 patologie preesistenti. Nemmeno il 3% era affetto dal solo covid.

Ed erano patologie con cui c’è poco da scherzare:

65% Ipertensione arteriosa

31% Diabete mellito

31% Cardiopatia ischemica

24% Fibrillazione atriale

19.5% BroncoPneumopatia Cronica Ostruttiva

E ancora: scompenso cardiaco, ictus, ipertensione arteriosa, demenza, epatopatia cronica, cancro negli ultimi 5 anni, infezione da HIV ed obesità.

Su tante sofferenze si è poi abbattuto il covid, completando l’opera distruttiva in corso. L’età media dei decessi è di anni 80.

Allo scorrere di queste cifre sarà lecito far seguire una domanda che ci attanaglia sin dall’inizio: ma si muore per il covid o si muore con il covid? Che il maledetto virus sia dannoso non vi è ombra di dubbio, ma che prima di lui altri terribili malanni abbiano aperto la strada alla morte non solo è certo ma è avvenuto in misura esorbitante. I morti da solo covid in quel campione sono appena il 2,9% del totale. Facendo le debite proporzioni, rispetto ai 130.000 denunciati, i morti di “solo” covid sarebbero meno di 4.000. La verità emerge prepotente con la forza dei numeri! Il covid è una bestia meno brutta di come la si dipinge. E le nostre autorità sanitarie e politiche non sono state all’altezza del ruolo. E non lo sono neanche ora se si ostinano a negare la validità di quelle cure domiciliari che hanno dato ottimi risultati, e continuano stolidamente a ripeterci che “solo il vaccino salva”. Eppure apprendiamo dal “Rapporto sulla Sorveglianza dei vaccini COVID-19”, redatto mensilmente dall’AIFA, che i defunti segnalati per eventi successivi alla vaccinazione hanno l’età media di 48 anni. Sarà ancora lecito porsi delle domande o dobbiamo continuare a credere a tutto ciò che governo, massmedia e “scienziati” ci raccontano? Quid est veritas?

PS: i dati numerici riportati nel testo non sono forniti da fanatici novax , ma da organismi governativi:

Istituto Superiore della Sanità, organo tecnico-scientifico del Servizio Sanitario Nazionale di cui si avvale il Ministero della Salute.

Agenzia Italiana del Farmaco, che opera sotto la direzione e la vigilanza del Ministero della salute e del Ministero dell’economia e delle finanze.   

Morti per Covid: età, vaccini, patologie. Il report Iss sui casi 2021. Laura Cuppini su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2021. Tra i non vaccinati l’età media dei deceduti è più bassa (78,3 vs 85,5), così come è minore il numero di malattie croniche preesistenti. Tra coloro che hanno ricevuto il ciclo vaccinale completo contro Covid, sono morte solo alcune persone molto anziane e con patologie pregresse. Tra i non vaccinati l’età media dei deceduti è più bassa (78,3 vs 85,5), così come è minore il numero di malattie croniche (3,9 vs 5). A dirlo è il report periodico dell’Istituto Superiore di Sanità sui decessi, basato su 671 cartelle cliniche registrate tra febbraio e ottobre di quest’anno. Un’ulteriore prova della protezione offerta dai vaccini anche nei soggetti fragili.

Cardiopatie, demenza e cancro

Tra l’1 febbraio e il 5 ottobre sono morte in Italia 38.096 persone positive a Sars-CoV-2: 33.620 non avevano ricevuto alcuna dose di vaccino e 1.440 erano stati vaccinati con ciclo completo (3,7% di tutti i decessi Sars-CoV-2 positivi avvenuti nel periodo considerato). Gli altri sono classificati come «vaccinati con contagio precoce», ovvero prima di completare il ciclo di vaccinazione o in un periodo in cui questa non era ancora stata stimolata una risposta immunitaria specifica. Tra i vaccinati, le patologie che hanno fatto salire di più il rischio di decesso sono le cardiopatie (cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco), la demenza e il cancro.

Ridotta risposta immunitaria

«Le persone decedute dopo il completamento del ciclo vaccinale hanno un elevato livello di complessità clinica, significativamente superiore rispetto alle persone che non hanno potuto beneficiare dell’effetto del vaccino a causa di un contagio precoce o perché non hanno neanche iniziato il ciclo vaccinale — ha spiegato Graziano Onder, direttore del dipartimento di Malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e invecchiamento dell’Iss —. È possibile ipotizzare che i pazienti molto anziani e con numerose patologie possono avere una ridotta risposta immunitaria e pertanto essere suscettibili all’infezione da Sars-CoV-2 e alle sue complicanze pur essendo stati vaccinati. Queste persone, molto fragili e con una ridotta risposta immunitaria, sono quelle che possono maggiormente beneficiare di una copertura vaccinale dell’intera popolazione».

Donne e uomini

Il report descrive inoltre le caratteristiche dei 130.468 pazienti deceduti e positivi al coronavirus dall’inizio della sorveglianza al 5 ottobre 2021. L’età media è 80 anni e le donne decedute sono il 43,5% (circa 56.800). Solo tra gli over 90 il numero di decessi di sesso femminile è superiore a quelli di sesso maschile, dato che la popolazione in questa fascia è costituita per circa il 72% da donne. Complessivamente, le donne decedute avevano un’età più alta rispetto agli uomini (85 contro 80). Tra gli under 50 i decessi sono stati l’1,2% (1.601). In particolare, 399 avevano meno di 40 anni (245 uomini e 154 donne). L’età mediana dei pazienti deceduti è più alta di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (82 anni contro 45).

L’andamento dell’età media

Nel documento viene inoltre mostrato l’andamento dell’età media dei pazienti deceduti per settimana di calendario, a partire dalla terza settimana di febbraio 2020 (il primo decesso è avvenuto il 20 febbraio dello scorso anno). L’età media dei decessi settimanali è andata aumentando fino agli 85 anni (prima settimana di luglio 2020), per poi calare leggermente; un’ulteriore riduzione dell’età media dei decessi si è verificata a partire da febbraio-marzo 2021 (80 anni), fino a raggiungere i 72 anni nella seconda settimana di luglio 2021. Verosimilmente una conseguenza dell’effetto protettivo delle vaccinazioni, garantite in via prioritaria alla popolazione più anziana. Dalla seconda settimana di luglio l’età media dei decessi è aumentata leggermente, restando comunque sotto gli 80 anni.

Patologie croniche preesistenti

Gli esperti dell’Iss hanno fatto il punto sulle più comuni patologie croniche preesistenti (diagnosticate prima di contrarre l’infezione) in un campione di 7.910 pazienti ricoverati e deceduti negli ospedali di diverse Regioni. Complessivamente, 230 pazienti (2,9% del campione) non avevano patologie, 902 (11,4%) avevano una patologia, 1.424 (18%) ne avevano due e 5.354 (67,7%) tre o più. La prevalenza di cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, ictus, ipertensione arteriosa, demenza, aumentano con le età; diminuiscono, invece, con l’avanzare dell’età, i casi di epatopatia cronica, patologie per cui è necessaria la dialisi, infezione da Hiv e obesità; per diabete, Bpco (Broncopneumopatia cronica ostruttiva) e tumore si riscontra una diminuzione solo nell’ultima fascia di età in controtendenza alla generale crescita con l’età; per malattie autoimmuni, al contrario, si riscontra un aumento solo nell’ultima fascia di età in controtendenza alla diminuzione con l’età.

Le complicanze di Covid

Per quanto riguarda le complicanze legate all’infezione da Sars-CoV-2, ad eccezione delle complicanze respiratorie che sono presenti in maniera omogenea in tutte le fasce di età, le complicanze non respiratorie sono risultate più comuni nei deceduti under 70. Questo dato indica che nella popolazione più giovane, che presenta un minor numero di patologie croniche, il decesso è spesso associato alla compresenza di complicanze respiratorie e non respiratorie dell’infezione. L’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente riportata nel campione analizzato (93,6%), seguita da danno renale acuto (24,9%), sovrainfezione (20,1%) e danno miocardico acuto (10,2%).

Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all'infezione da SARS-CoV-2 in Italia. Da epicentro.iss.it. Data di ultimo aggiornamento: 19 ottobre 2021. Data di creazione della pagina: 27 marzo 2020.

Report sulle caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all'infezione da SARS-CoV-2 in Italia Aggiornamento del 5 ottobre 2021

Caratteristiche decessi SARS-COV-2 positivi con “ciclo vaccinale completo”

1. Caratteristiche demografiche dei deceduti

Il presente report descrive le caratteristiche di 130.468 pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 in Italia dall’inizio della sorveglianza al 5 ottobre 2021 riportati dalla Sorveglianza Integrata COVID-19 coordinata dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS). 

L’età media dei pazienti deceduti e positivi a SARS-CoV-2 è 80 anni (mediana 82, range 0-109, Range InterQuartile-IQR (1° quartile=74; 3° quartile=88)). Le donne decedute sono 56.792 (43,5%). L’età mediana dei pazienti deceduti positivi a SARS-CoV-2 è più alta di oltre 35 anni rispetto a quella dei pazienti che hanno contratto l’infezione (pazienti deceduti: età mediane 82 anni; pazienti con infezione: età mediana 45 anni). 

La figura mostra il numero dei decessi per fascia di età. Solo nella fascia di età ≥90 anni il numero di decessi di sesso femminile è superiore a quelli di sesso maschile. Questo dato è da mettere in relazione al fatto che la popolazione di età ≥90 anni in Italia è costituita per circa il 72% da donne. Complessivamente, le donne decedute dopo aver contratto infezione da SARS-CoV-2 hanno un’età più alta rispetto agli uomini (età mediane: donne 85 anni – uomini 80 anni). 

Al 5 ottobre 2021 sono 1.601, dei 130.468 (1,2%), i pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi di età inferiore ai 50 anni. In particolare, 399 di questi avevano meno di 40 anni (245 uomini e 154 donne con età compresa tra 0 e 39 anni).

Numero di decessi per fascia di età

La figura successiva mostra l’andamento dell’età media dei pazienti deceduti positivi a SARS-CoV-2 per settimana di calendario, a partire dalla 3° settimana di febbraio 2020 (la data del primo decesso risale al 20 febbraio 2020). L’età media dei decessi settimanali è andata sostanzialmente aumentando fino agli 85 anni (1° settimana di luglio 2020) per poi calare leggermente; un’ulteriore riduzione dell’età media dei decessi è stata rilevata a partire dai mesi di febbraio-marzo 2021 (80 anni nella 2° settimana di febbraio 2021), fino a raggiungere i 72 anni nella 2° settimana di luglio 2021. Questa riduzione nell’età media dei decessi è verosimilmente conseguenza dell’effetto protettivo delle vaccinazioni nella popolazione più anziana cui è stata data priorità nell’ambito del “Piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni da SARS-CoV-2”. Dalla seconda settimana di luglio 2021 l’età media dei decessi è aumentata leggermente restando comunque sotto gli 80 anni. Si segnala che i dati delle ultime settimane di osservazione devono essere consolidati e pertanto potrebbero subire variazioni. 

Età media dei pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi 

2. Patologie preesistenti in un campione di deceduti

L'istogramma presenta le più comuni patologie croniche preesistenti (diagnosticate prima di contrarre l’infezione) in un campione di pazienti deceduti. Questo dato è stato ottenuto da 7.910 deceduti per i quali è stato possibile analizzare le cartelle cliniche. Le cartelle cliniche sono inviate all’ISS dagli ospedali secondo tempistiche diverse, compatibilmente con le priorità delle attività svolte negli ospedali stessi. Il campione è quindi di tipo opportunistico, rappresenta solo i decessi in soggetti che hanno avuto necessità del ricovero, e le Regioni sono rappresentate cercando di conservare una proporzionalità rispetto al numero di decessi. Il numero medio di patologie osservate in questa popolazione è di 3,7 (mediana 3, Deviazione Standard 2,1). Complessivamente, 230 pazienti (2,9% del campione) presentavano 0 patologie, 902 (11,4%) presentavano 1 patologia, 1.424 (18,0%) presentavano 2 patologie e 5.354 (67,7%) presentavano 3 o più patologie.

Numero di patologie

3. Complicanze

L’insufficienza respiratoria è stata la complicanza più comunemente riportata nel campione di deceduti per cui sono state analizzate le cartelle cliniche (93,6%), seguita da danno renale acuto (24,9%), sovrainfezione (20,1%) e danno miocardico acuto (10,2%). 

4. Caratteristiche decessi per fascia di età

La tabella presenta le più comuni patologie croniche preesistenti e le complicanze legate all’infezione da SARS-CoV-2 nei pazienti deceduti distinte in 4 fasce di età (16-59, 60-69, 70-79, 80+ anni). Le prevalenze di cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, ictus, ipertensione arteriosa, demenza, aumentano con le età; diminuiscono, invece, con l’avanzare dell’età, le prevalenze di epatopatia cronica, delle patologie per cui è necessaria la dialisi, di infezione da HIV e di obesità; per diabete, BPCO e tumore si riscontra una diminuzione solo nell’ultima fascia di età in controtendenza alla generale crescita con l’età; per malattie autoimmuni, al contrario, si riscontra un aumento solo nell’ultima fascia di età in controtendenza alla diminuzione con l’età. Per quanto riguarda il numero di patologie, la prevalenza di coloro che hanno 3 o più patologie aumenta con le età, mentre diminuiscono con le età le prevalenze di coloro che hanno meno di 3 patologie. Per tutte le patologie considerate il trend è statisticamente significativo. Per quello che riguarda le complicanze legate all’infezione da SARS-CoV-2 è possibile osservare come a eccezione delle complicanze respiratorie che sono presenti in maniera omogenea in tutte le fasce di età, le complicanze non respiratorie sono più comunemente osservate nei deceduti di età <70 anni. Questo dato indica che, se nelle persone molto anziane i decessi nei SARS-CoV-2 positivi sono legati a una maggiore vulnerabilità causata dalle patologie preesistenti, nella popolazione più giovane, che presenta un minor numero di patologie croniche, il decesso è spesso associato alla compresenza di complicanze respiratorie e non respiratorie dell’infezione. 

5. Descrizione dei tempi legati al ricovero in un campione di deceduti

Il grafico mostra, nel campione di pazienti deceduti SARS-CoV-2 positivi per cui sono state analizzate le cartelle cliniche (N=7.910), i tempi mediani in giorni tra: la data dell’insorgenza dei sintomi e la data del decesso (13 giorni); la data dell’insorgenza dei sintomi e quella del ricovero in ospedale (5 giorni); la data del ricovero in ospedale e quella del decesso (8 giorni). Il tempo intercorso dal ricovero in ospedale al decesso era di 6 giorni più lungo in coloro che venivano trasferiti in rianimazione rispetto a quelli che non venivano trasferiti (13 giorni contro 7 giorni). Se restringiamo la valutazione agli ultimi 6 mesi, notiamo come sia aumentato il tempo mediano dall’insorgenza dei sintomi al decesso, in particolare per coloro che vengono ricoverati in rianimazione; si è ridotto il tempo mediano dall’insorgenza dei sintomi al ricovero in ospedale. Questi dati sono indicativi di un miglioramento nella capacità diagnostica e nell’organizzazione delle cure ai pazienti SARS-CoV-2 positivi.

6. Confronto caratteristiche decessi SARS-COV-2 positivi nei ‘non vaccinati-nessuna dose’, nei ‘vaccinati con contagio precoce’ e in quelli con ‘ciclo vaccinale completo’. Dal 01/02/2021 al 05/10/2021 sono 38.096 i decessi SARS-COV-2 positivi. Tra questi 1.440 sono i decessi SARS-COV-2 positivi in vaccinati con ‘ciclo vaccinale completo’ (3,7% di tutti i decessi SARS-COV-2 positivi nel periodo in esame). 

La tabella seguente presenta le caratteristiche cliniche più comuni nei pazienti deceduti SARS-COV-2 positivi ‘non vaccinati-nessuna dose’, in quelli ‘vaccinati con contagio precoce’ e in quelli con ‘ciclo vaccinale completo’: patologie croniche preesistenti e complicanze. 

In questa analisi sono classificati come ‘non vaccinati-nessuna dose’ i deceduti con tampone positivo per SARS-CoV2 documentato che non avevano ancora ricevuto alcuna dose di vaccino di qualsiasi tipo. Questi sono soggetti che hanno contratto l’infezione prima della vaccinazione. 

Sono classificati come ‘vaccinati con contagio precoce’ i deceduti con tampone positivo per SARS-CoV2 documentato entro 14 giorni dopo l’inizio del ciclo vaccinale (quindi entro 14 giorni immediatamente successivi la prima dose dei vaccini Pfizer-Biontech, Moderna e AstraZeneca o nei 14 giorni immediatamente successivi l’unica dose per il vaccino Janssen/Johnson&Johnson). Questi sono soggetti che hanno contratto l’infezione prima di completare il ciclo di vaccinazione o in un periodo in cui questa non aveva ancora stimolato una risposta immunitaria specifica tale da ridurre la suscettibilità all’infezione. 

Sono classificati come ‘vaccinati con ciclo completo’ tutti i decessi con una diagnosi confermata di infezione da virus SARS-CoV2 documentata dopo 14 giorni dal completamento del ciclo vaccinale (quindi 14 giorni dal completamento della seconda dose per i vaccini Pfizer-BioNtech, Moderna e Astra Zeneca o 14 giorni dalla somministrazione dell’unica dose per il vaccino Janssen/Johnson&Johnson). Questa definizione è in linea con quanto suggerito del Center for Disease Control and Prevention (CDC) negli Stati Uniti. Un ciclo vaccinale completo non garantisce comunque una efficacia vaccinale del 100%. Infatti, gli studi clinici controllati hanno evidenziato una efficacia vaccinale dei vaccini in uso in Italia con valori tra l’88 e il 97% (“Epidemia COVID-19. Aggiornamento nazionale 29 settembre 2021”). 

Questo tipo di analisi viene proposta con l’intenzione di paragonare i deceduti SARS-COV-2 positivi a "ciclo vaccinale completo" con due campioni di deceduti SARS-COV-2 positivi: coloro che non avevano ricevuto alcuna dose di vaccino e coloro che, pur avendo ricevuto una dose di vaccino, non hanno potuto godere dei benefici dello stesso in quanto hanno contratto l’infezione prima di completare la vaccinazione o in un periodo in cui questa non aveva ancora stimolato una risposta immunitaria specifica tale da ridurre la suscettibilità all’infezione. Questo ultimo gruppo, definito come ‘vaccinati con contagio precoce’, è pertanto assimilabile da un punto di vista biologico alla popolazione di non vaccinati. Attraverso il paragone tra deceduti ‘vaccinati con contagio precoce’ e con "ciclo vaccinale completo" viene ridotto il possibile bias legato al fatto che inizialmente sia stata data priorità vaccinale alle persone molto anziane e fragili. 

Per questa analisi è stata scelta la data dello 01/02/2021 come data indice perché corrisponde alle cinque settimane necessarie per il completamento del ciclo vaccinale a partire dall’inizio della campagna vaccinale avvenuto il 27/12/2020. 

Fino al 05/10/2021 sono 33.620 i decessi SARS-COV-2 positivi in coloro che non avevano ancora ricevuto alcuna dose di vaccinazione (‘non vaccinati-nessuna dose’), 2.130 i decessi SARS-COV-2 positivi in ‘vaccinati con contagio precoce’ e 1.440 i decessi SARS-COV-2 positivi in vaccinati con ‘ciclo vaccinale completo’ (3,7% di tutti i decessi SARS-COV-2 positivi avvenuti nel periodo dal 01/02/2021 al 05/10/2021). Si segnala che questo dato non può fornire informazioni circa l’efficacia della vaccinazione ma viene fornito con finalità puramente descrittive. Si segnala inoltre che al 05/10/2021 erano 42.835.902 le persone vaccinate con ciclo completo (14 giorni dal completamento della seconda dose per i vaccini Pfizer-BioNtech, Moderna e Astra Zeneca o 14 giorni dalla somministrazione dell’unica dose per il vaccino Janssen/Johnson&Johnson). 

L’analisi qui presentata è basata su un campione di 671 cartelle cliniche relative ai decessi ‘non vaccinati-nessuna dose’ (2,0% dei 33.620 decessi SARS-COV-2 positivi in ‘non vaccinati-nessuna dose’),  239 cartelle cliniche relative ai decessi ‘vaccinati con contagio precoce’ (11,2% dei 2.130 decessi SARS-COV-2 positivi in ‘vaccinati con contagio precoce’) e di 171 cartelle cliniche dei decessi con ‘ciclo vaccinale completo’ (11,9% dei 1.440 decessi SARS-COV-2 positivi in vaccinati con ‘ciclo vaccinale completo’) avvenuti fino al 05/10/2021. 

Rispetto ai deceduti ‘non vaccinati-nessuna dose’ quelli con ‘ciclo vaccinale completo’ avevano un’età media notevolmente superiore (85,5 vs 78,3). Il numero medio di patologie osservate è significativamente più alto nel gruppo di vaccinati con ‘ciclo vaccinale completo’ (5,0 vs 3,9 patologie pre-esistenti) ed in particolare la presenza di cardiopatie (cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale e scompenso cardiaco), di demenza e di cancro si è dimostrato più alto in questo campione; il contrario accade per l’obesità. Inoltre, nella popolazione di ‘vaccinati a ciclo completo’ il decesso avviene più frequentemente come conseguenza di complicanze extrarespiratorie (danno miocardico acuto) e meno frequentemente per insufficienza respiratoria. 

Rispetto ai deceduti ‘vaccinati con contagio precoce’ quelli con ‘ciclo vaccinale completo’ avevano un’età media leggermente superiore (85,5 vs 83,9). Il numero medio di patologie osservate è comunque più alto nel gruppo di vaccinati con ‘ciclo vaccinale completo’ (5,0 vs 4,1 patologie preesistenti), ancora più presenti in questo campione la cardiopatia ischemica, lo scompenso cardiaco ed il cancro; meno presente l’obesità. Similmente al confronto precedente, nella popolazione di ‘vaccinati a ciclo completo’ il decesso avviene più frequentemente come conseguenza di complicanze extrarespiratorie (danno miocardico acuto soprattutto) e meno frequentemente per insufficienza respiratoria. 

Anche in questo caso, come per l’analisi dei decessi presentata nei paragrafi da 2 a 6, si segnala che il campione è di tipo opportunistico, rappresenta solo i decessi avvenuti in soggetti che hanno avuto necessità del ricovero in ospedale e si riferisce al campione per cui sono disponibili cartelle cliniche inviate all’ISS dagli ospedali. In questo contesto occorre segnalare che l’età media nel campione di cartelle cliniche dei decessi ‘non vaccinati-nessuna dose’ è di 78,3 contro un’età media di tutti i decessi appartenenti a questo gruppo di 77,9; l’età media dei ‘vaccinati con contagio precoce’ è di 83,9 anni contro un’età media di tutti i decessi appartenenti a questo gruppo di 82,4 anni e l’età media nel campione di cartelle cliniche dei decessi con ‘ciclo vaccinale completo’ è 85,5 anni contro un’età media di 84,0 delle persone decedute nelle stesse condizioni vaccinali nella popolazione. La proporzione di donne nel campione di cartelle cliniche analizzate nel gruppo dei decessi ‘non vaccinati-nessuna dose’ è di 42,3% contro il 42,0% nella popolazione; quella dei decessi ‘vaccinati con contagio precoce’ è 39,7% contro il 41,8% nella popolazione e quella dei decessi con ‘ciclo vaccinale completo’ è 43,3% a fronte del 44,2% nella popolazione. 

I risultati qui presentati indicano chiaramente che le persone decedute dopo il completamento del ciclo vaccinale hanno un elevato livello di complessità clinica, significativamente superiore rispetto alle persone che non hanno potuto beneficiare dell’effetto del vaccino a causa di un contagio precoce o perché non hanno neanche iniziato il ciclo vaccinale. È possibile ipotizzare che i pazienti molto anziani e con numerose patologie possono avere una ridotta risposta immunitaria e pertanto essere suscettibili all’infezione da SARS-CoV-2 e alle sue complicanze pur essendo stati vaccinati. Queste persone molto fragili e con una ridotta risposta immunitaria, sono quelle che possono maggiormente beneficiare di una ampia copertura vaccinale dell’intera popolazione in quanto ciò ridurrebbe ulteriormente il rischio di infezione. 

Tabella 1. Caratteristiche cliniche osservate nei pazienti deceduti SARS-COV-2 positivi ‘vaccinati con contagio precoce’ e con “ciclo vaccinale completo”. 

Sulla base delle indicazioni emanate dal Ministero della Salute nella Circolare pubblicata il 25 febbraio 2020 (protocollo 0005889-25/02/2020), la certificazione di decesso a causa di COVID-19 deve essere accompagnata da parere dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS). Per questo motivo, è stato creato un gruppo di lavoro dedicato allo studio delle cause di morte dei pazienti deceduti che risultavano positivi all’infezione da SARS-CoV-2.

L’analisi si basa sui dati contenuti nelle cartelle cliniche e nelle schede di morte ISTAT recanti le cause di decesso di questi pazienti. La raccolta dati avviene tramite la piattaforma web covid-19.iss.it, già utilizzata dalla sorveglianza nazionale, epidemiologica e virologica, dei casi di COVID-19 in Italia (coordinata dall’ISS e attivata dalla Circolare ministeriale del 22 gennaio 2020, n.1997). 

Per informazioni è possibile mandare un’e-mail all’indirizzo di posta elettronica decessicovid-19@iss.it o contattare il dott. Graziano Onder (Direttore del Dipartimento Malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e invecchiamento, ISS) al numero di telefono: 06/49904231. 

Rapporto ISS-ISTAT

il rapporto “Impatto dell'epidemia COVID-19 sulla mortalità: cause di morte nei deceduti positivi a SARS-CoV-2” (pdf 1,1 Mb) realizzato da ISS e ISTAT il 16 luglio 2020 che presenta un’analisi approfondita delle malattie presenti sulle schede di morte di soggetti diagnosticati microbiologicamente tramite tampone rino/orofaringeo positivo al SARS-CoV-2.

il rapporto “Impatto dell'epidemia COVID-19 sulla mortalità totale della popolazione residente. Periodo gennaio-maggio 2020” (pdf 1,1 Mb) realizzato da ISS e ISTAT che presenta un’analisi della mortalità totale e dei soggetti positivi al COVID-19 deceduti nel mese di maggio 2020 e un aggiornamento delle analisi relative al periodo gennaio-aprile 2020, già oggetto del secondo Rapporto.

il rapporto “Impatto dell'epidemia COVID-19 sulla mortalità totale della popolazione residente primo quadrimestre 2020” (pdf 1 Mb) realizzato da ISS e ISTAT per fornire una lettura integrata dei dati epidemiologici di diffusione dell’epidemia di COVID-19 e dei dati di mortalità totale acquisiti e validati da ISTAT. Il documento presenta un’analisi della mortalità totale e dei soggetti positivi al COVID-19 deceduti nel mese di aprile 2020 e un aggiornamento delle analisi relative al periodo gennaio- marzo 2020, già oggetto del primo Rapporto.

il rapporto “Impatto dell’epidemia COVID-19 sulla mortalità totale della popolazione residente primo trimestre 2020” (pdf 1,4 Mb) realizzato da ISS e ISTAT per fornire una lettura integrata dei dati epidemiologici di diffusione dell’epidemia di COVID-19 e dei dati di mortalità totale acquisiti e validati da ISTAT. 

Risorse utili

la Circolare 0005889-25/02/2020 (pdf 200 kb) pubblicata dal Ministero della Salute il 25 febbraio 2020

la pagina di EpiCentro dedicata alla sorveglianza nazionale, epidemiologica e virologica, dei casi di COVID-19 in Italia

Data di ultimo aggiornamento: 19 ottobre 2021

Data di creazione della pagina: 27 marzo 2020

Report prodotto dal Gruppo della Sorveglianza dei Decessi SARS-CoV-2: Luigi Palmieri, Elvira Agazio, Pierfrancesco Barbariol, Antonino Bella, Eva Benelli, Luigi Bertinato, Matilde Bocci, Stefano Boros, Marco Bressi, Giovanni Calcagnini, Marco Canevelli, Federica Censi, Alessandra Ciervo, Elisa Colaizzo, Roberto Da Cas, Martina Del Manso, Corrado Di Benedetto, Chiara Donfrancesco, Massimo Fabiani, Francesco Facchiano, Marco Floridia, Fabio Galati, Marina Giuliano, Tiziana Grisetti, Cecilia Guastadisegni, Ilaria Lega, Cinzia Lo Noce, Pietro Maiozzi, Valerio Manno, Margherita Martini, Marco Massari, Alberto Mateo Urdiales, Eugenio Mattei, Claudia Meduri, Paola Meli, Francesca Menniti Ippolito, Giada Minelli, Lorenza Nistic

Gran pasticcio nel rapporto sui decessi. Per l'Iss gran parte dei morti non li ha causati il Covid. Franco Bechis su Il Tempo il 21 ottobre 2021. Secondo il nuovo rapporto (che non veniva aggiornato da luglio) dell'Istituto superiore di Sanità sulla mortalità per Covid, il virus che ha messo in ginocchio il mondo avrebbe ucciso assai meno di una comune influenza. Sembra un'affermazione strampalata e da no vax, ma secondo il campione statistico di cartelle cliniche raccolte dall'istituto solo il 2,9% dei decessi registrati dalla fine del mese di febbraio 2020 sarebbe dovuto al Covid 19. Quindi dei 130.468 decessi registrati dalle statistiche ufficiali al momento della preparazione del nuovo rapporto solo 3.783 sarebbero dovuti alla potenza del virus in sé. Perché tutti gli altri italiani che hanno perso la vita avevano da una a cinque malattie che secondo l'Iss dunque lasciavano già loro poca speranza. Addirittura il 67,7% ne avrebbe avuto insieme più di tre malattie contemporanee, e il 18% almeno due insieme. Ora personalmente conosco tanta gente, ma nessuno che abbia la sfortuna di avere cinque malattie gravi nello stesso tempo. Vorrei fidarmi dei nostri scienziati, poi vado a leggere i malanni elencati che sarebbero ragione non secondaria della perdita di tanti italiani e qualche dubbio da profano comincio a nutrire. Secondo l'Iss il 65,8% degli italiani che non ci sono più dopo essere stati infettati dal Covid era malato di ipertensione arteriosa, e cioè aveva la pressione alta. Il 23,5% era anche demente, il 29,3% aggiungeva ai malanni un po' di diabete, il 24,8% pure fibrillazione atriale. E non basta: il 17,4% aveva già i polmoni ammalati, il 16,3% aveva avuto un cancro negli ultimi 5 anni; il 15,7% soffriva di scompenso cardiaco, il 28% aveva una cardiopatia ischemica, il 24,8% soffriva di fibrillazione atriale, più di uno ogni dieci era anche obeso, più di uno su dieci aveva avuto un ictus, e altri ancora sia pure in percentuale più ridotta aveva problemi gravi al fegato, dialisi e malattie auto-immuni. Sarà tutto vero, non metto in dubbio i nostri scienziati. Ma se non è il virus ad uccidere gli italiani, allora mi spiegate perché la scienza ha imposto tutto quello che abbiamo visto in questo anno e mezzo abbondante? Dalle mascherine, al distanziamento, al lockdown e così via? E come facevamo ad avere quasi 126 mila italiani ridotti in quelle condizioni con 3, 4 o 5 malattie gravi, destinati comunque ad andarsene se anche non fosse mai esistito il coronavirus in poco tempo? Quei numeri sarebbero un atto di accusa clamoroso nei confronti del sistema sanitario italiano da cui pure provengono. Uso il condizionale perché qualche dubbio ho su quel che viene scritto fin dal primo giorno in quel rapporto. Che risente come ogni comunicazione dell'Iss o del Cts delle direttive governative fornite via via durante i mesi, che sono state il vero e unico faro di quelli che continuiamo a chiamare “scienziati”. All'inizio il governo allora in carica, quello di Giuseppe Conte, mentre l'Italia mostrava di essere il paese del mondo più impreparato e pure incapace di affrontare la pandemia, chiedeva dati per tranquillizzare gli italiani. E ricordo bene le conferenze stampa settimanali Iss e protezione civile in cui questi decessi venivano sempre minimizzati, ponendo sempre l'accento sulle molte patologie riscontrate in chi non ce l'aveva fatta. Bisognava dire che questo virus non uccideva in sé, ma accompagnato ad altri malanni in persone fragili poteva affrettare una fine che comunque era vicina. Poi in periodo di campagna vaccinazioni l'esigenza governativa è diventata quella diametralmente opposta: drammatizzare e spingere chiunque verso la salvezza delle fiale messe a disposizione. Ma si sono dimenticati di aggiornare le istruzioni sul rapporto mortalità, che ha seguito nella sua pubblicazione sempre più diradata nel tempo e mai tambureggiata, l'impostazione data all'inizio. Una gran confusione dunque, che alimenta anche paure e irrigidisce resistenze ancora di qualche milione di italiani che alla vaccinazione ha scelto di sottrarsi. Forse con un po' meno propaganda, meno rigidità e più informazione corretta tutto questo non sarebbe così...

Covid, l’Iss: “Non è vero che solo il 2,9 per cento dei morti contagiati è dovuto al virus”. ANSA il 26 ottobre 2021. Covid: -7 in terapia intensiva, +53 i ricoveri. «Non è vero che solo il 2,9% dei decessi attribuiti a Covid-19 è dovuto al virus». L'Istituto superiore di sanità (Iss) torna sui dati contenuti nel suo ultimo report sui decessi Covid, in cui si davano dati anche sull'alta presenza di malattie croniche nelle vittime della pandemia, respingendo alcune tesi circolate a livello mediatico, basate su interpretazioni ritenute dall'Istituto non corrette. Il primo chiarimento riguarda proprio la citata percentuale del 2,9%, una percentuale «peraltro riportata anche nelle edizioni precedenti» del rapporto. A questo proposito l'Iss dunque ne chiarisce il significato e puntualizza che 2,9% «si riferisce alla percentuale di pazienti deceduti con positività per Sars-CoV-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell'infezione. La cifra peraltro è confermata dall'osservazione fatta fin dalle prime fasi della pandemia e ampiamente riportata in diversi studi nazionali e internazionali e rapporti anche dell'Iss», e cioè che «avere patologie preesistenti costituisce un fattore di rischio». Quello che in realtà i rapporti congiunti Istat-Iss stilati sulla base dei certificati di morte riportano è un altro dato, che mostra come «Covid-19 sia la causa direttamente responsabile della morte nell'89% dei decessi di persone positive al test Sars-CoV-2», tiene a precisare l'Istituto. Altra puntualizzazione riguarda la visione secondo cui avere delle patologie pregresse equivale necessariamente a un epilogo fatale come destino immediato: «Non è corretto - scrive l'Iss - affermare che le patologie riscontrate nei deceduti Sars-CoV-2 positivi avrebbero comunque portato a decesso 'in tempi brevi'. Indipendentemente da Covid-19, la presenza di patologie croniche nella popolazione anziana è molto comune. Un recente rapporto dell'Istat indica che solo il 15% non ne soffrirebbe e che circa il 52% soffrirebbe di 3 o più patologie croniche. In considerazione del fatto che le patologie croniche rappresentano un fattore di rischio per decesso da Covid, e che queste sono molto comuni nella popolazione generale, non deve sorprendere l'alta frequenza di queste condizioni nella popolazione deceduta Sars-CoV-2 positiva».  La concomitanza di più patologie croniche nella stessa persona costituisce di per sé «elemento di fragilità in genere compensato con appropriate terapie: il contrarre una infezione come Sars-CoV-2 si traduce in un aumentato rischio di complicanze e di morte», chiarisce ancora l'Istituto superiore di sanità. «Sin dall'inizio della pandemia, infatti - si ricorda nella nota - è stato censito un eccesso di mortalità nella popolazione, cioè un numero di deceduti superiore a quello degli anni precedenti, le cui stime sono periodicamente riportate nel rapporto congiunto Iss-Istat. Si precisa che le patologie preesistenti riportate nel report, finalizzato alla caratterizzazione delle caratteristiche dei deceduti, vengono valutate da un gruppo di medici dell'Iss attraverso la revisione di un campione di cartelle cliniche ospedaliere inviate ad Iss dalle Regioni e Province autonome, e le patologie preesistenti riscontrate più frequentemente nei deceduti Sars-CoV-2 positivi sono riportate nella tabella 1 del report. Le più rappresentate sono: ipertensione, diabete di tipo 2 e demenza, patologie molto frequenti nella popolazione».

Covid, sui dati dei morti l'Iss casca nella trappola che si era teso da solo. Franco Bechis su Il Tempo il 26 ottobre 2021. Dopo ben sei giorni dalla pubblicazione su Il Tempo l'Istituto superiore di sanità ha deciso di precisare i contenuti del suo clamoroso rapporto Covid 19 sui decessi aggiornato al 5 ottobre 2021 e pubblicato il giorno 19 ottobre. L'istituto presieduto da Silvio Brusaferro spiega di non avere affermato “che solo il 2,9% dei decessi attribuiti al Covid-19 è dovuto al virus. La percentuale del 2.9% (…) si riferisce alla percentuale di pazienti deceduti con positività per SARS-CoV-2 che non avevano altre patologie diagnosticate prima dell’infezione. La cifra peraltro è confermata dall’osservazione fatta fin dalle prime fasi della pandemia e ampiamente riportata in diversi studi nazionali e internazionali e rapporti anche dall’Iss, che avere patologie preesistenti costituisce un fattore di rischio”. L'Iss precisa in un lungo comunicato che chi aveva tre o più patologie non sarebbe senza il virus morto in tempi brevi, ma sarebbe stato soggetto a rischio della vita più di altri anche di fronte all'insorgere di altri virus o malattie”. A differenza di tutti quelli che sono intervenuti a commentare l'articolo de Il Tempo distribuendo senza averne alcun titolo patenti di falsità completa o parziale, l'Iss non censura l'applicazione ipotetica che avevamo fatto di quella percentuale del 2,9% all'intero campione dei decessi riscontrati da inizio pandemia, arrivando al numero di 3.783 malati di Covid che non avrebbero avuto alcuna altra malattia pre-esistente. E non avrebbe potuto contestarla, perché fin dal marzo 2020 è stato proprio l'Iss a contare ogni giorno i decessi e a raccogliere un campione di relative cartelle cliniche utilizzando quei dati parziali del campione per interpretare l'intero andamento del coronavirus. Cito proprio Brusaferro, da una delle conferenze stampa del periodo iniziale, il 21 marzo 2020: “abbiamo fatto un'analisi di parecchie centinaia di cartelle cliniche che stiamo acquisendo, che però a questo punto sono un campione molto rappresentativo della realtà, e ci dice appunto di una popolazione con un'età media intorno agli 80 anni, di una presenza della letalità soprattutto in pazienti sopra i 70 o gli 80 anni, ci dice di una realtà dove purtroppo le persone che sono affette da più patologie sono quelle che più facilmente vanno incontro a decesso e ci dicono di complicanze come l'insufficienza renale e l'insufficienza respiratoria che caratterizzano la storia clinica di quelle persone...”. Quello stesso giorno l'allora capo della protezione civile Angelo Borrelli snocciolò il triste bollettino di giornata, e quando si arrivò ai decessi disse con Brusaferro al fianco che assentiva: “purtroppo dobbiamo registrare oggi un incremento di 793 nuovi deceduti. Voglio ricordare ancora una volta che noi conteggiamo tutti i deceduti, e quindi non facciamo una distinzione di deceduti per e con coronavirus”. Ecco, questa storia dei morti “per” o “con” coronavirus è proprio all'origine dei rapporti Iss sui decessi, compreso quello del 5 ottobre che tanto scalpore ha suscitato. E su quel tema hanno fatto grandissimi pasticci e confusione. Tanto è che il giorno dopo le citazioni appena fatte, Borrelli diede di nuovo il triste bilancio dei morti, aggiungendo l'esatto opposto di quel che aveva detto poche ore prima: “Voglio ricordare che questi sono deceduti CON il coronavirus, NON PER il coronavirus...”. Questa confusione è stata funzionale a lungo alle politiche governative e anche ai pasticci compiuti dal sistema sanitario pubblico, che non sono stati affatto pochi. Mi ha scritto ad esempio una signora, Eleonora, raccontandomi di avere perduto il marito di 56 anni e il padre di 74 per il Covid. Sostiene che entrambi siano stati curati come migliaia di altri italiani in modo sciatto e inappropriato, vuoi perché non conoscevano le terapie migliori, vuoi perché non erano alla portata finanziaria del sistema sanitario i farmaci che sarebbero stati più efficaci. Eleonora aggiunge: “Poi però nelle cartelle cliniche hanno scritto per giustificarsi che avevano almeno due o tre patologie gravi che hanno determinato il decesso. Patologie inventate, inesistenti”. Consultatasi con altri familiari di poveretti che in quegli ospedali hanno perduto la vita, ecco l'amara scoperta: “In tutte le cartelle si trovano patologie che i pazienti non avevano”. E termina così la sua lettera: “La mia famiglia è distrutta a causa dell'incompetenza e dell'approssimazione di medici che non hanno fatto nulla. Solo ossigeno. Però loro sono a casa con le famiglie, l'Iss scrive le sue scemenze ed io, mia madre e le mie figlie (come decine di persone qui) piangiamo i nostri cari”. Quella di Eleonora è una storia drammatica, disperata: come ho raccontato più volte anche io ho perduto mamma (che non aveva alcuna patologia) per il Covid e non posso che abbracciarla. Però questa storia solleva il dato vero, che era poi la riflessione che avevo fatto descrivendo quel nuovo rapporto sui decessi del 5 ottobre: “c'è da fidarsi dell'Iss e dei suoi rapporti? C'è scienza dietro quel lavoro e quella raccolta dati o c'è soprattutto il desiderio di conformarsi a direttive politiche che nulla che avrebbero a che fare con il lavoro di un istituto nazionale che dovrebbe essere indipendente?”. Ecco, il dubbio è proprio questo. Ho molte perplessità sia avendo ascoltato (e riascoltato in questi giorni) tutte le conferenze stampa dell'Iss e delle nostre autorità sanitarie, come letto e riletto i 163 verbali del primo comitato tecnico scientifico nominato allora da Giuseppe Conte e i 42 finora resi pubblici dal nuovo Cts scelto da Mario Draghi (l'ultimo è del 27 agosto scorso). La sensazione tratta è che nelle scelte operate ci sia stata assai più realpolitik che scienza. Si eseguiva quel che il decisore politico voleva, adeguando poi dati e pareri tecnici a quel che veniva richiesto. E' una pessima sensazione, ma poggia sulle solide basi di decine di episodi indubbi. Rivedendo tutte le conferenze stampa quotidiane della prima fase della pandemia mi ha colpito lo smarrimento di Brusaferro davanti a una contestazione di un collega giornalista: “Oggi a Parma è morto un professore che aveva poco più di 40 anni e non risultava essere affetto da alcuna patologia, al contrario di quel che avete sempre detto fin qui. Come se lo spiega?”. Brusaferro ammutolì dicendo di non avere abbastanza elementi. Qualche giorno dopo però tornò sull'episodio trionfante: “Vi spiego il caso di Parma perché grazie alla buona volontà dell'ospedale e alla collaborazione della Regione Emilia Romagna abbiamo ricevuto la cartella clinica: anche lui aveva due gravi patologie pre-esistenti...”. Ora sarà stato vero, anche se questo fiorire di malanni pre-esistenti ignoti a mogli, figlie, madri e padri è quanto meno dubbio. Ma perché Brusaferro aveva bisogno di dire sempre che chi moriva era affetto da mille altri mali? Per un motivo semplice: la direttiva governativa era quella di non spaventare gli italiani e diffondere l'idea che non si rischiava la morte da Covid 19 se si aveva meno di 60 anni e soprattutto se non si era malati da tempo. Quindi tutto veniva letto così, e quei rapporti Isis sui decessi risentivano di questo peccato originale. E l'hanno conservato anche ora, che le direttive governative sono state radicalmente cambiate: serve che tutti abbiano paura del virus, altrimenti non si corre a vaccinarsi. Oggi l'esigenza sarebbe di dire che nessuno muore CON il coronavirus, ma PER coronavirus, e che le malattie pre-esistenti poco cambiano. Ma ormai le cartelle cliniche raccolte (su cui spero vigili con rigore il Garante della privacy) avevano quei dati, che non si possono più cambiare. Magari sono falsi e tendenziosi, ma non c'è dubbio che siano lì.

Ecco le prove sui numeri dei morti da Covid 19. Se qualcuno ha detto balle, è l'Iss di Brusaferro. Franco Bechis su Il Tempo il 27 ottobre 2021. Chi ha davvero diffuso notizie false sui decessi Covid 19? Tutti hanno accusato Il Tempo di avere distorto i dati contenuti nell'ultimo  rapporto dell'Istituto superiore di Sanità guidato da Silvio Brusaferro. In quel documento è riportata l'analisi di poco meno di 8 mila cartelle cliniche dei deceduti da inizio pandemia, e in questa si identifica il gruppo di deceduti privi di qualsiasi altra patologia: erano sani e sono morti di Covid. Rappresentano il 2,9% delle cartelle complessive. A Il Tempo si contesta di avere considerato quel campione come significativo (accade così nei sondaggi) della realtà complessiva. Ma è stato l'Istituto superiore di sanità per bocca del suo stesso presidente a ripetere in ogni conferenza stampa fin dall'inizio della pandemia che quelle cartelle cliniche erano sì un campione parziale, ma rappresentativo di tutta la realtà dell'infezione. Quindi se sbagliata è quella comparazione fra il campione è la realtà, l'errore è dell'Iss, non del Tempo. Se è fake news, va attribuita ai vertici della sanità italiana, non a chi la riporta. In ogni conferenza stampa come dimostriamo nelle immagini dell'epoca veniva per altro sottolineato che chi moriva se ne andava anche con il coronavirus, e non per colpa del coronavirus. Non sto a discutere la sciocchezza di questa affermazione, ma è quel che hanno e ripetuto per mesi la protezione civile e l'Istituto superiore di sanità nella prima fase del virus. Se dicevano il falso su direttiva del governo che voleva così tranquillizzare gli italiani, è colpa grave e sarebbe tempo di discuterne profondamente. Però diventa grottesco oggi sostenere l'esatto opposto perché l'esigenza delle politiche governative è cambiata e invece di tranquillizzare oggi è meglio spaventare gli italiani per spingere anche i più riottosi a vaccinarsi. Che lo faccia una autorità politica è comprensibile, e di tutte le contraddizioni poi ne porta naturalmente conseguenza. Ma mettere in prima fila presunti scienziati per nascondersi dietro loro è veramente vigliacco. E dimostra allo stesso tempo la qualità della nostra dirigenza scientifica.

PANDEMIA. FA MOLTI PIU’ MORTI IL VACCINO DEL COVID. Andrea Cinquegrani su La Voce delle Voci il 22 ottobre 2021. Secondo l’ultimo rapporto redatto dall’Istituto Superiore di Sanità, il numero totale dei morti per Covid è di gran lunga inferiore rispetto alle cifre fatte segnare dalle statistiche ufficiali, che parlano di oltre 130.000 vittime. La cifra "reale", infatti, stando alle elaborazioni dell’ISS, è di 3.783 decessi, appena il 2,9 per cento di quelli registrati a partire da febbraio 2020, la tragica dead line iniziale. Una cifra sbalorditivamente ‘piccola’, e ben inferiore rispetto alle medie di decessi stagionali causate dall’influenza. Un’inchiesta della Voce pubblicata il 22 febbraio 2020, a meno di un mese quindi dallo scoppio della pandemia, era titolata: “La maxi fake del Coronavirus / E la ‘normale’ influenza ammazza 190 volte di più”. Val la pena, oggi, di rileggerla (trovate il link in basso). Non è certo finita qui. Perché sono stati appena resi noti, nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta a Bolzano, i risultati di alcune autopsie, condotte su persone che sono morte a pochi giorni dalla somministrazione del vaccino anti covid. I referti sono stati stilati da due patologi tedeschi e i risultati sono “agghiaccianti”, come sottolinea Heike Muller, medico di base e traduttrice ad un seminario che si è tenuto il 20 settembre all’Università di Reutlingen, in Germania. Ultimo tassello del tragico mosaico: non si hanno stime ufficiali sui decessi per vaccino, ma negli Stati Uniti – come la Voce ha documentato giorni fa – alcuni ricercatori ed epidemiologi parlano di 150.000 morti nei soli USA; da noi la cifra pare attestarsi intorno alle 13 mila unità. Mentre l’allergologo-massone Roberto Burioni nel salotto di Fabio Fazio su Rai3 (una tivvù pubblica, non un’antenna rionale) parla di un morto, 1 di numero, in tutto il mondo a causa del vaccino: quel decesso – precisa il Mago di Brevetti & Provette – si è verificato in Nuova Zelanda. Tanta carne a cuocere, un mare di numeri da brivido sui quali occorre ragionare, uscendo dal pantano di fake news nel quale ci hanno affondato, fin dall’inizio della pandemia, sia il nostro governo (e i governi occidentali) che i media, impegnati in una nauseante campagna disinformativa. 

I NUOVI NUMERI DELL’ISTITUTO SUPERIORE DI SANITA’          

Uno dei pochi, da noi, ad avere il coraggio di parlarne, o meglio di scriverne in un suo pezzo, è il direttore de ‘Il Tempo’, Franco Bechis. Eppure non si tratta di un Istituto diretto da no vax o da complottisti di sorta.

Scrive Bechis: “Secondo il nuovo rapporto (che non veniva aggiornato da luglio) dell’Istituto Superiore di Sanità sulla mortalità per Covid, il virus che ha messo in ginocchio il mondo avrebbe ucciso assai meno di una comune influenza. Sembra un’affermazione strampalata o da no vax, ma secondo il campione statistico di cartelle cliniche raccolte dall’Istituto solo il 2,9 per cento dei decessi registrati dalla fine del mese di febbraio 2020 sarebbe dovuto al Covid 19. Quindi, dei 130.468 decessi registrati dalle statistiche ufficiali al momento della preparazione del nuovo rapporto, solo 3.783 sarebbero dovuti alla potenza del virus in sé. Perché tutti gli altri italiani che hanno perso la vita avevano da 1 a 5 malattie che secondo l’ISS dunque lasciavano già loro poca speranza”. Dettaglia Bechis, sulla scorta dei numeri forniti dall’ISS: “Addirittura il 67,7 per cento ne avrebbe avuto insieme più di 3 malattie contemporanee, e il 18 per cento almeno 2 insieme. (…) Secondo l’ISS, il 65,8 per cento degli italiani che non ci sono più dopo essere stati infettati dal Covid era malato di ipertensione arteriosa, il 23,5 per cento era anche demente, il 29,3 per cento aggiungeva ai malanni un po’ di diabete, il 24,8 per cento pure fibrillazione atriale. E non basta: il 17,4 per cento aveva già i polmoni ammalati, il 16,3 aveva avuto un cancro negli ultimi 5 anni; il 15,7 per cento soffriva di scompenso cardiaco, il 28 per cento aveva una cardiopatia ischemica, il 24,8 per cento soffriva di fibrillazione atriale, più di 1 ogni 10 era anche obeso, più di 1 su 10 aveva avuto un ictus e altri ancora sia pure in percentuale più ridotta aveva problemi al fegato, dialisi e malattie auto-immuni”. Nessuno scienziato di grido, nessun Vate o Saltimbanco che ogni sera popola le nostre tivvù ha finora pronunciato una frase di commento, nemmeno una parola, neanche una sillaba sui freschi dati forniti dall’ISS. Tutti zitti e muti, allineati e coperti. Eppure, di fronte a queste cifre c’è da sobbalzare sulla sedia, c’è da chiedersi – a questo punto – in base a quali criteri hanno potuto agire le nostre autorità (sic) politiche, in base a quali numeri s’è mai potuto regolare il ‘Comitato Tecnico Scientifico’, quel CTS che ne ha raccontate di tutti i colori, per mesi, agli italiani, facendo liberamente pascolare le bufale, le autentiche fake news, nei sempre più vasti campi della disinformazione. Gli italiani hanno diritto alla conoscenza reale dei fatti, non possono essere trattati come mandrie di imbecilli. E, sempre su questo fronte, devono conoscere tutta la verità sui vaccini, e soprattutto sugli effetti collaterali, i danni prodotti, che invece vengono totalmente nascosti, sepolti, censurati. Perché, da noi, i risultati delle autopsie sono sempre inaccessibili? Praticamente top secret? Come mai non è possibile conoscere i reali motivi dei tanti (non uno al mondo, secondo il Burioni-pensiero!) decessi in seguito alla somministrazione dei vaccini? La stessa cosa successe proprio dopo lo scoppio della pandemia, per tutto quel tragico 2020, quando le autopsie erano addirittura vietate per legge: come pretesto, il pericolo di infezioni per i sanitari che dovevano effettuarle, il rischio di ulteriori contagi. Una autentica pezza a colori, costruita in modo ‘scientifico’ per nascondere la verità dei fatti, per negare l’evidenza di tante morti che – come oggi sottolinea l’Istituto Superiore di Sanità – avevano altre origini, altre cause, altre patologie (spesso più d’una) a monte. Perciò, all’epoca, al bando le pericolose autopsie, le uniche in grado di puntare i riflettori sul Covid reale e su quello farlocco, cioè letteralmente inventato a tavolino dalle ‘Autorità’, scientifiche e politiche. 

GLI CHOCCANTI RISULTATI DELLE AUTOPSIE TEDESCHE

Copione ben diverso, per fare un solo esempio, in Germania, dove alcuni ricercatori e medici coraggiosi hanno voluto vederci chiaro. Come è successo attraverso gli studi condotti soprattutto in due università, quella di Heidelberg e quella di Reutlingen. Nel primo, prestigioso ateneo, lavora Peter Schirmacher, direttore dell’Istituto di Patologia, il quale sta guidando un team di ricerca sul ‘Progetto Autopsia Covid 19’, sovvenzionato dallo Stato. Fino ad oggi ha eseguito una quarantina di autopsie su morti vaccinati. I risultati, secondo gli esperti, sono “choccanti”, con un 30-40 per cento di casi dove risulta che la causa del decesso è proprio nel vaccino. Il patologo ha riscontato “effetti collaterali rari ma gravi della vaccinazione, come la trombosi venosa cerebrale e le malattie autoimmuni”. “Sconvolgenti”, poi, i risultati dei primi referti condotti da un tandem di patologi, Arne Burkhardt e Walter Lang, dell’Università di Reutlingen, che hanno realizzato uno studio in collaborazione con un ingegnere elettronico, Werner Bergholz. Secondo i dati illustrati dalla dottoressa Heike Muller nel corso di una conferenza stampa, sono state trovate “infiammazioni del muscolo cardiaco (miocardite) di varia gravità”. “Sono state trovate microparticelle nel tessuto polmonare”. “I linfociti sono impazziti in tutti gli organi”. Anche durante il seminario di Reutlingen, sono stati mostrati “accumuli di linfociti in una grande varietà di tessuti, dal muscolo cardiaco al rene, al fegato, alla milza fino all’utero. Vi sono immagini in cui il tessuto è stato attaccato in modo massiccio dai linfociti. Si registrato distacchi di cellule endoteliali, ossia le cellule lisce che formano la parete dei vasi sanguigni, grumi di globuli rossi che alla fine causano trombosi, e cellule giganti che si sono formate intorno a corpi estranei intrappolati”. I due patologi hanno affermato di non aver mai visto nulla di simile a tali ammassi di linfociti in centinaia di migliaia di esami condotti nella loro vita professionale. “Da quando sono venuta a conoscenza di queste cose, non mi so dar pace, non riesco più a dormire, sono terrorizzata”, confessa la dottoressa Muller. La quale riferisce anche alcune sue esperienze personali, come medico di base a Bolzano: “Sento da molti colleghi continue storie di pazienti che, pur non accusando sintomi gravi, dicono di sentirsi comunque diversi rispetto a prima, prima di essere vaccinati. Si sentono più stanchi, con meno energie. Ma lo stesso si verifica anche per i più giovani. Un maestro di sci mi ha detto che i suoi atleti non gli sembrano più gli stessi, hanno meno forze di prima”. E aggiunge: “Spero che questi risultati, questi referti possano essere portati all’attenzione di tutti. Affinchè si possa discutere in modo concreto sugli effetti dei vaccini, non in modo aprioristico, ma con un vero approccio scientifico. Tutto ciò può e deve servire per aprire gli occhi di tutti e poter correggere decisioni già prese”.

Claudia Osmetti per "Libero quotidiano" il 30 settembre 2021. Non c'è solo il Covid, ma il Covid (alla fine) incide su tutto. In Italia, da quando è iniziatala pandemia, sono triplicati gli infarti. Lo dice il coordinatore del Cts, il Comitato tecnico scientifico che da un anno e mezzo snocciola i numeri e le statistiche dell'emergenza sanitaria: purtroppo abbiamo registrato una «riduzione delle ospedalizzazioni dovute all'infarto del miocardio. La scorsa primavera abbiamo toccato quasi il 50% in meno, con un numero triplo di morti associati a questa patologia miocardica infartuale acuta». Non è una bella notizia, per niente. Perché significa che sì, adesso cominciamo a vedere la luce in fondo al tunnel grazie alla vaccinazione di massa che sta dando i suoi (sperati) frutti, ma allo stesso tempo no, non abbiamo finito di combattere (specie se in maniera indiretta) con il Coronavirus. C'è l'arretrato da recuperare, ci sono le cure mancate o ridotte con cui fare i conti. Non finirà tanto presto. «Abbiamo osservato», continua Locatelli, «una riduzione superiore del 50% sia per le mammografie che per la ricerca del sangue occulto nelle feci e negli screening del cancro della cervice uterina». Colpa della pandemia, dei lockdown, di quando stavamo tappati in casa (ma d'altronde non potevamo fare altro) perché uscire anche solo a fare la spesa era un rischio che nessuno di noi voleva correre.  Ce li ricordiamo tutti, quei mesi: le visite saltate, le operazioni rinviate, i pronto soccorso trasformati in reparti Covid. «Negli Stati Uniti», specifica il Cts e sarà pure una magra consolazione ma vuol dire che è così in mezzo mondo, «si stima che nei prossimi dieci anni ci saranno 10mila morti addizionali per carcinoma mammario o del colon retto dovute a diagnosi tardive».  Da noi è anche un fatto di cuore, letteralmente. Il 34,8% dei decessi italiani è legato a una malattia cardiovascolare e gli esperti lo dicono chiaro: c'è stato, ultimamente un parziale recupero dei ritardi diagnostici causati dal Coronavirus, ma non basta. Tocca fare di più. Sono stati 3.212 i nuovi casi di Covid registrati nelle ultime 24 ore in Italia. Sempre nelle ultime 24 ore, i morti sono stati 63 (due in meno di martedì), per un totale di 130.870 dall'inizio della pandemia. I ricoveri ordinari sono 3.317, con un calo di 101 unità rispetto ai 3.418 di martedì, mentre le terapie intensive sono 450 (nove in meno, con ventitrè ingressi del giorno). Secondo una ricerca del gruppo farmaceutico Sanofi, a giugno del 2021 le diagnosi e i trattamenti di soggetti a rischio cardiovascolare sono aumentati rispettivamente del 3 e del 10% in relazione allo stesso periodo del 2019. Tuttavia, le statistiche degli ultimi anni parlano di circa 120mila persone coinvolte da infarto ogni dodici mesi, da Nord a Sud dello stivale, 25mila delle quali muoiono prima ancora che arrivi l'ambulanza a sirene spiegate. Triplicare il numero (seppure solo il primo e anche mentalmente) fa rabbrividire. «Il Covid-19 è diventata la quarta causa di morte nel nostro Paese», spiega Locatelli. Punto primo, se lo segnino i negazionisti che ancora non ci credono e, di contro, abboccano a qualsiasi panzana complottaste si pari loro davanti. Lo dicono i numeri, lo dice la scienza: non si scherza. Punto secondo: seppure faccia paura, dobbiamo tenere a mente che, purtroppo, si continua a morire anche d'altro. «Negli Stati Uniti», chiosa il coordinatore del Cts che è anche presidente del Consiglio superiore di Sanità (il Css), «la mortalità da covid-19 rappresenta addirittura la terza causa di morte nel 2020. Ma oltre a questo carico di dolore, c'è la chiara evidenza che la pandemia ha portato a un'alterazione o addirittura a un'interruzione dei servizi nelle prestazioni sanitarie offerte. Il 94% dei Paesi che hanno risposto all'Oms (ossia all'Organizzazione mondiale della sanità, ndr) ha riportato un'alterazione dei servizi sanitari offerti». È meglio correre ai ripari, finché siamo in tempo.

Il rapporto Istat. Coronavirus, gli effetti sulla speranza di vita: a Bergamo cala di 4.3 anni, ‘taglio’ a livello nazionale di un anno. Redazione su Il Riformista il 6 Settembre 2021. La diffusione del Sars-Cov-2 in Italia nel 2020, col relativo aumento della mortalità, ha bruscamente interrotto la crescita della speranza di vita alla nascita che aveva caratterizzato il trend fino al 2019, facendo registrare, rispetto all’anno precedente, una contrazione pari a 1,2 anni. A metterlo nero su bianco è l’Istat nell’aggiornamento annuale del sistema di indicatori del Benessere equo e sostenibile dei territori diffuso dall’Istituto nazionale di statistica. Nel 2020, l’indicatore si attesta a 82 anni (79,7 anni per gli uomini e 84,4 per le donne). A livello provinciale la speranza di vita si riduce nelle aree del Paese a più alta diffusione del virus durante la fase iniziale della pandemia. Tra queste, le province di Bergamo, Cremona e Lodi dove per gli uomini si è ridotta rispettivamente di 4,3 e 4,5 anni, seguite dalla provincia di Piacenza (-3,8 anni). Negli stessi territori sono ingenti anche le variazioni riscontrate tra le donne: -3,2 anni per Bergamo, -2,9 anni per Cremona e Lodi e – 2,8 anni per Piacenza. Riduzioni meno marcate si osservano a Brescia (-2,5 anni), Pavia (-2,4), Vercelli (-2,3 anni), Lecco e Parma (-2,2 anni) e, nel Mezzogiorno, nelle province di Foggia (-1,7) ed Enna (-1,5 anni). Siena è invece l’unica provincia italiana a non aver subito peggioramenti (83,7 anni sia nel 2019 che nel 2020). I cambiamenti delineati portano modifiche importanti nel ranking della speranza di vita per provincia, con Lodi, Bergamo, Cremona, Brescia, Piacenza e Parma che, ad esempio, rispetto al 2019, perdono più di 50 posizioni. L’indicatore di mortalità evitabile si riferisce ai decessi delle persone sotto i 75 anni di età che potrebbero essere significativamente ridotti grazie a interventi per migliorare adeguatezza e accessibilità dell’assistenza sanitaria e grazie alla diffusione nella popolazione di stili di vita più salutari e alla riduzione di fattori di rischio ambientali. Nel 2018, in Italia il tasso standardizzato di mortalità evitabile è pari a 17 decessi per 10mila residenti, con valori molto più elevati tra gli uomini (22,5 per 10mila abitanti contro 11,9 delle donne). L’indicatore registra una forte riduzione nel tempo (23,4 per 10mila nel 2005), grazie alla diminuzione della mortalità per alcune delle cause principali, come il tumore al polmone e le cardiopatie ischemiche, osservata specialmente tra gli uomini, con una conseguente riduzione del gap di genere. Il ranking per aree provinciali vede nel 2018 Trento, Treviso, Firenze, Forlì-Cesena e Ancona con i valori meno elevati di mortalità evitabile (fino a 14,2 decessi evitabili per 10mila residenti). A eccezione di Firenze e Ancona, che anche nel 2005 si segnalavano tra le prime 5 province per tasso di mortalità evitabile meno elevato, per gli altri territori citati si è osservato nel tempo un forte miglioramento e un recupero per quanto riguarda Trento e Treviso rispettivamente di 27 e 18 posizioni. All’opposto, i valori più elevati di mortalità evitabile si registrano a Enna (19,9 decessi evitabili per 10mila residenti), Siracusa (20,9), Caltanissetta (21,7), Napoli (22,2), e Caserta (22,4), che non mostrano alcun miglioramento nel tempo. Sono le aree che potrebbero dunque giovare maggiormente dei risultati di interventi più efficaci in termini di prevenzione primaria e secondaria

"Neanche un vaccinato nelle terapie intensive, la battaglia la vinciamo". Alberto Giannoni il 4 Settembre 2021 su Il Giornale. Il virologo del San Raffaele ottimista sui dati "Se i no-vax resteranno sotto il 20%, è fatta". Milano. Massimo Clementi, docente e direttore del laboratorio di virologia e microbiologia del San Raffaele, i dati lombardi attestano che ora, in terapia intensiva, ci sono solo persone non vaccinate. Chi si vaccina, dunque, non finisce in terapia intensiva.

«E molto raramente in ospedale. I vaccini, anche se in modo non assoluto, proteggono, fino al 95%, dalla malattia. L'infezione può attecchire ma la malattia molto difficilmente».

Si confermano le previsioni più ottimistiche?

«Tutti ci stiamo facendo un'esperienza su questo. Non è vero che procediamo sperimentando, ma certamente, questa infezione, alcuni elementi di novità li ha. La stiamo combattendo bene, come confermano questi dati, e altri che abbiamo. Stiamo vincendo una battaglia difficile».

La stiamo vincendo?

«Io sono molto ottimista. Se ci vacciniamo sì. L'aspetto più rilevante consiste nel fatto che, malgrado i vaccini siano stati progettati tenendo conto della sequenza del 2019, quella di Wuhan, proteggono dalle varianti più aggressive. La stessa Delta, nel nostro Paese, ha fatto salire inizialmente il numero dei ricoverati, poi rimasto stabile, ma non si è vista una ripresa come in altri Paesi che hanno attuato una strategia diversa. Dobbiamo essere soddisfatti per aver tenuto testa a questa variante più insidiosa e diffusibile».

Chi è vaccinato non si ammala ma può contagiare?

«Sì. La vaccinazione, avvenendo per via parenterale, non dà immunità nell'apparato respiratorio, il punto di ingresso del virus. Questa transitoria positività, questa possibilità di replica, fa sì che il soggetto vaccinato, a bassi titoli e per pochi giorni, sia comunque infettante. È possibile il virus possa albergare e trasmettersi. La vaccinazione non è sterilizzante. Ma protegge dalla malattia».

Scuole, cosa suggerisce?

«Quel che si sta facendo: andare avanti vaccinando il più possibile, anche ragazzi giovani, e quella quota, circa 2 milioni circa di over 50, che per diversi motivi non si sono vaccinati. Più riusciamo in queste due fasce più ci avvicineremo a un'immunità di popolazione che ci protegge. Al tempo stesso, visto che i primi, personale ospedaliero e anziani, sono stati vaccinati fra gennaio e marzo, e visto il decremento dell'immunità in 9-11 mesi, occorre iniziare i richiami con terza dose, importantissima, in grado di dare una protezione forte e di bloccare qualsiasi variante. Ce lo dicono gli israeliani con 2 milioni di terze dosi, un quinto degli abitanti».

Vedremo un decremento costante dei casi o un andamento «a ondate»?

«È impossibile che una pandemia scompaia dalla mattina alla sera come altre più piccole, come la Sars 1 del 2003. Lo scenario migliore prevede casi residuali e una convivenza con il virus, che diventerà uno dei tanti, fastidiosi agenti infettanti, senza darci troppe preoccupazioni. Al contrario, se questa fascia di non vaccinati resterà sopra il 20% è possibile che una qualche ripresa - attraverso la circolazione del virus - possa dare origine a nuove varianti. Io confido che si possa raggiungere un'immunità sempre maggiore. Anche alla luce di questi dati lombardi».

Si avverte un po' di stanchezza e una certa insofferenza nella popolazione.

«Comprensibile, ma ho visto dei ragazzi, che giocano a basket, che si sono tutti vaccinati per avere il green pass, e alcuni avevano i genitori non vaccinati e contrari. Lo considerano un valore. Quindi ci sono luci e ombre. Tanta gente è stanca, ma c'è voglia di chiudere la partita».

Terza dose: sarà l'ultima o avremo richiami annuali?

«Potrebbe essere quella definitiva ma è difficile fare previsioni. Potrebbe bastare, in ogni caso non sarebbe un gran danno, come il vaccino anti-influenzale».

La sanità italiana, in particolare quella lombarda, hanno tenuto o devono ripensarsi?

«Confrontandoci con gli altri direi che, dopo forse un iniziale sbandamento, c'è stata una risposta importante, efficiente e adeguata. E l'organizzazione della campagna vaccinale, anche grazie al generale degli Alpini, ha marciato come doveva». Alberto Giannoni

I morti vaccinati sono solo l'1,2%. "Sì alla terza dose per i più fragili". Enza Cusmai il 19 Agosto 2021 su Il Giornale. Decessi quasi solo tra i no vax, gli altri erano anziani ultra 80enni e malati. Bassetti: "Questi i numeri da comunicare". In una Rsa in Calabria 20 contagi e salvi in 15: "Senza cura sarebbe stata un'ecatombe". Nella piccola Rsa calabrese «Antonino Messina» di Sant'Eufemia di Aspromonte, mai sfiorata nella prima e seconda ondata di Covid, i 21 ospiti a luglio sono stati investiti dalla Delta come un tornado nonostante l'attenzione maniacale per le misure di prevenzione e sicurezza. In tre giorni, il centro si è autoisolato sopportando l'incognita della nuova variante. Tutti gli anziani non autosufficienti del centro, vaccinati con due dosi a gennaio scorso, sono risultati positivi ma la maggior parte di loro hanno resistito alla malattia rivelando sintomi simil-influenzali. Solo cinque anziani con gravi comorbilità non ce l'hanno fatta. «Erano persone con patologie gravissime che avevano sviluppato pochi anticorpi nonostante le due dosi di vaccino», spiega la direttrice sanitaria Carmela Cannizzaro. «Se i nostri ospiti non fossero stati vaccinati qui ci sarebbe stata un'ecatombe», aggiunge la direttrice Rossana Panarello che ha blindato la struttura per settimane mettendo in quarantena tutti i 27 operatori di cui sei infettati ma guariti dopo pochi giorni di febbriciattola e mal di gola. Il caso dell'Rsa calabrese la dice lunga su quante morti abbia risparmiato il vaccino nonostante la Delta. Ma quando contiamo ogni giorno decine di decessi viene da domandarsi chi e perché? In Campania, per esempio, confermano che il 95 per cento dei morti quotidiani per il virus non era stati vaccinati. In Sardegna emerge invece che i non vaccinati affollano soprattutto le corsie delle aree Covid, ma nelle intensive ci vanno anche quelli immunizzati, spesso anziani fragili con scarsa copertura anticorpale. I numeri su scala nazionale lo confermano. Da febbraio ad oggi, in Italia solo 423 vittime del covid era state vaccinate su un totale di 35.776 decessi. E questo corrisponde all'1,2 del totale. La media dei pazienti vaccinati era di circa 88 anni con cinque comorbilità. «Una quota irrisoria di decessi commenta il virologo Fabrizio Pregliasco . E questi numeri ci confermano che la vaccinazione è efficacissima e copre anche la variante Delta dalle forme gravi di malattia. Semmai aggiunge - ritengo che sia necessaria la terza dose per i soggetti più fragili, perché secondo la nostra osservazione i titoli anticorpali, in questa fascia di popolazione, sono calati. Da ottobre in poi le loro difese immunitarie degli anziani vanno rinforzate». Stessa idea di Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive del San Martino di Genova: «Basta terrorizzare gli italiani con i dati sui contagi, quello che conta è che finiscono in terapia intensiva e muoiono quasi solo i non vaccinati». Il virologo ancora alle prese con attacchi violentissimi dei no vax (mail di ieri: speriamo che l'autunno ti faccia cadere come le foglie, un bell' infarto e via..) sostiene, dunque, che sia inevitabile la terza dose sia pure per i fragili anche perché ammette che si sono verificati diversi focolai per la Delta nelle rsa sparsi qua e là lungo lo Stivale. Al Trivulzio di Milano, però, la nuova ondata ha lasciato indenne la struttura che attualmente è covid-free. Ma l'attenzione è altissima. Ieri 69 decessi (mai così tanti dallo scorso 11 giugno), i contagi sono 7.162 con il tasso di positività è ora al 3,2 per cento. Ma se in Italia il virus sale con gradualità, negli Stati Uniti è di nuovo emergenza: ieri si sono contati oltre mille morti, 42 ogni ora. E le autorità sanitarie accelerano sulla terza dose: oltre 155 milioni di persone la potranno ricevere dal 20 settembre. «I dati disponibili spiegano gli esperti- mostrano che la protezione contro il SARS-CoV-2 inizia a diminuire nel tempo dopo le iniziali dosi di vaccino e, in associazione con la variante Delta, cominciamo a vedere le prove di una ridotta protezione contro sintomi lievi e moderati della malattia». Enza Cusmai

Vaccino, il report dell'Iss: quei 35mila morti che l'Italia avrebbe potuto evitare. Brunella Bolloli su Libero Quotidiano il 28 luglio 2021. Età media 88 anni e mezzo, un numero elevato di patologie, complicazioni provocate da infezioni e scarsa risposta immunitaria dovuta all'età. L'ultimo report diffuso dall'Istituto Superiore di Sanità parla chiaro: da febbraio ad oggi quasi 99 deceduti su 100 non avevano terminato il ciclo vaccinale e tra coloro che avevano ricevuto la doppia dose non si registrano ragazzini sani come pesci che sono stati spazzati via in una manciata di giorni dal Covid. Erano, invece, persone molto anziane e, purtroppo, molto malate, un mix di fattori che non ha lasciato loro scampo. Alla voce "caratteristiche demografiche dei deceduti" il documento dell'Iss cita gli anni (le donne decedute erano più in là degli anni rispetto agli uomini) e le "comorbilità": cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, ictus, ipertensione arteriosa passando dal diabete, dal cancro, fino all'obesità. Alcuni avevano ben 5 patologie insieme, croniche e preesistenti al Coronavirus, il che significa che in un fisico già così fiaccato anche una doppia dose non ha potuto strapparli dalla morte.

COPERTURA. Medici e scienziati, del resto, non hanno mai assicurato una copertura del cento per cento contro Sars-Cov2, gli studi clinici hanno evidenziato un'efficacia dei vaccini in uso in Italia con valori tra l'88 e il 97%. Ma di sicuro per morire ci deve essere stato qualche altro fattore di rischio oltre al virus. In particolare, dal primo febbraio (scelto come data indice perché corrisponde alle cinque settimane necessarie per il completamento del ciclo vaccinale a partire dall'inizio della campagna) e fino al 21 luglio, sono stati 423 i decessi Sars-Cov-2 positivi in vaccinati con ciclo vaccinale completo. Una cifra che rappresenta l'1,2% di tutti i decessi Sars-Cov-2 positivi avvenuti dal 1 febbraio, (in totale 35.776 decessi) e che, letta al contrario, conferma che quasi tutti i morti da Covid da sei mesi a questa parte non avevano fatto la profilassi, o comunque non avevano completato il ciclo e ancora di più conferma che il vaccino avrebbe salvato vite, liberato i reparti delle terapie intensive ed evitato tante altre morti, almeno 35mila. L'analisi è basata su un campione di 70 cartelle cliniche delle 423 vittime sottoposte a terapia antibiotica e steroidea, ma, si legge nel rapporto, «a causa di una ridotta risposta immunitaria suscettibili all'infezione da Sars-Cov-2 e alle sue complicanze pur essendo stati vaccinati». L'istituto superiore di Sanità fa poi anche un confronto tra le diverse ondate del Covid individuando tre periodi dall'inizio della pandemia ad oggi: la fase iniziale (marzo-maggio 2020), il secondo periodo (giugno-settembre 2020) e il terzo (ottobre 2020-luglio 2021) con l'incognita di agosto che, ipotizzano in tanti, potrebbe provocare una quarta ondata per colpa della variante Delta e delle riaperture. Rispetto alla prima ondata epidemica, i deceduti della seconda avevano una maggiore complessità clinica, infatti anche l'utilizzo dei farmaci è diverso: meno antivirali e maggior uso di steroidi.

CONTAGI E RICOVERI. In quanto ai contagi, l'ultimo bollettino registra un aumento dei casi in Italia ma, per la prima volta, negli ultimi 3-4 giorni si osserva un rallentamento della velocità di crescita. Un primo segnale da monitorare, anche se è troppo presto per dire se si tratti di una reale inversione di tendenza della curva epidemica e, dunque, serve prudenza. I numeri giornalieri dell'epidemia, infatti, sono ancora in salita. I nuovi positivi sono 4.522, 24 invece le vittime (lunedì erano state 22). Il tasso di positività, pari all'1,9%, è invece in calo rispetto al 3,5% del giorno precedente. Sempre su base giornaliera, continuano inoltre a salire i ricoveri: sono 189 i pazienti ricoverati in intensiva per Covid, 7 in più rispetto a lunedì e i ricoverati nei reparti ordinari sono 1.611 (+99). Di questi pazienti ospedalizzati quasi nessuno aveva completato il ciclo vaccinale, mentre i no-vax continuano a riempire i social di "bufale", come quelle che i vaccini fanno morire (ma non c'è nessuna evidenza scientifica in tal senso) e ad improvvisare manifestazioni rivendicando il diritto d'infettare.

Riccardo Galli per blitzquotidiano.it il 29 luglio 2021. Vaccini, una propaganda velenosa, surreale e suicida, una vera e propria overdose di roba-parole mal tagliata sussurra maligna che i vaccini servono a poco. Non è solo falso, è spudoratamente falso. Il fatto che poi la menzogna piaccia, che crogiolarsi nella menzogna sia piacere in cui indulgono in molti appartiene ad altra e grave patologia. Di Covid, di questa patologia, prima che esistessero e fossero somministrati i vaccini moriva un infetto su 50. Dopo sei mesi di vaccini alla popolazione i morti di Covid sono uno ogni 500 infetti e contagiati. I talebani del vaccino strumento del maligno in Terra diranno che coronavirus è diventato clemente, seppur mai esistito. Diranno che è l’estate, il caldo, le cure. Diranno che è la prova che Covid è solo un’influenza. Diranno la qualunque e, soprattutto, diranno la qualunque e il suo contrario. Diranno e dicono infatti che Covid è influenza e che di Covid si muore anche se vaccinati.

Morti di Covid anche se vaccinati. Non è la prova che vaccino serve a poco o chissà davvero a cosa serve? Come prova è un po’ quantitativamente esile: i morti per Covid pur avendo ricevuto due dosi di vaccino sono meno dell’un per cento di chi non ce l’ha fatta a superare la malattia (da quando vaccino esiste). E come prova, se sottoposta ad analisi qualitativa, come prova si squaglia. I morti per Covid anche se vaccinati non solo pochissimi, in più età media 89 anni e ciascuno con almeno (!) cinque altre patologie. Eccole: cardiopatia ischemica, fibrillazione atriale, scompenso cardiaco, ictus, ipertensione. Il vaccino non li ha salvati, a 89 anni di media e in queste condizioni di mala salute nella li avrebbe salvati. 

Quante persone sono state salvate dai vaccini. I vaccini hanno “solo” salvato quei 9 su 10 infetti che altrimenti sarebbero morti, la differenza acclarata e documentata tra un morto su 50 infetti prima dei vaccini e un morto ogni 500 infetti dopo i vaccini.

(ANSA il 27 luglio 2021. ) Quasi 99 deceduti per Covid su 100 dallo scorso febbraio non avevano terminato il ciclo vaccinale, e fra quelli che invece lo avevano completato si riscontra un'età media più alta e un numero medio di patologie pregresse maggiori rispetto alla media. Lo afferma un approfondimento contenuto nel report periodico sui decessi dell'Istituto Superiore di Sanità. Fino al 21 luglio sono 423 i decessi SARS-COV-2 positivi in vaccinati con "ciclo vaccinale completo" e rappresentano l'1,2% di tutti i decessi SARS-COV-2 positivi avvenuti dallo scorso 1 febbraio (in totale 35.776 decessi). L'1 febbraio, spiega l'Iss, è scelto come data indice perché corrisponde alle cinque settimane necessarie per il completamento del ciclo vaccinale a partire dall'inizio della campagna. L'analisi è basata su un campione di 70 cartelle cliniche dei 423 decessi SARS-COV-2 positivi avvenuti fino al 21/07/2021 in vaccinati con "ciclo vaccinale completo" (16.5%). Rispetto alla totalità dei decessi per cui sono state analizzate le cartelle cliniche, rileva l'Iss, nel campione dei deceduti con "ciclo vaccinale completo" l'età media risulta decisamente elevata (88.6 vs. 80 anni). Inoltre, il numero medio di patologie osservate in questo gruppo di decessi è di 5,0, molto più elevato rispetto ai decessi della popolazione generale (3,7). Dopo l'insufficienza respiratoria acuta, le sovrainfezioni sono le complicanze maggiormente diffuse nelle persone decedute con ciclo vaccinale completo. Terapia antibiotica e steroidea sono le terapie più utilizzate su questi pazienti. "I risultati qui presentati - conclude il report - possono avere due possibili spiegazioni. In primis, i pazienti molto anziani e con numerose patologie possono avere una ridotta risposta immunitaria e pertanto essere suscettibili all'infezione da SARS-CoV-2 e alle sue complicanze pur essendo stati vaccinati. In secundis, questo risultato può essere spiegato dal fatto che è stata data priorità per la vaccinazione alle persone più anziane e vulnerabili e che quindi questa rappresenta la popolazione con maggiore prevalenza di vaccinazione a ciclo completo alla data in cui è stata eseguita questa valutazione". 

Mauro Evangelisti per "il Messaggero" il 12 agosto 2021. «I vaccini stanno funzionando. E bene. Stanno fermando i casi gravi. Ai 4,5 milioni di over 50 che rifiutano il vaccino dico solo: guardate i dati. E tenete conto che la variante Delta ha una capacità di trasmissione da 6 a 8 volte più alta del ceppo originale. Se non si è vaccinati, è quasi impossibile non essere contagiati» dice il professor Massimo Ciccozzi, direttore del laboratorio di Statistica medica ed Epidemiologia molecolare dell'Università Campus Bio-medico di Roma che insieme ad alcuni colleghi ha pubblicato una lettera sul Journal of Medical Virology dal titolo d'impatto: «Mentre discutiamo sui vaccini, il virus se la ride». Guardatevi i dati, dice il professor Ciccozzi.

SCENARIO E l'ultimo report dell'Istituto superiore di sanità, sulla base dell'esperienza italiana, dice questo: con il ciclo completo della vaccinazione la protezione dal decesso è del 96,6 per cento. Tra l'11 giugno e l'11 luglio di 180 morti per Covid presi in considerazione, i vaccinati erano solo 34. «E di questi - ricorda Ciccozzi - 29 erano over 80 con varie patologie». Non solo: in un reparto di terapia intensiva, 9 pazienti Covid su 10 non sono vaccinati. Travolti da dichiarazioni, notizie che rimbalzano dai vari Paesi, numeri non sempre semplici da interpretare, i cittadini si domandano: ma i vaccini stanno funzionando? La sintesi, che emerge dall'ultimo studio dell'Istituto superiore di sanità, e che coincide più o meno con gli studi che arrivano anche dall'estero, è: sì, stanno funzionando, stanno riducendo il numero dei ricoveri, anche se con la variante Delta c'è una minore efficacia nel fermare l'infezione. Cosa significa? Semplificando: se sei vaccinato, hai molte meno possibilità di finire in ospedale rispetto a una persona che non è vaccinata. Hai anche molte meno possibilità di infettarti, ma in questo caso il margine di incertezza sale. Per questo motivo ieri il direttore dell'Oxford Vaccine Group, Sir Andrew Pollard, ha affermato: «Non è possibile raggiungere l'immunità di gregge con l'attuale variante Delta del coronavirus. La variante Delta infetterà ancora le persone che sono state vaccinate. E questo significa che chiunque non sia ancora vaccinato a un certo punto incontrerà il virus e non abbiamo nulla che possa fermare completamente quella trasmissione».

FUTURO Per questo, ormai molti virologi ed epidemiologi sono concordi: Sars-CoV-2 diventerà endemica, continuerà a circolare normalmente, ma non sarà un grande problema, perché se la maggioranza di noi sarà vaccinata, se lo saranno soprattutto le categorie più fragili, di conseguenza ricoveri e decessi saranno pochi e dunque la convivenza sarà accettabile. Perché ancora non siamo a questo punto? Malgrado l'Italia sia uno dei Paesi al mondo che ha vaccinato più persone, siamo ancora lontani dal traguardo: tra gli over 12, vale a dire i vaccinabili, c'è ancora oltre il 30 per cento di persone che ha rifiutato l'iniezione e non è protetto.

CONVIVENZA L'ultimo report dell'Istituto superiore di sanità analizza nel dettaglio infezioni, ricoveri e decessi per Covid tra il 25 giugno e il 25 luglio. Immaginate di entrare in un reparto di terapia intensiva che raccoglie tutti i malati che, purtroppo, in Italia hanno dovuto affrontare questa esperienza: gli ingressi sono stati 203, ma di quelli la stragrande maggioranza, 180, non è stata vaccinata o, in misura minore, ha ricevuto solo una dose di vaccino. Andiamo oltre, analizziamo i decessi sempre attingendo dai dati dell'Istituto superiore di sanità: su 180 morti i vaccinati sono solo 34 (dati del periodo 11 giugno - 11 luglio). Non solo: di quei 34, 29 sono over 80, la fascia di età per la quale il tasso di letalità è molto più alto; per fortuna il 90 per cento degli over 80 è protetto con la doppia iniezione, se non lo fosse stato quel dato sarebbe molto più doloroso. I ricoveri ospedalieri, dunque considerando anche quelli in area medica, riflettono lo stesso scenario: su 3.000 pazienti Covid, solo un settimo sono vaccinati, 404. Ancora: di quei 2.526 ricoveri di non immunizzati, 932 hanno meno di 40 anni, a dimostrazione che non è vero che se sei giovane non rischi nulla. Conclude il professor Massimo Ciccozzi: «Il nostro obiettivo non è più l'immunità di gregge, ma la protezione di più persone possibile. Se il vaccino evita la malattia grave e il ricovero, allora possiamo convivere con Sars-CoV-2, così come facciamo storicamente con altri virus».

Marina Amaduzzi per "corrieredibologna.corriere.it" il 12 agosto 2021. «Se non ci fosse il vaccino avremmo il triplo dei ricoveri, vista la contagiosità della variante Delta. Su dieci pazienti nove non sono vaccinati: qualcosa vorrà dire no?». Andrea Zanoni dirige la Covid Intensive Care, la terapia intensiva Covid al padiglione 25 del Sant’Orsola dove sono ricoverate 42 persone in degenza ordinaria e 10 appunto in terapia intensiva. 

Com’è la situazione?

«I ricoveri sono aumentati molto rispetto all’agosto dell’anno scorso. Abbiamo aperto due reparti di degenza ordinaria invece di uno mezzo vuoto l’estate scorsa. In terapia intensiva ho 10 pazienti, contro i 3-4 dell’anno scorso. Insomma, c’è una pressione maggiore, ancora niente di drammatico sia ben chiaro, ma la situazione è più impegnativa».

Sono cambiati i pazienti?

«Sì decisamente. Ci sono più pazienti giovani, in terapia intensiva abbiamo avuto anche un ragazzo di 23 anni, senza comorbilità, che è stato intubato e poi estubato. L’età media dunque si è molto abbassata anche nelle degenze ordinarie dove però arrivano forme di malattia più leggere. Gli anziani sono pochissimi, così come i non vaccinati». 

Anche in terapia intensiva non sono vaccinati?

«Di quelli che ho ricoverati ora tutti, a parte uno, hanno la polmonite bilaterale, l’altro è entrato per altre patologie e dallo screening pre-ricovero è risultato positivo. I 9 con la polmonite sono tutti non vaccinati, a parte uno». 

È una ulteriore dimostrazione della differenza che fa il vaccino no?

«Assolutamente, non c’è alcun dubbio. Se non avessimo i vaccini avremo il triplo dei malati. I vaccini poi non coprono al 100% ma al 98%, per cui c’è sempre quel 2% di possibilità di sviluppare la malattia che però non è una forma lieve, breve, leggera. È vero anche che i vaccinati possono essere contagiosi, ma gli studi mostrano che il tempo di contagiosità si riduce a un quarto, quindi con meno possibilità di far circolare il virus. A meno di nuove varianti il vaccino funziona. Stiamo proteggendo le parti ricche del mondo, dove non è stata fatta una campagna vaccinale e dove c’è un’ampia circolazione del virus le probabilità che si sviluppino altre varianti è alta». 

Tornando alla comunità bolognese, cosa si aspetta per settembre?

«In realtà di questi tempi pensavo di essere vuoto come l’anno scorso, di essere in una situazione migliore. Questo stato di cose ci ha colto di sorpresa, pensavamo di passare un’estate più tranquilla, invece la passiamo con più pazienti e più pazienti intubati. Le previsioni degli esperti dell’Università di Bologna dicono che ci sarà un incremento ulteriore tra fine agosto e l’inizio di settembre. È il picco previsto da loro, anche se non è paragonabile a quello che abbiamo vissuto a marzo. Dovrebbe essere un’onda più breve e con un numero di ricoveri molto inferiore. Ci aspettiamo di essere un po’ sotto stress a fine agosto».

E dopo?

«Tutto dipende dalla campagna vaccinale. Siamo ancora dentro questa pandemia, credo che ne avremo ancora per tutto il 2022, ma per restare all’autunno molto dipenderà anche dalle decisioni che saranno prese sulla scuola. Solo i ragazzini vaccinati andranno a scuola in caso di focolaio e i non vaccinati in dad? Sono decisioni che conteranno. Tornando ai miei 10 pazienti di adesso, otto sono no vax, persone di 60-70 anni che sono stati contagiati dai figli o dai nipoti». 

Ma quando un no vax viene ricoverato si pente?

«In genere quando ti senti dire ti addormentiamo perché ti intubiamo il pentimento viene da sè. A parte una signora che ha detto chiaramente che se la vaccinavamo mentre era sotto anestesia ci avrebbe denunciato. La testa della gente è anche questa. Devo essere sincero: sono quasi più stanco degli atteggiamenti di chi non vuole vaccinarsi che del Covid in sé, ne sentiamo di tutti i colori».

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 14 agosto 2021. Chi non si vaccina non è un negazionista, ma ha semplicemente paura. Una paura mascherata da scetticismo, diffidenza, perplessità e sfiducia nelle istituzioni, un timore che va ben al di là dei movimenti anti-vax che protestano ideologicamente nel nostro Paese. La maggioranza dei soggetti paurosi che rifiutano il vaccino contro il Covid infatti, ha un sistema neurobiologico che li porta a valutare le informazioni in modo pessimistico, cioè dando più peso a quelle negative e scoraggianti, ha riserve nei confronti dei farmaci dei quali evidenzia gli effetti collaterali piuttosto che i benefici, e per questo interpreta in maniera errata dati de-contestualizzati, arrivando a convinzioni personali senza validità logica e scientifica, perché la paura, si sa, non è mai razionale. Lo studio e l'analisi delle caratteristiche psicologiche delle persone che ancora esitano o resistono alla vaccinazione, che la rifiutano oche hanno dubbi sulla utilità, validità e sicurezza, un'indagine eseguita su decine di migliaia di soggetti residenti in tutte le Regioni, conferma che la paura e la diffidenza sono i due sentimenti prevalenti riguardo a questo tema, che andrebbero gestiti sullo stesso piano da cui si generano, quello emotivo, che in queste persone appare fragile e vulnerabile, scosso da emozioni radicate che riemergono associando il siero preventivo ad eventi avversi, a rischi certi o ad elevata probabilità di morte. La paura è un sentimento che non può essere ignorato o represso, che spesso produce comportamenti aggressivi, rabbiosi e irresponsabili, e più questo sentimento cresce, più sfoga nel diniego, nella negazione dell'esistenza stessa del virus, della pericolosità dell'epidemia e del suo miracoloso rimedio. Coloro che ammettono chiaramente di avere paura sono le persone più evolute intellettualmente e culturalmente, mentre la maggioranza dei soggetti che si ritengono coraggiosi a rifiutare il vaccino, che lo dichiarano pubblicamente, vivono questa loro resistenza come un'occasione liberatoria per dare sfogo al proprio desiderio latente di vivere in guerra contro tutto e tutti, di distinguersi mettendosi in trincea, tipico atteggiamento delle personalità frustrate, sociopatiche, ansiose per natura, depresse, vittime nella vita quotidiana e nel lavoro di continui sensi di persecuzione e di ingiustizia per non essere valorizzati secondo le loro aspirazioni, cosa che li spinge ad assumere comportamenti contrari, ossessivi, paranoidi o maniacali, che arrivano all'urlo di piazza e nei social per dare valore al proprio io, per ottenere consensi fuori dal pensiero di gruppo e cercare una realizzazione personale finalmente soddisfacente in nome di una libertà di pensiero e azione che pure nessuno gli nega. In pratica queste persone sono passate dalla paura del Coronavirus, che le ha perseguitate per oltre un anno, con le notizie di migliaia di morti al giorno, tutti non vaccinati, alla paura del vaccino salvifico, nel quale non credono, non hanno fiducia, nonostante l'evidenza dei fatti dimostri come la vaccinazione di massa in atto abbia fatto crollare contagi, ricoveri e migliaia di decessi in tutta Italia, tranne che nei non vaccinati, per i quali sarà quasi impossibile non restare contagiati. La responsabilità di tutto questo in parte è dovuta alla comunicazione disastrosa e spesso contraddittoria che è stata fatta in tv e sui media nei mesi passati, la quale ha contribuito a rafforzare false credenze e superstizioni che hanno viaggiato velocissime sui social, influenzando migliaia di utenti più del virus, in un passaparola da pianerottolo divenuto immediatamente virale. È sulla base di queste paure che gli attivisti.       

Fabio Savelli per corriere.it il 14 agosto 2021. Chi si contagia di Covid tra gli over 80 e non è vaccinato ha una probabilità di morte venti volte maggiore di chi è immunizzato con due dosi nella stessa fascia d’età. Tra i 60 e i 79 anni la differenza di letalità tra i vaccinati e chi non lo è diventa ancora più eclatante: 30 volte maggiore il rischio di morte per chi non si è coperto. Tra i 40 e i 59 anni diminuisce invece di cinque volte il rischio di finire in ospedale. Tra i più giovani, 12-39 anni, siamo al rischio zero per casi in terapia intensiva tra i vaccinati. In quattro mesi, dal 4 aprile all’8 agosto, neanche un episodio. Sono i dati che l’Istituto superiore di Sanità ha diffuso ieri. Prendono in considerazione contagiati, ricoveri ordinari o in terapia intensiva e decessi legati al Covid. Sono gli stessi mesi in cui la campagna vaccinale ha accelerato diventando massiva, arrivando a coprire oltre 35,3 milioni di connazionali con doppia dose e circa 38 milioni con una. Il rapporto dell’Iss, presieduto da Silvio Brusaferro, è il frutto dell’analisi congiunta dei dati dell’anagrafe nazionale vaccini con quelli della sorveglianza Covid-19 che affluiscono dalle regioni. 

Gli over 80. Il rischio decesso tra gli over 80 diverge enormemente tra chi si è coperto e chi no. Senza due dosi chi appartiene a questa fascia d’età ha il 96,69% in più di probabilità di morire a causa del virus rispetto a chi si è immunizzato. Con una dose soltanto la differenza scende al 74,22%, un divario comunque ampio. I numeri assoluti sono più chiari: da aprile ad oggi sono deceduti 28 over 80 che avevano ricevuto due dosi e appartenevano dunque ai 4 milioni di vaccinati di questa fascia. Tra i non vaccinati il rapporto è completamente diverso: sono morti 54 anziani sui 418 mila non coperti. I contagi sono stati 756: la letalità è ancora oggi molto alta, oltre l’8%, se non ci si vaccina. Tra chi è immunizzato i contagiati sono stati invece 2.017, un numero superiore. Questo perché si è verificato quello che gli esperti chiamano «paradosso vaccinale». I numeri di casi Covid tra i vaccinati sono superiori a chi non lo è perché abbiamo coperto oltre il 93% della platea. 

La fascia 60-79 anni. In questa fascia si trovano le stesse differenze. Ancor più interessanti in caso di ospedalizzazioni in terapia intensiva, un rischio concreto per chi contrae il Covid. Chi ha completato il ciclo vaccinale, che l’Iss considera 14 giorni dopo dalla somministrazione della seconda dose, il rischio di finire allettati in carenza di ossigeno scende del 97,79% rispetto a chi non è vaccinato. E del 90,57% per chi ha ricevuto una dose sola. Ci sono stati appena 17 vaccinati con doppia dose finiti in carenza di ossigeno in questi 4 mesi. E 6 decessi su oltre 8,3 milioni di vaccinati di queste due decadi. Tra i non immunizzati i numeri divergono chiaramente: 104 persone sono finite in area medica critica (con 64 decessi) su una platea di gran lunga inferiore: 2,8 milioni di non vaccinati. 

La fascia 40-59 anni. Anche in queste due decadi differenze sostanziali tra le due categorie: vaccinati e non. Il calcolo sui ricoveri in via ordinaria a causa del Covid è esemplificativo: in quattro mesi in questa fascia d’età sono stati ricoverati 1.081 persone non vaccinate su oltre 16.800 contagiati. Significa che tra i non coperti c’è una probabilità su 16 di essere ricoverati, seppur in posti letto di degenza ordinaria. Se invece ci si vaccina la proporzione cambia sensibilmente. Appena 89 vaccinati con doppia dose sono stati ricoverati per Covid su 7,3 milioni di immunizzati. I contagi tra i vaccinati sono stati 6.873. Significa che c’è un caso ogni 77 contagi che finisce in ospedale. 

La fascia 12-39 anni. È quella dove l’analisi sull’efficacia vaccinale è più complicata perché è minore la capacità di tracciamento dei contagi. Scrive l’Iss che «una quota di infezioni asintomatiche o con sintomi lievi non siano diagnosticate, e questo è verosimile si verifichi più frequentemente nella popolazione giovane». In più tra i giovani non vaccinati c’è un altro elemento: «Lo stigma e la paura di eventuali restrizioni alla loro vita sociale conseguenti un’eventuale diagnosi» determinano una «sottostima del rischio». Significa che i numeri dei casi Covid sono sottostimati e quindi cambiano le proporzioni complessive. L’Iss registra la diminuzione del 68,32% del rischio di contagiarsi per i vaccinati con doppia dose rispetto a chi non lo è. Che scende al 41,34% con una dose soltanto. Ma si tratta, come dicevamo, di stime per difetto. Perché l’efficacia vaccinale è probabilmente molto superiore.

Covid, lo studio Iss conferma: ospedalizzazione 7 volte più alta per i non vaccinati, aumentano i contagi tra i bambini. Redazione su Il Riformista il 14 Agosto 2021. Aumentano i casi di contagio tra i bambini con età inferiore ai 9 anni. Mentre il tasso di ospedalizzazione per i non vaccinati è stato oltre sette volte più alto rispetto ai vaccinati con ciclo completo negli ultimi 30 giorni. A fotografare la situazione Covid in Italia è il rapporto di sorveglianza integrata settimanale dell’Istituto Superiore di Sanità, che mette in risalto anche come la variante Delta, ormai diffusa in Europa così come in Italia, continui a far aumentare le infezioni da Sars-Cov2 nel nostro Paese.

Allerta contagi tra i bambini. Secondo il rapporto Iss, da fine giugno si è osservato un aumento dell’incidenza settimanale tra 0 e 40 anni. Nonostante il dato non sia ancora consolidato, il documento sottolinea come nell’ultima settimana sia stato registrato un incremento particolare nella fascia di età 0-9 anni, con un’incidenza di poco superiore a 50 casi per 100.000 abitanti: è la prima volta che accade da inizio maggio. 

I numeri, simili alla settimana precedente, indicano che l’incidenza nella fascia di età 10-19 è pari a 156 per 100.000 abitanti; nella fascia 20-29 a 146 per 100.000 abitanti. Mentre nelle fasce 30-39 e 40-49 è rispettivamente a quota 79 e 56 per 100.000 abitanti.

Il confronto tra vaccinati e non vaccinati. Il report evidenzia inoltre come negli ultimi 30 giorni, il 26,3% delle diagnosi di Sars-Cov2, il 40,7% delle ospedalizzazioni, il 61,3% dei ricoveri in terapia intensiva e il 62,1% dei decessi negli over 80 siano avvenuti tra non vaccinati. Stesso discorso per ciò che riguarda il tasso di ospedalizzazione negli ultimi 30 giorni, con  52 ricoveri tra coloro che non hanno ricevuto alcuna dose di vaccino contro i 7 dei vaccinati.

L’effetto “paradosso”. Quando le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, ecco verificarsi il fenomeno denominato “effetto paradosso”, per cui il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile tra vaccinati e non vaccinati, a causa della progressiva diminuzione nel numero di questi ultimi. Per esempio, si legge nel rapporto dell’Iss, nella fascia di età 80+, dove la copertura vaccinale si attesta intorno al 90%, il numero di ospedalizzazioni tra vaccinati con doppia dose è pari a 294, mentre nei non vaccinati è leggermente più basso, a quota 220.

Casi in aumento. Nel mese di agosto i contagi risultano in aumento a livello nazionale, passando a 68 per 100.000 abitanti nella settimana 2-8 agosto contro i 62 del periodo tra il 26 luglio e il 1° agosto, con un’incidenza settimanale che rimane superiore rispetto alla soglia settimanale di 50 casi ogni 100.000 abitanti “che potrebbe consentire il controllo della trasmissione basato sul contenimento ovvero sull’identificazione dei casi e sul tracciamento dei loro contatti” si legge sul documento. Resta così fondamentale rispettare le regole anti-covid, evitando comportamenti a rischio. “Una più elevata copertura vaccinale ed il completamento dei cicli di vaccinazione rappresentano gli strumenti principali per prevenire ulteriori recrudescenze di episodi di aumentata circolazione del virus sostenuta da varianti emergenti con maggiore trasmissibilità” sottolineano gli esperti.

IL 99 PER CENTO DEI MORTI PER COVID NON ERA VACCINATO. In Italia sono soprattutto i non vaccinati a finire in ospedale o a morire a causa del Covid. Dei 35.776 decessi dal 1° febbraio al 21 luglio, 423 erano vaccinati. Federico Cenci su Il Quotidiano del Sud il 28 luglio 2021. Sono soprattutto i non vaccinati a finire in ospedale o a morire a causa del Covid in Italia. È quanto emerge da un approfondimento del rapporto periodico sui decessi dell’Istituto superiore di sanità (Iss). Il testo riferisce che «quasi 99 deceduti per Covid su 100 dallo scorso febbraio non avevano terminato il ciclo vaccinale, e fra quelli che invece lo avevano completato si riscontra un’età media più alta e un numero medio di patologie pregresse maggiori rispetto alla media».

IL RAPPORTO. Il periodo preso in considerazione arriva fino al 21 luglio: in quella data sono state 423 le vittime del virus cinese che avevano completato il ciclo vaccinale, pari a una percentuale dell’1,2% di tutti i decessi per Covid avvenuti dallo scorso primo febbraio, per un totale di 35.776 morti. L’Iss spiega che il primo febbraio è stato scelto «come data indice perché corrisponde alle cinque settimane necessarie per il completamento del ciclo vaccinale a partire dall’inizio della campagna». Gli esperti rilevano inoltre che l’età media di questi 423 morti risulta più elevata di quella delle vittime del Covid in generale (86,6 anni contro 80). Altra indicazione emersa dal rapporto dell’Iss è quella relativa al numero di patologie pregresse delle vittime: sono mediamente 5, un dato – osservano gli esperti – «molto più elevato rispetto ai decessi della popolazione generale». In quest’ottica, dopo l’insufficienza respiratoria acuta, «le sovrainfezioni sono le complicanze maggiormente diffuse nelle persone decedute con ciclo vaccinale completo». L’Iss offre due possibili letture a questo risultato: la prima è che «i pazienti molto anziani e con numerose patologie possono avere una ridotta risposta immunitaria e pertanto essere suscettibili all’infezione da Sars-Cov-2 e alle sue complicanze pur essendo stati vaccinati»; la seconda è che la categoria degli anziani «rappresenta la popolazione con maggiore prevalenza di vaccinazione a ciclo completo alla data in cui è stata eseguita questa valutazione» in quanto ad anziani e vulnerabili è stata data priorità nella campagna vaccinale.

NUMERI RELATIVI E ASSOLUTI. Va inoltre rilevato che quattro mesi dopo l’inizio della rilevazione, il 2 giugno, data in cui la campagna vaccinale è stata aperta a tutta la popolazione, soltanto il 20,7% degli italiani aveva completato il ciclo, per un totale di 12.506.509 di persone. Quest’ultimo aspetto dimostra che nel periodo di maggior impeto del virus, a cavallo tra l’inverno e la primavera scorsi, il numero di persone che avevano completato il ciclo vaccinale in Italia era ancora scarso (il 31 marzo aveva ricevuto due dosi 3.245.884 persone, vale a dire il 5,4% della popolazione), motivo per cui era statisticamente molto più probabile che i non vaccinati potessero essere contagiati. Per avere dunque un dato comparativo efficace, le percentuali di vaccinati e non vaccinati dovrebbero essere equamente distribuite. Del resto lo stesso Iss la scorsa settimana ha pubblicato un altro rapporto in cui precisava la distinzione tra numeri assoluti e numeri relativi: «Se le vaccinazioni nella popolazione raggiungono alti livelli di copertura, si verifica l’effetto paradosso per cui il numero assoluto di infezioni, ospedalizzazioni e decessi può essere simile tra i vaccinati rispetto ai non vaccinati». Per esempio, spiegava l’Iss in quel rapporto, «nella fascia di età 80+, dove la copertura vaccinale è alta, si osserva che il numero di ospedalizzazioni fra vaccinati con ciclo completo e non vaccinati è simile». Dall’altra parte, si legge ancora, «il tasso di ospedalizzazione negli ultimi 30 giorni nei non vaccinati è circa dieci volte più alto rispetto a quello dei vaccinati con ciclo completo (28 vs 3 per 100 mila abitanti)».

VACCINI INNOVATIVI A MESSINA. Sul fronte delle vaccinazioni si registra inoltre che la città di Messina potrebbe fare da apripista per la somministrazione attraverso una tecnologia innovativa già utilizzata negli Stati Uniti, in Australia e in India. Essa consiste in un getto ad alta velocità che sostituisce completamente l’utilizzo dell’ago, quindi della tradizionale puntura, e garantisce un totale assorbimento del vaccino per via intramuscolare. Il dispositivo medico “Comfort-in”, certificato CE, è ideato per somministrazioni sub-cutanee o intramuscolari di sostanze medicamentose.

“IL 35% DEI DECESSI DA CORONAVIRUS RIGUARDA PAZIENTI CON DIABETE”. Raffaella Buzzetti, ordinario di Endocrinologia la «Sapienza» e Responsabile UOD Policlinico Umberto I Coordinatrice Nirad Società Italiana Diabetologia, per leggo.it il 26 luglio 2021. In questi tempi di Covid 19 abbiamo toccato con mano quanto il diabete sia una pandemia nella pandemia e quanto questa malattia amplifichi gli effetti di ogni ulteriore patologia. Le persone con diabete che hanno contratto il Covid 19 hanno avuto una prognosi più infausta rispetto alle persone che non avevano il diabete. L’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha dimostrato che il 35% dei decessi riguarda pazienti con diabete. In alcune fra le persone che hanno avuto diagnosi di Covid 19 è anche comparsa una nuova forma di diabete. Fare ogni possibile attenzione significa quindi in primis alimentazione sana e sport. Anche perché l’età di comparsa del diabete di tipo 2 si sta abbassando. Se infatti il diabete di tipo 1 (che rappresenta il 10% circa di tutte le forme ed ha una patogenesi autoimmune che richiede l’insulina per la sopravvivenza) è prevalente nell’ infanzia e nell’adolescenza, quello di tipo 2 invece interviene nell’età adulta. Ma con il peggioramento dello stile di vita, la riduzione dell’attività fisica e il consumo di cibi raffinati ricchi di zuccheri e di grassi saturi, l’età di comparsa del diabete di tipo 2 si è pericolosamente abbassata. E con essa i rischi generali o specifici che si sono intrecciati al Covid 19. Inoltre come evidenziato dallo studio Capture un soggetto con diabete su tre ha un maggiore rischio cardiovascolare: in tema di genere poi si è visto che le donne con diabete hanno addirittura un rischio aumentato rispetto agli uomini dopo la menopausa e quindi una possibilità di infarto del miocardio superiore a quella maschile. Il messaggio che vorrei dare è quindi relativo alla prevenzione attuabile con l’attività fisica ed un’alimentazione adeguata e a noi diabetologi l’impegno di trattare al meglio i nostri pazienti anche utilizzando farmaci “intelligenti” come gli agonisti recettoriali dei GLP1 che favoriscono la riduzione di peso e sono efficaci sul controllo della glicemia, fondamentale al fine di prevenire una peggiore prognosi anche nel caso di infezione da Covid 19. 

Raffaella Buzzetti è ordinario di Endocrinologia la «Sapienza» e Responsabile UOD Policlinico Umberto I Coordinatrice Nirad Società Italiana Diabetologia

Covid, rivelazione choc: "Nei dati pure chi non è morto per il virus". Giuseppe De Lorenzo il 10 Luglio 2021 su Il Giornale. La frase misteriosa nella nota dell'Avvocatura che difende il governo. Ma è il contrario di quanto dichiara l'Iss. Chi ha ragione? Le opzioni sono due. O mente l’Iss, oppure ad essere caduta in fallo è l’Avvocatura dello Stato. In entrambi i casi il fatto sarebbe grave, nonché incredibile. Perché dopo un anno passato a far polemiche sul conteggio dei morti (“per Covid o con il Covid?”), ora si apre un nuovo incredibile capitolo. Gli avvocati di Palazzo Chigi e del ministero della Salute si sono fatti sfuggire un’ammissione dalla portata esplosiva: in Italia, scrivono, i dati registrano tra le vittime “tutti coloro i quali avevano il virus al momento del decesso” e non, come avviene “negli altri Paesi”, solo “coloro i quali sono deceduti a causa del virus stesso”. Capito? In sostanza nel calderone ci sarebbe finito un po’ di tutto, non solo i morti per colpa di Sars-CoV-2 ma anche altro. La rivelazione si trova all’interno della nota di trattazione, che ilGiornale.it ha potuto visionare, depositata al Tribunale Civile di Roma in merito alla causa intentata da oltre 500 familiari delle vittime del Covid. Sul banco degli "imputati" ci sono il ministero della Salute, Palazzo Chigi ai tempi di Conte e Regione Lombardia. Sulla sostanza della difesa del governo i lettori del Giornale.it sono già informati (leggi qui), ma è sui dettagli che a volte occorre soffermarsi. A pagina 22, l’Avvocatura cerca di sostenere che se anche l’esecutivo avesse aggiornato il piano pandemico, il numero dei decessi non sarebbe comunque diminuito. E a sostegno della tesi mostra degli (sballati) confronti con altri Paesi, secondo cui “il rapporto tra casi confermati e vittime in Italia non si discosta da quello esistente nel resto del mondo”. Insomma: mal comune, mezzo gaudio. Il bello però arriva qualche riga dopo: “Gli stessi dati riferiti all’Italia - si legge - devono essere valutati con le dovute precauzioni” in quanto quei numeri “classificano tra deceduti tutti coloro i quali avevano il virus al momento del decesso e non – come avvenuto da altri Paesi (…) - soltanto coloro i quali sono deceduti a causa del virus stesso”. Quanto scritto sembra però cozzare a pieno con le posizioni ufficiali dell’Istituto Superiore di Sanità. La polemica sul numero di morti è vecchia come il mondo, infatti lo scorso 8 giugno l’Iss si preoccupò di scrivere un rapporto per spiegare per filo e per segno la faccenda. Il testo è abbastanza chiaro. A pagina 2 si precisa che “per definire un decesso come dovuto a Covid-19” occorre che si verifichino diverse condizioni. Primo: il morto deve essere un caso confermato, dunque con test molecolare positivo. Secondo: deve esserci un “quadro clinico” tipico della malattia. Terzo: non deve comparire una chiara causa di morte diversa da Covid-19, tipo un incidente stradale. Infine: non deve esserci un “periodo di recupero clinico completo” tra la malattia o il decesso, ovvero se ho avuto il Covid e muoio dopo 4 mesi non posso dare la colpa al virus. Certo, poi ci sono dei casi limite, ma il punto è chiaro: non basta essere positivi per finire nel calderone dei morti per coronavirus. E chi aveva un tumore o malattie pregresse? L’Iss spiega: in questo caso vengono considerati casi Covid se i malanni già presenti “possono aver favorito o predisposto ad un decorso negativo dell’infezione”. Ecco un esempio: “Se l’infarto avviene in un paziente cardiopatico con una polmonite Covid-19, è ipotizzabile che l’infarto rappresenti una complicanza del virus e quindi il decesso deve essere classificato” come coronavirus. Se invece gli prende un colpo senza avere febbre, polmoniti o altri sintomi, anche se positivo, non viene comunque annoverato nel bollettino quotidiano. Chi ha ragione, dunque? L'Iss, che assicura di conteggiare solo i reali decessi "per" Covid, oppure l'Avvocatura secondo cui nei bollettini rientra chiunque avesse il virus al momento dell'ultimo respiro? Cercasi chiarezza. 

Giuseppe De Lorenzo. Sono nato a Perugia il 12 gennaio 1992. Stavo per intraprendere la carriera militare, poi ho scelto di raccontare quello che succede in Italia e nel mondo. Rifuggo l'ipocrisia di chi sostiene di possedere la verità assoluta: riporto la realtà che osservo con i miei occhi.

Coronavirus, Mario Ruocco morto a 14 anni a Modena: è la vittima più giovane di sempre in Italia: negativo, ma organi interni distrutti. Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. Morto a 14 anni, per le conseguenze del coronavirus. Modena è in lutto per Mario Ruocco, la più giovane vittima dell'epidemia in Italia. La sua storia è straziante: il ragazzino ha lottato contro il Covid per 90 giorni, si era negativizzato ma le conseguenze del virus sul suo corpo sono state troppo pesanti. Fatali, infatti, le lesioni patite dagli organi interni, letteralmente devastati dal Sars-Cov-2. Come riporta il Corriere del Mezzogiorno, a piangere per la scomparsa di Mario non sono solo papà Antonio e mamma Olga, originari di Sant’Egidio del Monte Albino (Salerno), ma anche il sindaco della cittadina natale dei suoi genitori, Antonio La Mura, che su Facebook ha pubblicato un emozionante post con foto nera: "Addio Mario, che la terra ti sia lieve". Prima ancora, il tristissimo annuncio ai concittadini e a una comunità che ben conosceva Antonio e Olga: "Care concittadine e cari concittadini, pochi minuti fa ho appreso la terribile notizia della morte, a Modena, di un ragazzo di appena 14 anni, la cui famiglia è originaria di Sant'Egidio del Monte Albino. Si tratta del giovanissimo Mario Ruocco". "Mario si è ammalato di Covid - ha spiegato il sindaco -. Ha superato l'infezione, lottando come un leone per 90 giorni, ma non è riuscito, sebbene si fosse negativizzato, a superare le drammatiche conseguenze della malattia sugli organi interni. In questo momento di dolore inconsolabile, voglio pubblicamente esprimere a papà Antonio e mamma Olga la vicinanza commossa dell'intera comunità di Sant'Egidio. Condoglianze che naturalmente estendo a tutta la famiglia, in particolare al nonno Mario Ruocco e alla nonna Antonietta Marcone, nostri cari concittadini".

Muore a 14 anni a causa del Covid: è una delle vittime più giovani. Federico Garau il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. Dopo le cure il ragazzo era risultato negativo al tampone, ma il virus aveva ormai provocato danni irreparabili agli organi interni. Lottava contro il Covid-19 da oltre 3 mesi il ragazzino di 14 anni che oggi ha perso la vita a causa delle complicazioni causate dal virus. Si tratta di una delle vittime più giovani provocate dal patogeno in Italia. Secondo quanto riferito sino ad ora, l'adolescente era riuscito a sconfiggere la malattia e a negativizzarsi. Gli strascichi lasciati dal virus sul fisico del giovane, tuttavia, avevano purtroppo provocato danni irreparabili che hanno infine determinato il decesso. Dopo aver contratto il Sars-Cov-2 lo scorso marzo, Mario aveva presto manifestato dei sintomi giudicati molto gravi. Da qui il ricovero presso Sant'Orsola di Bologna, divenuto il centro di riferimento pediatrico per i casi Covid in Emilia-Romagna. Le cure erano riuscite ad eradicare il virus, tanto che il 14enne era risultato negativo, ma gli strascichi del patogeno avevano purtroppo peggiorato la situazione clinica del ragazzo, mai dimesso dal reparto di terapia intensiva. Trasferito lo scorso 8 giugno all'ospedale di Baggiovara, Mario è morto nelle scorse ore a causa delle pesanti conseguenze lasciate dal Covid sul suo organismo. Stando alle prime dichiarazioni mediche, il 14enne non soffriva di patologie pregresse. "La direzione generale dell'Azienda Usl di Modena e tutti i suoi professionisti che ancora combattono giorno dopo giorno contro la pandemia esprimono le più sentite condoglianze ai genitori e alla famiglia del ragazzo di 14 anni deceduto a Modena", ha dichiarato Antonio Brambilla, direttore generale dell'Azienda Usl di Modena."Oggi è un giorno in cui il ricordo di tutte le vittime del Covid-19 si fa particolarmente doloroso. Ci stringiamo a questa famiglia e a tutti coloro che in questi mesi hanno perso i propri cari a causa del Coronavirus", ha aggiunto, come riportato da LaPresse. Sconvolti dalla tragica notizia il presidente della Regione Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e l'assessore regionale alla Salute Raffaele Donini. "Lascia attoniti la notizia della scomparsa di un ragazzo di 14 anni a causa delle conseguenze del Covid-19, avvenuta all'ospedale di Baggiovara a Modena dopo essere stato ricoverato al S. Orsola di Bologna dove è stato curato sin dall'insorgere della malattia", si legge in una nota combinata. E ancora: "Di fronte a un dolore che è difficile anche solo poter immaginare, esprimiamo la più sentita vicinanza ai genitori e alla famiglia, cui ci stringiamo. A loro e alla memoria del giovane va il pensiero commosso di tutta la comunità regionale". Ad esprimere il proprio dolore anche il sindaco facente funzioni di Sant'Egidio del Monte Albino (Salerno), paese d'origine della famiglia di Mario, da tempo trasferita nel modenese. "Mario si è ammalato di Covid. Ha superato l'infezione, lottando come un leone per novanta giorni, ma non è riuscito, sebbene si fosse negativizzato, a superare le drammatiche conseguenze della malattia sugli organi interni", ha commentato il primo cittadino Antonio La Mura. "In questo momento di dolore inconsolabile, voglio pubblicamente esprimere la vicinanza commossa dell'intera comunità di Sant'Egidio", ha concluso.

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018 collaboro con IlGiornale.it, dove mi occupo soprattutto di cronaca.

Graziella Melina per “Il Messaggero” l'11 giugno 2021. Durante la pandemia sono morte per Covid 746.146 persone. L'equivalente degli abitanti di circa sette città come Napoli, Novara, Arezzo, Udine. La mortalità del 2020 in Italia è stata la più alta mai registrata dal Dopoguerra in poi. Ben 100.526 persone decedute in più rispetto alla media del 2015-2019 (con un 15,6% di eccesso). Ma il rischio di decesso per Covid si riduce del 95% a partire dalla settima settimana dopo la somministrazione della prima dose di vaccino. Come evidenza il rapporto dell'Istat realizzato insieme all'Istituto Superiore di Sanità, le regioni dove c'è stato un aumento significativo di lutti sono Piemonte, Valle D'Aosta, Lombardia e la Provincia autonoma di Trento. Il picco più alto di decessi giornalieri si è registrato l'anno scorso: il 28 marzo ci sono state 928 vittime; mentre il 19 novembre, durante la seconda ondata, non ce l'hanno fatta altre 805 persone. A perdere la vita soprattutto gli uomini; l'incidenza maggiore di decessi per Covid sui morti totali è stata tra i 65 e 79 anni (uno su cinque). La situazione di sofferenza e dolore vissuta da migliaia di famiglie italiane emerge anche dai dati del XVIII Rapporto Osservasalute, curato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane dell'Università Cattolica. Tra le regioni dove si sono registrati maggiori decessi, la Valle d'Aosta (246,1 per 100mila abitanti) e la Lombardia (208,6 per 100mila). Una mortalità più bassa c'è stata in Toscana, Abruzzo e Marche; e poi in Campania (64,3 per 100mila), Puglia (59,7 per 100mila) e Lazio (56,5 per 100mila). In Calabria 23,3 morti per 100mila abitanti. Gli esperti hanno osservato un aumento di decessi anche per altre patologie: per demenze (+49%), cardiopatie ipertensive (+40,2%), diabete (+40,7%) e per altri sintomi e malattie mal definite (+43,1%). Secondo Alessandro Solipaca, direttore scientifico dell'Osservatorio, «probabilmente questa emergenza ha rallentato i processi di cura. In altri casi, forse, potrebbe avere accelerato il decesso». La pandemia ha insomma reso ancora più vulnerabili le persone già affette da altre patologie. «Molti pazienti non si sono sottoposti agli screening, ai percorsi di prevenzione e la malattia in molti casi è degenerata velocemente. Anche la fragilità degli anziani si è acuita, purtroppo molti non hanno ricevuto cure con tempestività». Un indicatore che può aiutare gli esperti a comprendere come mai si sia arrivati a un numero così drammatico di morti è senz'altro il numero dei ricoveri. Nella prima fase della pandemia (dal 24 febbraio al 14 luglio 2020), le regioni che hanno ospedalizzato maggiormente sono state Valle d'Aosta (40,8%), Lazio (30,5%) e Umbria (28,2%); quelle con la quota più elevata nelle terapie intensive sono state Umbria (6%), Toscana (2,6%) e Lazio (2,3%). Nelle due fasi successive, Piemonte (10,3%), Liguria (9,5%) e Valle d'Aosta (7,4%) hanno avuto maggiore ospedalizzazione. «Il Lazio e la Sicilia, pur essendo le regioni con il più basso numero di contagi - osserva Solipaca - sono fra quelle che hanno ospedalizzato molto. Il Veneto, al contrario, pur essendo una regione sotto pressione, ha ospedalizzato poco. Segno evidentemente di una cattiva performance della sanità territoriale delle prime due. La presa in carico è stata tardiva e le persone si sono aggravate». Il numero totale dei morti per Covid, però, potrebbe addirittura essere sottostimato. «Abbiamo osservato che è aumentata moltissimo la mortalità per influenze e polmoniti. In realtà, molti di questi decessi sono dovuti al Covid, ma sono stati annoverati come morti per influenza. I decessi di polmonite e influenza, per esempio, sono stati sette volte superiori in Lombardia e in Emilia Romagna rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Direi che si tratta di un dato poco credibile».

Federico Fubini e Simona Ravizza per il "Corriere della Sera" il 29 giugno 2021. Due anni fa Tiziana De Meis, un'insegnante romana allora di 56 anni, si sottopose a una mammografia di controllo. Il medico non rilevò niente di particolarmente allarmante, ma le raccomandò di ripetere l'esame dopo un anno. Quando quel momento arrivò, l'Italia era nel pieno del primo lockdown e Tiziana De Meis non osò neppure avvicinarsi a strutture ospedaliere che - lo sapeva - erano travolte dall' emergenza e piene di persone potenzialmente contagiose. L' insegnante romana aspettò ancora un altro anno, quando ormai avvertiva distintamente la presenza di un grosso corpo estraneo fra i tessuti del petto. La mastectomia è arrivata solo il mese scorso, dura, dolorosa, perché in ritardo di dodici mesi. Nel caso di Tiziana De Meis la rinuncia ai controlli è stata indotta dal clima nel Paese all' apice della pandemia. Ma in un'infinità di altri casi i pazienti non hanno potuto scegliere. Un' inchiesta di Roberto Saporiti della Sissa di Trieste documenta come dall' inizio del primo lockdown il governo abbia «rimodulato l'attività differibile» del sistema sanitario. Il tempo però sta dicendo che quelle cure e quelle analisi non erano rimandabili. Per una lunga lista di malattie non contagiose, lo stress di Covid-19 su un sistema sanitario nazionale già fragile e impoverito dalla pressione sulla spesa degli anni precedenti ha innescato una seconda epidemia. Non virale questa, ma fatta di procedure o decisioni omesse e delle loro conseguenze. Visite e esami di prevenzione non affrontati, sale chirurgiche chiuse, cure posticipate. Il costo umano e sociale di questa seconda epidemia è ancora difficile da decifrare, perché a rilascio lento. Ma si presenterà, non molto meno elevato del Covid stesso. E forse potrà indurre una riflessione più informata sui buchi nella rete del Sistema sanitario nazionale. Davide Croce dell'Università Liuc stima - sui dati delle aziende sanitarie pubbliche e dell'Agenzia nazionale dei servizi sanitari (Agenas) - che nel 2020 gli italiani hanno ricevuto 73 milioni di prestazioni specialistiche in meno rispetto all' anno prima. I ricoveri sono calati di circa un quarto e di un ulteriore 11% nei primi sei mesi di quest' anno sullo stesso periodo di quello passato. Sempre le mammografie sono diminuite del 32%, mentre in Sardegna e in Lombardia si sono quasi dimezzate. Simili gli andamenti sugli screening di colon e retto. Anche le terapie per le malattie gravi hanno risentito del rallentamento delle attività ordinarie e della riconversione in terapie intensive di interi blocchi di sale operatorie. Francesco Cognetti, presidente della Confederazione degli oncologi, cardiologi e ematologi italiani, stima negli ultimi 15 mesi «ritardi e cancellazioni di oltre 100 mila interventi chirurgici per tumore»; un fenomeno, a suo avviso, «ancora in corso». Quello che Cognetti definisce «l'incredibile disastro clinico-assistenziale» degli ultimi quindici mesi spiega - in parte - la particolarità italiana sottolineata dal cardiologo della Cattolica di Roma Filippo Crea: durante la pandemia abbiamo perso moltissime vite in Italia per motivi ufficialmente diversi da Covid. Dopo la Spagna l'Italia è il Paese ad aver registrato nel 2020 più morti «in eccesso» - rispetto alle medie del quinquennio precedente - sui quali non è mai stato diagnosticato il virus. Ogni due decessi per il contagio se ne conta uno formalmente attribuito a cause diverse: circa 40 mila morti in più del solito, che restano da spiegare. In parte sarà stato l'effetto statistico di tamponi mai effettuati su persone contagiate; ma in parte - sostengono Cognetti e Crea - i decessi per problemi cardiaci avvenuti fuori dagli ospedali sono cresciuti del 30% rispetto agli anni precedenti. Le persone non sono riuscite a raggiungere i pronto soccorso o non si sono fidate di andarci: l'anno scorso l'accesso a queste strutture è crollato di oltre un terzo - nota Davide Croce - e i ricoveri di un quarto. La novità degli ultimi mesi è che tutto questo sta cambiando, in apparenza. Un esame dei dati dell'Istat, l'istituto statistico, mostra che fino a tutto il mese di aprile 2021 in Italia resiste purtroppo una mortalità in eccesso di circa il 10% rispetto al quinquennio prima dell'emergenza. Allo stesso tempo, i fattori si sono invertiti: nei primi quattro mesi di quest' anno si contano circa 28 mila decessi in più rispetto alle medie italiane dei tempi recenti, ma i morti per Covid dei primi quattro mesi del 2021 sono 46 mila. In sostanza se la pandemia si fosse arrestata a dicembre scorso, avremmo avuto meno decessi che in tempi normali. Senz' altro è un effetto del virus, che ha anticipato al 2020 la scomparsa di molti anziani. Ma questa rischia di rivelarsi una tregua ingannevole. L' altra epidemia - quella di cure mancate sulle malattie tradizionali - prosegue. E il suo vero costo deve ancora emergere. Con il supporto di Farmindustria - ma senza condizionamenti da essa - la società di analisi di mercato Iqvia ha calcolato l'impatto delle analisi e terapie non fornite fino al mese scorso. Rispetto alle medie pre-Covid, in Italia si contano 632 nuove diagnosi non fatte e 456 mila nuovi trattamenti terapeutici non avviati in aree come malattie respiratorie, cardiache, ipertensione e diabete. Ancora a maggio le visite dal cardiologo erano poco più della metà di quelle dei tempi pre-Covid. Le diagnosi di diabete invece sono oggi superiori alle medie storiche, ma solo perché non sono state fatte nell' ultimo anno e ora arrivano in ritardo. Nelle malattie del sangue e nei tumori si conta un accumulo a maggio di trentamila diagnosi mancanti e 18 mila trattamenti non avviati (rispetto alle medie pre-Covid). Secondo Iqvia due terzi del calo nell' individuare i tumori «è dovuto alle misure di contenimento introdotte per limitare gli accessi ospedalieri», con il restante spiegabile con i timori dei malati stessi. Di certo i tempi di attesa per la chirurgia oncologica in questi quindici mesi si sono allungati del 20%. E l'onda lunga di questi ritardi, sottolineano sia Cognetti che Crea, non potrà che riemergere nei tassi di moralità dei mesi e anni a venire. Non solo per tumori non individuati in tempo. Anche per gli infarti mal curati o il dimezzamento registrato delle diagnosi di fibrillazione atriale, che porterà probabilmente a un aumento degli ictus. «Il lockdown è stato un deterrente all' affrontare gli ospedali» riflette Tiziana De Meis, che ha superato con successo la chirurgia e ora si prepara alle cure. «Ma vorrei dire a tutte: andate, fatevi vedere. Un' ora dedicata alla prevenzione vale una vita intera».

Non c'è solo il Covid, il mistero dei 30mila morti. Francesco Curridori il 5 Giugno 2021 su Il Giornale. L'intasamento delle strutture sanitarie, a causa del Covid, ha portato a trascurare i malati cronici o di altre patologie. Delle 85mila persone decedute in più quest'anno, di ben 30mila non si conoscono le cause. Mentre il Covid, grazie alla campagna vaccinale, sembra regredire, l'Italia ben presto si troverà a dover fare i conti sugli effetti di una pandemia che il precedente governo non è stato in grado di gestire. Il nostro Paese è quello che, per primo in Occidente, ha adottato il lockdown e attuato maggiormente un approccio 'chiusurista' eppure è il terzo al mondo per indice di letalità da Coronavirus. Cosa vuol dire? Significa che, da noi, il rapporto tra morti per Covid e il numero di casi positivi diagnosticati è di 4 ogni cento contagi, mentre in Iran è di 5 ogni 100 e in Messico di 10 ogni 100. Eppure l’emergenza sanitaria legata a Covid-19 ha assorbito quasi completamente le energie e le attenzioni di chi si occupa di salute pubblica, trascurando i malati di altre patologie. È quanto risulta da uno studio condotto da Letizia Giorgianni per l’Ufficio Studi di Fratelli d'Italia e che ilGiornale.it ha potuto visionare in esclusiva. In questo report si ricorda che l'anno scorso, secondo l'Istat, c’è stato un aumento di 85.624 decessi, ma di questi, stando a quanto scrive il Corriere, solo 55.576 sarebbero causati dal coronavirus. Ora, è lecito chiedersi se questi 30mila morti sono malati di Covid che non sono stati scoperti per colpa delle criticità della fase di tracciamento dei contagi oppure se persone malate di altre patologie sono decedute perché non sono state adeguatamente curate. Secondo tale ricerca, se in un determinato territorio, vi è stata una bassa quota di contagiati sul totale dei morti in eccesso “può voler dire che i malati di altre patologie non sono stati più curati e salvati come prima”. In sintesi, in quest'ultimo anno il sistema sanitario pare aver trascurato le persone affette da tumori o da patologie cardiache. Un timore che trova riscontro nei dati di Agenas (l'Agenzia sanitaria nazionale delle Regioni) secondo cui nei primi sei mesi del 2020 ci sono stati un milione di ricoveri in meno rispetto al 2019. Una cifra che, secondo un report dell'Università Cattolica che ha calcolato quanti ricoveri ospedalieri non Covid sono stati rinviati o non effettuati, corrisponde al 28% del totale. Secondo Federsanità, invece, anche nei mesi del 2020 in cui le terapie intensive si erano svuotate, c'è stata una riduzione delle prestazioni ambulatoriali che va dal 10% al 28%. Dati alquanto preoccupanti se si considera che, analizzando le tabelle Istat sulla mortalità, si scopre che la prima causa di morte in Italia sono le malattie cardiovascolari di cui muoiono ogni anno più di 230mila persone. Non solo. Secondo uno studio condotto dalla Società Italiana di Cardiologia (SIC), in Italia la mortalità per infarto, nel 2020 è triplicata, passando dal 4,1% al 13,7%. Secondo Ciro Indolfi, ordinario di Cardiologia Università Magna Graecia di Catanzaro, se non verrà ripristinata la rete cardiologica avremo più morti per infarto che per Covid. "L’organizzazione degli Ospedali e del 118 in questa fase è stata dedicata quasi esclusivamente al Covid-19 e molti reparti cardiologici sono stati utilizzati per i malati infettivi”, spiega l'esperto che aggiunge: “Inoltre, per timore del contagio i pazienti ritardano l’accesso al pronto soccorso e arrivano in ospedale in condizioni sempre più gravi, spesso con complicazioni aritmiche o funzionali, che rendono molto meno efficaci le terapie che hanno dimostrato di essere salvavita come l’angioplastica primaria". In seconda posizione, tra le cause di mortalità si trovano i tumori di cui sono deceduti 180mila persone e, anche in questo caso, c'è stata una notevole trascuratezza del sistema sanitario nazionale. Secondo un'inchiesta di Repubblica, infatti, nel 2020 gli interventi alla mammella hanno subito una riduzione del 22%, quelli alla prostata del 24%, alla tiroide del 31% e, infine, del 32% per il colon. Ma non solo. Secondo la Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia “nel 2020 in Italia hanno subito un rinvio il 99% degli interventi per tumore alla mammella, il 99,5% di quelli alla prostata, il 74,4% delle operazioni al colon retto”, si legge nello studio che abbiamo potuto visionare. Come se non bastasse, la pandemia ha prodotto un effetto infodemia, ossia una iper-diffusione di notizie sul covid che ha avuto come risultato quello di spaventare gli italiani. Il 55%, secondo un sondaggio di Incisive Health, ha avuto paura di andare al pronto soccorso e in ospedale per il rischio di contrarre il coronavirus, mentre il 45% ha evitato di farsi visitare da un medico specialista in ospedale. I ricoveri urgenti sono perciò calati bruscamente, ma vi è un mistero sulle 30mila persone decedute non per il Covid.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in...

(ANSA-AFP il 21 maggio 2021) Il numero di persone morte direttamente o indirettamente a causa del Covid "sono almeno il doppio, il triplo di quelle ufficiali". Lo ha detto Samira Asma, vicedirettore generale dell'Oms parlando con i giornalisti a Ginevra in occasione della pubblicazione del rapporto annuale dell'Agenzia dell'Onu sulle statistiche sanitarie globali.

"I morti? Se l'Italia avesse vaccinato gli over 70..." Francesca Galici il 16 Aprile 2021 su Il Giornale. Il Wall Street Journal ha analizzato il piano vaccinale dell'Italia, tra ritardi e priorità sbagliate nella prima fase della campagna. Ogni settimana muoiono migliaia di persone a causa dell'epidemia di coronavirus in Italia. Il nostro Paese ha uno dei più alti tassi di mortalità d'occidente e il motivo pare sia anche il ritardo nelle vaccinazioni degli over 80. Lo scrive il Wall Street Journal, che ha analizzato la situazione epidemiologica italiana. Nel nostro Paese il coronavirus ha un'evoluzione molto diversa rispetto al resto d'Europa, anche rispetto ai Paesi confinanti. Il WSJ mette nel mirino la campagna vaccinale o, meglio, il suo decentramento. Infatti, come spiega anche il prestigioso tabloid straniero, "mentre le autorità nazionali hanno dato la priorità agli anziani e a coloro che si trovavano in case di cura insieme agli operatori sanitari in prima linea, le autorità regionali hanno dato numerose dosi ai lavoratori più giovani".

La differenza con gli altri Paesi. Quanto è stato fatto in Italia, secondo il Wall Street Journal contrasta con le politiche adottate, per esempio nel Regno Unito. Il Paese d'oltremanica ora vede davvero la luce in fondo al tunnel con una percentuale di vaccinati elevata e i più fragili ormai protetti. La strategia inglese ha permesso di iniziare il percorso di riaperture in sicurezza a differenza di quanto avviene in Italia, dove ancora si discute su come e quando si potrà riaprire senza assistere a una nuova ondata di contagi e di decessi. Il tabloid, quindi, riporta qualche dato: nelle ultime due settimane di marzo in Italia ci sono stati 102 morti per milione di abitanti. In Spagna se ne sono registrati 47, 28 in Germania e appena 11 nel Regno Unito. Il WSJ ha spiegato che delle 107.000 morti riconducibili al coronavirus da quando è iniziata la pandemia, i soggetti con più di 70 anni sono l'86%.

"Se avessimo vaccinato..." Antonella Viola, nota virologa dell'Università di Padova, è stata molto chiara: "Se avessimo vaccinato fin dall'inizio le persone di età superiore ai 70 o 75 anni, avremmo evitato tante morti". Una constatazione logica, evidentemente fatta anche dal governo italiano che infatti ha ricambiato le priorità dando precedenza ai soggetti anziani e fragili piuttosto che alle categorie esposte ma non con elevato pericolo di decesso. Uno sguardo esterno sa sempre essere molto più lucido rispetto a quello interno e il punto di vista del WSJ sul nostro Paese dà una percezione diversa. Il tabloid sottolinea, infatti, la lentezza delle Regioni di acquisire le nuove linee guida ma soprattutto la strigliata di Mario Draghi durante una delle ultime conferenze stampa, quando ha fatto capire che non è tempo di cedere alle forze contrattuali per le vaccinazioni settoriali.

Quante morti sono state evitate? Secondo il Wall Street Journal, che riprende uno studio condotto da Matteo Villa, "le vaccinazioni in Italia hanno finora impedito la morte di più di 4.000 persone". Ma avremmo potuto fare molto di più, perchè lo studio di Villa riporta che "l'Italia avrebbe potuto prevenire altri 6.000 decessi se avesse reso prioritaria la vaccinazione delle persone dai 70 anni in su". Se venisse immunizzato il 70% della popolazione, che è una delle soglie dell'immunità di gregge, le morti verrebbero abbattute del 90% sulla base dell'attuale circolazione.

L'arbitrarietà delle categorie vaccinali. Dopo aver vaccinato gli operatori sanitari, gli over 80 e altre categorie prioritarie spesso arbitrariamente scelte dalle Regioni, "a metà febbraio l'Italia aveva vaccinato solo il 4% degli ultraottantenni, rispetto a una media UE del 19%". Un divario enorme che il Wall Street Journal dice l'Italia sta cercando di recuperare nelle ultime settimane nonostante il ritardo negli over 70. Secondo i dati in possesso del WSJ, infatti, "solo il 17% dei residenti italiani tra i 70 e i 79 anni ha ricevuto una o più dosi di un vaccino Covid-19, il livello più basso dell'UE a parte la Bulgaria". Il tabloid straniero mette l'accento sulle polemiche e accenna anche alle varie inchieste aperte dalle procure in varie parti d'Italia per far luce sui cosiddetti furbetti del vaccino, i salta fila che hanno ottenuto il vaccino pur non avendone diritto. E infatti, come spiega il WSJ, nel nostro Paese la quota di vaccinati tra i 50 e i 69 anni è maggiore rispetto a quella degli over 70.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Il primato che l'Italia non si spiega. Tra i primi al mondo per i decessi. Si sono registrati 102,08 decessi ogni milione di abitanti, in Francia 64,96, in Spagna 47,32, in Germania 27,64. Federico Cenci su Il Quotidiano del Sud il 14 aprile 2021. Peggio di Gran Bretagna, Stati Uniti, Brasile. I dati sui decessi per Covid sono impietosi con l’Italia. Dall’inizio dell’epidemia il nostro Paese ha avuto una moltitudine di lutti: 115.088 le persone che non ce l’hanno fatta, ossia circa 1.906 ogni milione di abitanti. Una cifra che pone l’Italia tra i Paesi al mondo che hanno pagato il prezzo più alto in termini di vite umane. Davanti a noi, tra i membri dell’Unione europea, figurano Repubblica Ceca, Ungheria, Bulgaria, Belgio, Slovenia e Slovacchia. Ma alle nostre spalle si collocano Paesi che pure hanno passato periodi molto difficili a causa del virus: la Gran Bretagna segue di una posizione in classifica l’Italia con 1.865 vittime ogni milione di abitanti, gli Stati Uniti 1.734, il Brasile 1.661. Su questi dati italiani incide quanto avvenuto in Lombardia, che a metà marzo scorso faceva registrare 2.920 morti ogni milione di abitanti. È vero che l’Italia è stato il primo Paese occidentale ad essere investito dall’ondata del Covid. Ma anche questa giustificazione, a oltre un anno dall’inizio della pandemia, inizia a scricchiolare. I decessi giornalieri, infatti, continuano a raggiungere cifre elevate, nel Belpaese più che altrove. Suscita un’impressione notevole verificare che il numero di vittime del Covid comunicato dal bollettino quotidiano è in alcuni giorni persino più alto di quello che si registrava in Italia un anno fa, quando eravamo in pieno lockdown, con meno conoscenze epidemiologiche e terapeutiche e senza vaccini. Qualche esempio? Il 16 marzo 2020 si erano contate 349 vittime del Covid, il 16 marzo 2021 sono state 502; il 7 aprile di un anno fa erano state 604 le persone decedute, il 7 aprile 2021 il numero ammonta a 627. Queste cifre fanno riferimento alle sole vittime dirette del virus. Non è disponibile, al momento, un quadro sugli effetti sanitari collaterali della pandemia: sono ormai innumerevoli gli allarmi lanciati da medici specialistici sulla ridda di visite e operazioni saltate a causa della pandemia. Giusto per avere un elemento eloquente: nel settembre scorso è stato pubblicato uno studio del Registro europeo Covid (Isacs-Stemi Covid-19), secondo cui la pandemia in Italia potrebbe aver fatto incrementare di oltre 20mila il numero di morti per infarto. Il motivo sarebbe da ricercare nella riluttanza delle persone, per paura di contrarre il virus, a recarsi in ospedali, cliniche e pure nei pronto soccorso, anche laddove ce ne sia assoluta necessità. Ad ogni modo, che la situazione dei decessi dovuti direttamente al Covid in Italia resti critica lo testimonia anche l’Ecdc (Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie): nelle due settimane a cavallo tra marzo e aprile, in Italia si sono registrati 102,08 decessi ogni milione di abitanti. Per avere qualche ordine di paragone, in Francia sono stati 64,96, in Spagna 47,32, in Germania 27,64. Eppure il numero di vaccinazioni somministrate è pressoché analogo: al 13 aprile in Spagna hanno ricevuto le due dosi 6,65 persone ogni 100 abitanti, in Italia 6,62, in Germania 6,11, in Francia un po’ meno, 5,7. Torna di stretta attualità, allora, la questione dei criteri di priorità utilizzati. Nel nostro Paese, del resto, quasi il 40% dei vaccinati appartiene alla fascia d’età tra i 20 e i 60 anni (dato del fine settimana scorso), nonostante, come rileva su “Quotidiano Sanità” il prof. Fabrizio Gianfrate, professore di Economia sanitaria, l’87% della mortalità da Covid riguardi gli ultrasettantenni. Ecco allora che diventa indispensabile neutralizzare i “saltafila” del vaccino. Ma è altrettanto importante uniformare l’indice di priorità favorendo anziani (in Italia gli over65 sono il 22% della popolazione, contro il 20,3% medio dell’Unione europea) e fasce di popolazione fragili. Lo ha ribadito il presidente Draghi: vaccinare chi è più vulnerabile al virus è propedeutico alle riaperture. E questa è un’altra nota dolente dell’Italia, la quale, ad oggi, è uno dei Paesi europei che ha adottato le misure più restrittive. Mentre qui monta la rabbia sociale di commercianti, ristoratori, baristi, operatori turistici ed esercenti vari per le reiterate chiusure, a Madrid, ad esempio, sono aperti ristoranti, bar e cinema. Eppure nella capitale spagnola, dove la vita sociale è di nuovo pulsante quasi come lo è stata fino al febbraio 2020, si hanno meno vittime di Milano. Come riportato dal “Corriere della Sera”, tra ottobre 2020 e marzo 2021 in Lombardia si sono contate 136 vittime ogni 100mila abitanti, a Madrid 98. Le maggiori chiusure hanno inoltre avuto un impatto negativo a livello economico: la Lombardia ha perso il 9,8% del proprio Pil contro una media nazionale dell’8,9%, Madrid ha registrato un vantaggio di 0,7 punti percentuali rispetto alla media spagnola. Forse che altrove le chiusure sono state più intelligenti e i mezzi pubblici sono meno affollati? Sul tema delle misure adottate è intervenuto il fisico Roberto Battiston, che in un’intervista al “Corriere della Sera” ha rilevato che l’Italia, a differenza di altri Paesi, calcola le riaperture delle Regioni basandosi sull’Rt, il parametro che stabilisce il grado di contagio del virus, e non tiene conto del numero degli infetti attivi. E questo potrebbe essersi rivelato un (altro) errore fatale.

Alessandro Sallusti per “il Giornale” il 2 aprile 2021.

Professor Zangrillo, cosa sta accadendo nel suo ospedale?

«Si lavora con ordine, cercando di rispondere alle necessità dei pazienti con complicanze da Covid, ma ricordiamo che esistono tante altre patologie che non dobbiamo trascurare».

Ci faccia capire meglio.

«Il Pronto Soccorso del San Raffaele è molto gettonato e viaggia su una media di 120 accessi giornalieri; siamo passati da una media del 50% di pazienti Covid della prima ondata al 30% di ottobre, al 13% di febbraio-marzo 2021, quindi almeno 8 pazienti su 10 sono affetti da gravi patologie che nulla c'entrano con il virus».

Questi dati la preoccupano?

«Moltissimo, perché la realtà di chi lavora in ospedale e deve occuparsi di tutti è completamente diversa da quella narrata quotidianamente, ormai da più di un anno, sui media. Purtroppo si continua a morire di cancro, di malattie cardiovascolari e di malattie neurologiche».

Qual è allora il suo suggerimento? Se potesse decidere, avendo carta bianca, cosa farebbe?

«Ho sempre sostenuto che una società evoluta meriti messaggi chiari e responsabili. La profilassi vaccinale è la priorità, giocare tutta la partita in ospedale equivale a giocare una partita di calcio in 8 contro 11, il vostro medico di base è fondamentale».

C'è qualcosa che avremmo potuto fare meglio?

«Non dobbiamo mai dimenticare che l'Italia e la Lombardia in particolare hanno subito l'impatto diretto di un evento imprevedibile e sconosciuto, prima di ogni altro Paese del mondo occidentale. Da clinico medico sono convinto che la battaglia contro una malattia insidiosa abbia le sue armi migliori nello studio e nella conoscenza diretta della patologia; nel recente passato abbiamo pensato di vincere eseguendo quanti più tamponi possibile, mentre il più credibile campanello di allarme è il sintomo da riconoscere al volo».

E poi?

«E poi tante altre cose per correggere questa irresponsabile tendenza alla drammatizzazione: ho vaccinato personalmente nelle Rsa, ma la cosa che più mi ha colpito è stata incontrare a domicilio persone anziane che non vedono le scale di casa da più di un anno e sono convinte di morire non uscendo più dalla loro camera. La depressione e la mancanza di prospettiva uccidono più del virus».

Cosa risponde alla polemica che mira a contrapporre il pubblico col privato?

«Nell'ultimo anno l'Irccs San Raffaele e la nostra Università hanno prodotto 495 pubblicazioni scientifiche di alto impatto, fornendo un sostanziale contributo alla conoscenza e all'applicazione di una buona clinica. Ad oggi, i pazienti Covid trattati dal Gruppo San Donato sono più di 12.000 e questa è la nostra risposta a coloro che si ostinano a considerare il sistema sanitario privato un'opportunità riservata a pochi che sottrae risorse agli ospedali pubblici».

In questi mesi cosa le è pesato di più?

«Ad inizio di novembre mi sono accorto che stavo alimentando polemiche inutili e spesso cattive, comunicando in modo non allineato. Allora decisi che era meglio abbandonare. Ciò mi è servito per riconquistare un po' di serenità con il mio gruppo di lavoro. Due cose oggi mi sono molto chiare: a voi giornalisti piacciono di più le brutte notizie e l'Italia è un Paese di santi, poeti e navigatori. Ma ora soprattutto di scienziati».

Le ultime notizie ci parlano di un lockdown generalizzato fino al 30 aprile. Lei e d'accordo o ci fornisce altrimenti il suo punto di vista?

«Nell'aprile 2020 dissi che dovevamo imparare a convivere con il virus. Oggi ne sono ancora più convinto perché i vaccini, le cure tempestive ed il senso di responsabilità ci devono portare a fare rivivere il Paese. Ce lo chiedono gli anziani abbandonati, i giovani angosciati, le famiglie distrutte dai debiti. Dobbiamo credere in una reale possibilità di risveglio di tutte le attività produttive e la comunicazione deve essere rispettosa della sensibilità delle persone più fragili: se le cose vanno meglio, va detto chiaramente e soprattutto il continuo richiamo al numero dei decessi è a parer mio, fuori luogo e sono certo, proprio perché vivo in ospedale, che verrà presto corretto».

Nei giorni scorsi è stato maliziosamente accostato a Salvini, come reagisce?

«Che io morirò medico lo sanno ormai anche i sassi, questo però non mi deve impedire di esprimere il mio punto di vista. Salvini ha fatto una proposta molto saggia e coraggiosa ed io mi sono sentito di condividerla. Qui è in gioco la sopravvivenza di tutti noi e ciò costituisce un valore ben superiore alle logiche di contrapposizione politica, per cui alla fine vincerà chi avrà avuto il coraggio di programmare sapendo valutare i rischi e i benefici. Ogni cura ha i suoi effetti collaterali ed in questo momento l'Italia, per guarire, necessita di una cura robusta e specifica».

Ottimista per il futuro?

«Crediamo in un futuro in cui ognuno di noi è chiamato ad essere protagonista, dando il proprio contributo, per la realizzazione di un sogno che deve diventare presto realtà: la nostra salute. Ci riusciremo abbandonando i personalismi e vigilando su una progettualità di sistema sanitario completo, responsabile ed accessibile; lo dobbiamo soprattutto a chi non c'è più».

Perché l’Italia ha tanti morti per Covid? Il virologo Clementi: «I dubbi sono leciti. Serve chiarezza». Natalia Delfino venerdì 23 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Perché in Italia ci sono tutti questi morti per Covid? A chiederselo non sono solo i cittadini, ma anche gli stessi esperti, come dimostra la riflessione posta apertamente dal virologo Massimo Clementi, che ha chiesto che su questo punto si faccia un approfondimento attento. «È troppo alto il numero di decessi Covid in Italia, molto più elevato di altri Paesi europei in proporzione al numero di infetti. Sarebbe opportuno che qualcuno dicesse una parola, che si indagasse su questo», ha avvertito il direttore del Laboratorio di microbiologia e virologia dell’ospedale San Raffaele di Milano e docente dell’università Vita-Salute. Clementi, parlando con l’Adnkronos, ha quindi sottolineato che «serve capire se le morti le contiamo diversamente o se realmente il numero di morti è così più alto, perché in questo caso dovremmo farci delle domande e approfondire per capire il perché succede». L’esperto ha proseguito ricordato che «nei mesi scorsi l’Istituto superiore di sanità aveva messo mano alle diagnosi delle cause di morte per valutarle. Sarebbe opportuno – ha ribadito – che ci fosse chiarezza su questi casi». E chiedersi come mai in Italia i numeri dei morti Covid fatichino a diminuire non è complottismo. «Sono consistenti – ha chiarito Clementi – i dubbi che le morti che entrano nei nostri conteggi non avvengano tutte per Covid. Può essere che i singoli Paesi considerino il decesso per Covid in maniera diversa, e questo genera un po’ di confusione. Se una persona ha una malattia grave, terminale, ed è anche infettata da Sars-CoV-2 allo stato attuale in Italia viene messo in conto al Covid, e può essere – è stata la riflessione del virologo – che negli altri Paesi non sempre sia così». «Nel nostro caso, visti i nostri numeri, è importante chiarire questi aspetti, per capire se realmente abbiamo così tanti morti in più. E se così fosse, se muoiono più pazienti – ha concluso Clementi – dobbiamo farci delle domande, affrontare il problema».

Coronavirus, Paolo Becchi attacca: "Lockdown e numero di morti, la verità che ci nascondono. Draghi ha letto questo studio?" Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. "Da più di un anno in Italia si continua con i 'lockdown' e persino con i coprifuochi - ora grazie alla Lega un pochino attenuati - copiati dalla Cina, anche se nel Wuhan stesso sono cessati l’8 aprile dell’anno scorso. I “dati” però di cui parlano gli esperti, e purtroppo anche il presidente Draghi, non forniscono alcun supporto a questa politica mirata a tenere chiusa in casa la popolazione, perché la mortalità per chi lavora e studia è normale (e peraltro è sempre stata normale) . I “dati” mostrano che sotto i 65 anni di età non c’è mai stata in Italia una vera emergenza, perché tutto l’aumento di mortalità era ed è anche oggi sempre sopra i 65 anni" scrivono Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su Affaritaliani.it. Becchi e Zibordi sostengono la loro tesi sulla base dei dati elaborati dal gruppo dell'Università di Stanford, coordinato dal Premio Nobel per la Chimica e docente di Biologia Computazionale Michael Levitt. "Draghi conosce questo studio o sente solo i nostri virologi televisivi e il CTS che ripete le stesse cose?" si domandano i due esperti. "Come si può vedere l’aumento di mortalità c’è stato in primavera scorsa e in novembre-gennaio quest’anno solo sopra i 65 anni. Il virus c’è stato e ha fatto i suoi danni. Ma è altrettanto evidente la fascia della popolazione che è stata colpita: quella anziana e pensionata. Di questa, dunque, ci si doveva e deve preoccupare. Per tutti gli altri, che sono circa 44 milioni su 60 milioni in Italia, i bambini e giovani e tutti gli adulti che lavorano, non c’è mai stato e non c’è ora nessun problema di mortalità in eccesso. Questi sono i “dati”, quelli della scienza" affermano Becchi e Zibordi. "Inoltre ora si può anche vaccinare e le case farmaceutiche riportano una efficacia intorno al 96%, per cui una volta vaccinata la popolazione sopra i 65 anni, non esiste più nessuna ragione per tenere in gabbia tutti gli altri italiani" proseguono "Non ha senso continuare ad impedire ai giovani di andare a scuola (Draghi ha fatto bene ad aprire), all’università (dove invece mancano ancora disposizioni del governo e non si capisce proprio perché esse con i prof vaccinati debbano continuare ad essere chiuse), non ha senso bloccare interi settori economici, visto che non c’è mai stato e non c’è un problema di mortalità eccessiva per giovani e adulti. La Covid-19 colpisce gli anziani sopra i 65 anni. I dati sono questi, la mortalità è aumentata in Italia in modo significativo (circa il 12%), ma solo sopra i 65 anni. L’Istat stesso nell’aggiornamento pubblicato il 26 marzo scorso, e che calcola i dati di un anno interno, ha mostrato che sotto i 50 anni la mortalità è addirittura diminuita". Il 98% dei contagiati non muore e la mortalità della malattia virale è stimato allo 0,15% nel mondo, il che vuol dire 1,5 decessi ogni 1,000 contagiati. In Italia è stata invece oltre dieci volte la media mondiale, intorno al 2%, il che vuol dire 20 decessi ogni 1,000 contagiati. Ma "se i dati italiani sono attendibili bisognerebbe aprire una Commissione d’inchiesta per sapere come mai da noi ci siano stati così tanti decessi rispetto ad altri paesi e se ci siano responsabilità (anche penali) del Ministro della Salute nella gestione dell’emergenza. Perché non si sono fatte le autopsie, perché le cremazioni forzate? Perché l’ostinazione nel non voler riconoscere le cure? E si potrebbe continuare" punzecchiano il professore e l'economista. "Parlando solo di “contagiati” o di tamponi positivi si offusca il fatto essenziale: statisticamente i morti in eccesso sono solo oltre i 65 anni.  Se di Covid morissero bambini, giovani e adulti tutta la popolazione sarebbe a rischio. Ma non è così. Il dato che i virologi della televisione non vogliono mai citare è il totale dei morti in eccesso degli anni passati. Ma se lo si esamina, si vede subito che la Covid-19 è un problema che riguarda una fascia di meno del 15-16% circa della popolazione" sostengono Becchi e Zibordi e concludono "Oggi per gli over 65 anni ci sarebbero anche i vaccini, anche se Speranza (e chi se non lui?) non ha voluto cominciare proprio da loro, quando invece avrebbe dovuto offrire subito a tutti gli anziani la vaccinazione in via prioritaria. Come che sia, i “dati” mostrano soltanto una cosa: lockdown e coprifuochi non servono a niente". 

Coronavirus, Paolo Becchi accusa: "Quei 22mila morti in meno che nessuno sa spiegare". Carta canta, inquietante mistero italiano. Paolo Becchi e Giovanni Zibordi su Libero Quotidiano l'08 aprile 2021. I decessi per tumori, problemi di cuore, infezioni, polmoniti e tutte le altre cause di morte sono diminuiti di ben 22 mila in soli due mesi. Questo lo scrive ufficialmente il 30 marzo l'Istat sul suo sito nell'ultima nota pubblicata: "Aggiornamento dei decessi giornalieri per il complesso delle cause". Istat indica che i decessi totali sono aumentati solo di 1,125 perché erano 125.741 di media negli anni 2015-19 e sono stati 126.866 quest' anno, una variazione del +0,8%. Il problema è che i circa 400 decessi Covid giornalieri, che tutti sentiamo al telegiornale, se li si somma per gennaio e febbraio, sarebbero stati circa 23.440. Per cui anche Istat è costretta ad ammettere che i decessi per altre cause sono diminuiti molto (di oltre 22 mila in meno in due mesi). Questa sarebbe comunque una buona notizia con cui dovrebbero aprire i telegiornali, che dovrebbe apparire sulle prime pagine dei giornaloni e persino il Ministro della Salute nonché il premier Draghi dovrebbero annunciarla con soddisfazione. In Italia si muore di Covid ma non più di tumore o di infarto o di polmonite. E comunque siamo tornati alla normalità e da più di tre mesi (perché questo trend esiste anche in marzo, se si guardano i dati dell'Osservatorio Europeo sulla Mortalità). Perché invece nessuno ne parla? Si vuol far pensare ai cittadini che siano morte molte persone in più del normale e appunto se uno pensa che i morti Covid siano in più sarebbero 23mila morti in eccesso. Peccato che ISTAT stessa ammetta che non è vero. I morti sono da gennaio tornati nella norma. Se le cose stanno così si apre però un problema. I 23 mila morti Covid di questi due mesi sono quindi compensati da 22 mila morti in meno in due mesi per tutte le altre cause? Istat scrive che è merito di lockdown e mascherine: «Il fatto che la mortalità del 2021 sia a livello medio nazionale di poco superiore a quella della media 2015-2019 (solo 1,125 morti in più) farebbe pensare che rispetto agli anni precedenti la mortalità per cause diverse da Covid-19, come ad esempio l'influenza, sia diminuita, anche grazie alle misure di distanziamento e prevenzione adottate per il Covid». Oh bella, lockdown e mascherine non sono servite per il virus, ma sono servite per gli infarti, tumori e polmoniti. Ma è possibile che negli altri anni morissero in soli due mesi 22mila persone per polmonite e quest' anno si siano salvate stando chiusi in casa, girando con mascherine ed evitando di fare vacanze? Non si capisce come sia possibile che nessuno quest' anno si sia preso i normali virus respiratori quando un milione di persone è risultato "positivo" in gennaio e febbraio ad un altro virus respiratorio. I famosi "casi" rilevati dai tamponi sono infatti aumentati in questi due mesi di un milione. Quindi ci sarebbe un milione di persone che nonostante il lockdown prende l'attuale virus e nessuno che abbia preso gli altri virus, anche se la modalità di trasmissione, in formato "aereosol", è la stessa? In aggiunta, è un fatto noto che stare chiusi in casa e senza esposizione al sole riduce i livelli di vitamina D e di difesa immunitaria in inverno e predispone all'influenza e andare sulle Dolomiti o a Sharm El Sheik sarebbe stato utile, ma quest' anno non si è potuto. E ovviamente visite, controlli, operazioni e trattamenti vari per problemi di cuore o tumori e altro sono stati rallentati. È abbastanza assurdo quindi sostenere che in soli due mesi i morti "non Covid" si siano ridotti di 22mila grazie al lockdown, che semmai avrebbe dovuto farli aumentare. Ridurre il livello di assistenza sanitaria (e impedire le vacanze) dovrebbe peggiorare lo stato di salute e aumentare anche i rischi di morte. Sembra invece logico pensare che, visto che i morti totali sono come gli altri anni nel 2021, i decessi classificati Covid siano in maggioranza dovuti ad altre cause. Perché nessuno vuole vedere questa realtà?

Coronavirus, Paolo Becchi: ecco quante persone sono morte a febbraio. Carta canta, dati inquietanti: cosa non torna. Paolo Becchi e Giovanni Maria Leotta su Libero Quotidiano il 02 aprile 2021. Il 30 marzo 2021 l'Istat ha rilasciato i dati provvisori dei decessi di gennaio 2021 e la stima di quelli di febbraio: sono i decessi che avvengono per qualsiasi causa di morte, i decessi totali. Si riscontra, a livello nazionale, l'assenza di un significativo eccesso di mortalità rispetto al valore medio degli anni precedenti: gennaio 2021 (69.784 decessi) segna un +2,14% rispetto al valore medio degli anni 2015-2019 (68.324). Incrementi significativi si riscontrano in cinque Regioni (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Marche), e in Puglia un aumento del 5%. In tre Regioni i valori ricalcano quelli degli anni 2015-2019 (Liguria, +2,1%; Umbria, +0,52%. Il 30 marzo 2021 l'Istat ha rilasciato i dati provvisori dei decessi di gennaio 2021 e la stima di quelli di febbraio: sono i decessi che avvengono per qualsiasi causa di morte, i decessi totali. Si riscontra, a livello nazionale, l'assenza di un significativo eccesso di mortalità rispetto al valore medio degli anni precedenti: gennaio 2021 (69.784 decessi) segna un +2,14% rispetto al valore medio degli anni 2015-2019 (68.324). Incrementi significativi si riscontrano in cinque Regioni (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Marche), e in Puglia un aumento del 5%. In tre Regioni i valori ricalcano quelli degli anni 2015-2019 (Liguria, +2,1%; Umbria, +0,52% e Sicilia, +1%) e in tutte le altre undici Regioni sono inferiori rispetto al valore medio. Chi confronta i decessi di gennaio 2021 con quelli di gennaio 2020 compie un'operazione metodologicamente rischiosa poiché gennaio 2020 (con 62.019 decessi) ebbe un decremento di mortalità assolutamente raro, con una variazione del -9,2% rispetto al valore medio dei decessi degli anni 2015-2019. Si consideri che, a livello nazionale, una variazione negativa mensile di mortalità del -9,2% rispetto al valore medio degli anni precedenti si verificò l'ultima volta in Italia solo quattordici anni prima, ad aprile 2006 (-9,27%), che ebbe 41.823 decessi, cioè 4.272 in meno rispetto ai decessi di aprile dei cinque anni precedenti (46.095). I decessi di gennaio 2021, infine, segnano una discreta variazione in eccesso del 4,12% rispetto al valore medio 2016-2020 (67.025). Gennaio 2021, pertanto, è in linea con i valori dei decessi solitamente osservati in Italia in "un" gennaio, che è il mese quasi sempre con il maggior numero di decessi dell'anno, anche senza dover andare a ricordare gennaio 2017 (78.688 decessi), che ebbe 9.000 morti in più di gennaio 2021.

UN PO' DI CIFRE. A febbraio 2021, invece, nei decessi stimati dall'Istat (57.082) si riscontra a livello nazionale una variazione negativa di mortalità del -0,58% rispetto al valore medio degli anni 2015-2019 (57.416): due Regioni (Trentino-Alto Adige e Umbria) hanno un eccesso intorno al 20%, sei Regioni presentano un incremento di mortalità inferiore al 10% e le altre dodici Regioni hanno un decremento di mortalità (fino al -18% della Sardegna). Se si confronta febbraio 2021 con febbraio 2020 (che, nuovamente, presentò un deficit di mortalità del -2,34% rispetto agli anni 2015-2019) c'è un eccesso dell'1,8%; mentre febbraio 2021 segna un +1,18% rispetto al valore medio degli anni 2016-2020. I dati aggregati dei decessi Istat del primo bimestre 2021, pertanto, confermano sostanzialmente quanto attestato dal Sistema di sorveglianza della mortalità giornaliera curato dal Dipartimento di Epidemiologia del Lazio (ultimo report pubblicato il 29 marzo 2021, cioè presentano un numero di decessi in linea con l'atteso, con un quasi inavvertibile +0,9% rispetto al valore medio 2015-2019 (o, se si preferisce, un modesto eccesso del 2,77% rispetto al valore medio 2016-2020). E, tuttavia, il bollettino quotidiano del ministero della Salute e del Dipartimento della Protezione civile riporta 14.357 decessi Covid-19 a gennaio 2021 e 9.183 decessi Covid-19 a febbraio 2021, per un totale di 23.540, e con una media di 463 decessi quotidiani Covid-19 a gennaio e 328 a febbraio. Si tratta, soprattutto per gennaio, di un dato di decessi giornalieri Covid-19 molto elevato e, invero, non molto distante da quello di aprile 2020 (518 decessi Covid-19 giornalieri). Aprile 2020 segnò, però, un eccesso di mortalità del +40,55% con 21.008 decessi in più rispetto al valore medio, laddove gennaio 2021 segna appena un +2,14% (1.460 decessi in più in un mese). Inoltre, se nel 2020 tutti i decessi Covid-19 erano stati circa il 10% dei decessi totali annuali, assorbendo il 74% dell'eccesso di mortalità dell'anno, nel mese di gennaio 2021, i 14.357 decessi Covid-19 sono un valore che è quasi 10 volte l'eccesso mensile di mortalità (14.357 è quasi 1.460 per 10) il che è un valore molto anomalo per un mese praticamente privo di eccesso di mortalità. 

E LE ALTRE CAUSE?. Ma se i decessi Covid-19 sono stati 23.540 nel I bimestre 2021, quanti sarebbero stati i decessi per qualsiasi altra causa, in assenza di quelli da Covid-19: cioè, quante persone sarebbe decedute per tutti gli altri motivi? A gennaio 2021 sottraendo dai decessi avvenuti per il complesso delle cause (69.784) i decessi Covid-19 (14.357) rimangono 55.427 decessi: è un valore talmente basso che non si è mai presentato negli ultimi dieci anni, e che rappresenta una variazione del -18,9% rispetto al valore 2015-2019 (e del -17,3% rispetto al valore medio degli anni 2016-2020). A livello nazionale, una simile variazione negativa di mortalità mensile è plausibile? Si è mai verificata recentemente? No, un decremento di mortalità mensile che sfiora il 19% in Italia è un fenomeno che risulta non essersi mai verificato, sicuramente, negli ultimi vent' anni (dati Istat). A febbraio 2021 sottraendo dai 57.082 decessi totali stimati dall'Istat, i 9.183 decessi Covid-19, restano 47.899 decessi. Anche in questo caso si tratta di un valore difficilmente spiegabile (considerando che i mesi di febbraio degli anni 2015-2019 hanno un valore medio di 57.416 decessi e che gli anni 2016-2020 hanno un valore di 56.424) perché segnerebbero un'altra ingentissima variazione (negativa) di mortalità del -16,58% rispetto al valore medio degli anni 2015-2019 (e del -15,11% rispetto agli anni 2016-2020). Inoltre, i 9.183 decessi Covid-19 dichiarati per febbraio sono ben 14 volte l'eccesso di mortalità di febbraio 2021 (658) rispetto al valore medio dei decessi di febbraio degli anni 2016-2020 (56.424): 9.183 è, infatti, quasi 14 volte 658. 

I CONTI NON TORNANO. In conclusione, se si sottraggono dai decessi totali dichiarati dall'Istat per il I bimestre 2021 (126.866), i decessi Covid-19 del I bimestre contenuti nel bollettino quotidiano della Protezione civile (23.540), i decessi rimanenti (103.326, che sono quelli che sarebbero avvenuti per tutte le altre cause di morte) sarebbero tanto bassi da rappresentare un irrealistico calo di mortalità del -16,3%, che non è credibile alla luce dell'andamento dei decessi mensili e annuali degli ultimi dieci anni e della crescente mortalità dell'ultimo decennio. Insomma, una mera analisi comparata negli anni dei dati Istat conferma quanto già indirettamente emergeva dall'esame dei dati dell'Osservatorio Europeo della Mortalità. I dati dei morti attribuiti a Covid-19 diffusi giornalmente in Italia sono inaffidabili perché pesantemente sovrastimati. La decisione di tenere "tutto chiuso" non ha dunque a che fare con "la scienza" ma è una decisione politica.

Campagna vaccinale sbagliata: ecco perché solo in Italia si muore sempre di più di Covid. A parità di dosi e di tempo, altri Paesi europei - come Germania, Francia e Spagna – sono riusciti a rallentare la folle corsa dei morti. “Eccetera”, quell’errore nelle linee guida del ministero della Salute che ha spalancato le porte alle lobby che hanno scavalcato la fila a danno di fragili e anziani. Antonio Fraschilla, Fabrizio Gatti, Vittorio Malagutti, Carlo Tecce, Andrea Tornago, Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 2 aprile 2021.  In Italia oggi si muore di Covid più di un mese fa, mentre i numeri della campagna vaccinale danno conto di una guerra, quella contro il virus, che altrove in Europa si combatte con armi più efficaci. È questa la realtà, certificata dalle cifre, dalla triste contabilità dei lutti. Nelle ultime settimane, grandi Paesi paragonabili al nostro per dimensioni e quantità di dosi ricevute hanno visto diminuire i caduti sul fronte della pandemia molto più velocemente rispetto all’Italia. Non è questione di farmaci, né di forniture, ma di organizzazione. Germania, Francia e Spagna hanno protetto meglio i loro anziani grazie ai vaccini e li hanno protetti ovunque allo stesso modo, dalle grandi città alle zone rurali. In Italia invece ogni regione ha fatto da sé, tra errori, incidenti di percorso, guasti informatici e corsie preferenziali per potenti e raccomandati. A Roma e a Napoli, decine di migliaia di ottantenni hanno ricevuto una doppia dose del siero Pfizer già in febbraio, mentre i loro coetanei che vivono in Lombardia e in Toscana hanno dovuto rassegnarsi ad attese di settimane e molti di loro ancora aspettano di essere convocati per la fatidica iniezione. I sommersi da una parte. I salvati dall’altra. Colpa di norme scritte male dal governo di Roma ai tempi di Giuseppe Conte. Norme che hanno lasciato la porta spalancata ad abusi e gestioni improvvisate a livello locale. L’autonomia delle regioni in materia sanitaria ha fatto il resto, trasformando la campagna vaccinale in una babele di ordinanze spesso diversissime tra loro. Ne hanno fatto le spese i più deboli, come confermano le statistiche. A partire da febbraio, quando la campagna vaccinale è entrata nel vivo, Francia, Germania e Spagna, in misura diversa tra loro, hanno registrato una netta diminuzione della mortalità da Covid-19. In Italia, invece, la curva ha preso un’altra traiettoria e in marzo ha di nuovo puntato verso l’alto. Ecco i numeri: ai primi di febbraio Spagna e Germania contavano più di 9 morti per milione di abitanti, l’Italia era poco sotto quota 7, davanti alla Francia che viaggiava a 6,5 circa. Circa 60 giorni dopo, i due Paesi latini sono scesi intorno a 5 e la Germania è riuscita a piegare la curva fino a meno di 2 decessi per milione di abitanti. Un risultato, quest’ultimo a cui ha senz’altro contribuito il rigido lockdown imposto dal governo di Angela Merkel, che proseguirà fino a metà aprile nonostante i risultati già raggiunti. Ben diversa è la situazione dell’Italia, dove i progressi di febbraio sono stati annullati nel mese successivo. La media settimanale dei morti è così tornata a superare quota 7 per milione di abitanti, che significa 300-400 morti al giorno. A fare la differenza, una differenza che vale centinaia di vite, è stata la diversa gestione del piano vaccinale rispetto a Francia, Germania e Spagna. Secondo i calcoli dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) già a metà febbraio il governo di Berlino aveva garantito la prima dose al 20 per cento circa degli ultraottantenni. Lo stesso in Francia, mentre in Italia non si superava il 6 per cento. Nel Paese di Angela Merkel, i dati aggiornati al 26 marzo segnalano che il 61 per cento circa per cento delle dosi sono andate ad anziani di oltre 80 anni e a ospiti di residenze per la terza età. In Italia invece queste categorie hanno ricevuto il 40 per cento circa dei vaccini somministrati. Da noi le regioni hanno privilegiato centinaia di migliaia di dipendenti degli ospedali, compresi gli amministrativi, che non hanno nessun contatto con i malati. A questi lavoratori della sanità si sono poi aggiunti professori universitari, insegnanti e un esercito di professionisti, dagli avvocati ai magistrati, che di volta in volta hanno avuto il via libera dalle autorità regionali. In Germania invece si è fatta una selezione perfino tra le forze dell’ordine: hanno ricevuto il vaccino solo quelli operativi, a rischio di contatto con soggetti malati. Il fatto è che le norme tedesche elencano con precisione categorie e priorità per la somministrazione del vaccino, mentre in Italia si è scelto di fare diversamente.

INDIETRO TUTTA. Il gravissimo pasticcio si poteva già intuire il due dicembre dello scorso anno, quando il ministro della Salute, Roberto Speranza, illustrò ai parlamentari le «Linee guida della campagna vaccinale». Un mese dopo, il due gennaio, quelle stesse linee guida, inzeppate di timide «raccomandazioni» per le Regioni, sono state tradotte in un decreto, con cui il governo indica una terna di «categorie prioritarie» da vaccinare. In quest’ordine: 1. operatori sanitari e sociosanitari «in prima linea», sia pubblici che privati accreditati. 2. residenti e personale dei presidi residenziali per anziani. 3. persone di età avanzata. La definizione di «prima linea» è stata però interpretata da molte Regioni in maniera estensiva, fino a includere anche i dipendenti del settore amministrativo delle aziende sanitarie locali e persino quelli che lavorano alle scrivanie di palazzi lontani chilometri dagli ospedali. L’errore più grosso si trova in una postilla di pagina 7 del testo firmato da Speranza, dove si legge che «con l’aumento delle dosi si inizierà a sottoporre a vaccinazioni le altre categorie di popolazione, fra le quali quelle appartenenti ai servizi essenziali, quali anzitutto insegnanti e il personale scolastico, forze dell’ordine, il personale delle carceri e dei luoghi di comunità ecc.». Ecc. sta per eccetera. Quella esitazione del governo giallorosso di Giuseppe Conte ha scatenato l’assalto delle lobby ai presidenti di Regione. Tutti si sono sentiti «appartenenti ai servizi essenziali»: bancari, portuali, avvocati, magistrati. Sulla stessa linea anche l’ordine dei giornalisti che ha sollecitato, senza ottenerlo, il vaccino per i propri iscritti. Per non parlare dei farmacisti, che sono arrivati a vaccinare anche gli addetti alle casse, a volte parenti del titolare. A metà febbraio, con l’insediamento del nuovo governo guidato da Mario Draghi, Speranza ha preso il posto di sé stesso come ministro della Salute. Un mese dopo, però, lo stesso Speranza non ha potuto fare a meno di cambiare rotta, correggendo le norme varate ai primi di gennaio. Mentre montavano le polemiche per le dosi gentilmente concesse alle più disparate categorie di privilegiati, il governo Draghi ha modificato per decreto le famigerate «linee guida della campagna vaccinale». Con un messaggio inequivocabile per le Regioni: tocca prima agli anziani e ai più fragili (con patologia), poi al resto dei cittadini sotto i 60 anni. Si procede con criterio anagrafico. Le eccezioni, questa volta, sono ben delimitate: «Personale docente e non docente, scolastico e universitario, forze armate, di polizia e del soccorso pubblico, servizi penitenziari e altre comunità residenziali». Abolito l’eccetera del primo decreto, quello del 2 gennaio. Ormai però il danno era fatto. La macchina delle vaccinazioni è partita lasciando a terra centinaia di migliaia di anziani, cittadini di 80 anni e più che solo ad aprile, forse, riusciranno a ricevere la loro dose. Nel frattempo, tra febbraio e marzo è scattata la corsa al vaccino, tra favori, raccomandazioni e giochi di lobby. Le esitazioni del governo di Giuseppe Conte col piano vaccinale, come l’eccetera contenuto nelle prime linee guida formulate dal ministero della Salute di Roberto Speranza, hanno dato ampio (e pericoloso) margine di discrezione alle Regioni. Allora avvocati, magistrati, giornalisti, commercialisti, portuali, bancari e tanti altri ordini professionali e sindacati di categoria hanno tentato, e a volte ci sono riusciuti, di scavalcare la fila. Ecco come e dove.

BARONI E DOTTORANDI. Nel giallo con trentamila morti che è la Lombardia anche le quattordici università regionali hanno giocato un ruolo. Una rapida cronologia. L’8 febbraio il Cts inserisce nella seconda fase delle vaccinazioni il personale scolastico docente e non docente. Il 24 febbraio Remo Morzenti Pellegrini, docente di diritto amministrativo che guida l’ateneo di Bergamo e presiede il Crul (conferenza dei rettori delle università lombarde) scrive all’assessora al Welfare e vicepresidente della giunta, Letizia Brichetto Moratti, per sapere come mai in alcune regioni italiani, come il Friuli-Venezia-Giulia, le università siano state inserite nei protocolli e la Lombardia no. La giunta di Attilio Fontana si trova in un impasse terrificante. Sei giorni prima è stato silurato il dg Marco Trivelli e la regione è inchiodata a 612 mila dosi somministrate, pari al 71,3 per cento delle disponibilità. Il portale allestito dall’agenzia pubblica Aria per le prenotazioni degli ultraottantenni (18,5 milioni di costo) si è già piantato. L’ordine di palazzo Lombardia è chiaro: bisogna far salire i numeri. Con una celerità che molti anziani avrebbero apprezzato, Moratti risponde a Morzenti Pellegrini, il 27 febbraio si firma l’accordo e il 2 marzo partono dai depositi le dosi necessarie a immunizzare quindicimila fra professori, contrattisti, personale amministrativo che in larghissima parte lavora in remoto da mesi. Possono sembrare piccole cifre in assoluto per una regione da 10 milioni di persone ma i dati del 3 marzo, riferiti al giorno precedente, indicano che gli over 80 hanno ricevuto non più di 143 mila dosi. Anche in Toscana, la giunta guidata da Eugenio Giani (Pd) ha aperto il suo portale di prenotazioni a una vasta popolazione di universitari. Così due baldi under 30, dottorandi alla Normale di Pisa, raccontano all’Espresso di avere potuto accedere alle fiale AstraZeneca. «Bastava andare sul portale della Regione», dicono. «Non c’è stato nulla di irregolare». Il caso Toscana ha scosso la politica, con Giani che ha dovuto smentire le voci di freddezza fra lui e un altro pisano, il neosegretario del Pd Enrico Letta. La regione è corsa ai ripari quando ormai gran parte del danno era fatto. Solo pochi giorni fa è stata rimossa dal portale l’area dedicata agli uffici giudiziari: impiegati, magistrati, avvocati.

PRIMA I TRIBUNALI. Troppo tardi, ormai, per rimettere il coperchio sul pentolone delle polemiche. A Firenze, l’assessore regionale alla sanità Stefania Saccardi (Italia Viva) che il 5 marzo su Facebook ha trionfalmente annunciato l’avvenuta vaccinazione di sé stessa, esponendosi così alle critiche, e spesso anche gli insulti, di chi l’ha attaccata come la personificazione di un doppio privilegio di casta: avvocato e politico. Lo stesso vale per un altro renziano come il senatore fiorentino Francesco Bonifazi. Pure lui è riuscito ad accaparrarsi la sua dose di AstraZeneca prima che Giani facesse marcia indietro cancellando la norma che ha garantito il vaccino a Bonifazi come a migliaia di altri professionisti non proprio in prima linea sul fronte del contagio. Tra i politici va segnalato, quanto meno per la rumorosità, il caso del presidente dell’Assemblea regionale siciliana, Gianfranco Miccichè. Il quale, venerdì 26 marzo, dopo aver appreso di un contagio tra i dipendenti di Palazzo dei Normanni, ha inveito tra urla e volgarità contro le norme che hanno impedito ai deputati siciliani di vaccinarsi. Seduta sospesa. Tre giorni dopo lo stesso Miccichè, 67 anni, ha ricevuto la sua dose anti-Covid-19. «Ne avevo diritto – si è giustificato - sono cardiopatico». In Sicilia, fin da metà febbraio era scattata la corsa alle dosi da parte di giudici, pm e cancellieri. Negli stessi giorni anche in altre parti d’Italia toghe e avvocati hanno approfittato dei varchi aperti dalle regioni. A Bolzano, tra il 10 e il 12 marzo, alcuni magistrati sono stati vaccinati addirittura in carcere. «È una evidente forma di tutela a favore della popolazione detenuta che costantemente viene in contatto con i tre magistrati», ha spiegato il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bolzano, Claudio Gottardi. Avvocati e giudici, su fronti opposti dentro le aule di giustizia, vanno invece di conserva quando c’è da difendere il posto in prima fila nelle vaccinazioni anti Covid-19. E se per caso una categoria resta indietro rispetto all’altra ecco che scattano le proteste. In Veneto, per dire, a fine febbraio il locale ordine degli avvocati ha protestato contro la giunta di Luca Zaia, perché avrebbe ceduto alle richieste dei magistrati, mentre i legali sono stati tagliati fuori dalle liste dei vaccinandi. A chiudere la partita, già a metà marzo, è arrivato il provvedimento del governo che ha escluso il settore giustizia nel suo complesso da quelli considerati prioritari. I magistrati non l’hanno presa bene e con una nota della loro associazione di categoria hanno minacciato addirittura di bloccare l’attività dei tribunali. Draghi ha incassato senza arretrare e le Regioni, almeno per il momento, hanno bloccato i vaccini per giudici e avvocati.

L’ESERCITO DEI SANITARI. Impiegati e dirigenti delle Asl, giovani ricercatori e studenti di medicina: tutti da vaccinare con urgenza insieme ai medici che davvero rischiano il contagio ogni giorno nei reparti ospedalieri. Il copione, sempre uguale, è andato in scena dalla Valle d’Aosta fino in Sicilia, con episodi al limite del surreale. O del grottesco, se preferite. A Genova, il consigliere regionale Stefano Anzalone, ex sindacalista della polizia, passato dal centrosinistra al centrodestra di Cambiamo con Toti, ha chiesto al direttore generale del San Martino di vaccinare il personale del bar edicola Wanda, collocato strategicamente di fronte all’ingresso del grande ospedale. L’idea, respinta, era che quei lavoratori fossero esposti a un rischio speciale per via dello stretto contatto con il personale sanitario. Stop agli edicolanti, quindi, ma perché escludere i centralinisti? Ad Ascoli Piceno, dove la procura della Repubblica ha aperto un’inchiesta su «presunte somministrazioni indebite», gli elenchi dei vaccinati sequestrati dalla magistratura comprendono per l’appunto anche i centralinisti insieme ai dipendenti di ditte esterne che lavorano nelle strutture sanitarie, per esempio gli addetti alle pulizie. Questi ultimi, però, almeno lavorano nei reparti che ospitano i malati. Lo stesso non si può dire per gli addetti alle segreterie degli ospedali con l’ufficio a chilometri di distanza dai plessi sanitari. Nessun problema: in Sicilia ne hanno vaccinati a centinaia. È la stessa regione in cui l’assessore alla Sanità, Ruggero Razza (dimissionario), è coinvolto in un’inchiesta per la comunicazione di dati falsi sulla pandemia. Nell’isola, peraltro, si sono assicurati una dose di Pfizer anche dirigenti e impiegati di enti pubblici come l’Istituto Zooprofilattico. Tutti lavoratori non proprio a rischio di contagio, diciamo. Tra loro anche giovani di 30 anni che avrebbero potuto ricevere AstraZeneca e invece hanno ottenuto il vaccino destinato ad anziani ultraottantenni.

TRA MOGLIE E MARITO. In tempi di grande emergenza c’è un gran bisogno di volontari. Gente disposta a dare una mano senza chiedere nulla in cambio. Di recente però, con sempre maggiore frequenza, le cronache hanno illuminato episodi in cui la generosità delle nuove leve del no profit sembra tutt’altro che disinteressata. In Puglia, per esempio, le richieste per arruolarsi in diverse associazioni legate alla protezione civile sono aumentate da quando la Regione ha inserito anche questi volontari tra quelli con il pass per la vaccinazione immediata. A Trento invece Enrico Nava, alto dirigente della locale azienda sanitaria, ha provato a giustificare il vaccino per la moglie magistrato spiegando che la signora rientrava nella categoria del volontariato. Alla fine, però, Nava non ha potuto fare a meno di dare le dimissioni, dopo che le autorità regionali avevano annunciato l’avvio di un’inchiesta. A Perugia una storia simile si è ripetuta a parti invertite: il marito si è accaparrato un vaccino grazie alla moglie dipendente dell’università. Secondo le indagini della locale procura, la signora al momento di registrarsi ha inserito anche il marito, un imprenditore che produce scarpe, che è stato convocato e vaccinato come un qualsiasi operatore scolastico, sottraendo così una dose a qualcun altro che ne aveva diritto. I coniugi sono indagati per truffa, abuso d’ufficio e accesso abusivo a sistemi informatici. E se è stato così facile per loro, quante sono le truffe in corso? Bella domanda. Intanto in Umbria, lunedì 29 marzo restavano da vaccinare 23.784 ultraottantenni, mentre 6.314 ragazzi tra 20 e 29 anni hanno già ricevuto almeno una dose, a cui si aggiungono 13.471 adulti tra 30 e 39 anni. Tutti operatori sanitari, volontari delle associazioni di pubblico soccorso o pazienti fragili? La mancanza di una piattaforma digitale informata e aggiornata, come nel resto d’Italia, rende vaga la risposta.

L'ossigeno non basta per tutti: i malati Covid restano senza. Manca l'aria negli ospedali Covid del Salento, mentre la Puglia è in testa per il tasso di terapie intensive occupate, arrivando al 46%. Roberta Grima - Gio, 01/04/2021 - su Il Giornale. La centralina dell'ossigeno si apre senza chiave, il vetro non é quello infrangibile, temperato, ma in plexigas ed é rotto da giorni, chiunque potrebbe manomettere le leve che regolano l'intensità dell' aria che arriva nei reparti del Dea (l'ospedale Covid) e del "Vito Fazzi" di Lecce. Qui, nelle malattie infettive é suonato ancora una volta l'allarme dell'ossigeno a indicare una qualche anomalia. Trentatrè i pazienti Covid ricoverati. Immediatamente il personale sanitario ha allertato i tecnici. È accaduto sabato scorso: l'impianto è andato di nuovo in tilt. Era circa mezzogiorno quando é partita la telefonata dal reparto all'area tecnica. La tensione era alta, c'erano in quel momento persone ricoverate con la C-Pap, in ventilazione, pazienti Covid che avevano bisogno dell'ossigeno come non mai. Poche ore dopo e il problema si è presentato anche nel pronto soccorso Dea, attuale ospedale Covid della vasta provincia salentina, a pochi metri di distanza dal "Vito Fazzi". Entrambi i plessi sono riforniti di gas medicale da un'unica centrale, che evidentemente non ce la fa a dare la pressione giusta, per fare arrivare ossigeno in quantità sufficiente. Il medico del pronto soccorso nel solo suo turno di sabato, ha dovuto più volte disporre cambi di barelle e di letti, per ricavare erogatori di ossigeno dove poter attaccare ventilatori e caschi per i pazienti. Erano tante le persone ad aver bisogno di ventilazione, ma non tutti gli erogatori erano in grado di far uscire ossigeno in volumi soddisfacenti. Serviva chiuderne qualcuno per ricavare quantità adeguata da qualche altra postazione. Nell'attesa dei tecnici, i medici del reparto di malattie infettive hanno spostato i tre pazienti che richiedevano maggior flusso di ossigenazione nella pneumologia Covid che a sua volta ha ceduto agli infettivi persone meno gravi. In questo modo si è cercato di razionalizzare i consumi, fino al tardo pomeriggio quando finalmente sono arrivate due bombole per l'emergenza. La relazione tecnica parla chiaro: la pressione in uscita dell'ossigeno era bassa, pari a 3,6 bar. Insufficiente per sostenere la richiesta di ossigeno di un reparto che risultava pieno di persone, richiedenti alti flussi del gas medicale. Non solo: il tecnico ricorda nel suo rapporto di intervento che, in caso di anomalia o guasto, é impossibile effettuare qualsiasi manutenzione, visto che il quadro relativo all'impianto, ha un solo riduttore. A conferma di quanto dichiarato, c'è anche la comunicazione del dottor Anacleto Romano, responsabile del reparto infettivi. Nella nota - che il medico ha inviato al direttore di presidio Osvaldo Maiorano e ai direttori dell'Asl Lecce, Rodolfo Rollo e Roberto Carlà, rispettivamente direttore generale e sanitario - il primario specifica tra le altre cose, che si è cercato di ridurre al minimo possibile i flussi di ossigeno dei pazienti ricoverati. "Una soluzione temporanea del problema - si legge nella missiva del dottor Romano - che certamente può essere temporanea e insufficiente vista la situazione emergenziale delle ultime settimane". La Puglia infatti conta oltre duemila persone ricoverate negli ospedali, con un tasso di occupazione delle terapie intensive pari al 46% (dati agenas del 30 marzo 2020). Ben al di sotto del 30%, limite massimo di occupabilità, stabilito dall'istituto superiore di sanità, oltre al quale si parla di allerta alta. Purtroppo il problema della carenza di ossigeno non è una novità, come scritto anche dallo stesso dottor Romano. Era il 17 novembre 2020, quando l'allarme suonò di nuovo così come suona da mesi anche nell'ospedale Dea. Che qualcosa non vada nell'impianto si sapeva dunque già da diverso tempo. E questo forse anche a causa di una variante che l'azienda sanitaria leccese ha fatto fare alla centrale di gas medicale del "Vito Fazzi", collegandola con un tubo al Dea, distante una cinquantina di metri. La condotta di collegamento sarebbe stata determinata dall'emergenza pandemica, che ha richiesto una disponibilità immediata di ossigeno nella struttura appena consegnata e ancora non attiva. Tuttavia il Dea aveva - e ha tutt'ora - una sua centrale di gas medicali autonoma, dalla quale rifornirsi. Era probabilmente suffciente installare due serbatoi, come da progetto approvato, per attivare subito la fornitura di ossigeno. Nonostante ciò, l'Asl l'11marzo 2020 ha fatto smantellare l'unico serbatoio che c'era, quello usato per il collaudo, forte dell'ordinanza del 6 aprile 2020 del presidente Emiliano che aveva ordinato di smontarlo perché - dice nella delibera n.174 - impedisce la fornitura dell'ossigeno da parte della società già fornitrice dei gas medicinali. Società in quel momento non disponibile a garantire la fornitura perché impegnata anche in altre regioni. Una situazione paradossale che ha portato la stessa Asl a realizzzare in tutta fretta la condotta di collegamento alla centrale. Una variante fatta in tutta fretta, in appena 10 giorni, senza collaudo e senza verifiche del caso. E senza sapere sopratutto se quella tubazione sarebbe riuscita a mandare in tutti e due i plessi ospedalieri ossigeno a sufficienza. Quello che si temeva è avvenuto in questa terza ondata, ora che i ricoveri sono in aumento rispetto alla prima e seconda fase. Già all'inizio dell'estate scorsa, quando vennero dimessi gli ultimi pazienti Covid della prima ondata, gli allarmi suonavano indicando il livello basso dell'ossigeno, nonostante fosse rimasto operativo solo il reparto di pneumologia con qualche paziente e consumi limitati. Le anomalie hanno continuato anche durante la campagna elettorale delle regionali 2020, fino ad oggi con l'impossibilità ad attivare altri posti letto Covid nel Dea, per ossigeno oramai insufficiente. Oggi, a distanza di un anno dalla realizzazione della condotta, che doveva essere temporanea, resta un sistema di alimentazione d'ossigeno non a norma e priva di certificazione di prevenzione antincendi, mentre i medici limitano i ricoveri sapendo che gli erogatori non rispondo alla taratura impostata. Nel pronto soccorso Covid, i bocchettoni sono impostati al 50% - ci dice un medico - ma di fatto l'aria che viene erogata equivale al 25%.

"Letti soltanto a chi può farcela". Le scelte shock in terapia intensiva. Al Messaggero Simone Bianconi, primario del San Pietro-Fatebenefratelli di Roma, ha spiegato che con le varianti il Covid è più aggressivo tanto che "anche i 20enni hanno bisogno d'ossigeno". Gabriele Laganà - Mer, 31/03/2021 - su Il Giornale. Il cambio di passo nella campagna di vaccinazione attuato dal Commissario straordinario all’emergenza Covid, generale Francesco Paolo Figliuolo, permetterà tra qualche mese di raggiungere il tanto agognato obiettivo dell’immunità di gregge che consentirà di mettere la parola fine all’incubo coronavirus che ormai dura da oltre un anno. La luce in fondo al tunnel, quindi, si intravede. Il cammino, però, è ancora lungo e ricco di ostacoli. Perché se si può pensare al futuro con maggiore serenità vi è da affrontare un presente particolarmente difficile e carico di sofferenze. Una prova della complessa situazione sanitaria può essere rappresentata da quanto sta accadendo nel reparto Covid dell'ospedale San Pietro Fatebenefratelli di Roma."Un mese fa avevamo posti a iosa. Ora siamo pieni", ha raccontato al Messaggero Simone Bianconi, pneumologo e direttore del centro Covid dell'ospedale sulla Cassia. E quel "pieni" significa che il presidio sanitario è in difficoltà. Al punto che, come fa capire lo stesso Bianconi, quando arrivano i pazienti bisogna decidere a chi lasciare il posto in terapia intensiva. "Di fatto, si fanno delle scelte - riprende il professore-. A quella età le possibilità che tu possa uscire da una gravissima insufficienza respiratoria sono bassissime. Noi la terapia intensiva la riserviamo alle persone che possono avere una chance di uscirne". È già capitato di dover prendere decisioni simili. Pochi giorni fa, ad esempio, è toccato ad una signora di 94 anni, che il quotidiano indica come contagiata dagli operatori no-vax nella casa di riposo di Fiano Romano.

I dati nazionali. I problemi legati ai posti occupati nelle terapie intensive, in realtà, riguardano tutto il territorio nazionale. In Italia i numeri, infatti, mostrano andamenti altalenanti. Ieri, come emerge dal bollettino diffuso dal ministero della Sanità, è sceso il numero dei pazienti (-5) ricoverati per un totale di 3.716 letti pieni in rianimazioni. Il saldo degli ingressi del giorno è di 269. Ma il dato va preso con le molle. Perché per la terza settimana consecutiva i dati dei ricoveri dei pazienti Covid sono oltre la soglia critica. Secondo il monitoraggio di Agenas, la percentuale di posti letto di terapia intensiva occupata da pazienti Covid-19 è al 41% (+1%), a fronte di una soglia critica fissata al 30%, mentre la percentuale di posti letto in area non critica occupata da pazienti Covid-19 è al 44% (+1%), con la soglia critica al 40%. Sono 12 le Regioni oltre la soglia critica dei ricoveri in terapia intensiva, più la provincia di Trento mentre la Valle d'Aosta è al 30% di occupazione. Le altre 6 Regioni e la Provincia di Bolzano sono sotto la soglia. La situazione peggiore è quella della Lombardia al 61%, seguita dalle Marche al 60% e dal Piemonte al 58%. Ancora molto sopra soglia: Emilia Romagna (52%), Provincia autonoma di Trento (51%), Friuli Venezia Giulia (49%), Puglia (44%), Umbria (43%), Toscana (42%), Lazio (40%), Molise (38%), Abruzzo (36%), Liguria (32%). Al 30%, invece, la Valle d'Aosta, mentre le altre Regioni sono tutte sotto il livello critico. In Liguria "un pò di aumento c'è stato ma non con dati drammatici. Noi abbiamo maggiore pressione nella riviera di ponente Imperia e Ventimiglia e le corrispondenti Asl 1 e 2, già da qualche settimana. Si è un po’ spalmato sulle altre Asl. Attualmente i pazienti in terapia intensiva in Liguria sono 72, forse qualcuno di meno oggi. Non è un numero enorme ma qualche movimento in piu lo abbiamo osservato", ha spiegato all'Adnkronos Angelo Gratarola, il direttore del Diar Emergenze Urgenze della Liguria, facendo il punto della situazione sulle terapie intensive alla luce dell'aumento dei contagi covid registrato a livello nazionale. Quest’ultimo ha ricordato che la prima soglia "è quella di 67 pazienti, che dovrebbe corrispondere al 30% circa di occupazione. Ieri eravamo al 31%, oggi potrebbe essere qualcosa di meno ma siamo comunque intorno a quella percentuale".

La situazione al San Pietro-Fatebenefratelli di Roma. Nel corso della sua intervista al Messaggero, Bianconi ha ribadito che la scelta su chi assegnare il posto in terapia intensiva, però, non è legata solo all’età del paziente. Bianconi, infatti, sottolinea che si decide "caso per caso, non è una questione meramente anagrafica. Certo, un ultra-novantenne è veramente anziano. Un soggetto più giovane può avere delle possibilità". Lo pneumologo precisa, poi, che "non è che una persona molto anziana col Covid sia destinata al decesso, ma lo deve avere in una forma lieve, simile a un raffreddore" perché se tale soggetto sviluppa una polmonite con un'insufficienza respiratoria grave "le possibilità sono scarsissime". "Per un paziente di 90 anni o più- ha aggiunto- è anche una questione di eticità: portarlo in terapia intensiva significa sedarlo e far sì che il respiratore sostituisca il suo apparato respiratorio. Poi tornare indietro è molto difficile".

I progressi. Bianconi evidenzia che rispetto alla prima ondata molto è cambiato in termini di cure. "Oggi usiamo altri farmaci, non somministriamo più l'idrossiclorochina, per esempio, mentre sfruttiamo l'eparina. Sono cambiati i tempi di intubazione. Quando è arrivato, il Covid-19, era un male sconosciuto. Oggi lo è molto meno". Eppure la situazione sanitaria negli ultimi tempi si è aggravata a causa delle varianti che rendono Covid molto più aggressivo e, di conseguenza, pericoloso. Non è un caso, quindi, che sempre più sono i giovani colpiti dal nemico invisibile. In base all’esperienza conseguita sul campo, lo pneumologo evidenzia che la variante inglese"oltre ad essere sicuramente più contagiosa sembra avere un tasso di aggressività maggiore. A ottobre il 50enne col Covid spesso se la cavava con una forma simile a un'influenza. Ora invece ha molte più possibilità di sviluppare una polmonite con un'insufficienza respiratoria grave". Non solo adulti e persone avanti con gli anni vengono duramente colpiti dal coronavirus. "Stiamo ricoverando anche 20enni che hanno bisogno dell'ossigenoterapia. A ottobre non capitava", ha inoltre spiegato il professore. Vi è poi la questione dell’organico, a volte insufficiente per affrontare l’emergenza. "Noi abbiamo dovuto sottrarre il personale della rianimazione alle attività ordinarie, chiudendo le sale operatorie, che ormai restano attive soltanto per le urgenze o per i tumori. Tutto il resto è stato chiuso", ha ricordato Bianconi che ha anche evidenziato come non si sia riusciti "a fare assunzioni".

I pazienti. Lo pneumologo racconta anche che la crescita dei posti letto è costante eppure "ora siamo pieni". Per questo "ogni giorno dobbiamo dimettere pazienti per creare spazio. È un equilibrio molto delicato, molto sottile. Se penso a 30 giorni fa, avevamo posti in abbondanza. Ora siamo saturi". I posti letto a disposizione sono 52 ma "eravamo partiti da 20 quando abbiamo aperto, a marzo di un anno fa. Sono 40 letti nel reparto Covid ordinario, più 4 posti di terapia intensiva e altri 8 in sub-intensiva". Prevenzione e vaccinazione sono le armi contro il coronavirus. Le dosi del farmaco da somministrare per immunizzare la popolazione pare che stiano già dando i primi frutti. Secondo Bianconi, infatti, oggi vengono ricoverati pochi ultra-ottantenni mentre a marzo e ad aprile 2020"erano la maggioranza, quasi tutti dalle Rsa". Allo stesso tempo, però, per quanto riguarda la pressione ospedaliera ancora "non beneficiamo dell'effetto della campagna di vaccinazione. Abbiamo ancora tanti ricoveri, anche se l'età media si è molto abbassata. Oggi la maggior parte ha intorno ai 50-60 anni. C'è chi finisce in terapia intensiva anche a 52. Prima era molto più raro". Per fortuna tanti sono i pazienti che guariscono, anche grazie alle cure dei medici e degli infermieri. Resistere ancora qualche mese. Poi, con la campagna di vaccinazione di massa, la storia cambierà. E l’incubo Covid, seppur impossibile da dimenticare, sarà finalmente alle nostre spalle.

Virus, il dramma delle terapie intensive "Uno su tre di chi entra non sopravvive". Affari Italiani il 29/3/2021. L'emergenza Coronavirus continua in tutta Italia. Le varianti dilagano e il numero di contagi giornalieri cresce sempre di più. A preoccupare sono soprattutto gli ospedali, in particolare i reparti di terapia intensiva ormai al collasso in molte Regioni. Dodici e una provincia autonoma sono in netta difficoltà. Si tratta di: Abruzzo, Emilia Romagna, Friuli, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Toscana, Umbria e Trento. Tutte - si legge su Repubblica - con più del 30 per cento delle rianimazioni occupato da pazienti Covid. Superata quindi la soglia di allerta individuata dal ministero della Salute oltre la quale il sistema sanitario va in crisi. Un numero, 3.679, che spinge l’Italia indietro esattamente di un anno, al 29 marzo 2020, quando il Paese era chiuso a chiave in lockdown, e i ricoverati in condizioni gravissime erano 3.800. Le proiezioni - prosegue Repubblica - non promettono niente di buono. Un report di Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali) redatto con la collaborazione dell’università di Padova tiene in ansia i tecnici del governo: il picco, sostengono i matematici, non è stato ancora raggiunto. Gli ingressi in rianimazione continueranno a crescere anche nelle prossime settimane. "Siamo in decisa sofferenza - spiega Roberto Fumagalli, primario del Niguarda a Milano - il carico che abbiamo oggi dipende dagli accessi ai pronto soccorso di 7-14 giorni fa. Nella nostra regione ci sono quasi 900 posti letto occupati da pazienti Covid nelle terapie intensive, potremmo arrivare a quota mille nelle prossime settimane. La mortalità è purtroppo molto alta. Il 36-38 per cento di chi entra non sopravvive. L’anno scorso moriva il 42 per cento".

DAGONEWS da studyfinds.org il 26 marzo 2021. Sempre più persone stanno morendo di malattie cardiache e respiratorie facilmente curabili. Ma non vi preoccupate, non si tratta di una nuova malattia. Secondo il dottor Joseph S. Alpert, editore dell’American Journal of Medicine, le persone stanno morendo per…. paura di contrarre il COVID-19. “I pazienti evitano gli ospedali il più possibile per il timore di ammalarsi. […] Per lo stesso motivo, molti ammessi all’ospedale stanno rifiutando terapie post operatorie e altri trattamenti.” Sebbene il rischio di contrarre il COVID-19 nelle cliniche sia presente, il medico sostiene che i pazienti dovrebbero continuare ad andare in ospedale nonostante la pandemia. Infatti, negli ospedali sono presenti protocolli ben stabiliti per prevenire, testare e rintracciare eventuali contagi da COVID-19, al contrario di altri ambienti come ad esempio i supermercati. Secondo il medico una soluzione a questo recente fenomeno potrebbe arrivare dalle compagnie aeree, alcune delle quali hanno realizzato programmi specializzati per aiutare potenziali clienti a superare la paura di volare. Alpert spera che prendendo spunto da questa situazione analoga si potrebbe incoraggiare più persone ad andare in ospedale in caso di malattie serie, sapendo che il personale sta attuando tutte le misure necessarie per evitare contagi.

Ospedali chiusi per Covid: che danno...La ricerca SICE: in diversi casi pochissimi interventi chirurgici e sale operatorie sbarrate. Simone Savoia - Lun, 15/03/2021 - su Il Giornale. Codogno (Lodi), 21 febbraio 2020. Fanno il giro del mondo le immagini del cartello che indica l’ingresso del pronto soccorso con un cartello incollato sopra e la scritta “chiuso”. Il giorno prima lì è stato ricoverato Mattia Maestri, il “paziente 1” del coronavirus in Italia e in Europa. Quel cartello lascerà i cittadini senza parole, smarriti; nemmeno la guerra ha fatto cessare l’attività degli ospedali. Quel cartello diventa il simbolo di un’ospedalizzazione forzata della crisi pandemica, che sarà la necessità, ma anche il limite della via italiana alla guarigione dal COVID. Soprattutto durante la seconda ondata da settembre a dicembre 2020. “Un insegnamento di cui dovremo tener conto in futuro” dice il professor Ferdinando Agresta, medico chirurgo dal 1987, attuale primario di chirurgia generale presso l’ospedale di Vittorio Veneto e dal 2019 presidente della Sice, Società italiana di chirurgia endoscopica, laparoscopica e nuove tecnologie. Con un gruppo di ricercatori della Sice è stata presentata la ricerca “Il cambiamento del comportamento chirurgico durante la pandemia di COVID-19”. Lavoro di gruppo che ha avuto l’onore della pubblicazione ai primi di marzo sulla rivista scientifica “Updates Surgery”, considerata l’ottava più autorevole al mondo.

Professor Agresta, perché questa ricerca è stata considerata così importante?

“Si tratta di una fotografia molto dettagliata dello stato dell’arte della chirurgia italiana nel 2020, l’anno del coronavirus. Hanno risposto all’indagine promossa dalla Sice 226 unità operative di chirurgia sulle 447 attive in Italia. Il 50%, laddove una percentuale ottimale nelle ricerche scientifiche internazionali è del 30%”.

Quale situazione emerge dalla vostra ricerca?

“I chirurghi rimasti a corto di lavoro causa COVID si sono reinventati internisti, cioè medici che si occupano in generale di pazienti la cui cura non richiede un intervento chirurgico”.

Il coronavirus come ha influito sui reparti di chirurgia?

“Da marzo a giugno, durante la cosiddetta prima ondata, è stato chiuso il 12% delle unità operative di chirurgia. Questa percentuale è scesa all’8% nel periodo della seconda ondata, da settembre a dicembre. Ma sono numeri alti, perché anche i reparti di chirurgia che non sono stati chiusi del tutto hanno registrato sensibili riduzioni degli interventi”.

Cosa ha significato questa ridotta attività per i posti letto disponibili?

“Si sono ridotti spesso al lumicino. Il 70% delle unità di chirurgia da noi interpellate ha avuto meno di 20 posti letto disponibili, pochissimi. Per capirci il reparto che dirigo nell’ospedale di Vittorio Veneto che ha 235 posti letto è stato chiuso del tutto durante la prima ondata”.

E gli interventi in sala operatoria sono diminuiti nella stessa misura?

“Il 30% delle unità operative hanno fatto meno di 20 interventi chirurgici programmati da marzo a giugno. Da ottobre a dicembre il 18% delle unità chirurgiche aveva questa diminuzione d’interventi”.

E per gli interventi non programmati?

“In urgenza il 43% di unità operative di chirurgia ha fatto meno di 20 procedure operative da marzo a giugno. Situazione leggermente migliorata da ottobre e dicembre con il 27% dei reparti chirurgici scesi sotto le 20 operazioni”.

Cosa significa avere una chirurgia parzialmente paralizzata?

“Si parla spesso e giustamente dei 377mila italiani che soffrono a causa di tumori maligni. Ma pensiamo anche agli oltre 200mila casi di ernia inguinale o addominale. E a tutte le patologie invalidanti che non consentono a chi ne soffre di lavorare, ad esempio. O ai 9 milioni di italiani che accusano problemi di colecisti”.

Quanto personale è stato interessato dall’indagine della Sice?

“Possiamo dire che sono stati interessati circa 500 medici chirurghi distribuiti su tutto il territorio nazionale. Una media ponderata e realistica diciamo vede impegnati in una singola unità chirurgica 10 medici e 30 addetti al personale sanitario. Il rapporto è 1 a 3”.

Dai numeri forniti si nota che i cittadini hanno avuto meno paura nella seconda ondata rispetto alla prima, è così?

“Certamente sì. Il nemico invisibile, il coronavirus di febbraio-marzo 2020 faceva paura perché del tutto sconosciuto. A ottobre-novembre 2020 i cittadini ne sapevano di più e piano piano sono tornati a utilizzare gli ospedali anche per altro”.

Il coronavirus come ha cambiato la vita ospedaliera?

"Un ospedale è diventato una grande sala operatoria. Per un chirurgo la mascherina, l’igiene delle mani, il distanziamento costituiscono l’abc dei protocolli di sicurezza. Poi c’è stata maggiore attenzione rispetto all’utilizzo di alcune tecniche, come l’uso di anidride carbonica nella chirurgia laparoscopica, cioè meno invasiva per il paziente”.

Cosa ci ha insegnato il coronavirus?

“I chirurghi hanno sentito l’importanza del tema anche in questa ricerca. Solo mettendo insieme i dati si può dare un contributo importante. L’ospedale deve continuare l’attività ordinaria anche durante la pandemia; non è possibile che un cittadino trovi il cartello “chiuso per virus” su una sala operatoria, su un pronto soccorso, su un reparto di chirurgia”.

I ricercatori che hanno partecipato a questa ricerca sono Umberto Bracale, Mauro Podda, Simone Castiglioni, Roberto Peltrini, Alberto Sartori, Alberto Arezzo, Francesco Corcione. Il dottor Bracale fa capire che questa ricerca per il Sice è solo l’inizio: “Il nostro studio fa emergere chiaramente i danni indiretti prodotti dal coronavirus e conseguentemente ha dato il via ad un successivo studio, ancora in corso, sempre organizzato dalla SICE, per valutare in modo rigorosamente scientifico il ritardo nella diagnosi delle patologie neoplastiche e nel relativo trattamento a seguito della pandemia”.

Inquinamento, effetto-sorpresa e popolazione anziana: ecco i fattori che hanno alzato la mortalità del Covid. Raffaele Ricciardi su La Repubblica il 13 marzo 2021. Uno studio dell'Osservatorio sui Conti pubblici italiani mette in relazione le variabili socio-economiche dei principali Paesi avanzati con la severità della pandemia. E scopre che la risposta italiana ha evitato uno scenario potenzialmente peggiore. Perché nel 2020 il Covid ha fatto uno o due morti ogni centomila abitanti in Corea del Sud o Nuova Zelanda, mentre in Belgio siamo arrivati a quota 171 e in Italia si veleggia ampiamente sopra i 120? Eppure sono tutti Paesi "avanzati", economie e sistemi consolidati pur nelle loro specificità. Le ragioni di queste differenze sono molteplici. Il fattore "tempo" ha giocato la sua parte in questa amara classifica, penalizzando maggiormente i Paesi che sono stati colpiti dal virus prima; anche la struttura demografica della popolazione è una variabile di rilievo, così come l'inquinamento atmosferico. Dai dati non sembrano invece esserci correlazioni rilevanti rispetto al livello della spesa pubblica per la sanità nel periodo pre-Covid, forse perché paesi ad alta spesa non erano comunque preparati alla sorpresa di una pandemia. E, in ogni caso, ciò non mette in discussione l'invito a un aumento della spesa sanitaria pubblica nel nostro paese, visto il basso livello raggiunto nel corso dell'ultimo decennio. L'Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani dell'Università Cattolica, guidato da Carlo Cottarelli (autore dello studio con Federica Paudice), ha cercato di vederci chiaro nelle correlazioni tra caratteristiche socio-economiche delle popolazioni e incidenza della mortalità del virus. Puntando in primo luogo la lente sulla letteratura che ha studiato quali variabili hanno determinato il diverso grado di severità della pandemia tra aree geografiche differenti.

L'analisi degli studi su Covid e popolazione. Nella maggior parte dei sedici studi passati in rassegna emerge con chiarezza una relazione tra anzianità della popolazione e severità del virus, così come ci sono evidenze di un nesso tra fatalità e presenza di patologie cardiovascolari/respiratorie e di cancro, mentre i risultati sono contrastanti circa il ruolo di altri fattori di rischio (quali obesità e fumo). Una correlazione per certi versi sorprendente emerge - "nonostante le incertezze sulla misurazione del fenomeno", annotano dall'Osservatorio - tra il reddito pro-capite e la severità della pandemia. A differenza di quanto ci si potesse aspettare, infatti, il Covid sembra aver colpito più duramente i paesi avanzati, con perdite umane minori per aree a reddito basso, come l'Africa. Questa osservazione, però, si potrebbe anche fondare con la minore età della popolazione nei Paesi a basso reddito e la maggiore trasparenza del tracciamento e della raccolta dei dati nei Paesi più avanzati. Tra i nessi che emergono con vigore, dall'insieme degli studi analizzati c'è quello tra inquinamento e severità della pandemia: "Esiste - dice l'Osservatorio - ed è robusto". Altra sorpresa, invece, si trova quando si va ad analizzare l'equilibrio tra risorse impiegate nei sistemi sanitari e impatto del Covid. Da una parte, infatti, la disponibilità di risorse umane (medici e infermieri) e di letti sembra aver avuto un ruolo nel ridurre la fatalità del virus (cioè il rapporto tra decessi e contagiati), ma non la mortalità (decessi per popolazione). Sorprendentemente, dettagliano dall'Osservatorio, nessun lavoro trova un legame negativo tra spesa sanitaria prima della pandemia e tasso di fatalità del virus. Al contrario, tre studi riscontrano un legame positivo. Ma anche su questo dato bisogna ragionare ulteriormente: i Paesi ad alto reddito hanno tipicamente un livello di spesa sanitaria elevata e una maggiore anzianità della popolazione, con quest'ultimo fattore che li espone a una più elevata mortalità. Anche in questo caso, poi, una possibile spiegazione è la maggiore capacità di tracciamento dei decessi nei paesi con maggiore spesa sanitaria.

L'analisi sui Paesi avanzati: ecco come cambia la mortalità. Detto quel che si è osservato in letteratura, l'analisi dell'Osservatorio si è quindi mossa in proprio solo sui Paesi avanzati (ad alto reddito) dell'area Ocse: sono 31. E sul numero di decessi medi giornalieri in questi registrati, nel corso di tutto il 2020. Per verificare quali variabili hanno avuto impatto sulla diversa gravità della pandemia, sono stati presi in considerazione: Indice di sviluppo umano (per l'aspetto socio-economico), inquinamento (variabile ambientale), spesa pubblica pro capite destinata alla sanità (per la capacità sanitaria), popolazione rurale e densità abitativa (per evidenziare fattori che possono incrementare i contagi), "effetto sorpresa" (misurato come il giorno dell’anno dal primo gennaio in cui il paese ha superato la soglia dei 100 casi cumulati: minore è il tempo trascorso, maggiore sarà l’effetto sorpresa. Serve per dar conto della dinamica temporale con cui si è manifestato il virus e del fatto che i Paesi colpiti prima dalla pandemia si sono trovati impreparati), variabile Asia (per dar conto di culture a ridotto contatto e uso diffuso della mascherina). Applicando questi filtri alla popolazione anziana (over 60 o 65 a seconda delle classificazioni nei Paesi), l'Osservatorio ha via via selezionato le variabili rilevanti nel modificare il quadro dei decessi gironalieri. E ha concluso che quelle significative nello spiegare i decessi giornalieri sono l'inquinamento con segno positivo, l'effetto sorpresa con segno negativo (quindi maggiore è stata la sorpresa, più alto il numero di decessi) e la variabile "Asia" con segno negativo. Rispetto alla letteratura si conferma il fatto che tra le variabili non significative ci sia la spesa pubblica in sanità. In effetti, paesi come Lettonia, Grecia, Lituania, Estonia, pur avendo una spesa sanitaria pubblica pro capite bassa, hanno registrato un numero di decessi contenuto. Per contro, Stati Uniti, Belgio, Francia e Regno Unito con un'alta spesa sanitaria hanno registrato un elevato numero di decessi. Questa dinamica, argomenta lo studio, suggerisce che la spesa sanitaria pre-Covid non fosse mirata a ridurre gli effetti di una possibile pandemia, che in effetti ha colto tutti di sorpresa. I paesi avanzati, forse a differenza dei paesi meno sviluppati, negli anni scorsi, non avrebbero investito risorse nei settori sanitari che potevano offrire un vantaggio nella lotta contro le malattie infettive, destinando invece più risorse al contrasto di malattie più comuni (tumori, malattie cardiocircolatorie, diabete). Risultati confrontabili sono stati verificati anche una volta spostata la lente sulla popolazione più giovane, pur nell'ambito di una mortalità decisamente inferiore. A questo punto, si può rispondere alla domanda: cosa ci dice il modello sull'impatto delle variabili esplicative sui decessi? Per farlo, l'Osservatorio indica un Paese con caratteristiche intermedie come la Danimarca che presenta un effetto sorpresa di 70 (a fronte di una media campionaria di 69,32), un livello di inquinamento pari al 56,91 per cento (a fronte di un inquinamento medio del 56,22 per cento) e una quota di anziani del 25,06 per cento della popolazione totale (a fronte di una media del 23,7 per cento). In queste condizioni, indica l'Osservatorio, un aumento dell'1 per cento della quota di popolazione esposta ad una soglia di inquinamento superiore allo standard indicato dall'Organizzazione mondiale della sanità, comporta un aumento dei decessi dell'1,6 per cento. Un anticipo di 1 giorno nell'effetto sorpresa comporta un aumento dei decessi del 6 per cento. Questo effetto sembra particolarmente forte ma occorre considerare che nella prima fase della pandemia il virus colse impreparate le strutture mediche e la mortalità fu particolarmente alta, rispetto ai contagi, nei paesi colpiti per primi. Per esempio, in Italia, tra i primi paesi colpiti, la metà dei decessi annuali si verificò nella prima fase (entro maggio), mentre un paese come il Portogallo, che appare con un ritardo di circa due settimane nella variabile sorpresa e con un numero di decessi complessivamente pari alla metà di quello italiano, solo il 20 per cento dei decessi si è verificato entro maggio. In altri termini, i paesi colpiti prima hanno accumulato un pesante divario in termini di decessi proprio nella prima fase della crisi. Aumentando dell'1 per cento la quota della popolazione anziana, infine, i decessi stimati aumentano dello 0,5 per cento.

Il peso delle risposte alla crisi. Lo studio elaborato dall'Osservatorio permette anche di dare una indicazione su come le risposte alla pandemia dei singoli governi abbiano inciso sulla mortalità del Covid. Per farlo, si calcola la differenza tra decessi stimati in base al modello e decessi effettivi. La differenza può riflettere, tra gli altri fattori, i diversi approcci di gestione della crisi sanitaria che il modello non osserva perché difficilmente misurabili, quali l'efficacia della spesa sanitaria o le misure restrittive (grado di lockodown e loro tempestività) imposte. Ne emergono valori particolarmente alti (più decessi del previsto rispetto ai decessi effettivi in rapporto ai decessi effettivi) per Stati Uniti, Irlanda e Svezia. Per Nuova Zelanda, Australia e Germania invece si osservano valori particolarmente bassi. Anche l’Italia ha avuto un numero di decessi basso rispetto alle previsioni del modello. Una fotografia che non a caso penalizza coloro (come Stati Uniti, Svezia e Regno Unito) che hanno tardato nell’applicazione delle misure o, addirittura, hanno inizialmente negato la rilevanza del problema.

Paolo Becchi e la verità sui morti per coronavirus: "Nessuna correlazione". Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. "Se uno muore di infarto ma risulta positivo alla Covid-19 è morto di Covid, se uno muore di infarto dopo aver fatto il vaccino è morto di infarto e non c’è nessuna correlazione con il vaccino. Nessuna correlazione! Nessuna correlazione! Nessuna correlazione! Nessuna correlazione!". Questo il tweet polemico di Paolo Becchi che analizza l'attuale emergenza sanitaria e in particolare il numero dei morti per coronavirus e l'errore che secondo Becchi viene fatto confondendo così chi deve ricevere le informazioni. Se uno muore di infarto ma risulta positivo alla Covid-19 è morto di Covid, se uno muore di infarto dopo aver fatto il vaccino è morto di infarto e non c’è nessuna correlazione con il vaccino. Nessuna correlazione! Nessuna correlazione! Nessuna correlazione! Nessuna correlazione! Becchi spiega che i numeri sono sballati perché la gente viene confusa sul motivo del decesso. Lo fa ironicamente affrontando l'argomento di questi giorni sulla sicurezza di un vaccino (quelli che si stanno usando contro il coronavirus) che non sono stati testati molto come quelli classici che si fanno da bambini. Il dibattito è acceso e Becchi polemizza proprio con chi tra quelli favorevoli al vaccino anti-coronavirus cerca di minimizzare le possibili ricadute o le controindicazioni. Recente è il caso del vaccino Astra Zeneca stoppato in  Danimarca e al centro delle polemiche per la morte di un militare italiano vittima di coronavirus. Becchi da tempo combatte una battaglia sull'informazione al tempo del coronavirus. Sono note le sue polemiche sul numero delle vittime di Covid e anche sul piano vaccinale. Polemiche che spesso l'editorialista di Libero crea anche sul suo profilo personale di Twitter e anche poi sui suoi commenti sul quotidiano Libero. La tesi è sempre la stessa: non credere sempre alle verità ufficiali e contrastare il pensiero unico.

Claudio Borghi attacca: "Coronavirus, a Milano la mortalità è sotto la media". Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano l'11 marzo 2021. Claudio Borghi contesta le chiusure e litiga con i virologi: per questo nei salotti tv viene trattato come il fratello cattivo di Hannibal Lecter. Anche quando dice cose vere. Facciamo un esempio: l'onorevole due giorni fa ha pubblicato una tabella corredata da questo post: «A Milano ormai da molti giorni mortalità totale sotto la media del quinquennio precedente. Eh sì, si moriva anche nell'epoca pre-Covid, anche per malattie di stagione come le influenze. I picchi Covid ci sono stati a marzo e novembre, adesso non pare». Meno decessi durante la pandemia? Ovviamente ne è nata la solita polemica sul negazionismo, ma il parlamentare, sentito successivamente dall'AdnKronos, non si è tirato indietro: «È così, sono i fatti». La tabella è quella pubblicata qui a lato e che, come dicevamo, riguarda i defunti registrati dall'anagrafe nella sola città di Milano. Giorno per giorno. E risulta abbastanza intuitiva: la linea degli anni passati (2015-2019) mostra un andamento lineare. Quella del 2020 ha due picchi sanguinosi a marzo e a novembre. Per il resto, siamo più o meno sugli stessi livelli. Per quanto riguarda il 2021, a gennaio siamo arrivati addirittura sotto la media degli ultimi cinque anni. Quindi Borghi sembra avere pienamente ragione, fino ad adesso (non ci sono dati sulle ultime due settimane, nelle quali è partita la terza ondata). Anche se probabilmente questo accade proprio perché indossiamo le mascherine e manteniamo il distanziamento. Come spiega Ariela Benigni, segretario scientifico dell'Istituto Mario Negri, «ovviamente bisognerebbe approfondire, ma a una prima occhiata è facile pensare che la causa potrebbero essere le misure di protezione anti-Covid, che hanno fatto sostanzialmente sparire l'influenza, come tutte le altre malattie stagionali. Perfino il raffreddore sembra meno frequente». Gennaio e febbraio, infatti, sono tradizionalmente i mesi di picco per quanto riguarda l'influenza, che ogni anno miete parecchie vittime e che nel 2021 non s' è vista. Per evitare di contrarre il virus cinese, tuttavia, non basta coprirsi naso e bocca: «Abbiamo capito che la mascherina sicuramente è importante ma purtroppo non basta. E le varianti potrebbero anche peggiorare la situazione. Per questo stiamo introducendo misure che limitano ulteriormente la mobilità». E la questione non si risolverà rapidamente: «È necessario abituarsi all'idea che non ci separeremo dalle mascherine ancora per molto tempo».

CALA LA SPERANZA DI VITA. La pandemia, in effetti, ha stravolto tanti dei macro-numeri cui ci siamo abituati. Uno dei vanti italiani è da tanti anni quello di essere uno dei Paesi con l'aspettativa di vita più alta al mondo. Ora rischiamo di scivolare in classifica. Siamo tornati indietro di 10 anni, esattamente al 2010 perché l'evoluzione positiva è stata duramente frenata nel periodo tra il 2010 e il 2019. Il Coronavirus ha colpito soprattutto nel Nord Italia, annullando ogni progresso fatto, e in parte anche al Sud. Secondo il rapporto Bes dell'Istat, nel settentrione la speranza di vita era 82,1 anni nel 2010, era arrivata a 83,6 nel 2019 e ora torna a 82 anni nel 2020. Al Centro Italia la speranza di vita era in media 81,9 anni nel 2010, era arrivata a 83,1 anni nel 2020 e anche qui si torna indietro nel tempo. Infine nel Mezzogiorno si ritorna a 81,1 anni, quando eravamo arrivati a toccare gli 82,2, con perdite meno consistenti nell'ultimo anno (rispettivamente -0,5 e -0,3 anni). Da notare: nel complesso non siamo messi così male: in cima alla classifica c'è il Giappone, con 83,7 anni. Non lontano.

Maurizio Molinari per repubblica.it l'8 marzo 2021. Nel giorno in cui l’Italia supera le centomila vittime per la pandemia è il momento di fermarsi in segno di rispetto per il dolore, i lutti e le lacerazioni che colpiscono così tanti fra noi. Il Covid-19 è un nemico invisibile che ci ha colpito a sorpresa, è entrato nei nostri corpi, nelle nostre vite, ed ha portato morte e devastazione come mai avvenuto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ogni vittima ha un nome, ha lasciato una vita con affetti, speranze, sogni. Il nostro giornale di oggi è avvolto da volti e storie di alcune di loro. Sono i nostri parenti ed amici, i nostri vicini di casa e colleghi di lavoro, le persone che incontriamo uscendo di casa, salendo sull’autobus, andando a scuola. Ogni volto, ogni caduto nella guerra al virus è un tassello del nostro Paese: hanno nomi, origini, fedi, generi e colori diversi ma in comune c’è l’appartenenza ad una comunità nazionale che ha il dovere di ricordarli per le generazioni a venire. Perché erano come noi, perché potevamo essere al loro posto, perché ciò ci aiuterà a proteggerci da nuove minacce collettive e perché ciò consentirà di ricostruire ciò che è stato distrutto. Guardando avanti, nel loro ricordo. Perché la vita prevale sempre sulla morte se la memoria del dolore cementa la nostra identità.

Diario del virus/105: la guerra dei centomila. Ragù di capra di Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 9 marzo 2021. Uno, nessuno e centomila sono i morti di Covid-19 da quando è partito un conto incerto, approssimato per difetto di un buon 20 per cento. I giornali pubblicano le loro antologie di Spoon River, con i quadretti delle facce allineati come accade nei necrologi delle cronache di provincia. È una scelta arbitraria, necessariamente. Non basterebbe carta per mettere tutti. Si privilegiano i volti giovani, i tanti che non rientravano nella balla negazionista per cui muoiono solo i vecchi e i malati o i vecchi malati. Alcuni evocano la falsariga bellica: centomila vittime, più della campagna di Russia nella seconda guerra mondiale (ma appena un dodicesimo rispetto alla battaglia della Somme durante la prima guerra). Oppure si richiede una lapide con i nomi come hanno fatto a New York con le vittime dell'attacco terroristico alle Torri Gemelle. Giocoforza si tratterebbe di una lapide in aggiornamento perché di Covid si continua a morire e, non per annoiare con la cronaca, ma la scorsa settimana è tornata a salire la curva dei decessi che era in flessione costante dalla metà di gennaio. San Valentino e Carnevale in allegria stanno presentando il conto mentre la campagna vaccinale procede a un ritmo inferiore alla media dei paesi Ue, con l'Italia al trentacinquesimo posto nella classifica online del Financial Times. L'idea di guerra ha seguito l'evoluzione della pandemia dal principio e fino alla nomina del generale Figliuolo alla guida della struttura commissariale. E che cosa sarebbe mai l'Italia senza generali e commissari? A pochi finora, e a nessuno a livello governativo, è venuto in mente che si potrebbe intavolare una trattativa di pace con le forze di grandezza infinitesimale che hanno mosso guerra alla razza umana per motivi non del tutto ingiustificati. La risposta è stata bellicista: più commissari, più task force, più militari. Come sempre nelle guerre, rimangono le facce dei morti, sorridenti o stupiti di essere stati mandati al fronte senza sapere perché, con armi insufficienti e la voglia di disertare. Ma certo il pacifismo è una brutta cosa, si sa, è una cosa da deboli. Noi siamo i padroni del cosmo e non dobbiamo chiedere il permesso a nessuno, men che meno a forme di vita visibili soltanto al microscopio. Ora ci attrezziamo con i vaccini, poi potremo continuare come prima con il poker. Il poker? Che c'entra? Il poker c'entra sempre. È il gioco d'azzardo più geniale inventato da noi padroni del cosmo perché non esiste il punto imbattibile. Una mano può finire con due scale reali, la combinazione perfetta delle carte, e il pareggio fra contendenti non è previsto. In caso dei due scale reali, la massima batte la media, la media batte la minima. Ma la minima, anche microscopica, batte la massima. Centomila, anzi, milioni di morti a poker. Questo sì che non si era mai visto.

Coronavirus, il bilancio tragico di un anno record: 100mila morti in Italia, cosa è andato storto. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 09 marzo 2021. Centomila morti per Covid. Esattamente un anno dopo la chiusura totale decisa dal governo Conte, l'Italia taglia il funebre traguardo. Se si mettono insieme numero di decessi per abitante, danni economici patiti, chiusura delle scuole e limitazioni alle libertà individuali, nessuno ha fatto peggio di noi. Anche oggi, come nel marzo 2020, ci troviamo con gli studenti in didattica a distanza perfino in prima elementare e probabilmente siamo alla vigilia di una serrata nazionale. A ricordare le litanie di chi per un anno ha continuato a dirci che il nostro Paese era un modello per tutti nella lotta alla pandemia, prudono le mani. Per fortuna i protagonisti di quelle passerelle di lugubre vanità sono stati quasi tutti sloggiati a forza da Draghi. Resta al suo posto solo il ministro Speranza, portatore di lutti nelle profezie e nell'aspetto nonché, (...) (...) in quanto comunista, nemico dell'economia e dell'individuo e amante della miseria e delle galere per vocazione politica. La situazione oggi è migliore rispetto a un anno fa solo perché ci sono i vaccini, ma anche sul fronte della profilassi siamo maglia nera. Stavolta però siamo in buona compagnia, in quanto facciamo parte dell'Unione Europea, alla cui incompetenza e debolezza ci siamo affidati mani e piedi a occhi chiusi. Convinti come siamo che a Bruxelles facciano i nostri interessi e non i loro e siano più bravi di noi, non abbiamo vigilato e adesso ci lecchiamo le ferite. L'Agenzia Europea del Farmaco ha approvato i prodotti anti-Covid dopo americani e inglesi e la von der Leyen ha siglato contratti capestro, così siamo finiti in fondo alla fila nella distribuzione delle fiale e non possiamo neppure lamentarci più di tanto. Per non rimediare, la Ue tergiversa ancora nello sdoganare il vaccino russo Sputnik, in quanto le preme non dispiacere al presidente Usa, Joe Biden, più che badare alla nostra salute. Con i giusti tempi, ci vorranno sei mesi per riconvertire gli stabilimenti, stiamo valutando di produrre le dosi direttamente in Italia. Intenzione apprezzabile, mentre noi discutiamo e ci perdiamo in cavilli, Francia e Germania hanno già avviato le procedure.

Solito schema. Lentamente però, chi non morirà prima, riceverà l'iniezione salvavita. La strategia dei nostri cervelloni è quindi chiudere l'intera popolazione in casa finché il generale Figliuolo, commissario straordinario all'emergenza sanitaria, che ci auguriamo prodigo di soluzioni e di genio più del suo predecessore Arcuri, non riuscirà a farci inoculare tutti. Strategia demenziale, nonché l'unica che la politica è riuscita a inventarsi in un anno: aprire e chiudere i rubinetti della libertà a seconda dell'andamento del virus, senza anticiparlo ma arrivando sempre dopo in ossequio al seguente schema. Funziona così: prima si ignora l'allarme, poi si tranquillizza per accattivarsi il consenso e non prendersi la responsabilità di decisioni impopolari, quindi si colpevolizza e terrorizza la popolazione per costringerla a obbedire e occultare le proprie mancanze. Gli italiani sono noti per farsi abbindolare dalla politica, ma l'hanno capito pure loro, tant' è che si riversano in strada alla faccia delle limitazioni; come dargli torto, dopo un anno che gli si parla a vanvera senza soluzioni mentre molti altri Paesi stanno scavallando il virus?

Cosa si poteva fare? Cosa avremmo potuto fare? Si chiedono in molti. Tamponi di massa, tracciamenti, chiusure tempestive e mirate, approvare un protocollo nazionale di cura, non cicalare l'estate ma assumere medici e rinforzare i reparti di terapia intensiva, comprare più autobus al posto dei banchi a rotelle e tanto altro riassumibile alla voce: copiare quelli più bravi di noi, cioè quasi tutti, perfino il Marocco. Il prezzo che l'Italia ha pagato all'epidemia non è solo centomila morti. Secondo uno studio di Alleanz il solo ritardo di cinque mesi nei vaccini ci è costato dieci miliardi, mentre è una chimera che il Covid abbia fatto male solo a imprenditori e partite Iva preservando il lavoro dipendente, che invece ha perso 8,7 miliardi di entrate solo calcolando la cassa integrazione; non pochi ma una piccola parte dei 165 miliardi di Pil perso nell'anno. L'ultimo calcolo sadico ora è valutare quanto ci peserà avere studenti che si sono formati in tinello anziché sui banchi; pare che il conto costerà l'1,5% del Pil ogni anno da qui al 2100, sostiene l'Ocse, Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Ma per fortuna adesso è arrivato Draghi, recita il nuovo ritornello intonato da un coro che per tre quarti è composto dagli ex incensatori di Conte. L'uomo ha due missioni: vaccinarci e stabilire come impiegheremo i soldi che l'Europa ci presterà. Sulla prima, l'ex governatore farà il possibile. Già l'aver messo le mani su ogni fiala in circolazione nel Paese, impedendone l'invio all'estero, dimostra che ha le idee più chiare del suo predecessore. Confortante anche che abbia preso a trattare la von der Leyen dall'alto in basso, come era abituato quando stava a Francoforte.

Lo Stato da solo non ce la fa. Quanto ai soldi, finché SuperMario sarà regnante, ne arriveranno pochi. Comunque li impiegherà meglio di quanto avrebbero fatto Conte e Gualtieri, ministro dell'Economia che il Pd ci vendette come un genio ma che a un mese dalla sua destituzione è già uno sbiadito ricordo, che nessuno rimpiange. Possiamo solo dire che la replica di Daniele Franco, che ha preso il posto dello storico eurodeputato dem che univa il vezzo dei numeri a quello delle schitarrate, a quanti in Parlamento gli chiedevano come mai avesse chiesto l'assistenza di consulenti privati nella redazione del piano di utilizzo dei fondi Ue è stata da applausi: «Lo Stato non ha le competenze per fare da solo». E non si tratta solo di grillini. Quello di cui non ci capacitiamo è come mai se l'emergenza economica deriva da quella sanitaria abbiamo chiamato in soccorso dei fuoriclasse dei conti ma continuiamo a tenere in panchina i luminari della medicina, di cui l'Italia è ricca più che di banchieri. Confiniamo i luminari nei salotti tv e teniamo degli incompetenti al Comitato Scientifico e alla Salute, dove il ministro si pregia di fare riunioni operative senza il viceministro, che a differenza sua ha laurea e master in medicina.

Centomila morti di Covid. In un anno più vittime della campagna di Russia. Michele Bocci su La Repubblica l'8 marzo 2021. Dal primo decesso di Vo’ all’ultimo di Campomarino, un maresciallo di 55 anni. La catena senza fine dei lutti che in Italia ha colpito una famiglia ogni 250. Un lancio di agenzia nella notte: "Coronavirus: un contagiato in Lombardia". Si torna sempre lì, a quel 21 febbraio 2020, quando tutto ciò che ancora non sembra destinato a finire ha avuto inizio. Si può soltanto riannodare il filo perché purtroppo il punto di partenza è l'unica cosa certa. La conclusione non è ancora nota e probabilmente solo la vaccinazione di massa permetterà di scriverla. Ancora a gennaio dell'anno scorso il coronavirus era un problema distante, pareva uno dei tanti virus che spuntano in luoghi lontani come l'Asia o l'Africa e lì restano. Oggi ha invaso il mondo ed è responsabile di una malattia che da ieri ha provocato più di 100 mila morti nel nostro Paese. Tutti conoscono qualcuno che ha perso la vita per causa sua. Un parente stretto, un amico, l'amico di un amico. In Italia ha ucciso più della Campagna di Russia (95 mila vittime). È come se ci fosse stato un morto in una famiglia italiana ogni 250. O peggio: è come se fosse scomparsa una città grande quanto Ancona. È passato poco più di un anno, il paziente uno di Cologno, Mattia Maestri, ormai è un personaggio da interviste rievocative, mentre il primo morto, Adriano Trevisan, viene ricordato come un pensionato tranquillo di Vo' Euganeo che ha avuto la sfortuna di incontrare il suo destino, forse, durante una partita di carte al bar. Aveva 77 anni, cioè 4 in meno dell'età media dei morti nel nostro Paese. Abbiamo perso decine di migliaia di nonni, genitori, zii, fratelli, sorelle. E ne abbiamo persi di più rispetto a tanti altri Paesi, se si guarda al numero dei morti in rapporto alla popolazione. Nella prima ondata, fino a maggio, se ne sono andati in 34.314. Sembrava finita, l'estate aveva portato via le preoccupazioni e svuotato gli ospedali. E invece anche prima dell'arrivo del freddo il Covid è tornato. La curva dei contagi ha ricominciato a salire in fretta, da ottobre la malattia ha ucciso altre 64 mila persone. Come una guerra ma con gli anziani a fare i soldati. Non solo, dopo aver colpito soprattutto al Nord, con il tragico caso della Lombardia, il coronavirus dopo l'estate si è sparso in modo omogeneo in tutto il Paese. A nessuna regione ha risparmiato lutti, angoscia e dolore. Non è un caso che l'ultimo morto di ieri, il maresciallo dei carabinieri Arturo D'Amico, fosse il comandante della stazione di Campomarino, in provincia di Campobasso, cioè in Molise, una Regione praticamente non raggiunta dalla prima ondata e che oggi si trova in zona rossa. Non era anziano, aveva 55 anni. Se l'età media dei deceduti supera gli 81 anni, infatti, sono oltre 3mila i cinquantenni che hanno perso la vita per la malattia e oltre 9mila i sessantenni. Non avremmo mai pensato una cosa del genere, poco più di un anno fa. Lo ha detto anche il presidente del consiglio Mario Draghi, commentando i centomila morti. "Dobbiamo al rispetto della memoria dei tanti cittadini che hanno perso la vita il dovere del nostro impegno".

Centomila morti, le storie delle vite spezzate dal Covid. Maurizio Crosetti su La Repubblica l'8 marzo 2021. Medici, anziani, sacerdoti, volontari. Non erano solo un numero. Ne ricordiamo alcuni per ricordarli tutti. Questo numero rotondo e terribile, 100 mila, adesso li abbraccia tutti, ma loro non erano un numero: loro erano persone. Tante ne sono morte di Covid-19 in Italia in poco più di un anno, 100 mila uomini e donne e non solo anziani resi più fragili da altre malattie. Ne ricordiamo alcuni per ricordarli tutti: i medici, gli infermieri, i poveri ricoverati nelle Rsa, i farmacisti, i sacerdoti e le suore, i volontari, i poliziotti, la gente comune. La memoria torna alle province più colpite, a quelle bare sui camion dell’Esercito. La prima e la seconda ondata, poi la terza. L’illusione e la lenta battaglia dei vaccini, ma sempre con quel numero a crescere ogni giorno fino ad arrivare alla soglia terribile: 100 mila. Ma nessuno è andato perduto, e per tutti una carezza.

CORRADO LAMBERTI, Lenno. Corrado ha un pezzo di cielo che porta il suo nome. Si chiama 6206 Corradolamberti ed è un pianetino scoperto nel 1985 dall’astronomo americano Edward Bowell: l’Unione astronomica internazionale decise il battesimo nel 1999 per rendere omaggio all’astrofisico comasco e al suo lavoro di divulgatore. Corrado aveva 72 anni ed era stato uno dei principali collaboratori di Margherita Hack, sulla quale aveva anche scritto un libro. Era stato vicedirettore della rivista “L’Astronomia”. Quando gli parlavano di quel pianetino che porta il suo nome, Corrado diventava tutto rosso.

BRUNO ZANETTE, Conegliano. Bruno a Conegliano lo conoscevano proprio tutti perché era lo storico macellaio del paese, un’istituzione con il suo negozio sotto i portici per trent’anni, ora che lui di anni ne aveva 80. Quella vetrina vicino al ponte della Madonna era un punto di riferimento, un po’ come la moglie di Bruno, Maria Luisa, per tanto tempo catechista a Conegliano. Bruno era ricoverato a Casa Finzi, una Rsa dove il vecchio macellaio non è stato purtroppo l’unico a morire di coronavirus, travolto da quella prima ondata che ci eravamo illusi potesse essere l’unica. Già sembrava tremendo così, invece il peggio ci attendeva.

MICHAEL ANTONELLI, Rimini. Michael aveva combattuto per quasi 900 giorni come un leone, dall’istante della sua terribile caduta in bicicletta (era una stella nascente del ciclismo) nel corso della Firenze-Viareggio per dilettanti, quando picchiò la testa contro un albero, fino al contagio del Covid che è stato per lui il colpo di grazia. Michael, 21 anni, aveva superato in qualche modo l’incidente, il coma e gli interventi chirurgici, e aveva affrontato un lungo e difficilissimo percorso di riabilitazione. La strada era ancora lunga, però Michael riconosceva le persone e riusciva ad alimentarsi. Sembrava avercela fatta.

MIRKO BERTUCCIOLI, Pesaro. Mirko Bertuccioli, 46 anni, in arte Zagor: insieme al suo amico Vittorio Toto Ondadei aveva fondato i Camillas, gruppo piuttosto noto nel panorama della musica underground italiana. Mirko era anche proprietario di “Plastic”, negozio di dischi a Pesaro, la sua città. I Camillas avevano avuto un buon momento di popolarità televisiva a “Italia’s Got Talent”.

MARIANGELA CAMERA, Acqui Terme. Mariangela Camera gestiva l’enoteca Nuovo Ciabot ad Acqui Terme, insieme alle figlie Giorgia e Sara. Il locale era rimasto chiuso per un anno a causa del Covid, e quando ha riaperto si sono ammalate Mariangela e Sara, morte entrambe nello spazio di cinque giorni. Giorgia è rimasta sola. In tanti la stanno aiutando con una raccolta fondi sul web. 

ROBERTO STELLA, Varese. Roberto è stato il primo medico italiano a cadere, il primo di un esercito. Era il presidente dell’Ordine dei medici di Varese e il suo mestiere era il poliambulatorio. Dove vanno a curarsi le persone, e dove lui si è ammalato esattamente un anno fa, quando in corsia si combatteva il virus quasi a mani nude. Roberto Stella aveva 67 anni, e come migliaia di suoi colleghi non si è mai chiesto se fosse giusto rischiare: ha rischiato e basta, perché così si doveva combattere. Lui, e troppi come lui, sono però stati costretti a farlo senza protezione. Sacrifici umani che si dovevano evitare.

REANNA CASALINI, Romano Di Lombardia. Reanna era farmacista a Romano di Lombardia, nel Bergamasco, la provincia più colpita dal virus. Aiutava il marito Augusto Zaninelli, medico di base, tutti e due sempre a contatto con i pazienti ma Reanna doppiamente esposta, in farmacia e nell’ambulatorio di Augusto. La donna, che era originaria di Castelfranco Emilia (Modena) si occupava in particolare di farmaci veterinari e degli animali che il Covid aveva lasciato senza i loro amati padroni: le piangeva il cuore quando pensava che sarebbero finiti in una gabbia. Anche per questo non si è mai tirata indietro.

STEFANO FERRANDO, Alessandria. La civiltà del vino deve molto a Stefano Ferrando, non solo mirabile enotecnico ma prezioso divulgatore e agitatore culturale. Arrivava dalla gavetta e aveva studiato sodo, fino a diventare delegato dell’Ais, l’Associazione italiana sommelier. Si era battuto perché l’Ovada doc arrivasse a Vinitaly. Stefano, 65 anni, era stato anche un apprezzato capo scout.

PAOLO LAROTONDA, Ripolla. Paolo è morto nove giorni dopo il figlio Pino, 38 anni, vigile urbano a Rapolla (Potenza). Paolo Larotonda aveva 66 anni. Il figlio era stato contagiato durante un viaggio a Parma, dove si era recato per riportare a casa il corpo di suo fratello Marco, morto di fibrosi cistica a 26 anni. Una storia atroce. Pino si è sentito male subito dopo essere tornato a Rapolla, è stato ricoverato al San Carlo di Potenza ma non ce l’ha fatta. Paolo, il povero padre di questa terribile vicenda, a sua volta contagiato da Pino, ha dunque perso due giovani figli in una manciata di giorni. Come poteva sopravvivere?

MIRELLA FIORILLO, Roma. Mirella sognava l’India ed è morta realizzando quel sogno. Era l’ultima turista ricoverata a Gurgaon, nei pressi di New Delhi. Ex insegnante, era stata la prima moglie di Andrea Monorchio, economista e accademico, già Ragioniere generale dello Stato. Mirella era una delle quindici persone contagiate nel gruppo di cui faceva parte anche Andrea Carli, il medico di Codogno morto a Jaipur. Dopo avere contratto il Covid 19, Mirella Fiorillo si era negativizzata e a dispetto dei suoi 79 anni sembrava potercela fare. Purtroppo, però, l’infezione aveva provocato danni troppo gravi ai polmoni.

ROBERTO AMBROSOLI, Torino. Roberto aveva insegnato agraria per tutta la vita, ma viene ricordato per la sua attività di fumettista. In particolare, per avere inventato il personaggio di Anarchik, con la kappa al fondo del nome come Diabolik: un eroe un po’ pasticcione ma libero, così come era era un libertario il suo creatore, Roberto Ambrosoli, portato via dal Covid a Torino a 78 anni.

IVANO BORILE, Montevecchia. vano faceva il proiezionista: l’uomo che, prima del Covid, dava inizio alla magia dei film nella buia sala del cinema. Ivano Borile lo faceva a Vimercate, viveva a Montevecchia in Brianza e aveva solo 44 anni: eppure, all’inizio della pandemia, c’era chi diceva che ne morissero soltanto i vecchi. Ivano era anche chitarrista punk del gruppo Zed Negative.

LUIGI CASTAGNA, Milano. Luigi era un professore coltissimo e bizzarro. Insegnava Storia e letteratura latina alla Cattolica, dove ogni giorno negli anni belli arrivava rombando sulla sua motocicletta: quando scendeva di sella, gli amici gli dicevano: «Ecco il guerriero con il suo elmo». Per gioco dotto, uno di quelli che piacevano tanto anche a Umberto Eco, un giorno il professor Luigi Castagna, 75 anni, un’autorità nel suo campo, decise di tradurre in latino Let it be. Chissà se ai “fab four” di Liverpool sarebbe piaciuta questa clamorosa versione, non di Cicerone ma di Luigi. Si intitola Permitte fatis cetera. Un classico.

VINCENZA GULLI, Teramo. Vincenza aveva 79 anni e stava bene, finché non le è venuta la febbre con un po’ di tosse. Faceva la pensionata a Teramo. Sono passati quindici giorni prima che qualcuno la visitasse, poi il ricovero tardivo all’ospedale con il marito Francesco, infine la morte. Da quel giorno, grazie all’intervento del figlio di Vincenza, l’Asl esegue tamponi di massa.

MARIA TERESA COSTANTINO, Tortona. Maria Teresa era una delle Piccole suore missionarie della Carità al convento di Tortona, provincia di Alessandria. Contagiata insieme ad altre diciassette consorelle, è stata l’ultima di nove a morire. Maria Teresa Costantino e le sue povere sorelle che si chiamavano Maria Caterina, Maria Ortensia, Maria Filomena, Maria Ulisia, Maria Cristina, Maria Annetta, Maria José e Maria Assunta, tutte ricoverate all’ospedale di Tortona, il luogo dove morì Fausto Coppi. Maria Teresa e le altre, e con loro i sacerdoti, i diaconi e le suore uccisi dal Covid, quasi tutti anziani, tutti inermi.

DORIANA MARIANI, Veroli. Doriana è stata tra le ultime. La terza ondata del virus, o forse è solo la lunga coda della seconda, in otto giorni le ha sterminato la famiglia. Prima se n’è andato il padre, Alberto Mariani. Tre giorni dopo è toccato alla moglie Rita. L’ultima è stata Doriana, che aveva 56 anni e faceva l’operatrice scolastica alla scuola d’infanzia “Trevi”. La famiglia Mariani viveva a Veroli, in provincia di Frosinone: la spaventosa cifra dei 100 mila morti di Covid li ha travolti in un istante, lasciando macerie e ricordi, dolore e affetto, rimpianto e solitudine. Storie italiane della vita di prima e della vita perduta.

ADRIANO TREVISAN, Vo' Euganeo. Adriano è stato il primo. Aveva 77 anni, era in pensione e giocava a carte. Adriano Trevisan da Vo’ Euganeo: chi aveva mai sentito quel nome? In quale geografia? Adriano “batteva il fante” al Mio Bar e alla Locanda al Sole. È morto il 21 febbraio 2020, un venerdì. Adriano era in ospedale da dieci giorni. Con lui si è fermato il mondo, e la nostra vita di prima.

STEFANO CAPODIVENTO, Como. Stefano, 78 anni, è tra i molti caduti delle Rsa: unica colpa, essere anziano. Si trovava nella casa di cura di Casasco Intelvi, e per una vita era stato usciere alle Poste di Como. Poi si era ammalato di diabete: la pensione, l’invalidità, il tempo che passa. Quando il giudice tutelare ha disposto il ricovero di Stefano all’ospedale, era troppo tardi. La morte è arrivata in un giorno.

FAUSTO BENVENUTI, Cervia. Fausto aveva inventato il “bananone”. Che idea geniale: agganciare al motoscafo un gommone a forma di banana, e farci divertire tra le onde come pazzi. Era sucesso a Cervia e quella genialata gliel’avevano copiata tutti. Ma Fausto era stato il primo, in fondo l’unico. Il Covid se l’è preso a 71 anni. Non aveva perso l’allegria e la voglia di giocare. Non aveva perso il mare.

ROBERTO BONETTO, San Salvatore Monferrato. Roberto faceva il mobiliere a San Salvatore Monferrato, nell’Alessandrino. Aveva 50 anni. Sul suo manifesto funebre è comparso un hashtag: #iotornoacasa. Erano le istruzioni per seguire le esequie strada per strada, dalla chiesa dei santi Martino e Siro fino al tempio crematorio nel cimitero di Valenza Po. A distanza, ma vicinissimi tutti.

ANDREA FARIOLI, Bologna. Andrea aveva solo 38 anni ed era un ricercatore stimato, aveva lavorato anche ad Harvard ma poi era tornato in Italia: gli sembrava giusto dare il proprio contributo qui. Faceva l’epidemiologo a Bologna, dunque il virus era il suo mestiere. Non staccava mai, i colleghi lo vedevano stanco ma lui insisteva, ce la faccio, tranquilli, questa tempesta finirà.

MANUELA SCODES, Napoli. Manuela aveva solo 42 anni, e il virus se l’è presa in una manciata di giorni. Per due decenni aveva fatto la poliziotta nella questura di Napoli, e la mamma di Diego (8 anni) e dei gemellini Christian e Gioele (4 anni), oltre che la moglie di Alberto. Era una donna solare. Per lei, essere poliziotta significava mettersi al servizio della comunità. Una vita per gli altri.

MAURIZIO BERTACCINI, Rimini. Maurizio era un medico ed era un diacono, aveva 1.600 pazienti e 10 figli: 6 naturali, 2 adottivi e 2 in affido. Faceva il dottore e il pastore a Coriano, nel Riminese, e seguiva 600 persone a San Patrignano. Aveva 67 anni. Probabile che il virus lo abbia contratto curando una comunità di religiose, alcune delle quali positive. La figlia maggiore di Maurizio è suora, e lui era per tutti.

PAOLA DE MASI, Napoli. Paola era anestesista al Cardarelli di Napoli e aveva 60 anni, tredici in meno del marito Cosimo Russo che nello stesso ospedale era ortopedico. Sempre insieme, al lavoro e a casa, da una vita. Se n’è andato prima lui, e la moglie non lo ha mai saputo: era già in terapia intensiva, lì dove aveva sempre lavorato. Il Covid ha ucciso Paola sei giorni dopo Cosimo.

TERESA FILIPPINI, Brescia. La Terry era la mamma dei gemelli Filippini, i calciatori. Sempre insieme, quei due, anche con la stessa maglia, e lei con loro. Teresa era l’anima del quartiere bresciano di Urago Mella, ed era stata famosa per qualche tempo nel programma Quelli che il calcio, con Fazio e la Ventura. Aveva 74 anni ma era rimasta una magnifica ragazzina. La morta l’ha colta viva.

Da tg24.sky.it il 6 marzo 2021. Nel 2020 il totale dei decessi per il complesso delle cause è stato il più alto mai registrato nel nostro Paese dal secondo Dopoguerra: 746.146, ovvero 100.526 in più rispetto alla media 2015-2019 (15,6% di eccesso). Lo rileva il Report Istat-Iss sull'impatto del Covid-19 sulla mortalità totale della popolazione residente. È stato quindi molto forte l’impatto della pandemia di Coronavirus: dall'inizio dell'epidemia e fino al 31 dicembre 2020 il contributo dei decessi dovuti al virus sulla mortalità per il complesso delle cause è stato, a livello medio nazionale, del 10,2%. Volendo stimare l'impatto dell'epidemia Covid-19 sulla mortalità totale, tra marzo e dicembre 2020 si sono osservati 108.178 decessi in più rispetto alla media dello stesso periodo degli anni 2015-2019 (21% di eccesso). "In tale valutazione - sottolinea lo studio - occorre tener conto che nei mesi di gennaio e febbraio 2020 i decessi per il complesso delle cause sono stati inferiori di circa 7.600 unità a quelli della media dello stesso bimestre del 2015-2019 e che i primi decessi di persone positive al Covid-19 risalgono all'ultima settimana di febbraio". Secondo quanto riportato da Iss-Istat, a partire dalla metà di ottobre 2020 "diventano via via più evidenti gli effetti della seconda ondata dell'epidemia Covid-19 sulla mortalità totale". Considerando i decessi per il complesso delle cause, durante il periodo ottobre-dicembre 2020 si sono contati 213mila morti, 52mila in più rispetto alla media dello stesso periodo di ciascuno degli anni a partire dal 2015 al 2019. Secondo quanto conferma il report, guardando alle classi di età, il contributo più rilevante all’eccesso dei decessi dell’anno 2020, rispetto alla media degli anni 2015-2019, è dovuto all’incremento delle morti della popolazione con 80 o più anni, che spiega il 76,3% dell’eccesso di mortalità complessivo. In totale sono decedute 486.255 persone di 80 anni e oltre (76.708 in più rispetto al quinquennio precedente). L’incremento della mortalità nella classe di età 65-79 anni spiega un altro 20% dell’eccesso di decessi; in termini assoluti l’incremento per questa classe di età, rispetto al dato medio degli anni 2015-2019, è di oltre 20mila decessi (per un totale di 184.708 morti nel 2020). Per quanto riguarda le variazioni a livello geografico, il bilancio della prima fase dell'epidemia, in termini di eccesso di decessi, è particolarmente pesante per la Lombardia (+111,8%); per tutte le altre regioni del Nord l'incremento dei morti del periodo marzo-maggio 2020 è compreso tra il 42% e il 47%; solamente il Veneto e il Friuli Venezia Giulia hanno un eccesso di decessi più contenuto (+19,4% e +9,0%). Al Centro si evidenzia il caso Marche (+27,7%), regione che si distingue rispetto all'incremento medio (+8,1%).

I dati regionali dopo la seconda ondata. Diverso l'andamento della mortalità nella seconda ondata. In alcune regioni l'eccesso di mortalità dell'ultimo trimestre del 2020 supera quello della prima ondata Covid (marzo-maggio 2020): in Valle d'Aosta (+63,7% rispetto al +42,6% di marzo-maggio), in Piemonte (+53% rispetto al +47,5%), in Veneto (+44,4% rispetto al 19,4%), in FVG (+45,6% a fronte del +9,0%), nella PA di Trento (65,4% vs 53,1%). Al contrario, l'eccesso di mortalità ottobre-dicembre sulla media dello stesso periodo per 2015-2019, è più basso di quello della prima ondata in Lombardia (+37,1% contro al +111,8%), E-R (+25,4% sul +43,6%), Liguria (+33,9 contro +42,2%) e nella PA Bolzano (+39,1% rispetto a +45,4%).

Daniele Abbiati per “il Giornale” il 19 febbraio 2021. Si sono messi lì con la calcolatrice, una dose da cavallo di pazienza e una montagna di dati. Hanno sommato, moltiplicato e diviso. L'unica operazione che non hanno potuto fare è quella più difficile, anzi impossibile, in casi come questi, perché si parla di morti. Al Center for Research in Health and Economics della Pompeu Fabra University di Barcellona, si sono chiesti: «Ma questo maledetto Covid-19, quanta vita ci ha già portato via?». Per rispondere hanno dovuto prima rivolgersi a un bel pezzo di mondo, a 81 nazioni, raccogliendo (e «fotografando» in un giorno, un'ora, un minuto preciso, perché il virus non si comporta come una povera cavia che gira in tondo nella sua gabbietta e ne puoi fare ciò che vuoi) il numero delle loro vittime, con le relative età. Poi hanno applicato a tali numeri un «modello» che grossomodo si chiama «delle aspettative di vita», cioè quanto, presumibilmente, stando in quel posto, con il tipo di esistenza che conducevano e via elencando, mancava alle vittime da vivere. Infine hanno tirato una riga ed è venuto fuori che, mediamente, ogni assassinato dal virus ha perso 16 anni. E che il pianeta Terra, limitatamente agli umani, è stato defraudato (ma fra un giorno, un'ora e un minuto saranno di più) di 20,5 milioni di anni. Se consideriamo che 25 milioni di anni fa vivevano in Africa le prime scimmie antropomorfe, cioè le scimmie decisamente meno scimmie delle altre, quelle che si apprestavano a diventare uomini, e infatti vengono chiamate Hominoidea (lo scriveva lo Scientific American nel 2013), più che senza parole, restiamo senza tempo da perdere, nel darci dentro notte e giorno con i vaccini, invece di perderci in chiacchiere o in litigi da scimmie isteriche. Il segno «meno» davanti al 16. Sedici anni, l'età più bella: non sei ancora uomo né donna (ma non più scimmia, almeno) e già pregusti di esserlo. Hai dato soltanto qualche morso alla vita e ti è piaciuta subito, te ne sei innamorato prima che della compagna di classe che ti sembrava più carina delle altre. Per te il passato era soltanto quello di verdura che invece non ti piaceva, e il futuro era a portata di mano, dietro ogni angolo, non una proiezione come quelle della trigonometria che, da liceale, ti facevano dannare. Non avevi ancora la patente, ma ti sentivi potente, invincibile, mentre immortale sapevi già di non essere, perché qualcosa di molto brutto ti aveva tolto qualcosa di molto bello, per esempio i nonni. Sedici anni con il segno «meno» davanti, come quelli che ci ha comunicato il Center for Research in Health and Economics della Pompeu Fabra University di Barcellona, sono una contraddizione in termini. È come dire che l'umanità, secondo molti oggi vicina più che mai alla fase conclusiva della sua senilità, non è stata giovane, non ha mai avuto la fretta di non aspettare. Sono i sedici anni da aggiungere idealmente su tutti i certificati di morte delle vittime del virus. E poi dicono che la statistica è una scienza.

La pandemia abbassa l'aspettativa di vita: un anno in meno negli Usa, ancora peggio in Italia. Le Iene News il 19 febbraio 2021. Un report del governo federale degli Stati Uniti mostra come l’aspettativa di vita nel paese sia diminuita nel 2020 di un anno. Più colpite le minoranze etniche, con la comunità afroamericana che perde in media 2.7 anni di vita. In Italia la situazione è ancora peggiore: il premier Draghi, nel discorso al Senato, ha parlato di una diminuzione compresa tra 1.5 e 2 anni. Il coronavirus non solo si è portato via milioni di persone nel mondo, ma anche abbassato l’aspettativa di vita media di tutta la popolazione. Un dramma che, almeno per la parte occidentale e benestante del pianeta, non si vedeva dal tempo delle guerre mondiali della prima metà del Novecento. Da inizio pandemia sono oltre 2.4 milioni le persone che sono direttamente morte a causa del coronavirus. Ma la pandemia, come sappiamo, ha messo sotto incredibile stress l’intero sistema sanitario, tra personale contagiato e letti in terapia intensiva quasi introvabili. E così il normale livello di assistenza per la popolazione non è più stato garantito, gli screening sono stati fatti in ritardo, le cure sono diventate più difficili da avere. Così l’aspettativa di vita è calata. Un report recentemente pubblicato dal governo degli Stati Uniti mostra come l’aspettativa di vita di un cittadino americano nel 2020 sia diminuita di un intero anno. Ci sono però delle evidenti differenze nell’impatto della pandemia tra comunità: quella afroamericana ha pagato il prezzo più alto, con una diminuzione di 2.7 anni nell’aspettativa di vita. Un fenomeno che purtroppo riguarda anche l’Italia. Pur in assenza dei dati precisi sui decessi del 2020, non ancora diffusi dall’Istat, c’è chi negli scorsi mesi aveva provato a prevedere quanto potesse scendere l’aspettativa di vita nel nostro paese. Stefano Mazzuco su Scienzainrete ha analizzato lo scorso dicembre i dati consolidati dei decessi nella prima ondata e - immaginando un simile andamento anche nella seconda - ha previsto una diminuzione dell’aspettativa di vita di 1 anno e mezzo: un evento che non si verifica dalla seconda guerra mondiale. Anche nel caso dell’Italia - pur ricordando che parliamo di proiezioni e non di dati consolidati come negli Stati Uniti - c’è una differenza, che però è su base regionale e non etnica. Le città e le province più colpite nella prima ondata registrano infatti diminuzioni previste spaventose: a Cremona l’aspettativa di vita nel 2018 era 81,06 anni, nel 2020 di 75,58 anni. E così Bergamo, che nel 2018 registrava un’aspettativa di vita di 81,17 anni e nel 2020 di 76,66 anni. Sul terzo gradino di questo terribile podio si piazza Lodi, che nel 2018 aveva un’aspettativa di vita di 80,67 anni e nel 2020 di 77,07 anni. Cifre spaventose che sono state purtroppo confermate anche dal neo presidente del Consiglio Mario Draghi nel suo discorso al Senato: “L’aspettativa di vita a causa della pandemia è diminuita, fino a 4 o 5 anni nelle zone di maggior contagio, 1 anno e mezzo o 2 per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava dai tempi delle guerre mondiali”. E’ prevedibile che, quando la pandemia sarà finita, una buona parte di questa diminuzione sarà riassorbita naturalmente. Intanto però il coronavirus continua a portarsi via centinaia di vite ogni giorno: sconfiggere la pandemia è il primo e fondamentale passo per tornare a sperare in un futuro migliore.

Coronavirus, meno risorse, più morti: così la spesa sanitaria pesa sul bilancio della pandemia. In Italia ha svolto un ruolo cruciale la qualità delle amministrazioni e delle strutture: dopo Grecia e Bulgaria, il nostro ha l’incidenza di morti da Covid più alta con 3,5 decessi ogni cento casi diagnosticati. Federico Fubini su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2021. È la domanda che ci insegue dall’inizio di questo incubo, sempre la stessa: perché l’Italia ha tanti morti? Perché fra i grandi Paesi è seconda al mondo dopo il Regno Unito per il numero di decessi da Covid-19, in proporzione alla popolazione? Una risposta completa probabilmente dovrà attendere anni. Ma ora che il numero delle vittime ufficiali della pandemia si avvicina a centomila nel Paese e a due milioni e mezzo nel mondo, si può tentare qualcosa in più per capire. Si può vedere per esempio se i diversi livelli di spesa sanitaria da un Paese all’altro cambiano le probabilità di sopravvivere al virus. La risposta, naturalmente, è sì: cambiano molto. Più la spesa sanitaria pubblica e privata per abitante era alta all’ingresso nella pandemia — misurata dalla Banca mondiale — più è stato probabile che le persone contagiate riuscissero a salvarsi. E viceversa: più è basso o è stata tagliato l’investimento in ospedali, medici, dispositivi, più frequenti sono stati i decessi da Covid. Il Corriere ha selezionato un gruppo di una trentina di Paesi con caratteristiche il più omogenee possibile: devono essere considerati «pienamente liberi» nell’indice di Freedom House (è meno probabile che manipolino i dati) e avere un minimo di equilibrio tra sanità privata e sistemi universali. In sostanza il confronto è fra Unione europea (meno l’Ungheria, non abbastanza democratica), Gran Bretagna, Israele, Canada, Svizzera, Norvegia e Islanda; gli Usa restano fuori, perché il loro sistema è troppo sbilanciato a favore di chi può pagarsi le cure.

Salta all’occhio un primo risultato dell’Italia: dopo Grecia e Bulgaria, ha l’incidenza di morti da Covid più alta con 3,5 decessi ogni cento casi diagnosticati. Ma Grecia e Bulgaria presentano la spesa sanitaria in assoluto più bassa in questa trentina di Paesi. Non può essere un caso. La correlazione fra livello dell’investimento in sanità e chance di sopravvivenza a Covid è evidente quasi ovunque nel grafico qui sopra. In Italia (a 2.989 dollari per abitante nel 2018) i bilanci per cure mediche o ospedaliere sono relativamente bassi o persino una frazione rispetto a Francia (4.690 dollari), Germania (5.472 dollari) o Danimarca e Lussemburgo (circa 6.220 dollari). E in questi ultimi due Paesi è morto solo un contagiato di Covid ogni cento, in Germania e Francia due e mezzo ogni cento, mentre appunto Paesi con minori risorse per la sanità sfiorano o superano il 3% dei decessi. Si può sospettare che il denaro non sia il fattore essenziale. Dal governo uscente per esempio si è sempre detto che l’Italia ha una popolazione fra le più anziane (oltre i 44 anni di età media) e ciò può aver accentuato la letalità di Covid. Ma anche quando si ricontrollano i dati al netto dell’anzianità degli abitanti, l’impatto dei bilanci sanitari sulla frequenza delle morti resta evidente. Come documentato da Milena Gabanelli e Simona Ravizza sul Corriere, i tagli degli ultimi dieci o quindici nelle specializzazioni e nella medicina territoriale sono dunque costati carissimi. Il bilancio di quei tagli oggi è tragico. Ma non conta solo quanto si spende. Conta anche il come. Le diverse regioni italiane per esempio hanno più o meno le stesse disponibilità finanziarie per abitante e sistemi sanitari retti da principi simili, ma livelli di letalità da Covid molto diversi. Non è anomalo che regioni dove il contagio si è diffuso di più nella popolazione — Val d’Aosta, Lombardia o Emilia-Romagna — abbiano anche l’incidenza più alta di decessi. Lì gli ospedali sono stati travolti. Ma l’effetto non è stato uguale ovunque. Come mostra il grafico sopra, a parità di risorse alcuni territori sembrano aver reagito più ordinatamente. Il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia per esempio hanno misurato una pervasività del virus più alta rispetto alla Lombardia, ma una letalità molto più bassa. Lo stesso accade alla provincia di Bolzano rispetto a quella di Trento, mentre il Lazio se la cava nettamente meglio della Toscana. Osserva Luigi Guiso dell’Istituto Einaudi, uno dei massimi studiosi al mondo dell’interazione fra istituzioni, sistemi politici e effetti sociali: «L’impatto della spesa sui risultati è visibile. Ma anche qualità delle amministrazioni e delle strutture si sono rivelate determinanti». Tutto questo torna a porre inevitabilmente la domanda che negli ultimi mesi ha accompagnato, e diviso, la maggioranza giallo-rossa del governo ora ai suoi giorni finali: l’Italia deve attivare il prestito sanitario del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), fino a 36 miliardi di euro? La correlazione fra minore spesa sanitaria e incidenza maggiore di decessi da Covid non lascia dubbi sul fatto che de-finanziare ospedali, tecnologie mediche, assistenza territoriale e specializzazioni da un momento all’altro può rivelarsi molto pericoloso. Ma una fiammata di molti miliardi in pochi mesi rischia di risolvere poco. Ad aver pesato per la carenza di medici in Italia in questi mesi sono state scelte sul taglio delle specializzazioni di sette o otto anni fa, per esempio. Serve dunque uno sforzo graduale ma metodico di ricostruzione dei sistemi. E il crollo del costo del debito rende possibile farlo, con poca differenza, attivando il Mes (almeno in parte) o anche di propria iniziativa da parte dei prossimi governi.

L’altra faccia dell’emergenza coronavirus. Mauro Indelicato, Sofia Dinolfo su Inside Over il 15 febbraio 2021. Posti letto in esaurimento, interi reparti al collasso, medici sotto pressione: non stiamo parlando dei Covid hospital bensì delle urgenze scatenate dagli effetti indiretti del coronavirus. Ansia, depressione, ma anche malattie cardiovascolari costituiscono l’altro aspetto dell’attuale emergenza sanitaria e gli specialisti del settore lanciano l’allarme.

Un allarme continuo. Le immagini che ci mostrano gli ospedali al collasso a causa dell’alto numero di ricoverati Covid ci fanno “compagnia” da un anno e ad esse non ci si può e non ci si deve mai abituare. Vedere come il Sars-CoV-2 abbia devastato la vita di molte persone segna profondamente e mette tutti in allerta circa la pericolosità di un virus che si nasconde dietro l’angolo, pronto a colpire nel momento in cui si abbassa la guardia. Un pericolo silente che agisce quanto meno lo si aspetti e che sta provocando anche degli “effetti collaterali”. Cresce infatti da parte degli specialisti l’allarme su una popolazione affetta da ansia e depressione come causa del cambiamento dello stile di vita. Le continue misure restrittive imposte per evitare il diffondersi del virus stanno mettendo a dura prova la psiche con effetti che, a lungo termine, potrebbero divenire sempre più gravi. A soffrire in particolar modo sarebbero proprio i giovani. Ma la vita trascorsa dentro le mura di casa sta comportando anche delle conseguenze gravi sotto il profilo cardiovascolare. Anche in quest’ultimo caso i medici lanciano l’allarme e dispensano utili consigli.

Crescono i casi di trombosi. La trombosi è una delle conseguenze determinate dal Covid ma colpisce sempre più persone anche se non sono state contagiate. Com’è possibile che ciò avvenga? A questa domanda risponde su InsideOver Giovanni Alongi, angiologo e cardiologo ed esperto di patologie venose: “La sedentarietà – dichiara il dottor Alongi- rappresenta uno dei principali fattori di rischio di trombosi. Purtroppo le zone rosse e le limitazioni che ci troviamo ad affrontare hanno portato ad un aumento esponenziale dell’inattività fisica. Se questo importante fattore di rischio si va ad affiancare ad altri quali l’obesità, il fumo e la presenza di insufficienza venosa cronica, il rischio di trombosi è concreto. Nella mia pratica clinica quotidiana- prosegue lo specialista- noto ormai da mesi un notevole aumento delle trombosi venose legate a questa problematica”. Il cambiamento delle abitudini quotidiane, l’impossibilità di poter uscire a causa delle restrizioni previste dai decreti oppure la paura di stare all’aria aperta, laddove consentito, per evitare di incontrare potenziali persone affette dal Covid, sta causando delle patologie che non possono essere assolutamente sottovalutate. La situazione al momento non lascia intravedere uno spiraglio di luce nel breve termine per cui le persone soggette a trombosi devono seguire degli specifici accorgimenti: “Il consiglio- afferma il dottor Giovanni Alongi – è quello di praticare un’attività fisica moderata anche in casa, almeno 30 minuti, e di utilizzare, per i soggetti ad alto rischio, delle calze elastiche preventive durante la giornata. La prevenzione è la migliore strategia”.

In aumento i sintomi di depressione tra i giovani. “I pronto soccorso sono intasati, abbiamo visto un aumento del 30% dei casi e molti di loro sono giovanissimi”: queste parole, pronunciate nel corso di un’intervista su Repubblica, nei giorni scorsi hanno destato molta impressione. Non sono state frasi di un dirigente di un reparto Covid, bensì del responsabile di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, Stefano Vicari. Quanto da lui dichiarato, conferma un’impressione consolidata già da diversi mesi. E cioè che il prolungarsi dell’emergenza coronavirus sta incidendo e non poco sulla psiche dei più giovani. Uno studio condotto dall’Università di Torino ad agosto ha sottolineato la delicatezza della situazione. A condurre la ricerca, pubblicata sul The Canadian Journal of Psychiatry, è stato il team “ReMind the Body” coordinato dal Prof. Lorys Castelli del Dipartimento di psicologia dell’università torinese. I dati non hanno lasciato spazio a dubbi: il 69% delle persone intervistate dai ricercatori, interpellate a campione da varie parti d’Italia, ha presentato sintomi di ansia legata alle misure restrittive anti contagio. Molti di loro sono giovanissimi. Non solo: nel 31% dei casi, oltre all’ansia sono stati riscontrati veri e propri sintomi di depressione clinicamente rilevanti. Nelle situazioni più gravi, rintracciate in buon 20% del campione preso in esame, sono emersi anche disturbi post traumatici: “Come evidenzia la letteratura scientifica – si legge nello studio – Questi sintomi tendono ad aggravarsi nel tempo e possono sfociare in veri e propri disturbi da stress post-traumatico”.

“Troppi interventi per Tso”. Non solo gli studi, ma anche quanto riscontrato ogni giorno nei Pronto Soccorso dà una chiara idea di quanto sta accadendo. Vale per le grandi città, come dimostrato dalle dichiarazioni del primario del Bambino Gesù di Roma, ma anche per le piccole realtà di provincia: “Soprattutto da maggio – spiega ad InsideOver un operatore del 118 impegnato ad Agrigento – Gli interventi per il Tso stanno subendo un drastico aumento”. E questo è vero soprattutto per i più giovani: “Sono rimasto impressionato quando un giorno tutte le nostre ambulanze – prosegue l’operatore – erano fuori per casi di Tso”. Tra chi è dovuto ricorrere a trattamenti del genere, non solo soggetti con situazioni già difficili prima del Covid, ma anche ragazzi “insospettabili” apparentemente senza problemi. Per i più giovani la mancanza di una normale vita sociale sta avendo un impatto forse sottovalutato all’inizio dell’emergenza coronavirus. L’impossibilità di trascorrere in compagnia le giornate, sta avendo il sopravvento sulla psiche. Da qui un paradosso di cui dover tenere conto nelle prossime settimane: se si è costretti a dirottare uomini e mezzi nel soccorso di persone con gravi patologie mentali, gli sforzi e i sacrifici fatti per arginare i danni dell’epidemia sul sistema sanitario potrebbero risultare vani. L’aumento di ricoveri per via di sintomi depressivi o per Tso, si sta posizionando sempre più al centro delle preoccupazioni di primari e dirigenti ospedalieri.

La morte per Covid raccontata in un report. Elena Fontanella il 29 gennaio 2021 su Il Giornale. I numeri non mentono mai, soprattutto se si tratta della conta di quanti non sono più con noi a causa di questo maledetto Covid. E oggi i numeri dei morti sono una sferzata di realtà violenta a tal punto da far stupire quanto riesca a passare sottotono nello stillicidio anestetizzato dei bollettini giornalieri che ci lasciano orwellianamente insensibili. In questi tempi di Covid la nostra “Antologia di Spoon River” è uno scarno e tecnico report statistico (aggiornato al 17/1/21) pubblicato in gennaio dall’Istituto Superiore di Sanità che descrive le caratteristiche dei 63.573 pazienti deceduti per Covid in Italia. Tra le righe, quel numero accenna a uno stravolgimento sociale ancora non raccontato che oltre ad aver diminuito le aspettative di vita di 10 anni, in alcune regioni ha toccato 4 persone su 10 e coinvolto chissà quante famiglie con dolori difficili da rimarginare. La battaglia contro il virus che oggi vede in prima linea la generazione, quella degli over 70 (dei Beatles, dei Rolling Stones, delle battaglie sociali) nasconde un problema sociale ben  più rilevante che oltre a determinare un numero importante di  bambini che non verranno concepiti e di adolescenti che si dovranno confrontare con una cultura della socializzazione e dell’istruzione disastrata colpirà principalmente quelli che oggi sono bambini che subiranno le conseguenze indirette più devastanti in termini sociali ed economici: la Lost Generation come viene chiamata da un recente studio dell’Unicef. Oltre alle tante possibilità di lettura sociologica la tabella dell’Istituto Superiore di Sanità offre riferimenti a cui potersi collegare per una rilettura di un anno appena passato e per gli approcci futuri costituendo la matassa su cui si avvolgerà il filo di questa pandemia. È risaputo che il contributo più alto in vite è stato dato dalla generazione tra i 75 e gli 80 anni che costituiscono la media delle perdite di cui il 94% morta per insufficienza respiratoria. la Lombardia ha pagato il debito più alto con 4 morti per Covid ogni 10 persone (37,9%), circa 1 ogni 10 in milia Romagna (10,6%), in Piemonte (8,7%) e in Veneto (8%). Le altre regioni seguono con un netto distacco questa macabra statistica a testimoniare quanto diversa possa essere la percezione del pericolo sul territorio italiano quando più si diluisce non il contatto diretto con la mortalità che nella maggior parte delle regioni italiana si attesa su percentuali che possono risultare invisibili (al fondo dell’elenco Calabria, Basilicata e Molise con lo 0,3% di decessi). Il dato che maggiormente stupisce considerata la presenza di una forte comunità in Lombardia è quello della Calabria (0,8%) che rende merito alle azioni della governatrice Iole Santelli. Il primo impatto offerto dai dati porta a riflettere su come l’Italia non sia stata in grado di controllare l’epidemia nel periodo estivo quando, con il virus ‘in letargo’, si è diffusa una pericolosa euforia da ‘liberi tutti’. Non a caso, rispetto ai numeri di marzo-maggio (circa 34 mila decessi, scesi tra giugno e settembre a circa 27 mila), la seconda ondata ha duplicato i decessi superando i 63 mila morti tra ottobre e dicembre, malgrado la maggior conoscenza del virus e l’uso di farmaci più appropriati. Comunque la si voglia ritenere queste perdite umane restano segni indelebili che ci raccontano una storia da non dimenticare che ci deve portare ad una maggior consapevolezza nei confronti di un virus mutevole con cui dobbiamo ancora imparare a convivere.

Giusy Franzese per "Il Messaggero" il 24 gennaio 2021. Ospedali pieni, reparti congestionati dai malati Covid, medici e infermieri stremati dai turni infiniti per far fronte all'emergenza. E visite, analisi, accertamenti e operazioni programmate nel periodo da marzo a dicembre 2020 rinviate a date da definire, spesso annullate senza poter stabilire un'altra data certa. La pandemia da Covid ha significato anche questo per moltissimi malati di altre patologie. E quando diciamo moltissimi, intendiamo proprio una massa enorme: ben 32,8 milioni di persone, in pratica la metà della popolazione italiana. Di questi il 73% (ovvero 23,9 milioni) si è visto rinviare una o più volte l'appuntamento programmato presso la struttura sanitaria pubblica, e il 34,3% (cioè la bellezza di 11,3 milioni di cittadini) ha visto annullare tutto e basta.

LE RINUNCE. Tre le alternative: rimettersi in fila nelle lunghe liste d'attesa, rinunciare nell'auspicio che presto arrivino tempi meno complicati, oppure rivolgersi a una struttura sanitaria privata. Tre milioni di persone ha scelto la seconda strada, anche per il timore di essere contagiati dal Covid. Una scelta il cui costo, in termini di peggioramento della patologia e aumento della mortalità, sarà evidente solo nei prossimi anni. O magari no, qualche conto possiamo iniziare a farlo già ora: non sono pochi infatti gli esperti che spiegano la differenza statistica tra i decessi accertati causa Covid e l'aumento delle morti rispetto agli anni passati attribuendola alla volontà di molti malati di evitare a tutti i costi gli ospedali per paura del contagio. Il terzo plotone riguarda i cittadini che non se la sono sentita di rinunciare del tutto, hanno quindi cambiato destinazione e si sono rivolti a cliniche, studi e laboratori privati: ben sette milioni di persone. Era troppa l'ansia per quel dolore che non passava con i farmaci prescritti dal medico di famiglia, enorme la preoccupazione di avere qualche malattia seria che se diagnostica in ritardo avrebbe potuto rivelarsi irreversibile. Una parte ha approfittato delle copertura, magari parziale, delle assicurazioni sanitarie.

SENZA POLIZZA. Ma la stragrande maggioranza, il 76,6% non ha potuto, semplicemente perché una polizza non ce l'ha. E allora c'è stato davvero poco da fare: qualcuno per pagare la visita o l'accertamento diagnostico ha attinto ai risparmi, qualcun altro ha chiesto un prestito a familiari, amici, finanziare, banche. Secondo un'indagine di MUp Research e Norstat commissionata da Facile.it e Prestiti.it, tra marzo e dicembre 2020 ben due milioni e duecentomila persone - età media 46 anni, 61% uomini, 39% donne - è ricorsa a un prestito per cure mediche. Indebitandosi per una media di oltre seimila euro, con rate mensili anche fino al 2025. E vai a sentire gli appelli in tv a non farsi prendere dalle paure, a non abbandonare i controlli periodici, a non trascurare segnali di sofferenza che ci manda il nostro corpo perché non si muore solo di Covid e le altre malattie non sono andate in vacanza. Il 61,1% dei pazienti cardiologici ed il 47,2% di quelli oncologici hanno ricevuto dalle strutture sanitarie pubbliche avvisi di visite e controlli rinviati o addirittura annullati. E non parliamo di rinvii di poche settimane ma di mesi, oltre due (63 giorni) per i malati di tumore, che in quei casi può sembrare un'eternità; due mesi e mezzo (72 giorni) per i reparti di cardiologia, un intero trimestre per la ginecologia. Il primato dei disservizi va ai reparti di gastroenterologia e urologia, rispettivamente con l'81,2% e il 75% di pazienti che hanno subito ritardi o annullamenti su visite, esami od operazioni già programmate. Nel 68% dei casi l'appuntamento è stato rimandato sine die.

Studio shock: oltre un milione di morti in più a causa degli effetti collaterali del Covid. Federico Cenci su Il Quotidiano del Sud il 27 gennaio 2021. Parallela a quella causata dal Covid-19, è in agguato una strage surrettizia. Le sue vittime non moriranno tutte in un reparto di terapia intensiva, con i polmoni arsi dal virus, ma per chissà quali altre malattie che potrebbero insorgere a causa degli effetti collaterali della pandemia. È un disperato campanello d’allarme quello lanciato dagli esperti della Duke University, della Harvard Medical School e della John Hopkins University, autori di un documento a proposito dell’impatto a lungo termine che la disoccupazione dovuta al Covid avrà sulla mortalità.

Un numero «sbalorditivo». Lo studio rileva che le perdite di vite umane negli Stati Uniti per causa indiretta del virus «potrebbero superare di gran lunga quelle immediatamente correlate alla malattia acuta di Covid-19». Secondo gli esperti, «la recessione causata dalla pandemia può mettere a repentaglio la salute della popolazione per i prossimi due decenni». In particolare tra marzo e aprile il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è balzato da quasi il più basso negli ultimi 50 anni a essere il più alto dall’inizio dell’attuale sistema di misurazione del 1948. E oggi, sebbene si sia registrata una ripresa, il dato dei senza lavoro resta preoccupante. Gli autori si sono messi a studiare come nella storia recente la disoccupazione abbia inciso sulla mortalità delle popolazioni. Ebbene, sulla base delle dinamiche e dei parametri che hanno scoperto, sono giunti a prevedere che nei prossimi 20 anni, moriranno 1,37milioni di persone in più di quante ne sarebbero decedute senza lo choc della disoccupazione dovuto alla pandemia. Numero che gli stessi ricercatori definiscono «sbalorditivo».

Più vittime tra gli afroamericani. Essi hanno altresì scoperto che il picco di decessi riguarderà «in modo sproporzionato gli afroamericani». L’aumento delle morti ogni 100mila persone nei prossimi 20 anni, secondo la ricerca, sarebbe di 32,6 per gli afroamericani e di 24,6 per gli americani bianchi. In totale, dovremmo attenderci circa un 3,2% di morti in più in tutti gli Stati Uniti. Occorre allora restringere le misure anti-Covid per alleviare tali effetti collaterali? Gli autori dello studio precisano di non voler suggerire ai responsabili politici questa strada, piuttosto invitano a riflettere su interventi in favore della salute pubblica e dell’economia, soprattutto nei confronti delle fasce più vulnerabili della popolazione.

La sindemia. Eppure non sembra essere soltanto la disoccupazione a provocare più lutti. Secondo lo studio, «è probabile che l’accesso limitato all’assistenza sanitaria durante il blocco, l’interruzione temporanea degli interventi di cura preventiva, la massiccia perdita di copertura assicurativa sanitaria fornita dal datore di lavoro e la riluttanza delle persone a frequentare ospedali per paura di contrarre il Covid  potrebbero avere un impatto ancora più grave sul tasso di mortalità».

Già a metà anni 90 Merril Singer, antropologo e medico statunitense, introdusse il concetto di “sindemia” per indicare una serie di problematiche sociali innescate dalla diffusione di una patologia clinica. Non sappiamo quante delle morti dei prossimi vent’anni saranno da attribuire alle conseguenze dell’attuale pandemia, ciò che sappiamo è che le conseguenze dell’attuale pandemia esistono e sono già realtà.

Il futuro medicalizzato. Cleto Corposanto su Il Quotidiano del Sud il 31 gennaio 2021. Viviamo, è giusto il caso di ricordarlo, in un tempo in qualche modo sospeso. Come se non si sapesse bene come comportarsi, con un occhio al recente, tragico passato di pandemia e uno proiettato in un futuro che mai come ora ci appare fosco, nebuloso, indecifrabile. E siamo pure divisi fra le domande che riguardano il futuro prossimo – domani, questa settimana, fine mese – e uno più lontano: quando finirà? Quando potremo tornare a fare tutto quello che facevamo prima? Quando potremo dire di esserci veramente messi alle spalle questo incubo? Nessuno lo sa, neanche gli scienziati sono concordi questa volta. Siamo come naufraghi in un mare di informazioni che ci sballottolano a destra e a sinistra, in avanti e indietro, su e giù come le percentuali. Il tempo si è come cristallizzato in questa tremenda, drammatica situazione. Ci conforta solo un fatto: non è la prima volta, è già successo, e l’umanità ne è già uscita altre volte. Le pandemie sono una costante, purtroppo, nella storia della salute del mondo. Anche se oggi appare così difficile pensare al futuro. Sia chiaro. Qualcuno dice che non torneremo mai più al passato, così come lo conoscevamo. E forse ha ragione. Perché se vogliamo andare veramente a fondo delle cose, questa pandemia – che forse non è una pandemia ma è peggio – ce la siamo cercata e in molti casi si è trasformata in sindemia, cioè in una situazione nella quale diverse patologie interagiscono sulla popolazione. L’infezione da SARS-CoV-2 si intreccia con una serie di altre patologie non trasmissibili seguendo disuguaglianze profondamente radicate nelle nostre società. È insomma il concentrarsi di questo tipo di malattie su uno sfondo di disparità sociali ed economiche che ne inasprisce gli effetti negativi. E allora il futuro, visto così, non potrà che essere medicalizzato: la gran parte di noi aspetta il vaccino con il fiato sospeso, in attesa di uscire dall’incubo. E forse diventerà normale un futuro di tamponi, controllo della temperatura per entrare negli spazi chiusi, app di tracciamento sui nostri smartphone e tutto quello che si potrà inventare per una sorta di sorveglianza molecolare che verrà accettata come benefica e salvifica. Un futuro fatto di un sistema di controlli permanenti che evitino contatti e contagi fra possibili portatori di virus. Accetteremo di essere controllati e sorvegliati per non contagiarci. E nessuno forse penserà che risolvere situazioni di degrado e disagio ambientale, sociale ed economico potrebbe essere la prima arma di contrasto al dilagare dei virus; di questo e anche dei prossimi. Perché si può partire dalle piccole cose, come lavarsi le mani, e lavorare per eliminare le conseguenze delle disuguaglianze, prima di ridursi a vivere un futuro totalmente medicalizzato.

IL DOSSIER. Il mistero dei 30mila morti in più, in Italia, che non sono attribuiti al Covid. L’Istat: aumento di 85.624 decessi nel 2020. Ma «solo» 55.576 per il virus. Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2021. L’Italia deve ancora spiegare a se stessa quei trentamila e quarantotto in più. Questa cifra - 30.048 - rappresenta il numero dei decessi in più del 2020 che non sono stati attribuiti a Covid-19. Perché? E cosa è successo esattamente? Negli ultimi giorni del 2020 Istat, l’istituto statistico, ha diffuso i dati di una tristissima contabilità: il numero di morti in Italia fra marzo e novembre, in confronto alle medie dei 5 anni precedenti. In questi 9 mesi decisivi della pandemia risulta un eccesso di 85.624 decessi sugli andamenti fra il 2015 e il 2019. Tuttavia, solo i due terzi di questi si spiegano ufficialmente con Covid-19. In base al dashboard del ministero della Sanità, si contavano fino alla fine di novembre scorso 55.576 morti sui quali era stato trovato il coronavirus. Dunque durante il drammatico 2020 ci sono stati almeno trentamila decessi in più rispetto alla normalità del passato.

Nel 2020 mortalità aumentata del 19%. Sono anche queste vittime Covid, che però non hanno avuto una diagnosi? O i sistemi sanitari, travolti dalla pandemia, hanno smesso di curare tumori o patologie cardiache con l’attenzione di prima? I numeri, da soli, sono muti. Non permettono di rispondere a queste domande essenziali su ciò che è successo realmente l’anno scorso. Non restituiscono la verità su quei trentamila. È possibile però scomporli su base territoriale, per farsi un’idea. La prima risposta è che l’anno scorso la mortalità nel Paese è aumentata del 19% — un po’ sopra il mezzo milione di persone in tutto — ma dietro questa media si nascondono enormi differenze territoriali. Ci sono province in cui i decessi non sono mai aumentati (Cagliari, Caltanissetta, Rieti) o lo hanno fatto pochissimo (Agrigento, Messina, Reggio Calabria, Vibo Valentia, Matera, Chieti, Salerno, Benevento, Viterbo, Siena). Ce ne sono altre invece dove il numero dei decessi è quasi raddoppiato o comunque è esploso: più 86% a Bergamo, più 76% a Cremona, più 62% a Lodi, più 57% a Brescia, più 41% a Milano. Solo nella provincia più importante della Lombardia c’è un eccesso di quasi diecimila morti rispetto alla normalità degli anni recenti. Anche Pavia, Lecco, Parma e Piacenza sono colpite duramente.

I morti Covid su base provinciale, un indizio prezioso. È strano che in Italia nessuno sembri avere, o voler condividere, dati sui decessi da Covid su base provinciale. Ma questi esistono per tutte le regioni e per le province autonome di Bolzano e Trento, quindi permettono di capire quanti decessi in queste ventuno aree si spiegano ufficialmente con il contagio. È un indizio prezioso. Potenzialmente, è un indicatore della performance dei sistemi sanitari nelle ventuno amministrazioni che ne sono responsabili. Più alta è la quota di decessi per Covid-19 sul totale dei morti in eccesso, più è chiaro che una regione è riuscita a mantenere le cure anche per le altre malattie e a diagnosticare gran parte dei contagiati dal virus: non ci sono molti altri morti in più che restano non spiegati. All’opposto una quota bassa di casi di Covid sul totale dei morti in eccesso può voler dire che molti morti per il virus non hanno avuto un tampone, oppure che i malati di patologie diverse non sono stati più curati (e salvati) come prima.

La mortalità in Italia e il virus. Anche qui le variazioni sono ampie. In Abruzzo e in Friuli Venezia Giulia ci sarebbero stati addirittura meno decessi del solito, non fosse stato per Covid: probabile che i lockdown abbiano ridotto gli incidenti stradali e altre morti violente o da stress. In Calabria e in Puglia invece solo quattro morti in eccesso ogni dieci si spiegano con la pandemia; nella regione del governatore Michele Emiliano si contano nel 2020 oltre duemila decessi in più, rispetto ai tempi normali, che non hanno spiegazioni immediate. Nella media italiana il 65% della mortalità in più dell’anno scorso è dovuta al virus. Ma Toscana, Lazio, Umbria, Emilia-Romagna, Veneto, Val d’Aosta fanno registrare risultati un po’ meno drammatici. Per loro almeno tre quarti dei morti in eccesso sono da Covid, senza molte altre anomalie ad aggravare il bilancio. Più o meno nella media nazionale sono Lombardia, Liguria, Sicilia e la provincia di Bolzano. Sotto la media di questo indicatore di performance invece Trento, il Piemonte (57%), la Campania, la Calabria e la Sardegna.