Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2021
L’AMMINISTRAZIONE
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’AMMINISTRAZIONE
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Burocrazia Ottusa.
Il Diritto alla Casa.
Le Opere Bloccate.
Il Ponte sullo stretto di Messina.
Viabilità: Manutenzione e Controlli.
Le Opere Malfatte.
La Strage del Mottarone.
Il MOSE: scandalo infinito.
Ciclisti. I Pirati della Strada.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Insicurezza.
La Strage di Ardea.
Armi libere e Sicurezza: discussione ideologica.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Volontariato e la Partigianeria: Silvia Romano e gli altri.
Lavoro e stipendi. Lavori senza laurea e strapagati.
La Povertà e la presa per il culo del reddito di cittadinanza.
Le Disuguaglianze.
Martiri del Lavoro.
La Pensione Anticipata.
Sostegno e Burocrazia ai “Non Autosufficienti”.
L’evoluzione della specie e sintomi inabilitanti.
Malasanità.
Sanità Parassita.
La cura maschilista.
L’Organismo.
La Cicatrice.
L’Ipocondria.
Il Placebo.
L’HIV.
La Tripanofobia (o Belonefobia), ovvero la paura degli aghi.
La siringa.
L’Emorragia Cerebrale.
Il Mercato della Cura.
Le cure dei vari tumori.
Il metodo Di Bella.
Il Linfoma di Hodgkin.
La Diverticolite. Cos’è la Stenosi Diverticolare per cui è stato operato Bergoglio?
La Miastenia.
La Tachicardia e l’Infarto.
La SMA di Tipo 1.
L'Endometriosi, la malattia invisibile.
Sindrome dell’intestino irritabile.
Il Menisco.
Il Singhiozzo.
L’Idrocuzione: Congestione Alimentare. Fare il bagno dopo mangiato si può.
Vi scappa spesso la Pipì?
La Prostata.
La Vulvodinia.
La Cistite interstiziale.
L’Afonia.
La Ludopatia.
La sindrome metabolica.
La Celiachia.
L’Obesità.
Il Fumo.
La Caduta dei capelli.
Borse e occhiaie.
La Blefarite.
L’Antigelo.
La Sindrome del Cuore Infranto.
La cura chiamata Amore.
Ridere fa bene.
La Parafilia.
L’Alzheimer e la Demenza senile.
La linea piatta del fine vita.
Imu e Tasi. Quando il Volontariato “va a farsi fottere”.
INDICE QUARTA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Introduzione.
I Coronavirus.
La Febbre.
Protocolli sbagliati.
L’Influenza.
Il Raffreddore.
La Sars-CoV-2 e le sue varianti.
Il contagio.
I Test. Tamponi & Company.
Quarantena ed Isolamento.
I Sintomi.
I Postumi.
La Reinfezione.
Gli Immuni.
Positivi per mesi?
Gli Untori.
Morti per o morti con?
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Alle origini del Covid-19.
Epidemie e Profezie.
Quello che ci dicono e quello che non ci dicono.
Gli errori dell'Oms.
Gli Errori dell’Unione Europea.
Il Recovery Plan.
Gli Errori del Governo.
Virologi e politici, i falsi profeti del 2020.
CTS: gli Esperti o presunti tali.
Il Commissario Arcuri…
Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.
Al posto di Arcuri. Francesco Paolo Figliuolo. Commissario straordinario per l'attuazione e il coordinamento delle misure sanitarie di contenimento e contrasto dell'emergenza epidemiologica Covid-19.
Fabrizio Curcio, capo della Protezione Civile.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
2020. Un anno di Pandemia.
Gli Effetti di un anno di Covid.
Il costo per gli emarginati: Carcerati, stranieri e rom.
La Sanità trascurata.
Eroi o Untori?
Io Denuncio.
Succede nel mondo.
Succede in Germania.
Succede in Olanda.
Succede in Francia.
Succede in Inghilterra.
Succede in Russia.
Succede in Cina.
Succede in India.
Succede negli Usa.
Succede in Brasile.
Succede in Cile.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Vaccini e Cure.
La Reazione al Vaccino.
INDICE OTTAVA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Furbetti del Vaccino.
Il Vaccino ideologico.
Il Mercato dei Vaccini.
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Coronavirus e le mascherine.
Il Virus e gli animali.
La “Infopandemia”. Disinformazione e Censura.
Le Fake News.
La manipolazione mediatica.
Un Virus Cinese.
Un Virus Statunitense.
Un Virus Padano.
La Caduta degli Dei.
Gli Sciacalli razzisti.
Succede in Lombardia.
Succede nell’Alto Adige.
Succede nel Veneto.
Succede nel Lazio.
Succede in Puglia.
Succede in Sicilia.
INDICE DECIMA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Reclusione.
Gli Irresponsabili: gente del “Cazzo”.
Il Covid Pass: il Passaporto Sanitario.
INDICE UNDICESIMA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tempo della Fobocrazia. Uno Stato Fondato sulla Paura.
Covid e Dad.
La pandemia è un affare di mafia.
Gli Arricchiti del Covid-19.
L’AMMINISTRAZIONE
QUARTA PARTE
IL COGLIONAVIRUS. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Introduzione.
Antonio Giangrande, autore del saggio “IL COGLIONAVIRUS”.
Covid-19: lo conosco; li conosco.
Il virus: mi ha colpito pesantemente. Ho rispettato tutte le regole imposte dagli incompetenti. Regole inutili visti i risultati di morti ed infetti, nonostante si voglia dare la colpa alla gente ligia al dovere. In ospedale mi hanno somministrato 15 litri di ossigeno con la saturazione del sangue a 82. Stavo per morire e non me ne rendevo conto. In ospedale ho visto morire gente che stava meglio di me. Un attimo prima scherzavano e ridevano; un attimo dopo annaspavano come se affogassero in mare. Non avevo ossigeno, ma avevo spirito, tanto da darlo agli altri. Mi sono salvato solo grazie alle cure sperimentali assunte su mia piena responsabilità, ma negate ai malati ignoranti o inconsapevoli sedati, incapaci di decidere.
Gli esperti: tutti si elevano a professoroni in tv nel parlare di qualcosa che non si conosce e quindi che non conoscono. Sballottando di qua e di là i cittadini, in base alle loro opinioni cangianti dalla sera alla mattina.
I Negazionisti, ossia i coglioni sani, asintomatici o pauci sintomatici che non ci credono alla pericolosità del virus: dicono che sono un miracolato, perché avevo patologie pregresse, o, comunque, non curate. Tutto falso. I morti per Covid-19 sono il frutto della malasanità, specialmente quella nordica, falsamente eccelsa tanto pubblicizzata in tv, e/o di protocolli sanitari criminali. Sono menzogne divulgate da media prezzolati dal Potere incompetente ed incapace. Protocolli sanitari internazionali, giusto per dire: tutto il mondo è paese. Protocolli imposti da chi diceva che il Coronavirus non era pandemia. Dal dietrofront sulle mascherine al saluto con il gomito, dagli asintomatici “non contagiosi” fino all’uso dei guanti: perché l’Oms inanella brutte figure? Ero sanissimo, più di altri. Uno sportivo di arti marziali che a 57 anni riusciva, prima, e riesce, ancora dopo, a fare 22 chilometri di corsa in un’ora e 45 minuti e con la bici da cross in 41 minuti. Per il mio lavoro ero e sono chiuso in casa da mattina a sera. Se ha colpito me, colpisce tutti.
I NoVax: cosa mi sentirei di dire a chi osteggia il vaccino? Cazzi loro. Di Covid-19 c’è ne per tutti, anche per loro. Mi spiace solo per i loro familiari, vittime inconsapevoli. Perché questa è una malattia che si trasmette, specialmente, alle persone più vicine. E poi direi che il vaccino non è solo la panacea di tutti i mali, ma sicuramente è la speranza che si possa uscire da quest’incubo. E chi non si nutre di speranza: muore disperato. Dr Antonio Giangrande
Coronavirus: “310 giorni in ospedale, 2 mesi in coma. Al risveglio credevo di essere stato rapito”. Matteo Gamba su Le Iene News il 12 febbraio 2021. Maurizio Sacchetto, 57 anni, nessuna altra malattia, ci racconta l’incubo Covid che lo ha portato più volte vicino alla morte durante 310 giorni di ricovero in cui ha perso 28 chili. Con una cosa che vuol dire subito a chi si ha ancora dubbi sul Covid. “Ai negazionisti, a chi non crede ancora al coronavirus voglio dire subito una cosa: fatevi un giro nei reparti di rianimazione dove sono stato. Date un’occhiata alle lastre e guardate come sono ridotti i polmoni dei malati di gravi di Covid”. Maurizio Sacchetto è appena uscito da un lunghissimo incubo, quello del Covid che ha preso a 57 anni in una forma molto grave. Il 9 febbraio è uscito dall’ospedale dopo 11 mesi, 310 lunghissimi giorni. Ci era entrato il 29 marzo 2020: nelle foto qui sopra lo vedete prima e dopo la malattia. Ci ha contattato, prima via email su redazioneiene@mediaset.it, per lanciare proprio il suo messaggio con la sua storia a chi non crede ancora oggi al coronavirus. Il secondo appello è per tutti: “State attenti, il coronavirus è subdolo. Non ho altre malattie, ero in buona salute, ho sempre fatto sport e una vita sana. Mai fumato, al massimo un bicchiere di vino a cena. Tutto questo non mi ha salvato dal finire più volte vicino alla morte”. “Pensavo fosse una normale influenza e ho aspettato una settimana prima di fami ricoverare. Il dubbio ce l’avevo ma il dottore mi ha detto di evitare se possibile il pronto soccorso perché, se non avevo il Covid, lì rischiavo di prenderlo”, ci racconta al telefono Maurizio, che lavora per l’azienda dei rifiuti Amiat di Torino e che dovrà aspettare ancora altro tempo prima di tornare al suo posto. “Era l’inizio della pandemia, stavo attento a tutto, penso di essermi contagiato qualche giorno prima andando a mangiare una pizza con un amico in difficoltà. Non avevo fame, la febbre saliva fino a 39 poi scendeva con la tachipirina, è iniziata anche la tosse. Sono andato all’ospedale San Giovanni Bosco: mi hanno portato subito in rianimazione e intubato, avevo la saturazione a 70”. “Anche all’arrivo al pronto soccorso, quel 29 marzo, non capivo quanto ero vicino alla morte, pensavo che sarei guarito a breve”, prosegue. “Sono stato portato subito in coma farmacologico e per due mesi sono stato di fatto incosciente tra coma e rianimazione. Ho rischiato la vita più volte: in aprile ho avuto un’emorragia ai polmoni perdendo un litro e mezzo di sangue. Ho recuperato una piena coscienza solo a maggio. Ricordo che non sapevo dov’ero, avevo paura di essere stato rapito. Mi ha rassicurato un’infermiera: "Sono la moglie di un tuo collega, sei in ospedale, i tuoi cari sono stati avvertiti". Era maggio”. “Sono diventato negativo al coronavirus a luglio ma ho dovuto affrontare tantissime complicazioni, tra cui sei infezioni, e ora una lunghissima riabilitazione. Si era parlato perfino di trapianto di polmoni. Quando mi hanno tirato su dal letto per la prima volta non ce la facevo neanche a tener su la testa. In ottobre ho ricominciato a mangiare cose liquide, in novembre a camminare. Avevo perso 28 chili: a marzo ne pesavo 76, ero arrivato a 48. Ne ho ripresi 14 ma la strada è ancora lunga anche se sto meglio e sono a casa. Mi hanno fatto la tracheotomia per farmi respirare con una cannula e il buco nella gola non si è richiuso, potrebbe servire un altro intervento. Sono stati tutti eccezionali, medici e infermieri del San Giovanni Bosco e del San Luigi di Orbassano, dove ho fatto la riabilitazione. Voglio ringraziare tutti quelli che mi hanno salvato per l’eccezionale professionalità e umanità”.
L’ingiusta fine dei “morti evitabili”. Andrea Massardo su Inside Over il 10 gennaio 2021. Con l’arrivo della pandemia di coronavirus in Europa nello scorso inverno, gli ospedali di tutto il continente sono stati colpiti da una domanda di assistenza che nessun sistema sanitario europeo aveva mai messo in conto. Ambulanze in coda all’ingresso dei pronti soccorso e sirene accese che attraversano le città per tutta la notte non sono diventate che l’immagine di questi ultimi dieci mesi della nostra quotidianità. E l’alta contagiosità del patogeno ha impattato anche sul modo stesso in cui sono state gestite le strutture ospedaliere e sul modo in cui gli stessi pazienti – negativi al coronavirus ma affetti da altre patologie – sono stati tenuti in considerazione. Tutto questo, però, avrà sul lungo periodo una grandissima serie di conseguenze in grado di generare un vero e proprio esercito di “morti evitabili“, così come sono stati definiti dal medico britannico Chris Whitty in un lungo approfondimento sul The Sunday Times.
Gli ospedali rischiano di cedere. Come riportato sempre dalla testata britannica, la situazione che si sta vivendo in questo momento nel Regno Unito è emblematica di come gli sforzi compiuti dalla popolazione non siano stati sufficienti a contenere la diffusione del patogeno. E soprattutto, credere che l’arrivo del vaccino sia la naturale fine del ciclo epidemico già a distanza di pochi mesi è una pura e semplice visione fantascientifica. Il vero problema, infatti, è la capacità di tenuta del sistema sanitario, il quale non deve preoccuparsi “solamente” dei pazienti positivi al Covid-19 ma deve occuparsi anche di tutti coloro che necessitano quotidianamente di assistenza medica. Malati di tumore, sieropositivi, persone affette da gravi patologie, diabetici e persone che devono recarsi almeno tre volte a settimana in ospedale per le dialisi. Tutti esponenti molto fragili della nostra società che con la pandemia rischiano quasi di passare in cavalleria, come se il mondo si dimenticasse completamente di loro. Ma la percentuale di affetti da queste patologie, purtroppo, è ancora più alta di coloro che sono entrati in contatto con il coronavirus.
In Italia rischiamo lo stesso problema. Da quando il coronavirus è entrato nella nostra quotidianità, a quasi tutti noi è capitato di subire o di conoscere qualcuno a cui è stato notificato un rimando di un intervento medico definito come “non urgente” e dunque posticipabile ad una non meglio specificata data del futuro. E tutti, dunque, abbiamo avuto contatto diretto con quelle che sono le problematiche tecniche e organizzati che sta affrontando quotidianamente il sistema sanitario italiano e che alle volte hanno portato anche alla cancellazione di un intervento programmato. Tuttavia, benché questa quotidianità vada avanti ormai dalla scorsa primavera, il problema nel nostro Paese non è sostanzialmente migliorato. Ancora adesso le operazioni “non urgenti” vengono posticipate sin tanto che non lo saranno diventate – se non addirittura oltre, come già purtroppo accaduto – delineando di conseguenza uno scenario che denota una carenza organizzativa che travalica il semplice sistema ospedaliero, arrivando sino alle fondamenta dell’attuale organigramma politico nazionale.
Senza potenziare di conseguenza l’apparato organizzativo alla base della gestione della pandemia, purtroppo, il quadro della situazione – come emerso negli ultimi mesi – potrebbe essere destinato a peggiorare ulteriormente. In uno scenario in cui sempre più malati negativi al coronavirus rischieranno di vedere anteposta al proprio diritto ad essere curati la necessità di non creare affollamenti all’interno delle strutture sanitarie. In una situazione contradditoria, che evidenzia però la sostanziale inadeguatezza di molti approcci operativi che sono stati utilizzati nell’ultimo periodo, molti dei quali rischiano di generare un’ondata di morti che, come definiti dal primario medico britannico, sarebbero stati altrimenti evitabili.
Coronavirus, nuovo piano pandemico 2021-23: "Se le risorse sono scarse, scegliere chi curare prima". Libero Quotidiano l' 11 gennaio 2021. "Se le risorse sono scarse, scegliere chi curare prima": è questo uno dei punti cruciali indicati nella bozza del nuovo Piano pandemico 2021-23. Nel documento, infatti, si legge: “Quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio”. La bozza, elaborata dal dipartimento Prevenzione del ministero della Salute con tutte le misure da adottare in caso di pandemie, prevede anche: capacità di produrre velocemente mascherine e dispositivi di protezione individuale a livello, possibilità di realizzare in tempi brevi nuovi posti letto in terapia intensiva, scorte nazionali di farmaci antivirali e formazione continua degli operatori sanitari.
Grazia Longo per "la Stampa" il 12 gennaio 2021. Meglio tardi che mai. È finalmente pronta la bozza del nuovo piano pandemico 2021-2023 che, sulla scorta dell'emergenza coronavirus sostituirà il piano influenzale datato 2006, poi aggiornato, ma di fatto rimasto identico rispetto alla sua formulazione originaria. E già non mancano le polemiche, soprattutto per la possibilità di privilegiare chi curare. Tra le novità della bozza del nuovo piano strategico, che verrà poi sottoposta alle Regioni, ci sono la necessità di produrre velocemente mascherine e dispositivi di protezione individuale a livello nazionale sia per medici e infermieri sia per i cittadini, la possibilità di realizzare in tempi brevi nuovi posti letto in terapia intensiva, l'esigenza di scorte nazionali di farmaci antivirali e di una formazione continua degli operatori sanitari. Il testo della bozza, elaborato dal ministero della Salute, prevede inoltre esercitazioni, definizione della catena di comando e azioni di monitoraggio dell'attuazione. Preziose saranno un'anagrafe vaccinale nazionale, la predisposizione di piattaforme informatiche per il monitoraggio sei servizi sanitaria, una comunicazione costante tra le varie autorità. Viene poi ribadito che è possibile scegliere chi curare per prima nel caso in cui mancano le risorse. «Quando la scarsità rende le risorse insufficienti rispetto alle necessità - si legge nel testo -, i principi di etica possono consentire di allocare risorse scarse in modo da fornire trattamenti necessari preferenzialmente a quei pazienti che hanno maggiori possibilità di trarne beneficio». Si precisa tuttavia che «non è consentito agire violando gli standard dell'etica e della deontologia ma può essere necessario per esempio privilegiare il principio di beneficialità rispetto all'autonomia, cui si attribuisce particolare importanza nella medicina clinica in condizioni ordinarie. Condizione necessaria affinché il diverso bilanciamento tra i valori nelle varie circostanze sia eticamente accettabile è mantenere la centralità della persona». Nel documento, si sottolinea anche che «la preparazione a una pandemia influenzale è un processo continuo di pianificazione, esercitazioni, revisioni e traduzioni in azioni nazionali e regionali, dei piani di risposta. Un piano pandemico è quindi un documento dinamico che viene implementato anche attraverso documenti, circolari, rapporti tecnici». Il dilagare del Covid «conferma l'imprevedibilità di tali fenomeni e che bisogna essere il più preparati possibile ad attuare tutte le misure per contenerli sul piano locale, nazionale e globale». Per questo è necessario disporre di «sistemi di preparazione che si basino su alcuni elementi comuni rispetto ai quali garantire la presenza diffusamente nel Paese ed altri più flessibili da modellare in funzione della specificità del patogeno che possa emergere». Il piano pandemico dovrà pure definire le procedure per i trasferimenti e trasporti di emergenza, oltre al monitoraggio centralizzato dei posti letto e la distribuzione centralizzata dei pazienti. Riferendosi quindi ai piani regionali, nella bozza si osserva che questi «devono essere attuati dopo 120 giorni dall'approvazione del Piano nazionale e ogni anno va redatto lo stato di attuazione». Tra le 140 pagine della bozza, stilata dal Dipartimento Prevenzione del ministero, è più volte rimarcata la necessità di una «formazione continua finalizzata al controllo delle infezioni respiratorie e non solo, in ambito ospedaliero e comunitario» con un'attiva collaborazione tra livello nazionale e servizi sanitari regionali.
Da "corriere.it" il 5 gennaio 2021. Negava la pericolosità del Covid-19, lo escludeva come causa delle morti, non credeva alle immagini delle corsie ospedaliere stracolme, era scettico che le ambulanze con la sirena azionata trasportassero malati di Covid. Ora Daniele Egidi, 54 anni, di Fano, tecnico informatico in tribunale, si è ammalato di Covid-19 e ha ammesso, in un’intervista sulle pagine locali del Resto del Carlino, «la lettura alterata fatta fino ad ora» del virus. Egidi ha ora una polmonite bilaterale, è stato ricoverato in ospedale con un’ossigenazione all’86% e respira con l’ossigeno. Dal 30 dicembre era assistito nel reparto Covid a Pesaro e da oggi le sue condizioni hanno imposto il trasferimento nel reparto di Pneumologia dove viene monitorato costantemente: non ha febbre ma è debole. «Non avevo capito, rifiutavo inconsciamente l’idea che la pandemia fosse grave, - ha aggiunto - minimizzavo culturalmente l’emergenza sanitaria. Qui, mi sono reso conto di esser stato per circa un anno fuori dalla realtà. Forse è brutto dirlo ma bisogna passarci. Ora vedo che le corsie stracolme sono vere, - ha detto ancora - che medici e altro personale fanno l’impossibile per salvare le vite delle persone, e io che pensavo a una messinscena del potere. Le parole negazioniste, comprese le mie, hanno fatto danni, hanno messo a rischio la vita delle persone, e non me rendevo conto». «Ora ne capisco tutta la portata, - ha proseguito a proposito di idee e parole pronunciate nel precedenza - ero affascinato dalle parole e dalla determinazione di una marea negazionista che nei siti ha sempre una risposta a tutto. Ero attratto. Ora mi si è spalancato un mondo che nemmeno immaginavo, qui tutto segue una logica e un suo percorso». «Se posso dare un giudizio a quello che sto vivendo qui dentro, dico che non sempre va messo in discussione quello che ci capita, bisogna fidarci e affidarsi agli altri. - ha detto ancora Egidi - Io non mettevo la mascherina fuori dal lavoro, la ritenevo inutile. Sbagliavo, e io oggi pago sulla mia pelle quella essere stato cieco». «Spero che le mie parole possano servire a qualcuno per evitare il mio errore di sottovalutazione o negazione. - ha concluso - Il Covid-19 mette a rischio la vita della gente, per favore proteggetevi ed evitatelo».
Medici no-vax, come fate a disconoscere la scienza? Gianluigi Nuzzi su Notizie.it 11/01/2021. Il medico che si pone contro scelte prevalenti disconosce il sistema sanitario stesso, lo dichiara illegittimo nelle sue scelte e quindi non può più rappresentarlo. Cari medici e infermieri contrari ai vaccini, da giorni mi interrogo su come un dottore con il giuramento di Ippocrate nel cuore e a sigillo della propria professionalità possa dichiararsi obiettore rispetto al vaccino contro il Covid 19. E non certo per il numero di morti che questa pandemia ormai conta in tutto il mondo con effetti dirompenti sulla mortalità annua. Infatti secondo l’Istat il covid ha fatto incrementare di quasi il 9% il numero di decessi nel nostro paese. Lo stupore è dovuto al fatto che il medico obiettore a conclusione di un suo percorso logico a noi ignoto ritiene che il vaccino o non sia efficace o non sicuro e quindi ritiene etico non somministrarlo. La fragilità di questo ragionamento è presto detto. Se infatti questo arbitrio venisse generalizzato a tutti i farmaci e allargato a tutti i medici dovremmo attenderci dai dottori atteggiamenti individuali e soggettivi non solo sui vaccini ma anche sulle cure, sui singoli farmaci. Ogni medico dovrebbe seguire lo stesso processo mentale per ogni medicina ed esame che prescrive. E questo rallenterebbe le cure provocando complicazioni fino alla morte del paziente. Per questo in una società strutturata come la nostra farmaci e vaccini prima di essere somministrati seguono un iter di approvazione da parte di enti e strutture delegate dallo Stato e quindi dalla comunità. Il fatto poi che proprio questo iter venga preso di mira da medici obiettori, ritenendolo troppo modesto e rapido rispetto all’approvazione di vaccini nel passato è un’altra follia perché basa la valutazione soggettiva prevalente rispetto a quella scientifica. “L’approvazione di questo vaccino è stato più veloce di quelle nel passato e quindi non è affidabile” – ripetono alcuni di loro, dimenticando alcuni punti fondamentali: lo sforzo internazionale per vincere il Covid 19, l’impegno di ricerca finanziario impiegato da aziende farmaceutiche, comunità scientifiche e stati, l’appartenenza del Covid19 alla famiglia della Sars già nel mirino da anni degli scienziati, e si potrebbe continuare. Ma soprattutto il medico che si pone contro scelte prevalenti, disconosce il sistema sanitario stesso, lo dichiara illegittimo nelle sue scelte e quindi non può più rappresentarlo. Anche perché un atteggiamento di questo tipo non rientra nelle scelte etiche e di libertà del medico. Pensate solo cosa accadrebbe se in un piccolo paesino quello che una volta veniva chiamato il “medico condotto” si rifiutasse di vaccinare la popolazione anziana, esponendola a rischi incalcolabili. Qui c’è in ballo la vita. Non a caso, l’ordine dei medici su tutto il territorio sta perseguendo chi incrocia le braccia. Si tratta di poche centinaia di dottori su oltre 400mila camici bianchi, siamo quindi di fronte a una percentuale assai esigua ma che assume rilevanza in un paese democratico come il nostro dove la cronaca giustamente ascolta anche le minoranze.
Da liberoquotidiano.it il 9 marzo 2021. Fabrizio Roncone ne fa una questione di coerenza. Ospite dell'Aria Che Tira, il giornalista si trova di fronte a Paola Taverna, grillina da sempre contraria ai vaccini. "Visto che lei evoca la memoria, mi chiedevo se provi un poco di vergogna nel ricordare le parole che lei usava nei confronti dei vaccini da accanita sostenitrice No Vax, ha cambiato idea?", chiede la firma del Corriere della Sera rompendo gli indugi. Immediata la replica della senatrice del Movimento 5 Stelle che alle accuse replica stizzita: "Abbia l'accortezza anche li di provare un po' vergogna per come la stampa ha strumentalizzato quella fase. Ho un disegno di legge per informare la popolazione sui vaccini piuttosto che obbligarla". "Questa - e qui la Taverna strappa un sorriso a Roncone - la posizione politica che ho sempre sostenuto fin dall'inizio. C'è un testo di legge che dimostra la mia buonafede". Parole che non convincono il giornalista, tanto da sospirare ogni tre per due. Ed ecco che a quel punto interviene Myrta Merlino nella speranza di riportare la calma nello studio di La7: "Taverna, parliamo di futuro che è più importante", esordisce per poi chiedere: "Oggi per lei i vaccini vanno fatti senza se e senza ma". "Oggi i vaccini, in questa fase, sono indispensabile - risponde a sua volta la Cinque Stelle -, specialmente nel rispetto di chi non ha potuto farlo. Ma ribadisco che è sempre stata questa la mia posizione". Roncone non si arrenda: "Senatrice, la risposta è secca: i vaccini si devono fare o lei fa ancora dei distinguo". La replica però arriva a metà: "Io dico che i vaccini vanno fatti e che le persone vanno informate sulla loro importanza e sulle politiche sanitarie da affrontare in questo Paese". E Roncone rimane perplesso.
Da corrieredellosport.it il 14 gennaio 2021. Francesca Benevento è esponente del XII municipio della capitale e convinta no vax. Infatti, sulla sua pagina Facebook pubblica molti post contro le vaccinazioni scatenando le reazione del pubblico social. Questo è uno dei suoi ultimi post: "Di preciso i medici che si sottopongono a questo vaccino cosa vogliono dimostrare? Forse un atto di fede verso il loro aguzzino? Pur sapendo che per un vaccino occorrono 5 anni, pur non conoscendo il contenuto del veleno (che sarà noto forse fra 2 anni), pur sapendo che le case farmaceutiche sono coperte da immunità per qualsiasi danno biologico si sottopongono a ciò che gli viene richiesto dai governanti corrotti o meglio da un Bill Gates che ci vuole tutti morti e i rimanenti controllati da remoto? Forse la loro vita e la loro salute valgono così poco quanto il loro stipendio?" . Per una volta Pd e Lega si schierano dalla stessa parte e definiscono la consigliera Francesca Benevento "una squilibrata" che in modo assolutamente incontrollato scrive sui social messaggini 100% no vax. Infatti il suo profilo è popolato solo con post che invitano a non vaccinarsi e condividendo storia assolutamente discutibili.
Da lastampa.it l’1 maggio 2021. I carabinieri del Ros hanno arrestato i responsabili dell'attentato incendiario avvenuto contro un hub vaccinale a Brescia lo scorso 3 aprile. Si tratta di un 51 e un 52enne, entrambi bresciani e del movimento no-vax, accusati di terrorismo. Sono state eseguite nelle province di Brescia e Verona delle perquisizioni nei confronti di alcuni conoscenti degli indagati che apparterrebbero allo stesso movimento. L'ordinanza applicativa della misura cautelare della custodia in carcere è stata emessa dal gip del Tribunale di Brescia Alessandra Sabatucci, su richiesta della procura della Repubblica diretta da Francesco Prete. Contestualmente, sono state eseguite nelle province di Brescia e Verona delle perquisizioni nei confronti di alcune persone rientranti nel circuito relazionale degli indagati. In particolare, il provvedimento cautelare è il risultato delle indagini condotte dal Dipartimento antiterrorismo della Procura di Brescia e dai Carabinieri del Ros e del comando provinciale di Brescia, coordinati dal sostituto procuratore Francesco Carlo Milanesi e dall'aggiunto Silvio Bonfigli Secondo gli investigatori, l'incendio alimentato dagli ordigni - non propagatosi all'intero padiglione solo per la resistenza ignifuga della tensostruttura e per altre cause fortuite - era potenzialmente idoneo a causare danni devastanti alla struttura nella quale erano stoccate diverse centinaia di dosi di vaccino nonché altro materiale infiammabile, danni che avrebbero potuto ripercuotersi negativamente sulla campagna vaccinale anti Covid. A pochi metri dal principio di incendio corrono cavi elettrici che se fossero stati interessati dalle fiamme avrebbero interrotto l'alimentazione della catena del freddo così rendendo inutilizzabili i vaccini. Nel sito colpito vengono infatti somministrate circa 1000 dosi di vaccino al giorno. Le indagini, condotte in tempi brevi anche mediante il ricorso alle intercettazioni telefoniche ed ambientali, si sono subito concentrate sull'analisi dei sistemi di videosorveglianza e rilevazione targhe dei veicoli presenti sul territorio del Comune di Brescia, e hanno consentito di individuare il mezzo utilizzato dai dai due per raggiungere il centro vaccinale.
No Vax e negazionisti scatenati sul web: sono ex grillini. Li guida Francesca Benevento, consigliere a Roma. Mia Fenice giovedì 14 Gennaio 2021 su Il Secolo D'Italia. Francesca Benevento, ex grillina, consigliera nel XII municipio di Roma non crede nel Covid ed è come una no-vax. Nel 2009 aveva abbandonato il Movimento 5 stelle per passare al gruppo misto. In queste ore l’attenzione dei media si accesa su di lei dopo che ha pubblicato sulla sua pagina Facebook alcuni post anti-Covid e anti-vaccino. In uno degli ultimi parla dei medici che si sono vaccinati e cita anche un Bill Gates che ci vorrebbe tutti morti, in linea con le numerose teorie complottiste sulla «riduzione della popolazione mondiale».
Francesca Benevento, il post sui medici che fanno il vaccino. «Di preciso – scrive – i medici che si sottopongono a questo vaccino cosa vogliono dimostrare? Forse un atto di fede verso il loro aguzzino? Pur sapendo che per un vaccino occorrono 5 anni, pur non conoscendo il contenuto del veleno (che sarà noto forse fra 2 anni), pur sapendo che le case farmaceutiche sono coperte da immunità per qualsiasi danno biologico si sottopongono a ciò che gli viene richiesto dai governanti corrotti o meglio da un Bill Gates che ci vuole tutti morti e i rimanenti controllati da remoto? Forse la loro vita e la loro salute valgono così poco quanto il loro stipendio?». Parole che non sono sfuggite e che sono state riprese da molti giornali, dal Corriere dello Sport a Open per finire al Mattino: ma nel primo pomeriggio del 14 gennaio poi il post è sparito dalla pagina Facebook dell’ex grillina.
Francesca Benevento sul vaccino Rna. Scorrendo i post ce n’è uno del 12 gennaio. «Il Dna non supporta l’impianto dei microchip, il vaccino Rna effettua una mutazione genetica affinché il nostro corpo diventi da supporto per i #quantum #dots». Francesca Benevento sul Covid pare abbia le idee ben precise: «Il Covid è stato creato per arrivare a comandare l’uomo dall’interno, non più con la tv, i programmi spazzatura, lo sdoganamento della morale, l’emergere di cattivi esempi. Con un cerottino che inietterà i quantum dots sarete interconnessi con la rete (sì proprio come un elettrodomestico a distanza) e tramite l’#entaglement sarete telecomandati da un altro luogo, in cui è stata conservata copia dell’elettrone intrecciato al vostro su cui si farà ciò che si vuole fare con voi. Molti sostengono che siano già passati ad iniettarli direttamente con il vaccino e con il tampone tramite microparticelle di grafene immesse nel nostro organismo».
«Dominio e sorveglianza mondiale grazie al 5G». E poi ancora: «#Dominio e sorveglianza mondiale grazie al 5G e le onde elettromagnetiche. Si può curare una persona o farla ammalare o sedarla, in caso di rivoltosi, ed addirittura ucciderla da remoto procurandogli un infarto o simili. Sono miliardi di milioni di soldi per le case farmaceutiche e vuoi mettere il potere totale sulle masse addormentate tramite campi elettromagnetici ed impulsi? Per arrivare a questo sono disposti a tutto. Una modifica dei codici creazionali nel Dna umano che sono a immagine e somiglianza di Dio. I vaccini a mRna, messaggeri e codificanti per il Dna, modificano la firma del Creatore e attraverso questa manipolazione, formano una nuova specie di umani: impuri e schiavi».
Chi è Francesca Benevento. Su Facebook Francesca Benevento ha oltre 4mila follower. Un centinaio tra i like e le condivisioni. Come riporta Repubblica, laureata in architettura, sul suo curriculum presente sul sito di Roma Capitale si legge che è iscritta all’albo nazionale dei componenti delle commissioni giudicatrici Anac e a quello dei consulenti tecnici d’ufficio del tribunale di Roma in qualità di architetto, progettista e pianificatore.
I suoi post creano polemiche. I suoi post non sono passati inosservati e hanno scatenato polemiche. «È assurdo», dice a Repubblica la presidente del XII municipio, la 5S Silvia Crescimanno. Per Lorenzo Marinone, consigliere Pd, «è inaccettabile che una rappresentante delle istituzioni esprima posizioni simili, così lontane dalla realtà». Dello stesso avviso anche Giovanni Picone della Lega che sempre su Repubblica rincara la dose. : «Ennesimo delirio di questa consigliera di chi ricopre ruoli istituzionali e dovrebbe avere maggior equilibrio nelle dichiarazioni anche per rispetto delle migliaia vittime e degli sforzi degli operatori sanitari».
Da inbici.net il 13 gennaio 2021. Si tratta di Riccardo Riccò. Sì, proprio lo stesso corridore che nel febbraio di dieci anni fa, era stato ricoverato in ospedale a Modena in gravi condizioni perché – come lui stesso aveva confessato ai medici – si era iniettato una sacca di sangue conservata in frigorifero da 25 giorni. “Leggo di una marea di persone che dicono che il vaccino deve essere obbligatorio!!!! Ma stiamo scherzando !!!! – ha scritto sulla sua pagina facebook il 37enne di Formigine – Io faccio quello che voglio del mio corpo. Nessuno può costringermi a fare qualcosa che, se avesse effetti negativi su il mio corpo, a rimetterci sarei solo io. Quindi: voi fatevi pure iniettare non so quale m….da, ma non rompete il c….zo alla gente come me che si è informata molto bene (da amici medici) e che non si farà un bel c…..zo di vaccino”. Il post, va detto, non è più visibile sul suo profilo social e non è ancora chiaro se sia stato lo stesso Riccò a rimuoverlo oppure – come lui stesso scrive – sia stato bannato da facebook. Le sue parole, tuttavia, hanno subito sollevato uno sciame di prevedibili polemiche visto che la “predica” no-vax arriva da un atleta squalificato a vita per aver fatto uso di doping. L’ergastolo sportivo – lo stesso comminato a Danilo Di Luca e a Lance Armstrong – era arrivato proprio il mese scorso con la sentenza della prima sezione del Tribunale nazionale antidoping. Il 19 aprile del 2012 l’ex ciclista, attualmente residente a Formigine dove gestisce una gelateria, era stato inibito a 12 anni con scadenza 2024 per la pratica dell’autoemotrasfusione. Nel 2008, dopo il secondo posto al Giro d’Italia, Riccò era stato trovato positivo al Tour de France dove aveva anche vinto 2 tappe.
Umberto Rapetto per infosec.news il 31 gennaio 2021. Oltre 50 manifestanti hanno forzato la cintura di sicurezza che regolava l’accesso al Dodger Stadium, il complesso sportivo dove gioca la squadra di baseball di Los Angeles che adesso è uno dei più importanti centri di vaccinazione della California. La manifestazione di protesta, organizzata dal gruppo “Shop Mask Free Los Angeles” contro vaccini, maschere e restrizioni, ha costretto i vigili del fuoco a chiudere precauzionalmente l’ingresso dello stadio per oltre un’ora e le forze di polizia a intervenire per ripristinare l’ordine. Andrea Garcia, portavoce del sindaco Eric Garcetti, ha assicurato che – nonostante quella che visto il contesto si può considerare una sorta di “invasione di campo” – nessun appuntamento è stato cancellato grazie ad una organizzazione che aveva pianificato ogni genere di imprevisto e che ha saputo gestire anche questa fastidiosa circostanza. Tra i manifestanti c’erano membri di gruppi No-Vax e di organizzazioni di estrema destra che inneggiavano all’inesistenza del coronavirus e urlavano la pericolosità della vaccinazione. I casi confermati di Covid-19 in California hanno superato quota 3 milioni e 200 mila e più di 40.000 persone (una su 1.000 californiani) sono morte per complicazioni da coronavirus. Un post sui social media ha descritto l’evento “Scamdemic Protest March”, il cui nome Scamdemic è la fusione di Scam (truffa o imbroglio) e Pandemic. Gli organizzatori hanno consigliato ai partecipanti di non indossare indumenti o sciarpe “Trump / MAGA” o di non sventolare analoghi vessilli e bandiere per spersonalizzare la protesta da qualunque riferimento politico. Non ci sono stati arresti ma la manifestazione è stata lo spunto per una intensificazione delle misure di sicurezza e per il perfezionamento delle dinamiche di intervento per l’eventuale ripetersi di simili episodi. Nonostante l’incoraggiamento degli organizzatori a contenere il proprio comportamento evitando eccessi, molti manifestanti hanno riempito la strada di accesso allo stadio con cartelli del tipo “Salva la tua anima! Torna indietro ora!” oppure “La CNN ti sta mentendo” o ancora “Togliti la maschera! Cosa aspetti?”. Analoghe incitazioni arrivavano con slogan urlati al megafono da attivisti che strillavano “Torna indietro fin che puoi!” o “Sei un topo da laboratorio”. Probabilmente situazioni di quella risma non troveranno spazio dalle nostre parti, ma – vista l’istrionica capacità di stupire che caratterizza gli italiani – “non si può mai sapere….”. Forse è il caso di considerare gli incidenti di Los Angeles come una sorta di lezione gratuita, di una prova d’orchestra. Se mai si dovessero verificare assembramenti pilotati ad ostruire il regolare funzionamento delle strutture di vaccinazione o, ancor peggio, si concretizzasse una protesta più o meno energica, non si dica che non lo si poteva prevedere.
L’IGNORANZA È PIÙ CONTAGIOSA DEL VIRUS. Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 2 gennaio 2021. Gli ignoranti pensano sempre di avere ragione, e più il loro livello di ignoranza è alto, più tendono drammaticamente a sovrastimare quello della loro conoscenza, e il motivo per cui si considerano più capaci e più informati degli altri sta nel fatto che tali soggetti, a causa delle loro carenze cognitive, non sono in grado di riconoscere i livelli di competenza di altre persone, per cui la loro incompetenza li priva della capacità metacognitiva di comprendere le proprie mancanze, con l’ effetto di credersi più intelligenti e più abili di quello che realmente sono. La consapevolezza di non sapere è sempre stata una rarità, e purtroppo, soprattutto in queste settimane, siamo costretti ad ascoltare dichiarazioni ed opinioni gravemente devianti di persone totalmente inesperte in campo scientifico che si elevano a intenditori specializzati, esprimendo concetti che non stanno in piedi e sparando sentenze funeree sulla presunta pericolosità dei Vaccini anti-Covid19, senza essere sfiorati da alcun dubbio di ignoranza. Niente paura però, perché gli ormai noti ‘negazionisti’ sono afflitti dal cosiddetto “Effetto Dunning-Kruger”, che non è una malattia mentale e nemmeno una sindrome, ma un pregiudizio cognitivo, una distorsione intellettiva e culturale che induce queste persone con poca cognizione e nessuna esperienza sull’ argomento vaccinale a non essere in grado, a causa della loro incompetenza, di accorgersi che il loro ragionamento, le loro scelte e le loro conclusioni sono semplicemente sbagliate, per non definirle ridicole. Questo fenomeno è qualcosa che tutti noi abbiamo sperimentato almeno una volta nella vita, con cui abbiamo avuto a che fare quando ci siamo imbattuti in qualcuno talmente convinto della propria ragione da non cambiarla nemmeno dopo molte smentite pertinenti e inoppugnabili, come i dati scientifici pubblicati, e tale mancanza di metacognizione porta tali soggetti ad essere sempre più ignoranti della propria ignoranza, dettata dalla pesante carenza di conoscenze di base incomplete. L’ effetto Dunning-Kruger è strettamente legato a quella che è chiamata “superiorità illusoria”, una caratteristica psichiatrica che accomuna i soggetti con conoscenza incompleta e fuorviante che ne subiscono l’influenza, e che elevano le proprie convinzioni, le decisioni che prendono e le azioni che intraprendono, inconsapevoli che la loro incompetenza deriva dalla loro inettitudine. La "superiorità illusoria" fa sì che tali persone non siano in grado di valutare se stesse dal punto di vista soggettivo, giudicandosi altamente qualificate, competenti e superiori alle altre, illudendosi di essere più sapienti, traendo conclusioni a dir poco imbarazzanti, e la propria illusorietà impedisce loro di vedere razionalmente le enormi lacune cognitive che li affliggono. Il problema di chi subisce l’effetto Dunnig-Kruger però, è che tale fenomeno è molto contagioso, poiché facilmente esso diventa da individuale a sociale, coinvolgendo una platea sempre più estesa di ignoranti, che si riconoscono tra loro per affinità, si fidelizzano e si accomunano, come sta accadendo con la negazione dell’ efficacia terapeutica dei vaccini contro il Coronavirus, i cui detrattori non si mettono in dubbio, bensì mettono in discussione pubblica la sua inesistente pericolosità, continuando a crogiolarsi nel loro piccolo e misero sapere senza saper valutare l’estensione della propria ignoranza in materia. Gli ignoranti inoltre, sono spesso arroganti, esibiscono un’ autostima esagerata e sproporzionata che esprimono con affermazioni eccessive e presuntuose, accompagnate dalla convinzione di essere nel giusto, di avere sempre ragione, un meccanismo di difesa tipicamente infantile che dimostra la celata insicurezza di base, ovvero di ignoranza. Gli ignoranti seguono il conformismo senza batter ciglio, senza porsi delle domande, vivono la loro vita soltanto applicando il pensiero dicotomico del buono e cattivo, del giusto e sbagliato, dell’ utile o inutile, banalizzando tutto ciò che non fa parte dei loro bisogni. Sono persone superficiali che non riescono ad argomentare un discorso articolato, svalutando chi ha facoltà intellettive superiori, tendendo facilmente all’ira quando non riescono a raggiungere i loro scopi o ad essere ascoltati, e sfogando la loro frustrazione diventano frequentemente bellicosi quando la loro dissonanza cognitiva viene messa in discussione, temendo che le opinioni contrarie o semplicemente intelligenti possano far crollare il loro castello di carta. L’ignoranza è difficile da eliminare, e andrebbe appunto ignorata o combattuta soprattutto dagli organi di informazione e comunicazione, specie quelli del servizio pubblico, che invece tendono a dar voce, in contrapposizione agli scienziati riconosciuti, ai personaggi mediatici più disparati e ignoranti in materia, tipo Enrico Montesano, Daniela Martani, Heather Parisi o peggio Eleonora Brigliadori, i quali diffondono disinformazione e notizie false, legate alla loro ignoranza, sostenendo addirittura bestialità come quella che il vaccino Rna modifichi il codice genetico, e le cui comparsate in Tv e sui social hanno depistato e confuso i pazienti che li seguono, opponendo riserve di nessuna rilevanza scientifica e seminando ulteriori dubbi tra il popolo degli incompetenti come loro. L’ignoranza purtroppo crea spesso diffidenza nei confronti della scienza, quella scienza alla quale dovremmo inchinarci e che dovremmo tutti ringraziare per aver sintetizzato miracolosamente in pochi mesi l’arma terapeutica del Vaccino anti-Covid19, l’unico farmaco sicuro ed efficace contro la pandemia che salverà innumerevoli vite, incluse quelle dei negazionisti che non si infetteranno grazie alla vaccinazione di massa delle persone non ignoranti, quelle che si faranno somministrare il siero e che loro continueranno a criticare e a ridicolizzare. Salvo poi, nella sfortunata situazione di vedere un proprio caro o loro stessi ricoverati e intubati in un reparto Covid di rianimazione, invocare con l’ultimo filo di voce il vaccino salvavita che avevano fino al giorno prima disprezzato, denigrato e deriso.
Covid: il contagio è quasi impossibile all’aperto. Notizie.it il 10 gennaio 2021. Un contagio da Covid all'aperto è una possibilità remota: lo dimostrano gli studi di CNR e ARPA. Rischio più alto se si è chiusi in casa. Il contagio da Covid è quasi impossibile all’aperto. A dimostrarlo un recente studio da parte di CNR e ARPA. Il contagio sarebbe una possibilità remota anche se ci si trova in luoghi più malsani con un’elevata presenza di smog. Bisogna stare attenti, invece, se si è nel chiuso della propria casa. Un’affermazione in fondo già ovvia, ma è anche giusto ricordare queste regole basilari per prevenire l’infezione. La recente scoperta è totalmente italiana. Gli studi sono iniziati partendo proprio dai reparti Covid delle strutture sanitarie. Dopo le opportune ricerche all’interno dei reparti ospedalieri si è scoperto come il coronavirus sia più presente nel chiuso delle case, piuttosto che nelle strutture sanitarie. All’aria aperta, invece, il virus sostanzialmente risulta non esserci. Ovviamente i ricercatori non invitano a uscite di massa senza mascherina, questo è meglio ribadirlo! I rilievi scientifici che hanno confermato i risultati della ricerca sono stati svolti sia in strada sia nelle abitazioni di alcuni soggetti positivi al coronavirus. Proprio nel chiuso delle case di queste persone contagiate le concentrazioni del virus risultano essere presenti in maniera più consistente. Nell’aria della casa di un infetto è possibile trovare, infatti, fino a 40:50 copie genomiche del virus su metro cubo.
CONTAGIATI 2021
REGIONE |
Gennaio |
Febbraio |
Marzo |
Aprile |
Maggio |
Giugno |
|
VALLE D’AOSTA |
7.800 |
8.057 |
9.350 |
10.990 |
11.601 |
11.693 |
|
PIEMONTE |
223.611 |
248.289 |
311.864 |
346.275 |
360.483 |
362.944 |
|
LOMBARDIA |
539.147 |
605.216 |
739.967 |
806.759 |
835.578 |
841.961 |
|
VENETO |
312.695 |
334.250 |
384.471 |
412.813 |
423.433 |
425.478 |
|
TRENTO |
27.580 |
34.115 |
41.371 |
44.077 |
45.459 |
45.775 |
|
BOLZANO |
40.483 |
53.925 |
69.071 |
71.277 |
72.913 |
73.315 |
|
FRIULI |
67.663 |
76.984 |
98.210 |
105.372 |
107.025 |
106.957 |
|
LIGURIA |
69.817 |
78.287 |
90.034 |
99.635 |
102.780 |
103.445 |
|
EMILIA ROMAGNA |
219.702 |
263.194 |
337.620 |
370.190 |
383.986 |
386.888 |
|
TOSCANA |
134.829 |
157.112 |
197.005 |
227.737 |
241.581 |
244.327 |
|
UMBRIA |
36.194 |
44.762 |
51.082 |
54.538 |
56.400 |
56.856 |
|
MARCHE |
55.676 |
68.303 |
88.633 |
97.964 |
102.716 |
103.445 |
|
SARDEGNA |
38.660 |
41.236 |
45.854 |
54.691 |
56.695 |
57.246 |
|
LAZIO |
206.165 |
235.272 |
287.285 |
324.823 |
342.218 |
346.037 |
|
ABRUZZO |
43.007 |
54.664 |
65.508 |
71.444 |
74.075 |
74.874 |
|
MOLISE |
8.408 |
10.732 |
12.306 |
13.259 |
13.590 |
13.720 |
|
CAMPANIA |
223.179 |
269.515 |
339.547 |
393.742 |
419.644 |
424.419 |
|
PUGLIA |
123.286 |
147.681 |
195.381 |
235.971 |
250.646 |
253.381 |
|
BASILICATA |
13.244 |
15.710 |
19.639 |
24.155 |
26.340 |
26.964 |
|
CALABRIA |
32.942 |
38.031 |
47.480 |
60.411 |
67.006 |
68.989 |
|
SICILIA |
136.869 |
153.036 |
175.405 |
209.487 |
226.135 |
231.833 |
|
CONTAGIATI 2021
REGIONE |
Luglio |
Agosto |
Settembre |
Ottobre |
Novembre |
Dicembre |
|
VALLE D’AOSTA |
11.769 |
12.022 |
12.140 |
12.310 |
13.222 |
16.574 |
|
PIEMONTE |
365.973 |
372.766 |
379.208 |
385.055 |
400.190 |
502.219 |
|
LOMBARDIA |
853.492 |
870.382 |
884.125 |
894.769 |
935.047 |
1.254.634 |
|
VENETO |
437.066 |
455.494 |
469.574 |
480.822 |
519.814 |
659.993 |
|
TRENTO |
46.430 |
45.521 |
48.394 |
49.396 |
52.300 |
64.329 |
|
BOLZANO |
73.818 |
75.130 |
76.980 |
79.110 |
88.630 |
101.608 |
|
FRIULI |
108.084 |
110.944 |
113.845 |
117.301 |
131.774 |
158.419 |
|
LIGURIA |
105.500 |
109.942 |
112.785 |
114.981 |
122.948 |
151.492 |
|
EMILIA ROMAGNA |
394.934 |
412.269 |
424.089 |
432.679 |
457.044 |
549.175 |
|
TOSCANA |
252.675 |
271.803 |
282.467 |
289.841 |
302.055 |
396.593 |
|
UMBRIA |
58.429 |
61.820 |
63.836 |
65.246 |
67.629 |
92.680 |
|
MARCHE |
105.688 |
110.686 |
113.951 |
116.277 |
124.334 |
147.083 |
|
SARDEGNA |
62.365 |
72.373 |
75.334 |
76.208 |
79.006 |
89.125 |
|
LAZIO |
359.244 |
375.003 |
384.836 |
395.591 |
425.209 |
517.619 |
|
ABRUZZO |
76.267 |
79.165 |
81.281 |
83.034 |
87.894 |
110.499 |
|
MOLISE |
13.939 |
14.276 |
14.503 |
14.669 |
15.236 |
17.109 |
|
CAMPANIA |
431.440 |
446.268 |
456.695 |
467.572 |
491.746 |
597.150 |
|
PUGLIA |
256.189 |
263.852 |
268.812 |
273.009 |
279.751 |
312.157 |
|
BASILICATA |
27.424 |
29.018 |
30.175 |
30.778 |
31.618 |
37.137 |
|
CALABRIA |
71.081 |
78.048 |
83.918 |
87.608 |
93.222 |
112.976 |
|
SICILIA |
242.541 |
277.705 |
298.810 |
308.527 |
324.951 |
378.368 |
|
MORTI 2021
REGIONE |
Gennaio |
Febbraio |
Marzo |
Aprile |
Maggio |
Giugno |
|
VALLE D’AOSTA |
24 |
10 |
10 |
34 |
13 |
1 |
473 |
PIEMONTE |
898 |
517 |
961 |
937 |
370 |
53 |
11.696 |
LOMBARDIA |
1947 |
1.253 |
2.459 |
2060 |
698 |
162 |
33.782 |
VENETO |
2341 |
882 |
801 |
679 |
219 |
47 |
11.616 |
TRENTO |
195 |
61 |
78 |
59 |
13 |
4 |
1.362 |
BOLZANO |
133 |
164 |
91 |
32 |
13 |
5 |
1.180 |
FRIULI |
749 |
426 |
478 |
389 |
77 |
1 |
3.789 |
LIGURIA |
491 |
247 |
253 |
300 |
135 |
27 |
4.351 |
EMILIA ROMAGNA |
1702 |
1056 |
1.418 |
909 |
296 |
53 |
13.262 |
TOSCANA |
517 |
469 |
694 |
822 |
523 |
145 |
6.870 |
UMBRIA |
164 |
267 |
203 |
98 |
45 |
17 |
1.419 |
MARCHE |
397 |
281 |
381 |
303 |
74 |
19 |
3.036 |
SARDEGNA |
235 |
180 |
72 |
149 |
78 |
26 |
1.491 |
LAZIO |
1230 |
889 |
766 |
1009 |
499 |
154 |
8.339 |
ABRUZZO |
252 |
239 |
436 |
263 |
376 |
-272 |
2.784 (2.512) |
MOLISE |
76 |
84 |
88 |
38 |
13 |
0 |
491 |
CAMPANIA |
901 |
533 |
1.120 |
987 |
811 |
268 |
7.484 |
PUGLIA |
747 |
724 |
896 |
1046 |
614 |
134 |
6.642 |
BASILICATA |
70 |
48 |
71 |
89 |
45 |
11 |
590 |
CALABRIA |
117 |
92 |
135 |
192 |
157 |
56 |
1.228 |
SICILIA |
1068 |
648 |
491 |
773 |
419 |
135 |
5.974 |
MORTI 2021
REGIONE |
Luglio |
Agosto |
Settembre |
Ottobre |
Novembre |
Dicembre |
|
VALLE D’AOSTA |
0 |
0 |
1 |
0 |
5 |
9 |
488 |
PIEMONTE |
-54 |
21 |
45 |
52 |
79 |
166 |
12.059 |
LOMBARDIA |
45 |
96 |
126 |
113 |
234 |
699 |
35.095 |
VENETO |
26 |
47 |
87 |
57 |
144 |
418 |
12.395 |
TRENTO |
1 |
3 |
6 |
6 |
12 |
33 |
1.423 |
BOLZANO |
4 |
1 |
8 |
10 |
38 |
66 |
1.307 |
FRIULI |
1 |
13 |
20 |
33 |
134 |
235 |
4.225 |
LIGURIA |
12 |
23 |
24 |
16 |
42 |
119 |
4.587 |
EMILIA ROMAGNA |
21 |
89 |
105 |
118 |
202 |
434 |
14.231 |
TOSCANA |
43 |
107 |
155 |
108 |
126 |
153 |
7.562 |
UMBRIA |
5 |
9 |
16 |
15 |
26 |
14 |
1.504 |
MARCHE |
3 |
7 |
32 |
29 |
45 |
97 |
3.249 |
SARDEGNA |
11 |
81 |
59 |
32 |
23 |
32 |
1.729 |
LAZIO |
65 |
116 |
138 |
141 |
193 |
283 |
9.275 |
ABRUZZO |
2 |
16 |
15 |
17 |
33 |
45 |
2.640 |
MOLISE |
1 |
3 |
2 |
1 |
6 |
8 |
512 |
CAMPANIA |
110 |
158 |
192 |
119 |
170 |
238 |
8.471 |
PUGLIA |
27 |
44 |
81 |
41 |
51 |
101 |
6.987 |
BASILICATA |
1 |
8 |
5 |
10 |
3 |
8 |
635 |
CALABRIA |
27 |
61 |
92 |
43 |
50 |
124 |
1.625 |
SICILIA |
73 |
322 |
463 |
187 |
195 |
300 |
7.514 |
Totale:
6.266.939 casi totali
5.107.729 dimessi-guariti
137.513 deceduti (questo numero potrà essere confermato dopo che l’Istituto Superiore di Sanità avrà stabilito la causa effettiva del decesso).
Dal bollettino ufficiale Ministero della Salute.
Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 29 gennaio 2021. In piena crisi politica e col Paese bloccato in attesa dell'esito delle consultazioni, sulla scrivania del presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte è finito un dossier dell'intelligence che ridisegna drammaticamente al rialzo l'andamento pandemico degli ultimi due mesi. E che preoccupa i collaboratori più stretti del premier. I nuovi positivi giornalieri in Italia sarebbero in realtà il 40-50 per cento in più di quelli rilevati ufficialmente. «Il totale dei contagiati è sottostimato a causa del calo del numero dei tamponi avvenuto a metà novembre 2020», scrivono gli analisti. Che lanciano due allarmi: la curva epidemiologica non sta piegando verso il basso tanto quanto attestano i bollettini diramati dal ministero della Salute; i dati al momento sono inattendibili e quindi difficili da analizzare e da usare per prendere misure adeguate di contenimento del virus. Il dossier degli 007 Il Covid-19, col suo violento impatto sanitario e sociale, è diventato fin da subito materia di sicurezza nazionale, prioritaria per le nostre agenzie di intelligence. Con l' aiuto di statistici e matematici, di recente hanno elaborato un modello predittivo che, alla prova dei fatti, è risultato essere efficace. Il 25 dicembre scorso, infatti, stimava in 86.500 il numero dei decessi totali che l' Italia avrebbe raggiunto nei successivi trenta giorni: il 26 gennaio la conta delle vittime del Covid ha toccato quota 86.422, con un errore, rispetto alla previsione, dello 0,09 per cento. Irrisorio. Il modello matematico da loro adottato sembra funzionare. Come arrivano però a sostenere che il sistema italiano di sorveglianza, composto da ministero della Salute, Protezione civile e Regioni, sta sottostimando i contagi? Con un calcolo che si basa sulla proporzione matematica tra nuovi ingressi nelle terapie intesive («fotografano la situazione delle due settimane precedenti, indipendemente dai tamponi») e la quota giornaliera di positivi aggiornata dal bollettino.
L'ONDATA FANTASMA. «Osservando le terapie intensive nella parte finale dell'anno, si può dedurre che vi è stata una fase di ripresa dell'epidemia verso la metà dicembre. Una ripresa che non è stata rilevata né tracciata dai numeri nazionali a causa dei pochi test effettuati in quel periodo», si legge nel dossier. Secondo l' intelligence, quindi, poco prima di Natale la curva è tornata a salire e la riprova sta nel fatto che i pazienti a rischio vita negli ospedali non sono diminuiti come ci si aspettava: la cifra è rimasta stabile, oscillando intorno alle 2.580 unità. Non ci siamo accorti del rialzo della curva perché nei bollettini ministeriali veniva detto il contrario, e cioè che dal picco del 13 novembre (+ 40.902 contagiati) in avanti la conta delle nuove positività è andata progressivamente calando, salvo un breve sussulto intorno al 25 dicembre. Dov'è l' errore? Perché la sottostima?
I TAMPONI BUGIARDI. Il pasticcio statistico ruota attorno ai tamponi. Nella settimana tra l' 11 e il 17 novembre ne sono stati processati un milione e mezzo, il numero più elevato registrato fino ad allora. Da quel momento, però, i test hanno preso a diminuire arrivando agli 868 mila della settimana tra il 23 e il 29 dicembre, salvo poi schizzare a 1,4 milioni dal 13 gennaio in poi per effetto dell' inclusione, nel conteggio, dei tamponi antigenici rapidi. Prima ai fini del computo valevano solo quelli molecolari, poi il ministero della Salute ha ammesso anche gli altri. Ma è questo il passaggio che, secondo il dossier dell' intelligence, ha complicato il quadro, generando il caos. «L' introduzione dei test rapidi ha reso impossibile un confronto con le serie storiche passate. Alcune Regioni, inoltre, non fanno distinzione tra il molecolare e il rapido, è ciò ha evidenti ripercussioni sul calcolo di tutti i valori, tra cui il rapporto positivi/tamponi». Il rapporto, sostengono, va rivisto, scorporando i rapidi e, soprattutto, togliendo quelli fatti per confermare l' avvenuta guarigione. «Sono solo i tamponi di prima diagnosi a fotografare la reale situazione epidemiologica, e a partire da metà novembre abbiamo visto un brusco calo di questa tipologia». Ad oggi i test di conferma sarebbero il 65 per cento del totale: troppi per non alterare sensibilmente la rappresentazione della curva del contagio. Rischio ripresa incontrollata Repubblica, sul punto, ha chiesto un parere al professor Pierluigi Lopalco, epidemiologo di fama internazionale e assessore regionale in Puglia. «È vero che le positività sono sottostimate, anche più di quanto rileva il dossier. Ed è vero che in questo momento il trend non è valutabile. I dati che abbiamo da analizzare derivano dai sistemi di sorveglianza, che per loro natura sottostimano i fenomeni. Sono utili per valutare l' andamento, ma nel momento in cui interviene una modifica, come nel caso dell' inclusione nella statistica dei tamponi rapidi, bisogna aspettare un po' prima che torni attendibile». Tradotto: in questo momento è impossibile fare un' analisi realistica e attendibile sulla base dei dati pubblicati. È quello che segnala anche la nostra intelligence, invitando il governo alla massima prudenza sulle riaperture. Sostengono infatti che abbassare la guardia in questi giorni, «in cui stanno terminando gli effetti benefici delle misure "rosse" imposte sotto Natale», e soprattutto ha preso a circolare in maniera importante la variante inglese e brasiliana del Covid-19, «potrebbe portare a una nuova ripresa incontrollata dell' epidemia, difficilmente sostenibile dal sistema ospedaliero, vicino alla soglia di saturazione».
L’Iss e i contagi sottostimati: “Quelli veri sono il quadruplo”. Michele Bocci su La Repubblica il 30/1/2021. Brusaferro interviene sull’allarme dei Servizi. Crisanti: “Distinguere tra rapidi e molecolari”. Sappiamo tutti che i sistemi di sorveglianza non possono essere esaustivi: noi stimiamo che il numero dei positivi intercettati sia in rapporto di 1 a 3, a anche di 1 a 4 rispetto ai positivi reali». Il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro commenta la ricerca dell’Intelligence pubblicata da Repubblica secondo la quale il totale dei contagiati è «sottostimato a causa del calo del numero di tamponi avvenuto a metà novembre 2020». Brusaferro aggiunge: «Naturalmente con i nostri dati peschiamo più i sintomatici. Rimane il fatto che ci possono essere positivi asintomatici, inconsapevoli di esserlo, quindi la circolazione del virus è superiore rispetto a quella che riusciamo a vedere». Flavia Riccardo, ricercatrice dell’Istituto superiore di sanità che partecipa anche alla Cabina di regia, spiega che la sorveglianza «ci permette di seguire l’andamento dell’epidemia, quindi non ha bisogno di intercettare tutti i casi. E infatti quando descriviamo le curve dei contagi non parliamo di numeri assoluti, ma di tendenza. Si fa così in tutto il mondo». Sempre secondo l’Intelligence, a complicare il quadro dei dati nelle ultime settimane c’è stata l’introduzione nel conteggio dei test antigenici rapidi, dei quali non si conosce il reale peso nelle varie Regioni rispetto ai tamponi “tradizionali”, quelli molecolari. «C’è stato un cambiamento della definizione di “caso” da parte delle istituzioni sanitarie internazionali — dice Riccardo — È collegato all’evoluzione molto rapida degli strumenti diagnostici a disposizione. Usare i test rapidi ha un impatto sul numero dei casi confermati. Però bisogna osservare i dati con cautela, non possono essere fatti paragoni tra periodi diversi, ad esempio tra quando questo esame non c’era e quando invece è stato utilizzato. Anche paragonare Regioni diverse può indurre in errore». Per Andrea Crisanti, direttore della Microbiologia di Padova, i dati dell’Intelligenge sono credibili e bisogna cercare le differenze tra positività trovate con tamponi rapidi e molecolari. Se i positivi trovati con i rapidi sono un numero molto diverso vuol dire «o che i tamponi rapidi vengono usati male o non sono affidabili». Questi test «a cui sfuggono i positivi, hanno contribuito ad aggiungere confusione a una situazione poco chiara visto il tracciamento saltato. Io li avrei confinati in situazioni specifiche e non usati come una sorta di lasciapassare sociale».
Come leggere i dati sull’eccesso di mortalità per Covid-19. Alberto Bellotto su Inside Over il 21 gennaio 2021. La pandemia ha portato con sé un diluvio di numeri. Bollettini quotidiani con il numero dei casi, delle vittime e dei tamponi fatti. Poi è arrivato l’indice Rt, il tasso di positività e i primi conteggi sui vaccini. È facile perdersi in questa infinità di dati. Alla fine dell’anno l’Istat ha pubblicato nuove rilevazioni in merito al tasso di mortalità che vanno contestualizzate e spiegate. Numeri preoccupanti che raccontano del debito che il Paese ha pagato alla pandemia. Come ha evidenziato Federico Fubini sul Corriere della Sera, nel periodo tra marzo e novembre del 2020 l’Italia ha visto un incremento dei decessi rispetto alla media del periodo precedente di 85 mila persone. Nel lasso di tempo considerato hanno infatti perso la vita 547.369 italiani rispetto alla media di 461.746 calcolata nel quadriennio precedente.
Un’Italia a macchia di leopardo. La fredda contabilità ci dice che la mortalità è cresciuta del 19% nel giro di un anno. Questo numero racconta però molto poco la realtà che ci circonda. Per avere un quadro più completo e veritiero di come la pandemia ha colpito alcune zone più di altre, è necessario gettare uno sguardo sui territori. I dati dell’Istituto nazionale di statistica mostrano infatti un’Italia a macchia di leopardo. La provincia che ha pagato il debito più alto è stata Bergamo. Centrata in pieno dalla prima ondata ha fatto registrare un incremento di morti dell’86%, con una variazione spaventosa del +574,7% solo a marzo. Numeri importanti però anche in altre zone del Nord come la provincia di Cremona (+76%), Lodi (62%), Brescia (+57%). Numeri più diffusi invece durante la seconda ondata del virus. Tra le province più colpite Aosta (+138%), Cuneo (+114%), Barletta-Andria-Trani (+112%). Un lungo elenco che indica come il coronavirus lascerà strascichi enormi.
Confronto tra morti Covid e decessi totali. Fubini fa poi un secondo conteggio e cerca di confrontare i decessi per Covid con l’eccesso di mortalità. Il ragionamento è questo: essendo la pandemia una novità rispetto al periodo precedente, l’eccesso di mortalità deve ricondursi proprio ad essa. Questo è vero solo in parte, ci torneremo. Ma provare a fare il confronto ci può aiutare ad avere un quadro delle differenze territoriali nella lotta al Covid-19. Il confronto può essere fatto a partire dai decessi segnalati dal bollettino della Protezione civile rispetto all’eccesso di mortalità. Già qui c’è un primo problema. Non esistono dati disponibili sulla mortalità a livello provinciale. I bollettini giornalieri arrivano al massimo a indicare i decessi per regione. Questo ci costringe a sommare i dati provinciali raggruppandoli appunto per regione. In questo modo si nota come in alcuni contesti ci sia una forbice molto ampia tra persone che hanno perso la vita per il coronavirus ed eccesso di morti nel periodo di tempo considerato. Ma cosa vuol dire praticamente? Facciamo l’esempio di una delle regioni più colpite, la Lombardia. La media del periodo 2015-2019 indica 71.346 vittime all’anno, mentre tra marzo e novembre 2020 il numero si attestava a 105.479. In questo caso “l’eccesso” è di 34.133 persone. Ma secondo i dati del bollettino al 30 novembre 2020 le vittime per Covid in Lombardia erano state 21.855. In pratica, è stato anche il ragionamento di Fubini, solo il 64% dell’eccesso di mortalità era spiegabile con il coronavirus. Questa forbice è ampia soprattutto nelle nelle regioni più colpite dalla pandemia, Lombardia appunto, ma anche Piemonte, Emilia-Romagna e Veneto. Seguendo questo ragionamento si notano alcune zone in cui la mortalità in eccesso è molto lontana dai numeri legati al Covid. È il caso ad esempio di Sardegna, Puglia e Calabria. In queste regioni, nell’ordine, la quota di persone decedute in più nel periodo considerato era coperta solo per il 34%, 41% e 42%. Al lato opposto ci sono regioni come la Toscana in cui questa copertura arriva al 73% o il Veneto (72%). Come si possono spiegare queste discrepanze? Qui la certezza dei numeri viene meno e si entra nel campo delle supposizioni. Una delle ipotesi è che ci siano stati molti decessi non registrati come pazienti Covid. È un fenomeno successo soprattutto nella provincia di Bergamo nelle primissime fasi dell’epidemia.
Cosa possono dirci i tamponi. L’ipotesi quindi è quella di un certo numero di pazienti non individuati come pazienti Covid e quindi non curati a sufficienza o comunque non archiviati nei famosi bollettini giornalieri della Protezione civile. Ma è possibile verificare questa ipotesi? L’unico tentativo che si può fare è quello di osservare il numero dei tamponi fatti e questo perché sono i soli che permettono di individuare i contagi. Al 30 novembre i tamponi eseguiti nel corso dell’anno erano stati quasi 22 milioni. Distribuiti in maniera irregolare in tutto il territorio, ad esempio erano 4 mln in Lombardia, 2,7 in Veneto, 2,2 nel Lazio e 2,1 in Emilia. Al contrario in Sardegna erano solo 372 mila, in Calabria 364 mila e in Puglia 784 mila. Se poi proviamo a fare un conteggio in base alla popolazione, scopriamo che molte regioni del Sud avevano un numero di tamponi processati ogni 100 mila abitanti inferiore a quelle del Centro-Nord Italia. Meno tamponi potrebbe quindi voler dire meno casi scoperti e più pazienti trascurati. Questa però rimane un’ipotesi. Come ha ricordato Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’ospedale San Martino di Genova, è un errore pensare che tutto sia riconducibile direttamente al coronavirus.
I rischi di un’eccessiva semplificazione. “Ci si dimentica”, ha scritto Bassetti, “di tutti quelli che sono morti anche per altri problemi a causa del Covid. Quanta gente è morta perché ci si dedicava unicamente al Covid di infarto, ictus, altre infezioni, tumore, leucemia, diabete, malattie respiratorie? Quanti sono morti di infezioni da batteri resistenti perché l’attenzione era unicamente rivolta al Covid?”. Il nodo infatti è che la pandemia non ha avuto solo un impatto diretto sulla salute delle persone, ma ha causato ricadute a cascata che hanno messo in crisi tutta la filiera sanitaria. Come avevamo provato a spiegare parlando di mortalità e letalità del virus, la misura dell’eccesso di mortalità ci può dare un’idea ma da sola non basta, perché non distingue tra le vittime della malattia e quelle legate a fattori paralleli. Pensiamo solo alle visite rimandate da pazienti oncologici o in generale a tutti quelli che nei momenti acuti delle ondate rimandavano visite e terapie. A maggio la stessa Istat metteva in guardia sulla necessità di maggiori dati per fare valutazioni più precise: “L’ammontare totale dei decessi nel 2020”, si legge in una nota, “è il risultato dell’interazione di diverse componenti: la mortalità direttamente imputabile a Covid-19 e la mortalità per altre cause non direttamente ad esso correlata. Quest’ultima componente, a sua volta, è stata in parte modificata dagli effetti indiretti dell’epidemia. Infatti, mentre ci aspettiamo che la mortalità per alcune cause possa essere in linea con quanto osservato negli anni precedenti, per altre si noteranno delle importanti variazioni”. “Solo il contributo dell’analisi di tutte le schede con la certificazione delle cause di morte del 2020”, conclude la nota, “consentirà il di individuare le malattie che hanno maggiormente risentito degli effetti indiretti della pandemia”.
Dietro il dato. Report Rai PUNTATA DEL 11/01/2021 di Antonella Cignarale, collaborazione di Marzia Amico. Per monitorare l’impatto dell’epidemia da Sars-Cov-2 viene rilevata quotidianamente una mole di dati dalle aziende sanitarie locali che però non sempre viene trasmessa con completezza alla Regione. Altri dati raccolti invece a livello regionale, seppur preziosi, non vengono inviati ai vertici nazionali. E a oggi non c’è un dato solido nazionale sul rischio di trasmissione di contagio nel momento in cui ci si esponga a un caso positivo in ambito familiare, lavorativo o ricreativo. Se non pubblicato nella sua completezza, il dato offre una marginale lettura della situazione pandemica, finanche fuorviante. Se dal bollettino giornaliero la diminuzione di ricoveri in terapia intensiva può sembrare una buona notizia, in realtà non si sa se i posti letto liberati sono di pazienti dimessi o deceduti. E il dato dei decessi Covid come viene calcolato?
“DIETRO IL DATO” di Antonella Cignarale collaborazione Marzia Amico immagini di Chiara D’Ambros e Giovanni De Faveri.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il 10 marzo viene mostrato il primo bollettino Covid. Da allora i dati che vediamo ogni giorno ci danno solo una parziale lettura della pandemia. I morti non sono tutti deceduti il giorno precedente. Nei dati trasmessi dalla Toscana il 4 dicembre, oltre ai deceduti del 2 e 3 dicembre, c’è anche un deceduto di ottobre.
CARLA RIZZUTI - ASSESSORATO DIRITTO ALLA SALUTE REGIONE TOSCANA Quando il decesso avviene sul territorio, quindi al di fuori degli ospedali, è un iter un pochino più lungo.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO I deceduti Covid vengono schedati con un SI se avevano patologie pregresse e con un NO se non le avevano. Dagli approfondimenti fatti solo su 5000 cartelle cliniche dei positivi morti fino a maggio, l’Istituto Superiore di Sanità ha constatato che nell’89% dei casi la causa responsabile di morte è il Covid-19 ma nell’11% le cause di decesso sono altre patologie.
ANTONELLA CIGNARALE Se un paziente entra in ospedale, fa il tampone, risulta positivo, se non ce la fa per un’altra patologia, è un deceduto Covid?
EMANUELA BALOCCHINI - RESP. SETTORE PREVENZIONE COLLETTIVA REGIONE TOSCANA Sì, e forse è anche la ragione per la quale noi abbiamo un così alto numero di morti.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non è proprio così. Buonasera. Anche perché in Germania contano come morto Covid qualsiasi persona sia deceduta, a prescindere della patologia in essere, che sia risultata positiva al virus. Quello che abbiamo capito è che se dovessimo basarci sui dati che vengono ogni volta pubblicati dai bollettini giornalieri in materia di virus, potremmo avere una falsa percezione della realtà. Questo perché c’è un peccato originale. La nostra Antonella Cignarale.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Dal 3 dicembre sul bollettino viene pubblicato, oltre al totale dei ricoveri in terapia intensiva, anche il numero degli ingressi giornalieri. Ma per avere una lettura completa c’è da guardare anche il dettaglio delle dimissioni. Ad esempio, il 4 dicembre, in Toscana sono stati registrati in terapia intensiva 9 posti letto in meno occupati, ma dietro questo dato non c’è una buona notizia.
CARLA RIZZUTI - ASSESSORATO DIRITTO ALLA SALUTE REGIONE TOSCANA In realtà questo saldo negativo ha dietro di sé ben 16 ingressi nelle ultime 24 ore, 13 si sono liberati perché i pazienti sono passati ad area meno critica, 12 purtroppo si sono liberati perché i pazienti sono deceduti.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Quindi 16 sono i ricoverati in ingresso, meno i 13 dimessi e meno i 12 deceduti, uguale meno 9 ricoverati. Questi dati non pubblicati interamente rischiano di darci una lettura distorta. Lo stesso vale per il numero dei tamponi: da fine ottobre i dati che leggiamo sul bollettino sono un bel misto fritto.
GANDOLFO MISERENDINO - RESPONSABILE TECNOLOGIE E STRUTTURE SANITARIE REGIONE EMILIA ROMAGNA Sul bollettino nazionale vedete il dato dei tamponi molecolari e dei positivi derivanti dal tampone molecolare.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO La Regione Piemonte, invece, per più di un mese ha conteggiato tra i tamponi anche i test antigenici rapidi fino a quando il ministero della Salute è intervenuto per correggere il calcolo. E così sul bollettino nazionale, da un giorno ad un altro, il numero dei tamponi piemontesi è drasticamente diminuito, più di 220mila test sono stati cancellati.
ANTONELLA CIGNARALE Quando dovevate inviare i dati aggregati dei tamponi effettuati per il bollettino nazionale, avete sommato i tamponi molecolari e gli antigenici.
MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Ma come doveva essere fatto, secondo me.
ANTONELLA CIGNARALE Per voi, perché le altre regioni non lo hanno fatto.
MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Scusate ma se sono tutti e due, vengono utilizzati per diagnosticare un caso di positività perché dare solo una parte?
ANTONELLA CIGNARALE Ma dico ma voi quando fate questa conferenza Stato Regioni che vi dite se non vi riuscite neanche a organizzare su quali dati mandare per poi una lettura omogenea a livello nazionale?
MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Se non c’è una direttiva nazionale noi abbiamo fatto quello che ritenevamo più giusto.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il Piemonte si è dovuto riallineare alle altre regioni. Ma così facendo non vengono conteggiati neanche i positivi individuati con i test rapidi. E infatti sul bollettino della regione Piemonte il 29 dicembre i nuovi positivi risultano essere 921 ma sul bollettino nazionale leggiamo solo gli 840 individuati con i tamponi molecolari. In pratica, i positivi che vediamo sul bollettino non sono tutti quelli individuati da ogni regione.
MATTEO MARNATI – ASSESSORE RICERCA EMERGENZA COVID-19 REGIONE PIEMONTE Il cittadino che guarda vede diciamo un dato parziale di quello che è l’andamento dell’epidemia a livello nazionale e regionale.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO A partire dal numero dei positivi e dal numero dei positivi tracciati, la regione calcola la percentuale della propria capacità di tracciamento e la comunica all’Istituto Superiore di Sanità. Questo dato è uno dei 21 indicatori che servono a valutare lo scenario di rischio di ogni regione. Mentre invece il dato che attesta se effettivamente i contatti che possono aver contratto il virus siano stati ricercati, non viene richiesto.
ANDREA BELARDINELLI – DIRETTORE SANITÀ DIGITALE REGIONE TOSCANA Noi lo registriamo, ma non viene trasmesso.
ANTONELLA CIGNARALE Se una regione fa il 100%?
STEFANIA SALMASO - EPIDEMIOLOGA – ASS. ITALIANA EPIDEMIOLOGIA Vuol dire che ha parlato con il 100% dei suoi casi e si è fatto dare da ognuno di questi l’elenco dei propri contatti, poi se quei contatti sono stati rintracciati o meno qua non è compreso.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Tra le più brave a comunicare con il 100% dei positivi, chiedendogli la lista dei contatti, c’è la Basilicata. A confermarlo è il coordinatore della task force regionale, il direttore Ernesto Esposito.
ANTONELLA CIGNARALE La Basilicata nell’indicatore del tracciamento è al 100%, questo che vuol dire che tutti i positivi che voi trovate riuscite a tracciare la catena di contatti?
ERNESTO ESPOSITO – RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA È quello che ci dicono dalla periferia.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma a noi, a novembre, dalle periferie ci dicono altro POSITIVO 1 Non sono stato contattato da nessuno, oggi è il diciassettesimo giorno, soffriamo della sindrome dell’abbandono.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E purtroppo non è l’unico.
POSITIVO 2 Oggi è il mio quattordicesimo giorno che sono positivo al Covid, nessuno mi ha chiamato per chiedermi i contatti, nessuno!
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Di questi positivi che nessuno ha chiamato per la ricerca dei contatti stretti pare non se ne abbia contezza a partire dal dottor D’Angola, direttore sanitario dell’Asl di Potenza dove vediamo la centrale del contact tracing.
ANTONELLA CIGNARALE Ci risulta che ci sono positivi che sono ancora positivi della provincia di Venosa che non sono mai stati contattati per chiedere la lista dei contatti.
LUIGI D’ ANGOLA – DIRETTORE SANITARIO ASP – REGIONE BASILICATA Dovremmo riuscire…
ANTONELLA CIGNARALE C’è un positivo che addirittura sono passati 14 giorni quindi voglio dire non è che non vi è scappato ve lo siete proprio perso.
LUIGI D’ANGOLA – DIRETTORE SANITARIO ASP – REGIONE BASILICATA Non… Non… Potrebbe essere anche capitato, non mi risultano queste cose, però le dico con molta franchezza che il sistema è rodato.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sarà pure rodato ma quello che ci spiega un tracciatore è che i contatti stretti del positivo vengono prima riportati su questi fogli di carta e man mano che vengono chiamati, vengono inseriti nella piattaforma regionale.
TRACCIATORE Una volta che sono stati inseriti in piattaforma e che effettivamente sono stati contattati, esistono e sono all’attenzione del sistema.
ANTONELLA CIGNARALE Ok, quindi se te ne sei scordato qualcuno non rimane traccia, sei tu che…
TRACCIATORE Sì VINCENZO BARILE - EX MEMBRO TASK FORCE - REGIONE BASILICATA Ci vuole un’organizzazione per avere la certezza di tracciare tutte queste persone. È come se lei volesse andare, diciamo, sulla luna senza avere l’astronave. Noi l’astronave in questo momento non ce l’abbiamo.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il dottore Barile è stato responsabile della piattaforma regionale fino a dicembre, si è dimesso dalla task force regionale lamentando falle nell’organizzazione del sistema di tracciamento. Ma per il coordinatore della centrale operativa tutto funziona.
ANTONELLA CIGNARALE Quanti positivi ad esempio usciti oggi voi avete tracciato, cioè lei lo sa questo?
MICHELE DE LISA – DIR. UOC IGIENE EPID. SANITÀ PUBBLICA – ASP BASILICATA Io non posso dire quanti ne abbiamo tracciati, tutti li abbiamo tracciati e le assicuro che, se scappa qualcheduno, lo recuperiamo.
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ma a fine novembre da Venosa a Pisticci i sindaci lamentano il contrario e chiedono più personale. A Ferrandina, in provincia di Matera, il sindaco aveva addirittura chiesto di diventare zona rossa visti i ritardi sul tracciamento e l’aumento dei contagi.
GENNARO MARTOCCIA – SINDACO DI FERRANDINA (MT) Il tracciamento non ha funzionato perché la struttura non è stata potenziata a dovere.
MEDICO ASM MATERA Eravamo tre.
ANTONELLA CIGNARALE Per il tracciamento?
ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Nella sede centrale dell’ASL di Matera fino a metà novembre a occuparsi della ricerca dei potenziali contatti contagiati erano tre medici che svolgevano anche il lavoro ordinario, e due medici dell’USCO, che assistono i positivi a domicilio. E non si capisce come mai sulla carta la Basilicata si attesti al 100% e nella realtà non ne abbiamo avuto totale riscontro. Abbiamo provato a chiarirlo con il direttore Esposito.
ANTONELLA CIGNARALE Lei ci ha detto a noi così ci dicono le periferie per il 100%, ora come calcolate il 100%?
ERNESTO ESPOSITO - RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA Come calcoliamo il 100% per tutti quelli che ci sono.
ANTONELLA CIGNARALE Senta ma ci sono dei positivi che non sono mai stati chiamati a voi dove risultano?
ERNESTO ESPOSITO – RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA Assolutamente, assolutamente.
ANTONELLA CIGNARALE Noi li abbiamo sentiti, ci sono positivi che non sono mai stati chiamati per la ricerca dei contatti, quindi voi dove le calcolate queste persone?
ERNESTO ESPOSITO – RESPONSABILE TASK FORCE REGIONALE – REGIONE BASILICATA Assolutamente no.
ANTONELLA CIGNARALE Ad oggi il dato di qual è la percentuale di rischio di contagiarsi tra conviventi oppure sul luogo di lavoro non ce lo abbiamo a livello nazionale?
STEFANIA SALMASO - EPIDEMIOLOGA ASSOCIAZIONE ITALIANA EPIDEMIOLOGIA Non abbiamo un dato italiano solido. Queste informazioni sono state sicuramente raccolte a livello locale ma finché rimangono su carta o finché rimangono su sistemi locali non possono essere messi insieme per avere un po’ quella che è l’intelligenza proprio di tutta la pandemia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Cioè vedi che si liberano posti in terapia intensiva, uno gioisce e invece scopre che si sono liberati perché chi c’era dentro è morto. Ora, alla fine ha ragione un luminare, come il prof. Rezza che dice: se vuoi avere una percezione esatta dell’impatto del virus, alla fine devi contare i morti perché lì è il nodo. Insomma, abbiamo capito anche perché i dati dei contagiati è un dato effimero, c’è chi calcola i tamponi rapidi, chi no, e poi non sono del tutto attendibili. Quelli molecolari, che invece sono più attendibili, non ne sono fatti a sufficienza. Ecco, e poi ogni Regione si muove un po’ per conto suo, ha adottato il suo sistema di conteggio. Poi ci sono molti dati invece che non sono accessibili. Per questo una rete di cittadini e associazioni si è fatta promotrice di una petizione, #datibenecomune, cioè renderli a disposizione della collettività. Questo aiuterebbe anche a metabolizzare le misure restrittive che ci vengono in qualche modo imposte. Poi, prima o poi, bisognerà pensare a un hub digitale nazionale, che raccolga tutti i dati che vengono dalle periferie in modo veloce e anche raccolti, se possibile, in un modo standard, comune ecco.
· I Coronavirus.
L’Oms vuole combattere anche le malattie tropicali “trascurate”. Andrea Massardo su Inside Over il 5 febbraio 2021. Il passaggio della pandemia di coronavirus e la crisi sanitaria che è stata generata in modo diffuso in tutto il mondo ha messo in evidenza come la medicina – nonostante gli enormi passi in avanti dell’ultimo secolo – abbia ancora incredibile margine di miglioramento. Molteplici sono i fattori che infatti hanno provocato una sostanziale impreparazione, almeno nei primi mesi, dell’umanità nei confronti del virus del Covid-19: anni di tagli ai sistemi sanitari, pochi investimenti nella ricerca e squilibrio nella copertura medica mondiale. E oltre a questo, anche una troppa e cieca fiducia nell’invincibilità dell’uomo nei confronti delle malattie, convinzione nata dalla lunga scia di successi ottenuti dal dopoguerra sino al giorno d’oggi. La realtà dei fatti è però ben differente e questa visione deriva principalmente dal nostro vivere all’interno del mondo industrializzato, all’interno del quale le malattie ad alta trasmissibilità sono sempre state sconfitte, o quantomeno tenute a bada. In alcune parti del mondo (come in Africa, America equatoriale e nelle regioni più povere dell’Asia) lo scenario è ben differente, con alcune malattie che da anni vessano la popolazione senza che mai sia stato scoperta una cura efficace o un vaccino utile alla prevenzione. Ma sotto questo aspetto, forse, la pandemia di coronavirus e le conseguenze che una nuova malattia può arrecare alla comunità mondiale ha spinto l’Oms a concentrare la propria attenzione anche verso le malattie “dimenticate”, come nel caso delle malattie tropicali trascurate.
Malattie tropicali trascurate: un pericolo per un miliardo di esseri umani. Come riportato dal comunicato stampa dell’istituzione internazionale con sede a Ginevra, la sfida del decennio 2021-2030 sarà proprio quella di sconfiggere le 20 più pericolose malattie tropicali trascurate (o neglette). Presenti in aree cui popolazione aggregata supera infatti il miliardo di unità, esse sono una delle piaghe più terribili del Terzo mondo, soprattutto a causa della mancanza di cure efficaci e dei pochi fondi stanziati negli anni per la ricerca. Echinoccoccosi, Dracunculiasi e Framboesia sono solo tre delle patologie più frequenti, le quali – sebbene abbiano tassi di mortalità molto basse – sono anche la causa dell’alto tasso di disabilità e di sindromi epilettiche che colpiscono la popolazione dei Paesi più poveri del mondo. E soprattutto, sono una delle cause che contribuiscono al peggioramento della vita nelle zone rurali del mondo e altresì la perdita di potenziale forza lavoro soprattutto nelle campagne. Secondo le stime dell’Oms, attualmente sarebbero almeno un miliardo di persone quelle potenzialmente esposte al contagio delle 20 sindromi tropicali neglette e il loro numero sarebbe in costante aumento a causa dell’alta natalità delle regioni in questioni. In uno scenario che, senza movimentazione medica a riguardo, nell’arco di una ventina d’anni potrebbe divenire sostanzialmente incontrollabile.
L’importanza del Covid. Quando la nostra progenie studierà i difficili anni vissuti dall’umanità nella battaglia contro il coronavirus, probabilmente verrà messo in evidenza anche come per la prima volta nella storia il mondo si sia mosso – quasi – all’unisono nella ricerca di una cura e di un vaccino. E questa situazione, in fondo, ha dato anche un notevole impulso al potenziamento delle strutture sanitarie e dei laboratori di ricerca, favorendo quelli che saranno gli studi anche contro le altre malattie che vessano la popolazione mondiale. Grazie al potenziamento delle strutture, dunque, anche la lotta contro le malattie che al giorno d’oggi sono state più trascurate verrà svolta con maggiore efficacia. E in questo scenario, l’indirizzo dato dall’Oms nella lotta contro le malattie tropicali trascurate non è che un segnale di come le sindromi fino a questo momento considerate di “serie b” potranno ottenere maggiore attenzione dalla comunità scientifica. Quando usciremo dalla crisi sanitaria, dunque, non dovremo vedere a quanto vissuto come una semplice finestra negativa della nostra esistenza. Essa infatti ci ha messo di fronte alla necessità di affrontare anche quelle sfide che consideravamo forse vinte con troppo anticipo, come la battaglia contro le malattie epidemiche. E sotto questo aspetto, dunque, forse ci ha fornito la spinta propositiva necessaria per arrivare davvero, un giorno, a considerarci completamente al sicuro dalle malattie che affliggono l’intera umanità.
Che cos’è il Nipah, l’altro virus che preoccupa gli scienziati e il mondo. Vito Califano su Il Riformista il 18 Gennaio 2021. Ci sono moltissime cose in comune tra il coronavirus e il Nipah, altro virus di origine animale che fa paura e che preoccupa gli scienziati. Come se non fossero abbastanza gli oltre due milioni di morti causati dalla pandemia da coronavirus. Ed è proprio perché era stata ampiamente pronosticata la pericolosità di un’epidemia mondiale, anche nelle dimensioni di un mondo globalizzato, e quindi ipotizzata per vastità e gravità, che occorre informare su altre situazioni a rischio. Prima di gridare all’allarmismo meglio ricordare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) rinnova continuamente la sua lista di patogeni che potrebbero diventare delle emergenze di salute pubblica. Nipah, quindi, che cos’è? La genesi è simile anch’essa a quella del coronavirus. L’Asia è il continente sotto osservazione: ci vive il 60% della popolazione Mondiale, tra a Asia e Pacifico, dove tra l’altro è in corso una rapida urbanizzazione. La Banca Mondiale stima in 200 milioni le persone che tra il 2000 e il 2010 si sono trasferite in Asia Orientale. Una rapidissima urbanizzazione. Il virus della covid-19 è sorto in primis in Cina, nella città focolaio di Wuhan, nei wetmarket – a dispetto delle teorie senza alcuna dimostrazione che tirano in ballo laboratori o complotti vari. Il Nipah è un’infezione virale e si è presentata per la prima volta nel villaggio di Sungai Nipah, in Malesia. La malattia è stata identificata per la prima volta nel 1998, il virus isolato nel 1999. Niente di nuovo insomma: il film Contagion del 2011 – e citato spesso nella prima fase della pandemia da coronavirus – era ispirato proprio al Nipa; un altro film del 2019, Malayalam Virus, è stato ispirato sull’epidemia di Nipah nel Kerala indiano del 2018 – morirono 17 persone. “C’è grande preoccupazione perché non esiste un trattamento e questo virus ha un alto tasso di mortalità”, ha commentato a Bbc Supaporn Wacharapluesadee del Centro di Scienze e Malattie Infettive emergenti della Croce Rossa tailandese di Bangkok. La professoressa ha fatto parte negli ultimi 10 anni di Predict, un progetto mondiale per rintracciare e contenere malattie che possono passare dagli animali agli esseri umani. Il tasso di mortalità è compreso tra il 40% e il 75%. Non esiste un vaccino. Le ragioni della diffusione del virus sono le stesse del Sars-Cov-2, ovvero la crescita della popolazione umana e l’aumento del contatto tra persone e animali selvatici. Si tratta di un virus che nasce nelle Regioni tropicali che hanno una ricca varietà di biodiversità. Può presentare sintomi come febbre, tosse, mal di testa, encefalite, respiro corto. Le complicazioni possono portare all’infiammazione del cervello, a convulsioni, al coma. Ci sono varie ragioni, per l’esperta, che rendono il Nipa così pericoloso. Il periodo di incubazione, che può arrivare a 45 giorni; la possibilità di contagiare un’ampia gamma di animali; le probabilità di contagio diretto o attraverso il consumo di alimenti contaminati. Gli ospiti naturali del Nipah sono i pipistrelli della frutta – altro punto di contatto con il coronavirus. Il virus si propaga attraverso il contatto diretto con una fonte infetta. Anche i suini possono essere infettati. Si tratta quindi di zoonosi anche in questo caso, ovvero di malattia infettiva che può passare dall’animale agli esseri umani. “La propagazione di questi patogeni e il rischio di trasmissione accelerano con la trasformazioni nello sfruttamento della terra come la deforestazione, l’urbanizzazione e l’agricoltura intensiva”, hanno scritto gli autori di uno studio del 2020 dell’Università di Exeter sulle malattie zoonotiche emergenti, Rebekah J. White e Orly Razgour.asia
Cristina Marrone per corriere.it il 18 gennaio 2021. Milioni di persone nel mondo stanno ricevendo il vaccino contro il coronavirus e, come in tanti tra politici e scienziati stanno ripetendo, si vede la luce in fondo al tunnel, anche se la strada è ancora lunga. Ma come si concluderà l’epidemia che ha sconvolto il globo? Come sarà l’era post-vaccino? Probabilmente non ci sbarazzeremo della malattia di punto in bianco. Sarà piuttosto un lungo addio (anche se sui tempi mancano certezze) con un periodo di convivenza decisamente più gestibile di quanto stiamo vivendo ora. Data l’elevatissima diffusione di Sars-CoV-2 è difficile che i vaccini riescano a debellare del tutto l’infezione, ma è realistico pensare che la malattia Covid-1, causata dal coronavirus, diventerà endemica. Sarà quindi molto diffusa ma, una volta che la maggior parte della popolazione sarà immune, a seguito di infezione naturale o vaccinazione, il virus non sarà una minaccia più di quanto non lo sia un comune raffreddore secondo uno studio appena pubblicato su Science.
Milioni di persone ancora suscettibili. Il fatto che la maggior parte delle persone nel mondo non abbia ancora contratto l’infezione indica che il nuovo coronavirus ha ancora a disposizione una vasta popolazione suscettibile: uomini e donne dove il virus può replicarsi. Nei prossimi mesi però, grazie alla campagna vaccinale e l’immunità naturale di chi si è ammalto ed è guarito, la corsa del patogeno dovrebbe quanto meno rallentare. Non succederà ovunque nello stesso modo. Nelle aree densamente popolate o con ancora un alto numero di popolazione suscettibile , Covid continuerà a circolare in modo sostenuto. Basti pensare alla Lombardia, che con i suoi 10 milioni di abitanti è la regione più popolosa d’Italia: qui i contagi sono sempre elevati.
Infezione endemica. Oggi il virus è una minaccia perché si tratta di un patogeno sconosciuto che può sopraffare il sistema immunitario adulto che non è stato addestrato a combatterlo. Ma non sarà più così una volta che tutta la popolazione mondiale sarà stata esposta al virus o avrà fatto un vaccino. Il quadro delineato dagli scienziati nel nuovo studio è confortante. Se SarsCoV2 seguisse le orme di altri coronavirus responsabili del comune raffreddore, l’infezione potrebbe notevolmente attenuarsi: secondo le previsioni, potrebbe colpire la prima volta entro i 3-5 anni di età con sintomi modesti, per poi ripresentarsi in età adulta, ma in modo ancora più lieve. In altre parole il coronavirus ha tutte le caratteristiche per diventare endemico: cioé sarà un patogeno che circola a bassi livelli e solo raramente causerà malattie gravi.
Gli altri coronavirus. Lo studio su Science è stato condotto dai ricercatori della Emory University e della Penn State University, negli Stati Uniti. La ricerca si basa su dati epidemiologici e immunologici relativi al virus della Sars del 2003 (poi rientrato nel bacino animale) , quello della Mers del 2012 (che causava una malattia grave ma per fortuna non si è diffuso) e altri quattro coronavirus umani diventati ormai endemici, cioè virus diffusi nella popolazione che continuano a circolare a bassi livelli, causando per lo più sintomi modesti.
Il tasso di letalità destinato a calare. I ricercatori, in particolare, hanno tenuto conto di diversi aspetti immunologici, ovvero la suscettibilità alla reinfezione, l’attenuazione della malattia e la sua trasmissibilità in caso di seconda infezione. Il modello, usato per prevedere la traiettoria della pandemia di Covid-19 nel prossimo decennio, mostra che una volta raggiunto lo stato endemico, il tasso di letalità di SarsCoV2 potrebbe scendere al di sotto di quello dell’influenza stagionale rendendo Sars-CoV-2 simile ai quattro coronavirus del raffreddore già con noi da anni. Gli scienziati, in uno studio precedente, avevano osservato che la prima infezione da coronavirus del raffreddore comune si verifica in media tra i 3-5 anni. Dopo le persone possono infettarsi più e più volte, aumentando la loro immunità e mantenendo il virus in circolazione ma non si ammalano seriamente. È inoltre plausibile che i vaccini prevengano la malattia grave, ma non necessariamente l’infezione e la trasmissione e questo significa che il coronavirus continuerà a circolare. Senza fare i danni che sta facendo ancora oggi.
Il nodo dei tempi. Quanto tempo ci vorrà? La risposta per ora resta un’incognita: tutto dipenderà dalla velocità di diffusione del virus e dalla rapidità con cui verrà effettuata la vaccinazione di massa. Il percorso non sarà lineare e privo di intoppi, come abbiamo appena visto con il taglio nella consegna delle dosi da parte di Pfizer in tutta Europa.«Ci stiamo muovendo in un territorio inesplorato - ammette il biologo Ottar Bjornstad della Penn State University -, ma il messaggio chiave derivante dallo studio è che il tasso di letalità e il bisogno di una vaccinazione di massa potrebbero declinare a breve termine: quindi bisogna fare il massimo sforzo possibile per spianare la strada che porterà questo virus pandemico a diventare endemico». I vaccini accelerano di molto la rapidità in cui un virus può diventare endemico per questo occorre fare presto, senza lasciare indietro nessuno. «È improbabile che i vaccini sradichino il coronavirus- ha commentato Jennie Lavine, del Dipartimento di Biologia presso la Emory University di Atlanta, che ha guidato lo studio - ma è realistico pensare che diventerà un abitante permanente, anche se più benigno, del nostro ambiente».
Altri scenari. Come detto il modello utilizzato dallo studio si basa sul presupposto che il nuovo coronavirus sia simile ai comuni coronavirus del raffreddore. «È uno scenario piuttosto probabile, ma non c’è una garanzia che sia davvero così perché non abbiamo visto che cosa possono fare quei coronavirus su persone anziane che non sono mai state esposte a questi virus» ha commentato sul New York Times Marc Lipsitch, epidemiologo presso la Harvard TH Chan School of Public Health di Boston. «Il virus potrebbe anche diventare simile all’influenza stagionale che in alcuni anni è lieve e in altri più letale. Certamente la comparsa di varianti che sfuggono alla risposta immunitaria potrebbero complicare il quadro generale».
· La Febbre.
IN ATTESA DI GUARIRE. Da abbassolafebbre.it il 09/12/2020.
La febbre da sei mesi in su. Mano a mano che il bimbo cresce, la febbre perde quel carattere di “urgenza” che deve essere invece avere quando è neonato. Vediamo quali sono le caratteristiche (e le indicazioni) per il giusto approccio nei confronti dei rialzi febbrili dai 6 ai 24 mesi. Dopo i sei mesi di vita il bambino è particolarmente soggetto alle malattie virali perché viene meno l’azione biologica e protettiva del latte materno, il quale non è più un alimento esclusivo. Inoltre, cominciando l’avventura degli asili nido (per chi ci va) è più facile entrare in contatto con germi che, pur non essendo particolarmente pericolosi, sono molto virulenti. La febbre, comunque, non va drammatizzata: a sei mesi molte delle malattie più pericolose del periodo neonatale sono rare. E quindi, più che la febbre, è necessario valutare con il pediatra la comparsa di eventuali altri sintomi. Se nei primissimi mesi di vita ogni rialzo febbrile deve essere monitorato con molta attenzione per via della fragilità del bambino piccolo, è chiaro e intuitivo che, con il passare dei mesi, aumenta la resistenza e la capacità di reazione nei confronti delle aggressioni virali, tipiche dell’infanzia. Ci troviamo però, allo stesso tempo, in una situazione in cui mamme e papà rischiano di sentirsi un po’ spaesati, perché molto spesso le linee guida si soffermano sulle indicazioni per i neonati, ma sono meno chiare in relazione a che cosa fare con bambini anche solo poco più grandi. Uno dei motivi per cui si tende a concentrare più attenzioni alla fase neonatale riguarda il fatto che ci sono alcune malattie, sfortunatamente anche gravi, che tendono a manifestarsi proprio in questa finestra temporale e che, con il tempo, diventano statisticamente meno frequenti. Al di là di quelle a trasmissione diretta di infezioni da madre a bambino, l’attenzione è rivolta anche al virus respiratorio sinciziale, responsabile della bronchiolite. Inoltre, specie nei primi mesi, i bambini malati sviluppano sintomi molto poco specifici, qualunque sia il germe che ha provocato la malattia: febbre, vomito, diarrea è la classica triade di manifestazioni che, invece, dopo i sei mesi, tende a differenziarsi un po’ di più, offrendo così ai genitori qualche indizio ulteriore per comprendere quale possa essere la causa del rialzo della temperatura. Un altro aspetto importante che va considerato nei bambini al di sopra dei sei mesi è il seguente: entrano in una fascia di età in cui è possibile che inizino a frequentare gli asili nido. Ebbene l’alta circolazione di germi, soprattutto dei virus, unita a una scarsa “competenza immunitaria” (il sistema delle difese del bambino giunge a maturazione più avanti) fa sì che in questa fase della vita i piccoli si ammalino spesso. Al punto che, fino ai 2 anni di età, possono presentarsi anche sei episodi infettivi in un solo anno. Paradossalmente il neonato nei mesi di esclusivo allattamento al seno è più protetto, poiché nel latte materno passano anche sostanze immunologicamente attive in grado di difenderlo laddove lui, con i suoi anticorpi, non riuscirebbe.
Come comportarsi. Poste queste premesse è importante allora sapere come affrontare questa maggiore vulnerabilità del bambino di età compresa tra i sei mesi e i due anni, in modo da rivolgersi al pediatra di libera scelta (o al pronto soccorso pediatrico) in maniera appropriata, senza ansie ma anche senza sottovalutazioni. Il rialzo febbrile nel bambino con più di sei mesi non deve essere vissuto con quella idea di urgenza che contraddistingue invece lo stato di malattia nel neonato. Laddove nel primo mese il ricorso al pronto soccorso pediatrico è assolutamente raccomandato dalle linee guida della Società Italiana di Pediatria, dopo il sesto mese il consulto con il pediatra di libera scelta rappresenta la soluzione migliore. E, sulla base dei sintomi, si potrà stabilire la necessità di una visita e in quali tempi. Va comunque considerato come anche una eventuale febbre alta non sia di per sé indicativa di malattia grave: le infezioni virali possono infatti causare impennate di temperatura molto rapide e importanti, pur trattandosi spesso di infezioni non pericolose per un bambino sano. In caso di febbre, a partire dai sei mesi in su, la prima cosa da fare è misurare la temperatura con un termometro elettronico posto in sede ascellare. La temperatura può essere presa ogni 4/6 ore ma le misurazioni più significative sono quella del mattino (attorno alle 10) e quella della sera (attorno alle 18). Il pediatra va consultato telefonicamente per verificare l’opportunità di una visita, sapendo però che alcuni sintomi richiedono un approccio di urgenza. Questi sono: la comparsa di lesioni simili a lividi sulla pelle, uno stato di torpore associato a rigidità della nuca e segni di disidratazione (come l’eventuale fontanella infossata, occhi cerchiati e infossati anch’essi, pelle e labbra secche, mancanza di salivazione e scarse urine e molto concentrate). Per il resto, il bambino va tenuto poco vestito perché possa scambiare con facilità la temperatura con l’esterno e gli va proposto spesso da bere, poiché l’idratazione è più importante dei cibi solidi, nella fase acuta di malattia.
· Protocolli sbagliati.
Antonio Giangrande: Covid. Immunità di gregge o Lockdown e coprifuoco?
L'Immunità di gregge è l'infezione totale ed immediata, tale da scongiurare la reinfezione, ove sussistesse come nel Coronavirus. La pandemia si estinguerebbe naturalmente in breve tempo.
Il Confinamento-Quarantena (Lockdown) e Coprifuoco è l'infezione graduale che, ove si manifestasse la reinfezione, sarebbe duratura e mai totale. La pandemia, negli anni, si fermerebbe, inibendo il protrarsi dell'infezione, tramite la prevenzione con i vaccini periodici, a secondo la variante del virus, che attivano gli anticorpi nei soggetti più forti, o con le cure con gli antivirali (combattono le cause) ed antinfiammatori (leniscono gli effetti). La quarantena è preferita per la speculazione effettuata su prevenzione e cura.
Immunità di gregge. Sarebbe un sistema che ci permetterebbe di uscire dalla crisi in tempi brevi senza restrizione. Il Virus circola liberamente. Ci sarebbero asintomatici, paucisintomatici e sintomatici lievi e gravi, i quali, quest'ultimi, sarebbero ricoverati e curati con qualsiasi cura disponibile, anche quelle osteggiate, ma efficaci. Ma è No! No. Non perchè, per media prezzolati ed allarmisti, per politici incapaci e per pseudoesperti virologi di sinistra, morirebbe troppa gente, ma perchè la malconcia sanità italiana non potrebbe sopportare lo stress dei ricoveri. Ergo: i morti sarebbero tali per la malasanità e non per il virus.
Lockdown e coprifuoco: misure per salvare vite umane? No! Misure deleterie per l'economia, ma obbligate per nascondere il fallimento della Sanità. Foraggeria e tagli. Clientelismi e nepotismi per la cooptazione e favoritismi al Privato hanno ridotto il sistema sanitario a dover adottare l'unica scelta: confinare i cittadini e centellinare i ricoveri per Covid per mancanza di personale ed infrastrutture, impedendo la cura, inoltre, di altre patologie, il cui numero di morti conseguenti è taciuto. Infartuano i pazienti per non collassare gli ospedali. Taglia, taglia che qualcosa resterà!
Insomma: confinamento e crisi economica è il prezzo da pagare per salvare la faccia ed i finanziamenti a pioggia a soggetti fisici e giuridici tutelati a fini elettorali. Finanziamenti che, se veicolati sulla sanità, porterebbe questa ad affrontare qualsiasi emergenza.
Dagotraduzione dal Daily Mail il 28 ottobre 2021. Solo due mesi fa, la Florida stava vivendo una delle peggiori ondate di Covid-19 degli Stati Uniti. Lo stato aveva la media più alta di casi al giorno su base settimanale, e il più alto tasso di ospedalizzazione del paese. Nonostante i numeri, il governatore Ron DeSantis non ha ordinato nuove restrizioni, né chiusure. Sosteneva che il picco fosse dovuto a un ciclo stagionale del virus e invitava i residenti a farsi vaccinare, ma senza obbligare nessuno. Oggi la crisi in Florida sembra superata. Senza spiegazioni apparenti, i casi e i decessi sono diminuiti nonostante DeSantis non abbia fatto in sostanza nulla per mitigare la situazione. I dati del CDC (Centers for Disease Control and Prevention) hanno mostrato che la Florida sta registrando i dati migliori del paese su nuovi contagi e mortalità. La Florida va bene quanto la California, con la sola differenza che a Miami e dintorni hanno adottato un approccio molto rigoroso, con obbligo di mascherine, limitazione agli assembramenti e divieto di frequentare locali al chiuso. Durante l’estate il governatore DeSantis si era difeso dalle critiche dichiarando che lo Stato aveva grande successo nel trattamento precoce dei pazienti Covid con gli anticorpi monoclonali. All’epoca medici ed esperti di salute pubblica dissero che l’approccio di DeSantis era una scommessa, ma ad oggi sembra aver dato i suoi frutti. Ma secondo David Leonhardt del New York Times, il virus sembra seguire un ciclo di due mesi. Una delle spiegazioni è che il virus esaurisca la sua carica virale dopo due mesi: non trovando più nessuno da infettare, si esaurisce. Da quando è iniziata la pandemia, il Covid ha spesso seguito un ciclo regolare, anche se misterioso. «Un paese dopo l’altro, il numero di nuovi casi è spesso aumentato per circa due mesi prima di iniziare a diminuire» ha scritto Leonhardt. «La variante Delta, nonostante la sua intesa contagiosità, ha seguito questo schema».
Covid, la variante Delta e la sfida dell'immunità di gregge. Maria Girardi il 29 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'importante studio sulla pandemia è stato condotto dai ricercatori del National Centre of Disease Control e dall'Institute of Genomics and Integrative Biology (India). Il grave focolaio di Covid a Delhi nel 2021 ha dimostrato non solo che la variante Delta è estremamente trasmissibile, ma che è altresì in grado di infettare individui già venuti in precedenza a contatto con un'altra variante. A questa conclusione è giunto uno studio condotto dai ricercatori del National Centre of Disease Control e dal CSIR Institute of Genomics and Integrative Biology (India) e pubblicato su "Science". I dati dell'Indian Council of Medical Research parlano chiaro. Il virus si era diffuso ampiamente nel continente durante la prima ondata, quando risultava positivo un adulto su cinque (21%) e un adolescente su quattro (25%) di età compresa fra i 10 e i 17 anni. Le cifre erano molto più alte nelle megalopoli indiane: qui, a febbraio 2021, oltre la metà degli abitanti (56%) aveva contratto il coronavirus. Dal momento in cui il primo caso di Covid è stato rilevato a Delhi nel marzo 2020, la città ha dovuto fare i conti con diversi focolai, a giugno, a settembre e a novembre dello stesso anno. Dopo aver raggiunto un massimo di quasi 9mila contagi giornalieri a novembre 2020, l'incidenza è diminuita in maniera costante, con poche infezioni tra dicembre 2020 e marzo 2021. La situazione si è invertita drasticamente ad aprile 2021, mese in cui si sono raggiunti i 20mila casi al giorno con conseguente aumento dei ricoveri in terapia intensiva e pressione sul sistema sanitario. Nella ricerca in questione gli scienziati hanno studiato l'epidemia avvalendosi di dati genomici, epidemiologici e modelli matematici. Per determinare se le varianti di Covid fossero responsabili dei contagi di aprile 2021 a Delhi, il team ha sequenziato e analizzato campioni virali della città riferiti al precedente focolaio del novembre 2020 fino a giugno 2021. Si è scoperto che i focolai del 2020 non erano correlati a nessuna variante preoccupante. La variante Alpha è stata identificata solo in maniera occasionale e principalmente nei viaggiatori stranieri fino a gennaio 2021. La stessa variante è aumentata a Delhi di circa il 40% (marzo 2021) prima di essere sostituita da un rapido incremento della variante Delta (aprile 2021). Applicando la modellizzazione matematica ai dati epidemiologici e genomici, gli studiosi hanno scoperto che la variante Delta era fra il 30-70% più trasmissibile rispetto ai precedenti lignaggi del Covid a Delhi. Inoltre la stessa variante era in grado di infettare persone che in precedenza erano già entrate in contatto con il virus. Per cercare prove effettive di reinfezione gli scienziati hanno esaminato una coorte di soggetti reclutati dal Consiglio della ricerca scientifica e industriale indiano. A febbraio il 42,1% dei partecipanti non vaccinati era risultato positivo agli anticorpi contro il coronavirus. A giugno il numero corrispondente era dell'88,5%. Ciò suggeriva tassi di infezione molto elevati durante la seconda ondata. Tra i 91 individui con precedente infezione (prima dell'avvento della variante Delta), circa un quarto (27,5%) ha mostrato un aumento dei livelli anticorpali e quindi un'evidente reinfezione. Quando i ricercatori hanno sequenziato tutti i campioni di casi di vaccinazione in un singolo centro durante il periodo dell'indagine, hanno scoperto che tra le 24 infezioni segnalate, la variante Delta aveva sette volte più probabilità di contagiare nonostante il vaccino. Secondo gli scienziati il concetto di immunità di gregge è fondamentale per porre fine alle epidemie. Tuttavia la situazione a Delhi mostra che l'infezione con precedenti varianti di Covid sarà insufficiente per raggiungere l'immunità di gregge contro la variante Delta. «L'unico modo per porre fine o prevenire le epidemie di Delta - ha concluso il professor Ravi Gupta del Cambridge Institute of Therapeutic Immunology and Infectious Disease -è l'uso di richiami vaccinali che aumentano i livelli di anticorpi in maniera tale da superare la capacità della variante di eludere la neutralizzazione anticorpale».
Maria Girardi. Nasco a Bari nel 1991 e qui mi laureo in Lettere Moderne con una tesi su L'isola di Arturo di Elsa Morante. Come il giovane eroe morantiano, sono alla perenne ricerca della mia "Procida" e ad essa approdo mentre passeggio in mezzo al verde o quando vedo film drammatici preferibilmente in bianco e nero.Bibliofila fin dalla più tenera età, consento ai libri di leggermi e alla poesia di tracciare i confini della mia essenza
Maurizio De Giovanni per "la Stampa" il 9 ottobre 2021. È sperabile che tra qualche anno sarà divertente parlare del metro che venne meno all'inizio di ottobre del Ventuno. Cento centimetri che con il passare del tempo a noi distanziati sono sembrati mille, diecimila. Certo, bisognerà che sia un addio e non un arrivederci; e che come sempre dovrebbe accadere, a partire da oggi ogni giorno sia migliore del precedente e peggiore del successivo. Bisognerà aver dimenticato molte cose, immergendosi in una ripresa che avrà il colore e il sapore di un dopoguerra, come quando agli inizi degli anni Sessanta del Novecento si divenne finalmente consapevoli che la guerra era finita, che le macerie erano state rimosse e che si poteva solo migliorare. Bisognerà che, come nel terzo atto di Napoli Milionaria, nessuno abbia più voglia di sentire incombente il pericolo e che la malattia e la morte siano definitivamente dietro le spalle; e che i reparti di terapia intensiva siano ormai vuoti, con i letti liberati per le ordinarie emergenze. Dovrà insomma essere dimenticato il rischio della vita, e la lotta a questo invisibile terribile nemico dovrà essersi ridotta a una punturina da fare a inizio della brutta stagione, magari comprensiva di quella per l'influenza generica, quella non legata a oscuri laboratori orientali e a pipistrelli infetti venduti in mercati cinesi (che poi, ci chiediamo con un brivido a chi venga mai voglia di comprare un pipistrello a fini alimentari). E dovremo, per parlarne con leggerezza, aver dimenticato curve e grafici e virologi divenuti divi del piccolo schermo, dai gravi accenti e dalle nere previsioni. Le scuole dovranno essere pienamente popolate, come negozi e uffici; e il mondo dovrà essere di nuovo un luogo sicuro, in cui saranno visibili i sorrisi e ci si potrà salutare con un cenno del capo, consapevoli dell'altrui gradimento verso il nostro cenno. E non si dovrà più avere l'impressione straniante di essere diventati sordi, per le parole attutite da barriere FFp2 e l'impossibilità di integrare i suoni percepiti con un minimo di lettura delle labbra. Al sottoscritto, in particolare, il Covid ha portato un'ulteriore brutta notizia: la certezza di un'ipoacusia galoppante. Di tante, troppe cose brutte accadute negli ultimi anni, la peggiore è sicuramente stata il cosiddetto distanziamento sociale. Certo, le perdite subite e le immagini dei camion carichi di bare in fila nelle strade deserte sono una ferita impossibile a rimarginarsi; e nessuno potrà dimenticare i pomeriggi passati a fissare dalle finestre il silenzio di città abbandonate. Ma il non potersi abbracciare, il non potersi stringere ha inciso non poco nel venir meno del coraggio e nell'incremento della paura. È per questo che oggi la notizia dell'abolizione del metro di distanza necessario in ogni luogo aperto e chiuso come misura preventiva del contagio riveste un'importanza molto maggiore di quella che potrebbe apparire, nelle pieghe del susseguirsi di intese e malintesi interni ed esterni a maggioranze e minoranze, di estimi e di catasti, di piani e di resilienze. Ci spingeremmo quasi ad affermare che, sotto l'aspetto simbolico, è la prima vera buona notizia da molti mesi; e che per molti versi potrebbe segnare l'inizio della vera ripresa, quella sperabilmente senza ritorno. Ci pensate? Basta col criterio del congiunto, del convivente, del confinante e del limitrofo. Ci si potrà urtare casualmente, si potrà capitare seduti vicini al cinema o al teatro e perfino scambiarsi opinioni sul film o sullo spettacolo. Si potranno fare file senza guardarsi in cagnesco nel momento in cui inavvertitamente si arriva a novanta centimetri di distanza, e si potrà forse anche starnutire al chiuso, se proprio scappa, senza essere fissati con riprovazione come terroristi. Dietro semplice esibizione di una schermata del telefonino o di un foglio stampato a casa ci si potrà stringere la mano e parlarsi confidenzialmente avvicinandosi a distanza d'orecchio. Si potrà fare amicizia. Si potranno fare nuovi incontri, stringere conoscenza con persone che non abitano nello stesso appartamento senza sentirsi in colpa. Si potrà recarsi a uno spettacolo, a un incontro culturale o a un evento sportivo decidendolo anche all'ultimo minuto, senza prenotare a pioggia sulla rete, nella speranza di rientrare nel ristrettissimo numero degli ammessi al venticinque per cento. Si potrà sedere sotto lo stesso sole e davanti allo stesso mare, o sulla stessa terrazza di fronte al panorama. Si potrà salire su un aereo o su un treno senza rintanarsi sulla parete del veicolo, lanciando occhiatacce acciocché nessuno osi avvicinarsi troppo. Un metro è un metro, in fondo. Meno di un passo, un po' più della maggior parte delle braccia. Ma è diventata in quest' epoca buia una distanza siderale, perché quel metro ha diviso me da te, e noi da loro. Ha imposto paura, incertezza, pessimismo e soprattutto solitudine. Per questo, tra tante cose, sarà proprio questo metro che non dovremo dimenticare. Perché quel metro per due anni ha separato l'esistere dal vivere; e ora che non c'è più, la sua assenza dovrà accompagnare la voglia di rinascere.
Covid, le barriere in plexiglas proteggono davvero dal contagio? Lo studio pubblicato sul NYT. Asia Angaroni il 24/08/2021 su Notizie.it. I divisori in plexiglas funzionano davvero? Secondo alcuni studi, potrebbero ostacolare il ricambio d’aria negli ambienti, generando un effetto contrario. Con lo scoppio dell’emergenza Covid abbiamo imparato a convivere con la mascherina e con i plexiglas, ormai presenti in negozi, tabaccherie, locali, supermercati, uffici e non solo: ma davvero le barriere in plexiglas proteggono dal rischio di contagio? Quando la pandemia è scoppiata anche nel nostro Paese, a fine febbraio 2020, negozi, uffici, supermercati e non solo si sono muniti di divisori in plexiglas. Sono state tra le prime indicazioni fornite e consigliate ad aziende e piccoli imprenditori, affinché mantenessero le dovute distanze dai clienti e/o dagli altri colleghi presenti sul posto di lavoro. Tuttavia, non mancherebbero gli effetti controproducenti. A evidenziarli è uno studio pubblicato sul New York Times: all’apparenza il plexiglas agisce come la mascherina, bloccando le goccioline che escono da naso e bocca di chi sta davanti a noi, ma al contrario rappresenta solo un falso senso di sicurezza. Il virus, infatti, viaggia principalmente via aerosol e le goccioline leggere restano nell’aria. Inoltre, i divisori potrebbero ostacolare il corretto ricambio d’aria negli ambienti chiusi. Arieggiare adeguatamente una stanza, aprendo con frequenza le finestre per alcuni minuti, permette di limitare il rischio di contagio anche in luoghi affollati, come le classi scolastiche. Al contrario, le barriere rallenterebbero il riciclo d’aria e potrebbero formarsi “zone morte” dove l’aria non viene pulita e il virus può concentrarsi ad alti livelli. Secondo alcuni studi condotti sui contagi da Covid-19, i divisori in plexiglas avrebbero un’efficacia parziale, generando persino effetti controproducenti. A spiegarlo è Linsey Marr, professore di Ingegneria alla Virginia Tech di Blacksburg, che dichiara: “Una foresta di barriere in un’aula interferisce con la corretta ventilazione”. Quindi ha precisato: “Gli aerosol di tutti i presenti saranno intrappolati e si accumuleranno, finendo per diffondersi al di fuori dello spazio individuale”. Una volta sottolineati i possibili effetti controproducenti dei divisori in plexiglas, resta fondamentale ribadire l’importanza di vaccini e mascherine. Gli studiosi condividono la necessità di vaccinare insegnanti, studenti e lavoratori e imporre l’uso della mascherina. Importante anche migliorare la qualità dell’aria, per esempio servendosi di depuratori con filtri di tipo Hepa. Le barriere in plexiglas, inoltre, spesso vengono disposte all’interno di una stanza senza il supporto di esperti che possano valutarne gli effettivi benefici. A tal proposito, Richard Corsi, professore di Ingegneria all’Università della California, ha commentato: “Ogni stanza è diversa in termini di disposizione dei mobili, altezza delle pareti e dei soffitti, finestre e porte. Tutte queste cose hanno un enorme impatto sul flusso effettivo e sulla distribuzione dell’aria”.
Enrico Pirondini per "blitzquotidiano.it" il 3 novembre 2021. Covid, Enrico Pirondini annota nel suo diario. Scrivo ancora dal bunker Covid di Reggio Emilia. Padiglione infettivi. Blindato e isolato da giorni. Letto 14. In stanza entrano solo infermieri con scafandro. Sembrano palombari. Poche parole, gesti sicuri, tante accortezze. Il virus fa paura. È in arrivo un’altra ondata. C’è un ottimismo solo di facciata, per non allarmare i pazienti, pesantemente provati dal Covid, dalle cure martellanti, dalla solitudine. Sono momenti difficili, l’anima “non vibra più” come diceva la poetessa Alda Merini. La solitudine è una pace inaccettabile. Perché “imposta”, perché nutre pensieri cupi, perché è il campo da gioco di satana. I palombari lo sanno e ti sommergono di antidepressivi. Le cure cominciano all’alba con la misurazione della temperatura e della glicemia. E si va avanti fin quasi a mezzanotte. Con prelievi, antibiotici, misteriosi infusi (misteriosi almeno per me), tac a sorpresa, tamponi molecolari.
Iniezione di eparina nella pancia alla sera
Prima di cena (al tramonto) non manca mai l’iniezione di Eparina nella pancia; è un farmaco “efficace è sicuro “, garantisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità. È un formidabile anticoagulante, mi mette al riparo da eventuali trombosi. La circolazione del sangue è salva. Medici e paramedici seguono rigorosi protocolli. Sono regolarmente vaccinato e, con mia moglie, ho beccato il Covid. Come è stato possibile? Chi l’ha trasmesso se eravamo in quarantena volontaria? Mistero. Forse tutto è partito da una nipotina in visita che era negativa al tampone e nessuno immaginava invece che il virus era già in viaggio.
Limitata copertura del vaccino anti covid: serve la terza dose
D’accordo. E le nostre vaccinazioni? Mi sono fatto un’idea, peraltro condivisa nel mio padiglione: i vaccini hanno una “copertura” di fatto inferiore alle attese. Di qui la necessità della terza dose.
Sarà. A complicare il quadro va ricordato che nessuno dei sintomi simil-influenzali (febbre, tosse, mal di testa, respiro corto, dolori muscolari, stanchezza, perdita dell’olfatto e del gusto) si era manifestato prima del fatal tampone positivo. Quindi l’arrivo del 118, il ricovero urgente, sette ore in barella al Pronto soccorso (intasato), l’isolamento nel reparto bunker, le cure tempestive, la stanzetta blindata. Comunico solo con il tablet. Gli amici vogliono sapere. A tutti raccomando l’igiene personale e di stare molto attenti. E limitare – ad esempio – il contatto con le superfici potenzialmente infette negli spazi pubblici: corrimano, maniglie, sostegni, pulsanti. E pure le merci nei supermercati: sono potenziali veicoli di contagio. E se qualcuno ha ancora dei dubbi venga qui nel padiglione (strapieno) degli infettivi, sentirà storie illuminanti.
Mascherine di ossigeno e antibiotici a grappoli
E scoprirà come si vive aggrappati a mascherine di ossigeno, flebo, aghi nelle vene, grappoli di antibiotici detti “antivita”. Perché è vero che fanno strage di batteri ma si fanno pagare salato, impoveriscono la nostra flora batterica indiscriminatamente. Non distinguono i batteri buoni da quelli cattivi. Paradossalmente rinforzano alcuni batteri pericolosi che, come ogni forma di vita, si adattano per sopravvivere alle minacce. Si imparano molte cose a stare qui. Prima fra tutte: state alla larga da questi padiglioni. Se potete. E contate sul vaccino. Sennò dovrete contare parecchi giorni di solitudine e sofferenza. Sono dolori che rovesciano la vita.
Dagotraduzione dal New York Times l'1 agosto 2021. Chi sono i fornitori più pericolosi di disinformazione sul Covid? Questa primavera, il Center for Countering Digital Hate ha pubblicato “The Disinformation Dozen", un rapporto sui 12 influencer che secondo il Centro erano responsabili del 65% delle falsità anti-vaccino diffuse su Facebook e altre piattaforme di social media. In cima alla lista c'è l'osteopata della Florida Joseph Mercola, oggetto di un recente profilo su The Times della mia collega Sheera Frenkel. Altri disinformatori sono Robert F. Kennedy Jr., attivista ambientale, e Rizza Islam, un affiliato della Nation of Islam. La disinformazione che Mercola, Kennedy e gli altri hanno diffuso è una brutta cosa, un pericolo per la salute di chi ci crede oltre che un pericolo pubblico per coloro che sono esposti alle loro scelte irresponsabili. È anche un promemoria del fatto che gli anti-vaccinisti di oggi non sono solo un fenomeno di destra, come alcuni media hanno cercato di far passare. La maggior parte delle figure nell'elenco proviene dal mondo della medicina alternativa, solitamente non associato al repubblicanesimo a coste rock. Ma la storia dei ciarlatani che spacciano cure false e teorie del complotto politico non è l'unica parte della saga di disinformazione sul Covid. La sfiducia nei messaggi di salute pubblica viene anche seminata quando i messaggeri di salute pubblica si mostrano meno che completamente affidabili. L'ultimo esempio in questo dramma è stato un match urlante del 20 luglio tra il dottor Anthony Fauci e il senatore Rand Paul. Il repubblicano del Kentucky ha suggerito che Fauci avesse mentito al Congresso sostenendo che il National Institutes of Health non aveva mai finanziato la ricerca sul guadagno di funzione presso l'Istituto di virologia di Wuhan. Fauci ha fatto un'eccezione veemente, affermando che la ricerca che il NIH aveva finanziato indirettamente con una sovvenzione di 600.000 dollari non era collegata al virus Covid e non si qualificava come guadagno di funzione, una tecnica di ricerca in cui un agente patogeno è reso più trasmissibile. Fauci ha quasi certamente ragione sui meriti tecnici, e Paul non ha aiutato il suo caso con le sue buffonate da J'accuse. Ma la verità più grande – oscurata fino a poco tempo fa da fervidi sforzi (Fauci incluso) per respingere la teoria della perdita di laboratorio per le origini della pandemia – è che l'establishment scientifico del governo degli Stati Uniti ha sostenuto la ricerca sul guadagno di funzione e la questione meritava molto più dibattito pubblico di quello che ha ottenuto. È anche incontrovertibilmente vero che i beneficiari di quel finanziamento si sono impegnati in tattiche ingannevoli e in menzogne totali per proteggere la loro ricerca dal controllo pubblico mentre denunciavano i loro critici come complottisti. «In una riunione del Dipartimento di Stato, i funzionari che cercano di chiedere trasparenza al governo cinese affermano di essere stati esplicitamente invitati dai colleghi a non esplorare la ricerca sul guadagno di funzione dell'Istituto di virologia di Wuhan, perché porterebbe un'attenzione sgradita al finanziamento del governo degli Stati Uniti», ha riferito il mese scorso Katherine Eban di Vanity Fair raccontando i dibattiti interni al governo sull'origine della pandemia. C’è una buona ragione se milioni di persone pensano che alcuni esperti di salute pubblica non siano così eroici o onesti come li fanno sembrare i loro stenografi dei media. Ciò che vale per le domande sulle origini della pandemia vale anche per le domande sulla sua gestione. Il CDC ha ampiamente sopravvalutato i rischi di diffusione all'aperto del virus, che (almeno fino all'emergere della variante Delta) sembrava essere più vicino allo 0,1% che al 10% sbandierato. Fauci ha mentito - non c'è altra parola per questo - su quella che vedeva come la soglia per raggiungere l'immunità di gregge, basata, come ha riportato Donald McNeil sul Times a dicembre, sulla «sua sensazione istintiva che il paese è finalmente pronto ad ascoltare ciò che ha pensa davvero». Un allarmante studio del CDC ha scoperto che i bambini ispanici e neri erano a maggior rischio di essere ricoverati in ospedale per Covid, il che ha contribuito alla pressione per mantenere le scuole pubbliche chiuse all'insegnamento in presenza nonostante le crescenti prove che le scuole non fossero zone calde virali. L'impatto di questa disinformazione sulla vita quotidiana è stato immenso. E sebbene possa avere il pregio di essere offerto con le migliori intenzioni o con molta cautela, questo atteggiamento probabilmente ha fatto più danni nel minare la fiducia del pubblico nella scienza dell'establishment di quelli ad opera di un ciarlatano della Florida. La credibilità degli esperti di salute pubblica dipende dalla loro comprensione del fatto che il compito di informare il pubblico significa dire tutta la verità, incluse le incertezze, invece di offrire Nobili Bugie al servizio di ciò che credono il pubblico abbia bisogno di sentirsi dire. Questi stessi esperti potrebbero rischiare di diminuire ulteriormente la loro credibilità se le loro assicurazioni sull'efficacia del vaccino si rivelassero eccessivamente ferventi. Uno studio preliminare condotto da Israele suggerisce che il vaccino Pfizer perde gran parte della sua capacità di proteggere dalle infezioni dopo pochi mesi, sebbene continui a proteggere da malattie gravi. Questo è ancora un argomento decisivo per il vaccino, ma un passo indietro rispetto alle precedenti promesse. Se finiamo per aver bisogno di un terzo, quarto o quinto colpo - e se condizioni gravi come la miocardite finiranno per essere legate ai vaccini - l'erosione della fiducia pubblica potrebbe trasformarsi in una frana. Quindi, con ogni mezzo, continuiamo a esporre e denunciare la disinformazione proveniente dalle paludi febbrili di Alternative America. Ma non sarà abbastanza bene finché i tutori della salute pubblica non si atterranno a uno standard più elevato di veridicità e responsabilità. Medico, guarisci te stesso.
VACCINI & GREEN PASS. CHI SONO I VERI ASSASSINI. Andrea Cinquegrani il 26 Luglio 2021 su la Voce delle Voci.
Finalmente le "cure" anti coronavirus trovano una legittimazione a livello europeo.
Finalmente i farmaci in grado di contrastare il Covid al suo primo insorgere ricevono disco verde delle autorità UE.
Finalmente nuove terapie, soprattutto a base di anticorpi monoclonali, hanno l’ok per combattere il virus fin dai suoi primi sintomi.
Finalmente, quindi, crolla il mito dei ‘vaccini’ come unica strada da battere sulla via della salvezza.
Finalmente, poi, si scopre d’incanto chi sono stati e sono – fino ad oggi – i veri "assassini".
LE CURE NEGATE
E partiamo, a questo punto, proprio dai killer.
Il premier Mario Draghi. Quelli che il nostro premier, Mario Draghi, ha additato come i veri, autentici, unici responsabili di tutti i crimini possibili, coloro i quali non intendono vaccinarsi, che si trasformano in "assassini", perché uccidono se stessi, i loro cari e gli altri. Estrapolate così, e attribuite ad un fuori di testa, un ubriaco o un decerebrato, non stonerebbero. Ma se pensiamo che a pronunciarle è stato il nostro super-amato e super-stimato primo ministro, corrono subito dei brividi lungo la schiena.
Viviamo ormai in un mondo distopico e capovolto?
Dove la pandemia ha rovesciato tutti i canoni?
Ed è saltata ormai ogni regola, ogni minimo buonsenso?
Forse è proprio così. Perché i veri assassini, i killer sono stati e sono proprio loro. Lorsignori. Chi ci ha (s)governato fino ad oggi sia a livello politico che (sic) scientifico, chi ha portato al massacro migliaia e migliaia di italiani privati delle cure, dei farmaci necessari per fronteggiare il coronavirus fin dal suo primo insorgere.
In soldoni: chi ha ordinato, come terapia, solo “tachipirina e vigile attesa”, negando, per legge, l’utilizzo di quei prodotti che chiunque, invece, avrebbe potuto trovare tranquillamente in farmacia dietro presentazione di una ricetta del medico di famiglia. E ad un prezzo incredibilmente basso, 5 o 6 euro la confezione (peccato gravissimo!): come succede, ad esempio, con l’idrossiclorochina, usata ritualmente per combattere patologie artritiche, ma subito indicata dallo scienziato francese, Didier Raoult, come efficace terapia anti covid. E l’idrossiclorochina è stata ostacolata sia a livello internazionale – dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) all’Agenzia europea per il farmaco (EMA) – che a livello nazionale, dal Comitato Tecnico Scientifico (CTS) all’Associazione italiana delle industrie farmaceutiche, la potente AIFA. A sollecitarne l’uso solo alcune associazioni di medici di base e soprattutto il comitato ‘Cure domiciliari’. E c’è voluta una ordinanza del Consiglio di Stato, emessa il 12 dicembre 2020, per consentirne e legittimarne l’uso. Un vero ceffone al ministro della Salute Roberto Speranza, quell’ordinanza. Quante vite si sarebbero potute salvare facendo ricorso a cure tempestive come l’idrossiclorochina, l’invermectina, la lattoferrina, i cortisonici, l’eparina e via di questo passo?
Perché tutto è stato negato, ostacolato, osteggiato, nella messianica attesa dei vaccini, il vero, unico eldorado per le case farmaceutiche?
Chi pagherà per quelle vite?
Sapete quale è stato il paravento dietro al quale si sono protetti lorsignori? “Siamo in emergenza”, “la pandemia va comunque fronteggiata”, quindi si possono bypassare test e sperimentazioni, perciò si può autorizzare l’uso dei vaccini (pur sperimentali), proprio in virtù di quell’emergenza.
PERFINO LA UE SOLLECITA LE “CURE”
Ma adesso si scopre che il re è nudo. Che l’emergenza era taroccata. Proprio perché esistevano dei farmaci, delle cure invece negate, delle terapie possibili e invece nascoste ai cittadini.
Ora la conferma arriva addirittura dalla stessa EMA, che sta monitorando le ultime fasi di altri farmaci anti covid, i quali verranno approvati entro ottobre-dicembre e autorizzati dall’Unione europea.
Giorni fa, infatti, la Commissione europea ha annunciato il varo di un primo ‘portafoglio’ di cinque trattamenti che “potrebbero essere presto disponibili per curare i malati della UE”. E’ la Commissaria europea alla Salute in persona, Stella Kyriakides, ad ammettere: “anche se la vaccinazione sta prendendo velocità, il virus non sparirà e i pazienti avranno bisogno di cure sicure ed efficaci per ridurre il peso della Covid 19”. Era ora!!
Ma vediamo, nello specifico, di cosa si tratta. Partiamo dai farmaci a base di anticorpi monoclonali, quattro in tutto.
Il primo è una combinazione di "bamlanivimab" ed "etesevimab": il farmaco viene prodotto dalla casa farmaceutica "Eli Lilly".
Il secondo è una combinazione di "casirivimab" e "imdevimab". Alla sua produzione hanno lavorato due aziende: "Regeneron Pharmaceuticals Inc." e "Hoffman–La Roche Ltd".
Il terzo farmaco è a base di "regdanivimab", e viene prodotto da "Celltrion".
Il quarto è a base di "sotrovimab", anche qui impegnate due case farmaceutiche: "Glaxo SmithKline" e "Vir Biotechnology Inc.".
Passiamo al quinto prodotto. Si tratta di un immunosoppressore, "baricitinib", che riduce l’attività del sistema immunitario. Viene prodotto anch’esso da "Eli Lilly". Tale immunosoppressore – già attualmente autorizzato per pazienti non covid – “inibendo una sostanza presente nel nostro organismo, tiene sotto controllo l’infiammazione”, secondo Antonio Clavenna, responsabile dell’unità di farmacoepidemiologia dell’Istituto Mario Negri di Milano.
Così viene dettagliato in un documento UE: “Sulla base del lavoro del gruppo di esperti sulle varianti della Covid 19, istituito di recente, la Commissione definirà entro ottobre un portafoglio di almeno 10 possibili strumenti terapeutici contro la Covid-19. Il processo di selezione sarà obiettivo e basato su dati scientifici con criteri di selezione concordati con gli Stati membri. Dal momento che sono necessari tipi di prodotti differenti a seconda delle popolazioni di pazienti e delle fasi e della gravità della malattia, il gruppo di esperti individuerà le categorie di prodotti e selezionerà gli strumenti terapeutici candidati più promettenti per ciascuna categoria sulla base di criteri scientifici”.
E ancora: “Il portafoglio contribuirà all’obiettivo di disporre di almeno 3 nuovi strumenti terapeutici autorizzati entro ottobre, ed eventualmente di altri 2 entro la fine dell’anno. L’Agenzia europea per i medicinali avvierà altre revisioni cliniche di strumenti terapeutici promettenti entro la fine del 2021, in funzione dei risultati delle attività di ricerca e sviluppo”.
Non è finita. Due settimane fa è stato organizzato un “primo evento di settore sugli strumenti terapeutici per garantire che questi ultimi, una volta autorizzati, siano prodotti in quantità sufficiente il prima possibile”.
IL NOSTRO MINCULPOP
A questo punto, con dei farmaci utilissimi per fronteggiare con efficacia il coronavirus, perché mai un cittadino italiano dovrebbe essere indotto se non ‘obbligato’ al vaccino?
Ad un vaccino che, ribadiamo per l’ennesima volta, è del tutto sperimentale?
Con i test che verranno ultimati – nel migliore dei casi – a dicembre 2023, quindi tra un anno e mezzo?
E senza che le case farmaceutiche abbiano ancora prodotto lo straccio di un documento scientifico attestate efficacia e sicurezza dei vaccini inoculati in questi mesi sui cittadini-cavia?
Emerge, di tutta evidenza, la totale illegittimità e la profonda anticostituzionalità sia della prassi vaccinale, così come impostata – anzi imposta – dal governo e dalle truppe capeggiate dal generale degli alpini, che della politica di restrizioni attraverso il ‘Green Pass’, altrettanto illegale e anticostituzionale come può facilmente comprendere uno studente al primo anno di legge.
Torniamo quindi all’interrogativo di partenza.
Chi sono i veri assassini?
Chi ammazza non solo libertà e democrazia, ma in modo concreto attenta alla salute dei cittadini?
E’ venuto il momento di un sonoro VAFFA a tutti quelli che in queste settimane di rincoglionimento collettivo (causato da calura continua o effetto collaterale della pandemia e/o di una sua ultima variante?) hanno intonato la litania: la libertà individuale non può mettere in pericolo la salute di tutti.
E di un sonoro VAFFA a tutti i media, uniti nel coro della più becera e volgare disinformazione. Ma avete sentito i tiggì, soprattutto made in Rai, con voci fuori campo da telegiornali Eiar, quelli d’epoca fascista? Fate subito la prova: e vedete se un mezzobusto dirà in questi giorni una parola, una sola, sui farmaci, le cure appena varate a livello UE (non dai bolscevichi) e che mandano in soffitta i vaccini.
Non sentirete volare una mosca: proprio come ai tempi del Minculpop…
FACEBOOK. CENSURA LA VOCE SU FARMACI E CURE ANTI COVID. Andrea Cinquegrani il 14 Luglio 2021 su la Voce delle Voci. La Voce censurata da Facebook per un articolo su farmaci e cure in grado di contrastare il coronavirus. L’ennesimo episodio che dimostra come i social si stanno sempre più rapidamente trasformando nei ferrei guardiani di Big Pharma e delle politiche governative (come sta dimostrando in modo clamoroso la Francia sotto il pugno di Emmanuel Macron) ormai finalizzate a reprimere, con le buone o con le cattive, chi osa solo mettere in discussione l’efficacia e, soprattutto, la sicurezza dei vaccini. E documentare che esistono alternative ai vaccini, fino a quando saranno sperimentali (dicembre 2023 almeno, e fino ad allora i cittadini saranno le cavie), ossia cure e farmaci come – per fare due esempi – idrossiclorochina e invermectina. Ecco l’ultimo esempio di smaccata censura nei confronti della Voce, rea di aver pubblicato, meno di 24 ore fa, il testo di un’intervista rilasciata non da un signor nessuno, ma da un autorevolissimo scienziato a livello internazionale, Peter McCullough. Nei riquadri, potete leggere i testi inviatici da Facebook per motivare la censura. Motivi chiaramente risibili, ma ottimi per far in modo che l’articolo non possa circolare in rete, ma solo fra i lettori della Voce. Ovviamente oscurato, l’articolo, sulla pagina Facebook della Voce.
Cosa aveva sostenuto, nell’intervista rilasciata addirittura ad un avvocato tedesco, Reiner Fuellmich, di tanto terrificante il dottor McCullough?
Ecco un paio di passaggi.
“Avevamo scoperto che la soppressione del trattamento precoce era strettamente legata allo sviluppo di un vaccino. E l’intero programma della Fase I del bioterrorismo era incentrato sul mantenere la popolazione nella paura e nell’isolamento e prepararla ad accettare il vaccino che sembra essere la Fase II di un’operazione di bioterrorismo”.
E poi: “La prima ondata è stata quella di uccidere gli anziani a causa dell’infezione respiratoria. La seconda ondata è prendere i sopravvissuti, prendere di mira i giovani e sterilizzarli. Se noti, il messaggio nel paese, negli Stati Uniti, è che ora non sono nemmeno interessati agli anziani. Vogliono i bambini…”.
Così aggiungeva Reiner Fuellmich: “McCullough ha spiegato perché solo i trattamenti precoci possono ridurre i ricoveri e i decessi, mentre rimane ‘materialmente impossibile’ per le campagne di vaccinazione fare lo stesso”.
CHI E’ REALMENTE IL “MOSTRO” MCCULLOUGH?
Vediamo, a questo punto, chi è quel satanasso di McCullough.
Attualmente ricopre la carica di vice responsabile del reparto di Medicina Interna del Centro Medico alla Baylor University di Dallas, nel Texas. E’ autore di oltre 1000 pubblicazioni scientifiche su riviste come il ‘New England Journal of Medicine’, ‘The Lancet’, il ‘Journal of American Medical Association’, di cui una quarantina proprio sul tema bollente del covid. Il suo nome è citato oltre 500 volte dalla ‘National Library of Medicine’. E’ il fondatore e presidente della ‘Cardiorenal Society of America’, essendo un grande studioso nel campo della malattia renale cronica come rischio cardiovascolare.
Insomma, una vera e riconosciuta autorità in campo medico, e non uno dei tanti cialtroni e saltimbanchi che, in questi mesi, stanno popolando le tivvù e infestando i media di mezzo mondo, a partire dall’Italia.
Fin dall’inizio dell’epidemia e poi della pandemia da Covid-19 ha profuso tutte le sue energie per far conoscere negli Stati Uniti e nel mondo (molto note, per fare un solo esempio, le sue ricerche in Australia) l’esistenza di cure e farmaci ben precisi, poco costosi e accessibili a tutti perché esistenti in commercio e quindi presenti in ogni farmacia, per contrastare il coronavirus fin dalle prime battute, in modo precoce, ossia quando si presentano i primi sintomi. Niente “tachipirina e vigile attesa”, come consigliato, anzi "ordinato" subito dal nostro ministero della Salute, ottima anticamera per l’ospedalizzazione, quindi l’intubazione e in moltissimi, troppi casi, la morte (e di ciò dovranno rispondere in parecchi, soprattutto da noi, nella lunga catena di responsabilità, che comunque comincia dal ministro della Salute e prosegue con il governo e il ‘Comitato Tecnico Scientifico’). Dicevamo, non vigile attesa e tachipirina, ma farmaci che hanno un nome ben preciso: in prima fila idrossiclorochina einvermectina, appunto, che però hanno il grave difetto di costare poco (circa 5 euro la confezione) e quindi di risultare sgraditi ai famelici appetiti delle grandi case farmaceutiche, le star di Big Pharma.
SENATO AMERICANO BOLLENTE
Il 10 novembre 2020 McCullough è stato protagonista di un’animata udienza del Senato americano, dove ha illustrato la fondamentale importanza del “Trattamento ambulatoriale del Covid-19”, questo era il tema al centro della discussione. Di seguito potete ascoltare quel video, di grande rilievo scientifico e soprattutto ‘storico’, perché nessuno, da quel momento in poi, è più autorizzato a sostenere di essere all’oscuro su farmaci e cure in grado di contrastare il Covid. Nel corso di quella infuocata riunione al Senato degli Stati Uniti, anche altri medici hanno parlano a favore dell’uso precoce di quei farmaci, soprattutto dell’idrossiclorochina (il cui sponsor principale, a livello internazionale, è lo scienziato francese Didier Raoult). Ma la maggior parte dei senatori a stelle e strisce da quell’orecchio non volevano sentire: per fare un solo, emblematico esempio, il senatore Gary Peters, il quale ha sostenuto che è “irresponsabile” (testuale) dare false speranze agli americani e ha sottolineato che le raccomandazioni per questo o quel farmaco devono essere “radicate nella scienza”. Quella dei ricercatori al soldo di Big Pharma, of course! Nel suo intervento, McCullough ha puntato l’indice non solo contro la politica sorda e collusa, ma con forza anche contro il potere accademico, i soloni in camice bianco che non lavorano certo per il bene collettivo e la salute dei cittadini. E si è scagliato anche contro le due riviste alle quali pure collabora da anni, "The Lancet" e il "New England Medical Journal", colpevoli di aver pubblicato studi taroccati, firmati da sedicenti scienziati al solo scopo di screditare l’idrossiclorochina. Studi che, dopo qualche settimana, sono stati infatti ritirati dalle stesse riviste, dopo una valanga di critiche.
LE ACCUSE AI MICROFONI DI "FOX NEWS"
Poco più di due mesi fa, per la precisione il 7 maggio 2021, McCullough è stato ospite del programma di punta su "Fox News", il "Tucker Carlson Today Show". Al centro delle sue parole, anche stavolta, le cure precoci contro il covid e come – scrive ‘Radio radio’, la quale ha mandato in onda l’intervista che potete ascoltare cliccando sul link in basso – “siano state inspiegabilmente soppresse in tutto il mondo nonostante la loro efficacia fosse ampiamente dimostrata dall’esperienza di moltissimi medici”.
Così continua ‘Radio radio’: “"Perché altri medici non intervengono sulla malattia per aiutare questi pazienti a evitare il ricovero e la morte? Perché non lo fanno?", si chiede McCullough durante l’intervista. Il conduttore Tucker Carlson è sconvolto: ‘possibile che non se ne parli? Ma soprattutto, chi e cosa c’è dietro? Interessi economici?’. ‘Tucker non posso dirtelo – risponde – ma ho visto cose nell’ultimo anno che come medico non posso spiegare. Sono profondamente preoccupato che qualcosa sia fuori controllo nel mondo. E questo – continua – coinvolge la scienza, coinvolge la letteratura medica, coinvolge una risposta normativa, coinvolge popolazioni tenute nella paura, nell’isolamento e nella disperazione”.
Commenta "Radio radio": “Medici che rifiutano categoricamente le cure ai pazienti, famiglie che nella disperazione si rivolgono ai tribunali per ottenere l’autorizzazione ai trattamenti: qualcosa non torna in questo meccanismo di blocco mondiale sui possibili trattamenti della malattia e il dottor McCullough se ne fa testimone”.
Da noi è successo proprio lo stesso. C’è voluta un’ordinanza emessa dal Consiglio di Statoil 12 dicembre 2020 per "legalizzare" e rendere possibile l’uso dell’idrossiclorochina come farmaco per la terapia anti covid. Fino a quel momento il nostro ministero della Salute si era battuto come un leone, a botte di ricorsi al Tar contro le richieste dei legali di famiglie e associazioni, per vietarne l’uso.
CENSURE ANCHE VIA YOUTUBE
Anche ‘YouTube’ si è accanito contro McCullough.
Lo rammenta proprio l’avvocato tedesco Fuellmich. “Nonostante le eminenti qualifiche del dottor McCullough, YouTube ha ritirato una presentazione che ha tenuto sul sito, mentre altre piattaforme hanno attivamente soppresso praticamente tutte le informazioni relative al trattamento precoce dei pazienti”.
Ed è fresca fresca un’altra performance griffata "YouTube".
La racconta il sito di controinformazione ‘Renovatio 21’: “La scorsa settimana Joe Roganha realizzato un ‘podcast d’emergenza’ insieme al biologo evoluzionista Bret Weinstein, Ph.D., e allo specialista di terapia intensiva Dr. Pierre Kory, dove raccontano la censura operata da YouTube per aver discusso dei vantaggi dell’uso dell’invermectina per il trattamento del Covid”.
Così continua la ricostruzione di quanto è successo: “Weinstein, conduttore del ‘DarkHorse Podcast’, ha detto a Rogan che YouTube ha "demonetizzato" i suoi canali, rimosso alcuni dei suoi video e ha emesso avvisi per i contenuti che menzionavano l’invermectina, etichettandoli come "spam" e "informazioni mediche ingannevoli"”. Estratto di una sua deposizione rilasciata nei mesi scorsi; il video è privo di identificazione di quale udienza in particolare si tratti, ma lo stesso McCullough ha recentemente confermato in una intervista al blog Mittdolcino di aver testimoniato il 19 novembre 2020 al Comitato del Senato degli Stati Uniti sulla Sicurezza Nazionale degli affari Governativi, nonché per tutto il 2021 presso il Comitato del Senato del Texas sulla Salute e i Servizi Umani, all’Assemblea Generale del Colorado e al Senato del New Hampshire. “Ho visto cose sul Covid che non sono spiegabili: il mondo è fuori controllo”…
"Il Covid si può trasmettere anche attraverso i peti". L'ultima "scoperta" degli inglesi. Da iltempo.it il 25 luglio 2021. A leggerlo risulta difficile trattenere il sorriso. L'ultimo studio sul Covid che arriva dall'Inghilterra è incredibile: "Il virus si trasmette anche attraverso i peti". Sì, avete capito bene, se qualcuno va al bagno a liberare le sue "arie" corporee e subito dopo entra un altro in toilette, ci sarebbe il rischio di contrarre il coronavirus. Della ricerca, non confermata ad oggi dagli scienziati del governo inglese, parla il tabloid Sun citando diverse fonti mediche. Un ministro ha detto al Telegraph di aver letto "roba dall'aspetto credibile" sull'argomento da altri paesi in tutto il mondo. Ci sarebbero state prove di una "connessione di tracciamento legata al genoma tra due individui entrati nella stessa toilette pubblica in Australia". Inoltre, ci sono stati alcuni "casi ben documentati di malattie che si sono diffuse attraverso i tubi di scarico durante i lockdown a Hong Kong". Un portavoce del Primo Ministro ha però affermato di non essere consapevole che il virus può essere diffuso "scorreggiando". Ma questo non toglie che è stato dimostrato come la presenza del Covid possa essere riscontrata nelle feci. Lo scorso maggio, il medico australiano Andy Tagg ha sottolineato che i peti potrebbero causare la trasmissione del coronavirus dopo aver analizzato una serie di test effettuati da pazienti positivi all'inizio di quest'anno. Ha citato i test che hanno rivelato che il virus era presente nelle feci del 55 per cento dei pazienti con Covid-19. Il dottor Tagg ha scritto: "Beh, SARS-CoV-2 può essere rilevato nelle feci ed è stato rilevato in un individuo asintomatico fino a 17 giorni dopo l'esposizione". Ha aggiunto: “Forse SARS-CoV-2 può essere diffuso attraverso i peti ma abbiamo bisogno di più prove".
Tagadà, Matteo Bassetti e il ragionato ritorno alla normalità: "Perché sono due mesi che do la mano". Libero Quotidiano il 17 giugno 2021. "Sono due mesi che do la mano per una semplice ragione. Io le mani me le lavo da sempre e quindi non vedo nessun problema": Matteo Bassetti - in collegamento con Tiziana Panella a Tagadà su La7 - dice basta alle restrizioni di più di un anno fa, come appunto quella di non darsi la mano. "Se chi me la stringe non se l'è lavata io poi me le igienizzo le mani. Non dimentichiamo che le cose cambiano, ciò che andava bene 15 mesi fa probabilmente oggi va meno bene". L'infettivologo del San Martino di Genova ha fatto lo stesso discorso anche sulla questione mascherine, per cui oggi vige ancora l'obbligo di indossarle. "Se si dice che la mascherina è obbligatoria e poi vediamo le cose che abbiamo visto ieri sera - ha detto Bassetti in riferimento ai festeggiamenti dopo la vittoria della nazionale italiana - allora ha molto più senso fare quello che hanno fatto i francesi, levare l'obbligo della mascherina all'aperto, dicendo che magari è fortemente raccomandata. Perdi forza come istituzione se dici di fare una cosa e poi i cittadini ne fanno un'altra". Tornando all'argomento mani, poi, Bassetti ha continuato: "Possiamo dare la mano ad altre persone, l'importante è che con quelle mani poi non andiamo a toccare naso, bocca e occhi. Ma questo non vale solo per il Covid, è una misura che gli italiani devono imparare nell'ambito dell'educazione civica". A tal proposito l'esperto ha ricordato che prima del Covid eravamo il Paese che si lavava meno le mani: "Bastava andare nelle scuole italiane nel novembre del 2019 per vedere che non c'erano nemmeno i distributori di sapone nei bagni. Credo che la pandemia ci abbia insegnato qualcosa. Lavarsi le mani salva la vita e fa bene, ma non è non dandosi la mano che si risolve il problema".
Mix, mascherine e stato d'emergenza: la zuffa dei virologi. Alessandro Ferro il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. C'è chi vorrebbe toglierle subito e chi invece predica prudenza e pazienza per il mantenimento delle mascherine anche all'aperto. "Non capisco la fretta di toglierle..." Caos virologico anche sui vaccini. Mascherine si, mascherine no? Sta diventando il nuovo tormentone (anche politico) di questi ultimi giorni. Complice l'estate che avanza, lo stare all'aria aperta e la bassa circolazione del virus la tendenza sarebbe quella di toglierle, almeno nei luoghi non chiusi. Dall'altro lato c'è lo spettro della variante Delta, la più pericolose tra le mutazioni che il Covid ha fatto finora. Cosa fare, quindi?
"Toglierle? Non lo capisco..."
"Io sinceramente non capisco bene il razionale, non capisco la fretta di togliere le mascherine. Siamo stati per 16 mesi con queste protezioni sul viso, in fondo". Mario Clerici, docente di immunologia dell'università degli Studi di Milano e direttore scientifico della Fondazione Don Gnocchi, aspetterebbe ancora. "Non vorrei che ufficializzando lo stop alle mascherine passasse il messaggio del 'liberi tutti'. Magari non siamo ancora pronti - afferma ad AdnKronos - se si va al mare già tutti girano senza". Se è vero che la percentuale dei vaccinati comincia ad essere molto alta ed i raggi solari, in questo periodo dell'anno, riescono ad inattivare il virus in pochi secondi (qui il nostro approfondimento), sarebbe logico pensare ad una sospensione all'aperto dell'uso delle mascherine, come lo stesso Prof. Clerici ammette. Però, per l'immunologo, è bene mantenere ancora una linea cautelativa. "Ma, come al solito, visto che ci muoviamo su un crinale di massima cautela, perché non aspettare ormai fino a settembre-ottobre per decretare lo stop? Sarebbe per avere più vaccinati con due dosi".
"Il virus è in letargo"
In realtà, il Prof. Clerici si "smentisce" da solo: il suo timore è legato principalmente all'idea che togliere le mascherine possa significare che la pandemia è finita ma non che, in questo periodo storico, non sia giusto toglierle. In Gran Bretagna, dove la variante Delta sta diventando sempre più diffusa, "essenzialmente le infezioni si stanno concentrando in un'area dove la percentuale di vaccinati è più bassa e la verità è che se hai fatto due dosi di vaccino hai una protezione pressoché perfetta - ha dichiarato - Io mi sentirei sicuro anche oggi a uscire senza mascherina, però non vorrei che scattasse un liberi tutti". Più sereno il Prof. Zangrillo, che ospite ad "Un giorno da pecora" su Radio Rai, ha fatto il punto sulla situazione epidemiologica come abbiamo riportato con questo articolo. "Oggi il virus è in letargo", affrontando poi l'argomento mascherine che "all'aperto non hanno alcun senso". Un comportamento che Alberto Zangrillo stigmatizza perché "non ci porta a quella consapevolezza, a quell’equilibrio mentale e psicologico dell’evidenza, dell’obiettività, dell’informazione corretta. Senza questa informazione corretta saremo tutti un popolo di beoti che segue chi la spara più grossa".
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"Toglierle subito", "Usate la mascherina"
La pensa diversamente Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova, che come abbiamo scritto sul giornale.it, ritiene che "andrebbero tolte subito, non ha più senso tenerle". Parafrasando un famoso detto, si potrebbe dire "virologo che vai, risposta che trovi": per Massimo Galli, direttore del dipartimento Malattie Infettive dell'ospedale Sacco di Milano, eliminare l'obbligo di mascherina all'aperto "mi sembra stia diventando un altro di quei tormentoni di contenuto più che altro politico, per accattivarsi un pò di simpatie di qua o di là", afferma a SkyTg24, sottolineando come fin quando la situazione epidemiologica non si sarà stabilizzata, "usate la mascherina, soprattutto in ambiti di affollamento. È un sacrificio minimo che comunque aiuta a ridurre la circolazione del virus. Non dico in spiaggia piuttosto che al ristorante, ma in situazioni affollate, anche all'aperto, vale la pena di ricordare che è sicuro che ci aiuti".
Prevale, però, la linea del buon senso. "La mascherina all'aperto si può togliere, con saggezza, quando siamo distanti dagli altri, rimettendola quando ci sono persone vicine. È uno strumento utile e non va demonizzata, perché ci serve ancora". A dirlo all'Adnkronos Salute il virologo Giovanni Maga, direttore dell'l'Istituto di genetica molecolare del Cnr di Pavia favorevole, con prudenza, ad un'eventuale abolizione dell"obbligo all'aperto, come ha fatto la Francia dove da oggi è possibile girare per strada senza. "La mascherina all'aperto - continua Maga - serve soltanto quando si è a stretto contatto con altre persone. Sappiamo che il rischio di contagio all'aperto è molto basso, sappiamo che quando si è fuori si tende ad essere più dispersi. Però, in tutti quei casi in cui ci sia un'aggregazione significativa, anche all'aperto in questo momento la mascherina la terrei. Fino a quando avremo una circolazione di virus abbastanza significativa, seppure in calo, resterei prudente".
Nessuna linea comune anche sui vaccini
Ma quella delle mascherine non è che la punta dell'iceberg del disaccordo tra virologi, epidemiologi ed immunologi: come abbiamo descritto in questo articolo di Francesca Galici, il mix vaccinale ha mandato in tilt gli esperti. Va fatto o no? Cos'è meglio? Tra i più dubbiosi sull'effettiva validità della vaccinazione eterologa c'è Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali. "Si potevano aspettare più dati dagli studi in corso. Capisco che siamo in 'guerra' contro il Covid, ma certe scelte hanno poi delle conseguenze. Mi sembra un parere tirato per i capelli", ha affermato. Ha un punto di vista diverso, ma non opposto, Andrea Crisanti. Il direttore del Dipartimento di medicina molecolare dell'Università di Padova, intervistato ai microfoni di "Un giorno da pecora", dice che "non ci sono dal punto di vista teorico, immunologico e biochimico elementi che fanno ritenere che il mix sia dannoso". Ancora diverso è il punto di vista di Pierluigi Lopalco, epidemiologo e assessore alla Sanità della Regione Puglia: "In emergenza purtroppo bisogna anche prendere decisioni di politica sanitarie basate su evidenze deboli (non assenti). Non possono essere applicate in pandemia le stesse regole della gestione ordinaria della sanità". Secondo l'assessore è fondamentae la corretta comunicazione a ogni livello per "spiegare bene al cittadino il perché di certe scelte" sui vaccini. Super favorevole Bassetti, per il quale "è corretto cambiare se si modificano le evidenze scientifiche", più "politico" Pregliasco che afferma come gli "elementi scientifici ci sono. Altre nazioni lo hanno fatto, ci sono i dati".
Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care.
"Via le mascherine all'aperto": cosa dicono gli esperti. Alessandro Ferro il 16 Maggio 2021 su Il Giornale. Mentre negli Stati Uniti il Cdc elimina quasi del tutto l'uso delle mascherine all'aperto, in Italia si discute in merito ad eventuali provvedimenti da attuare. I dubbi, ormai, sono sempre di meno: usare le mascherine all'aperto e specialmente tra vaccinati non ha senso (o ne ha poco). Il Covid-19 si contrae quasi esclusivamente negli spazi chiusi e scarsamente areati. Un’evidenza scientifica che negli ultimi tempi ha portato il Centers for Disease Control statunitense, i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie, ad aggiornare le linee guida sull’utilizzo delle mascherine ed il messaggio è chiaro: l'uso deve continuare ma, in determinate circostanze, è possibile abolire l’obbligatorietà all’aperto. Proprio pochi giorni fa, come riportato da Repubblica, il Cdc statunitense ha emanato nuove indicazioni sull’utilizzo della mascherina all’aperto: si può togliere in caso di passeggiata, corsa o giro in bici con i propri familiari e per gli incontri all’aperto tra poche persone ma vaccinate. Mascherina invece consigliata, nello stesso contesto, per chi non ha ancora ricevuto il vaccino. Situazione diversa, logicamente, al chiuso: l’impiego della mascherina è sempre consigliato sia per i vaccinati sia per chi non ha ricevuto ancora nulla. Quel che più ci interessa, comunque, è che all'aperto e con la giusta distanza la mascherina non serve ma l'Italia, in tal senso, non ha ancora preso nessuna decisione. "Io lo dico da sempre: le mascherine all'aperto hanno un senso nel momento in cui si arriva ad un contatto ravvicinato con un'altra persona, se sto parlando indosso la mascherina. Ma quando cammino da solo, indipendentemente dal resto dal mondo, non so quale senso possa avere. Loro, ovviamente, lo stanno dicendo perché hanno sempre più vaccinati, quindi è evidente che aumentando le persone che hanno una copertura è inutile l'uso della mascherina all'aperto e, probabilmente, anche al chiuso": è quanto ci ha detto in esclusiva il Prof. Matteo Bassetti, Direttore della Clinica di Malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova. Secondo l'infettivologo genovese, anche da noi si dovrà adottare, quanto prima, un provvedimento che dica: chi si vuole mettere la mascherina perché si sente più sicuro, come fanno gli orientali, va benissimo metterla ma l'importante che non sia un obbligo di legge quando mi trovo nel bosco, in un parco o quando non ho nessuno accanto a me. "È questo che dovrebbe cambiare: un conto è se ritengo che mi possa servire perché me lo ha consigliato il mio medico in quanto non vaccinato, debole o per altri motivi. Non c'è nessun problema dire di poterla mettere ma è diverso dal dire che tu te la devi mettere", sottolinea Bassetti. Adesso che si va incontro all'estate ed i raggi solari UV-A e UV-B inattivano il virus (come abbiamo scritto in questo approfondimento dopo aver anche interpellato un astrofisico), diventa ancora più inutile l'uso delle mascherine all'aperto. "Il problema non è tanto dell'inattivazione del virus - prosegue Bassetti - stiamo vedendo una riduzione significativa dei contagi perché stiamo di più all'aria aperta e si riesce ad areare molto di più gli ambienti. Il problema è quanto si stia vicini ad un'altra persona, al chiuso capita molto più frequentemente di quando si sta all'aperto. Dobbiamo avere il coraggio di togliere, con l'estate, l'obbligo delle mascherine all'aperto anche perché altrimenti diventa un obbligo anche quando si va in spiaggia. Sinceramente, pensare di vedere gli italiani a luglio ed agosto con 40 gradi e la mascherina, farebbe ridere il mondo intero. Evitiamo di fare la figura di quelli che la fanno più grossa di tutti gli altri". Gli studi proseguono ed arrivano le prime evidenze: i vaccinati sono protetti dalla forma grave della malattia ma una minima parte di loro potrebbe, comunque, infettarsi. Pfizer copre al 95%, significa che 5 su 100 possono contrarre il virus, AstraZeneca copre all'80-85% quindi uno ogni 10 potrebbe contagiarsi "ma nessuno di quelli che si contagia fa la polmonite o muore - sottolinea l'infettivologo - Questo significa che, probabilmente, avremo persone positive al tampone ma con il raffreddore". Tutto questo è importante per capire se i vaccinati possano, o meno, trasmettere il virus a chi non lo è. "Non è ancora dimostrato con certezza che i vaccinati possano trasmettere il virus ma alcuni dati ci dicono che la trasmissione è ridotta del 95% rispetto a chi non lo è. Quindi, è probabile che possa infettarmi ma la mia capacità di trasmettere il virus ad altri è di 95 volte inferiore rispetto a quella che ha chi non è vaccinato". Un altro motivo, quindi, affinché il governo possa e debba fare un decreto per cui un vaccinato possa non indossare la mascherina come sta avvenendo negli Stati Uniti. "Gli italiani, già tra vaccinati, possono non mettere la mascherina anche al chiuso senza alcun tipo di problema come avviene già in altri Paesi evoluti. E poi questo è anche un modo per incentivare la vaccinazione, purtroppo abbiamo a che fare con una grossa fetta di no vax. La mascherina è stata fondamentale per un certo periodo della nostra vita, adesso credo che con i vaccini lo sia molto di meno". Recentemente abbiamo pubblicato uno studio irlandere (qui il nostro pezzo) che ha dimostrato come, all'aperto, si sia contagiata soltanto una persona su mille. "L'ho sempre detto, all'aperto non succede quasi nulla: anche se vedo tanta gente per strada con una certa densità non mi preoccupa assolutamente", ha dichiarato per ilgiornale.it il Prof. Giovanni Di Perri, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia e della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Torino. L'esperto ci ha aggiornato con un altro studio molto significativo. "Circa un mese fa è uscita un'analisi retrospettiva quasi ossessiva di tutte le variabili che hanno condizionato l'infezione: ebbene, su quasi 1.600 infezioni contratte ed analizzate una per una, meno del 3% risultavano essere state contratte all'aperto da persone che, verosimilmente, si baciavano". Più cauto ma certamente a favore di usare intelliggentemente l'uso delle mascherine all'aperto è il Prof. Masssimo Ciccozzi, Responsabile di epidemiologia al Campus Bio-Medico di Roma al quale abbiamo chiesto il suo parere sull'argomento. "Se ti sei vaccinato e stai da solo in un parco ma non in una strada dove passa gente, in quel caso la mascherina si può togliere certamente - ci dice, ma - Il vaccinato può infettarsi e puoi infettare gli altri". Parlando della situazione americana, in Italia ci troviamo ancora con un 30% di popolazione vaccinata, un numero ben diverso da quello degli Stati Uniti ormai si è quasi raggiunta la soglia dell'immunità di gregge. "Certo, se anche noi vacciniamo l'80-90% della popolazione, sono d'accordo che tra vaccinati si possa non portare ma, poiché non siamo ancora a questo livello di copertura, il virus può ancora circolare. Le toglierei solo quando avremo il minor numero possibile di suscettibili", conclude.
Graziella Melina per “il Messaggero” il 14 maggio 2021. Tra le misure di precauzione anticovid, all'inizio della pandemia, di sicuro la mascherina è stata quella più bistrattata. Gli esperti non erano del tutto sicuri che potesse servisse a proteggere dal contagio, tanto che per arrivare a obbligarne l'utilizzo c' è voluto un bel po' di tempo. Ora che è entrata nell' uso comune, senza neanche troppi disagi, pare sia diventata la misura più gravosa di cui liberarsi. Il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri assicura che all' aperto se ne potrà fare a meno quando si arriverà a vaccinare 30milioni di persone. Ma intanto la comunità scientifica resta cauta. «Sicuramente quando saremo su livelli come l'Inghilterra e Israele quindi sopra il 50 per cento dei vaccinati - precisa Fabrizio Pregliasco, ricercatore di Igiene generale e applicata dell'Università degli Studi di Milano - all' aperto si potranno togliere. Sono del parere però che per gli ambienti chiusi bisogna aspettare livelli di sicurezza maggiori, almeno finché non ci sarà una campagna vaccinale molto più ampia, circa all' 80 per cento. Comunque, toglierla o meno dipende dai contesti, non è facile dare indicazioni, non tutti gli ambienti chiusi sono uguali. Molto varia anche a seconda della permanenza delle persone in un ambiente». Nulla è scontato, insomma. Neanche ipotizzare quando si potrà davvero farne a meno. «Bisogna valutare l'andamento effettivo dell'epidemia - mette in guardia Pregliasco - perché nel prossimo futuro ci ritroveremo con una riduzione dei casi gravi, visto che proteggiamo soprattutto i soggetti fragili, però potremmo avere un incremento del numero dei casi. Quindi, alla luce dell'efficacia di alcune vaccinazioni e della possibilità che emergano e si diffondano le varianti, aspetterei ancora prima di togliere l'obbligatorietà». Per valutare se all' aperto sia il caso di usarla oppure no, conta anche il fatto di essere immunizzati. Come ricorda Roberto Cauda, direttore di Malattie infettive del Policlinico Gemelli di Roma, «nella presa di posizione dei Centers for Disease control and prevention dell'8 di marzo, si afferma che tra i vaccinati le mascherine possono essere rimosse anche al chiuso. La Germania qualche giorno fa ne ha allentato l'uso. È innegabile che se i vaccini funzionano, e funzionano - ribadisce Cauda - prima o poi riusciremo a toglierle. Non dimentichiamo che intanto ci siamo risparmiati 8milioni di casi di influenza». Ma per il momento, meglio non affrettare i tempi. «Sarei comunque cauto, finché non si raggiunge una immunità del 50 per cento - precisa Cauda - visto che siamo in presenza di varianti estremamente trasmissibili. In questo tipo di decisioni bisogna tenere conto anche dell'andamento dell'infezione. Se avessimo 50 contagi per 100mila persone, il tracciamento sarebbe possibile, ma noi siamo ancora a 127 su 100mila». Anche l'arrivo delle belle giornate di sole non viene in soccorso. «Il caldo in sé non aiuta - ricorda Cauda - guardiamo per esempio a quello che sta succedendo in India». Per decidere quando sarà possibile privarsene, bisogna dunque valutare diversi parametri. Secondo Antonio Ferro, presidente della Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica, «la copertura vaccinale è importante, ma quello che conta è anche l'incidenza del virus, quindi il valore Rt. Ricordiamo che fra i giovani il virus continua a circolare, e la trasmissione può essere pericolosa, poi ci sono le varianti di cui tenere conto. Sicuramente, utilizzare il vaccino da solo come criterio per decidere di togliere la mascherina non può bastare». Pensare di liberarsi al più presto di questa protezione di sicurezza, quando ancora i conti con la pandemia non sono affatto chiusi, non sembra dunque una mossa vincente. «Se eliminassimo oggi le mascherine anche solo all' aperto - mette in guardia Carlo Signorelli, ordinario di Igiene dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - passerebbe il messaggio che siamo tutti liberi, che è finito il pericolo. Ma così non è. Dunque, non solo bisogna farla tenere in luoghi chiusi, dove c' è il rischio di contagio, ma bisogna mantenerla anche all' aperto. Resta poi il fatto che, in questo momento, la mascherina non impedisce alcuna delle attività fondamentali. Quindi, visto che siamo sulla strada buona, nelle ultime settimane la campagna vaccinale sta andando bene, gli anziani sono protetti nel 90 per cento dei casi, dobbiamo continuare a essere cauti, anche all' aperto. La mascherina deve essere utilizzata finché non saremo davvero al sicuro».
Da corriere.it il 14 maggio 2021. «Mentre negli Usa chi è vaccinato può persino fare a meno delle mascherine, da noi non solo bisogna continuare a portarle, ma ai vaccinati si continuano a fare tamponi e a sottoporli a quarantena come se i vaccini fossero acqua fresca. E invece i vaccini (anche in Italia) funzionano molto bene». È la riflessione pubblicata sui social da Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova dopo aver letto la notizia che negli Stati Uniti i vaccinati potranno smettere di indossare la mascherina e di rispettare la regola del distanziamento sociale nella gran parte delle situazioni, sia all’aperto che al chiuso.
Da ansa.it il 14 maggio 2021. Gli americani che sono completamente vaccinati potranno smettere di indossare la mascherina e di rispettare la regola del distanziamento sociale nella gran parte delle situazioni, sia all'aperto che al chiuso: lo affermano i Cdc, la massima autorità sanitaria statunitense. "Se siete vaccinati e siete all'aperto, mettete da parte la vostra mascherina": è l'ultimo messaggio agli americani del virologo Anthony Fauci, consulente sanitario del presidente Joe Biden. In una serie di interviste tv rilasciate negli ultimi giorni Fauci ha insistito sul fatto che negli Usa è ora di allentare l'obbligo di indossare le mascherine. "E' tempo per una transizione - ha sottolineato oggi alla Cbs - e le persone vaccinate non devono più indossare la mascherina all'aperto, a meno che non si trovino in situazioni molto affollate. Ma in tutti gli altri casi, mettete la mascherina da parte, non dovete indossarla". Fauci ha quindi spiegato che l'uso della mascherina potrebbe diventare un'abitudine stagionale, per combattere la diffusione anche di comuni malattie: "Guardate come quest'anno la stagione influenzale non è praticamente esistita, perché le perone hanno seguito quelle regole sanitarie che funzionano non solo per fermare il Covid". "Oggi è un grande giorno per l'America nella nostra lunga battaglia contro il Covid-19. Qualche ora fa, il Cdc ha annunciato che non sarà più raccomandato ai totalmente vaccinati di indossare le mascherine": lo ha detto Joe Biden parlando dal Rose Garden della Casa Bianca, dove ha lanciato un nuovo appello agli americani perchè si vaccinino: "la scelta è vostra, vaccinarsi o continuare a indossare la mascherina finchè non sarete immunizzati".
Il vaccino ai guariti è utile? Tutti i dubbi sulle direttive di Speranza. Martina Piumatti il 4 Maggio 2021 su Il Giornale. Per il ministero della Salute chi ha fatto il Covid può vaccinarsi con una singola dose entro 3-6 mesi dalla guarigione. Con il ciclo completo oltre i 6. Ma diversi studi sulla durata degli anticorpi in chi è guarito sollevano dubbi sui protocolli. Lucia ha 64 anni e non ha fatto il Covid. O almeno così credeva. A metà aprile prima di prenotarsi per il vaccino decide di fare il test sierologico. Risultato: ha oltre 21 mila IgG (anti-spike), gli anticorpi contro il Sars-CoV-2, quando il limite minimo per essere protetti è 50. Segno che deve aver contratto il virus in forma asintomatica. Ma ora: data l’alta concentrazione di anticorpi, il vaccino va fatto o no? “Il mio medico - racconta Lucia - ha chiamato il referente della nostra Asst, che però ha lasciato a chi mi farà il vaccino la responsabilità di decidere in base alle direttive ministeriali. Insomma, ne so come prima”. La circolare del ministero della Salute n. 8284 parla chiaro: “È possibile - si legge nel documento del 3 marzo scorso - considerare la somministrazione di un’unica dose di vaccino anti-Covid-19 nei soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 (decorsa in maniera sintomatica o asintomatica), purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dalla documentata infezione e, preferibilmente, entro i 6 mesi dalla stessa”. Insomma, secondo le linee guida siglate da Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero, chi ha fatto il Covid dovrebbe vaccinarsi con una singola dose se è guarito da un minimo di 3 mesi a un massimo di 6. Non è specificato, però, cosa deve fare chi non sa quando ha contratto il virus, ma lo scopre, come Lucia, dal numero elevato di anticorpi neutralizzanti rilevati dal test sierologico. Alla base della raccomandazione ministeriale ci sarebbero alcuni studi sulla durata della protezione anticorpale. “Il rischio di reinfezione da Sars-CoV-2 - si legge nel report n. 4/2021 dell’Iss condiviso da ministero, Aifa e Inail che contiene la circolare - è stato valutato in uno studio multicentrico di coorte condotto su oltre 6.600 operatori sanitari nel Regno Unito. I risultati mostrano che nei soggetti con pregressa infezione da Sars-CoV-2 la probabilità di reinfezione sintomatica o asintomatica è ridotta dell’83% e che la durata dell’effetto protettivo dell’infezione precedente ha una mediana di 5 mesi”. Ma se, come nel caso di Lucia, il valore è ancora alto ha senso fare il vaccino? I protocolli non distinguono in base ai livelli di immunità naturale contro il virus di chi è guarito e “ai fini della vaccinazione” stabiliscono che “non è indicato eseguire test diagnostici per accertare una pregressa infezione”. Una direttiva giudicata insensata da Claudio Giorlandino, direttore scientifico dell'Istituto Clinico Diagnostico di Ricerca Altamedica e autore di una meta analisi in fase di pubblicazione sulla rivista Virus Disease. “Tutte le ricerche scientifiche che abbiamo esaminato - spiega Giorlandino a IlGiornale.it - dimostrano come nelle persone che hanno già avuto il Covid la risposta immunitaria contro il Sars-CoV-2 sia di lunga durata, almeno 11-12 mesi secondo un recente studio dell’Istituto Spallanzani. Se anche gli anticorpi scomparissero la protezione sarebbe assicurata dai linfociti T di memoria, pronti a rispondere in caso di nuovo contatto con il virus. E lo stiamo dimostrando su un gruppo di operatori sanitari di centri Covid. A distanza di molti mesi dalla malattia avevano gli anticorpi quasi a zero. Poi, probabilmente in seguito a un nuovo contatto con il virus, sono schizzati a livelli altissimi. Il Sars Cov-2 è un virus a Rna ed è noto che, per alcuni virus di questo tipo, come quello del morbillo e della polio, la prima infezione può fornire un'immunità permanente. Cosa che a distanza di anni si verifica ancora nel caso di guariti da Mers e Sars, parenti stretti del Sars-Cov2”. Data la durata della protezione anticorpale, vaccinare chi ha già avuto il Covid per Giorlandino è uno spreco inutile di dosi che potrebbero essere usate per chi non è immune. “Anche perché - aggiunge il direttore di Altamedica - a differenza di chi è vaccinato, è coperto contro le varianti perché la mutazione avviene per ora solo sulla proteina spike ma il virus rimane lo stesso. Per questo, contrariamente all’indicazione ministeriale, è necessario che si valuti con un test sierologico qualitativo pungidito, economico ed efficace, l’eventuale presenza di anticorpi prima di praticare una vaccinazione che, nella migliore delle ipotesi, sarebbe inutile ed avrebbe sottratto un vaccino a chi ne ha bisogno. Basta scelte dettate da una "medicina difensiva", ora serve focalizzarsi su dati epidemiologici e statistici riportati da studi scientifici. Perché sprecare una dose per chi è già immunizzato quando i vaccini scarseggiano?”. Favorevole, invece, alla singola dose di vaccino per i guariti è Sergio Romagnani, immunologo di fama internazionale e professore emerito di Immunologia clinica e Medicina Interna all’Università di Firenze. “Un richiamo dopo la malattia va fatto perché è dimostrato che potenzia la risposta immunitaria preesistente. Anche se la cosa più giusta - sottolinea Romagnani a IlGiornale.it - sarebbe fare un test sierologico per valutare la presenza degli anticorpi. Perché se il livello di IgG è molto alto esiste un rischio, bassissimo, di reazioni collaterali intense. E stimolare eccessivamente il sistema immunitario può provocare la comparsa dei cosiddetti "anticorpi a bassa affinità" per l’antigene. Che non sarebbero più protettivi, ma facilitanti la moltiplicazione del virus nel caso di ulteriore infezione naturale. Ma sconsiglio di fare due dosi di vaccino a chi è guarito, anche a distanza di oltre 6 mesi. Perché con la seconda dose non si andrebbe ad aumentare ulteriormente la risposta anticorpale. Sarebbe del tutto inutile”. Una linea seguita anche dal ministero, ma solo per chi è guarito da massimo 6 mesi. Se ne sono passati da 7 in su, vanno fatte entrambe le dosi. Ora Lucia però si chiede: “Io che non so quando ho contratto il Covid, ma ho un livello altissimo di anticorpi, cosa rischio a fare il vaccino? Per il ministero la vaccinazione anti-Covid “si è dimostrata sicura anche in soggetti con precedente infezione da Sars-CoV-2”. Più avanti si legge: “Anche se la numerosità dei soggetti con pregressa infezione era molto limitata (circa 2-2,5% dei partecipanti negli studi)”. Insomma, una precisazione non molto tranquillizzante. Non solo. “Sulla base di dati molto preliminari - si ammette subito dopo - è ipotizzabile che la risposta immunitaria alla seconda dose nei soggetti con pregressa infezione possa essere irrilevante o persino controproducente”. Un’ipotesi documentata da alcune ricerche, citate nelle note del documento avallato da Speranza, tra cui lo studio dell’Humanitas di Rozzano. Il team di ricercatori, guidato dal professor Alberto Mantovani, ha confrontato i livelli di anticorpi dopo il vaccino. “Secondo quanto emerge dalla nostra esperienza - spiega a IlGiornale.it Maria Rescigno, docente di Patologia generale e pro rettore vicario con delega alla ricerca dell’Humanitas University - i guariti, anche da oltre 6 mesi, con una singola dose di vaccino raggiungono un livello di immunità equivalente a quello delle persone che non hanno contratto il virus. Soprattutto nei casi di infezione sintomatica, dove il livello di partenza delle IgG è ancora più alto rispetto ai casi asintomatici. Poi, se il livello di protezione è già ottimale, somministrando ugualmente il vaccino, si potrebbe anche verificare una leggera riduzione degli anticorpi e quindi della protezione”. Non solo. Come ci spiega Stefano Pallanti, psichiatra e docente di psichiatria e scienze del comportamento all’università di Firenze e alla Stanford University, “stiamo cominciando a vedere casi di guariti che dopo il vaccino manifestano gli effetti tipici della sindrome da post-Covid. Quell’insieme di sintomi che vanno dalla perdita delle forze ai disturbi del sonno e che persistono per mesi in 7 negativizzati su 10. Si tratta ancora di pochi casi, ma devono essere un campanello d’allarme”. Tanto che persino il ministero si premura di segnalarlo. “Qualche recente segnalazione - si legge nel report del 13 marzo che contiene le direttive sul vaccino per chi è guarito - mostra una reattogenicità sistemica (reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, ecc.) più frequente nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi”. Ma al netto di possibili, e rarissime, riduzioni della protezione, vaccinare i guariti dal Covid può essere più che altro uno spreco inutile? "Dato che il livello di anticorpi si mantiene alto, non serve - ribadisce Romagnani - fare la seconda dose a chi ha già contratto il virus anche da più di 6 mesi. Basta un singolo richiamo. Poi, perché, quando i vaccini scarseggiano, sprecarli per chi è già immune?".
Vaccini, il nodo temperature può aver scatenato alcune reazioni avverse. Zaira Bartucca su Rec News il 12 Aprile 2021. “Nell’arco di qualche mese questi prodotti si degradano, e se iniettati diventano più nocivi dello stesso vaccino. Meno novanta, poi -20 perché così “si facilita il trasporto”, -80 che è l’ideale, a temperatura ambiente. Sui preparati anti-covid si è detto davvero di tutto, ma senza che si facesse davvero chiarezza. A porsi un interrogativo destinato a durare e ad ampliare il dibattito in corso sulla sicurezza di questi sieri sperimentali, è ora il dottor Mariano Amici, che nel corso di un’intervista rilasciata a Rec News ha messo in guardia rispetto al pericolo di conservare i ritrovati medici in maniera scorretta: una pratica – avverte – molto “nociva”, che dunque potrebbe essere la causa di alcune delle reazioni avverse che sono state registrate. “Il vaccino – ha detto Amici – a seconda della temperatura richiede un tempo più o meno lungo per la degradazione. Se parliamo di una temperatura a -20 si degrada in qualche ora, se parliamo di -90 si degrada in qualche settimana, se parliamo di -180 si degrada in un periodo più lungo. Quindi nell’arco di qualche mese questi prodotti si degradano, e se iniettati dopo che hanno subito questo processo, i materiali di degradazione sono ancora più nocivi di quanto può essere il vaccino”.
Vaccini e decessi sospetti, il dottor Amici: Nessuna correlazione? Io dico che è tutto da rifare. Zaira Bartucca su Rec News l'11 Aprile 2021. Il chirurgo censurato da Vespa spiega il fenomeno della degradazione. Quella dei sieri anti-covid conservati a temperature “sbagliate” e quella dei tessuti di chi è morto dopo il vaccino: “inutili le autopsie lampo”. Ecco cosa basterebbe per capirne di più sugli effetti di questi preparati sperimentali con scienza e coscienza”. Il dottor Mariano Amici – il chirurgo più censurato dalla tv con alle spalle una lunga carriera in ambito universitario e ospedaliero, autore di numerosi studi – ripete varie volte le parole che caratterizzano il Giuramento di Ippocrate nel corso dell’intervista che ha rilasciato a Rec News. Sono discorsi da “stregone” per un Paese che lo scorso anno sceglieva chi doveva vivere e chi doveva morire nelle terapie intensive. C’è chi ci ha trovato un ché di ciarlatanesco, nell’Italia che ha lasciato fuori dagli ospedali i malati non covid e che non ha curato i malati covid. Una strage annunciata, causata da quelli che il dottor Amici definisce “protocolli sbagliati”. Un tributo di vite umane in costante crescita, perché ora alla cattiva gestione si aggiungono gli effetti avversi dei vaccini.
La commissione europea ha recentemente annunciato l’acquisto di 900 milioni di dosi di vaccini a RNA messaggero. Sono realmente così efficaci e privi di rischi?
Sull’efficacia c’è ampia letteratura scientica che dice che è molto limitata, e che va dal 19 al 29%. Questo lo dice per esempio Peter Doshi, che è co-direttore dell’autorevole British Medical Journal. L’efficacia stimata è ben al di sotto di quella del placebo, che essenzialmente non dà nessun effetto nell’organismo, e anche al di sotto della soglia di commerciabilità.
Se è un preparato inadatto privo delle caratteristiche di commerciabilità, perché viene venduto e somministrato?
Perché i dati che hanno fatto passare non sono reali. Si è parlato di un 95% di efficacia, ma in realtà i test sono stati fatti su una popolazione che non contraeva la malattia, non tra gli ultra-ottantenni con più patologie. Anche dando per buono quel 95%, saremmo comunque al di sotto di 4 punti percentuali rispetto all’ecacia della natura, cioè rispetto alle possibilità di contrastare il virus grazie al proprio sistema immunitario. Tanto è vero che l’indice di mortalità è al di sotto dell’1%. Parliamo dello 0,014%. Dopo di che questi vaccini a mRNA non sono stati realmente testati, sono stati approvati a condizione, sulla base delle dichiarazioni e dei dati forniti dalle stesse case produttrici. E’ come andare a chiedere all’oste se il vino è buono. Insomma, non c’è stata una verifica al di sopra delle parti.
Cosa serve per giungere alla vera approvazione?
Anzitutto, determinati studi. C’è tutto un cammino di sperimentazione che deve essere compiuto per giungere ad evidenze scientiche sull’efficacia, e soprattutto sulla sicurezza. Si deve accertare che siano innocui. Il foglietto stesso della casa farmaceutica invece dice chiaramente che non conosciamo gli effetti collaterali a lungo termine, se possono avere effetti cancerogeni o se possono interferire con le gravidanze. Non sappiamo se passano nel latte materno. Ci sono dunque tutta una serie di incognite che non sono state vericate. Un primo resoconto si potrà avere solo al 31 dicembre 2023, quando terminerà la sperimentazione. Nel frattempo, gli eventuali effetti avversi si segnalano al medico curante e il medico curante li segnala agli enti preposti: questo signica che i soggetti vaccinati vengono usati come cavie.
Siamo cavie di un esperimento di massa?
E’ esattamente questo. Gli effetti avversi cominciamo a conoscerli tutti perché su tutti i vaccini genici che sono in commercio ci sono degli effetti avversi gravi. Anche se la percentuale può essere relativamente bassa, abbiamo comunque centinaia, migliaia di casi di morti. Su questi decessi si sbrigano subito a dire il giorno stesso dell’autopsia che non c’è il nesso di causalità tra il vaccino e la morte. Io dico che non è possibile dire che non ci sia alcuna correlazione dopo un’autopsia di una o due ore. Per stabilire il nesso di causalità per questo tipo di vaccini, bisogna fare degli studi molto approfonditi che richiedono molto tempo. Si parla di minimo due o tre mesi. Bisogna usare una metologia particolare e bisogna sapere cosa cercare. Solo in quel caso si può stabilire il nesso di causalità. Diversamente, è una cosa che non è realistica. Da questo punto di vista non è stato detto ancora nulla.
Nel pratico in cosa consistono questi studi?
Parlo da medico, basandomi sulle mie conoscenze e sui miei studi. Come minimo vanno conservati i tessuti per poterli esaminare nel tempo e cercare aspetti specici. Questo implica un metodo di conservazione adeguato, perché altrimenti il tessuto organico si deteriora e il materiale al suo interno che può contenere lo stesso vaccino o alcuni virus, se non conservato in maniera corretta si degrada e poi non si trova più niente. Quindi intanto i tessuti prelevati dalle autopsie andrebbero tenuti minimo a -180 gradi. Lo stesso discorso vale per il vaccino: dicono che dovrebbe stare a -90 gradi per non degradarsi, ma in realtà anche questi preparati hanno bisogno di una temperatura che sia almeno di -180 gradi per conservarsi correttamente. Un dato che già da solo sembra essere in grado di inciare la buona riuscita della campagna vaccinale… Il vaccino a seconda della temperatura richiede un tempo più o meno lungo per la degradazione. Se parliamo di una temperatura a -20 si degrada in qualche ora, se parliamo di -90 si degrada in qualche settimana, se parliamo di -180 si degrada in un periodo più lungo. Quindi nell’arco di qualche mese questi prodotti si degradano, e se iniettati dopo che hanno subito questo processo, i materiali di degradazione sono ancora più nocivi di quanto può essere il vaccino.
Perché non si fa questo? Esistono problemi strutturali, di strumentazioni?
Basterebbe volerlo fare. Sulle autopsie stabilire con certezza che esiste il nesso di causalità significa intanto che qualcuno deve risarcire i danni, poi signica ammettere che questi vaccini sono nocivi. In altre parole si potrebbero mettere in evidenza problemi che entrerebbero in contrasto con la somministrazione di massa e l’obbligatorietà vaccinale che si sta perseguendo, come nel caso dei sanitari. Non c’è altra spiegazione.
Ha citato il vaccino obbligatorio per i sanitari. Il governo ha previsto un demansionamento per chi dissente e addirittura la mancata erogazione dello stipendio, ma si poteva fare?
E’ stato un atto gravissimo. Prima di tutto perché è anti-costituzionale: non si può obbligare nessuno a un trattamento sanitario senza che ci sia il consenso reale di chi lo deve subire. Quello che è strano è che solo l’Italia tra tutti i Paesi ha pensato all’obbligo. Un provvedimento del genere potrebbe essere giustificato solo se l’indice rischiobenecio fosse fortemente, e sottolineo fortemente, a favore del beneficio e non del rischio. La realtà, al netto dei numeri ufficiali che vengono dati, è che non c’è un grande beneficio a fronte di un rischio relativamente ridotto, perché la mortalità per questa malattia è ferma allo 0,014%. Praticamente sovrapponibile a quella della sindrome influenzale.
Non c’è questo morbo incurabile che giustifica interventi di questo tipo?
Non c’è. Io ho dimostrato insieme a moltissimi altri colleghi in Italia che si possono fare le cure a domicilio. Abbiamo curato tutti i casi che si sono presentati, non abbiamo dovuto ricoverare alcun paziente e non abbiamo avuto alcun decesso. Questa malattia si può curare. L’importante è imboccare tempestivamente la strada giusta, quella appunto della cura, non i percorsi sbagliati che aggravano la malattia no a portare alla morte. Questo è quello che è avvenuto, sostanzialmente. Chi cura la malattia agisce secondo scienza e coscienza, non secondo protocolli terapeutici spesso sbagliati. Non c’è quindi ragione di avere tutta questa paura, tutto questo timore, per questo virus. Di contro, i fenomeni avversi che caratterizzano i vaccini anti-covid sono sotto gli occhi di tutti. Si tratta di centinaia, migliaia di effetti avversi anche letali: quelli sì che sono incurabili. Non è come dice Remuzzi, che pure l’aspirina ha effetti collaterali. Non si può paragonare un farmaco sperimentato da decenni di cui conosciamo tutto, con un vaccino genico di cui non conosciamo gli effetti avversi nell’immediato e nel lungo periodo. Ecco perché a Porta a Porta da Vespa ho detto che Remuzzi ha detto delle cose assolutamente anti-scientiche.
Lo scorso 8 aprile il Senato ha approvato una mozione sulle terapie domiciliari. Siamo nalmente sulla strada giusta?
E’ la strada giusta e lo dico da mesi. Su La7, quando sono stato intervistato da Giletti o da Formigli, mi hanno fatto passare per uno stregone, come se curare a casa un paziente fosse diventato un misfatto. Mi hanno perno denunciato all’Ordine dei medici ma dopo qualche settimana, dopo che anche il Tar ha iniziato a dire che le cure domiciliari sono importanti, gli stessi che mi insultavano, per esempio Sileri (viceministro alla Salute, nda) e Giletti, sono andati in trasmissioni nazionali a dire che la medicina di base deve essere rivalutata.
Insomma chi cura i pazienti viene additato, chi è per la vigile attesa senza far nulla viene osannato.
Esatto, chi è per la sorveglianza vigile col paracetamolo che in realtà porta all’aggravamento del paziente, secondo loro agisce bene. L’osservazione è giusta, per carità, ma gli antipiretici possono essere fortemente lesivi nel malati di covid: possono aggravare la malattia, perché la febbre è un meccanismo di difesa dell’organismo.
Da quello che ho capito, così tra l’altro non si agisce sull’infiammazione. E’ vero?
Non si agisce ma anzi si aggrava, a causa dei meccanismi che si vanno ad instaurare. I numeri dello scorso anno sui decessi nascondono anche i casi di abbadono del malato. Borrelli lo ha in qualche modo ammesso nel corso di una conferenza stampa diventata tristemente celebre per quel “contiamo tutti i morti, non solo quelli per coronavirus” Esattamente. I pazienti non potevano essere visitati dai loro medici curanti a causa delle disposizioni normative, con tutto quello che ne è seguito. Fortuna che io e molti altri colleghi abbiamo contravvenuto alle direttive e abbiamo curato comunque i pazienti a domicilio, secondo scienza e coscienza. Sono gli altri medici che hanno fatto i danni, provocando l’aggravamento di chi poi si è recato al pronto soccorso e si è sottoposto al tampone. Il problema è che tutti i tamponi positivi sono stati trattati come casi covid. Esistono documenti che noi abbiamo trattato che parlano del fenomeno dei “falsi positivi”.
Uno studio del professor Zhuang pubblicato dal NCBI di Bethesda dice che nell’80,33 per cento dei casi i tamponi riportano risultati errati.
Certo, perché il tampone, io lo dico e l’ho dimostrato ovunque, è assolutamente inattendibile, non è stato mai standardizzato, non è stato mai validato e non è diagnostico. Lo ha ammesso la stessa Organizzazione mondiale della Sanità. Ormai lo sanno anche le pietre ma continuano sulla base dei falsi positivi ad adottare queste misure restrittive che non hanno alcun senso, non tutelano la salute e creano gravissimi danni all’economia nazionale. Pensare che il tampone potrebbe diventare obbligatorio tramite l’introduzione del covid pass, su cui punta il ministro al Turismo Garavaglia. Sono forme di ricatto che stanno tentando di introdurre. Non gli basta il decreto legge che obbliga i sanitari al vaccino. Se non ci arrivano con la legge, ci vogliono arrivare con ricatti vari. Questo signica che stiamo andando verso una deriva di tipo dittatoriale. Tra informazione, disposizioni sanitarie e impunità, sembra di essere già in una dittatura conclamata.
Draghi nel corso dell’ultima conferenza stampa ha parlato della necessità di sottoporsi al vaccino anticovid anche per i prossimi anni. Ma il virus non doveva diventare endemico? Non si diceva che avremmo imparato a conviverci sviluppando gli anticorpi?
Infatti se non vengono praticate le vaccinazioni il virus diventa endemico, piano piano perde la sua virulenza e dopo di che gli organismi ci convivono tranquillamente. E’ quella la vera immunità di gregge, che non si ottiene mai con le vaccinazioni.
E’ vero che non bisogna vaccinare quando è in corso un’epidemia?
Certo, lo dico io e lo dicono altri autorevoli autori, primari di ospedale, specialisti del settore e scienziati molto preparati. E’ controproducente, non facciamo che aggravare la situazione.
Ascoltandola si capisce perché non la fanno parlare.
Perché mentre tutte le tv nazionali e tutti gli organi di stampa nazionale portano avanti una voce unica e vogliono far passare questo vaccino per un toccasana senza nessuna spiegazione scientifica, io dico cosa significa vaccinarsi, come è fatto il vaccino, i suoi meccanismi di azione e i possibili danni a distanza. Tanto è vero che ho parlato delle tromboembolie prima che iniziassero le somministrazioni del vaccino. Basterebbe osservare, studiare, basarsi sulla propria esperienza, come faccio io. L’impressione è che quelli che vogliono far passare un certo tipo di narrativa si dividano in chi realmente non sa e in chi per qualche motivo fa finta di non sapere. In Italia c’è un grosso problema, ed è quello del conflitto di interessi. Ci sono virologici, ricercatori e cattedratici che fanno ricerca finanziata dalle case farmaceutiche e partecipano a convegni organizzati da loro per fior di gettoni di presenza. Di fatto non sono più soggetti che parlano di scienza al di sopra delle parti, ma promotori farmaceutici che coltivano determinate strategie commerciali. Altri semplicemente vanno avanti con l’idea del vaccino miracoloso, senza approfondire. In questi giorni mi chiamano tanti colleghi che mi dicono: ho fatto il vaccino maledetto me, ho questi sintomi. Ora che faccio? Niente, non puoi fare niente.
Dopo non si può fare più nulla?
No perché determinati vaccini oltre al fenomeno tromboembolico possono scatenare anche dei meccanismi autoimmunitari, che non si possono più curare. Ci sono i vaccini a mRNA che hanno un tipo di problemi, poi ci sono i vaccini a vettore adenovirale che possono avere anche ulteriori complicazioni. Siccome sono coltivati su linee cellulari rese immortali prelevate da feti abortiti, portano con sé quella contaminazione e possono generare il cancro. Non solo: siccome entrano nel nucleo della cellula, possono anche alterare il patrimonio genetico. Le alterazioni possono ricadere sul soggetto che si è fatto la vaccinazione ma anche sui gli, sui gli dei gli e via discorrendo.
Per quanto riguarda i vaccini a mRNA, sono stati ingegnerizzati per non entrare nel nucleo della cellula, ma non è detto che non possa accadere. Perché?
Perché è vero che quel mRNA dura poco perché si distrugge nel citoplasma, ma avviene comunque la produzione della proteina spike che poi l’organismo vede come estranea, e contro cui produce anticorpi. Questa proteina può creare degli effetti collaterali, come i fenomeni tromboembolici che hanno già provocato decessi. La proteina spike, quindi, produce fenomeni dannosi non solo con il virus ma anche con i vaccini. Il fenomeno delle tromboembolie alla fine è stato ammesso dalla stessa EMA per quanto riguarda AstraZeneca. Sì ma riguarda anche Pfizer, Moderna, riguarda tutti i vaccini anti-covid, perché sono eetti avversi legati alla proteina spike, che è anche tossica e neuro-tossica, quindi può anche provocare eetti avversi di tipo nervoso ma anche di tipo immunitario in forza delle sue sequenze geniche molto simili, se non uguali, a quelle dell’organismo. Per cui l’organismo quando produce anticorpi contro la proteina spike, produce anticorpi anche contro sé stesso e contro i suoi tessuti. Si può giungere a fenomeni immunitari multi-organo, quindi effetti avversi gravissimi che possono portare anche al decesso. Questi sono meccanismi di azione che qualunque medico dovrebbe conoscere. Riassumendo e concludendo, mi domando perché una persona dovrebbe sottoporsi a un vaccino che ha questi rischi per una malattia che ha una letalità dello 0,014%, come ha detto lei.
Esattamente. Intanto se malauguratamente dovessero incorrere nel virus si possono curare, mentre per i casi dicili di persone che non riescono a sviluppare difese autonome ci sono gli anticorpi monoclonali e c’è la plasmaferesi praticata con grande successo da De Donno.
Di che ci dobbiamo preoccupare?
Il problema è che laddove c’è una terapia valida e senza controindicazioni, questa viene squalicata e mortificata, laddove abbiamo meccanismi non terapeutici come la vaccinazione, si fanno passare come un qualcosa di miracoloso, di dogmatico. Tutto questo fa pensare che ci sia una strategia diversa dal mantenere la popolazione in salute. Lo Stato anziché spendere fior di milioni per una propaganda terroristica che diffonde panico in tutta la popolazione, potrebbe spendere per dire alla popolazione come mantenersi in salute.
Coronavirus, la bomba dell'esperto: "Tamponi, l'errore che può avere falsato tutto". Contagio in Italia, solo balle sulle cifre? Libero Quotidiano il 13 aprile 2021. Se ora l'arma contro il coronavirus è il vaccino, fino a qualche mese fa era il tampone. E in Italia abbiamo avuto problemi anche a fare i test. Abbiamo avuto problemi sul tracciamento, problemi sull'app immuni. Insomma, un disastro. Ma ora si aggiunge una inquietante rivelazione. Un esperto otorinolaringoiatra ha svelato a Il Giornale che "in Italia ancora oggi i tamponi si fanno mediamente male. È una discussione che va avanti da diversi mesi. Vedo foto e riprese televisive in cui il bastoncino viene infilato nel naso nelle direzioni più disparate”. Un errore gravissimo: "Realizzare maldestramente il tampone può inficiare la validità del test: se non vado a cercarlo nella sede corretta, cioè il rinofaringe, potrei anche non trovarlo”. In questo modo il referto segnerà un falso negativo, che così continuerà a girare e infettare. Alzando la curva dei contagi. I tamponi insomma andrebbero affidati ad otorinolaringoiatri esperti: “Di solito - spiega invece la fonte - vengono incaricati infermieri, magari neppure i migliori, ritenendo erroneamente si tratti di una manovra semplice. E pensare che alcuni non distinguono neppure il tampone per l’orofaringe da quello per il rinofaringe”. E “basterebbe organizzare delle lezioni apposite, anche solo di un’ora”. Altro problema è il pasticcio prodotto dall’Iss tra marzo, aprile e maggio. Non solo il Report dell’Istituto su “come” fare i tamponi per diversi giorni ha fornito indicazioni del tutto sbagliate ma cita scienziati che non hanno mai fatto parte del gruppo di studio. Come Andrea Crisanti. “Se si realizza un documento per spiegare come eseguire i test - dice la fonte - non si può non interpellare neppure un otorinolaringoiatra, come purtroppo è stato fatto. Ma soprattutto deve essere preciso”. Sempre secondo Il Giornale diversi professionisti hanno fatto notare all’Istituto che dava indicazioni errate, suggerendo di puntare il bastoncino verso l’alto anziché al rinofaringe. Fortunatamente l'errore è stato corretto ma ormai il danno fatto. “L’Iss è l’Istituto di riferimento cui ci si rivolge per sapere come fare determinate cose - fa notare, rammaricata, la fonte - e invece pure loro avevano sbagliato tutto”.
La rivelazione shock sui tamponi in Italia: "Questo errore può falsare tutto". Giuseppe De Lorenzo il 12 Aprile 2021 su Il Giornale. La rivelazione choc sui test in Italia: "Vengono fatti male". L'Iss pubblicò una guida errata: "Si stavano sputtanando". Immaginatevi una palla di neve che inizia a cadere dalla cima di una montagna, rotola, rotola, rotola, e mentre scende a valle si ingrossa sempre più diventando valanga. Ecco. La gestione della pandemia in Italia ha una sua palla di neve che forse si è trasformata in tragedia, inficiando tutto ciò che oggi consideriamo un dogma: i parametri per decidere le chiusure, le zone gialle-arancioni-rosse, il tracciamento dei contagi, la lotta alla Covid. E se fosse tutto macchiato da un errore a monte? Ormai da mesi molti scienziati non fanno che ripetere: prima del vaccino, la vera arma per frenare l’avanzata del virus sono i tamponi. Lo dimostra il caso di Madrid (leggi qui): più se ne fanno, più si interrompono le catene di trasmissione e meno lockdown bisogna imporre. In Italia invece di problemi sui test ne abbiamo avuti a bizzeffe: all’inizio il ministero della Salute vietava di farli a chi non era stato in Cina, poi sono mancati i reagenti, infine abbiamo tentennato sull’implementazione dei test rapidi. Inoltre il tracciamento è saltato sia durante la prima che nella seconda e terza ondata. Insomma: un mezzo disastro, cui oggi si aggiunge un altro inquietante tassello. A parlare col Giornale.it, sotto garanzia di anonimato, è un esperto otorinolaringoiatra. “In Italia - dice - ancora oggi i tamponi si fanno mediamente male. È una discussione che va avanti da diversi mesi. Vedo foto e riprese televisive in cui il bastoncino viene infilato nel naso nelle direzioni più disparate”. Direte: cosa cambia? Molto, se non tutto. “Realizzare maldestramente il tampone può inficiare la validità del test: se non vado a cercarlo nella sede corretta, cioè il rinofaringe, potrei anche non trovarlo”. In questo modo il referto segnerà un falso negativo, che così continuerà tranquillamente a girare, a infettare i parenti e ad alza la curva dei contagi. Costringendo il Paese ad un perenne isolamento. Di chi è la colpa? Più che un imputato, vanno cercate diverse responsabilità. Primo fattore: per essere sicuri, i tamponi andrebbero affidati ad otorinolaringoiatri che sanno esattamente come far scendere il bastoncino lungo il pavimento nasale. “Di solito - spiega invece la fonte - vengono incaricati infermieri, magari neppure i migliori, ritenendo erroneamente si tratti di una manovra semplice. E pensare che alcuni non distinguono neppure il tampone per l’orofaringe da quello per il rinofaringe”. Secondo fattore: la poca formazione. “Non va bene se a dare generiche indicazioni sono un altro infermiere o un tecnico di laboratorio, serve un otorinolaringoiatra”. In fondo, spiega la fonte, “basterebbe organizzare delle lezioni apposite, anche solo di un’ora”. Sul sito dell’Iss si trovano tanti corsi (Fad) realizzati in questo ultimo anno, ma nessuno sembra essere interamente dedicato all’esecuzione dei test (come si trovano invece da altri promotori). Terzo problema: il pastrocchio prodotto dall’Iss tra marzo, aprile e maggio. I nostri lettori sanno di cosa parliamo (leggi qui): non solo il Report dell’Istituto su “come” fare i tamponi per diversi giorni ha fornito indicazioni del tutto sballate, ma citava (e tuttora cita) scienziati che non hanno mai fatto parte del gruppo di studio. Vedi Andrea Crisanti. “Se si realizza un documento per spiegare come eseguire i test - dice la fonte - non si può non interpellare neppure un otorinolaringoiatra, come purtroppo è stato fatto. Ma soprattutto deve essere preciso”. E invece il primo rapporto dell’Iss, datato 4 aprile, “gridava vendetta”. A quanto risulta al Giornale.it diversi professionisti hanno fatto notare all’Istituto che “si stava sputtanando” perché “non faceva chiarezza”. Anzi: dava proprio indicazioni errate, suggerendo di puntare il bastoncino verso l’alto anziché al rinofaringe. Per fortuna qualcuno se ne è accordo ed ha suggerito alcune modifiche. In due soli mesi l’Istituto ha prodotto ben due revisioni, una sorta di record, ma il “danno” ormai era fatto. Quanti hanno imparato a fare i tamponi con la guida errata? E quanti ancora oggi si richiamano a quel documento? Certo, finalmente è stato tolto dalla sito ufficiale (anche se è rimasto online per diversi giorni), ma ancora oggi alcuni dossier dell’Iss pubblicati prima del 17 aprile continuano a far riferimento alla guida fallata. “L’Iss è l’Istituto di riferimento cui ci si rivolge per sapere come fare determinate cose - fa notare, rammaricata, la fonte - e invece pure loro avevano sbagliato tutto”. Questione non di poco conto, soprattutto se in palio c’è la corretta mappatura dell’epidemia. “La gestione dell’Iss è stata deficitaria. Questi Istituti sono costituiti da burocrati nel vero senso della parola. A loro non importa cosa inseriscono nei documenti, si assicurano solo risulti che loro qualcosa l’hanno fatto”. Anche se è sbagliato e rischia di inficiare la validità dei test. Trasformando la palla di neve in valanga.
Graziella Melina per “il Messaggero” il 12 aprile 2021. Che il virus per diffondersi prediliga gli ambienti chiusi era noto da tempo. Sul fatto che invece all'aperto avesse qualche difficoltà in più a passare da un soggetto all'altro gli scienziati lo hanno sempre ipotizzato, senza però arrivare a dati certi. A dare concretezza ad una questione finora solo dibattuta ci hanno pensato ora gli irlandesi. Secondo l'Health Protection Surveillance Centre, la trasmissione all'aperto avviene in un caso su mille. I dati presi in esame dagli scienziati, dall'inizio della pandemia e fino alla fine del mese scorso, comprendono 232.164 casi di persone infettate. Dopo aver analizzato la catena di contagio e soprattutto i possibili focolai, i ricercatori hanno calcolato che le persone che hanno avuto contatto col virus all'esterno erano 262, ossia lo 0,1 per cento. La conclusione degli irlandesi però non stupisce più di tanto la comunità scientifica che da mesi si arrovella alla ricerca delle vie di trasmissione del virus, senza però venirne a capo.
DATO ASSODATO. «È un dato scientifico ormai assodato - spiega Antonio Ferro, presidente della Società italiana di igiene e medicina preventiva e sanità pubblica - che la contagiosità del virus dipenda dalla sua concentrazione nell'aria, che però all'aperto si riduce in maniera esponenziale». Non solo le droplet, ossia le goccioline più grandi, vanno tenute insomma a bada, ma anche l'aerosol, ossia quelle più piccole. E la consolazione, non di poco conto dopo mesi di restrizioni e chiusure, sta ora nella certezza che le attività all'aperto non sono rischiose, sempreché si rispettino le norme di sicurezza. «Il covid è una malattia che si trasmette negli ambienti confinati e i dati anche nostri dicono che le occasioni di contagio sono sempre stati in ambienti chiusi - precisa Carlo Signorelli, ordinario di Igiene dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano - Nell'area esterna c'è una dispersione tale da non rappresentare un rischio, gli aerosol si diluiscono immediatamente nell'aria e non possono arrivare in quantità tali da costituire infezione, poiché la carica virale non è sufficiente. È logico che, se il contatto è stretto, può avvenire anche in ambiente esterno. Lo studio irlandese ci conforta se vogliamo riaprire quelle attività che sono a più basso rischio».
LE TRACCE. A scovare con più precisione le tracce del virus in realtà ci avevano già provato anche ingegneri dell'università di Hong Kong ed erano arrivati alla conclusione che su 1.245 contagiati solo tre erano attribuibili a incontri all'aperto. In Gran Bretagna, l'Università di Canterbury ha analizzato invece 27mila casi di covid e il risultato è stato altrettanto confortante: secondo i ricercatori il numero di contagi all'aria aperta è quasi insignificante. All'Università della California, invece, hanno stimato che il rischio di infettarsi all'esterno è di 19 volte più basso rispetto a un ambiente chiuso. In Italia, si sono cimentati nell'impresa del calcolo delle probabilità di contagio in luoghi esterni anche i ricercatori dell'Istituto di scienze dell'atmosfera e del clima del Cnr e di Arpa Lombardia e hanno dedotto che la trasmissione del virus, nel nord Italia tra febbraio e maggio, all'aperto e lontano da assembramenti è «assolutamente trascurabile». Anche Giorgio Buonanno, ordinario di Fisica tecnica ambientale all'Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia) da quando è scoppiata la pandemia ha osservato il fenomeno della trasmissione dei contagi via aerosol e ha elaborato diversi studi anche su come minimizzare i rischi. «In ambienti aperti, se manteniamo una distanza di un metro e mezzo - spiega - non abbiamo alcuna possibilità di contagiarci. Il rischio c'è però quando ci si siede al tavolino, si sta di fronte ad un'altra persona e si parla, emettendo così molta più aria. Per il teatro e il cinema all'aperto, basta invece un metro di distanza, perché lì in genere si resta in silenzio». Inutile dire che al chiuso le possibilità di contagio sono amplificate. «Abbiamo dimostrato come si possa arrivare ad avere l'80% dei casi di covid via aerosol negli ambienti indoor - precisa Buonanno - Mentre all'aperto, se non si ha un'esposizione prolungata e ravvicinata con un contagiato non c'è rischio».
(ANSA " il 27 aprile 2021) L'Organizzazione mondiale della Sanità ha affermato che la tragica seconda ondata della pandemia da covid-19 che sta vivendo l'India è la causa di una "tempesta perfetta", ovvero della cruciale combinazione di diversi fattori fra cui raduni di massa, vaccinazioni a rilento e varianti contagiose. Lo ha sottolineato il portavoce dell'agenzia dell'OnuTarik Jašarevic, mettendo in guardia dall'attribuire esclusivamente alle mutazioni del virus l'unica causa dell'impennata di casi registrata nel Paese nelle ultime settimane. Lo riferisce il Guardian.
Da www.tgcom24.mediaset.it " il 27 aprile 2021. E' stato uno dei più grandi raduni in Europa dall'inizio della pandemia il concerto-esperimento organizzato a Barcellona il 27 marzo. Ora, a distanza di un mese, gli organizzatori hanno annunciato che tra i 5mila partecipanti non è stato registrato alcun caso di coronavirus. Tutti gli spettatori erano stati sottoposti ad un test antigenico e avevano dovuto indossare la mascherina. Ma avevano potuto ballare senza distanza sotto al palco sulle note della rock band catalana Love of Lesbian. Il concerto - Il pubblico del concerto era tenuto a sottomettersi a un test antigenico prima del concerto e indossare una mascherina Ffp2 per tutta la durata dello stesso. Inoltre, è stato utilizzato un sistema di ventilazione che garantiva un corretto ricambio dell'aria nel palazzetto che ha ospitato il concerto, il Palau Sant Jordi. Le persone non erano obbligate a rispettare distanziamento fisico. I risultati del test - Nei 14 giorni successivi, sono stati diagnosticati 6 casi positivi tra le 4.592 persone che hanno assistito al concerto e poi acconsentito all'analisi dei dati diagnostici, tutti lievi o asintomatici. Di questi, per almeno 4 è stato possibile stabilire che l'occasione del contagio non è stato il concerto; inoltre, per tutti è stato riscontrato che non hanno provocato ulteriori contagi. "I dati permettono di escludere che il concerto al Palau Sant Jordi sia stato un evento di super trasmissione del Covid", hanno spiegato i responsabili. L'analisi dei dati è stata curata da medici della Fondazione Lotta contro l'Aids e le Malattie Infettive e dell'ospedale pubblico universitario Germans Trias i Pujol e approvata dal servizio di sorveglianza epidemiologica della Catalogna. La band coinvolta nell'esperimento, Love of Lesbian, ha ringraziato gli organizzatori e i consulenti scientifici dell'evento. "Ci auguriamo che d'ora in poi, dopo questi ottimi risultati, il mondo della cultura venga ascoltato come merita", ha twittato.
Per la Danimarca il Covid “non è più una minaccia”. Stop restrizioni dal 10 settembre. Federico Giuliani su Inside Over il 28 agosto 2021. Dopo il Regno Unito tocca alla Danimarca. Copenaghen revocherà tutte le restrizioni contro il Covid-19 ancora in vigore a partire dal prossimo 10 settembre. Il governo danese non considera più la malattia una minaccia per la società, e ha dunque pianificato l’uscita dall’incubo. “L’epidemia è sotto controllo, abbiamo tassi di vaccinazione record. Per questo, il 10 settembre, potremo abbandonare le regole speciali che abbiamo dovuto introdurre nella lotta al Covid-19”, ha spiegato il ministro della Sanità, Magnus Heunicke. Certo, le autorità allenteranno le misure di sicurezza e i cittadini potranno riassaporare la quotidianità del periodo ante Covid. Eppure – e questo può essere considerato un paradosso – l’esecutivo non sembra affatto essere intenzionato a lanciare messaggi troppo blandi. Detto altrimenti, i danesi non dovranno abbassare la guardia. “Non siamo fuori dall’epidemia”, ha sottolineato ancora il ministro, aggiungendo che il governo “non esiterà ad agire rapidamente se la pandemia metterà nuovamente a repentaglio le funzioni essenziali della società”. Nel caso in cui tutto dovesse filare liscio, la Danimarca tornerà così a respirare, proprio come ha ripreso a far il Regno Unito dallo scorso giugno, e proprio mentre molto altro Paesi europei temono di dover inasprire le misure restrittive anti Covid.
Vaccinazioni record. Ma per quale motivo la Danimarca può permettersi un simile privilegio? Niente è stato dettato dal caso. Il vero segreto di Copenaghen, più che poter contare su un efficace sistema di tracciamento e su misure altrettanto efficiente, sta tutto nella sua campagna di vaccinazione da record. Il ministro Heunicke lo ha spiegato alla lettera pubblicando un post inequivocabile sul proprio profilo Facebook: “Stiamo raggiungendo più persone possibile attraverso il nostro programma di vaccinazione, e dobbiamo mantenere il ritmo ora, così avremo gli ultimi che lo faranno. Volontario e libero”. È ancora: “In Danimarca siamo a livelli molto alti quando si tratta di far vaccinare la popolazione e quindi uscire dall’epidemia in modo sicuro ed efficace. Se non hai ancora ricevuto il tuo vaccino ti incoraggio a farlo. Aiuta te stesso, i tuoi cari e tutta la nostra comunità. Grazie”. Calcolatrice alla mano, la Danimarca è riuscita a vaccinare con un ciclo completo il 71% della popolazione e il 4,6% con almeno una dose. In tutto, Copenaghen ha somministrato 145,77 dosi di vaccino ogni 100 persone. Più del 70% della popolazione del Paese scandinavo di 5,8 milioni è completamente vaccinato; significa che il governo danese ha ottenuto una copertura vaccinale tale da poter controllare il virus e, di conseguenza, allentare le misure restrittive. Ed è proprio questo il traguardo che le altre nazioni – Italia compresa – dovranno raggiungere per sperar di imitare Copenaghen.
Aria di libertà. Il binomio che ha consentito alla Danimarca di programmare l’uscita dal tunnel si basa, da una parte, sulla significativa copertura vaccinale (sono vaccinati 7 cittadini su 10 mentre il Paese può vantare il terzo tasso di vaccinazione più alto d’Europa), e dall’altra sull’ottimo sistema di prevenzione e controllo allestito dal governo. La differenza rispetto all’Italia appare evidente nei numeri relativi alla vaccinazione. Nel nostro Paese ha completato il ciclo vaccinale il 62,8% della popolazione, mentre l’8,3% attende la seconda dose: ancora troppo poco per togliere le restrizioni. Ricordiamo che nel marzo 2020, la Danimarca era stata una delle prime nazioni a istituire un regime di semi-lockdown con la chiusura di scuole e attività non essenziali. Dopo un primo allentamento delle misure, poche settimane dopo, da agosto 2020, Copenaghen aveva nuovamente e invertito la rotta imbastendo un nuovo confinamento a Natale. Da allora il Paese si è gradualmente riaperto. Il 14 agosto, l’uso della mascherina obbligatoria è scomparso dai mezzi pubblici, unico luogo dove era ancora obbligatorio. L’obbligo di esibire il green pass nei locali notturni – che riaprono il 1 settembre – e durante i grandi eventi scomparirà il 10 settembre. Era già previsto che il “coronapass” non fosse più richiesto nei ristoranti, nei centri sportivi e nei parrucchieri dal 1 settembre. L’unica spada di Damocle che continuerà a pendere sulla testa dei danesi sarà rappresentata dalle limitazioni inerenti ai viaggi all’estero, che permarranno almeno fino ad ottobre.
Irene Soave per corriere.it l'1 settembre 2021. «È presto per giudicare». Anders Tegnell - l’epidemiologo che ha guidato la Svezia attraverso la pandemia - ha ripetuto questa frase ad aprile 2020, a giugno 2020, a settembre, a dicembre e poi di nuovo ad aprile in ogni intervista, conferenza stampa, comunicato. «Giudicatemi tra almeno un anno». Il tempo passa, ma il giudizio sul «modello svedese» rimane, in larga parte, indecidibile. Tra quelli dei Paesi industrializzati, il protocollo con cui Stoccolma ha affrontato il Covid-19 è stato il più discusso e strumentalizzato. Mentre le autorità sanitarie di quasi tutta Europa, degli Stati Uniti e di gran parte dell’Asia chiudevano negozi, scuole e attività produttive, Tegnell insisteva sull’inefficacia dei lockdown. «È come cercare di uccidere una zanzara con un martello» è un’altra delle sue frasi più ripetute. A lungo le autorità svedesi hanno esitato a introdurre l’obbligo di mascherina: «Non ci sono prove che funzioni», ha sostenuto sempre Tegnell, e quando poi si è deciso, o piegato, a introdurla sui mezzi pubblici almeno nelle ore di punta, lo ha fatto con una «raccomandazione». Le scuole sono rimaste aperte, e così bar e ristoranti. La sostanza della strategia non è cambiata nemmeno quando, a dicembre, re Carl XVI Gustaf ha rotto la tradizionale ritrosia a commentare gli affari correnti per andare in tv a scusarsi coi suoi sudditi: «Sul Covid-19», ha detto, «abbiamo sbagliato». Eppure nemmeno allora Tegnell ha intrapreso un’inversione a U. Il mantra è stato sempre lo stesso: «È presto per giudicare». A giugno l’epidemiologo ha poi ammesso soltanto che «se si ripresentasse la pandemia, con le cose che sappiamo ora, ci comporteremmo a metà tra quanto fatto e quanto ha fatto il resto del mondo». A oggi la Svezia ha registrato 1.122.139 casi di Covid-19 e 14.682 morti causate dalla malattia. È un successo? Una disfatta?
I dati. Solo questa settimana, ad esempio, il quotidiano britannico Telegraph elogia l’«esperimento svedese» — «Ha salvato Pil e salute mentale» — mentre il magazine Business Insider lo stronca titolando «Troppi morti, non ha funzionato». Opinioni così polarizzate si alternano sulla stampa internazionale da 16 mesi. Sono però fondate sui medesimi dati. I casi registrati, un milione e centomila su circa 10 milioni di abitanti, indicano che ha avuto il Covid-19 circa l’11 per cento della popolazione. A confronto coi vicini, un record: ha avuto il Covid solo il 2,9% dei 5,3 milioni di norvegesi, ad esempio, e il 2,2% dei 5,5 milioni di finlandesi. Insieme alla capillarità della campagna vaccinale — a oggi l’81,5% degli svedesi ha ricevuto almeno una dose e il 65,8% le ha ricevute entrambe — questo dato può forse contribuire a spiegare come mai, in questa settimana in cui le curve di diffusione del contagio tornano a salire in molti Paesi industrializzati e soprattutto nelle vicine Norvegia e Danimarca, la curva svedese va invece ancora verso il basso. È l’effetto a lungo termine a cui puntava Anders Tegnell quando, circa un anno fa, in un’intervista al Financial Times parlava di «sostenibilità» della risposta al Covid-19. Si era sul finire di un’estate in cui la pandemia sembrava recedere, e il «modello svedese» tornava d’interesse: proprio in quei giorni il premier britannico Boris Johnson aveva invitato Tegnell per un’audizione che gli sarebbe servita a pianificare le riaperture. Pur smentendo la possibilità di puntare a un’«immunità di gregge», Tegnell citava l’alto tasso di svedesi immunizzati perché guariti dal Covid-19, chiedendosi anche: «Cosa proteggerà, per esempio, i danesi? Nuovi lockdown?». Sarebbe facile pensare che Tegnell abbia avuto ragione. Nella stessa intervista, però, pronosticava che per la Svezia il peggio fosse passato: «Non mi pare possibile che avremo nuovi picchi». La settimana seguente ripartiva in Svezia un’ondata di nuovi casi che non si sarebbe spenta fino alla primavera 2021, in un autunno nero che sarebbe culminato, a dicembre, con le scuse in televisione del re. Che sia sempre Anders Tegnell a enunciare, difendere, spiegare — «ripeto volentieri le cose cento volte a chiunque me le chieda» — la strategia svedese di contenimento della pandemia non è un caso di protagonismo. Dirigente della Folkhälsomyndigheten, l’agenzia di salute pubblica di Stoccolma, sarebbe dovuto partire per una missione in Somalia all’inizio del 2020, ma le cose sono andate diversamente. La Folkhälsomyndigheten fa parte di una serie di agenzie pubbliche su materie tecniche che sono, secondo la costituzione, totalmente indipendenti dal governo. Questa estraneità alla politica e la natura «tecnica» della Folkhälsomyndigheten sono state spesso citate da Tegnell come spiegazione della sua maggiore libertà di movimento e con essa dell’eccezione svedese. «Se non fossero paralizzati dalle istituzioni», dice in un’intervista della scorsa primavera, «molti altri ufficiali di salute pubblica, in altri Paesi, avrebbero seguito policy come le nostre». Salvo che da parte dell’estrema destra parlamentare, che ne chiede regolarmente le dimissioni, Tegnell gode di un diffuso appoggio da parte della popolazione anche dopo 16 mesi di pandemia: un «Anders Tegnell fan club» su Facebook ha 32 mila iscritti e viene regolarmente aggiornato, e il 34enne Gustav Lloyd Agerblad, che la scorsa estate si è fatto tatuare la faccia di Tegnell sull’avambraccio, ha lanciato una piccola moda hipster. Il rapper svedese Shazaam gli ha dedicato un brano, «Anders Tegnell», che ne loda l’equilibrio. «Non sono un uomo solo contro il mondo», ripete spesso Tegnell — che ha però sospeso per il momento le interviste con la stampa internazionale, e si esprime solo per conferenze stampa — e cita il sostegno dei più di 500 colleghi che lavorano con lui alla Folkhälsomyndigheten. È innegabile, comunque, che sia il volto della lotta al Covid-19 nel Paese.
La strategia e i (pochi) cambi di rotta. A inizio 2019 un report globale della Johns Hopkins University classificava la Svezia come uno dei Paesi «più pronti» ad affrontare una pandemia. Il primo caso di coronavirus in Svezia si manifesta il 31 gennaio 2o20: è una donna di Jönköping, tornata una settimana prima da un viaggio a Wuhan. Sentendosi male, con sintomi respiratori, e avendo sentito parlare in Cina di una nuova influenza in circolo, la donna si chiude intuitivamente, volontariamente in casa. Non contagia nessuno. Facendo affidamento su un simile senso civico il governo svedese non obbliga i cittadini a restringere i movimenti, ma «raccomanda» di limitare gli spostamenti nelle città e fuori al minimo necessario. Gli esercizi commerciali, i bar e i ristoranti restano aperti. Funzionerà: uno studio sulle celle telefoniche citato dal «New Yorker» mostra che gli spostamenti degli svedesi si sono massicciamente ridotti sin dai primi giorni della pandemia, nonostante non sia mai stato indetto un lockdown. Già a gennaio 2020, con le prime allerte internazionali, Tegnell avverte in alcuni scambi privati (pubblicati poi dal «New Yorker») che le sole misure da prendere saranno quelle basate sull’evidenza scientifica; questa linea prevarrà nei primi mesi di pandemia, quando in mezzo all’Europa che chiude Tegnell nega che vi siano evidenze sull’efficacia del lockdown, inventando il famoso slogan che «è come uccidere una zanzara con un martello». «Non ci sono epidemiologi che ne sostengano l’utilità a lungo termine», è da sempre la sua difesa.
L’immunità di gregge. Nei mesi che seguiranno, Tegnell e l’intera agenzia di salute pubblica negheranno che lo scopo sia mai stato quello di perseguire una «immunità di gregge», cioè uno stato in cui una maggioranza della popolazione sia immune al virus, per averlo già contratto, e quindi il virus cessi di circolare. Anche perché è ben presto chiaro che l’obiettivo sarebbe irrealistico. Eppure alcune inchieste giornalistiche mostrano uno scambio di mail — datato 14 e 15 marzo — tra la Folkhälsomyndigheten e l’omologa agenzia finlandese in cui Tegnell resiste a indire la chiusura delle scuole, spiegando che tenendole aperte «i giovani si sarebbero immunizzati più presto». I finlandesi rispondono che con le scuole chiuse la proiezione è che i contagi tra gli anziani possano diminuire anche del 10%. La risposta di Tegnell è lapidaria: ne vale la pena? «Siamo di fronte a una malattia che è qui per restare», ha sempre detto l’epidemiologo, «ed è necessario costruire sistemi che possano farvi fronte in maniera duratura». Il «modello svedese» affascina da subito il Regno Unito di Boris Johnson, e i contatti tra gli ufficiali di salute pubblica sono sistematici. Nelle prime settimane della primavera 2020, la risposta alla pandemia segue nei due Paesi simili traiettorie di volontarietà e libertà. Poi in Regno Unito i casi schizzano: anche per la densità demografica: gli svedesi sono sono 10 milioni e il 20% vive a Stoccolma, non a caso infatti i casi in Svezia sono sei volte tanto che nel resto del Paese, mentre il Regno Unito è assai più densamente urbanizzato. Già il 23 marzo il Regno Unito chiude le scuole. Poi a Pasqua Boris Johnson si ammala e rischia di morire e la sua strada si separa fatalmente da quella di Tegnell.
I primi segni di sfiducia e il commissariamento dell’Agenzia. Ad aprile 2020 in Svezia — dove le scuole restano aperte fino ai 16 anni e i presidi minacciano i genitori di ricorrere agli assistenti sociali se i figli vengono tenuti a casa — si verifica una prima crepa nella fiducia che la collettività accorda a Tegnell. Un articolo scientifico dell’università di Uppsala raggiunge gli organi di stampa prima di essere approvato. Contiene proiezioni per i mesi a seguire: se la strategia continua così, il 50% degli svedesi si infetterà entro un mese e 80 mila moriranno. È panico generale. Non andrà così; ma il tasso di morti su 100 mila abitanti diventa ben presto tra i più alti d’Europa, con una vera e propria strage nelle case di riposo. Questo dato, più delle pressioni sempre più insistenti dell’opposizione parlamentare e dei cittadini, spinge il governo a aggiungere due misure restrittive: chiudere al pubblico tutte le case di riposo e vietare i raduni di più di cinquanta persone. Tegnell compare spesso in pubblico a discutere della strategia adottata. Il mantra è sempre: «È presto per giudicare». In estate i casi declinano e la situazione sembra migliorare, tanto che a settembre Tegnell e i suoi incontrano Boris Johnson per un’audizione sul loro modello, che il premier britannico (guarito a Pasqua) studia con attenzione. Il protocollo svedese, dopo una primavera di sfinenti lockdown in tutto il mondo, sembra tornare in auge; a luglio 2020 una lettera di 25 scienziati svedesi lancia un appello, «Non fate come la Svezia, non ha funzionato». È di quei giorni l’intervista al Financial Times in cui Tegnell prevede, disinvoltamente, che «difficilmente la Svezia vedrà nuovi picchi». Due mesi dopo, a novembre 2020, le terapie intensive di Stoccolma e Malmo sono piene. Escono i primi sondaggi preoccupanti: la fiducia generale nelle istituzioni a ottobre è del 68%, a dicembre del 52%. Il governo crea una commissione di vigilanza sulla risposta al Covid. La commissione emette un giudizio severo, particolarmente sulla gestione del Covid negli anziani . «La strategia per proteggere gli anziani è stata fallimentare». Il 17 dicembre il discorso del re. «Abbiamo sbagliato».
La schermaglia sulle mascherine. È in quei giorni che una legge introduce un’eccezione alla costituzione: lo stato potrà, se necessario, ordinare la chiusura delle attività produttive. Il 18 dicembre la Folkhälsomyndigheten di Tegnell diffonde una raccomandazione di indossare mascherine almeno nell’ora di punta sui mezzi - comunque ribadendo che il distanziamento è il vero antidoto alla trasmissione.
Lo scetticismo sull’uso delle mascherine, all’inizio della pandemia addirittura vietate in certi ospedali, è diventato uno dei simboli dell’eccezione svedese. La Folkhälsomyndigheten, all’inizio, ne scoraggia addirittura l’uso: non solo, è la spiegazione ufficiale, non ci sono sufficienti evidenze scientifiche che serva. Ma spesso le mascherine sono usate in modo scorretto, o addirittura sembrano una misura di protezione sufficiente che fa sì che ad esempio chi le indossa non tenga le distanze. La linea anti-mascherine è più forte soprattutto nei primi stadi della pandemia, quando le certezze della loro utilità, tra gli scienziati, erano poche - e c’erano poche certezze al riguardo. Ad aprile 2020 Tegnell scrive all’European Center for Disease Control chiedendo di sospendere le raccomandazioni in tema, dicendo che «gli argomenti contro sono almeno altrettanti che quelli a favore». Tegnell insiste sempre sul distanziamento.
Il confronto con gli altri Paesi. Per valutare l’efficacia delle misure adottate da Stoccolma, con quali Paesi ha senso confrontarle? L’orientamento della comunità scientifica internazionale è più spesso quello di confrontarli con quelli degli altri Paesi scandinavi, comparabili per diversi fattori chiave — dalle strutture del sistema sanitario al contesto socioeconomico — ma più rigidi nel limitare spostamenti, assembramenti e attività produttive. In questo caso i contagi per milione di abitanti e la mortalità sono peggiori in Svezia che nei Paesi vicini. A oggi i morti complessivi di Covid-19 sono 14.682. I casi totali sono 1.122.139. Ha avuto il Covid-19 l’11% degli svedesi. In Norvegia: 152.714 casi totali, 814 morti. I norvegesi sono 5,3 milioni: lo ha avuto il 2,9% dei norvegesi. Finlandia: 124.285 casi, 1.019 morti. I finlandesi sono 5,5 milioni e lo ha avuto il 2,2% dei finlandesi Danimarca: 342.861, 2.575 morti. I danesi sono 5,8 milioni. E così via. Anders Tegnell ha sempre sostenuto però che la Svezia vada confrontata — per la maggiore densità abitativa, avendo il doppio degli abitanti della Norvegia — con il resto d’Europa. Anche per quanto riguarda la percentuale di stranieri sul territorio, la Svezia somiglia più a un Paese Ue che ai suoi vicini scandinavi. Eppure non ci sono evidenze epidemiologiche di una maggiore incidenza del Covid-19 tra gli stranieri in alcun altro Paese d’Europa. L’Italia e la Danimarca hanno una simile percentuale di stranieri residenti (il 10% circa) ma statistiche Covid-19 ben diverse. In senso ancora contrario va invece una ricerca del dipartimento di salute pubblica pubblicata a primavera 2021: nella popolazione di migranti ci sono molti più ospedalizzati per Covid-19 e meno vaccinati. Insomma, i migranti pesano o no? Anche qui, «è presto per giudicare». L’impatto sul Pil, viceversa, non è stato tanto più clemente: la Svezia nel 2020 ha perso circa il 3 per cento, meglio della media europea ma non della media scandinava.
Quel che ha funzionato. Anche confrontando la Svezia con i vicini scandinavi più rigoristi, comunque, la pandemia a oggi non è stata una catastrofe. Non si sono avverate, per esempio, le proiezioni tragiche del paper dell’università di Uppsala. Perché? La risposta sanitaria, con ospedali di alto livello, è stata all’altezza. Ma soprattutto le restrizioni, forse, non sono state davvero così lassiste come sono parse nel resto del mondo. Gli svedesi, già inclini a isolarsi — come la paziente zero — si sono davvero mossi assai meno che in tempi normali. Le scuole sono sì rimaste aperte, ma le superiori e le università hanno trasferito online tutte le attività, e la didattica a distanza ha preso piede sopra i 16 anni in modo capillare. Queste misure sono forse state sufficienti, di per sé, ad arginare il propagarsi incontrollato dei contagi. E mentre le curve di tutta Europa, comprese Danimarca e Norvegia, continuano a salire verso l’alto, quella svedese resta meno ripida. È possibile che dopo 16 mesi di pandemia si stiano davvero mietendo i frutti di una politica che a molti è parsa controcorrente? Anche in questo caso, «è presto per giudicare».
Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 agosto 2021. Come sta andando il Covid in Svezia? Nelle ultime due settimane il paese ha registrato una media di 0,6 decessi per Covid al giorno, contro i 74 del Regno Unito e i 329 degli Stati Uniti. Nonostante un numero di morti pro capite di molto maggiore rispetto alla vicina Scandinavia, la Svezia ha mantenuto aperta la sua economia durante la pandemia ed è stata riluttante a imporre rigide regole di distanziamento sociale o restrizioni. All’inizio di luglio ha fatto cadere l’ultima restrizione, l’uso della mascherina sui mezzi pubblici, contrariamente a Regno Unito e Usa dove la protezione personale è ancora raccomandata. I Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC) venerdì hanno avvertito che la variante Delta è contagiosa quanto la varicella, ma Anders Tegnell, l'architetto della strategia Covid svedese, ha messo in guardia contro simili analogie radicali. L'epidemiologo ha affermato che c'è ancora «molto che non sappiamo» sul ceppo Delta e che è sbagliato trarre «conclusioni di vasta portata». Parlando al quotidiano Aftonbladet, Tegnell ha affermato che la variante Delta era il ceppo dominante in Svezia ed era in circolazione da «un bel po' di tempo». Ha detto al giornale: «È difficile dire quanto sia contagioso il Delta, per la varicella, siamo stati in grado di seguire la malattia per diversi anni. L'infettività [di Delta] sembra essere molto irregolare: in alcuni casi, una persona infetta un centinaio di persone, altre volte non infetta nessuno». Ma nonostante non siano state registrate infezioni in molti comuni, Tegnell non crede affatto che la pandemia sia finita. «Ovunque c'è bisogno di preparazione e attenzione. Non bisogna trarre alcuna conclusione dal fatto che questa settimana non sono stati trovati malati in un comune. Può portare a gravi conseguenze se abbassi la guardia», ha detto. Lunedì, Tegnell ha annunciato piani per dosi di vaccino di richiamo per i cittadini più vulnerabili dall'inizio di settembre. «La valutazione è che non è possibile sradicare il virus e quindi il lavoro di vaccinazione dovrebbe essere a lungo termine e focalizzato sulla riduzione di malattie gravi e morte», ha affermato il capo della sanità. Il dipartimento della salute svedese ha dichiarato di aspettarsi che l'intera popolazione adulta avrà ricevuto due vaccinazioni entro l'autunno e che ci sarà una buona fornitura di vaccini nei prossimi anni. L'autorità non ha fornito una cifra esatta di quante persone avrebbero ricevuto un terzo vaccino l'anno prossimo, ma ha detto che sarebbe stato offerto a gran parte della popolazione.
In Svezia non hanno avuto il lockdown. E stanno meglio di noi. Stefano Magni su Inside Over il 4 agosto 2021. Ma in Svezia non sono tutti morti? A giudicare dalle previsioni fatte nella primavera del 2020 e dalle notizie allarmistiche diffuse da tutti i media europei, nel Paese scandinavo dovrebbero essere tutti morti di Covid-19. Invece: anche nel pieno della nuova ondata estiva, dovuta alla diffusione della variante Delta, la Svezia registra meno vittime rispetto alle nazioni più colpite. La differenza è enorme: una media di 0,6 decessi per Covid al giorno, contro i 74 del Regno Unito e i 329 degli Stati Uniti. Anche facendo le debite proporzioni con la popolazione, la Svezia resta molto indietro rispetto alle nazioni più colpite: 0,06 morti per milione di abitanti in Svezia, mentre nel Regno Unito sono 1,2 ed 1,09 negli Usa (dati del 31 luglio, Our World in Data). Negli altri due Paesi il numero delle vittime è in crescita, in Svezia è in calo, sia nelle tendenze settimanali che in quelle bi-settimanali.
La Svezia continua a far discutere perché è praticamente l’unico Paese membro dell’Ue che non ha mai adottato una politica di lockdown. L’Imperial College, che con il professor Neil Ferguson è diventato uno dei più ascoltati in Europa, prevedeva, per la Svezia, fino a 18 morti al giorno ogni 100mila abitanti, nel momento di picco, in caso di assenza di misure di lockdown. Nel peggiore dei casi possibili, calcolava 65mila vittime. Il governo di Stoccolma non ha ascoltato i consigli di Ferguson, bensì quelli dell’infettivologo Anders Tegnell. Non ha chiuso nulla e ha limitato al minimo anche le politiche di distanziamento, obbligo di mascherina e tracciamento. Da quel momento in poi, la politica svedese è stata descritta come una follia dai media di tutto il mondo. Ma le profezie dell’Imperial College non si sono avverate mai. In totale, da febbraio 2020 ad oggi (4 agosto 2021), le vittime di Covid-19 in Svezia sono state 14.620, circa 4 volte e mezzo in meno rispetto a quelle previste in uno scenario senza lockdown. In termini relativi, dunque il numero di morti per milione di abitanti, la Svezia ne ha subiti 1438, al 39mo posto nel mondo, dietro a quasi tutti i Paesi europei che hanno applicato il lockdown (l’Italia è al 16mo con 2122 vittime per milione di abitanti). I fatti hanno clamorosamente smentito le previsioni, ma non hanno cambiato la percezione dell’opinione pubblica. È tuttora talmente radicata l’idea che solo il lockdown salvi vite, che, se la realtà contraddice questa idea, è la realtà che deve essere messa da parte. Il trattamento che i media hanno riservato alla politica di Stoccolma ne è la dimostrazione. La nazione scandinava, nel corso della prima ondata (febbraio-giugno 2020), era stata descritta addirittura come la “maglia nera” dell’Europa. Alla fine di maggio, era data come “prima per tasso di mortalità”. Tutti si attendevano l’ecatombe prevista, che non c’è stata. Solamente nella seconda settimana di maggio, infatti, il Paese nordico ha registrato il numero di morti medio quotidiano settimanale più alto d’Europa. Rileggiamo più lentamente: numero di morti medio, quotidiano, settimanale. Un dato veramente dettagliato che non fotografava affatto la situazione nel suo complesso e che, per di più, si è ridotto nelle settimane successive. In generale, alla fine della prima ondata la Svezia era, in termini assoluti (numero di morti), non la prima, bensì la quindicesima al mondo con 3.871 vittime. Siccome i numeri assoluti significano poco, allora si guarda ai numeri relativi: il numero di morti per milione di abitanti. Anche in questo caso, la Svezia non era la prima, ma l’ottava (384 morti per milione di abitanti), superata da Francia, Regno Unito, Italia, Spagna, Andorra, Belgio e San Marino. Nella seconda ondata (ottobre-novembre 2020) che è stata usata, politicamente, come misura dell’efficienza o dell’inefficienza delle precedenti politiche anti-Covid, vediamo che l’impatto che questa ha avuto sulla Svezia è decisamente inferiore rispetto a quello di quasi tutti gli altri Stati europei colpiti. Secondo i dati elaborati dalla Fondazione Hume (del sociologo Luca Ricolfi), i decessi medi settimanali, su 100mila abitanti, nei mesi di ottobre e novembre erano 0,91 in Svezia, meno di uno al giorno. Andava meglio anche rispetto alla Germania, nota come esempio virtuoso, che registrava 0,95. Decisamente meno che in Italia, con 3,67 e anche di Spagna, Regno Unito, Francia e Belgio. Anche l’arrivo della variante Delta non ha cambiato lo scenario. La Svezia resta sempre relativamente più sicura rispetto alla maggioranza dei Paesi europei. Questo vuol dire che il lockdown non serve a nulla? Non esageriamo, sarebbe una conclusione troppo affrettata. Vuol dire, però, che abbiamo un “controfattuale”, una storia fatta con i “se”. La Svezia è la nostra storia controfattuale: cosa sarebbe successo se avessimo tenuto tutto aperto, senza chiudere le aziende, senza impedire ai giovani di frequentare la scuola in presenza e di divertirsi alla sera, senza impedire ai runner di correre e agli sciatori di fare le loro discese e risalite sugli impianti… quanti morti avremmo avuto? Non molti di più, forse anche meno: è la risposta che ci arriva dall’esperimento svedese. E fa male, considerando i sacrifici affrontati in questo anno e mezzo e i danni, forse permanenti, lasciati dal lockdown alla nostra società, prima ancora che alla nostra economia.
Fabio Dragoni per "la Verità" " il 27 aprile 2021. Hanno un costo spropositato rispetto ai benefici. Spesso sono difficilmente valutabili. Quasi sempre inutili e talvolta addirittura controproducenti. Stiamo parlando degli «Interventi non farmaceutici» per contenere la diffusione di un morbo. In gergo «Npi» che abbiamo imparato a conoscere con il termine lockdown. Chiusure di attività ritenute «non essenziali» per combattere la diffusione del Covid. Il prezzo lo paga il ristoratore o il barista che deve abbassare la saracinesca e chi dentro vi lavora. Noi della Verità avanziamo da tempo dubbi sull' efficacia di queste soluzioni. Contro di noi quasi tutti i mezzi di informazione ispirati da esperti quali Andrea Crisanti, Roberto Burioni, Massimo Galli, Anna Capua, Nino Cartabellotta e Walter Ricciardi. Venerati come divinità nei salotti televisivi. Ma le opinioni di questi signori rappresentano veramente quelle dei tanti scienziati in tutto il mondo? Abbiamo raccolto più di cinquanta pubblicazioni scientifiche, molte delle quali reperibili anche sull' account twitter Brumby. Lavori che hanno coinvolto più di duecento scienziati delle più prestigiose università, istituzioni e centri di ricerca in tutto il mondo. Da Stanford a Pittsburgh. Da Sidney a Tokyo. Dal Fmi a Jp Morgan. Lavori talvolta consultabili ancor prima della pubblicazione (preprint). L' esito è univoco. Abbiamo ragione noi a dubitare dell'efficacia delle chiusure. Non potremo che segnalarvi i più importanti non potendo fare un numero monografico. «Non escludiamo piccoli benefici, ma non ne vediamo di significativi in termini di contenimento della crescita dei casi. Simili risultati si possono ottenere con interventi meno severi». La firma è quella di Ioannidis. Epidemiologo di fama mondiale con un H index di 214. È la misura della qualità e della quantità del suo lavoro. Tre volte quello di Crisanti. Quattro volte Galli. Cinque volte Burioni e Ricciardi. Cartabellotta non pervenuto. «Gli asseriti benefici del lockdown appaiono sfacciatamente esagerati». Scrive addirittura in un altro preprint sempre Ioannidis. «Iniziative quali la chiusura delle frontiere, lockdown nazionali, test di massa non si associano a riduzioni statisticamente significative sul numero dei casi e sulla mortalità» fa eco uno studio di cinque studiosi delle università di Toronto, Houston e Ioannina . «Dimostriamo che l'efficacia del lockdown nel risparmiare vite umane è modesta se confrontata con interventi focalizzati. Hanno costi enormi e possono avere effetti economici devastanti e tali da aumentare il numero dei morti in futuro». Scrive in preprint un gruppo di ricercatori dell' Università di Tel Aviv, mentre The Lancet lo scorso aprile invitava i governi ad «applicare le misure disponibili in modo mirato a diversi gruppi generazionali [] visto che il 96% dei decessi legati al Covid-19 in Europa si è verificato in pazienti di età superiore di 70 anni».
«Dimostriamo che i livelli di infezione sono diminuiti prima che il lockdown iniziasse []. Ad esempio, la Florida sta andando meglio della California nonostante Disney World sia aperto da mesi e la California non abbia attualmente alcun piano per riaprire nulla a partire da Disneyland». Scrivevano a gennaio gli studiosi danesi Kepp e Biornskow. Infine, «Npi meno dirompenti e costosi possono essere efficaci quanto quelli più intrusivi e drastici quale un lockdown nazionale» scrive un gruppo di nove studiosi delle università di Vienna, Parigi, Roma e Santa Fe. Se non costosi, i lockdown sono molto difficili da valutare a parere di molti scienziati. I modelli non supportano affermazioni in base alle quali l' indice Rt si sia ridotto dell' 80% grazie al lockdown. Scrivono nella sostanza cinque studiosi delle università scozzesi di Edimburgo e Glasgow in preprint. Dalle Università di Parigi e Tolosa cinque autori spiegano che la mortalità è principalmente legata a fattori economici e ambientali di contesto; in altre parole «il rigore delle misure stabilite per combattere la pandemia, compreso il lockdown non sembra essere legato al tasso di mortalità». Addirittura, già nel 2006, il Medical Center di Pittsbourgh evidenziava che non ci sono osservazioni storiche che supportano le quarantene di massa per lunghi periodi. «Le conseguenze negative sono così estreme che questa misura di contenimento non dovrebbe essere seriamente considerata» Dall' Università di Greenwich ci fanno sapere che «i lockdown si basano su modelli teorici non empirici. I problemi che creano sono superiori alle vite che salvano». Mentre da Burnaby in Canada si sottolinea come le analisi costi benefici su cui si appoggiavano i lockdown vengono «successivamente confutate dai dati» Quasi la metà degli studi sul nostro tavolo dimostrano invece la sostanziale inutilità delle chiusure ai fini del contenimento del virus. Secondo l'università di Edimburgo le diminuzioni delle infezioni in Inghilterra iniziano prima del lockdown; lo dimostra un confronto con la Svezia che senza chiusure ha avuto dinamiche analoghe. I tedeschi Homburg e Kuhbandner sulla rivista Nature definiscono «illusori» gli effetti dei Npi ai fini del contenimento del virus nel Regno Unito.Quattro studiosi dell'Università di Norwich, Londra e Newcastle scrivono in preprint che «le quarantene domiciliari obbligatorie, la chiusura delle attività non essenziali e l' utilizzo di mascherine non sono associabili ad alcun impatto aggiuntivo».Muener, della Woods Hole Oceanographic Institution in Massachussets specifica che «I lockdown completi nell' Europa occidentale non hanno avuto impatti evidenti sull' epidemia di Covid 19». Ci si mette addirittura JP Morgan a dire che «i dati mostrano una diminuzione dei contagi anche dopo le riaperture». Il New Zealand Economic Paper riporta come «gli studi condotti su tutto il Paese hanno rilevato l'inefficacia dei lockdown». Il lockdown è controproducente. Proprio così. Non mancano addirittura gli studi che segnalano la pericolosità più che l'inutilità di queste misure. Già nel 2009 Cohen e Lipsitch esprimevano preoccupazione sul paradossale effetto che misure di contenimento della circolazione del virus avrebbero avuto nello spostare «il peso dell'infezione verso gli individui più anziani». Su Newsweek, il prestigioso epidemiologo Harvey Risch della Yale Medical School definisce controproducenti i lockdown perché ritardano il raggiungimento dell' obiettivo dell' immunità di gregge. Atteso che ogni studio è fatto per essere analizzato, dibattuto ed eventualmente confutato, sconcerta l' enormità del numero dei lavori che certificano l' inutilità se non addirittura la dannosità del lockdown unitamente al prestigio dei suoi estensori e alla capillare diffusione geografica di dette analisi in ogni parte del pianeta. Saremo curiosi di vedere come esperti di zanzare e veterinari assortiti - tutti travestiti da esperti televisivi - contesteranno questi report. Più probabile che li ignorino e continuino imperterriti nella loro opera. Voi lettori potrete giudicare da soli.
Graziella Melina per "il Messaggero" il 13 maggio 2021. Quanto incida il coprifuoco nel tenere a bada il virus, gli scienziati non lo sanno con certezza. Di sicuro c' è che il rientro obbligatorio a casa entro una certa ora è una misura di precauzione che serve per evitare gli assembramenti, e quindi la trasmissione del virus. Ma questa restrizione funziona solo se è combinata ad altre precauzioni ormai comuni, ossia il distanziamento e l' uso delle mascherine. Mentre in Italia si discute su un possibile allungamento dell' orario, in altri Paesi europei la restrizione alla circolazione serale resiste, seppure con orari diversi, come in Francia (tutti a casa dalle 19), e la Germania, dalle 22. Ma c' è chi lo ha abolito: ultima in ordine di tempo la Spagna (niente restrizioni alla circolazione dal 9 maggio), preceduta da Portogallo, Belgio e paesi scandinavi. Gli scienziati italiani, però, preferiscono la linea della cautela. Non è possibile stabilire con certezza l' esatta incidenza di questa strategia nel mitigare l' epidemia. «È una delle tante misure che concorrono a rallentare la trasmissione del virus - rimarca Fabrizio Pregliasco, ricercatore di Igiene generale e applicata dell' Università degli Studi di Milano - Sappiamo che è efficace perché riduce la mobilità e quindi la possibilità di contagio interpersonale». Il coprifuoco da solo però non basta. «Si tratta di una restrizione che va messa in atto insieme a tante altre - mette in guardia Patrizia Laurenti, professore di Igiene dell' Università Cattolica di Roma - Per il momento, dunque, non abbiamo contezza che il coprifuoco di per sé abbia un peso rilevante nella modifica dell' andamento dell' epidemia. Ma è plausibile che abbia contribuito a rallentare la diffusione del virus insieme a tutte le altre precauzioni di sicurezza». Dal punto di vista epidemiologico non è possibile definirlo. «Un' ora in più o in meno non cambia molto - rimarca Claudio Mastroianni, direttore di malattie infettive del Policlinico Umberto I di Roma e vice presidente della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali) - quindi credo che pensare di spostarlo di qualche ora in avanti sia un ragionamento che si possa fare». Ma bisogna mettere in conto che la circolazione delle persone rappresenta comunque di per sé un fattore di rischio. «È ovvio che se si dà la possibilità di rimanere più tempo fuori casa - sottolinea Massimo Ciccozzi, direttore dell' Unità di Statistica medica ed Epidemiologia molecolare dell' Università Campus Bio-medico di Roma - ci saranno più probabilità di avere aggregazione e magari di potersi infettare». I rischi di contagio sono possibili sempre. «Il problema, però, è che in genere - sottolinea Mastroianni - durante le ore serali e di notte soprattutto fra i giovani sono più frequenti situazioni di assembramento. Ricordiamo poi che è proprio questa la fascia di età che in questo periodo sta favorendo la circolazione del virus». I giovani sono dunque gli osservati speciali. E non c' è da stupirsi, visto che, come ricorda Ciccozzi, «non essendo stati ancora vaccinati, ora sono i più suscettibili al virus e quindi si ammalano di più. E poi, avendo una maggiore socialità rispetto agli ultra quarantenni, la sera e la notte si incontrano e si aggregano di più di tutti gli altri, e quindi possono trasmettere il virus». Per il momento, gli esperti preferiscono attenersi ai dati dei contagi. «È meglio mantenerlo ancora, ma con una progressione dell' orario - precisa Pregliasco - Credo sia fondamentale liberarsene con gradualità, ma solo quando saremo più avanti con le vaccinazioni, così come le altre nazioni. Tutto dipende dall' andamento epidemiologico». Per deciderlo, serve dunque un costante monitoraggio di diversi parametri, come il numero dei contagiati, ma anche le ospedalizzazioni. Meglio, intanto, rimanere cauti e ipotizzare uno spostamento del coprifuoco di qualche ora. «Gradualmente - osserva Laurenti - si può estendere l' orario di apertura dei locali, anche perché andiamo verso la bella stagione e si sta di più all' aperto. Però, con una discriminante, ossia il rispetto delle regole. Ricordiamo che anche all' aperto, infatti, se c' è assembramento e ci si toglie la mascherina il rischio di contagiarsi rimane».
Coprifuoco, lockdown e chiusure non hanno aiutato: "Stiamo peggio di prima". Alessandro Ferro il 30 Aprile 2021 su Il Giornale. Più ricoverati in terapia intensiva, più casi giornalieri, stesso indice di positività e centinaia di decessi ogni giorno: dopo un anno, la pandemia sembra al punto di partenza. I numeri non mentono e fotografano benissimo la situazione attuale: stiamo meglio o peggio di un anno fa, quando il 18 maggio 2020 ci furono le prime riaperture dopo oltre due mesi di lockdown serrato? Le risposte, purtroppo, non sono quelle sperate dopo un anno di pandemia e tutte le chiusure che ci hanno accompagnato finora.
La fotografia attuale. Lunedì 26 aprile per oltre 45 milioni di italiani si è tornati ad una specie di "libertà vigilata" con riaperture di bar, ristoranti, spostamenti tra regioni (soltanto tra le gialle) ed una parvenza di normalità. La matematica, però, non è un'opinione: soltanto pochi giorni fa, prendendo in esame i numeri di venerdì 23 aprile, si è visto che i nuovi casi giornalieri di positivi al Covid sono stati 14.761 contro i 451 del 23 aprile dell'anno scorso; i morti sono stati 342 contro i 99 del 23 aprile 2020, i ricoverati in terapia intensiva 2.929 contro 749, quelli nei reparti ordinari 21.440 contro 10.207. Infine, i casi attivi risultavano 465.543 contro 66.553 (numeri del Corriere). Per tutte e cinque queste voci, come si vede, l'aumento rispetto allo stesso giorno di un anno fa è inequivocabile. Ma come è possibile che, un anno dopo, ci troviamo in una situazione per certi versi peggiore dello scorso anno nonostante le chiusure che, evidentemente, non hanno aiutato? Come si possono commentare questi numeri con quelli di fine aprile dello scorso anno?
"Stiamo molto peggio dell'anno scorso". “Ho fatto un aggiornamento tra il 27 aprile del 2020 ed il 27 aprile di quest’anno: non guardo mai il dato giornaliero, ma calcolo la media dei sette giorni precedenti per evitare quello che succede sempre quando la domenica si dice ‘i morti sono diminuiti’ ed il lunedì si dice che sono risaliti, così come il tasso di positività che è tipicamente più alto la domenica rispetto agli altri giorni. Facendo il confronto giorno su giorno, oggi stiamo molto peggio dell’anno scorso per quel che riguarda le terapie intensive, ci troviamo il 32.8% al di sopra", afferma in esclusiva per ilgiornale.it Giuseppe Arbia, professore ordinario di Statistica Economica presso la Facoltà di Economia dell'Università Cattolica di Roma. Il Prof. ci ha spiegato come, ad oggi, "i posti occupati nei reparti di terapia intensiva sono 3.032, il 27 aprile 2020 erano 2.282 (sempre medie settimanali). Come tasso di positività siamo uguali all’anno scorso al 4,7%, mentre siamo al di sotto, per fortuna, per quanto riguarda i decessi: oggi se ne contano 330, il 27 aprile 2021 erano 409 (-19.3%)”. In pratica si assiste ad un aumento delle terapie intensive, i decessi rimangono centinaia al giorno ma, per capire come stiamo, il tasso di positività è uno dei criteri fondamentali. “Si, ma assieme a decessi e posti in terapia intensiva. Il tasso di positività è identico, come conseguenze del virus siamo più o meno nella stessa situazione, anzi direi un po’ peggio quest’anno”, sottolinea Arbia.
"Oggi c'è una percentuale di positività più alta". Un anno dopo abbiamo una situazione peggiore di quella dell'anno scorso, a giudicare dai numeri. Cosa abbiamo sbagliato? "Il lockdown più duro è stato quello della prima ondata: i risultati al 18 maggio erano il risultato di restrizioni più profonde. È chiaro che si facevano meno tamponi ma la percentuale di positività era dell'1%, adesso si viaggia intorno al 5-6% in base al giorno preso in esame", afferma al nostro giornale il Prof. Giovanni Di Perri, Direttore del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Ospedale Amedeo di Savoia e della Scuola di Specializzazione in Malattie Infettive dell’Università degli Studi di Torino svolgerà attività ambulatoriale. Da questo punto di vista, ci spiega l'infettivologo, c'è un terzo della popolazione che non dovrebbe essere suscettibile perché già infettata o vaccinata con almeno una dose. "Ma sui 40 milioni restanti, suscettibili, l'infezione corre molto di più dell'anno scorso e non è la stessa infezione perché si tratta della variante inglese, che contagia molto di più". È questo, insomma, l'elemento principale dal punto di vista tecnico che differenzia i due periodi. "È una situazione dinamica, ogni giorno il numero di soggetti immunizzati aumenta sia per il contagio ma soprattutto per le vaccinazioni ed in poche settimane potrà cambiare il volto di questo rapporto ma purtroppo le vaccinazioni non sono veloci come il generale Figliuolo vorrebbe e questo processo di immunizzazione va avanti ad una velocità inferiore rispetto a quella desiderata", aggiunge Di Perri.
Cosa dicono quei numeri. Leggendo i numeri vengono i brividi: mesi di chiusure, mezze riaperture, nuove chiusure, zone rosse e coprifuoco sembrano non essere serviti a nulla o davvero a ben poco. “Certamente quest’anno non stiamo meglio dell’anno scorso e dunque non c’erano i numeri per la ripartenza, per i passaggi in zona gialla di lunedì 26 aprile. Avremmo dovuto essere ancora più cauti”. Cosa è successo, allora? “Ci sono alcune cose che bisogna interpretare: la prima è che sono arrivate le varianti - afferma il Prof. Arbia - il fatto che siamo al di sopra come terapie intensive ma al di sotto come decessi mi fa pensare che in terapia intensiva vanno più frequentemente categorie di individui più giovani rispetto allo scorso anno, che sono meno fragili e che vanno incontro con probabilità più bassa ad un esito letale. Questo accade perché è iniziata la campagna vaccinale". Effettivamente, tra maggio e settembre dell'anno scorso il virus era giù mutato ma non circolavano tutte le varianti che abbiamo adesso e che sembrano mettere un po' a rischio anche i vaccini. "L’arrivo delle varianti che colpisce i più giovani e la campagna vaccinale che protegge i più deboli, gli anziani, ci porta a questi numeri. C’è più gente che entra in terapia intensiva ma c’è anche più gente che ne esce", aggiunge.
I casi attivi. Non dimentichiamoci dei casi attivi: l’anno scorso erano circa 66mila, oggi più di 465mila. “Non ho citato questi numeri perché è cambiato completamente il criterio di raccolta del dato: il numero di tamponi che facciamo oggi non è assolutamente paragonabile a quello dell’anno scorso, per questo motivo guardo soltanto il tasso di positività. Molti di questi 465mila sono asintomatici e sono a casa e l’anno scorso non sarebbero proprio stati rilevati. È vero che stiamo peggio dell’anno scorso, ma non 10 volte peggio. A tal proposito, i nuovi positivi del 27 aprile sono il triplo di quelli dell’anno scorso, ma i tamponi sono più del triplo. È per questo che dobbiamo guardare il tasso di positività che elimina questo effetto”, specifica il Prof. di statistica.
L'indice Rt. Il famoso indice Rt è il parametro che valuta quante persone possono essere contagiate da una sola persona in media e in un certo periodo di tempo in relazione, però, all’efficacia delle misure restrittive. Anche in questo caso, cos'è cambiato rispetto allo scorso anno? “L’Rt nazionale ci dice poco, dobbiamo guardare le situazioni locali. E poi, più passa il tempo e meno mi fido del calcolo dell’Rt perché dipende da troppe scelte soggettive". Il motivo ce lo spiega chiaramente: Rt non è una grandezza primaria e deriva come output di un modello statistico. Bisogna capire come detto modello viene utilizzato e quali dati vengono utilizzati in input. "Questo parametro è stato stimato un anno fa all’inizio dell’epidemia sui dati della sola Lombardia e da allora è rimasto sempre lo stesso, mentre è verosimile che vari nel tempo e nello spazio. Un altro input del modello è quello degli infetti, i quali sono sistematicamente sottostimati sfuggendo il numero degli asintomatici. Altro elemento rilevante è la lunghezza della serie storica che viene considerata per calcolarlo: se guardo gli ultimi 7 giorni ottengo un risultato, se guardo l’ultimo mese ne ottengo un altro così come se guardo tutta l’epidemia dall’inizio. Mentre nei primi mesi l’anno scorso Rt è stato un indicatore fondamentale, adesso non so quanto possa più essere considerato valido”, specifica il Prof. Arbia.
Quali sono le scelte sbagliate. “Non è adesso che stiamo sbagliando, è in precedenza che siamo stati troppo laschi con le misure" aggiunge. L'errore, forse, è avvenuto durante la seconda ondata, a cavallo delle festività natalizie, che bisognava essere più decisi con le chiusure e continuare a mantenere le restrizioni anche nelle prime settimane del 2021. Oltre a guardare al passato, l’altra cosa che possiamo fare è guardare cosa succede altrove. "Il Regno Unito sta aprendo in maniera decisa ma è stato chiuso dai primi di gennaio fino a qualche giorno fa, ha avuto un lockdown come il nostro della scorsa primavera ed ha attualmente un tasso di vaccinazioni che è circa il doppio del nostro". Ci però sono due obiettivi che sono in contrasto tra loro: controllare l’epidemia e non far morire l’economia. "L’errore che si è fatto in passato è pensare che uscire in fretta dall’epidemia significa uscirne bene, invece non è così. I Paesi che si troveranno meglio dal punto di vista della ripresa economica saranno quelli che hanno adottato misure più dure prima e, una volta usciti, non rischiano ulteriori ricadute. La cosa peggiore che potremmo fare è quella di allentare troppo le misure oggi e ritrovarci di nuovo nei guai tra qualche mese”, aggiunge Arbia.
"Le aperture? Una scelta politica". "Il fatto che le riaperture siano state decisioni di matrice politica è evidente, si è deciso di aprire in un momento in cui i dati oggettivi non erano tecnicamente quelli adatti in confronto a quando aprimmo nel maggio dell'anno scorso. Se il confronto è quello, i dati sono molto diversi", ci dice l'infettivologo Di Perri. Se ci troviamo in questa situazione, che senso hanno avuto tutte le chiusure che si sono susseguite dall'ottobre 2020 fino a pochi giorni fa? "Hanno limitato ma non c'è stata la profondità di azione del primo lockdown - afferma Di Perri - In più, nel mese di febbraio 2021, si è innestata la variante inglese che, a parità di condizioni, aumenta i contagi". Come dice un report dell'Istituto Superiore di Sanità, il 3 febbraio i casi di variante inglese erano il 12%, il 18 febbraio il 54%, i primi di marzo il 90%. "È stato ai primi di febbraio che la variante inglese si è presa il Paese. Mettendo a latere tutte le considerazioni sui numeri, ad ogni modo, si è riaperto con una variante più contagiosa: se abbiamo preso le misure sul vecchio virus, quelle misure non valgono più perché questo virus contagia di più", sottolinea. Insomma, il confronto con le strade vuote di marzo ed aprile del 2020 confrontate con quelle da settembre in poi non regge, è molto diverso: è chiaro che in questi mesi abbiamo avuto un lockdown più soft ma il risultato è sempre lo stesso, molte categorie ne hanno sofferto e la situazione non è certamente migliorata. "Ricordiamoci che la scuola fu totalmente chiusa durante il lockdown mentre nella seconda ondata i miei figli di 9,7, e 5 anni sono sempre andati a scuola salvo quest'ultimo periodo che hanno fatto dad per un paio di settimane", aggiunge Di Perri. Con l'aumentare delle vaccinazioni, però, a parità di numeri, dovremmo correre meno pericoli. "Se mettiamo progressivamente in sicurezza le fasce d'età più a rischio, una volta immunizzati tutti gli ultra60enni me la gioco, nel senso che a quel punto gli ospedali si saranno svuotati perché l'infezione nei soggetti più giovani determina molte meno ospedalizzazioni e morti. Siamo a metà del guado, che Dio ce la mandi buona", conclude.
Dagotraduzione da Aier il 26 aprile 2021. Non era mai successo che l'intero paese venisse bloccato. Non era successo nel 1968/69, nel 1957, negli anni 1949-1952 e neanche nel 1918. È successo invece a marzo dello scorso anno, in pochi, terrificanti, giorni che hanno provocato ovunque una distruzione sociale, culturale ed economica di cui sentiremo parlare nei secoli. In che modo un piano temporaneo per preservare la capacità ospedaliera si è trasformato in due o tre mesi di arresti domiciliari praticamente mondiali che hanno causato stop ai viaggi internazionali, disocuppazione, devastazione di ogni settore economico, confusione e demoralizzazione di massa? E questo in barba a tutte i diritti e le libertà fondamentali, tra cui anche la proprietà privata, cancellata dalla decisione di chiudere forzatamente migliaia di aziende? Qualunque sia la risposta, deve essere una storia incredibile. Come è incredibile quanto sia recente la teoria alla base del lockdown e del distanziamento sociale forzato. La macchina che ha creato questo pasticcio è stata inventata 14 anni fa, ed è stata poi sposata non dai medici esperti, ma dai politici. Iniziamo con la frase di allontanamento sociale, che si è trasformata in separazione umana forzata. Ho sentito parlare di distanza sociale per la prima volta nel film del 2011 Contagion. Ma sul New York Times se ne discuteva già il 12 febbraio 2006: Se l'influenza aviaria diventerà pandemica mentre il Tamiflu e i vaccini scarseggiano ancora, dicono gli esperti, l'unica protezione che la maggior parte degli americani avrà sarà «l'allontanamento sociale», che è il nuovo modo politicamente corretto di dire «quarantena». Ma la distanza sociale prevede anche misure meno drastiche: indossare maschere per il viso, stare fuori dagli ascensori, toccarsi con il gomito. Questi stratagemmi, dicono gli scienziati, riscriveranno i modi in cui interagiamo, almeno durante le settimane in cui le ondate di influenza ci investiranno. Per fortuna l'influenza aviaria del 2006 non ha trovato terreno fertile e non ha avuto conseguenze. Tranne una: ha spinto l'allora presidente George W. Bush adì informarsi sulla spagnola del 1918 e sulle conseguenze catastrofiche di quella pandemia. E a chiedere ad alcuni esperti di preparare un piano strategico per affrontare la diffusione di virus pericolosi. Sempre il New York Times, questa volta il 22 aprile del 2020, racconta come andò: Quattordici anni fa, due medici del governo federale, Richard Hatchett e Carter Mecher, incontrarono un collega in una hamburgeria alla periferia di Washington per un'ultima revisione di una proposta che sapevano sarebbe stata trattata come una bomba: obbligare gli americani a restare a casa dal lavoro nel caso il paese venisse colpito da una pandemia mortale. Quando hanno presentato il loro piano non molto tempo dopo, sono stati accolti con scetticismo e con una certa dose di scherno da alti funzionari, che come altri negli Stati Uniti si erano abituati a fare affidamento sull'industria farmaceutica, con la sua gamma sempre crescente di nuovi trattamenti, per affrontare le sfide della salute in evoluzione. Hatchett e Mecher proponevano invece l'autoisolamento, un metodo utilizzato per la prima volta nel Medioevo. Una delle storie mai raccontate durante il coronivurs è in che modo quell'idea - nata da una richiesta del presidente George W. Bush per garantire che la nazione fosse meglio preparata per la prossima epidemia - sia diventata il cuore delle linee guida nazionali per rispondere a una pandemia. Per superare l'intensa opposizione iniziale, la teoria ha richiesto il lavoro dei suoi principali sostenitori - il dottor Mecher, un medico del Dipartimento per gli affari dei veterani, e il dottor Hatchett, un oncologo diventato consigliere della Casa Bianca. Ai loro studi ne è stato poi aggiunto uno simile portato avanti dal Dipartimento della Difesa. E ha avuto alcune deviazioni inaspettate: una profonda immersione nella storia dell'influenza spagnola del 1918 e un'importante scoperta avviata dal progetto di ricerca della figlia liceale di uno scienziato presso i Sandia National Laboratories. Il concetto di allontanamento sociale è ormai intimamente familiare a quasi tutti. Ma quando si è fatto strada per la prima volta attraverso la burocrazia federale nel 2006 e nel 2007, è stato considerato poco pratico, inutile e politicamente irrealizzabile». Nel corso di questa pianificazione, non sono stati coinvolti né esperti legali né economici. Invece è toccato a Mecher (medico di terapia intensiva senza alcuna precedente esperienza in pandemie) e all'oncologo Hatchett. Ma di cosa parla il New York Times quando cita la figlia liceale di uno scienziato? La ragazza si chiama Laura M. Glass e recentemente ha rifiutato di essere intervistata dall'Albuquerque Journal che voleva approfondire la storia. «Laura, sotto la guida del padre, ha progettato una simulazione al computer per studiare come le persone - familiari, colleghi di lavoro, studenti nelle scuole, persone in situazioni sociali - interagiscono. Ha scoperto che i ragazzi delle scuole entrano in contatto con circa 140 persone al giorno, più di qualsiasi altro gruppo. Sulla base di questa scoperta, il suo programma ha mostrato che in un'ipotetica città di 10.000 persone, ne sarebbero state infettate 5.000 durante una pandemia se non fossero state prese misure, ma il numero si sarebbe ridotto a 500 se le scuole fossero state chiuse. Il nome di Laura appare sul documento alla base del lockdown e del distanziamento sociale, il «Targeted Social Distancing Designs for Pandemic Influenza» (2006). Il suo studio ha stabilito un modello per la separazione forzata. La ragazza lo ha poi applicato a ritroso nel tempo, fino al 1957, con buoni risultati. Il documento conclude con un'agghiacciante appello: «L'implementazione delle strategie di allontanamento sociale è impegnativa. Probabilmente le restrizioni devono essere imposte per tutta la durata dell'epidemia locale e possibilmente fino a quando non viene sviluppato e distribuito un vaccino specifico per ceppo. Se la conformità con la strategia è elevata durante questo periodo, è possibile evitare un'epidemia all'interno di una comunità. Tuttavia, se anche le comunità limitrofe non utilizzano questi interventi, i vicini infetti continueranno a introdurre l'influenza e prolungare l'epidemia locale, anche se a un livello poco significativo e più facilmente risolvibile dai sistemi sanitari». In altre parole, si tratta di un esperimento scientifico scolastico che è diventato legge attraverso un percorso tortuoso spinto più dalla politica che dalla scienza. L'autore principale di questo esperimento è stato Robert J. Glass, un analista di sistemi complessi al Sandia National Laboratories. Non aveva una formazione medica, tanto meno una competenza in immunologia o epidemiologia. Questo spiega perché il Dr. DA Henderson, «che era stato il leader dello sforzo internazionale per sradicare il vaiolo», ha completamente respinto l'intero progetto. Continua il NYT: «Il dottor Henderson era convinto che non avesse senso forzare la chiusura delle scuole o interrompere le riunioni pubbliche. Gli adolescenti sarebbero scappati dalle loro case per passare il tempo al centro commerciale. I programmi della mensa scolastica sarebbero stati chiusi e i bambini poveri non avrebbero avuto abbastanza da mangiare. Il personale ospedaliero avrebbe avuto difficoltà a lavorare se i figli fossero stati a casa. Scriveva Henderson che le misure ideate da Mecher e Hatchett «avrebbero provocato una significativa interruzione del funzionamento sociale delle comunità e avrebbero portato a possibili seri problemi economici». Secondo Henderson, l'unica risposta valida a una pandemia è resistere: lasciare che la pandemia si diffonda, curare le persone che si ammalano e lavorare rapidamente per sviluppare un vaccino che ne impedisca il ritorno». Phil Magness di AIER si è messo al lavoro per trovare la letteratura che rispondesse al documento del 2006 di Robert e Laura M. Glass e ne confutasse le tesi, e ha scoperto il seguente manifesto: Disease Mitigation Measures in the Control of Pandemic Influenza. Gli autori, DA Henderson, insieme a tre professori della Johns Hopkins, confutano l'intero modello di blocco. Non ci sono osservazioni storiche o studi scientifici che supportano il confinamento in quarantena di gruppi di persone potenzialmente infette per periodi prolungati al fine di rallentare la diffusione dell'influenza. … Nell'ultimo mezzo secolo è difficile identificare circostanze in cui la quarantena su larga scala è stata utilizzata efficacemente nel controllo di qualsiasi malattia. Le conseguenze negative della quarantena su larga scala sono così estreme (reclusione forzata dei malati; restrizione completa dei movimenti di grandi popolazioni; difficoltà nel fornire rifornimenti critici, medicinali e cibo alle persone all'interno della zona di quarantena) che, dopo un'attenta considerazione, questa misura di mitigazione dovrebbe essere eliminata... La quarantena domestica solleva anche questioni etiche. L'implementazione della quarantena domestica potrebbe comportare il rischio di infezione da parte dei malati su persone sane e non infette. Potrebbero essere raccomandate pratiche per ridurre la possibilità di trasmissione (lavarsi le mani, mantenere una distanza di 2 metri dalle persone infette , ecc.), Ma una politica che imponga la quarantena domestica precluderebbe, ad esempio, l'invio di bambini sani dai parenti quando un membro della famiglia si ammala. Una tale politica sarebbe anche particolarmente dura e pericolosa per le persone che vivono in ambienti ravvicinati, dove il rischio di infezione sarebbe aumentato. Le restrizioni di viaggio, come la chiusura degli aeroporti e lo screening dei viaggiatori alle frontiere, sono state storicamente inefficaci. Il World Health Organization Writing Group ha concluso che «lo screening e la messa in quarantena dei viaggiatori in entrata ai confini internazionali non hanno sostanzialmente ritardato l'introduzione del virus nelle passate pandemie... e sarà probabilmente ancora meno efficace nell'era moderna»... È ragionevole presumere che i costi economici legati all'interruzione dei viaggi aerei o ferroviari sarebbero molto alti, i costi sociali estremi. Durante le epidemie di influenza stagionale, gli eventi pubblici con grande partecipazione sono stati talvolta annullati o rinviati, con la logica di diminuire il numero di contatti con coloro che potrebbero essere contagiosi. Non ci sono, tuttavia, indicazioni certe che queste azioni abbiano avuto un effetto definitivo sulla gravità o sulla durata di un'epidemia. Se si prendesse in considerazione la possibilità di farlo su una scala più ampia e per un periodo prolungato, sorgerebbero immediatamente domande sul numero di tali eventi che sarebbero interessati. Ci sono molte riunioni sociali che coinvolgono stretti contatti tra le persone e questo divieto potrebbe includere servizi religiosi, eventi sportivi, forse tutti gli incontri di più di 100 persone. Potrebbe significare la chiusura di teatri, ristoranti, centri commerciali, grandi magazzini e bar. L'attuazione di tali misure avrebbe gravi conseguenze dirompenti. Le scuole vengono spesso chiuse per 1-2 settimane all'inizio dello sviluppo di focolai di influenza stagionale, principalmente a causa degli alti tassi di assenteismo, specialmente nelle scuole elementari, e a causa di malattie tra gli insegnanti. Ciò sembrerebbe ragionevole per motivi pratici. Tuttavia, chiudere le scuole per periodi più lunghi non solo è impraticabile, ma comporta la possibilità di un grave esito negativo. Pertanto, l'annullamento o il rinvio di riunioni di grandi dimensioni non avrebbe probabilmente alcun effetto significativo sullo sviluppo dell'epidemia. Mentre le preoccupazioni locali possono portare alla chiusura di eventi particolari per ragioni logiche, una politica che diriga la chiusura di eventi pubblici a livello comunitario sembra sconsigliabile. Quarantena. Come dimostra l'esperienza, non ci sono basi per raccomandare la quarantena di gruppi o individui. I problemi nell'attuazione di tali misure sono grandissimi ed è probabile che gli effetti secondari dell'assenteismo e dell'interruzione della comunità, nonché le possibili conseguenze negative, come la perdita della fiducia del pubblico nel governo e la stigmatizzazione delle persone e dei gruppi in quarantena, siano considerevoli. L'esperienza ha dimostrato che le comunità che affrontano epidemie o altri eventi avversi rispondono meglio e con la minima ansia quando il normale funzionamento sociale della comunità è meno interrotto. Sono elementi critici una forte leadership politica e sanitaria per fornire rassicurazioni e garantire che i servizi di assistenza medica necessari saranno forniti. Se uno dei due poteri è considerato non adeguato, un'epidemia gestibile potrebbe spostarsi verso la catastrofe». Affrontare un'epidemia gestibile e trasformarla in una catastrofe: sembra una buona descrizione di tutto ciò che è accaduto nella crisi del Covid-19 del 2020. Ma se alla base del lockdown e di tutto quello che ne è conseguito c'è la ricerca scientifica di una ragazzina del liceo, che ha utilizzato modelli matematici astratti che nulla avevano a che vedere con la vita reale e meno che mai con la medicina, come mai è prevalsa questa visione? Risponde sempre il New York Times: «L'amministrazione Bush alla fine si schierò con i fautori dell'allontanamento sociale e delle chiusure sociali, sebbene la loro vittoria sia stata poco notata al di fuori dei circoli della salute pubblica. La loro politica sarebbe diventata la base per la pianificazione del governo e sarebbe stata ampiamente utilizzata nelle simulazioni utilizzate per prepararsi alle pandemie e in modo limitato nel 2009 durante un'epidemia di influenza chiamata H1N1. Poi è arrivato il coronavirus e il piano è stato messo in atto per la prima volta in tutto il paese».
Dagotraduzione dalla Cnbc e dal DailyMail il 26 aprile 2021. Secondo un nuovo studio del MIT, le regole antiCovid stabilite dall'Oms e relative al distanziamento sociale e alla capienza dei luoghi chiusi «non hanno nessuna base scientifica». I ricercatori del Massachusetts Institute of Technology hanno infatti pubblicato i risultati di una ricerca che dimostra come, in un luogo chiuso (e a maggior ragione all'aperto), il rischio di contrarre il virus sia lo stesso per tutti, a prescindere dalla distanza a cui si mantengono i presenti. Martin Z. Bazant, professore di ingegneria e matematica applicata, e John WM Bush, ordinario di matematica applicata, hanno sviluppato un metodo per calcolare il rischio di esposizione al coronavirus in un ambiente chiuso considerando alcune variabili: il tempo di permanenza, i sistemi di filtraggio, la circolazione dell'aria, l'immunizzazione, le varianti del Covid, l'uso della mascherina combinate con le attività respiratorie in situazioni diverse (respirare, parlare, mangiare, cantare). «Noi sosteniamo che non c’è un grande vantaggio nella regola dei 2 metri, soprattutto quando le persone indossano mascherine», ha detto Bazant in un’intervista. «Questa precauzione non ha una base scientifica: l’aria che una persona espira indossando una maschera tende a salire e scendere in altre parti della stanza, quindi si è quasi più esposti restando lontani». La variabile fondamentale che è stata trascurata è la quantità di tempo trascorso al chiuso, ha detto Bazant. Più a lungo qualcuno è dentro con una persona infetta, maggiore è la possibilità di trasmissione. «La nostra analisi mostra che molti spazi, oggi forzatamente chiusi, non hanno bisogno di esserlo», ha detto Bazant. «Spesso, lo spazio è abbastanza grande, la ventilazione è abbastanza buona, la quantità di tempo che le persone trascorrono insieme è tale che quegli spazi possono essere gestiti in sicurezza anche a piena capacità». Le regole di allontanamento sociale di due metri che hanno portato alla chiusura di aziende e scuole sono «semplicemente non ragionevoli», secondo Bazant. «Questa enfasi sulla distanza è stata davvero fuori luogo fin dall’inizio. Il CDC e l’OMS non hanno mai fornito una spiegazione per questo, hanno detto solo che questo è ciò che va fatto e l’unica giustificazione di cui sono a conoscenza, si basa su studi su tosse e starnuti, in cui si osservano le particelle più grandi che potrebbero sedimentare sul pavimento e anche in questo caso è molto approssimativo, si può certamente avere un raggio più lungo o più corto, o goccioline di grandi dimensioni», ha detto Bazant. «La distanza non aiuta più di tanto e dà anche un falso senso di sicurezza: si è al sicuro a 2 metri come lo si è a 18 se si è in casa. Tutti in quello spazio corrono più o meno lo stesso rischio, in realtà», ha osservato. Secondo gli scienziati, inoltre, aprire le finestre o installare nuovi ventilatori per mantenere l'aria in movimento può essere altrettanto efficace o più efficace dell'acquisto di un nuovo sistema di filtrazione.
Vittorio Sgarbi sbotta alla Camera: "Il coprifuoco? Roba da comunisti balordi, malati di mente". Libero Quotidiano il 22 aprile 2021. “Coprifuoco è una parola da comunisti balordi”. Così Vittorio Sgarbi si è espresso nel corso del suo intervento alla Camera prima del voto sul Def. Il noto critico d’arte ha approfittato del tempo a sua disposizione per manifestare la sua più totale contrarietà nei confronti dell’estensione del coprifuoco almeno fino al primo giugno, tra l’altro senza neanche concedere la proroga dalle 22 alle 23 che era stata espressamente richiesta dalla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome. Già al termine del Consiglio dei ministri di ieri sera, Sgarbi era stato molto critico: “Il governo continua a provocare i cittadini - aveva scritto in un tweet - il coprifuoco alle 22 è una limitazione della libertà personale decisa da menti malate”. Intervenendo in un aula a Montecitorio, il noto critico d’arte è stato altrettanto duro: “Non so cosa sia un’Italia moderna e resiliente. Moderna non è per ragioni infrastrutturali, resiliente non so cosa voglia dire. Qualcuno ha inventato questa orrenda parola che viene ripetuta in modo idiota da persone che non usano la lingua italiana nell’anno di Dante”. “Ci sono parole inconciliabili - ha continuato il deputato del gruppo Misto - non resiliente e moderno o altre putt***te create per violentare la lingua, ma la parola ripresa e la parola coprifuoco: ripresa è una parola che indica rinascere, coprifuoco è una parola da comunisti balordi”.
Zero lockdown e 11 morti: così Taiwan ha sconfitto il Covid. Federico Giuliani su Inside Over il 22 aprile 2021. Appena 11 morti in un anno, 1.086 casi complessivi, un’incidenza di 46 contagi e 0.5 decessi per milione di abitanti. Tutto senza fare un solo lockdown da quando, oltre un anno fa, è scoppiata l’emergenza Covid-19. Benvenuti nell’altro mondo Taiwan, l’isola al centro di mille dispute geopolitiche, incastonata nel Mar Cinese Meridionale e “contesa” tra Stati Uniti e Cina. Per il Partito Comunista Cinese stiamo parlando di una provincia ribelle, a tutti gli effetti parte integrante del territorio della Repubblica Popolare, e che presto dovrà essere interamente riannessa alla mainland; per Washington siamo al cospetto di una roccaforte da supportare in chiave anti Pechino, e questo nonostante la Casa Bianca abbia sposato il principio di “una sola Cina”. Questioni complesse, storie vecchie appartenenti al passato, ma che oggi più che mai tornano a riempire le cronache internazionali relative alla vicenda taiwanese. Eppure, dietro a mille diatribe politiche, c’è un aspetto collegato alla pandemia di Sars-CoV-2 che dovrebbe fungere da promemoria per la maggior parte dei Paesi occidentali. Il modello di contenimento anti coronavirus sposato da Taipei non solo si è rivelato efficace, ma è riuscito pure a bilanciare la fame di libertà chiesta dai cittadini, la contrazione dell’economia e la diffusione del “nemico invisibile”.
Le radici del successo. Poco importa se Taiwan si trova geograficamente a due passi dalla terraferma cinese, e se il flusso di viaggiatori tra l’isola, Pechino e le altre città della Repubblica Popolare era particolarmente intenso prima dello scoppio dell’emergenza. Taipei, memore anche del precedente relativo alla Sars nel 2003, ha agito in maniera rapida stroncando sul nascere il rischio di un possibile contagio incontrollato. Missione riuscita, a giudicare dai numeri che abbiamo già elencato. Il 20 gennaio 2020, quando moltissimi Paesi non sapevano ancora come muoversi né se la minaccia Covid li avrebbe mai travolti (illusione vana, come scopriranno a loro spese), Taiwan istituiva un Central Epidemic Command Centre per gestire lo scenario pandemico tra ministeri, agenzie, esecutivo e imprese. Non solo: la “provincia ribelle” blindava subito i suoi confini, interrompeva ogni collegamento aereo con l’estero e imponeva una quarantena obbligatoria per qualsiasi viaggiatore internazionale. Volessimo condensare il modello Taiwan in due pilastri, potremmo citare le decisioni tempestive e il contact tracing. Se le autorità hanno agito in fretta, chiudendo il rubinetto prima che la vasca fosse colma di acqua, è pur vero che le stesse istituzioni si sono affidate a un contact tracing spinto ai massimi livelli grazie al massiccio utilizzo della tecnologia. Fin da subito, ogni positivo veniva messo in quarantena (a non rispettarla si rischia una multa che può arrivare fino a 35 mila dollari) e isolato assieme a tutti i suoi contatti. Queste misure, perpetuate nel tempo, e molte delle quali valide ancora oggi, hanno consentito all’isola asiatica di restare quasi indenne dal Covid-19.
Misure basate sui casi e sulla popolazione. A proposito di misure, è inoltre interessante distinguere le misure basate sui casi e quelle calibrate sull’intera popolazione. La distinzione, a detta di vari ricercatori chiave del successo taiwanese, è stata approfondita da uno studio pubblicato nel Journal of the American Medical Association. Nel primo caso, cioè nelle misure basate sui casi, le autorità si sono affidate al rilevamento mediante test dei contagiati, isolamento dei positivi, quarantena di 14 giorni obbligatoria e, più in generale, all’arma del contact tracing. Un’arma funzionale solo se adottata tempestivamente. Le misure basate sulla popolazione includono invece provvedimenti quali l’adozione delle mascherine, il distanziamento sociale e il mantenimento dell’igiene personale. Cosa hanno scoperto gli autori dello studio? Che le due diverse misure funzionano solo se combinate insieme. Quelle tarate sui singoli casi non ostacolano i contagi tra due persone, ma impediscono che il virus possa coinvolgere terze e quarte persone; quelle basate sulla popolazione completano invece il lavoro di prevenzione su scala generale. Unire i due approcci (ripetiamolo: in maniera tempestiva) ha consentito a Taiwan di vincere contro il virus senza rimetterci troppo in termini economici e sociali.
Perché il “modello svedese” è ancora un mistero. Daniele Dell'Orco su Inside Over il 15 aprile 2021. Il mistero epidemiologico della Svezia. Un case study che molti, a più riprese e in giro per il mondo, hanno posto a sostegno della propria narrazione di fondo: paradiso per gli aperturisti, catastrofe per i rigoristi. La verità, però, è che da un anno a questa parte ciò che sta accadendo nel Paese scandinavo resta oggettivamente difficile da spiegare in modo analitico. Com’è noto, per via delle convinzioni dell’epidemiologo dell’Agenzia per la salute pubblica Anders Tegnell, il primus inter pares nella gestione dell’emergenza, la Svezia è uno dei Paesi che sin dall’inizio ha scelto la strategia più “soft” possibile per contrastare la pandemia. Nessuna imposizione dell’uso di dispositivi di protezione (men che meno all’aperto), nessun lockdown, nessuna autocertificazione. Niente di niente. Solo la raccomandazione al sapiente, nonché genetico a quelle latitudini, ricorso al distanziamento sociale. Ora, a un anno di distanza dall’inizio dell’epidemia, i dati raccolti dall’esperimento svedese sono a dir poco contrastanti. È vero che il numero di vittime, circa 13mila a fronte di una popolazione di 10 milioni di abitanti, è tra i più alti del Nord Europa, ma ben più contenuto rispetto a Paesi “chiusuristi” come Spagna, Italia e Francia, o “altalenanti” come il Regno Unito. Che infatti dal modello svedese si fece contagiare, è proprio il caso di dirlo, molto presto, salvo poi rettificare l’approccio sanitario dopo la positività di Boris Johnson. È altresì vero, però, che durante la scorsa primavera i ricercatori dell’Università di Uppsala avevano pubblicato un modello matematico che prevedeva che il 50% degli svedesi sensibili si sarebbe infettato entro trenta giorni, provocando oltre 80mila morti entro luglio. Il virus è effettivamente circolato parecchio, ma meno rispetto alle proporzioni teorizzate e soprattutto con un tasso di mortalità sensibilmente più contenuto. Un altro dato interessante riguarda il Pil, che ha fatto registrare un -3% nel 2020, piuttosto incoraggiante se confrontato col -8.9% dell’Italia, ma allo stesso tempo non così decisivo rispetto al rendimento in termini macroeconomici degli altri Paesi scandinavi “chiusuristi” (Finlandia -3.3%, -3,5% della Danimarca, -4.1% della Norvegia).
Ciò che è davvero inspiegabile, però, è l’attuale curva dei decessi. Il virus circola che è una bellezza, col tasso di incidenza di nuovi contagi ogni 100mila abitanti a quota 772. In tutta l’Unione europea, secondo i dati del Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie, fanno peggio solo Francia (801), Polonia (988), Repubblica ceca (808) ed Estonia (1.007). Anche il numero dei posti letto in terapia intensiva resta elevato, con quasi 400 ricoveri fatti registrare nell’ultimo bollettino, superiori al picco della seconda ondata dello scorso gennaio. Eppure, attualmente il numero dei decessi è tra i più bassi di tutto il Continente: otto per ogni milione di abitanti. L’Italia, per fare un confronto rapido con una delle maglie nere, è a 102, l’Ungheria, tra i Paesi più colpiti dalla terza ondata, è addirittura a 355. Dall’inizio del mese di aprile la Svezia ha fatto registrare appena 135 morti. Non giornalieri. Totali. Il merito, secondo Tegnell, sarebbe tutto delle vaccinazioni mirate e sistemiche volte alla protezione delle fasce deboli della popolazione, specie gli anziani ospitati nelle rsa. Il resto della popolazione invece, che pure nel corso dei mesi ha iniziato “in autonomia” a cambiare le proprie abitudini circolando meno e indossando dispositivi di protezione con più continuità, è tecnicamente lasciata libera di contagiarsi. Potrebbe essere questa una prima risposta in termini di confronto, se si pensa che in Italia al momento sui 4,4 milioni di over 80 totali, meno della metà ha completato il ciclo vaccinale (43,9%) e meno di un terzo ha ricevuto almeno la prima dose (32%). Nella fascia 70-79 anni, addirittura, su oltre 5,9 milioni di persone appena il 3% ha completato il ciclo vaccinale. Stante questa variabile, comunque, un numero di decessi così basso in proporzione agli “attualmente positivi” (170mila al momento dell’ultima rilevazione) resta a dir poco anomalo. Forse è per via delle varianti meno aggressive, o dell’efficacia delle terapie, o ancora delle differenze nel conteggio delle vittime. Ma una cosa è certa, quello svedese rappresenterà un modello vincente per alcuni, un inferno in Terra per altri. Ma, per tutti, resta un mistero.
Coprifuoco e lockdown ai raggi X: vantaggi e svantaggi. Federico Giuliani su Inside Over il 25 aprile 2021. Lockdown e coprifuoco: sono queste le due misure restrittive anti Covid più drastiche tra quelle attuate dai governi per contenere la diffusione dei contagi. La differenza è sostanziale. Con il primo termine ci riferiamo al protocollo d’emergenza che limita la circolazione di tutte le persone che vivono in uno Stato, regione, città o, più in generale, in un’area specifica. All’interno della “zona rossa”, nel caso del Covid perché si sospetta la presenza di un focolaio oppure perché gli esperti ritengono che il virus sia ormai fuori controllo, nessuno può muoversi liberamente se non per ragioni eccezionali, che corrispondono solitamente con ragioni di salute, lavoro o emergenza. Ci sono vari tipi di lockdown, che in italiano può essere tradotto come “blocco” o “isolamento”. Nei casi più estremi assistiamo al divieto delle persone di lasciare la propria abitazione, ma può anche accadere che gli individui possano transitare solo all’interno del proprio comune o della regione. Questo dipende dalle situazioni. In ogni caso, il lockdown viene attuato per impedire alle persone di muoversi da una certa area, così da limitare i contatti e stroncare la trasmissione del Covid.
La differenza tra lockdown e coprifuoco. C’è ancora molta confusione tra i due concetti, tant’è vero che spesso vengono utilizzati quasi come sinonimi. Abbiamo visto, a grandi linee, che cos’è il lockdown. La suddetta misura coincide solo in parte con il coprifuoco, ovvero il divieto alla popolazione di uscire durante determinate ore serali o notturne. Anche qui, limitazioni sono permesse per casi speciali: lavoro, salute ed emergenze varie. Qual è la differenza tra lockdown e coprifuoco? Entrambi comportano limitazioni nei movimenti, ma mentre il coprifuoco vale soltanto per le ore notturne, il blocco si estende oltre una fascia di tempo ben delineata. Discorso ancora diverso è quello relativo alla quarantena: in tal caso, parliamo di una misura attuata per separare le persone infette da quelle sane, oppure chi è stato in contatto con un contagiato dagli altri.
Sono misure utili? In Italia, ormai da settimane, vige il coprifuoco che va dalle 22 alle 5 del mattino, sette giorni su sette. In un primo momento, la decisione del governo di prolungare la misura anche in piena estate, ha scatenato non poche polemiche. In seguito all’aspra reazione dell’opinione pubblica, le autorità hanno provato ad addolcire la questione lasciando intendere che la fine della restrizione dipenderà dall’andamento dei contagi, che potrebbe essere deciso un orario più largo o che il coprifuoco potrebbe addirittura essere tolto nel giro di qualche settimana. Non ci sono certezze e non sappiamo come si svilupperà la vicenda. In molti, tuttavia, si stanno facendo una domanda ben precisa: funziona davvero il coprifuoco? Partiamo dal presupposto che alla base della misura c’è la volontà di limitare le interazioni sociali nelle ore notturne, una fascia oraria particolarmente amata dai giovani, cioè la categoria di persone che riceverà il vaccino più tardi delle altre. E che dunque può contagiarsi e infettare i parenti. La comunità scientifica è spaccata sull’utilità di tale misura (o meglio: non sappiamo se i benefici superano gli svantaggi). Ci sono voci che si interrogano sulla sua reale efficienza, visto che le persone possono sempre radunarsi di giorno o all’interno di case private correndo lo stesso rischio che correrebbero in un locale. A questo proposito, è interessante dare un’occhiata a due studi che cercano di chiarire l’utilità di coprifuoco e lockdown. Il primo paper, pubblicato su Science, ha analizzato la situazione a Wuhan. Le due misure estreme hanno ridotto i contagi all’esterno, ma li hanno fatti schizzare alle stelle in famiglia, visto che in spazi chiusi il Sars-CoV-2 è libero di trasmettersi tra gli individui dello stesso nucleo familiare. Il secondo studio è stato effettuato in Francia e pubblicato su Eurosurveillance: il coprifuoco francese ha ridotto la riproduzione dei ceppi del Covid, ma non ha bloccato né le varianti né una nuova ondata. Sempre in Francia, è curioso il caso di Tolosa, dove il coprifuoco è stato attuato prima a partire dalle 20, poi dalle 18. Ebbene, a detta degli scienziati, chiudere alle 20 avrebbe ridotto del 38% i contagi. Il motivo è semplice: le chiusure anticipate spingono le persone, in massa, a fare compere prima dell’ora x. Il dibattito è aperto.
Lockdown inutile: alcuni scienziati la pensano come il leghista Claudio Borghi. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 23 aprile 2021.
Lorenzo Mottola. Milanese sulla quarantina, storico bocconiano, nel senso che la Bocconi l'avevo cominciata, ma poi mi sono laureato in storia (altrimenti mica sarei qui a fare il giornalista). Caporedattore centrale di Libero da parecchi anni, mi occupo principalmente di politica. Ma anche di pandemie, quando qualche genio decide che è giunto il momento di scoprire di cosa sa un pipistrello alla piastra. Su questo blog cercheremo di trattare di tutto.
Il lockdown non serve a frenare il Covid? Claudio Borghi la pensa così e ieri sera è andato in televisione a ripetere la sua teoria a PiazzaPulita, su La7. Ed è scoppiato il caos. Il leghista è stato trattato come un gerarca nazista, passato per le armi dal professor Andrea Crisanti. Il dibattito tra i due è finito praticamente a insulti (“Non sai leggere”, “Lei è un esperto di zanzare”). E da questa mattina il politico salviniano è preso di mira su tutti i social. Unica domanda: ma se invece avesse ragione Borghi? In realtà nella comunità scientifica c’è davvero chi mette in discussione l’utilità delle chiusure “alla Wuhan”. Perché quindi parlarne è diventata un’eresia? In passato su Libero abbiamo parlato di alcuni studi su questo tema: vi riproponiamo l’articolo. Per i più curiosi, sul web si trovano tranquillamente gli studi cui facciamo riferimento. Attenzione: non stiamo prendendo posizione. Semplicemente vi ricordiamo che al momento non esiste una verità assoluta su questo argomento. Ecco l'articolo: Cosa direste se vi spiegassero che chiuderci in casa per un anno non è servito a niente e che anche i prossimi lockdown non faranno la differenza? Nel formulare la vi inviamo a evitare bestemmie ed espressioni da taverna. E vi informiamo che la possibilità che sia stato tutto inutile esiste. Si moltiplicano gli studi - elaborati da università, non da circoli di terrapiattisti – che contestano l'utilità di queste operazioni. Attenzione: tutto questo non c'entra nulla col negazionismo e non significa che le mascherine o il distanziamento sociale siano da scartare, tutt'altro. In discussione ci sono le chiusure “pesanti”, le serrate di negozi e ristoranti perfino all'aperto e così via. Esattamente quelle misure che il governo italiano si sta preparando a varare, rispedendoci ai domiciliari almeno fino a Pasqua (inclusa) nella disperata speranza di voler frenare la terza ondata di contagi. L'ultimo celebre studio pubblicato al riguardo è quello dell'università di Stanford, di cui si è parlato molto anche in alcune trasmissioni televisive. I ricercatori californiani hanno messo a confronto 10 Paesi. Alcuni, come il nostro, nei quali il governo ha scelto di imporre misure severe. Altri, come la Svezia e la Corea del Sud, nei quali è stata adottata una politica diversa se non opposta, con qualche divieto ma senza esagerare. Conclusione degli accademici: alla luce dei dati, non si nota alcuna sostanziale differenza negli effetti, il virus ha fatto il suo corso serenamente. Si sono visti picchi che poi sono stati riassorbiti. Gli scienziati nell'annunciare il risultato sembrano quasi dispiaciuti: «Non mettiamo in dubbio il ruolo di tutti gli interventi di salute pubblica o delle comunicazioni coordinate sull'epidemia ma non riusciamo a trovare un vantaggio ulteriore negli ordini di stare in casa e le chiusure dei negozi». Secondo gli studiosi americani il punto è che non si ravvisa «alcun effetto benefico evidente e significativo maggiore sulla crescita dei contagi in nessun Paese» con i lockdown. Un altro lavoro interessante è quello pubblicato a settembre dell'Università di Edimburgo, che ha concentrato la sua ricerca sul Regno Unito. L'autore, Graeme Ackland, sostiene che il “blocco nazionale” abbia avuto un effetto nel breve periodo , ma che lo stesso risultato si sarebbe potuto ottenere con misure più blande. Anzi: le politiche di Londra – che poi sono molto simili a quelle italiane – potrebbero aver reso il Paese più vulnerabile e addirittura aver determinato un numero di morti maggiore. Questo perché la durata della pandemia è stata prolungata. Secondo lo studio, al momento di riaprire, probabilmente si troverà nel Paese ancora una vasta percentuale di popolazione vulnerabile e un alto numero di infetti. E questo, dice Ackland, «porta a una seconda ondata di infezioni che può provocare più morti». Per lo studioso sarebbe stato meglio proteggere gli anziani e le persone vulnerabili, consentendo al tempo stesso ai giovani di tornare a vivere in un modo quasi normale. Con attenzione, ma senza esagerare. Il terzo studio che citiamo è stato pubblicato a ottobre su Lancet, rivista che ormai tutti gli ipocondriaci del Paese hanno imparato a conoscere: si tratta sostanzialmente della bibbia della divulgazione scientifica. L'analisi appartiene a un altro gruppo di ricercatori dell'università di Edimburgo e aveva l'obiettivo di valutare quali fossero le misure più efficaci per ridurre il famoso indice RT, quello sulla base del quale il ministero della Salute decide quali regioni chiudere e quali lasciare in libertà condizionata. Ovviamente, nelle prime posizioni troviamo tutti gli eventi pubblici con più di 10 persone (vietandoli l'indice si abbassa del 25%). Al secondo posto c'è la chiusura delle scuole, che in assenza di misure di sicurezza risultano delle vere bombe epidemiologiche (-15% se si sospendono le lezioni). Limitare la circolazione delle persone o costringerle a rimanere a casa invece parrebbe avere un impatto ridottissimo: rispettivamente 7% e 3%. Ovviamente, nella comunità scientifica tanti hanno storto il naso leggendo questi studi. Alcuni virologi, come Ilaria Capua, chiedono anche oggi almeno due mesi di lockdown totale. Noi assistiamo al dibattito e poniamo semplicemente qualche domanda. Su Libero a dicembre avevamo provato a chiedere come mai in Abruzzo, l'unica regione che era rimasta in zona rossa, in una settimana l'indice Rt fosse sceso dello 0,25 mentre in Sicilia, che era zona gialla, nello stesso periodo l'Rt si fosse abbassato di più: ovvero dello 0,26. La zona rossa quindi a cosa era servita esattamente?
Quanto un’ora di libertà in più può cambiarci la vita. Il coprifuoco è utile per contenere i contagi? Gli studi scientifici a confronto. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Aprile 2021. In Italia vige il coprifuoco dalle 22 alle 5 del mattino seguente di oltre un anno. Ed è proprio questa decisione presa dal governo di continuare su questa linea che ha fatto scatenare non poche polemiche. Soprattutto i ristoratori temono l’ennesima beffa: se i ristoranti potranno rimanere aperti anche a cena sarà difficile che tornino tutti a casa entro le 22. E così l’ipotesi di uno slittamento dell’orario alle 23 sembra una speranza per una boccata d’ossigeno per tutti. L’idea che spinge il Governo a mantenere le restrizioni è quella di limitare le interazioni sociali, soprattutto tra i più giovani che sono anche quelli che avranno il vaccino più tardi. Il Comitato tecnico scientifico (Cts) ha spiegato in una nota che “alla luce delle situazione epidemiologica attuale, il Cts in una strategia di mitigazione del rischio di ripresa della curva epidemica, ritiene opportuno che venga privilegiata una gradualità e progressività di allentamento delle misure di contenimento, ivi compreso l’orario d’inizio delle restrizioni di movimento”. Dunque per il Cts un’ora in più di libertà significherebbe maggiori occasioni di contagio. Ma la comunità scientifica a livello mondiale non dà risposte univoche sull’importanza del coprifuoco per limitare i contagi. Nel dibattito entra a gamba tesa Antonella Viola, immunologa, docente di Patologia Generale all’Università di Padova. “Condivido le scelte del governo: riaperture graduali, basate su priorità (la scuola) e rischio limitato (locali all’aperto) – ha scritto in un post su Facebook – Non sono però d’accordo sulla decisione di mantenere il coprifuoco alle 22: spostarlo solo di un’ora sarebbe stato importantissimo per i ristoratori, che avrebbero potuto contare su 2 turni di cena”. L’immunologa sottolinea: “A fronte di un vantaggio tutto da discutere e dimostrare in termini di contenimento del contagio (ci sono persino discussioni sull’utilità in toto del coprifuoco, figuriamoci se possiamo dimostrare che 1 ora fa la differenza), il danno per le categorie coinvolte è certo e pesante. È una decisione che ha un sapore moralistico più che scientifico”.
Il coprifuoco da solo non basta. Da quando è iniziata la pandemia la nuova “normalità” è fatta di regole da rispettare sempre: indossare la mascherina, lavare spesso le mani e mantenere le distanze. Il coprifuoco è solo una delle nuove norme. “Se vediamo benefici dopo un mese sarà per merito del coprifuoco o di tutte queste misure insieme?” dice Helen Boucher, specialista di malattie infettive al New York Times come riporta il Corriere della Sera. Il professor Ira Longini esperto di biostatistica ed epidemiologia delle malattie infettive presso l’Emerging Pathogens Institute dell’Università della Florida sostiene che le prove sull’efficacia del coprifuoco sono tutto fuorché evidenti.
Studi sul coprifuoco a confronto. Una ricerca pubblicata su Science e condotta a Wuhan ha evidenziato che il coprifuoco e il lockdown hanno sì fatto diminuire i contagi all’esterno, ma li hanno fatti aumentare in famiglia. Al chiuso infatti il virus prospera di più. Un altro studio svolto in Francia e pubblicato su Eurosurveillance ha fatto emergere che il rigido coprifuoco a cui sono stati sottoposti i francesi ha ridotto l’indice di riproduzione dei ceppi storici di Covid ma non è stato sufficiente a fermare le varianti e quindi una nuova ondata. Poi c’è il caso di Tolosa che ha vissuto prima il coprifuoco alle 20 e poi alle 18. Gli scienziati hanno studiato come la chiusura alle 20 avesse ridotto del 38% i contagi, mentre il lockdown alle 18 avrebbe paradossalmente fatto aumentare i contagi. Il motivo? Le persone si precipitano a fare compere prima della chiusura e considerato che le ore di apertura sono minori si concentrano maggiormente. I ricercatori dell’Università di Deft nei Paesi Bassi hanno condotto una serie di simulazioni per capire l’impatto delle varie restrizioni. “Il coprifuoco notturno aiuta a evitare che il numero di infezioni salga alle stelle e può quindi contribuire a limitare il sovraccarico degli ospedali ma a differenza di un lockdown completo ha bisogno di un periodo più lungo per essere efficace e da solo non basta, andrebbe adottato insieme ad altre misure restrittive – ha spiegato uno dei ricercatori, Amineh Ghorbani, come riporta il Corriere della Sera – Dopo tre settimane, ad esempio, il blocco potrebbe essere allentato, ma il coprifuoco dovrebbe rimanere in vigore per poter mantenere più a lungo l’effetto positivo delle severe restrizioni”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
La luce del sole spegne il Covid? Allora usciamo da casa. Maurizio Costanzo su Libero Quotidiano il 15 aprile 2021. Leggo e riferisco senza prendere posizione, che la luce solare renderebbe inattivo il Coronavirus. Ve lo dico semplicemente, ma gli scienziati lo hanno affermato con maggior competenza, ovviamente. D’altra parte, si è sempre detto che all’aperto era più difficile rimanere contagiati. Allora mi chiedo per quale motivo, se tutto ciò è vero, ci hanno costretto e ci costringono a stare in casa il più possibile. Certo, vanno evitati gli assembramenti. Evitiamoli ma adesso che è la bella stagione, torniamo a stare un po’ all’aperto.
Da liberoquotidiano.it il 15 aprile 2021. C'è un Paese che, all'inizio della pandemia, sembrava avere in mano la situazione. Si tratta della Germania, poco sfiorata dalla prima ondata della Covid-19, risalente ormai a 14 mesi. Con il passare dei mesi, la situazione è cambiata però anche lì e la gestione è andata sempre di più nella direzione delle chiusure. Da quasi un mese, in Germania si sta vivendo un lockdown, parecchio simile a quello italiano. Annunciato prima di Pasqua da Angela Merkel, la cancelliera aveva poi fatto un passo indietro il giorno dopo, ritirando la decisione e "concedendo" le vacanze di Pasqua ai tedeschi. Poi anche in Germania: lockdown totale e chiusura di tutte le attività non necessarie. Il cosiddetto Notbremse (freno a mano) è stato tirato e verrà confermato in Parlamento mercoledì della prossima settimana. La proposta comprende misure ancora più restrittive, tra gli altri, anche un coprifuoco dalle 21 alle 5. Almeno le chiusure messe in atto finora hanno salvato delle vite, si obietterà. E invece lo scenario è ben diverso: nelle ultime 24 ore, la Germania ha registrato un balzo in avanti nei contagi, il più alto da inizio gennaio: 29.426 contagiati in un solo giorno. Nella giornata di ieri, 14 aprile 2021, le vittime sono state 294 (79.381 in totale), mentre il numero di nuove infezioni ogni 100.000 residenti in sette giorni è schizzato a 160,1 secondo i dati del Robert Koch Institut. Il presidente dell'RKI Lothar Wieler ha detto stamani in conferenza stampa "dobbiamo agire subito, le terapie intensive rischiano il sovraccarico e dobbiamo salvare vite umane". Eppure, la strategia delle chiusure senza se e senza ma, non sembra aver dato frutti in tutti Paesi che l'hanno attuata, Italia in primis, chiusa da oltre un anno e con uno dei tassi di mortalità più alti d'Europa. Inoltre, il costo dal punto di vista del tessuto economico è spaventoso: si stima che nel 2020 l'Italia perderà circa 10 punti di Pil. Arrestata anche la crescita economica in Germania a causa delle chiusure che, per il primo quadrimestre dell'anno, è stata ridotta in autunno dagli esperti da 4,7% a 3,7%. Anche l'andamento delle vaccinazioni non procede proprio come auspicato dalla Germania. Sono 14.058.329 le persone che hanno ricevuto il vaccino (16,90% della popolazione totale), 5.186.083 hanno ricevuto invece entrambi le dosi necessario (6,24% della popolazione). Tuttavia, nella giornata di ieri sono state 600.000 le persone a ricevere il vaccino. "I numeri sono troppo alti, e salgono ancora. In terapia intensiva aumentano quotidianamente" ha affermato in conferenza stampa il ministro della Salute Jens Spahn. Insomma, chiusure e vaccini: una ricetta che non sembra funzionare. Un'evidenza che ora appare in Germania, ma che presto potrebbe riguardare altri Paesi. Ed è per questo che il picco di contagi in Germania, ora, è la peggiore delle notizie: lockdown e campagna vaccinale a che risultati stanno portando?
Vittorio Sgarbi a Stasera Italia travolge Roberto Speranza: "700 morti Covid con le chiusure? È evidente che non sono la soluzione". Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. Vittorio Sgarbi non cambia idea. In linea con Matteo Salvini, il critico d'arte ora in corsa per il Campidoglio non perde l'occasione per appellarsi a Mario Draghi e Roberto Speranza e ridare vita al Paese. "700 morti con le chiusure? È evidente che non sono la soluzione. Le chiusure come ha dimostrato l'Irlanda non sono connesse al virus - ha spiegato ai microfoni di Stasera Italia su Rete Quattro -. Il Covid si diffonde in casa, mentre all'aria aperta siamo tutti mascherati. Questo è dimostrato da uno studio irlandese". Quella citata dal critico d'arte è la ricerca condotta dall'Health Protection Surveillance Centre, l'ente che monitoria la diffusione del Covid in Irlanda. Su 232.164 casi di contagio registrati fino al 24 marzo, è emerso che solo 262 volte il virus ha infettato all'aperto. La percentuale è dunque dello 0,11 per cento, vuol dire una persona su mille. "Anche in piccoli paesi - ha proseguito Sgarbi davanti a Barbara Palombelli - il contagio è limitato". Insomma, un appello al premier e al governo affinché venga abolita la zona rossa. Una batosta per gli italiani e le loro tasche. Lo stesso Sgarbi, intervenuto qualche settimana fa a La Zanzara, si era lasciato andare a uno sfogo privatissimo ma che dimostrava in pieno la drammaticità del momento: "Basta retorica sui medici. Il medico deve stare in ospedale, cura i malati che ci sono. Se poi trascura i malati di cancro è già un medico che mi sta sul ca***. Non c’è solo il Covid al mondo. Io ho avuto il Covid e ne sono uscito, e ho un cancro alle p**e e non ne sono ancora uscito".
Andrea Nicastro per il “Corriere della Sera” il 9 aprile 2021. Sul volo Milano-Madrid è l'argomento più dibattuto. Da mesi. I veterani della tratta alzano l'aspettativa dei novizi. «Vedrai a Madrid. È tutto aperto. Dalle scuole ai ristoranti, ai negozi». La differenza della quotidianità tra i due motori economici, in effetti, fa impressione. Il sacrificio chiesto a negozianti, ristoratori e studenti lombardi è stato enorme rispetto a quello dei loro colleghi madrileni. A guardare i dati però si scopre che Madrid (aperta) ha patito meno il Covid della Lombardia (chiusa). All'inizio della stagione fredda, la Lombardia si presentava con 107 nuovi positivi e 5 morti al giorno contro i 952 infetti e 50 morti di Madrid. Secondo la logica delle chiusure, chi avrebbe dovuto entrare in isolamento era la Comunidad spagnola. Invece dall'1 ottobre 2020 al 30 marzo 2021 le politiche di contrasto alla pandemia si sono divaricate: Madrid permissiva, con «coprifuoco» in genere alle 23 e chiusure limitate a singoli quartieri, Milano e le sue province lombarde rinserrate. La metropoli spagnola pur con mascherine e distanziamenti ha mantenuto cinema, ristoranti, teatri e scuole quasi sempre operativi anche la sera. La Lombardia, con l'eccezione del periodo natalizio, no. Eppure l'epidemia ha colpito di più la metropoli con le regole più prudenti. Tra ottobre e marzo la Lombardia ha avuto 6.200 positivi ogni 100 mila abitanti, la Comunidad di Madrid qualcuno meno, 5.800. Maggiore il vantaggio della capitale spagnola sui decessi. In Lombardia sono stati 136 ogni 100 mila abitanti, a Madrid 98. Meno sorprendentemente, a minori chiusure ha corrisposto un miglior andamento economico. La Lombardia, più chiusa del resto d'Italia, ha perso un punto di Pil in più della media nazionale. Madrid, invece, più attiva anche del resto della Spagna, ha retto un po' meglio, con uno 0,7 di Pil di vantaggio sulla media del Paese. Sicuramente insufficienti a spiegare le differenze tra le due aree, ma comunque utili, sono anche altre statistiche. L'età ad esempio. La Lombardia ha il 28% degli abitanti sopra ai 60 anni (e il 17% sopra i 70) mentre la Comunidad è un poco più giovane (e quindi favorita rispetto al Covid) con il 26,8% sopra i 60 anni (e il 16,3 sopra i 70). A Madrid, anche in tempi normali, si muore meno. Nel quadriennio 2015-2019 ci sono stati 704 decessi ogni 100 mila abitanti, nell'anno del Covid (il 2020) sono aumentati del 43% fino ad arrivare a mille ogni 100 mila abitanti. In Lombardia in tempi normali i decessi erano 997 e sono saliti nel 2020 a 1.360 sempre ogni 100 mila (+36%). Altro aspetto strutturale (e misurabile) che può aver favorito Madrid è il suo sistema sanitario. A inizio pandemia la Lombardia aveva 9 posti letto di terapia intensiva ogni 100 mila abitanti e Madrid 14. Anche il miglior clima e il minor inquinamento potrebbero aver favorito la capitale spagnola. Sulla rivista scientifica The Lancet, un pool di esperti spagnoli, però, ha proposto altre ipotesi, anzi, tre fattori chiave nello «sforzo titanico di Madrid per controllare la seconda ondata».
Primo: la scelta di estendere a chiunque e negli ambulatori sotto casa i test rapidi. «Sono sicuramente meno attendibili, ma hanno permesso di raddoppiare il numero dei controlli».
Secondo: la conta del virus nelle acque reflue per isolare i quartieri più contagiati. Circa 2 dei 6,6 milioni di abitanti della Comunidad di Madrid sono stati coinvolti da queste micro chiusure.
Terzo: l'accesso ai test e la consapevolezza del tasso di contagio nel proprio quartiere ha aumentato il livello di responsabilità dei cittadini e di conseguenza l'attenzione nell'uso delle mascherine e del distanziamento.
È esportabile il modello madrileno? «Le ondate pandemiche non colpiscono in maniera sincrona - spiega il professor Paolo Bonanni, epidemiologo dell'Università di Firenze -. Perché? Non lo sappiamo. I fattori da inserire nel modello sono talmente tanti e variabili nel tempo che basta ignorarne uno per far fallire tutto». Intanto, però, anche l'altro ieri (7 aprile) Madrid continuava a stare meglio della Lombardia. Aveva più infetti, ma meno vittime: 2.394 nuovi positivi (36 ogni 100 mila abitanti) contro i 2.569 lombardi (25 ogni 100 mila) e 19 decessi contro 109 (0,2 contro uno ogni 100 mila).
Coronavirus e vaccini, fuori la verità: anche nel mondo scientifico le scelte sono politiche. Francesco Bertolini su Libero Quotidiano il 09 aprile 2021. La rivincita della scienza è durata poco, purtroppo. Se la scienza è associabile all'Ema, la European Medicines Agency, l'agenzia europea del farmaco, siamo messi malissimo. Fortunatamente la scienza non coincide con questi baracconi sovranazionali, espressioni di equilibri di potere tra vari Paesi e corporazioni. Ma è indubbio che la figura che questa autorità ha fatto in queste settimane non aiuta nessuno, né gli Stati, né i cittadini. Si chiede ai cittadini, in maniera fideistica, di credere alle indicazioni del governo, che recepisce le indicazioni del Comitato tecnico-scientifico (Cts) che a sua volta si appoggia alle indicazioni dell'Ema o dell'Organizzazione mondiale della sanità. Ma quando le indicazioni cambiano ogni settimana qualunque fiducia viene meno; inutile che le nuove star dei talk show continuino a sostenere che i benefici delle scelte prese siano superiori ai rischi, ci mancherebbe altro. La fiducia è difficile da conquistare, ma quando si perde è quasi impossibile da recuperare. La fiducia è una relazione fondata sulla dipendenza. Sia che si parli di persona fisica o di istituzione, l'altro a cui assegna fiducia ha un certo potere su di me. Un potere che però instaura un senso di responsabilità, oppure può approfittare della situazione vantaggiosa. Così facendo genera una spirale di sfiducia che logora qualsiasi legame sociale. In questi mesi disgraziati che hanno portato alla ribalta personaggi sconosciuti, si è ascoltato tutto e il contrario di tutto. Una informazione sciatta e appiattita, istituzioni allo sbando incapaci di decidere e di prendersi dei rischi, preferendo addossare ai cittadini ogni colpa. E cittadini disorientati, terrorizzati , manipolati, oggi a loro volta allo sbando. L'emergenza sanitaria della prima ondata non è mai terminata, è arrivata poi l'emergenza economica, e ora è arrivata l'emergenza psicologica di un Paese che non ce la fa più. La paura della malattia e della morte si è trasformata in paura di vivere. Ciò non sembra scalfire i protagonisti dei talk show, a cui la pandemia ha portato notorietà, potere e magari qualche nomina pubblica, prestigiosa nei loro ambienti. Ma solo nei loro ambienti ormai, perché se si facesse un sondaggio sulla credibilità dell'Ema o dell'Oms non penso che i risultati sarebbero lusinghieri. E infatti non si fanno, si continua a giocare con la salute, fisica e mentale, di milioni di persone, raccontando che tutto il mondo è nella stessa situazione; niente di più falso, in larghe aree del pianeta la vita è normale, senza mascherine, con l'economia che corre e che sta togliendo quote di mercato che non torneranno facilmente alle nostre imprese. Intanto, qui, attendiamo con ansia il prossimo comunicato Ema.
I vaccini e le big pharma. Su AstraZeneca l’oscillare dei governi e gli interessi di Big Pharma: aveva ragione Totò? Oreste Scalzone su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Così parlò questo stupido… (detto, parafrasando e volgendo al riflessivo il Totò di «Voglio vedere dove vuole arrivare questo stupido… Io non mi chiamo Pasquale»). D’abord: mi sa, mi è sempre saputo veramente ozioso e insensato il chiedersi se, o in che misura, siamo in presenza di demenza o di cinismo moderno . O ancora – complessificando concedendoci “semel in vita”, per disperazione, una caduta nell’abisso del “sospetto” (che è sempre maligna grottesca caricatura e contraffazione del dubbio) – chiedermi se si tratti di vero ”sterminismo” a fini di «igiene del mondo, eliminazione degli scarti». Magari si tratta di tutto questo assieme. Ora, parlando semplice-semplice: dunque, già il vaccino AstraZeneca era, o comunque risultava, dubbio, e percepito come tale, e “chiacchierato”. Dapprima lo si preconizza come adatto tra i 18 e i 55 anni come tetto. Poi, si alza il tetto a 65 anni. Poi anche oltre, fino a 79, poi senza limite…
Vaccino, i profitti di BigPharma "tra 120 e 150 miliardi di dollari": le cifre e il sospetto, guerra economica sulla nostra pelle? Libero Quotidiano il 17 marzo 2021. Giovedì 18 marzo arriverà la tanto attesa decisione dell'Ema riguardo all'utilizzo del vaccino anglo-svedese AstraZeneca. Sin da subito, molti Paesi dell'Ue hanno deciso di inoculare il serio solo a determinate fasce della popolazione, ritenendolo inutile per le fasce d'età dai 65 anni in su.
Da leggo.it il 26 febbraio 2021. «Io ho 66 anni e non appartengo al gruppo per cui AstraZeneca è consigliato» ma «è un vaccino affidabile, efficace e sicuro ed è stato approvato dall'agenzia europea del farmaco e in Germania consigliato fino ai 65 anni di età».
Lodovica Bulian per “il Giornale” il 9 aprile 2021. Aumentano le disdette tra chi è in lista per il vaccino AstraZeneca, che da ieri è raccomandato agli over 60.I consigli del virologo. Dove si rischia maggiormente il contagio da Covid: dall’autobus agli ospedali quali sono i luoghi più pericolosi. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Aprile 2021. Dopo un anno di pandemia le regole d’oro per evitare i contagi le conoscono tutti e sono sempre valide: indossare la mascherina, lavare spesso le mani e mantenere la distanza tra le persone. Ma quali sono i luoghi dove si rischia maggiormente il contagio da Covid? Per Fausto Baldanti, virologo del policlinico San Matteo di Pavia, bisogna tenere l’attenzione massima nei luoghi pubblici perché lì “non si può mai sapere chi c’è stato”, ha detto in un’intervista a Repubblica.
Il pericolo di contagio nei luoghi pubblici. È proprio nei luoghi pubblici che il rischio è più elevato. Nei mezzi pubblici o nei locali di transito di molte persone si possono nascondere numerose insidie. “Bisogna mantenere il massimo della cautela – avverte Baldanti –. Del resto ci si può aspettare che sui mezzi il virus circoli, perchè non tutti coloro che li frequentano sono rigorosi. Quindi è consigliabile portarsi un gel disinfettante in tasca, non toccare superfici, indossare la mascherina. E poi, appena possibile, lavarsi le mani”. Bisogna quindi fare molta attenzione a bar, ristoranti, uffici o mezzi pubblici e anche all’utilizzo di strumenti di uso pubblico come le tastiere dei bancomat, dei pos o degli ascensori che raramente vengono disinfettati tra un uso e l’altro.
Il pericolo di contagio negli ospedali. Molti hanno paura anche solo dell’idea di avvicinarsi a un ospedale. Ma secondo Baldanti lì invece l’ambiente è più sicuro. “Dove l’attenzione è più alta, la soglia di rischio si abbassa. Abbiamo pubblicato due lavori in cui, analizzando le superfici dei luoghi di cura in cui convivevano pazienti ricoverati per Covid, non si trovava traccia del virus. Questo perchè in ambito sanitario ci si cautela molto di più: si indossano le protezioni, si sanificano e arieggiano frequentemente i locali”. RIMANERE IN SILENZIO AIUTA – Per chi dovesse trovarsi in luoghi pubblici, soprattutto in presenza di tante persone, il virologo consiglia un piccolo accorgimento: rimanere in silenzio. “Sono le goccioline (droplets) che emettiamo quando parliamo, tossiamo o starnutiamo che contengono il virus. Anche se indossiamo la mascherina, osservare qualche minuto di silenzio, almeno per tutta la durata del viaggio, non potrà che giovare alla nostra salute”, ha detto il virologo. A conferma di ciò, alcuni studi hanno dimostrato come, chi usufruisce dei mezzi pubblici, corra un rischio di contagio sette volte maggiore. E aggiunge anche il consiglio di evitare l’uso dell’ascensore: si tratta di un luogo piccolo e poco arieggiato, frequentato da tante persone e che impone di toccare almeno i tasti per selezionare la chiamata e il piano. Meglio le scale, che fanno benne alla salute anche per il movimento fisico. Stessa cosa per quanto riguarda distributori automatici e maniglie delle porte.
Il pericolo di contagio negli ambienti chiusi e aperti. Studi scientifici hanno dimostrato che la temperatura caldo umida favorisce la diffusione del virus. Per questo è fondamentale il ricambio frequente dell’aria anche in inverno. Ma all’aperto non si può stare più sereni. “Non vorrei diventare maniacale, non sono tra chi sostiene che bisogna mettersi la mascherina anche quando si è al tavolo del ristorante. Certamente stare all’aperto in tanti per fare una grigliata è altamente sconsigliato visto che si parla di trasmissione di un virus attraverso le goccioline che escono dalla bocca di ognuno di noi. La stessa cosa la si può dire anche se si è solo in due, al chiuso, non appartenenti allo stesso nucleo familiare, e pure a stretto contatto. In quel caso basta veramente poco per infettarsi”, dice Baldanti.
Il virus su scarpe e indumenti. Non è ancora stato dimostrato che scarpe e vestiti possano essere veicolo di contagio. Ad ogni modo i virologo suggerisce di lasciarli all’aria e lavarli normalmente. “L’importante è sempre curare la nostra igiene – conclude Baldanti –. Mi riferisco al fatto di lavarsi le mani una volta tornati a casa, dopo che si è maneggiata la spesa o si sono toccati oggetti provenienti dall’esterno”. Dunque le buone e care vecchie regole auree restano sempre la soluzione migliore per evitare il contagio.
Coronavirus, lo studio irlandese: all'aperto non ci si contagia. Ecco le cifre che dovrebbero far riflettere Roberto Speranza. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 07 aprile 2021. Lo «state a casa!» ormai è storia. Fin da subito è stato il mantra di chi - premier, ministri e pseudo scienziati - anziché lavorare per combattere il Covid, ha combattuto per azzerare la vita sociale e cancellare il lavoro. Il virus spadroneggiava e loro giù col tormentone e i relativi hashtag, che all'inizio hanno colorato i balconi e poi sono stati cancellati dagli insulti. Conte, Lamorgese, Speranza e altri stenui combattenti di terra, del mare e dell'aria hanno ordinato a polizia e carabinieri di interrompere d'imperio i picnic e di inseguire chi correva da solo sulla spiaggia. I droni hanno setacciato terrazze e parchi. «State a casa!». Per un po', tramortiti, ci siamo stati senza fiatare. Presto però abbiamo cominciato a chiederci che senso avesse restare murati in casa, se era ed ovviamente è ancora in casa che il virus ha maggior possibilità di riprodursi. Ci hanno vietato lo sport all'aperto concedendoci al massimo di fare «attività motoria nei pressi della propria abitazione». Ai bambini è stato vietato di calciare un pallone. Agli adulti di bere il caffè seduti in piazza. L'ordine di indossare la mascherina è stato imposto perfino nei boschi. Nessuno tra gli "esperti" asserviti a Roma ha mai presentato uno straccio di documento che attestasse la pericolosità di uscire e continuare a vivere, pur rispettando il distanziamento, e il perché è fin troppo evidente. All'estero, invece, hanno certificato l'assoluta inutilità di tali provvedimenti con una serie di studi molto dettagliati. L'ultimo è dell'Health Protection Surveillance Centre, l'ente che monitoria la diffusione del Covid in Irlanda. Su 232.164 casi di contagio registrati fino al 24 marzo, è emerso che solo 262 volte il virus ha infettato all'aperto. La percentuale è dello 0,11 per cento, vuol dire una persona su mille. È chiaro che nessuno può conoscere il numero esatto con assoluta certezza, ma il dato è emblematico.
RISULTATI EVIDENTI. L'ente irlandese ha dunque riscontrato appena 20 focolai riconducibili ad "attività sportive e fitness" (131 i casi associati) e 21 nei cantieri edili (124 infezioni). Ed Lavelle, professore di biochimica al Trinity College di Dublino e dal 2013 presidente della Società irlandese di Immunologia, ha affermato che «i risultati convalidano molte delle tesi provenienti dagli Stati Uniti» e «dimostrano che le attività all'aperto sono sicure. Andare in un bar all'aperto», ha sottolineato, «è molto sicuro. L'aspetto fondamentale è cosa succede dopo queste attività». La collega Orla Hegarty è meno ottimista, e però anche lei sostiene che «all'aperto il rischio di contagio è basso, perché», ha spiegato, «a meno che tu non sia vicino a qualcuno infetto, la maggior parte del virus viene spazzato via dall'aria, come avviene per il fumo della sigaretta». Il governo irlandese, sulla base di tali dati, ha deciso per il ripristino delle attività sportive all'aperto dal 26 aprile. L'apertura riguarda anche alcuni luoghi turistici e i locali con spazi esterni. Il ministro del Turismo, Catherine Martin, ha messo a disposizione l'equivalente di 17 milioni di euro per i ristoratori che vogliono ampliare i plateatici. Sennonché, dicevamo, ci sono altri autorevoli studi che dimostrano l'inutilità e la pericolosità di chiudere in casa le persone. L'Università della California, dopo cinque analisi su altrettanti campioni di popolazione, è arrivata alla conclusione che la possibilità di contrarre il Covid in un ambiente chiuso è 19 volte superiore.
ANALISI CONVERGENTI. In Cina un altro studio ha evidenziato che su un campione di 1.245 contagi, solo 3 persone, con certezza, si sono infettate per strada conversando senza mascherina. Significa lo 0,24%. Mike Weed, docente della Canterbury Christ Church University (Inghilterra), ha analizzato 27 mila casi parte dei quali provenienti dalla Cina e dal Giappone. La trasmissione del virus all'esterno, ha concluso, «era così marginale da essere scientificamente insignificante». Weed ha sottolineato che i ritrovi all'aperto, «se accompagnati da un'adeguata gestione del rischio», non devono allarmare. Da noi invece gli uccellacci del malaugurio nemici della vita continuano a dirci che passeggiare in collina è pericoloso. Dopo un anno gli hashtag sono spariti ma Speranza ci obbliga ancora in casa. La follia, diceva Albert Einstein, sta nel fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Speranza non è folle. È drammaticamente incapace.
"Le scuole non amplificano la diffusione del Covid". Il primario di Pediatria del Buzzi: "I dati scientifici dicono che la variante ha impatto minore sui bimbi". Marta Bravi - Gio, 08/04/2021 - su Il Giornale. Gian Vincenzo Zuccotti, direttore Pediatria e Pronto soccorso dell'ospedale dei Bambini Buzzi e preside della facoltà di Medicina della Statale, scuole elementari e la prima media riaperte senza screening.
«Credo sarebbe stato meglio fare qualcosa».
Come Statale avete fatto degli screening...
«Con il mio team di ricerca abbiamo portato avanti un'indagine con il test sierologico pungidito per vedere quanti bambini fossero entrati in contatto con il Coronavirus: 15 le scuole di Milano che hanno aderito, 3mila gli studenti tra i 3 e i 18 anni coinvolti».
Cosa è emerso?
«Abbiamo scattato una prima fotografia a settembre da cui è emerso che il 3 per cento degli studenti aveva sviluppato gli anticorpi, una seconda a dicembre con la seconda ondata e abbiamo rilevato il 13 per cento. La settimana prossima il terzo momento di test, a un mese dalla terza ondata».
Quali conclusioni?
«A breve invieremo il nostro studio a una rivista scientifica, ma le prime conclusioni dicono che la scuola non amplifica la trasmissione dei contagi, ma riflette solo quello che avviene nella popolazione».
Una conclusione di straordinaria importanza...
«Sì, se si pensa che non ci sono tantissimi dati in letteratura che hanno seguito questa coorte di bambini, sulle tre ondate soprattutto».
Il caso Bollate con 59 contagi tra bambini, educatori e famiglie, cosa insegna?
«Per consolidare i dati scientifici finora raccolti e su richiesta del sindaco di Bollate, la prossima settimana esamineremo tutti gli alunni che aderiranno al tampone salivare molecolare che si presenta sotto forma di lecca lecca, ma che ha una sensibilità pari a un tampone nasofaringeo. Si tiene in bocca un minuto, poi si chiude e si consegna al laboratorio. Lunedì partiremo con l'indagine a tappeto e nel giro di due giorni avremo i dati sulla popolazione scolastica di Bollate, con un focus su tre classi che saranno monitorate ogni settimana fino a giugno».
Obiettivo?
«Isolare eventuali positivi, osservare l'andamento dei contagi per capire come comportarci a settembre con le scuole».
E magari sfatare il mito della variante?
«Avremo dei dati oggettivi per confermare quanto osservato: tra settembre e dicembre il tasso di contagio della popolazione scolastica è salito dal 3 al 13 per cento, quindi prima dell'arrivo della variante. Vedremo i nuovi dati, ma la fotografia che abbiamo ci permette già di dire che la scuola non è amplificatore di contagio. Ripeto: i bambini contagiano e si ammalano, ma in modo meno importante degli adulti».
E la sindrome di Kawasaki nella prima ondata?
«La sindrome multi-infiammatoria sistemica, la Mis-C, compare dopo 4 settimane dall'infezione Covid. Nella seconda ondata avevamo il triplo di casi di Mis-C della prima, mentre la terza nessuno: la variante circola di più, ma ha minore impatto sui bambini».
Perché non utilizzare il test salivare molecolare per uno screening sulle scuole?
«Il test, benché affidabile al 94%, permette di rilevare anche i soggetti asintomatici o pre-sintomatici: economico e veloce, in Italia non è stato equiparato al tampone nasofaringeo. Non può essere utilizzato come certificazione di fine malattia. Eppure permetterebbe di risolvere una serie di problemi: si potrebbero abbandonare i drive through, si può eseguire a casa o in farmacia, liberando personale utile per le vaccinazioni».
I vantaggi per le scuole e le famiglie?
«Risolverebbe l'enorme problema della reticenza di molti bambini e, quindi, dei genitori a far eseguire il tampone naso faringeo. Ci sono piccoli che sono rimasti traumatizzati».
Ispezioni del Nas sui mezzi pubblici: tracce di Covid su maniglie e sedili. La Repubblica il 6 aprile 2021. I carabinieri del Nas hanno effettuato controlli su 693 mezzi del trasporto pubblico, in varie città italiane, per verificare il rispetto delle regole anti Covid. 32 tamponi di superficie hanno evidenziato tracce del virus nei punti di maggiore contatto (obliteratrici, maniglie e barre di sostegno per i passeggeri, pulsanti di richiesta di fermata e sedute) di autobus, vagoni metro e ferroviari di Roma, Viterbo, Rieti, Latina, Frosinone, Varese e Grosseto. Va precisato che la presenza di tracce di virus su queste superfici non implica di per sé la certezza che ci si possa contagiare venendone a contatto.
Covid sui mezzi pubblici, 28 casi nel Lazio. Blitz dei Nas: "Virus su maniglie, poggiatesta e nelle sale d'attesa". Romina Marceca su La Repubblica il 6 aprile 2021. Tamponi eseguiti in diverse città d'Italia e nella nostra regione. Undici i casi nella capitale. Il virus sulle maniglie, sui pulsanti di chiamata della fermata, sulle barre di sostegno dei passeggeri e sui poggiatesta dei sedili. L'incubo coronavirus sale a bordo di bus, metro, scuolabus, treni. E il morbo, in questo viaggio, si annida nei pulsanti delle biglietterie, nelle sale d'attesa e nelle stazioni metro. È quanto hanno appurato i carabinieri del Nas in 32 casi di positività dei tamponi di superficie effettuati in diverse città d'Italia. In 28 casi è stato rilevato che il virus si era insediato sui mezzi pubblici e nei luoghi di attesa dei mezzi di trasporto di Roma e delle altre quattro province del Lazio: Rieti, Viterbo, Latina e Frosinone. Un controllo straordinario messo in campo dai Nas e dal ministero della Salute. È così emerso che a Roma su 42 tamponi di superficie, 11 sono risultati positivi in campioni prelevati da un autobus urbano, da 4 autobus di linee extraurbane della capitale e da 6 vagoni della linea ferroviaria extraurbana Roma -Lido. I tamponi risultati positivi erano stati prelevati da punti ritenuti sensibili: maniglie di apertura delle vetture, pulsanti di chiamata della fermata, barre di sostegno dei passeggeri e poggiatesta dei sedili. Dieci le positività sulla rete di trasporto urbano di Latina e Frosinone. I prelievi hanno interessato 5 autobus, uno del capoluogo pontino e 4 di quello ciociaro. Dopo i controlli è scattata la sanificazione straordinaria. Nove i casi di positività su mezzi pubblici nelle provincie di Viterbo e Rieti. "Il riscontro della presenza di materiale genetico del virus sulle superficie dei mezzi di trasporto, seppur non indice di effettiva capacità di virulenza o vitalità dello stesso, rileva con certezza il transito ed il contatto di individui infetti a bordo del mezzo, determinando la permanenza di una traccia virale", scrivono in un comunicato i carabinieri del Nas. E, infatti, i controlli hanno anche svelato quanta poca attenzione ci sia alle norme anti-Covid che potrebbero comunque mettere al riparo dal contagio. In quattro, titolari di aziende di trasporto, sono stati denunciati per non avere seguito le procedure di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro a favore degli operatori. I Nas e l'Arpa hanno anche scoperto che, in molti casi, non sono state eseguite pulizia e sanificazione dei luoghi e delle vetture, non sono stati esposti cartelli e regole anti contagio e non c'era il giusto distanziamento a bordo dei mezzi di trasporto. Mancavano anche i dispencer per il gel disinfettante o non erano funzionanti. I mezzi controllati in diverse città italiane sono stati 693.
Covid, tracce del virus su bus e treni: la scoperta dei Nas. Adnkronos.com il 06 aprile 2021. Tracce del coronavirus sulle superficie di bus e treni. E' quanto hanno scoperto i Carabinieri del Nas, d'intesa con il ministero della Salute, durante una campagna di controlli a livello nazionale per la corretta applicazione delle misure di contenimento epidemico sui servizi di trasporto pubblico. I militari hanno eseguito "756 tamponi di superficie su mezzi di trasporto e stazioni (obliteratrici, maniglie e barre di sostegno per i passeggeri, pulsanti di richiesta di fermata e sedute), rilevando - riporta la nota del Nas - 32 casi di positività per la presenza di materiale genetico riconducibile al virus all’interno di autobus, vagoni metro e ferroviari operanti su linee di trasporto pubblico a Roma, Viterbo, Rieti, Latina, Frosinone, Varese e Grosseto". I test sono stati eseguiti in collaborazione con i servizi locali di Asl, agenzie di protezione ambientale ed enti universitari. Le analisi hanno "rilevato con certezza il transito e il contatto di individui infetti a bordo del mezzo, determinando la permanenza di una traccia virale", osserva il Nas, anche se questa non è "indice di effettiva capacità di virulenza o vitalità" del virus. Gli interventi condotti negli ultimi giorni hanno interessato 693 veicoli, tra autobus urbani ed extraurbani, metropolitane, scuolabus, collegamenti ferroviari locali e di navigazione, ma anche biglietterie, sale di attesa e stazioni metro. Tra questi, 65 hanno evidenziato irregolarità, principalmente connesse con l’inosservanza delle misure di prevenzione al contagio da Covid-19, quali la mancata esecuzione delle operazioni di pulizia e sanificazione, l’omessa cartellonistica di informazione agli utenti circa le norme di comportamento ed il numero massimo di persone ammesse a bordo, l’assenza di distanziatori posti sui sedili e di erogatori di gel disinfettante o il loro mancato funzionamento. Complessivamente sono stati deferiti alle competenti Autorità giudiziarie 4 responsabili di aziende di trasporto, per non aver predisposto le procedure di sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro a favore degli operatori e sanzionati ancora 62 responsabili per irregolarità amministrative, irrogando sanzioni pecuniarie pari a circa 25 mila euro. Le attività di controllo dei Carabinieri Nas proseguiranno al fine di tutelare la salute dei cittadini e della collettività, con particolare riguardo agli aspetti connessi con il contesto di emergenza epidemica in atto.
Contagi sui mezzi pubblici, i Nas scoprono 32 casi. Meloni attacca «Ora la verità è sotto gli occhi di tutti». Adriana De Conto martedì 6 Aprile 2021 su Il Secolo d'Italia. Irresponsabili. Fratelli d’Italia da un anno sta mettendo in guardia sulla situazione dei mezzi pubblici: anello cruciale per la trasmissione dei contagi e pure mai attenzionati con cura e capacità. Anzi si è negata l’evidenza, tuona Giorgia Meloni dai suoi canali social. E oggi il blitz dei Nas ha scoperchiato il problema. “Per mesi hanno raccontato ai cittadini che il trasporto pubblico era sicurissimo, ma oggi la verità è sotto gli occhi di tutti: i mezzi pubblici sono veicolo di contagi. E il loro potenziamento, richiesto a gran voce da Fratelli d’Italia, doveva essere una priorità. Invece – entrambi i governi che si sono susseguiti – hanno preferito continuare a colpevolizzare bar, palestre e ristoranti; chiudendo le loro attività, già in ginocchio dalle continue limitazioni, che da tempo seguivano tutte le norme anti-contagio. Un controsenso assurdo di cui adesso qualcuno deve rispondere davanti agli italiani”. Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, commentando i controlli anti-Covid effettuati dai Nas sui mezzi di trasporto pubblico nazionali. Il Comando Carabinieri per la Tutela della Salute ha realizzato, d’intesa con il Ministero della Salute, una campagna di controlli a livello nazionale. Gli interventi hanno interessato 693 veicoli, tra autobus urbani ed extraurbani, metropolitane, scuolabus, collegamenti ferroviari locali e di navigazione. Ma anche biglietterie, sale di attesa e stazioni metro. Tra questi, 65 hanno evidenziato irregolarità, principalmente connesse con l’inosservanza delle misure di prevenzione al contagio da Covid-19: la mancata esecuzione delle operazioni di pulizia e sanificazione; l’omessa cartellonistica di informazione agli utenti circa le norme di comportamento ed il numero massimo di persone ammesse a bordo; l’assenza di distanziatori posti sui sedili e di erogatori di gel disinfettante; o il loro mancato funzionamento. Complessivamente sono stati deferiti alle competenti Autorità giudiziarie 4 responsabili di aziende di trasporto e sanzionati 62 responsabili per irregolarità amministrative. I 756 tamponi di superficie su mezzi di trasporto e stazioni (obliteratrici, maniglie e barre di sostegno per i passeggeri, pulsanti) hanno rilevato 32 casi di positività per la presenza di materiale genetico riconducibile al virus. I casi su autobus, vagoni metro e ferroviari operanti su linee di trasporti pubblici di Roma, Viterbo, Rieti, Latina, Frosinone, Varese e Grosseto. FdI – come ha rilevato la Meloni- ha sempre spronato il governo Conte ed ora quello guidato da Draghi – a potenziare i trasporti, che dovevano essere i veri osservati speciali. Niente da fare. Dopo un anno di pandemia tragica il blitz, fuori tempo.
«IL VIRUS RALLENTA MA NON CERTO PER LE ZONE ROSSE». Luca La Mantia su Il Quotidiano del Sud il 6 aprile 2021. «La normalità, per come la intendevamo prima della pandemia, non tornerà da un giorno all’altro. L’onda sarà lunga e le mascherine, almeno nei luoghi pubblici al chiuso, ci accompagneranno ancora per un bel po’. Altro è chiedersi quando torneremo a incontrarci, a fare ognuno il proprio mestiere, con i negozi tutti aperti. Con i vaccini questo è un obiettivo alla nostra portata già per la prossima estate».
La previsione è del professor Paolo Spada, chirurgo vascolare dell’Irccs Humanitas e fondatore della pagina Facebook “Pillole di ottimismo”, che dagli albori del Covid analizza l’andamento dell’epidemia in modo disallineato rispetto alla narrazione in chiave pessimistica maggioritaria sui media, ai quali non risparmia severe critiche. «Gran parte della stampa e degli organi di comunicazione in genere continuano a fornire una lettura superficiale dei dati – ci spiega – senza preoccuparsi dei destinatari: cittadini confusi, disorientati e ora anche molto stanchi. Il tutto nel nome dei clic e dell’audience. Sottolineare le variazioni giornaliere dei contagi non serve a nulla, si tratta di problemi relativi su cui si fa terrorismo. Così poi, quando sorgono criticità serie, il pubblico va in saturazione». Lo stesso, osserva, avviene «con le misure di contenimento. Se l’azione fosse stata più mirata e meno generalizzata, ubiquitaria e prolungata nel tempo, le restrizioni sarebbero più digeribili». Gli italiani, prosegue, «saranno anche indisciplinati ma hanno dimostrato di saper rispettare le regole quando sono ragionevoli. Se, diversamente, sono esasperanti, le aggirano. Un atteggiamento che viene messo in conto dal decisore politico». Dal suo canale social, Spada porta avanti una battaglia personale (fondata sui numeri) per un cambio di strategia nella lotta al virus, che si fondi su chiusure limitate alle province e ai comuni dove si sviluppano i focolai e non estese all’intera regione. «Da sempre – dice – l’epidemiologia si fonda sul principio dell’isolamento del soggetto infetto. Un criterio che andrebbe seguito anche a livello territoriale. In fondo si tratta di un’estensione del concetto di tracciamento. Quando i focolai sono tanti, come avviene con la stagione autunnale e invernale, diventa difficile stargli dietro, quindi servono provvedimenti generalizzati ma non su scala regionale. Eppure, nonostante si conoscano i dati dell’incidenza provinciale, si è sempre agito a livello di regione piuttosto che intervenire prima che il contagio si diffondesse sul suo intero territorio. Questa è una strategia perdente». E, soprattutto, lenta. «Seguiamo troppo l’incide Rt, il quale tiene conto solo dei sintomatici e ha bisogno di dieci/undici giorni di tempo per consolidarsi. Le restrizioni hanno la loro utilità, a patto che vengano adottate in modo tempestivo. Invece noi mettiamo le zone rosse quando l’incidenza ha raggiunto il massimo. L’efficacia è nell’evitare la curva, non nell’arrivare quando è già al suo apice». Insomma per Spada, se come pare, ci troviamo in una fase di rallentamento della terza ondata non è solo grazie all’exploit di lockdown regionali disposti nel mese di marzo. «Il calo era già iniziato – fa notare – le zone rosse lo hanno agevolato ma non lo hanno provocato». Anche perché «le epidemie hanno un loro andamento fisiologico, che dipende da più fattori. La prima ondata ci ha colti di sorpresa. La seconda ha avuto un’accelerazione nei primi 15 giorni di ottobre e ha iniziato a frenare prima del 6 novembre, quando sono state adottati i colori delle regioni. La terza, nonostante la maggiore velocità di diffusione della variante inglese, ha trovato subito terra bruciata e ha raggiunto un livello di circolazione oltre cui non riesce ad andare. Il virus, rispetto alla primavera del 2020, trova meno soggetti disponibili. C’è una quota di popolazione naturalmente protetta e un’altra più consapevole, che di suo adotta comportamenti di autodifesa quando, ad esempio, viene a sapere di un familiare o di un vicino di casa contagiato. Tutto ciò prescinde dalle misure restrittive». L’estate aiuterà, come «avvenuto l’anno scorso e come avviene per tutte le malattie respiratorie. La bella stagione, però, non è eterna. Approfittiamone per vaccinare. La cosa importante è ridurre il carico ospedaliero, proteggendo i più vulnerabili. Se raggiungiamo questo obiettivo i contagi giornalieri diventeranno irrilevanti». Ragioni di ottimismo, quindi, «ce ne sono se uno le vuole trovare, con onestà intellettuale e senza partecipare al coro dei catastrofisti».
Stesso numero di malati pre stretta. La verità sui contagi in classe. La chiusura delle classi non ha influito positivamente sulla curva dei contagi. Bassetti: "Il problema non è lì". Ecco cosa dicono i numeri. Andrea Indini - Mar, 06/04/2021 - su Il Giornale. A guardare il grafico appare subito chiaro che il numero dei contagiati e il rapporto con i tamponi giornalieri non si sono scostati di una virgola. Siamo sempre lì a oscillare tra i 15 e i 20mila casi con un'incidenza che non si discosta mai tanto dal 6-7%. Eppure da domani torneranno in presenza in tutta Italia - anche nelle regioni in zona rossa - gli alunni delle scuole fino alla prima media. Il che non può che vuol dire che non è la didattica a distanza la soluzione giusta che il governo sta cercando per frenare i contagi. Come dimostrato dallo studio A cross-sectional and prospective cohort study of the role of schools in the SARS-CoV-2 second wave in Italy recentemente pubblicato sulla rivista Lancet, la curva monitorata dall'Istituto superiore di sanità non viene infatti spinta all'insù dalle lezioni in presenza ma da atteggiamenti non appropriati tenuti in altri luoghi. "Il problema non è la scuola - conferma al Giornale.it Matteo Bassetti, direttore della Clinica di malattie infettive dell'ospedale San Martino di Genova e componente dell'Unità di crisi Covid-19 della Liguria - il problema sono il pre e il dopo scuola, a partire dai trasporti che portano gli studenti in classe".
La situazione pre stretta. "La situazione non mi sembra diversa rispetto a quando è stata disposta la misura", ammette a Repubblica Luca Mezzaroma, referente Covid-19 del liceo Kennedy di Roma. Certo, come spiega a Sky Tg24 giustamente Antonello Giannelli, presidente dell'Associazione nazionale presidi (Anp), "rispetto a quando si è chiuso, è cresciuto il numero dei vaccinati, soprattutto tra il personale scolastico". Un punto, quest'ultimo, che mette sicuramente al riparo gli insegnanti da un eventuale contagio tra i banchi ma che non andrà certo a blindare i più piccoli anche perché, come fa notare lo stesso Giannelli, "su screening degli studenti e trasporti non si sono registrati particolari passi avanti". E quindi? Quindi, delle due l'una: o il problema è stato ingigantito un mese fa, quando si è deciso di chiudere ogni classe di ogni ordine e grado, oppure non c'è alcuna correlazione (come dimostrato dagli studi scientifici) tra l'aumento dei malati e la didattica in presenza. In entrambi i casi si può azzardare a dire, a distanza di un mese, che si è trattato di un passo falso. Per argomentare partiamo dai numeri che molto spesso sono più esaustivi delle parole. Andiamo alla settimana in cui l'esecutivo ha deciso di blindare gli studenti in casa. Il primo marzo si contavano poco più di 13mila contagi su 170.633 tamponi effettuati. Un'incidenza del 7,9%. Ma era lunedì e, si sa, il lunedì si contano sempre meno tamponi. L'indomani, infatti, su 335.983 test i malati di Covid-19 erano oltre 17mila (5,08%), mentre Il 3 aprile si arrivava a superare la soglia dei 20mila infetti su 358.884 (5,82%). Il 4 marzo, quando i positivi salivano a 22.865 su 339.635 tamponi (6,73%), il premier Mario Draghi aveva riunito d'urgenza l'esecutivo a Palazzo Chigi per affrontare l'emergenza sanitaria. "L'attenzione è massima, stiamo prendendo delle decisioni che incidono sullo stile di vita degli italiani e siamo ancora in una situazione di allarme, secondo i dati scientifici - aveva motivato l'ex Bce - il contagio potrebbe anche estendersi, non sappiamo quando raggiungeremo il picco". Al termine dell'incontro avevano, quindi, deciso di chiudere tutte le scuole. Il primo giorno di lockdown scolastico si contavano oltre 24mila nuovi contagiati su 378.463 tamponi (6,35%).
La riapertura delle scuole. Un mese dopo ci prepariamo a riaprire le scuole. Non tutte, per carità. Solo fino alla prima media. La nuova mappa delle presenze elaborata dall'agenzia LaPresse sarà la seguente: 3,2 milioni di studenti continueranno la dad (erano 6,9 milioni nei giorni scorsi) e 5,3 milioni nelle aule (erano solo 1,6 milioni). "La chiusura delle scuole - spiega al Giornale.it Bassetti - non ha influenzato l'andamento dei contagi che hanno continuato a mantenersi stabili e che, in alcune situazioni, sono addirittura cresciuti". I numeri di oggi, infatti, non sono poi tanto dissimili da quelli rilevati a inizio marzo. Ieri è stata rilevata una percentuale monstre pari al 10,39% (10.680 positivi su 102.795 tamponi) ma accantoniamola perché, come tutti i lunedì, risente dei pochi test effettuati. Domenica abbiamo, infatti, avuto 18.025 contagiati su 250.933 tamponi (7,18%) e, se prendiamo i giorni prima delle festività di Pasqua, i numeri sono anche peggiori: andando a ritroso, sono stati rilevati il 3 aprile 21.261 malati su 359.214 tamponi (5,92%), il 2 aprile 21.932 malati su 331.154 tamponi (6,62%) e il primo aprile 23.649 malati su 356.085 (6,64%). "Siamo in una fase di plateau", argomenta Bassetti. "Dopo una fase di picco ci auguriamo, tra una o due settimane, di iniziare una fase di discesa anche abbastanza rapida". Per capirlo, però, bisognerà vedere i dati dei prossimi giorni che potrebbero iniziare a beneficiare dello sprint che Draghi ha imposto alla campagna vaccinale.
I controlli sugli studenti. Visti anche questi numeri, secondo Bassetti, è necessario avviare "una profonda riflessione". "Le scuole non sono in sé e per sé un problema - ci spiega - nessuna scuola lo è, né le scuole elementari, né le scuole medie né le scuole superiori. Quando si intraprendono misure del genere - continua - bisognerebbe piuttosto andare a guardare quali sono i benefici e quali sono invece i rischi. Io credo che i rischi che abbiamo preso, chiudendo le scuole da un anno a questa parte, siano enormi per una generazione che ha praticamente perso due anni di studi, ha perso socialità, ha perso cultura... adesso sarà difficile riuscire a recuperarla". Il suo auspicio, condiviso da milioni di genitori in Italia, è che "ora le scuole riaprano per non richiudere più". I fari, a detta di Bassetti, andrebbero accesi sul pre e il dopo scuola. "I ragazzi finiscono per assembrarsi lo stesso - ci spiega - quindi è meglio avere una scuola al cui interno sappiamo che le persone vengono controllate piuttosto che lasciare in giro gli studenti, liberi di fare qualunque cosa senza alcun controllo".
Danilo Taino per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2021. È un anno che parliamo ogni giorno di lockdown. È forse il momento di analizzarli senza preconcetti. Lo ha fatto uno studio di tre ricercatori appena pubblicato dal Centre for Economic Policy Research: la conclusione a cui arrivano è che «le restrizioni impiegate per un periodo lungo, oppure reintrodotte a uno stadio avanzato della pandemia (per esempio nell'eventualità di un nuovo aumento dei casi) esercitano, al massimo, un effetto più debole, attenuato, sulla circolazione del virus e sul numero dei decessi». Patricio Goldstein della Harvard University, Eduardo Levy Yeyati dell'università Torquato Di Tella (Buenos Aires) e Luca Sartorio del ministero del Lavoro argentino hanno raccolto un database di informazioni per 152 Paesi dall'inizio della pandemia al 31 dicembre 2020 (quindi dati non influenzati da campagne di vaccinazione). Il livello d'intensità dei lockdown utilizzato è quello misurato dall'università di Oxford che considera tra l'altro la chiusura delle scuole, dei luoghi di lavoro e le restrizioni agli eventi pubblici. E l'intensità dei movimenti nei luoghi sottoposti alle restrizioni è quella misurata da Google Maps. L'obiettivo era vedere la modifica, nel tempo di vita dei lockdown, dell'indice di contagio Rt e l'evoluzione dei decessi da Covid-19. Dopo 120 giorni - è il risultato dell'analisi - un lockdown stretto «ha un effetto significativamente più attenuato» sulla riduzione del numero dei morti rispetto alle prime fasi delle restrizioni. E sull'indice Rt «non ha un impatto significativo». Probabilmente, molti di noi lo sospettavano ma lo studio misura il fatto che, con il passare del tempo e con l'aumento della fatica da lockdown, le limitazioni delle autorità «sono sempre più ignorate». I tre analisti osservano che le restrizioni «dovrebbero essere rigorose e brevi». Questo rendimento decrescente della chiusura delle attività dovrebbe essere tenuto in conto dalle politiche dei vari Paesi, soprattutto quelli - per esempio i più poveri - che stanno trovando enormi difficoltà a realizzare campagne di vaccinazione di massa e devono ricorrere a difese alternative.
Le prime sconfitte dei governi pro lockdown. Andrea Walton su Inside Over l'1 aprile 2021. Restrizioni e chiusure dominano, ormai da mesi, lo scenario europeo. Tutte le nazioni del Vecchio Continente sono dovute correre ai ripari per provare a frenare la seconda ondata di contagi del Covid-19 che, grazie alla rigida stagione invernale ed alle varianti più contagiose, sembra non voler lasciare l’Europa. C’è, però, anche un altro lato della medaglia ed è quello dei costi economici, sociali e psicologici derivanti da chiusure prolungate nel tempo, talvolta esagerate e lesive delle libertà civili. Gli organi giudiziari ed i parlamenti non sono riusciti ad opporsi, con efficacia, alla preponderanza del potere esecutivo e quasi nessuno ha provato a mettere in discussione lo status quo. Qualcosa, però, potrebbe essere sul punto di cambiare e si cominciano a registrare le prime sconfitte per i “chiusuristi”.
Il Belgio altolà di una corte federale. Una corte belga ha ordinato al governo federale di rimuovere, entro 30 giorni, tutte le misure contro il coronavirus perché prive di una base legale evidente. Il tribunale di primo grado di Bruxelles ha dato all’esecutivo un mese di tempo per agire e qualora ciò non accada verrà multato di cinquemila euro al giorno fino ad un massimo di 200mila euro in totale. Per mesi il governo belga ha usato i decreti legislativi di emergenza per imporre restrizioni scavalcando l’autorità del parlamento e questo stato di cose ha spinto la Lega per i Diritti Umani a fare ricorso. Quest’ultimo è stato promosso alla fine di febbraio con la motivazione che i diritti umani dei cittadini venivano violati senza una base legale e sorprendentemente i giudici si sono schierati con i ricorrenti. Il governo belga guidato dal primo ministro Alexander De Croo, che è in procinto di varare una legge pandemica per coinvolgere i deputati nel processo decisionale, ha già annunciato che si rivolgerà al tribunale d’appello per provare ad invalidare la sentenza. Il Belgio, dove 22,763 persone hanno perso la vita a causa del coronavirus, è stato tra i paesi più colpiti dalla pandemia e le autorità hanno recentemente annunciato nuove restrizioni per alleviare la pressione sugli ospedali e contenere il virus. Sono state chiuse tutte le scuole, asili esclusi, parrucchieri e centri estetici. I negozi non essenziali possono rimanere aperti unicamente su appuntamento mentre i ristoranti sono chiusi ormai da ottobre.
Stop anche in Finlandia. Il governo finlandese del primo ministro Sanna Marin ha dovuto ritirare la proposta di istituzione di un lockdown, che aveva presentato al parlamento, dopo la bocciatura ricevuta da un comitato di legge costituzionale. Quest’ultimo ha chiarito come la scelta di confinare le persone in case nelle aree con più infezioni fosse imprecisa ed in disaccordo con la Costituzione. Il comitato si è definito contrario alle restrizioni su larga scala ed ha chiarito come queste ultime dovrebbero essere mirate nei confronti di eventi od occasioni rischiose, come, ad esempio, gli incontri tra privati. L’esecutivo, che aveva dichiarato di voler sottoporre a lockdown cinque città, tra cui la capitale Helsinki, per limitare la crescita delle infezioni di coronavirus e le ospedalizzazioni, dovrà così rivedere i propri piani e cercare una via alternativa per raggiungere i propri scopi. La Finlandia è stata lodata, in passato, per come ha gestito la pandemia ed è stata tra i paesi meno colpiti dal Covid-19 in Europa. Al momento 259 persone in tutto il paese sono ricoverate in ospedale a causa del Covid-19.
Baleari e Canarie sfidano Madrid. In Spagna si è aperto un vero e proprio scontro tra governo centrale ed alcune autorità regionali in merito all’imposizione dell’uso delle mascherine all’aperto a prescindere dalla distanza interpersonale. Il governo delle Isole Baleari, una popolare destinazione turistica, ha annunciato che le mascherine non saranno obbligatorie nelle piscine e nelle spiagge locali dato che la legge federale non può invalidare quella regionale. Si teme che provvedimenti di questo genere possano portare, come accaduto lo scorso anno, ad una massiccia serie di cancellazioni da parte dei turisti stranieri che vogliono recarsi in vacanza sulle isole. Anche il governo delle Isole Canarie ha reso noto che i suoi servizi legali stanno esaminando la legge per determinare quali saranno le possibili prossime contromosse. Il settore turistico spagnolo versa in uno stato di grave crisi ed è alla disperata ricerca di una ripresa.
Corea del Sud, nemmeno un giorno di lockdown: ecco i dati di contagi e morti. Il caso che smonta la linea-Speranza. Libero Quotidiano l'01 aprile 2021. "In queste ore la Corea del Sud è in allarme perché i contagiati giornalieri sono arrivati a 500. Numeri così bassi e impensabili per noi e tanti altri Paesi occidentali. La Corea del Sud ha avuto anche 2 nuovi decessi, arrivando ad un totale, da quando si è scatenato il Covid, di 1.731 morti. Cifre da lasciare esterrefatti se guardiamo i nostri 108.879 deceduti. Per 100.000 abitanti l’Italia è anche tra i Paesi con più morti al mondo. Peggio di noi solo Messico, Bulgaria, Perù e Ungheria. Fortuna che eravamo un modello!" scrive Antonio Amorosi su affaritaliani.it. Il giornalista spiega la "ricetta coreana", il Paese è riuscito infatti a mantenere sin da subito sotto controllo l'espansione del virus, grazie anche a massicce campagne territoriale di informazione, su come comportarsi nel gestire il Covid in ogni situazione. "Si è diffuso un uso di massa dei tamponi, si è utilizzato il tracciamento dei focolai epidemici al fine di spegnerli sul nascere, ovviamente rispettando la privacy, con l’isolamento obbligatorio quando si è positivi" spiega il giornalista. Inoltre: "Le cure sanitarie ordinariamente vengono fatte a casa, quando è evitabile l’ospedale. Sono state aperte strutture dedicate al Covid e anche gli asintomatici sono stati seguiti e curati dai medici, indipendentemente della gravità della situazione, per tentare di spegnere la capacità virale del virus alla fonte". "La strategia coreana ha funzionato e senza un solo giorno di lockdown. Il governo guidato dal presidente Moon Jae-in ha respinto all'inizio della pandemia l’opzione dei blocchi perché considerata troppo costosa per i mezzi di sussistenza e i legami sociali dei cittadini. E i risultati si sono visti anche sotto il versante economico. La Corea nel 2020 si contrarrà solo dell'1%. Eppure la Corea del Sud è un Paese di grandi dimensioni, con 52 milioni di abitanti e una densità di 491 abitanti a chilometro quadrato, con grandi agglomerati abitativi (Seoul ha 9,7 milioni di abitanti). Una densità molto superiore alla nostra. L’Italia ha una densità di 196,17 abitanti a chilometro quadrato con 59 milioni di abitanti" prosegue Amorosi. "Per contenere il nuovo aumento delle infezioni (500 casi giornalieri), le autorità sanitarie hanno esteso, nella grande area di Seoul, le attuali regole di distanziamento sociale al livello 2. I divieti di raduni di 5 o più persone continueranno e i ristoranti e le altre strutture pubbliche nella grande area di Seoul potranno rimanere aperti fino alle 22:00. Addirittura si sono svolti eventi pubblici all’aperto, tipo attività sportive negli stadi, rispettando il distanziamento sociale e con il contenimento delle presenze." scrive Antonio Amorosi e conclude: "In Italia, come in tantissimi altri Paesi, si aspetta lo scoppiare dei focali e dei contagi per attuare misure di contenimento reali e senza alcun controllo e tracciamento a monte. Bisognerebbe invece seguire l'esempio coreano al fine di anticipare il virus per ridurne la capacità di contagio".
Chirurgiche o Kn95, tutto quel che sai è falso. I test di laboratorio: usate male da un anno. Molti Paesi ora consentono solo le Ffp2. All'aperto? Sono inutili o dannose. Giuseppe Marino - Mer, 31/03/2021 - su Il Giornale. Se non tutto quello che sappiamo sulle mascherine è falso, perlomeno lo è buona parte. Prenderne coscienza solo ora è tragico, ma meglio tardi che mai. Stando alle analisi di Fonderia Mestieri, l'azienda di Torino che è diventata punto di riferimento per valutare la capacità filtrante delle mascherine anche per le forze dell'ordine, cui dà una mano gratis, una gran parte di ciò che ci siamo messi sulla faccia in questo anno è inutile o dannosa. Facciamo ordine in questo caos criminale. Le mascherine di comunità, ovvero quelle di stoffa, sdoganate con il decreto Cura Italia di marzo 2020, a inizio pandemia, quando non si trovava uno straccio da mettersi sulla faccia. «Servono a fare gli untori -spiega Marco Zangirolami, fondatore del laboratorio- non filtrano nulla ma così la gente crede di avere la stessa protezione di chi indossa una mascherina efficace. Incredibile che non le abbiano ancora tolte di mezzo». Sarà un caso, ma in Parlamento ne è vietato l'uso. Le chirurgiche, le classiche mascherine blu. «Fermano il droplet ma hanno una capacità filtrante ridotta per l'aerosol -spiega Zangirolami- soprattutto perché dai lati entra un 30-40 per cento d'aria. Significa che in un ambiente ben aerato possono avere una certa utilità, ma in ambienti chiusi dove si sta vicini non servono a nulla». Francia, Austria e Germania hanno vietato le mascherine di stoffa e in molti ambienti stop pure alle chirurgiche. Le Kn95 sono le mascherine d'importazione che seguono lo standard cinese e in Italia sono parificate alle FFp2. «C'è un problema -spiega Zangirolami- le linee guida, pur di consentire l'importazione, hanno ammesso una serie di deroghe inclusa quella dell'aderenza al volto. Essendo progettate per un volto orientale, fanno entrare aria e sono molto meno sicure». Le FFp1 sono un mistero. «Sono le mascherine da lavoro -spiega Zangirolami- hanno una capacità filtrante simile a quella delle chirurgiche ma aderiscono al volto. Sarebbero un ottimo compromesso e in Italia avremmo da tempo avuto la capacità di produrle. Chissà perché invece sono state poco prese in considerazione». Infine le Ffp2. Francia, Austria e Germania le stanno rendendo obbligatorie in ambienti chiusi, seguite da altri Paesi. Le raccomanda sui bus perfino la Svezia, da sempre scettica per il timore che inducano falsa sicurezza. «Le Ffp2 -spiega l'esperto- hanno capacità di filtrazione altissima. Se da settembre tutti ci fossimo dotati di mascherine corrette, forse non avremmo avuto le nuove ondate». E invece? «Invece -dice Zangirolami- abbiamo importato milioni di mascherine spazzatura a prezzi bassi, mettendo fuori mercato i produttori italiani che vendono all'estero quelle buone». La politica italiana: carente educazione alla mascherina e obbligo anche all'aperto: «Dove non servono. Che idiozia- chiosa Zangirolami- se c'è distanza meglio respiare e non avere sul viso collettori di batteri».
Niente cortisone con il covid, lo dice l’Ordine dei Medici di Torino: l’uso inappropriato è pericoloso. Giampiero Casoni su Notizie.it il 5 aprile 2021. Niente cortisone con il covid, lo dice l’Ordine dei Medici di Torino che avverte come in più pregiudichi l'accesso alle terapie con anticorpi monoclonali. Niente cortisone con il covid, lo dice l’Ordine dei Medici di Torino, che spiega come l’uso inappropriato degli stessi possa peggiorare addirittura il quadro clinico. Le segnalazioni provenienti dai reparti ospedalieri parlano chiaro: i pazienti che fin dai primi giorni di malattia hanno assunto in modo inappropriato cortisonici peggiorano. L’allarme è serio e arriva dall’Ordine dei medici di Torino. C’è una precisa linea di cui i medici torinesi si sono fatti testimoni. Cioè quella per cui ogni protocollo territoriale per la cura dei malati covid, compresa la linea guida della Regione Piemonte, e tutta la letteratura scientifica in materia concordano. Su cosa? Sul fatto che l’uso del cortisone all’esordio della malattia sia inutile e pericoloso. Soprattutto in assenza di disturbi respiratori che richiedano ossigenoterapia. Ma c’è di più. “Il trattamento inappropriato con cortisonici impedirà l’inserimento di questi pazienti nella sperimentazione della terapia con anticorpi monoclonali, che è partita proprio in questi giorni in Piemonte”. Non è un caso che il protocollo adottato a livello nazionale per la scelta dei soggetti cui distribuire gli anticorpi sia “riservato a pazienti con sintomi lievi/moderati, nei primi giorni di malattia. Poi non ospedalizzati, senza insufficienza respiratoria e senza terapia cortisonica in corso, ma con rischio di progressione verso forme gravi”. Il presidente dell’Ordine dei Medici di Torino Guido Giustetto la spiega meglio: “Immaginiamo che, in parte, l’uso di cortisonici possa essere un’iniziativa spontanea da parte di cittadini che trovano informazioni scorrette in rete o sui social. Tuttavia ricordiamo comunque a tutti i medici ai quali per la prima volta si rivolge il paziente Covid con sintomi lievi di attenersi strettamente alle evidenze scientifiche. E di farlo riservando la prescrizione di questi farmaci ai casi di insufficienza respiratoria con necessità di ossigenoterapia”.
Follia dei protocolli anti Covid: cosa succede quando ti ammali. Tra telefonate a vuoto e mancanza di un protocollo unico. Ecco cosa prova chi ha la sfortuna di prendersi il Covid-19. Antonella Zangaro - Dom, 28/03/2021 - su Il Giornale. Il numero verde regionale risponde tutti i giorni: "La sua chiamata sarà la prossima ad essere gestita, attendere prego". La febbre e la paura mi confondono ma ad occhio e croce attendo in linea da venti minuti; da 24 ore l’infame uscito dalle viscere di un pipistrello cinese si è infilato nel mio corpo. Ha superato tutte le mie cautele e le mie attenzioni, mi ha piegato le gambe abituate a correre le mezze maratone rinchiudendomi, sola, in una stanza di fortuna in una città che non è la mia. Sono bloccata a Caserta; bloccata sulla via di casa verso Bologna da qualche sintomo e dal risultato di un test rapido comprato in farmacia: positivo. Il mio incubo è diventato realtà, sono seduta sulle montagne russe con un mostro piccolo e subdolo a banchettare dentro di me mentre fuori c’è il caos e un sistema che, nonostante un anno di vantaggio per corroborare una risposta valida, ancora annaspa e fa leva solo sulla buona volontà dei singoli. Cerco su Google un numero di assistenza Covid-19 in questa città e mi perdo in una pioggia di informazioni inutili, né il comune, né tantomeno l’asl forniscono con chiarezza dei riferimenti validi e facili da trovare. La febbre intanto sale e la paura di quello che mi aspetta mi fa tremare le gambe; nessuno sa come si sviluppa l’infame una volta entrato in circolo e quale organo attaccherà. Nessuno ti può dire con quanta forza saprà reagire il tuo sistema immunitario e quanto ossigeno riusciranno a catturare tuoi polmoni. Un numero mi risponde. “Buonasera, sono malata, ho la febbre, no.. non sono residente in questa regione, a dire il vero non sono più residente neanche in Italia, ma sono Italiana, sono di Bologna ho bisogno di aiuto”. “Mi dispiace - mi risponde il medico del numero Covid di Caserta - ma noi non possiamo prenderla in carico perché Lei non risiede in Campania. Si rivolga al suo medico di base”. Il Covid mi farà morire di burocrazia, penso, mentre la febbre mi sale e il respiro è sempre più rarefatto. Il dottor Quadrelli è stato il mio medico finché non mi sono trasferita a Londra; lo chiamo, trasecola e amorevolmente mi spiega che una frase del genere non l’ha mai sentita ma che lui, sì, si occuperà di me, seppur da lontano e mi seguirà passo passo. Lo stesso dicasi per il direttore della Pneumologia del Sant’Orsola di Bologna, prof Nava, che conosco e che mi prescrive cure e terapie. I singoli uomini reggono sulle loro spalle un sistema che in un anno e nel pieno della terza ondata ancora non è in grado di correre più veloce del contagio. La proprietaria del b&b dove alloggio, turbata da quanto accaduto, riesce a farmi contattare da un dirigente dell’Asl di Caserta che si scusa. “Apriremo un’indagine interna, Lei verrà curata come ogni altro cittadino indipendentemente da quale sia la sua residenza. Non si preoccupi”. Il numero verde del “servizio regionale della Regione Campania che fornisce informazioni sul nuovo Coronavirus in Cina” continua a tenermi in attesa. Dopo tre giorni anche mia mamma sviluppa i sintomi e l’Asl locale le spiega che non essendo residente in Campania non potrà essere presa in carico. Il cortocircuito del sistema si annoda su se stesso mentre le telefonate quotidiane con i miei medici di Bologna mi alleviano la febbre e la paura. Il virus si nasconde nel mio corpo e subdolo mi inganna illudendomi di essersi arreso salvo poi recuperare aggressività rigettandomi nella paura di quel che sarà il mio risveglio la mattina seguente. Le terapie prescritte alla due diverse latitudini non coincidono: più aggressivi e interventisti a Caserta mentre da Bologna la tabella di marcia per antibiotico e cortisone è più dilatata, “per non aiutare il virus a replicare più velocemente”. Deduco che nemmeno sui protocolli di cura esista un sistema omologato, ma che, di nuovo, sono i singoli a fare scuola a sé. Il medico che rispondeva (fino alle 18) al cellulare dell’Asl di Caserta si è ammalato, ha contratto il Covid; quel numero suona a vuoto da giorni. I casi in Campania sono in costante aumento, il sistema è andato in tilt. A Bologna le visite a domicilio prevedono anche la possibilità di fare ecografie ed esami più specifici, a Caserta riesco fortunosamente a trovare un infermiere di buona volontà che all’alba e la sera tardi, prima di rientrare a casa, viene a fare le punture e a controllare l’ossigeno somministrato a mia mamma. Io sono guarita; i miei polmoni da runner, mi spiegano i medici, hanno saputo fronteggiare la malattia. Mia mamma migliora di giorno in giorno. Il numero verde della Regione Campania continua a suonare a vuoto mentre le ambulanze segnano il ritmo del dolore che ci circonda in questa dimensione sospesa dove la burocrazia e il sistema vanno al passo col virus mentre anime belle e piene di buona volontà combattono a mani nude. “Attenda in linea, la sua chiamata sarà la prossima ad essere gestita”.
(ANSA il 26 marzo 2021) - L'Ema ha espresso "un parere positivo per consentire il trasporto e la conservazione delle fiale del vaccino BioNTech/Pfizer a temperature comprese tra -25 e -15 ° C (ovvero la temperatura dei congelatori per farmaci standard) per un periodo una tantum di due settimane". Lo riferisce l'agenzia europea del farmaco, precisando che "questa è un'alternativa alla conservazione a lungo termine delle fiale a una temperatura compresa tra -90 e -60 ° C". Secondo l'Ema si "prevede che faciliti la rapida introduzione e distribuzione del vaccino nell'Ue riducendo la necessità di condizioni di conservazione a temperature estremamente basse".
Covid, Svezia: tasso di mortalità 2020 tra i più bassi d’Europa senza lockdown. Ilaria Minucci su Notizie.it il 26/03/2021. Un’indagine dell’Eurostat ha rivelato che la Svezia ha registrato uno dei più bassi tassi di mortalità 2020 d’Europa, senza ricorrere ai lockdown anti-Covid. Un’indagine condotta dall’Eurostat ha rivelato che, nel 2020, la Svezia ha registrato un tasso di mortalità complessivamente più basso se confrontato con la maggior parte dei Paesi europei. Il dato potrebbe ricollegarsi alla scelta della nazione di non aver indetto lockdown rigidi per contrastare la diffusione del coronavirus, che hanno compromesso ampie porzioni dell’economia globale. La Svezia persiste nella propria decisione di non ricorrere a lockdown rigidi per arginare la pandemia da SARS-CoV-2 mentre altri paesi come la Germania e la Francia hanno recentemente comunicato alle rispettive popolazioni l’estensione dei lockdown per combattere il massiccio incremento di contagi Covid e di decessi provocati dal virus. Simili scelte, come sottolineano gli economisti, inficeranno la ripresa economica nazionale ed europea. In questo contesto, quindi, la Svezia ha preferito appellarsi alle misure volontarie intraprese dai cittadini, inerenti ad esempio al rispetto del distanziamento sociale o a prestare particolare attenzione all’igiene. Il radicato senso civico degli svedesi, mostrato nel corso degli ultimi mesi, ha consentito al paese di non procedere alla chiusura di ristoranti, scuole e negozi, garantendo la salvaguardia dell’economia nazionale. In merito al tasso di mortalità della Svezia, l’Eurostat ha svelato che la nazione scandinava fa registrato un incremento del 7,7% di morti nel 2020, rispetto alla media calcolata in relaziona ai quattro anni precedenti. Paesi come il Belgio o la Spagna, invece, che hanno varato differenti lockdown rigidi, presentano un tasso di mortalità aumentato del 16,2% e del 18,1%. In totale, 21 paesi dei 30 analizzati dall’Eurostat hanno evidenziato un tasso di mortalità superiore a quello svedese. Il dato relativo alla Svezia, tuttavia, non si configura come il risultato migliore riscontrato: altri paesi nordici, come la Danimarca e la Finlandia, infatti, si sono attestate su tassi di mortalità pari a, rispettivamente l’1,5% e l’1,0%. I dati raccolti sulla Svezia sono stati commentati da alcuni esperti che hanno tenuto a precisare che il fenomeno riscontrato non è da attribuire, necessariamente, alla decisione della nazione di non imporre lockdown rigorosi. A proposito dell’indagine Eurostat, inoltre, il professore di epidemiologia impiegato presso l’Università britannica di Edimburgo, Mark Woolhouse, ha spiegato: “Occorre stare molto attenti nell’interpretare i dati sulla morte collegati al Covid-19, qualunque sia la fonte, perché nessuno di essi è perfetto”. In modo analogo, si è espresso anche il professore di malattie infettive dell’Università di Nottingham, Keith Neal, che ha raccomandato estrema cautela nell’analisi dei dati, facendo riferimento a svariati fattori che possono aver inciso sul tasso di mortalità come la salute complessiva della popolazione svedese, l’età media dei cittadini o la composizione media dei nuclei familiari.
Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it.
Il vigile guarito con i monoclonali: “Il mio corpo aveva smesso di combattere, ma due flebo mi hanno salvato la vita”. Rosario di Raimondo su La Repubblica il 28 marzo 2021. Roberto Manara, 55 anni, è vicecomandante della polizia locale di San Lazzaro: "La seconda sacca l'ho ricevuta alle cinque del pomeriggio e alle dieci di sera mi sono riuscito ad alzare sulle mie gambe". Ha scoperto di essere positivo al tampone lo stesso giorno in cui doveva vaccinarsi con AstraZeneca, e nel dirlo si commuove: "Forse se l'avessi fatto non mi sarei ammalato così...". È finito al policlinico Sant'Orsola con la febbre a 40, "ho dormito una notte in barella al pronto soccorso". Ieri hanno provato a staccarlo dall'ossigeno, sta meglio. Roberto Manara, 55 anni, vicecomandante della polizia locale di San Lazzaro, alle porte di Bologna, è stato curato con gli anticorpi monoclonali: "Sono rinato, un'iniezione di vita. Medici e infermieri sono stati bravissimi, fanno i salti mortali".
Quando è finito in ospedale?
"Sono entrato in pronto soccorso il 14 marzo, il giorno dopo mi hanno ricoverato. Avevo la polmonite bilaterale. Respiravo a fatica, sono stato a un passo dalla terapia intensiva".
E poi?
"Per fortuna stavano sperimentando gli anticorpi monoclonali".
Com'è andata?
"Sono delle flebo, mi hanno fatto due sacche. Dopo la prima non sono peggiorato. Dopo la seconda... l'ho ricevuta alle cinque del pomeriggio, alle dieci di sera mi sono alzato sulle mie gambe, sono andato in bagno da solo. Ho sentito l'energia che mi tornava, un'iniezione di vita".
Le hanno chiesto il consenso?
"Sì, e ho firmato subito. Non ho avuto paura, non mi sono sentito una cavia, mi sono fidato ciecamente. Prima della terapia mi mancavano le forze, il mio corpo non reagiva al virus, come se non combattesse più. Gli anticorpi mi hanno dato la spinta".
Oggi come sta?
"Respiro meglio, hanno provato a togliermi l'ossigeno. Spero di uscire presto, voglio abbracciare la mia famiglia".
Cosa direbbe a chi non crede al virus?
"Io non bevo, non fumo, non ho patologie. E queste sono state le conseguenze del virus".
E a chi ha dubbi sul vaccino?
"Avrei dovuto farlo proprio il giovedì che ho scoperto di essere positivo. Tutti i miei colleghi si sono vaccinati e io l'avrei fatto sicuramente. Forse non mi sarei ammalato, questo lo voglio dire. Spero che fra i vaccini e queste nuove terapie possiamo tornare alla normalità".
Matteo Bassetti, i monoclonali funzionano davvero contro il Covid: "Ricoveri e decessi ridotti dell'85 per cento". Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 27 marzo 2021. Che gli anticorpi monoclonali fossero un'arma potente contro il Covid Libero lo scrive da mesi, non sulla base di teorie precostituite ma sentiti gli esperti e osservate le statistiche. Le ultime sono della britannica GlaxoSmithKline e dell'americana Vir Biotechnology: certificano che nel caso del farmaco Regeneron, basato sugli anticorpi "casirivimab" e "imdevimab", se i monoclonali vengono somministrati nella fase iniziale della malattia (in Italia il protocollo prevede entro 10 giorni) riducono i ricoveri e i decessi dell'85%. L'efficacia dell'altra cura approvata, quella col farmaco "Bamlanivimab" dell'azienda Eli Lilly, è del 70. Il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive del San Martino di Genova, ha iniziato a curare alcuni malati con gli anticorpi monoclonali Insomma: guariscono 3 pazienti su 4. La sperimentazione è stata fatta su un campione di 583 pazienti e i dati sono stati verificati da un ente indipendente. Le statistiche sono importanti, ma la quotidianità rende l'idea ancora meglio. Ieri il professor Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie Infettive dell'ospedale San Martino di Genova, ha fatto sapere che assieme alla propria equipe in meno di una settimana ha cominciato a curare coi monoclonali 9 persone. «Stanno tutte bene e per il momento sono tutte a casa. La sensazione nella pratica clinica», ha sottolineato, «è che funzionino davvero bene. Qui la situazione ospedaliera è tranquilla, come sempre durante questa terza ondata in Liguria, che oggi si potrebbe definire un'ondina». Bassetti ha informato anche sulla tipologia dei pazienti già trattati al San Martino, «soprattutto persone tra i 70 e gli 80 anni e con altre patologie». Poi ha aggiunto: «I monoclonali sono una sorta di paracadute rispetto al ricovero». I primi ospedali a ricevere la prima parte delle 150mila dosi comprate dal commissario all'emergenza Figliuolo sono stati quelli della Lombardia, del Veneto, delle Marche, della Campania, del Lazio, e appunto della Liguria. Ma la cura divenuta celebre, con annesse stucchevoli polemiche, dopo la guarigione lo scorso autunno dell'allora presidente americano Trump è ormai cominciata in tutt' Italia. Ieri il Policlinico Sant' Orsola di Bologna ha preso in carico il primo paziente, trattato col Bamlanivimab. In Emilia Romagna sono state consegnate circa 2.500 dosi e oggi ne sono attese altre mille destinate ad altrettanti pazienti. Ieri anche l'ospedale di Jesi, in provincia di Ancona, ha trattato il primo paziente, un 44 enne risultato positivo al virus il 21 marzo e affetto da una forma di immunodeficienza. L'ospedale, evidenzia una nota dell'azienda sanitaria locale, è stato il primo nelle Marche «a formulare un progetto in merito a tale trattamento, per il quale le evidenze scientifiche in letteratura depongono per una particolare efficacia». La cura è iniziata anche all'ospedale di Pescara, in Abruzzo, su un 82enne. L'Aifa ha stabilito che può accedere all'iniezione chi è affetto da gravi patologie, in questo caso anche chi ha tra i 12 e i 17 anni, chi ne ha più di 55 e soffre di malattie cardiovascolari o respiratorie croniche, e gli over 65 che abbiano almeno un fattore di rischio. Il presidente della Società italiana di farmacia ospedaliera, Arturo Cavaliere, intervistato dall'agenzia di stampa Dire ha affermato che «l'obiettivo comune a tutto il Paese sarà quello di curare coi monoclonali per ridurre le ospedalizzazioni». Negli Stati Uniti l'ente di controllo sui farmaci, l'Fda, ha bloccato l'uso dei monoclonali prodotti da Eli Lilly, ma attenzione, solo se usati da soli, quindi se non associati ad altre terapie. I detrattori della "cura Trump" esultano, ma il professor Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta, ha fatto subito chiarezza: «Prima che si scateni la solita disinformazione, la decisione è stata presa perché in alcuni Stati americani circolano le varianti sudafricane e brasiliane, che sono resistenti a quest' anticorpo, se usato da solo. La distribuzione del farmaco Eli Lilly quanto del Regeneron va avanti esattamente come prima».
Perché vaccinare chi ha già gli anticorpi? Piccole Note il 17 marzo 2021 su Il Giornale. In Italia hanno o hanno già avuto il COVID-19 3,4ml di persone. Non è difficile ipotizzare che a questo dato vadano aggiunti almeno altrettanti che sono stati contagiati senza accorgersene. Quindi non è difficile immaginare che più del 10% degli italiani siano stati affetti dal virus. Il dato non è di poco conto e forse andrebbe tenuto in maggiore considerazione nel pianificare la campagna vaccinale. Certo, non tutti i contagiati hanno ancora anticorpi, ma tanti di loro potrebbero ancora averli. E tali anticorpi sono efficaci almeno quanto quelli inoculati tramite vaccino, se non più. Così forse una verifica previa per chi va a vaccinarsi sarebbe utile, magari si scoprirebbe che tanti dei contagiati non necessitano di essere “siringati”. Se si escludono questi, che magari potrebbero essere vaccinati più in là, la vaccinazione delle persone a rischio potrebbe procedere, ovviamente, con più celerità. Andrebbe, peraltro, sciolta la riserva: se cioè anche in assenza di anticorpi, nella persona che abbia contratto il Covid-19 resta una memoria tale che, se ri-contagiato, sviluppa anticorpi. Pare sia così, dato che non si ha notizia di contagiati che hanno contratto nuovamente il virus, cioè se ne ha notizia come di casi più che singolari e che, peraltro, non presentano particolari problemi in tali ricadute (anche qui con singolari eccezioni, dovute forse a patologie sviluppate nel frattempo). Non entriamo nel merito perché sul punto c’è controversia, altro caso in cui la scienza medica, più che aiutare, confonde (almeno parte di essa, ché sono tanti i ricercatori e i medici che hanno dimostrato dedizione e affidabilità). Eppure il rovello, tanto importante, non dovrebbe avere una risoluzione tanto complessa e non è certo di poco conto. Andrebbe affrontato con urgenza. Ma magari semplifichiamo troppo, e chiudiamo la questione. Aggiungiamo a ciò un altro dato che comincia ad emergere. Alcuni ricercatori iniziano a domandarsi se possa essere pericoloso somministrare il vaccino a chi ha già gli anticorpi (vedi ANSA e DIRE), dato che ne avrebbero così un surplus sul quale al momento non abbiamo alcuna certezza. Più di qualcuno si sta ponendo tale problema e si inizia a suggerire, nel caso, la somministrazione della sola prima dose. A sostenere questa posizione è, ad esempio, il professor Galli, primario del Dipartimento di malattie infettive del Sacco di Milano, che in un’intervista a La7, ha dichiarato : “Stiamo scrivendo la premessa di una memoria perché non vengano inutilmente vaccinati i guariti”. Ovviamente porre come condizione per la vaccinazione la verifica della situazione anticorpale di ciascuno può comportare complicazioni logistiche. Tuttavia, se si trovasse una modalità operativa per procedere in tal senso si potrebbe imprimere un’accelerazione importante alla campagna. In particolare, si andrebbe prima a chiudere la finestra di rischio legata alla vaccinazione delle persone più fragili. Semplice buon senso, quel che è mancato del tutto durante questa pandemia. Infine, l’obliterazione della problematica collegata alla situazione anticorpale, fa sorgere qualche sospetto, dato che, come ormai è evidente a tutti, c’è il marcio in Danimarca. Siamo vittime di una vera e propria guerra dei vaccini, sulla quale torneremo a breve. Non solo divampata contro quelli russi e cinesi, ma anche contro quello prodotto da Astrazeneca (spesso definito anglo-svedese, quando a svilupparlo è stata l’Italia in collaborazione con Oxford, ma tant’é). Dato la guerra in corso, non vorremmo che l’idea di vaccinare anche quanti hanno già gli anticorpi sia legata più a logiche commerciali (dato che parliamo, nel caso, di escludere milioni di persone in Occidente, l’equivalente di miliardi di euro) che a reali esigenze sanitarie. Non che tutti quelli che sostengono tale tesi siano collusi con Big Pharma – siamo coscienti della buona fede di tanti -, ma non escludiamo spinte di tale ambito per procedere in una direzione errata, ma remunerativa per i loro dirigenti. Come si è visto in varie circostanze, Big Pharma, in combinato disposto con l’ambito diplomatico Usa (e non solo), sa essere molto convincente.
"Io non l'ho mai firmato" Bomba sul documento dell'Iss. Il caso dei 3 report sui tamponi pieni di errori. Nel gruppo di lavoro spunta Crisanti. Ma qualcosa non torna. Giuseppe De Lorenzo - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Tre indicazioni diverse per un unico modo di fare i tamponi. Tre metodi discordanti, se non addirittura opposti, forniti dall’Iss a medici, infermieri e volontari impegnati nella lotta al coronavirus. Tre report scritti, pubblicati e poi rivisti finiti online sul sito dell’Istituto a generare pericolosa confusione su come s’infila quel bastoncino nel naso di un paziente. Cose già rivelate nel Libro nero del coronavirus (leggi qui), ma che oggi si tingono di un nuovo inquietante mistero. Tra i relatori di quei Rapporti figura infatti Andrea Crisanti: nulla di strano, se non fosse che il diretto interessato giura al Giornale.it di essere “sorpreso” non avendo “mai partecipato alla stesura di quei documenti”. Il modo in cui nasce una notizia a volte è curioso e, come in questo caso, merita di essere raccontato. Quasi un anno fa, era il 20 maggio del 2020, scrivemmo un sms al professor Crisanti per chiedergli conto delle notizie emerse in quelle ore. Sulla stampa si parlava infatti della guida errata pubblicata dall’Iss su come eseguire i tamponi. Gaetano Libra, otorinolaringoiatra dell’Ospedale Maggiore di Bologna fece notare che in una delle versioni del report si indicava “una posizione verticale obliqua del tampone, anziché orizzontale rivolta in direzione del canale uditivo, come dovrebbe essere". Con il rischio non solo di non raggiunge la zona dove va ricercato il virus, ma anche di provocare "lesioni al cervello e al bulbo olfattivo”. Ci eravamo rivolti a Crisanti perché tra i componenti del Gruppo di Lavoro Diagnostica e sorveglianza microbiologica Covid-19 dell’Iss, autore dei rapporti sui tamponi, figurava (e ancora figura) pure il microbiologo del Metodo Vo’. Crisanti non ci aveva mai risposto finché in questi giorni, cercato in realtà per altri motivi, è tornato sulla vicenda rivelandoci di non aver fatto parte di “questo gruppo di lavoro”. L’hanno infilata lì a sua insaputa? “Direi di sì: non ho mai partecipato ad alcuna riunione né alla stesura dei documenti”. Tant’è che la presenza del suo nome l’ha scoperta solo grazie alla nostra segnalazione. Ora: come è possibile che un rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità, pubblicato ufficialmente sul sito, citi come componente del Gruppo di lavoro uno scienziato che sostiene di non saperne alcunché? La faccenda è grave quasi quanto il fatto che in un paio di mesi, tra aprile e maggio 2020, l’Istituto abbia realizzato tre documenti sul prelievo dei tamponi, uno diverso dall’altro e con indicazioni errate o contrastanti.
L'indicazione dei componenti del Gruppo di lavoro nel report dell'Iss. Il primo in ordine di tempo, ancora rintracciabile online, è datato 7 aprile. Primo scivolone: a pagina 1 si legge che il prelievo consiste nel prendere “le cellule superficiali della mucosa della faringe posteriore o della rinofaringe”. Dieci giorni dopo, il 17 aprile, nella prima revisione del testo si precisa che in realtà il prelievo riguarda “il muco che riveste le cellule superficiali della mucosa dell’orofaringe o del rinofaringe”. Dettagli, direte. Vero: ma questo è un errore da matita blu e il peggio deve ancora arrivare. Tampone oro-faringeo, per i mortali quello in bocca: il 7 aprile andava fatto invitando il paziente a “piegare la testa all’indietro” e strofinando solo “le zone tonsillari”; il 17 aprile andava toccata invece anche la “zona retro-tonsillare”; mentre il 29 maggio (terza versione del report) scompare l’indicazione a inclinare il capo, che infatti nelle foto è tenuto bello dritto.
Tampone orofaringeo: illustrazione nei report dell'Iss. Le giravolte più curiose riguardano però il tampone al naso: il 7 aprile la guida dell’Iss invitava a far assumere al paziente “una posizione eretta e con la testa leggermente inclinata all’indietro”; il 17 aprile invece il malcapitato doveva restare seduto e con “la testa leggermente inclinata in avanti” (cioè l’opposto); mentre il 29 maggio l’Iss incrocia le due tecniche e parla di una posizione “seduta con la testa leggermente inclinata indietro”. A sorprendere sono soprattutto le immagini: nella prima versione il cotton fioc si spinge “lungo la cavità nasale per circa 2,5 cm” in direzione del cervello “in modo da raggiungere la parte posteriore della rinofaringe”; nella seconda il tampone viene invece orientato “verso il rinofaringe (che esternamente corrisponde al condotto uditivo esterno” (cioè perpendicolare al volto) per spingerlo “lungo il pavimento nasale” per “circa 6-8 cm”; nella stesura del 29 maggio, infine, i centimetri per raggiungere la parete posteriore del rinofaringe diventano 8-12. Va detto che l’ultima versione, quella di fine maggio, è molto più dettagliata. Le procedure indicate sono quattro: il tampone rinofaringeo, orofaringeo, nasale anteriore e del turbinato medio. Questi ultimi due andrebbero realizzati solo vi sono difficoltà a fare il rinofaringeo, considerato ad oggi il gold standard per scovare l’infezione. Nella prima stesura le indicazioni riguardavano il tampone nasale e non sono poi così dissimili da quelle rintracciabili nella terza versione. Il problema è che faceva una gran confusione: erroneamente suggeriva infatti di infilare il tampone “in modo da raggiungere la parte posteriore della rinofaringe” quando invece l’obiettivo doveva essere il turbinato medio. Con una precisazione importante, arrivata solo nell’ultima revisione: nel fare queste manovre occorre “prestare attenzione” a non entrare oltre i 3 cm verso l’alto “per i rischi” connessi con “le strutture delimitanti il naso rispetto alla fossa cranica anteriore”. Il 7 aprile l’Iss si era scordato di specificarlo.
Covid, meglio due metri di distanza: nuove indicazioni contro il virus. Simona Sirianni su Vanityfair.it il 17/3/2021. Nuove indicazioni contro il Covid. Non è più uno ma sono due i metri di distanza che si devono tenere da chiunque mentre si mangia o se si è senza mascherina. Quarantena anche per chi è stato vaccinato se ha avuto un contatto stretto con un caso positivo al coronavirus, vaccino in una sola dose per chi ha già contratto il Covid, a meno che non sia immunodepresso: a quel punto si accorciano i tempi e aumentano a due le iniezioni. La circolazione prolungata del virus e soprattutto la comparsa delle varianti, che sono al centro di studi per capire più approfonditamente capacità e modalità di diffusione e contagio, hanno indotto Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa a fornire alcune nuove specifiche indicazioni, basate sulle evidenze ad oggi disponibili, sulle strategie di prevenzione e controllo dei casi di Covid-19 sostenuti da queste varianti virali. Il documento si chiama “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione anti-COVID-19” e risponde alle diverse domande sulle misure farmacologiche, di prevenzione e controllo delle infezioni da Coronavirus sorte con il progredire della campagna vaccinale contro il contagio e la comparsa delle diverse varianti del virus. I quesiti affrontano argomenti come i test diagnostici, il comportamento dei lavoratori vaccinati, le persone che hanno ricevuto il vaccino fuori dall’ambiente di lavoro, i contatti di un soggetto vaccinato con una persona positiva, lo screening degli operatori sanitari, la vaccinazione di chi è già stato contagiato.
Qual è la distanza minima da tenere. Valentina Mericio su Notizie.it il 17/3/2021. Quando si consumano cibi o bevande bisogna mantenere una distanza interpersonale minima di 2 metri. Un metro di distanza potrebbe non bastare. Ad evidenziarlo l’ultimo rapporto stilato dal Ministero della Salute in collaborazione con Inail, AIFA e Iss. Stando a quanto messo in evidenza da questo report la distanza minima da tenere sarebbe minimo di due metri alla luce delle nuove varianti Covid che si stanno diffondendo in modo capillare. Oltre a ciò il report raccomanda di mantenere tale distanza in caso in cui non si indossi la mascherina come ad esempio a tavola mentre si consumano cibi e bevande. Qualora ci si venga a trovare in situazioni nelle quali non si indossa la mascherina, la distanza minima da tenere è di almeno 2 metri. A riportarlo un’indagine di Iss, Ministero della Salute, Inail e AIFA. Stando a questo report bisognerebbe tenersi ad una distanza “fino a due metri, laddove possibile e specie in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria come, ad esempio, in occasione del consumo di bevande e cibo”. Sul corretto rispetto delle misure di prevenzione si legge dal report: “non è indicato modificare le misure di prevenzione e protezione basate sull’uso delle mascherine e sull’igiene delle mani; al contrario, si ritiene necessaria una applicazione estremamente attenta e rigorosa di queste misure”. infine sulla somministrazione di una singola dose di vaccino il report è molto chiaro: “È possibile considerare la somministrazione di un’unica dose purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dall’infezione e entro i 6 mesi dalla stessa”. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.
Valentina Mericio. Classe 1989, laureata in Lingue per il turismo e il commercio internazionale, gestisce il blog musicale "432 hertz" e collabora con diversi magazine.
«Tenere due metri di distanza quando si mangia»: le nuove raccomandazioni Il dossier. Margherita De Bac su Il Corriere della Sera il 16/3/2021.
1 Per proteggerci dalle nuove varianti dobbiamo mantenerci più lontani gli uni dagli altri?
Un nuovo documento di Istituto superiore di sanità, Aifa (Agenzia del farmaco), ministero della Salute e Inail conferma come sufficiente la distanza minima di un metro. Ma chiarisce che in certe situazioni sarebbe opportuno raddoppiarla «fino a due metri laddove possibile, specialmente in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria, come ad esempio in occasione del consumo di bevande e cibo».
2 Perché due metri?
È in questi momenti di convivialità che aumenta il rischio di trasmettere l’infezione attraverso il respiro. I tecnici sottolineano che in generale le misure finora osservate (mascherina, igiene delle mani e distanza) sono efficaci anche per difendersi dal contagio dei virus mutati, se applicate con attenzione. E bisognerebbe rinnovare le raccomandazioni ai cittadini con campagne di sensibilizzazione mirate.
3 I nuovi ceppi causano forme di malattia più gravi?
Il documento «sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da Sars-CoV-2» si basa sulla più recente letteratura scientifica tenendo conto delle varianti che da febbraio «destano particolare preoccupazione» (inglese, sudafricana e brasiliana). Non è ancora accertato che i ceppi mutati «siano associati a un quadro clinico più grave o se colpiscano di più alcune fasce di popolazione». È assodato però che, almeno il virus identificato per la prima volta nel Regno Unito, sia capace di diffondersi con maggiore facilità.
4 I vaccini sono efficaci e quanto?
Viene ribadita l’efficacia dei vaccini già distribuiti in Italia. Quello di Pfizer-Biontech protegge al meglio dalla malattia sintomatica a partire da circa una settimana dopo la seconda dose, ma una certa protezione subentra a 10 giorni dalla prima. Per il preparato di Moderna lo scudo degli anticorpi risulta «ottimale a partire da 2 settimane dopo il richiamo». Infine AstraZeneca (che potrebbe essere riammesso già domani) comincia a funzionare a 3 settimane dal primo inoculo e la protezione persiste fino alla dodicesima settimana, quando viene somministrata la seconda dose. In tutti e tre i vaccini la protezione non è al 100% né è nota la durata dell’immunità da essi indotta. E non si sa per certo quanto i vaccinati possano evitare il contagio. E’ possibile che non siano difesi dalla malattia asintomatica.
5 Chi si è vaccinato come deve comportarsi sul luogo di lavoro?
Chi si è vaccinato, operatori sanitari inclusi, deve continuare a utilizzare rigorosamente le mascherine e osservare norme di igiene e distanziamento. Se l’azienda propone programmi di screening deve aderire indipendentemente dallo stato di vaccinazione. Questo perché «al momento non ci sono prove sulla possibilità di trasmissione del virus» da parte degli immunizzati che vanno ritenuti potenzialmente in grado di infettarsi e trasmettere il Sars-CoV-2.
6 E nella vita sociale come comportarsi?
Valgono le stesse precauzioni consigliate negli ambienti di lavoro. I vaccinati, con 1 o 2 dosi, devono osservare tutte le misure di prevenzione (distanza, mascherina, igiene delle mani). Si rende a maggior ragione necessario in considerazione dell’attuale quadro epidemiologico, caratterizzato dalla comparsa e dalla circolazione delle nuove varianti, più diffusive rispetto al virus presente nella prima fase dell’epidemia «per le quali la protezione vaccinale potrebbe essere inferiore».
7 E i vaccinati che hanno contatti stretti con un positivo?
Se una persona viene in contatto stretto con un positivo va considerata a sua volta contatto stretto anche se vaccinata e devono essere adottate tutte le precauzione, compresa la quarantena e l’isolamento. Solo il personale sanitario ne è esentato «fino a un’eventuale positività ai test o alla comparsa di sintomi».
8 I guariti devono vaccinarsi?
La vaccinazione si è dimostrata sicura anche in persone che hanno già avuto la malattia Covid-19 e pertanto «può essere offerta indipendentemente dall’aver sviluppato una pregressa infezione sintomatica o senza sintomi». Non si raccomanda, ai fini della vaccinazione, l’esecuzione di test diagnostici (sierologici, ndr) per accertare se siamo già stati «colpiti» dal virus. Si può considerare la somministrazione di una sola dose «purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi dalla documentata infezione e preferibilmente entro 6 mesi. Fanno eccezione alcuni pazienti con immunodeficienza.
9 Quanto dura l’immunità sviluppata una precedente infezione?
Il documento dell’Iss riporta uno studio multicentrico su 6.600 operatori sanitari del Regno Unito che ha valutato il rischio di reinfezione: «La durata dell’effetto protettivo dell’infezione precedente ha una mediana di 5 mesi».
Covid, ecco le nuove raccomandazioni contro il virus: "Con varianti 2 metri di distanza mentre si mangia. Quarantena anche per chi è vaccinato". La Repubblica il 16 marzo 2021. L'ultimo documento stilato da Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa. Più di due metri di distanza da chiunque altro mentre si mangia, si beve o si sta senza mascherina, quarantena anche per chi è stato vaccinato se ha avuto un contatto stretto con un caso positivo al coronavirus, vaccino in una sola dose dopo un periodo variabile tra i 3 e i 6 mesi dalla malattia per chi ha già contratto il Covid, a meno che non sia immunodepresso: a quel punto si accorciano i tempi e aumentano a due le iniezioni. Sono questi i punti salienti delle ultime raccomandazioni dell'Inail, dell'Iss, del ministero della Salute e dell'Aifa riportate in un documento dal titolo "Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione".
Con varianti distanza di 2 metri quando si sta senza mascherina. A fronte della circolazione di varianti del virus SarsCov2, per il distanziamento fisico un metro rimane la distanza minima da adottare ma, si legge nel rapporto, sarebbe opportuno aumentarla "fino a due metri, laddove possibile e specie in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria come, ad esempio, in occasione del consumo di bevande e cibo". Laddove dunque è ancora o sarà possibile sedersi a consumare in bar o ristoranti le distanze, e dunque la lunghezza dei tavoli, dovrebbe essere aumentata ulteriormente.
Il vaccino per chi ha avuto il Covid. Le persone con pregressa infezione da SARS-CoV-2 confermata da test molecolare, indipendentemente se con COVID-19 sintomatico o meno, "dovrebbero essere vaccinate". Ma quando e con quale siero? "È possibile considerare la somministrazione di un'unica dose purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dall'infezione e entro i 6 mesi dalla stessa". Fanno eccezione le persone con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, che, anche se hanno avuto il Covid, "devono essere vaccinate quanto prima e con un ciclo vaccinale di due dosi". In merito al profilo di sicurezza dei vaccini anti-COVID-19, "non sembrano esserci differenze significative tra i soggetti positivi per SARS-CoV-2", che hanno già avuto Covid-19, "e quelli negativi". Tuttavia, "qualche recente segnalazione mostra reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, più frequenti nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi". Tradotto: chi ha già avuto il Covid, al momento della somministrazione del vaccino, potrebbe avvertire qualche sintomo lieve più frequentemente degli altri.
Il vaccino per chi ha avuto un contatto stretto con positivo. I contatti stretti di un caso di COVID-19 possono essere vaccinati ma "dovrebbero terminare la quarantena di 10-14 giorni prima di potere essere sottoposti a vaccinazione". Cosa si intende per contatto stretto? "L'esposizione ad alto rischio a un caso probabile o confermato; tale condizione è definita, in linea generale, dalle seguenti situazioni: una persona che vive nella stessa casa di un caso Covid-19, una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso Covid-19 (per esempio la stretta di mano), una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso Covid-19, a distanza minore di 2 metri e di almeno 15 minuti, una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio una aula, una sala riunioni, la sala d'attesa dell'ospedale) con un caso Covid-19 in assenza di dispositivi di protezione come le mascherine Ffp2 e Ffp3 e i guanti o di dispositivi medici appropriati come le mascherine chirurgiche".
Quarantena anche per i vaccinati dopo contatto con positivi. Anche chi è vaccinato contro Sars-CoV-2 dopo un' esposizione ad alto rischio con un caso Covid, "deve adottare le stesse indicazioni preventive valide per una persona non sottoposta a vaccinazione, a prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione". Il vaccinato considerato 'contatto stretto' deve osservare, purché sempre asintomatico, 10 giorni di quarantena dall'ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo al decimo giorno o 14 giorni dall'ultima esposizione. Ma perché se si è vaccinati bisogna comunque comportarsi come i non vaccinati? "La vaccinazione anti-COVID-19 è efficace nella prevenzione della malattia sintomatica, ma la protezione non raggiunge mai il 100%. Inoltre, non è ancora noto se le persone vaccinate possano comunque acquisire l'infezione da Sars-CoV-2 ed eventualmente trasmetterla ad altri soggetti", viene specificato nella relazione. Si sottolinea anche che alcune varianti "possano eludere la risposta immunitaria" data dai vaccini. "Segnalazioni preliminari suggeriscono una ridotta attività neutralizzante degli anticorpi di campioni biologici ottenuti da soggetti vaccinati con i vaccini a mRNA nei confronti di alcune varianti, come quella Sudafricana, e un livello di efficacia basso del vaccino di AstraZeneca nel prevenire la malattia di grado lieve o moderato nel contesto epidemico sud-africano".
Le misure anti-Covid per i vaccinati. Nessun "liberi tutti", dunque, nemmeno sul lavoro o in famiglia, per i vaccinati. Ogni lavoratore, inclusi gli operatori sanitari, "anche se ha completato il ciclo vaccinale, per proteggere se stesso, gli eventuali pazienti assistiti, i colleghi, nonché i contatti in ambito familiare e comunitario, dovrà continuare a mantenere le stesse misure di prevenzione, protezione e precauzione valide per i soggetti non vaccinati, in particolare osservare il distanziamento fisico (laddove possibile), indossare un'appropriata protezione respiratoria, igienizzarsi o lavarsi le mani secondo procedure consolidate" si legge nel documento.
"I vaccinati posso reinfettarsi ma rischi ridotti". Anche i soggetti vaccinati, infatti, "possono andare incontro a infezione da SARS-CoV-2, seppur con rischio ridotto, poiché nessun vaccino è efficace al 100% e la risposta immunitaria alla vaccinazione può variare da soggetto a soggetto. Inoltre, la durata della protezione non è stata ancora definita". Uno studio condotto su oltre 6.600 operatori sanitari nel Regno Unito, citato dall'Inail nel documento appena diffuso, ha mostrato che nei soggetti con pregressa infezione da SARS-CoV-2 "la durata dell'effetto protettivo dell'infezione precedente ha una mediana di 5 mesi".
Il documento stilato da Inail, Iss, ministero della Salute e Aifa. Due metri di distanza, unica dose per i guariti dal covid e quarantena anche per i vaccinati: le nuove raccomandazioni. Redazione su Il Riformista il 16 Marzo 2021. Distanza di almeno due metri mentre si mangia, si beve o si sta senza mascherina, quarantena anche per chi è già vaccinato se ha avuto contatti stretti con un positivo al coronavirus, una sola dose di vaccino dopo un periodo variabile tra i tre e i sei mesi per chi ha già contratto il covid (ad eccezione degli immunodepressi). Sono queste alcune nuove raccomandazione di Istituto superiore di sanità, ministero della Salute, Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e Inail che hanno stilato un documento dal titolo “Indicazioni ad interim sulle misure di prevenzione e controllo delle infezioni da SARS-CoV-2 in tema di varianti e vaccinazione”.
LA DISTANZA – Il distanziamento fisico di un metro resta la distanza minima da adottare ma, a causa della circolazione delle varianti, sarebbe opportuno aumentare la distanza “fino a due metri, laddove possibile e specie in tutte le situazioni in cui venga rimossa la protezione respiratoria come, ad esempio, in occasione del consumo di bevande e cibo”. Laddove dunque è ancora o sarà possibile sedersi a consumare in bar o ristoranti le distanze, e dunque la lunghezza dei tavoli, dovrebbe essere aumentata ulteriormente.
UNA DOSE DI VACCINO PER CHI HA AVUTO COVID – Per le persone con pregressa infezione da SARS-CoV-2 confermata da test molecolare, indipendentemente se con COVID-19 sintomatico o meno “è possibile considerare la somministrazione di un’unica dose purché la vaccinazione venga eseguita ad almeno 3 mesi di distanza dall’infezione e entro i 6 mesi dalla stessa”. Fanno eccezione le persone con condizioni di immunodeficienza, primitiva o secondaria a trattamenti farmacologici, che, anche se hanno avuto il Covid, “devono essere vaccinate quanto prima e con un ciclo vaccinale di due dosi”.
EFFETTI COLLATERALI – Chi ha già avuto il Covid, al momento della somministrazione del vaccino, potrebbe avvertire qualche sintomo lieve più frequentemente degli altri. “Non sembrano esserci differenze significative tra i soggetti positivi per SARS-CoV-2”, che hanno già avuto Covid-19, “e quelli negativi”. Ma “qualche recente segnalazione mostra reazioni avverse attese di natura sistemica, come febbre, brividi debolezza, mal di testa, più frequenti nei soggetti con pregressa infezione rispetto a coloro che sono risultati sieronegativi”.
QUARANTENA PRIMA DEL VACCINO – I contatti stretti di un caso di COVID-19 possono essere vaccinati ma “dovrebbero terminare la quarantena di 10-14 giorni prima di potere essere sottoposti a vaccinazione. L’esposizione ad alto rischio a un caso probabile o confermato; tale condizione è definita, in linea generale, dalle seguenti situazioni: una persona che vive nella stessa casa di un caso Covid-19, una persona che ha avuto un contatto fisico diretto con un caso Covid-19 (per esempio la stretta di mano), una persona che ha avuto un contatto diretto (faccia a faccia) con un caso Covid-19, a distanza minore di 2 metri e di almeno 15 minuti, una persona che si è trovata in un ambiente chiuso (ad esempio una aula, una sala riunioni, la sala d’attesa dell’ospedale) con un caso Covid-19 in assenza di dispositivi di protezione come le mascherine Ffp2 e Ffp3 e i guanti o di dispositivi medici appropriati come le mascherine chirurgiche”.
VACCINATI IN QUARANTENA SE A CONTATTO CON POSITIVI – Anche chi è vaccinato contro Sars-CoV-2 dopo un’esposizione ad alto rischio con un caso Covid “deve adottare le stesse indicazioni preventive valide per una persona non sottoposta a vaccinazione, a prescindere dal tipo di vaccino ricevuto, dal numero di dosi e dal tempo intercorso dalla vaccinazione”. Bisogna osservare, purché sempre asintomatico, 10 giorni di quarantena dall’ultima esposizione con un test antigenico o molecolare negativo al decimo giorno o 14 giorni dall’ultima esposizione.
VACCINATI NO LIBERI TUTTI – Nessun “liberi tutti” per i vaccinati. Ogni lavoratore, inclusi gli operatori sanitari, “anche se ha completato il ciclo vaccinale, per proteggere se stesso, gli eventuali pazienti assistiti, i colleghi, nonché i contatti in ambito familiare e comunitario, dovrà continuare a mantenere le stesse misure di prevenzione, protezione e precauzione valide per i soggetti non vaccinati, in particolare osservare il distanziamento fisico (laddove possibile), indossare un’appropriata protezione respiratoria, igienizzarsi o lavarsi le mani secondo procedure consolidate” si legge nel documento.
CI SI PUO’ RI-CONTAGIARE – Anche i soggetti vaccinati, infatti, “possono andare incontro a infezione da SARS-CoV-2, seppur con rischio ridotto, poiché nessun vaccino è efficace al 100% e la risposta immunitaria alla vaccinazione può variare da soggetto a soggetto. Inoltre, la durata della protezione non è stata ancora definita”. Chi invece ha già avuto il covid, anche se non è ancora vaccinato, “ha un effetto protettivo dell’infezione precedente di circa 5 mesi”, stando a quanto emerge da un’indagine effettuata nel Regno Unito su oltre 6.600 operatori sanitari.
Ecco le prove che il Cts ha sbagliato tutto. Franco Battaglia il 12 Marzo 2021 su Nicolaporro.it. Diciamo la verità: questi del Cts anti-covid sono ignoranti. Ignoranti come capre, direbbe Vittorio Sgarbi. Ma noi non vogliamo offendere nessuno, né uomini né capre. L’ignoranza di cui tratto non è la competenza nel singolo specialissimo settore di cui costoro, non dubito, saranno pure esperti. No, parlo dell’ignoranza di comprensione del metodo scientifico (il quale metodo impone che se i fatti contraddicono i pareri, questi vanno cambiati). Forse mista ad una dose di disonestà intellettuale, vista l’incapacità di ammettere gli errori fatti e la tendenza ad innamorarsi delle proprie idee e – senza forse – mista a capacità matematiche nulle, cosa comune tra medici e biologi. Vengo al punto.
1° prova d’incapacità del Cts: le loro misure non hanno salvato nessuno. Costoro del Cts – almeno così leggo dalle notizie diffuse dalla informazione unica del virus – dicono che ci vuole un nuovo lockdown, e che le misure prese non sono sufficienti, perché bisognerebbe chiudere di più. E se risultati non si vedono dalle misure adottate, la colpa è di chi non li avrebbe ascoltati a sufficienza. La verità è che non bisognava fare nulla di quel che il Cts ha detto di fare. Abbiamo la prova provata che le misure prese non hanno salvato neanche uno dei 100 mila morti che il Paese ha pianto in un anno. Di quel che dico ne abbiamo la prova provata sicuramente a posteriori. Ma potevamo dedurlo facilmente anche a priori, visto che persino io, che sono nessuno, scrivo queste cose dal marzo dello scorso anno: carta canta. Ci vien detto che se non ci fossero stati i due mesi di ferreo lockdown dello scorso anno (marzo-aprile), oggi i morti sarebbero molti di più di 100 mila. Senonché, se riportiamo in grafico i decessi da covid per milione d’abitanti dell’Italia e della Svezia otteniamo la figura che segue. A volerla ottenere apposta, questa curva, non ci saremmo riusciti! Morti da covid per milione d’abitanti in Italia e in Svezia. Ma la Svezia non ha preso alcuna delle misure che abbiamo preso noi. Più precisamente, la Svezia non ha preso alcuna misura degna di questo nome per prevenire la diffusione del virus. Gli svedesi hanno continuato a vivere quasi come se nulla fosse (per esempio, da marzo a novembre sono stati vietati assembramenti con più di 50 persone e i cinema e teatri sono rimasti aperti), col seguente quasi unico consiglio dalle loro autorità sanitarie: «ognuno sia poliziotto di sé stesso». E se si confronta la Svezia con gli altri Paesi che hanno preso misure simili alle nostre, ecco il risultato: Sembra, questo grafico, un gioco del tipo «trova l’intruso». L’evoluzione delle fatalità è stata essenzialmente uguale in tutti i paesi del grafico – che sono omogenei tra loro per qualità del servizio sanitario – ma tra essi c’è, appunto, l’intruso: la Svezia che, a differenza di tutti gli altri, ha continuato a vivere come se non ci fosse alcun virus. Non che la Svezia abbia fatto bene, come dirò fra poco. Ma sicuramente non hanno fatto bene né noi né gli altri Paesi: le misure prese sono state semplicemente sbagliate. Come se ci avessero detto che per contrastare la pandemia avremmo dovuto recitare la Vispa Teresa una volta al dì.
2° prova d’incapacità del Cts: non hanno saputo gestire la seconda ondata. Guardiamo ora alla variazione di mortalità del 2020 rispetto alla mortalità media degli ultimi 5 anni. Otteniamo, per Italia e Svezia, il grafico che segue. Esso ci insegna alcune cose: 1. conferma che la pandemia ha fatto meno danni in Svezia che in Italia; 2. l’andamento osservato è l’evoluzione del virus e della pandemia, senza alcuna relazione con le misure prese, visto che la Svezia non ne ha preso alcuna e ha subìto la stessa evoluzione; 3) in particolare, la quiescenza italiana del virus nei mesi successivi a maggio 2020, non ha avuto alcuna relazione col lockdown adottato in marzo-aprile 2020. Dal grafico si vede che, effettivamente, c’è stata una seconda ondata. Non me l’attendevo perché avevo sottovalutato l’incompetenza faraonica di chi ci ha governato. Mi ero detto: è dal mese di maggio che paventano la seconda ondata in autunno, sapranno pure cosa fare. Invece no: l’ottusa ignoranza diffusa all’interno del Cts e nei competenti ministeri ha superato ogni immaginazione. Non so chi siano i signori del Cts, ma ho il sospetto che nessuno abbia conoscenze di statistica o capacità di analisi di dati. Costoro, avevano tre informazioni cruciali a loro disposizione: a. la possibilità della seconda ondata; b. la certezza che le misure suggerite non avevano dato alcun risultato; c. un Paese, la Sud Corea, aveva preso misure – ben diverse da quelle prese da noi – che avevano saputo contenere gli effetti della pandemia.
Lodovica Bulian per “il Giornale” il 14 marzo 2021. «La maggioranza degli accessi Covid19 in pronto soccorso sono causati da terapie domiciliari assenti o sbagliate. Per l' abbandono del paziente e il cortisone alla prima linea di febbre, l'Italia va in rosso». Si scaglia duramente contro gli effetti di mancate cure o terapie domiciliari sbagliate nei pazienti Covid, Alberto Zangrillo, primario di Anestesia e Rianimazione dell' ospedale San Raffaele di Milano. Anche il virologo Roberto Burioni lo segue e punta il dito contro i medici di base che somministrano cortisone in modo errato: «Sono importanti i vaccini, ma è altrettanto importante non somministrare ai pazienti terapie non solo inutili, ma addirittura pericolose. Nelle fasi iniziali di Covid-19 il cortisone è controindicato». Un allarme che era arrivato pochi giorni fa anche dal direttore della clinica di malattie infettive dell' ospedale San Martino di Genova Matteo Bassetti, che aveva denunciato come «stiamo vedendo un eccesso di prescrizioni di antibiotici, cortisone ed eparina per i soggetti affetti da Covid in terapia domiciliare da parte dei medici di medicina generale ed anche in auto-prescrizione. Occorre evitare l' abuso di farmaci quando non servono. Si rischia di creare un danno importante e rendere il compito più difficile per chi gestisce poi questi casi in ospedale». Le cure a base di cortisone in pazienti per cui questo farmaco non è indicato allarmano le corsie. Pochi giorni fa erano stati anche gli infettivologi dell' ospedale Sant' Orsola di Bologna a chiedere di bloccare prescrizioni troppo affrettate ai malati di Covid assistiti a casa. In una nota all' ordine dei medici, il primario di Infettivologia Pierluigi Viale aveva segnalato che nei pronto soccorso bolognesi «stanno arrivando pazienti, anche giovani, con Covid-19 severo che hanno quale unico fattore di rischio il fatto di avere iniziato terapia con cortisone prematuramente», perché questo farmaco «se iniziato entro 7 giorni dall' esordio dei sintomi favorisce la replicazione virale e quindi l' infezione e le sue conseguenze». Rischiano di finire ora nel mirino i medici di famiglia mentre un protocollo domiciliare dettagliato del ministero della salute ancora non c' è. Respinge lo «scontro tra categorie» il segretario nazionale della Federazione italiana medici medicina generale (Fimmg) Silvestro Scotti. Contattato dal Giornale chiede che «si facciano nomi e cognomi dei medici che prescrivono cortisone in modo sbagliato. Non si può sparare su un' intera categoria». La causa per Scotti va ricercata piuttosto «nella paura della gente, che attraverso anche il passaparola si auto somministra cure sbagliate senza consultare il medico. Poi le faccio l' esempio di un mio paziente diabetico con Covid a cui non avevo prescritto cortisone: questa settimana è stato assistito dalle Usca - unità di assistenza domiciliare - che invece glielo hanno somministrato senza consultarmi. Il problema è una gestione dei pazienti poco integrata con i vari sistemi territoriali, facile dare la colpa a noi».
Margherita De Bac per il "Corriere della Sera" il 15 marzo 2021.
1 Il cortisone funziona?
«Dipende dalla fase della malattia», afferma Pierluigi Viale, infettivologo del Sant' Orsola di Bologna che assieme ad alcuni colleghi ha segnalato il fenomeno della prescrizione non sempre appropriata di questo farmaco in pazienti seguiti a casa dai medici di famiglia: «Abbiamo avuto la percezione che il cortisone venga dato precocemente, in contrasto con quanto suggeriscono le linee guida della società americana di malattie infettive, che lo prevedono come presidio utile nella fase critica della malattia quando il paziente si aggrava a causa dell' infiammazione legata alla risposta eccessiva del sistema immunitario. Se viene dato troppo presto, il cortisone potrebbe facilitare la progressione del virus.
2 Quali sono i farmaci anti-Covid ritenuti attualmente più utili?
Al momento non esistono farmaci specifici in grado di bloccare l' infezione da Sars-CoV-2 né di prevenire o curare la polmonite. Tanti principi attivi sono stati considerati inizialmente promettenti e poi abbandonati per mancanza di conferme sul campo. La maggior parte non hanno mantenuto le promesse come spesso succede quando si presentano all' improvviso nuovi agenti patogeni e si cerca di servirsi delle terapie già note.
3 Cosa è previsto per le cure a casa?
Il ministero della Salute ha emanato una circolare (il 30 novembre 2020) per il trattamento dei pazienti gestiti a casa: paracetamolo per abbassare la febbre, anti-infiammatori per dolori muscolari o articolari. Il cortisone può essere considerato solo quando la situazione non migliora entro 72 ore dalla comparsa dei sintomi e quando i livelli di ossigenazione nel sangue, misurati col saturimetro e sempre comunicati al medico, peggiorano e scendono al di sotto di un certo livello.
4 E in ospedale?
Il cortisone costituisce lo standard di cura per i ricoverati con forme gravi. In aggiunta si ricorre a profilassi con eparina, come terapia anticoagulante. Il virus attiva la coagulazione del sangue aumentando il rischio di trombosi cioè l' intasamento vascolare con piccole ostruzioni a livello del microcircolo polmonare o altri organi. L' eparina previene questo rischio.
5 C' è un antivirale contro il virus della pandemia?
Il Remdesivir è l' unico antivirale autorizzato in Europa con «approvazione condizionata» (da confermare con un successiva valutazione in base a nuovi dati clinici) con un' indicazione per il Covid-19. È un farmaco solo ospedaliero, per pazienti che hanno sviluppato la polmonite da meno di 10 giorni e hanno bisogno di terapia non intensiva con l' ossigeno. Il Remdesivir è stato studiato per altre applicazioni e, successivamente, si è dimostrato efficace sia col Sars che con il Sars-CoV-2. Sembra ridurre i tempi di ricovero. È allo studio una formulazione spray più semplice rispetto all' endovena.
6 Quali sono i fallimenti?
Il più clamoroso è l' idrossiclorochina, un farmaco antimalarico che nelle prime fasi della pandemia è stato molto enfatizzato senza che vi fossero evidenze, tanto che andò a ruba in farmacia. Promosso anche dall' ex presidente Usa Donald Trump e in Brasile da Jair Bolsonaro. L' autorizzazione all' impiego off label (fuori indicazione) è stata revocata dalle agenzie (l' americana Fda, l' europea Ema) sulla base di studi che hanno dimostrato il rischio di gravi effetti collaterali. Nelle linee guida l' Oms ha emesso una «forte raccomandazione» a non avvalersi dell' idrossiclorochina. Tanti antivirali anti-Hiv (il virus dell' Aids) hanno fallito quando sono stati provati per il Covid. La stessa fine ha fatto il Tocilizumab, anticorpo monoclonale per l' artrite reumatoide.
Pazienti Covid: insufficienti tachipirina e vigile attesa. Marco Della Corte su Notizie.it l'8/03/2021. L'Aifa aveva pubblicato un documento raccomandante tachipirina e "vigile attesa" per i pazienti Covid lievi, ma il Tar ha bocciato la nota. Non bastano tachipirina e “vigile attesa” per i pazienti Covid lievi a casa. L’esatto contrario del contenuto di un documento che l’Agenzia italiana del farmaco aveva pubblicato lo scorso dicembre. Il Tar ha bocciato la nota, dando ragione ad alcuni medici del Lazio che avevano presentare un ricorso riguardo la libertà di scelta dei farmaci da utilizzare nel corso della terapia. Nella nota invalidata dal Tar, non veniva peraltro raccomandato l’uso di medicinali utilizzati solitamente sui pazienti Covid dai medici di medicina generale. Non basta l’utilizzo di trattamenti sintomatici (come tachipirina e paracetamolo) sui pazienti Covid lievi e curati in casa. Lo ha espresso il Tar bocciando la nota pubblicata dall’Aifa lo scorso dicembre, in cui si consigliava, inoltre, una “vigile attesa”. A opporsi a questa visione della terapia domiciliare nei confronti dei pazienti in questione è stato il Comitato Cura Domiciliare Covid-19. I medici hanno risposto alle indicazioni dell’Aifa con un ricorso, infine vinto. A testimoniarlo l’ordinanza pubblicata dal Tar del Lazio lo scorso 4 marzo. Il documento Aifa respinto dal Tar era stato pubblicato in PDF sul sito ufficiale dell’agenzia. La nota porta il seguente titolo: “Principi di gestione dei casi COVID-19 nel setting domiciliare”. Il PDF contiene raccomandazioni circa il “trattamento farmacologico domiciliare dei casi lievi e una panoramica generale delle linee di indirizzo AIFA sulle principali categorie di farmaci utilizzabili in questo setting”. Si parla di pazienti Covid lievi, secondo l’Aifa, quando i soggetti presentano sintomi quali cefalea, diarrea, tosse, perdita dell’olfatto e del gusto senza ulteriori cause spiegabili.
Marco Della Corte. Nato a Capua il 4 Agosto 1988, si è laureato in Filologia classica e moderna ed è iscritto all'Ordine dei giornalisti di Napoli. Collabora con diverse testate giornalistiche online, tra cui Blasting News e Scuolainforma.
Coronavirus, "come eliminarlo in soli 35 minuti": la (semplicissima) scoperta che rivoluzione la guerra alla pandemia. Andrea Casa Libero Quotidiano il 12 marzo 2021. Un articolo pubblicato il 21 gennaio sulla rivista scientifica Nature, sottolinea come la trasmissione del Coronavirus avvenga soprattutto per via aerea, attraverso l'inalazione di aerosol infetti, mentre molto più marginale appare il ruolo giocato dal contatto con le superfici contaminate. Diventa dunque quanto mai importante, per contrastare la trasmissione del virus, garantire un'adeguata qualità dell'aria indoor, in particolare nelle attuali strutture vaccinali, dove il rischio potrebbe essere più elevato: gli impianti aeraulici, quelli cioè che si occupano della climatizzazione o ventilazione degli edifici, possono diventare infatti veicoli del virus. La prima e più importante raccomandazione attiene ovviamente alla ventilazione di tutti i locali, che vedranno la presenza costante del personale sanitario e dei soggetti cui viene somministrato il vaccino. È fondamentale che gli ambienti siano dotati di impianti di trattamento aria privi di circuiti di ricircolo e in grado di garantire un adeguato tasso di ventilazione, almeno pari a 8 ricambi d'aria all'ora. In simili condizioni, infatti, la trasmissione dovuta alla permanenza nell'aria interna di micro-droplet contenenti il virus, è adeguatamente contrastata, poiché in circa 35 minuti tali particelle contaminanti vengono eliminate al 99%. Aumentando ulteriormente il numero di ricambi d'aria la situazione migliora sensibilmente: con 10 ricambi l'ora, tale risultato si raggiunge in 28 minuti e con dodici ricambi l'ora, in 23 minuti. Una seconda raccomandazione riguarda la precisa mappatura dei flussi d'aria in ingresso e in uscita. Gli impianti di trattamento aria, infatti, oltre ad introdurre negli edifici determinate quantità d'aria dall'esterno, ne devono anche estrarre una quantità equivalente, per evitare che all'interno dei locali aumenti la pressione ambientale, rendendoli invivibili. La conoscenza precisa di come si muovono i flussi dell'aria, pertanto, risulta di grande importanza per valutare come le micro-droplet infette, veicolate da questi flussi, si possano propagare e spostare all'interno degli ambienti indoor. In questo senso, ad esempio, la stessa disposizione degli arredi e delle persone deve tener conto di tale variabile, evitando di posizionare postazioni lavorative in ambiti spaziali direttamente attraversati dai flussi d'aria, perché potrebbero veicolare il virus. Inoltre, la presenza negli ambienti di unità locali di climatizzazione, come i ventilconvettori o i cosiddetti "split", può alterare significativamente le distanze di sicurezza da mantenere e pertanto deve essere presa in considerazione. Infine, una terza indicazione attiene alla corretta gestione igienica degli impianti, con particolare riguardo alla scelta e sostituzione dei filtri dell'aria e al controllo dello stato igienico generale degli apparati. Dall'inizio del 2020, l'emergenza causata dal Covid-19, ha incrementato la percezione sociale dell'importanza delle operazioni di sanificazione degli impianti di trattamento aria. Tuttavia, ciò ha dato origine a pratiche scorrette, tra le quali si può annoverare un eccessivo utilizzo di prodotti chimici disinfettanti, spesso erogati all'interno degli ambienti e degli impianti senza una necessaria e preliminare pulizia degli stessi. Anche a livello normativo l'attività di "sanificazione aeraulica" è composta da due operazioni distinte: quelle di pulizia (o detersione) e quelle successive di disinfezione (o sterilizzazione). Senza le prime, le seconde risultano inefficaci, perchè un substrato di contaminanti sulle superfici, costituisce un ottimo riparo per i microrganismi che vivono al suo interno. Al contrario, senza le seconde le prime rischiano di risultare incomplete, in tutte quelle situazioni in cui si registra una forte contaminazione microbiologica delle superfici. Oltre al Coronavirus, infatti, devono essere adeguatamente mitigati anche i rischi derivanti dalla contaminazione chimica degli apparati, o dalla colonizzazione degli stessi da parte di altri agenti microbiologici, primi fra tutti batteri e miceti di natura patogena.
Coronavirus, l'allarme degli scienziati: "Basta distanziamento e mascherina, se non circola ne avremo per altri 20 anni". Libero Quotidiano il 06 marzo 2021. Chiudere tutto? Cambio di programma. Nei giorni in cui quasi tutta Italia si avvia a nuove restrizioni, Science lancia un preoccupante allarme. La rivista scientifica americana ha infatti pubblicato uno studio che ribalta le credenze sul coronavirus. Due scienziati, Jennie S. Lavine del Dipartimento di Biologia della Emory University, Atlanta (Usa) e Ottar N. Bjornstad del Dipartimento di Biologia e del Centro Dinamica delle malattie infettive dell’Università dello Stato della Pennsylvania, hanno riscontrato che il Sars-Cov-2 è diventato così diffuso da esserci poche possibilità di eliminazione diretta. Una di queste? L'immunità di gregge. D'altronde - è il loro ragionamento - gli uomini convivono con tantissimi virus per i quali, per indebolirne l'aggressività, hanno dovuto abituarsi. Da qui la loro conclusione: più il virus circolerà velocemente (R0=6) e più in fretta ce lo toglieremo di torno. Ma se continuiamo a limitarne la diffusione ci metteremo almeno 10 o 20 anni, per uscire da questa situazione. Per gli esperti bisogna dunque eliminare qualsiasi forma di distanziamento sociale e di protezione per poterlo diffondere più possibile e ridurne l’aggressività. Una deduzione a cui Jennie S. Lavine e Ottar N. Bjornstad sono arrivati seguendo l’evoluzione degli altri coronavirus. “La nostra analisi dei dati immunologici ed epidemiologici sui coronavirus umani endemici (HCoV)”, dicono i due, “mostra che l'immunità che blocca le infezioni diminuisce rapidamente ma che l'immunità che riduce la malattia è di lunga durata”. Per questo, "affinché la maggior parte delle persone venga infettata così presto nella vita, persino più giovane del morbillo nell'era pre-vaccino, il tasso di attacco deve superare la trasmissione dalle sole infezioni primarie”. In parole povere per gli esperti bisogna rendere il Covid-19 un'abitudine e non una rara eccezione. Il tutto senza però accantonare i processi fin qui fatti, come il vaccino.
Patrizia Floder Reitter per la Verità il 7 marzo 2021. Bisogna lasciar circolare il Covid altrimenti ci vorranno dieci anni per liberarcene. Non è la battuta di un No vax, ma l' opinione di tre scienziati che hanno pubblicato i risultati di un loro studio sulla rivista Science, una delle più prestigiose a livello internazionale. Jennie Lavine e Rustom Antia, del dipartimento di biologia della Emory university di Atlanta, assieme a Ottar Bjornstad, del centro dinamica delle malattie infettive della Pennsylvania State university, hanno elaborato un modello teorico che conferma l' ipotesi che il Covid-19 assumerà carattere endemico e la sua letalità finirà per attestarsi intorno allo 0,1%, scendendo al di sotto del livello dell'influenza stagionale. Il Sars-Cov-2 non è stato contenuto subito, la sua diffusione ha provocato una pandemia e non può più essere eliminato direttamente. Ma se vogliamo che si raggiunga in fretta la fase endemica, quando il coronavirus potrà non essere «più virulento del comune raffreddore», scrivono gli autori, occorre che il tasso di contagiosità R0 (R con zero) sia uguale a 6. Cioè che una persona ne contagi sei, altro che l' auspicato valore inferiore a 1 che da mesi ci sta ripetendo il Cts (con quella cabina di regia che è diventato l' incubo settimanale per tutte le Regioni) o che viene sbandierato da più di un anno dagli esperti televisivi alla Massimo Galli. E senza il distanziamento che ci viene imposto, regolamentato a seconda della fascia colorata cui veniamo assegnati in base a incomprensibili algoritmi. Gli scienziati americani arrivano a questa conclusione considerando che «esistono quattro coronavirus di interesse umano (Hcov) che causano il raffreddore comune, o sindromi delle vie respiratorie superiori, e che circolano endemicamente in tutto il mondo. Causano solo sintomi lievi e non rappresentano un notevole onere per la salute pubblica». Gli autori dello studio ritengono che tutti gli Hcov suscitino un' immunità con caratteristiche simili e che «l' attuale, grave problema di salute pubblica sia una conseguenza dell' emergenza epidemica in una popolazione immunologicamente mai trattata, in cui gruppi d' età avanzata senza precedente esposizione sono più vulnerabili». Bisogna agire con vaccini, senza ridurre i test diagnostici e «se è necessario un frequente potenziamento dell' immunità mediante la circolazione virale in corso, per mantenere la protezione dalla patologia, allora potrebbe essere meglio che il vaccino imiti l' immunità naturale nella misura in cui previene la patologia, senza bloccare la circolazione del virus», afferma Jennie Lavine, prima autrice dell' articolo su Science. Gli scienziati aggiungono che «infezione o vaccinazione possono proteggere, ma non fornire il tipo d' immunità di blocco della trasmissione che consente la schermatura o la generazione di immunità di gregge a lungo termine». In un successivo articolo apparso su Nature, Jennie Lavine, che è ricercatrice di malattie infettive, spiega: «Il virus si attacca, ma una volta che le persone sviluppano una certa immunità, attraverso l' infezione naturale o la vaccinazione, non presenteranno sintomi gravi. Il virus diventerebbe un nemico incontrato per la prima volta nella prima infanzia, quando in genere causa un' infezione lieve o del tutto assente». Si potrà convivere con il Covid, come accade con altri coronavirus endemici che possono provocare più reinfezioni, grazie a un' immunità diffusa acquisita fin da piccoli, quando, a seguito dell' esposizione a raffreddori comuni, sembra si generi una protezione. La cosiddetta «cross reattività», grazie alla quale gli anticorpi riuscirebbero a riconoscere un nuovo virus con corredo genetico simile ad altri patogeni con i quali si è venuti a contatto. Non a caso, per la maggior parte dei bambini il Covid-19 non rappresenta un rischio. Ma se vogliamo arrivare rapidamente a una fase endemica, altrimenti ipotizzata tra dieci anni dagli autori se proseguiamo di questo passo, il forte distanziamento sociale non è la soluzione. «Un R0 maggiore si traduce in un' epidemia iniziale più ampia e più rapida e in una transizione più rapida alle dinamiche endemiche», concludono gli autori dello studio. D' altra parte, ricordiamoci quello che lo scorso ottobre dichiarò il professor Giorgio Palù, oggi presidente dell' Agenzia italiana del farmaco, a proposito del Covid che è «più mortale dell' influenza», ma come tutti i virus che hanno una letalità relativamente bassa «tende a coesistere. I virus sono parassiti obbligati e non hanno interesse a estinguersi, quindi a uccidere l' ospite e a essere letali».
DOPO UN ANNO, ECCO COME SCEGLIERE LA MASCHERINA PIU’ ADATTA E SICURA. Il Corriere del Giorno il 27 Febbraio 2021. Quali sono le caratteristiche delle varie mascherine a disposizione? Il noto ed autorevole quotidiano americano NEW YORK TIMES se l’è chiesto stilando un elenco dei principali modelli più sicuri, per aiutare il lettore a orientarsi meglio nella scelta. In attesa di ottenere una copertura completa con la prevista campagna vaccinale che procede a rilento, al momento la mascherina resta il miglior metodo per proteggere noi stessi e gli altri dal coronavirus. Sul mercato esistono diversi modelli ma l principio base di utilizzo di questo dispositivo di protezione è sempre lo stesso: “uno qualunque è meglio di niente“. Ma quali sono le caratteristiche delle varie opzioni a disposizione? Il noto ed autorevole quotidiano americano NEW YORK TIMES se l’è chiesto stilando un elenco dei principali modelli più sicuri, per aiutare il lettore a orientarsi meglio nella scelta. Ecco cosa c’è da sapere: La maschera N95 filtra il 95% delle particelle da 0,3 micron, la dimensione più difficile da intrappolare. Per una corretta efficacia, è necessario prestare attenzione alla modalità con la quale si indossa:
controlla il giusto verso, assicurati che aderisca bene al volto. Le N95 non sono facili da reperire e alle volte presentano valvole respiratorie: evita questo modello, espelle i tuoi germi sugli altri.
Anche la mascherina KN95, prodotta in Cina, filtra il 95% delle particelle più difficili da intrappolare. A differenza del modello precedente, per posizionarlo saldo al volto non si serve di stringhe che circondano la testa, ma di due corde elastiche a forma di anello che vanno apposte dietro le orecchie. Questo potrebbe significare che non tutti calzano la mascherina in maniera adeguata.
Tra le scelte più diffuse e raccomandate c’è la KF94: ottima qualità, alto tasso di filtrazione e aderenza, forma modellabile al proprio volto. Come per gli altri modelli, il rischio contraffazione è dietro l’angolo. Assicuratevi che il vostro acquisto sia prodotto in Corea, dove è elevato il controllo qualità.
La mascherina chirurgica è sicuramente il modello più utilizzato ed economico sul mercato, quello che osserviamo più frequentemente camminando per strada o andando in ufficio, al supermercato: La “chirurgica” arriva in laboratorio a a catturare dal 60 all′80% delle particelle. Diversa l’efficacia nel mondo reale, dove risulta meno performante.
La maschera in tessuto a due strati, composta da un terzo strato di materiale filtrante è la migliore maschera “non medica” che si possa scegliere. Le velocità di filtrazione variano a seconda del tessuto: per osservare la sua protezione può essere un metodo osservare quanta luce penetra attraverso loro, se poste di fronte al sole. Ovviamente è necessario assicurarsi un’ottima aderenza al volto.
Sicuramente e più consigliabile abbondando. Indossare una doppia mascherina può essere un metodo per garantirsi maggiore protezione. In questo caso, la maschera chirurgica può essere apposta sotto a quella di stoffa.
Coronavirus, è davvero utile disinfettare le superfici? Marta Musso su La Repubblica il 26 febbraio 2021. Il virus può restare anche a lungo sugli oggetti, ma è improbabile che ci si possa contagiare, se non per via aerea. Lo studio su Nature. Da pochi minuti, a una manciata d'ore, fino a intere giornate. Sono molti gli studi disponibili in letteratura che hanno dimostrato la permanenza del coronavirus su diverse superfici, come plastica, carta, metalli e via dicendo. E con l'aumentare delle evidenze scientifiche, è aumentata anche la nostra preoccupazione di poter essere infettati anche semplicemente toccando una maniglia non accuratamente disinfettata. Timori che ci hanno portato a un'attenzione, a volte maniacale, nel pulire a fondo qualsiasi cosa. E, con il senno del poi, probabilmente anche fin troppo esagerata: anche se questa modalità di trasmissione è teoricamente possibile, è allo stesso tempo davvero molto rara. A tornare sull'argomento è stata la rivista Nature, in un lungo articolo che ripercorre le tappe della pandemia dal principio, quando era stata data molta importanza alla via di trasmissione attraverso le superfici contaminate, anche dette fomiti, ossia oggetti che, se contaminati da microrganismi patogeni, possono trasferire una malattia infettiva a un nuovo ospite. All'inizio della pandemia, il rischio di trasmissione attraverso le superfici contaminate era considerato significativo. Tanto che, a maggio del 2020, dopo la pubblicazione di diversi studi che dimostravano come il Coronavirus potesse persistere su diversi materiali per una quantità di tempo estremamente variabile, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e molte altre istituzioni decisero di raccomandare la pulizia e disinfezione delle superfici, soprattutto di quelle che vengono toccate più frequentemente, in contesti pubblici, come uffici, autobus, negozi e scuole. Oggi, tuttavia, recenti studi suggeriscono che la trasmissione attraverso il contatto con superfici contaminate, sebbene possibile, non è considerata un rischio significativo. Evidenze che hanno spinto alcune istituzioni ad aggiornare le proprie raccomandazioni. "Numerosi provvedimenti sono stati emanati per fronteggiare il rischio e contenere i contagi - ricorda Domenico Maria Cavallo, ordinario di Medicina del Lavoro presso il Dipartimento di Scienza e Alta Tecnologia dell'Università dell'Insubria - le misure straordinarie inizialmente intraprese non potevano essere basate su una corretta e completa valutazione del rischio, dato il livello di incertezza associato alle conoscenze allora disponibili. Pertanto, è stato adottato un approccio cautelativo, nel tentativo di garantire la massima protezione possibile". La maggior parte dei contagi, come dimostrano gli studi più recenti, avviene tramite aerosol e droplets, le ormai famose goccioline di saliva infetta che parlando, tossendo o respirando possono raggiungere chi si trova nelle immediate vicinanze. "Nuovi studi vengono continuamente condotti e pubblicati, per cui la comprensione scientifica di Sars-Cov-2 e delle sue modalità di trasmissione è cambiata nel tempo - commenta Cavallo - alcuni studi svolti più di recente hanno contribuito a ridimensionare il ruolo del contagio attraverso i fomiti, documentando come in realtà siano scarse le evidenze a supporto dell'ipotesi che il coronavirus possa essere trasmesso da una persona all'altra attraverso superfici contaminate". Il motivo, commenta l'esperto, è che gli esperimenti svolti riguardo la permanenza del virus su diversi materiali sono stati condotti in laboratorio, in condizioni controllate. "I primi studi condotti sulla persistenza di Sars-Cov-2 sulle superfici in realtà sono poco rappresentativi di scenari e condizioni di vita reale". Sebbene la trasmissione del virus attraverso le superficie sia possibile, non dovrebbe essere una nostra priorità. Alla luce dei recenti studi, di una maggior consapevolezza e una miglior valutazione dei rischi, suggerisce Cavallo, è necessario adottare una prospettiva più equilibrata. "La disinfezione periodica delle superfici e l'uso corretto di guanti sono ovviamente precauzioni necessarie nel contesto sanitario e assistenziale, dove questo rischio non può essere sottovalutato - commenta l'esperto. “Probabilmente però il contatto con fomiti non rappresenta un rischio rilevante di trasmissione nelle altre situazioni di vita per la popolazione generale. Alla luce delle evidenze disponibili, sarebbe probabilmente più efficace impiegare più risorse per intervenire sui sistemi di ventilazione degli ambienti di vita e di lavoro indoor per ridurre il contagio attraverso aerosol e droplets”. Bisogna, inoltre, considerare i rischi di un uso eccessivo dei disinfettanti. "La sovraesposizione a sostanze chimiche disinfettanti (dovuta all’uso massiccio e prolungato nel tempo) può portare in casi particolari a potenziali effetti avversi per la salute umana", commenta Cavallo. Uno studio recente, per esempio, ha mostrato che alcuni soggetti hanno riportato disturbi a mani, piedi, occhi, disturbi respiratori o gastrointestinali in seguito all'uso ripetuto di disinfettanti. Sicuramente, precisa l'esperto, "è necessario continuare a seguire le raccomandazioni generali attualmente in vigore: il distanziamento personale, l'uso di mascherine e la corretta igiene delle mani, che possono contribuire in maniera rilevante al controllo della trasmissione del contagio e sono da ritenere prioritarie nelle politiche di prevenzione - conclude Cavallo - questo aspetto è fondamentale perché il rispetto di queste misure deve essere visto come la strategia su cui investire: il contributo di ciascuno di noi nel rispettare queste raccomandazioni può contribuire a controllare la diffusione e i danni di Covid-19, senza infliggere i cospicui danni socio-economici di misure più drastiche come un lockdown prolungato e altre misure generalizzate".
Cristina Marrone e Clarida Salvatori per corriere.it il 18 febbraio 2021. Sono sempre stati attenti. Hanno sempre usato tutte le precauzioni. Non hanno mai tenuto comportamenti rischiosi. Eppure si sono ritrovati contagiati dal Covid-19 e ricoverati in un letto di ospedale. E hanno trascorso quei giorni in corsia a riflettere su dove siano venuti in contatto col virus e come abbiano potuto contrarlo. E l’unica risposta che si sono dati è legata alle superfici, magari non perfettamente disinfettate: un cellulare, la maniglia di una porta, il tastierino di un ascensore. Ma non ci sono evidenze scientifico-sanitarie che sia davvero così. Si tratta solo di supposizioni dei singoli pazienti.
Il contagio con un telefono? Di questi casi ne capitano sempre più spesso, specie in questa seconda ondata. È quanto ha raccontato ad esempio il comandante provinciale dei carabinieri di Bergamo, Alessandro Nervi, 51 anni, che a suo avviso si è ammalato passando il telefono a un conoscente che poi è risultato Covid positivo. «Ho sempre indossato la mascherina, ho tenuto le persone alla giusta distanza, non sono stato per più di 15 minuti con la stessa persona in presenza, ho tenuto la finestra aperta per arieggiare l’ufficio. Ma ho fatto quel semplice gesto: ho passato ad un amico il mio telefono con una videochiamata. Io avevo la mascherina, lui stava fumando. Poi ho disinfettato le mani, ma il telefono no. Due giorni dopo, l’amico mi ha avvertito via sms che il suo tampone molecolare era positivo». Pochi giorni dopo i sintomi compaiono e il test conferma il contagio.
Contagio in ospedale. Un po’ le stesse ipotesi di Luciano De Biase, 66 anni, cardiologo e responsabile dei 51 posti letto dedicati alla pandemia nell’ospedale Sant’Andrea di Roma. «Ho contratto il Covid-19. E da che ero medico, mi sono ritrovato paziente del mio stesso reparto. Sono finito in terapia intensiva e sono stato malissimo - ricorda - Come mi sono ammalato? Ci ho pensato tanto e ancora non riesco a darmi una risposta. Al lavoro sono sempre stato protetto, attento e prudente: tuta, mascherina, visiera, guanti, copriscarpe. L’unica risposta plausibile che mi sono dato è che io abbia toccato qualcosa, come una maniglia, e poi inavvertitamente mi sia stropicciato gli occhi».
Il contagio attraverso le superfici è raro. Il contagio da Covid all’interno degli ospedali che coinvolge sia pazienti sia operatori sanitari purtroppo non è una rarità e sono spesso i focolai nati in ospedale che preoccupano. Con le vaccinazioni di medici e infermieri le cose dovrebbero andare progressivamente meglio. «Moltissime persone ricoverate non hanno idea di dove si siano contagiate, sostenendo di essere state sempre molto attente, mantenendo alla lettera tutte le precauzioni» conferma il virologo dell’Università degli Studi di Milano, Fabrizio Pregliasco. Tuttavia il contagio attraverso le superfici, pur non essendo escluso, è considerato molto raro. Il coronavirus può resistere spesso inerte su maniglie e pulsanti. Diversi studi nel corso dei mesi hanno trovato tracce di materiale genetico di Sars-CoV-2 praticamente ovunque, ma questo non implica che il coronavirus sia attivo e ancora in grado di infettare. Le particelle virali non resistono per molto tempo fuori da un organismo e diventano via via meno pericolose. Una ricerca rivelò tracce di coronavirus a 17 giorni dallo sbarco dei passeggeri a bordo della Diamond Princess, la nave da crociera sulla quale si era diffuso un focolaio, ma non era più in grado di contagiare. Basta comunque disinfettare a fondo le superfici per evitare il contagio.
Laboratorio e realtà. Una serie di esperimenti hanno dimostrato che il coronavirus può resistere a lungo sulle superfici, ma questo non significa che le persone si stanno ammalando toccando pulsanti e maniglie. Emanuel Goldman, un microbiologo della Rutgers New Jersey Medical School di Newark, nel luglio scorso ha scritto un commento molto puntuale su The Lancet Infectious Diseases, sostenendo che le superfici presentavano un rischio relativamente basso di trasmissione del virus, mettendo in guardia da certi studi svolti in laboratorio, dove vengono create condizioni difficilmente ripetibili nel mondo reale, con esperimenti che tengono conto di enormi quantità di virus. Toccare una superficie appena contaminata, prima che il virus diventi inerte, per poi portarsi le mani sugli occhi o sul viso può comunque essere una via di contagio, ma gli scienziati la considerano molto rara.
La mascherina chirurgica non basta contro il contagio via aerosol. Anche la rivista Nature pochi giorni fa, con un lungo articolo e un editoriale ha sottolineato che troppi sforzi si concentrano ancora sulla sanificazione delle superfici, senza tenere conto di una realtà che si è scoperta con il passare dei mesi, e cioè che il virus è a trasmissione aerea: ci si può contagiare anche inalando piccole particelle di virus (aerosol) che galleggiano nell’aria a lungo prima di evaporare e non solo attraverso i droplets che per loro grandezza e peso cadono a terra entro i due metri di distanza. Le ricerche degli ultimi mesi provano, in modo sempre più solido, che il coronavirus si trasmetta via aerosol: i luoghi più pericolosi — ormai è chiaro — sono gli ambienti chiusi, affollati, con scarsa ventilazione. Su questo aspetto, dunque — non su quello del contagio attraverso le superfici, su cui le prove sono pressoché nulle — molti scienziati stanno sollecitando interventi per prevenire o limitare la trasmissione del virus. Va sottolineato che in aspirazione le mascherine chirurgiche hanno una scarsa efficienza sull’aerosol. «Per bloccare le goccioline di grandi dimensione l’aderenza perfetta non serve - spiega Giorgio Buonanno, professore ordinario di Fisica tecnica ambientale all’Università degli Studi di Cassino e alla Queensland University of Technology di Brisbane (Australia) - ma le goccioline piccole invece sfuggono dai bordi. La mascherina deve sigillare il viso. Può essere una buona idea provvedere alla capacità filtrante con una mascherina chirurgica o FFP2 e all’aderenza al volto con una mascherina di stoffa messa sopra . Se si riesce ad aggiungere un tessuto che in qualche modo fa aderire meglio le mascherine, si raggiunge una protezione che arriva anche al 90 per cento».
Il «fattore tempo». Oltre all’uso corretto delle mascherine anche il tempo di permanenza incide sul rischio di contagio. Ad esempio sull’app Immuni l’allerta scatta se ci si trova a meno di due metri da un contagiato per almeno 15 minuti (anche se per essere contagiati potrebbe bastare anche solo un colpo di tosse o uno starnuto, con tempo di esposizione ben inferiore ai 15 minuti). Ma il Cdc americani (Centres for Disease Control and Prevention) hanno rivisto nelle loro lineee guida la «regola dei 15 minuti» che non vanno intesi come un tempo “consecutivo”, ma “cumulativo”: l’infezione può dunque avvenire anche con più contatti brevi, ma ravvicinati. Basta poco quindi per non rendersi conto di aver messo in atto, inconsapevolmente, un comportamento a rischio, senza per forza pensare a una maniglia o a un telefonino.
Eugenia Tognotti per "la Stampa" il 17 febbraio 2021. Che cosa è andato storto? A poco più di un anno dalla comparsa sulla scena del Covid - col suo bilancio di due milioni di morti, di cento milioni di infezioni e di una spaventosa devastazione economica e sociale - risponde a questo drammatico interrogativo il secondo rapporto provvisorio dell' Ipppr, cioè il gruppo indipendente per la preparazione e la risposta alle pandemie , guidato dall' ex primo ministro neozelandese Helen Clark e dall' ex presidente liberiano Ellen Johnson Sirleaf. Le valutazioni non potrebbero essere più chiare di così nel rimandare a «una serie di critici fallimenti nelle risposte globali e nazionali al Covid-19», all' inadeguata preparazione alla pandemia, nonostante anni di avvertenze; ai ritardi dell' Oms e delle autorità nazionali nel cogliere il fatto che il virus poteva diffondersi tra le persone e che anche gli asintomatici potevano trasmettere il virus. Il rapporto mette impietosamente a nudo i fallimenti del sistema sanitario internazionale e i fatali ritardi nel rilevare e allertare il mondo sul nuovo patogeno infettivo con potenziale pandemico, SARS-CoV-2 , altamente trasmissibile, aiutato dalla diffusione asintomatica. Dopo essere stato rilevato per la prima volta nella città di Wuhan alla fine del 2019 avrebbe potuto essere bloccato a gennaio prima di attraversare i confini e provocare il caos globale. Ma, sebbene i primi casi risalissero a dicembre e gli ospedali di Wuhan stessero assistendo a nuove polmoniti inspiegabili, è solo il 31 di quel mese che la Commissione sanitaria nazionale cinese annuncia finalmente un' epidemia di polmonite virale non correlata alla SARS, «sotto controllo», e per la quale non esisteva alcuna prova di trasmissione da uomo a uomo. I cluster virali non sono segnalati all'Oms. Allertata tramite notizie parziali e social media, l'Agenzia non riceve conferme ufficiali fino al 3 gennaio 2020, e intanto l'assenza di rapporti accurati e completi è all'origine di informazioni inesatte e di gravi ritardi, come mostra la cronologia, ben presente anche ai non addetti ai lavori. L'Oms convoca il suo comitato di emergenza solo il 22 gennaio 2020, decidendo che i sintomi della nuova malattia non erano preoccupanti come quelli della Sars, tanto da scegliere - con un discusso equilibrismo su termini come "moderata" - di non dichiarare l'epidemia un'emergenza internazionale di sanità pubblica, come aveva fatto per l' Influenza suina e Ebola. Soltanto una settimana dopo, il 30 gennaio 2020 quando la SARS-CoV-2 stava già marciando - non in giorni o settimane, ma in ore, in 20 luoghi fuori della Cina, giunge a dichiarare il focolaio internazionale di Covid-19 un'emergenza di sanità pubblica di rilevanza internazionale, acronimo PHEIC, Public Health Emergency of International Concern (che comporta raccomandazioni e misure temporanee non vincolanti per i vari Paesi, riguardanti viaggi, commerci, quarantena, screening, trattamenti). L'11 marzo, infine, più di un mese dopo, - mentre perduravano i dubbi sulle modalità di trasmissione e l'uso delle mascherine - arriva finalmente la dichiarazione di pandemia: la lentezza nel dichiarare una crisi internazionale attira sull' Oms l' ira dell' allora presidente uscente degli Stati Uniti Donald Trump che accusa l'organizzazione di aver gestito in modo pessimo la crisi e di essere un "fantoccio della Cina". La parola pandemia - carica di immagini, suggestioni, emergenze sanitarie intorno al mondo, come Ebola - avrebbe dovuto comparire molto prima - segnala il rapporto- data la sua capacità di "focalizzare l'attenzione sulla gravità di un evento sanitario". Lo spaventoso bilancio della pandemia per quanto riguarda il numero dei casi non risponde sicuramente alla realtà: secondo gli esperti il conteggio ufficiale è di gran lunga sottostimato: il volume delle infezioni nella primissima fase dell' epidemia era in tutti i paesi più alto di quanto ufficialmente riportato e non c'è dubbio che un'epidemia in parte nascosta abbia aiutato la diffusione globale. La relazione chiama ad un mea culpa globale: Covid-19 ha crudelmente dimostrato che il sistema istituito per la sicurezza sanitaria globale non è in grado di rispondere adeguatamente. Ma ora è tempo di passare dalle lezioni apprese ai fatti: cominciando, come sostiene il gruppo di esperti, dalla revisione e dalla riforma dell' Oms, messa in grado, con un mandato pieno, una forte autorità e adeguati finanziamenti di assicurare la sanità pubblica che ci si aspetta. Prendendo di petto le tensioni geopolitiche che è stata costretta ad affrontare durante la pandemia, come quella tra Stati Uniti e Cina, in modo da riaffermare la propria guida sulla salute del mondo. Ed esigendo dai governi che rispondano di palesi deviazioni, per quanto riguarda la preparazione e la risposta all' emergenza. Cosa che comprende anche la possibilità di appurare i comportamenti della Cina, all' attenzione di un gruppo di esperti mandati dall' Oms che hanno concluso questi giorni l' indagine a Wuhan per risalire alle origini della pandemia: l'ipotesi «più probabile» è che il coronavirus sia stato trasmesso all' uomo da un animale, passando per una specie intermedia, mentre la possibilità che sia uscito per errore da un laboratorio - che trova ancora molti sostenitori intorno al mondo - è «estremamente improbabile».
Covid: gli 8 errori che facciamo ogni giorno. Irma D'Aria su La Repubblica il 15 febbraio 2021. Dopo un anno abbiamo imparato a limitare il contagio? Gli esperti indicano otto errori che ancora facciamo: dall’idea che il vaccino ci esoneri dalle precauzioni al non tener conto del “modello del formaggio svizzero”. Combattiamo e resistiamo contro il Covid-19 ormai da un anno. Eppure, ancora non è finita: i numeri legati ai contagi restano alti in tutto il mondo e anche se la campagna vaccinale va avanti, dovremo continuare a rispettare alcune regole. Che dovremmo conoscere bene, anche se commettiamo ancora errori. Ecco un “ripasso” delle precauzioni e una lista degli errori da evitare. L’Italia si è ricolorata quasi tutta di giallo e le restrizioni sono diminuite: è di nuovo possibile pranzare nei ristoranti, andare nei centri commerciali e svolgere una serie di altre attività che potrebbero esporci ad un rischio maggiore di contagio. L’errore, dunque, sta nel porre l’attenzione a ciò che finalmente ci è consentito dimenticando che, proprio perché c’è più libertà l’attenzione deve essere alta. Secondo gli esperti, uno dei problemi più comuni è la poca consapevolezza dei rischi di contagio tra le persone che vediamo in un certo contesto e quelle che vediamo in un altro. Sul Guardian, Lucy Yardley, professore di Psicologia della salute all'Università di Bristol, ha dichiarato: “I giovani spesso sentono di potersi mescolare liberamente con i loro coetanei, perché sanno che non sono ad alto rischio. Poi andranno a trovare i loro nonni e staranno più attenti con loro, ma non tanto quanto dovrebbero dato che si sono mescolati liberamente con i coetanei”. Non è il momento di fidarsi troppo degli altri che dichiarano di aver sempre rispettato le regole ma magari le hanno trasgredite e neppure se ne sono resi conto o non lo rivelano. Lo dimostra anche uno studio condotto su 551 adulti americani: un quarto di loro ha confessato di aver mentito dopo aver trasgredito le misure di distanziamento, il 34% di aver negato i propri sintomi, quando altre persone hanno chiesto loro se ne avessero. Stare all’aria aperta non è un’autorizzazione ad abbassare la guardia. Il virus non si trasmette necessariamente in spazi chiusi. “Il virus non ha odore: potresti inalarlo senza neanche rendertene conto”, ha dichiarato al Guardian il virologo Julian Tang della University of Leicester. È importante mantenere alta l’attenzione nelle strade, soprattutto quelle magari trafficate per lo shopping. “Le persone temono ancora i runner o gli adolescenti che chiacchierano per le strade, ma poi abbassano la guardia in altre situazioni”. Essere integralisti non è una buona idea. Quindi, se abbiamo trasgredito una norma anti-contagio, questo non deve indurci a trasgredirle tutte. Infatti, se in un caso il fatto di essere venuto meno agli obblighi può non aver comportato pericolo, non è detto che la volta successiva andrà altrettanto bene. Meglio fare poco e anche in modo imperfetto piuttosto che nulla. Alcuni esperti richiamano a quello che viene definito il “modello del formaggio svizzero” elaborato nel 1990 da James Reason dell'Università di Manchester. Se vogliamo evitare un pericolo, una disgrazia, un virus – come accade oggi con l'epidemia di Sars-CoV-2 – non possiamo mai fidarci di una sola barriera: ne dobbiamo mettere in campo il più possibile perché sappiamo per esperienza che nessuna barriera è impenetrabile. Tutte le barriere hanno punti deboli, ‘buchi’ – proprio come il formaggio svizzero – e quando permettiamo a questi "buchi" di allinearsi, il virus può superare le barriere e raggiungerci. Ecco come si verifica un contagio. Con il vaccino ancora in fase iniziale di somministrazione, la mascherina resta la principale arma di protezione contro il Coronavirus. È importante scegliere un dispositivo a norma e coprire perfettamente naso e bocca, per tutto il tempo in cui siamo esposti all’interazione con altre persone. Dopo tanti mesi di mascherina, moltissime persone hanno adottato quella in stoffa anche per poter variare scegliendo tessuti e colori diversi. Ma sono abbastanza sicure? In realtà, per quello che sappiamo fino ad oggi è meglio tenere quelle chirurgiche o comunque lavare spesso quelle in stoffa. Proprio di recente poi il Center for Disease Control and Prevention americano (Cdc) ha finalmente sciolto un dubbio che in molti avevano. Portare due mascherine sovrapposte ha senso? Il Cdc ha scoperto che una mascherina in tessuto può essere sovrapposta a una mascherina chirurgica, formando una doppia mascherina, per avere una maggiore sicurezza. I Cdc hanno riportato i risultati di un esperimento di laboratorio in cui sono state distanziate di circa 2 metri due teste artificiali, verificando quante particelle delle dimensioni del Coronavirus emesse da una sono state poi inalate dall’altra. I ricercatori hanno scoperto che indossare una mascherina, chirurgica o di stoffa, blocca circa il 40% delle particelle dirette alla testa inalante. Con una mascherina di stoffa sopra una chirurgica, la percentuale sale all’80%. Quando entrambe le teste indossano doppia mascherina, si raggiunge il 95%. Tra chi ha ancora dubbi o è scettico sul vaccino, c’è anche chi pensa che possa causare l’infezione. Ma l’Istituto Superiore di Sanità ha chiarito più volte che non è possibile. I vaccini attualmente in uso in Italia usano la tecnologia a mRna (Pfizer-Biontech e Moderna) e quella a vettore virale (Astrazeneca). Nel primo caso il vaccino a Rna induce l'immunità fornendo a cellule umane esclusivamente le istruzioni per produrre un frammento del virus, la proteina Spike, che indurrà la produzione di anticorpi specifici verso il virus Sars-CoV-2. Con questi vaccini, quindi, non viene somministrato alcun virus, né vivo né attenuato, e la sola proteina spike non può causare infezione o malattia. Nel secondo caso, il vettore virale introduce nelle cellule direttamente il frammento della proteina Spike che induce la reazione immunitaria, ma non l'intero virus, e non può quindi causare la malattia. Una eventuale malattia Covid-19 successiva alla vaccinazione - chiarisce l’Iss - può essere quindi causata solo da una infezione naturale del virus, contratta indipendentemente dal vaccino. L’avvio delle vaccinazioni non deve indurci a pensare che abbiamo un rimedio e possiamo stare tranquilli. Gli esperti continuano a ribadire quanto sia necessario continuare a utilizzare i dispositivi di sicurezza, a mantenere le distanze e a lavarsi bene le mani. Servono infatti alcune settimane prima di avere una risposta immunitaria adeguata. Non è inoltre ancora chiaro se chi ha ricevuto il vaccino possa comunque trasmettere il virus alle altre persone. Sappiamo che chi ha avuto il Covid sviluppa degli anticorpi, ma non è ancora chiaro se ci si possa infettare due volte. Più persone, anche in Italia, sono risultate due volte positive al virus: la reinfezione è possibile, anche se rara. Non è inoltre chiaro se chi è stato precedentemente infettato non possa comunque trasmettere il virus, anche senza avere sintomi. Per questo, è bene continuare a rispettare le regole.
Da leggo.it il 3 febbraio 2021. Gli anticorpi monoclonali potrebbero essere la cura per il Covid-19. La prima italiana a cui sono stati somministrati è Claudia Disi, un'insegnante di 54 anni ricoverata allo Spallanzani con una febbre che sembrava non scendere mai. Il giorno della vigilia di Natale le è stata fatta la flebo di anticorpi e il recupero è stato talmente immediato e completo che a Capodanno la donna era già a casa con la sua famiglia. Come riporta Mauro Evangelisti de Il Messaggero alla donna è stato somministrato un cocktail di anticorpi monoclonali, quello di Regeneron, lo stesso che guarì Donald Trump. Claudia era in ospedale da 45 giorni, così i medici hanno deciso di provare su di lei la nuova cura che si è rivelata essere più che efficace. La Disi ha voluto ringraziare tutto il personale dello Spallanzani che si è presa cura di lei. «Ho avuto paura, non lo nascondo: questo virus maledetto incute terrore nonostante voi, uomini e donne di scienza, lo abbiate sufficientemente identificato e parzialmente snidato», ha scritto la donna in una lettera: «Non potrò dimenticare Andrea, l’operatore che per primo si prese cura di me quando, in lacrime, la sera del 13 novembre, salutai mio marito e mio figlio e presi possesso del mio letto, il numero 14 (poi diventato 5). E come non citare tutte le infermiere: instancabili, professionali e sempre con il sorriso. Sapete quale è stato, per giorni, il mio cruccio più grande? Quello di temere che, una volta uscita da qui, nel caso avessi incontrato uno di voi, non avrei mai potuto riconoscerne le fattezze. Fa venire questi pensieri la bestia Covid. Perché ci costringe a vivere mascherati, come astronauti». Claudia racconta cosa ha vissuto in quei giorni. La 54enne è affetta da sclerosi multipla, per questo prende farmaci che le abbassano le difese immunitare. Quando si è ammalata il medico curante ha voluto tenerla a casa temendo che in pronto soccorso si sarebbe esposta anche ad altre malattie. La febbre però non scendeva ed era sempre sui 39,5 gradi, così alla fine, dopo tre settimane, il ricovero in ospedale è stato inevitabile per poterle salvare la vita. Allo Spallanzani le hanno dato l'ossigeno, le hanno fatto diversi test non capendo perché la febbre continuava a non scendere. Alla fine i medici hanno capito che c'era ancora il virus nei suoi polmoni nonostante ormai fosse negativa e così le hanno somministrato la terapia con anticorpi monoclonali. Si tratta di una cura che non è stata autorizzata dall’agenzia del farmaco, così i vertici dello Spallanzani hanno chiesto una fornitura, per uso compassionevole, ai produttori americani e il farmaco Regeneron è stato inviato dagli Usa. Si tratta di due farmaci che vengono messi in una flebo che viene somministrata per circa 2 ore: «Tutto è successo il 24 dicembre, per me è stato un regalo di Natale. Ho dovuto firmare una liberatoria, perché si trattava di un farmaco sperimentale, ma non ho avuto dubbi. E non ho avuto paura». Claudia si è ripresa immediatamente dopo la cura. I medici hanno preferito monitorarla per una settimana in cui la 54enne afferma di essersi sentita veramente bene. Dopo 7 giorni è stata dimessa ed è tornata a casa dove ha potuto festeggiare il compleanno insieme al marito e al figlio di 18 anni, ma ancora oggi ringrazia tutto il personale dello Spallanzani: «medici e infermieri, straordinari, non possiamo dimenticarli, danno davvero l’anima».
Simone Pierini per leggo.it il 9 febbraio 2021. Opinioni diverse. Sono quelle che emergono da alcuni esponenti del mondo scientifico italiano sul tema degli anticorpi monoclonali che in questi giorni hanno ottenuto il via libera dall'Agenzia del farmaco italiano. Da una parte vengono visti con ottimismo, uno strumento fondamentale per prevenire l'insorgere della gravità della malattia. Dall'altra considerati poco utili perché non efficaci su chi è già alle prese con la fase peggiore del Covid.
Per il virologo Andrea Crisanti - ospite di "Oggi è un altro giorno" su Rai1 - «gli anticorpi monoclonali vanno bene per chi non ne ha bisogno. Perché fondamentalmente hanno un effetto per i casi moderati e non gravi» di Covid-19. «Penso sia uno spreco di soldi senza precedenti. In presenza di un vaccino, spendere 2-4mila euro per un anticorpo monoclonale senza nessun dato che dimostri che» questi farmaci «sono in grado di prevenire l'infezione grave, quando poi c'è il trial dell'Eli Lilly che dimostra che nei pazienti gravi sono controproducenti, penso che sia sbagliato».
Di tutt'altro tono il parere di Walter Ricciardi, professore di igiene all'Università Cattolica di Roma e consigliere del ministro della salute Roberto Speranza, intervenendo durante la trasmissione Agorà, su Rai3. «È una buona notizia - ha dichiarato - perché se somministrati all'esordio della malattia in alcuni soggetti particolarmente a rischio di complicanze, evitano l'aggravamento della malattia. E il fatto che il ministro Speranza abbia trovato, non solo il mondo ma anche i fondi per ottenerli, è un'ottima notizia».
Per il direttore sanitario dello Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, che ha parlato in occasione dell'avvio delle vaccinazioni degli over80, «i vaccini e gli anticorpi monoclonali sono le due armi strategiche che ce lo faranno sconfiggere. Abbiamo messo in campo una macchina poderosissima a cui non corrisponde in questo momento la stessa disponibilità dosi».
Francesco Grignetti per "La Stampa" il 9 febbraio 2021. L'Agenzia italiana per il farmaco è la trincea avanzata contro il Covid, là dove si mettono a punto le armi contro il nemico. Ha appena autorizzato l' uso degli anticorpi monoclonali che finora sembrano l' unico farmaco in grado di sconfiggere il virus. «Un provvedimento eccezionale che risponde a un' esigenza eccezionale», precisa il direttore generale Nicola Magrini. Sulla campagna vaccinale è ottimista, ma anche cauto. «Abbiamo adottato un approccio gentile, di cui le primule sono il simbolo, perché speriamo di essere convincenti». Ma quando vede che molti, troppi del personale sanitario rifiutano la vaccinazione, e crescono le ritrosie nella scuola, sembra tentato di mettere la gentilezza da parte. «La risposta finora è buona. Se le cose cambiassero, potremmo scegliere soluzioni più drastiche».
Magrini, quanto sono importanti i monoclonali?
«In assenza di una decisione di Ema, i pareri di Aifa sono positivi, ma cauti, perché ci si basa su dati che definiamo "preliminari" e "immaturi". In parole semplici, i monoclonali hanno dato iniziali e promettenti risultati in pazienti nelle prime fasi della malattia. Non in pazienti gravi e già ospedalizzati. Per questi ultimi, gli studi a un certo punto sono stati addirittura interrotti perché era inutile continuare. Avendo però visto casi di relativo miglioramento in questi pazienti che ho detto, si è deciso di autorizzarne l' uso, circoscrivendolo. Non si tratta comunque del -70% enfatizzato da molti, ma di un possibile -5% o -10% di ricoveri».
La somministrazione è complessa. Si potrà fare solo in ospedale o anche a casa?
«Parliamo di una somministrazione in infusione, per via endovenosa, che dura, a seconda del prodotto, una o tre ore. E poi occorre un' altra ora di osservazione perché non ci siano effetti indesiderati. Quindi, se fatto a domicilio, occorrerà una equipe qualificata che sia ben schermata e che dovrà sostare molte ore con il paziente. Se ci fossero ambulatori, dovranno essere dedicati. E poi si può pensare alla somministrazione ospedaliera».
Non sarà uno scherzo.
«Visto che la parte organizzativa è indubbiamente rilevante, la cura potrà essere somministrata a un numero limitato di persone».
E quali pazienti dovrebbero essere trattati con gli anticorpi monoclonali?
«Pazienti a rischio, che prendono certi farmaci, o hanno particolari patologie: chi è in dialisi, o ha la fibrosi polmonare, assume farmaci immunosoppressori, i grandi obesi. Aggiungo che gli studi non sono finiti. Aifa stessa promuove un bando che si chiuderà lunedì prossimo per avere protocollo di studio comparativo sull' efficacia dei diversi monoclonali: finora sono due, ma ne arriveranno presto almeno altri tre. A sua volta, l' agenzia europea Ema ha iniziato la revisione per Regeneron ed è pronta ad accogliere altre richieste».
Ha fatto scalpore la notizia che il Sudafrica abbia sospeso la somministrazione di AstraZeneca perché quel vaccino pare inutile contro la «loro» variante del Covid-19.
«Sull' effetto delle varianti, e su ogni dubbio che i cittadini possono nutrire, quanto prima ci saranno le risposte pubblicate su Aifa.it, il nostro sito. Noi procediamo per ora convintamente: questo vaccino per la popolazione di lavoratori a maggior rischio, quelli in rapporti con il pubblico, è un ottimo strumento di controllo del virus».
Eppure cresce una certa sfiducia. Perché gli under-55 dovrebbero correre a vaccinarsi se poi la copertura oscilla sul 60%?
«Guardi, mentre i due vaccini Pfizer e Moderna rappresentano un' ottima protezione individuale, AstraZeneca è meno efficace, ma fornisce comunque una protezione di buon livello, e serve a limitare la diffusione della malattia come sta emergendo dall' esperienza inglese. Con AstraZeneca ci stiamo orientando ad allungare il periodo a 12 settimane tra prima e seconda dose: sempre restando nell' intervallo approvato, gli studi dicono che aumentando le settimane, aumenta anche l' efficacia. Può salire all' 82%. Mi sembra una buona notizia».
Ci sono molti dubbiosi, persino nel personale sanitario.
«I dubbi tra il personale sanitario, in particolare la componente non medica, sono un fenomeno da prendere molto seriamente, ma pacatamente. Noi abbiamo scelto un approccio informato e gentile. Le Primule sono nate anche per questo, come idea, e continuo a sperare che si facciano, al fine di essere un invito informato e accogliente alla popolazione. Perché la vaccinazione non vuol essere un atto d' imperio. Certo, in presenza di scarsa adesione, e ridotta capacità informativa e di coinvolgimento, possono esserci soluzioni più drastiche. Ma rimaniamo per ora verso un' adesione che sembra essere buona».
Monoclonali, è scontro tra Italia ed Europa. Aifa: "Usarle subito". Ema: "Prima altri studi". Palù: "Chiederò a Speranza un decreto urgente". Silvestri: Magrini non all'altezza. Francesca Angeli, Martedì 02/02/2021 su Il Giornale. Duro scontro tra scienziati sull'impiego degli anticorpi monoclonali per la terapia di Sars Cov2. Un confronto sull'efficacia di questa cura e dunque la necessità di autorizzarla al più presto da parte dell'Ema si consuma con l'Aifa, l'Agenzia del Farmaco italiana, ma anche al suo interno. Da un lato il presidente dell'Aifa, Giorgio Palù, eminente virologo. «Ho sottoposto al ministro l'utilizzo degli anticorpi già utilizzati in altri Paesi, spiegando che esiste la possibilità di un decreto d'urgenza, che ha sfruttato anche la Germania, in deroga alla validazione dell'Ema. - ricorda Palù- La legge lo prevede, gli anticorpi monoclonali sono salvavita e somministrati nella fase precoce riducono del 70 per cento i ricoveri ospedalieri e anche nei soggetti fragili riducono la mortalità. Insisterò con il ministro perché si arrivi ad usare i monoclonali, non c'è nessuna controindicazione: si potrebbe partire subito». Sull'altro fronte il direttore generale Nicola Magrini accusato di frenare sull'approvazione della terapia, nonostante il parere di illustri scienziati, da Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta. Sugli anticorpi monoclonali contro Covid-19, afferma Silvestri «la posizione di Magrini, che non approvò la sperimentazione sostenuta da me e molti altri colleghi (tra cui il direttore del Dipartimento di malattie infettive dello Spallanzani, Andrea Antinori; i membri del Cts Ranieri Guerra e Gianni Rezza, il viceministro Pier Paolo Sileri e Roberto Burioni) diventa a mio avviso del tutto insostenibile, e credo che ci si debba chiedere, seppure a malincuore ma con la necessaria schiettezza, se la sua presenza a capo di Aifa rappresenti ancora la cosa giusta per l'Italia e per i malati di Covid19». In sostanza Silvestri chiede le dimissioni di Magrini. Forse anche a seguito di queste pressioni il comitato per i medicinali umani (Chmp) dell'Agenzia europea del farmaco, Ema, proprio ieri ha annunciato di aver promosso la revisione continua dei dati su un medicinale noto come combinazione di anticorpi Regn-Cov2 (casirivimab / imdevimab) sviluppato congiuntamente da Regeneron Pharmaceuticals, Inc. e F.Hoffman-La Roche, Ltd per il trattamento e la prevenzione del Covid19. Con una precisazione però al momento per l'Ema «non ci sono prove sufficienti di efficacia per l'immissione in commercio». A confermare questa posizione ancora molto cauta è il professor Armando Gennazzani che fa parte della Chmp dell'Ema. «Gli anticorpi monoclonali al momento non hanno dimostrato nessuna efficacia nei pazienti ospedalizzati gravi. spiega Gennazzani-L'hanno dimostrata o stanno cominciando a dimostrare una efficacia non ancora matura sui pazienti curati a domicilio che potrebbero ammalarsi più velocemente. Gli anticorpi monoclonali sono in valutazione dell'Ema e credo che li utilizzeremo quando Ema li approverà». Insomma niente corse in avanti da parte dell'Aifa è la raccomandazione.
Covid, l'Aifa ha dato il via libera agli anticorpi monoclonali in Italia. Agnese Ananasso su La Repubblica il 3 febbraio 2021. Approvati quelli prodotti da Regeneron e da Eli Lilly. Previste limitazioni in linea con quelle del Canada e dell'Fda negli Stati Uniti: i farmaci sono destinati a pazienti in fase precoce con alto rischio di evoluzione. La Commissione tecnico scientifica dell'Aifa, dopo una riunione durata l'intero pomeriggio di oggi, ha dato il via libera agli anticorpi monoclonali in Italia. L'ok è stato dato a due anticorpi monoclonali per il trattamento di Covid-19, quelli prodotti da Regeneron e da Eli Lilly, con alcune condizioni, come da legge 648/1996 che prevede l'approvazione di medicinali in corso di sperimentazione clinica o utilizzati in altri Paesi quando non esiste un'alternativa terapeutica valida. La Cts ha previsto limitazioni in linea con quelle del Canada e dell'Fda negli Stati Uniti: i farmaci sono destinati a pazienti in fase precoce con alto rischio di evoluzione. Un via libera molto atteso dagli addetti ai lavori. Un booster, una macchina ausiliaria che permetterà di concludere, con meno urgenza, la campagna vaccinale, sostenendo i pazienti che via via si ammaleranno: questa la funzione, nell'attuale scenario, degli anticorpi monoclonali, secondo il presidente della federazione degli ordini dei medici (Fnomceo), Filippo Anelli. Che definisce "un'ottima notizia" anche l'individuazione di un fondo, da parte del governo uscente, per una somministrazione in via sperimentale. E una "notizia ancora migliore" la sovvenzione della ricerca, "sia quella volta allo sviluppo di monoclonali italiani, sia quella clinica indipendente condotta dalla stessa Aifa". Con le dosi di vaccino che tardano ad arrivare, le categorie e gli ambienti più a rischio potrebbero trovare negli anticorpi monoclonali la protezione contro il Covid di cui hanno bisogno", ha spiegato Giuseppe Novelli, genetista dell'Università Tor Vergata di Roma, impegnato nella ricerca di anticorpi monoclonali efficaci contro il Covid-19. "Gli anticorpi monoclonali sono farmaci precisi, intelligenti e accurati che conosciamo da anni, e che oggi rappresentano l'unica arma farmacologica di cui disponiamo al momento contro il coronavirus. Sono i cosiddetti 'farmaci biologici', usati contro malattie come l'artrite reumatoide e, soprattutto, contro i tumori". E sono "gli stessi anticorpi che produciamo quando ci ammaliamo o facciamo un vaccino. La differenza è che sono già pronti ed utilizzabili come una sorta di immunizzazione passiva in quanto non vengono stimolate le cellule immunitarie che conferiscono una 'memoria' per produzioni future, come avviene nel caso del vaccino. I monoclonali hanno una durata limitata nel tempo, durano un paio di mesi, fai un ciclo di trattamento e poi lo ripeti se necessario", osserva il genetista. Essendo un farmaco gli anticorpi monoclonali "servono a curare innanzitutto. Funzionano contro il Covid specialmente nelle prime fasi della malattia, e la percentuale di successo nella cura dipende da vari fattori". Ma c'è un'altra funzione che, secondo Novelli, non può essere sottovalutata: "I monoclonali hanno anche un ruolo di protezione, cioè di profilassi. Chi è ad alto rischio, dunque, potrebbe utilizzarli per una protezione provvisoria. Penso ad esempio alle Rsa o alle persone fragili che potrebbero ricevere una sorta di protezione in questi mesi di ritardo nell'approvvigionamento delle dosi di vaccino".
Covid, l'Aifa dà il via libera agli anticorpi monoclonali. L'Aifa ha dato il via libera all'utilizzo dei monoclonali per la cura del Covid. I farmaci sono destinati ai pazienti con l'infezione in fase iniziale di sviluppo. Rosa Scognamiglio, Mercoledì 03/02/2021 su Il Giornale. La notizia tanto attesa, alla fine, è arrivata: l'Aifa ha dato il via libera all'utilizzo della terapia con gli anticorpi monoclonali per la cura del Covid in Italia. Una "boccata d'ossigeno", così come ha commentato l'indiscrezione il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Filippo Anelli, che sarà di prezioso supporto alla campagna vaccinale.
Cos'è la terapia con i monoclonali. Si tratta di una cura all'avanguardia, già in sperimentazione negli Stati Uniti ed altri Paesi, che consente di inibire il virus nella fase iniziale dell'infenzione evitando l'ospedalizzazione del paziente (leggi qui per saperne di più). “Un booster, una macchina ausiliaria che permetterà di concludere, con meno urgenza, la campagna vaccinale, sostenendo i pazienti che via via si ammaleranno: questa la funzione, nell’attuale scenario, degli anticorpi monoclonali”, secondo il presidente della Federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), Filippo Anelli. Che definisce “un’ottima notizia” l’individuazione di un fondo, da parte del Governo uscente, per una somministrazione in via sperimentale. E una “notizia ancora migliore” la sovvenzione della ricerca, “sia quella volta allo sviluppo di monoclonali italiani, sia quella clinica indipendente condotta dalla stessa Aifa”.
La somministrazione. Il fondo permetterà di somministrare i monoclonali a diverse decine di migliaia di pazienti nell’ambito del Servizio Sanitario nazionale "secondo le indicazioni che dovranno essere stabilite dall’Aifa – spiega Anelli -.Questi agenti terapeutici hanno dimostrato, secondo gli studi sin qui disponibili, una possibile efficacia se impiegati in una fase precoce della malattia, entro 72 ore dallo sviluppo dei sintomi”. Insomma, una vera e propria manna dal cielo, specie in questo momento in cui la campagna vaccinale arranca. "In uno scenario in cui la disponibilità del vaccino, che è l’unico strumento potenzialmente risolutivo della pandemia, scarseggia, e la campagna va rimodulata di conseguenza, ben venga ogni terapia che ci permette di sostenere chi si ammala – continua il Presidente Fnomceo -. Avere a disposizione anche questa opzione terapeutica, che, in determinate condizioni, permette di ridurre le ospedalizzazioni e di migliorare i risultati clinici, può essere una strategia per prendere fiato e condurre a termine la campagna vaccinale in un tempo più flessibile”.
Il via libera dell'Aifa. Stando a quanto si
riporta Repubblica.it, la Commissione tecnico scientifica dell'Aifa, ha dato
l'autorizzazione per l'utilizzo dei monoclonali in Italia, al termine di un
vertice nel pomeriggio di mercoledì 3 febbraio. Il via libera fa riferimento,
nello specifico, a due anticorpi monoclonali per il trattamento di Covid-19,
quelli prodotti da Regeneron e da Eli Lilly. Ovviamente, bisognerà attenersi ad
alcune condizioni, come da legge 648/1996 che prevede l'approvazione di
medicinali in corso di sperimentazione clinica o utilizzati in altri Paesi
quando non esiste un'alternativa terapeutica valida. "Questo consentirà, sin da
ora, di trattare decine di migliaia di pazienti, selezionati in base al quadro
clinico, nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale, provando a ridurre le
complicanze e le ospedalizzazioni. - conclude Anelli - Sarebbe una boccata
d’ossigeno per tutto il sistema, che limiterebbe le conseguenze della scelta,
che pare ormai obbligata, di rimodulare su tempi più lunghi la campagna
vaccinale”.
Anticorpi monoclonali: cosa sono, a chi servono, come verranno somministrati
e quanto costano i nuovi farmaci contro il Covid-19. Viola Giannoli su La
Repubblica il 3 febbraio 2021. L'Aifa ha dato il via libera a due farmaci di
aziende statunitensi. Ecco le risposte ai